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Insegnami ad amare (Love me #1)
Insegnami ad amare (Love me #1)
Insegnami ad amare (Love me #1)
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Insegnami ad amare (Love me #1)

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About this ebook

Per Clarissa tutto è cambiato da quella maledetta sera sotto la neve. Nessuno vuole crederle e ogni giorno è una lotta continua per la sopravvivenza. Anche se suo fratello Dan continua a sostenerla, all’ennesimo scontro con i genitori, decide di scappare.
Nonostante l’aria ribelle e il corpo ricoperto dai tatuaggi, Alex è sempre stato un bravo ragazzo. Questo però, era prima di quella sera. Ora è convinto di aver perso per sempre la parte migliore di sé. Ma non gli importa, perché lui per proteggere sua sorella farebbe di tutto.
Cosa succede se le strade di due anime ferite si incrociano ed entrano in sintonia?
Alex e Clarissa non potrebbero essere più diversi, ma c’è qualcosa che li accomuna e li lega.
Un dolore che nessun altro è in grado di comprendere.
E se stare lontani è ormai impossibile, allora non resta che partire insieme.
Un viaggio per ritrovare se stessi e alla scoperta delle seconde possibilità. Un viaggio per perdonare e imparare ad amare. Perché l’amore ti travolge quando meno te lo aspetti e cicatrizza tutte le ferite, anche quelle che pensavi fossero inguaribili.


*** ATTENZIONE ***
Il romanzo contiene sfumature fantasy e soprannaturali!
LanguageItaliano
Release dateApr 23, 2017
ISBN9788826056623
Insegnami ad amare (Love me #1)

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    Book preview

    Insegnami ad amare (Love me #1) - Barbara Graneris

    http://write.streetlib.com

    Dedica

    A mio fratello.

    Sei l’altra metà del mio cuore.

    "Possa il vostro cammino essere tortuoso, ventoso,

    solitario, pericoloso e portarvi al

    panorama più spettacolare.

    Possano le vostre montagne elevarsi fino alle nuvole

    e superarle."

    (Edward Abbey)

    PROLOGO

    Gennaio

    CLARISSA

    Dicono che la prima nevicata dell'anno porti sempre con sé qualcosa di magico.

    Soffici fiocchi di neve cadono silenziosi e si posano delicatamente su ogni tipo di superficie, avvolgendo e trasformando il paesaggio intorno a loro.

    Il freddo mi punge il viso, e Daniel continua a portarsi le mani alla bocca per cercare di scaldarle. Ha il naso e le guance arrossate e le labbra screpolate. Preferisce tremare come una foglia piuttosto che indossare guanti e cappello, al contrario di me, che senza non potrei nemmeno mettere piede fuori casa.

    Siamo appena usciti dalla pizzeria e ora camminiamo fianco a fianco per le vie di Torino. Abbiamo passato la giornata a fare shopping, o meglio, io ho passato la giornata così, Dan pensava solo a reggermi le buste e a farmi compagnia.

    Adoro le giornate in cui siamo solo lui ed io, lontani da casa e dalla solita routine. Tra i vari impegni riusciamo a stare poco assieme, ma in una maniera o nell’altra, troviamo sempre il modo di ritagliarci del tempo solo per noi due e basta.

    La neve comincia a depositarsi a terra, rendendo la strada luccicante e scivolosa. Infilo le mani nelle tasche del giaccone mentre ci incamminiamo verso il suo pick-up.

    Torino è davvero stupenda di sera. Pacata e meno rumorosa, con i giovani in giro per locali pronti a passare una serata in allegria. Non come il paesino sperduto dove viviamo noi, a due ore da qui, con a malapena un piccolo supermercato e un bar.

    «Cavolo che freddo che fa!»

    Mi volto verso Dan e gli sorrido. Abbiamo gli stessi occhi color ambra e lo stesso sorriso sghembo. Più lo guardo, più mi domando come sia possibile essere così uguali e allo stesso tempo così diversi.

    «Non vedo l'ora di salire in macchina e accendere il riscaldamento» borbotta.

    Non ribatto e scuoto la testa divertita. Se solo si decidesse a indossare vestiti più pesanti!

    Camminiamo sotto i portici guardandoci attorno curiosi, e mentre contemplo le luci natalizie appese ai balconi o ai fili elettrici, passiamo di fianco a una coppia troppo intenta a divorarsi di baci contro un muro per accorgersi di noi.

    La guardo per un istante, poi torno a fissare davanti a me. Una smorfia di disgusto mi appare involontaria sul viso. Come fanno a sbaciucchiarsi in quel modo? Ma soprattutto, cosa si prova a desiderare così tanto una persona da non riuscire a trattenersi fino a quando non si è in un luogo appartato?

    Mi accorgo dei miei pensieri patetici e arriccio il naso, consapevole della mia totale inesperienza al riguardo.

    Un braccio forte e robusto mi cinge le spalle, e in un attimo il senso di solitudine appena provato scompare.

    «Smettila.»

    «Di fare cosa?»

    «Di essere così ostile nei confronti dell'amore, sorellina.»

    Alzo gli occhi al cielo e sbuffo. «Non lo sono.»

    «Sì, che lo sei.»

    «Cosa?! Non è colpa se non ho ancora trovato il ragazzo giusto!» mi difendo.

    «Per forza. Con quell'espressione severa e il broncio, non fai che respingere tutti.»

    Gli tiro una gomitata tra le costole e mi allontano dal suo abbraccio. «Ma sentilo! E poi sbaglio, o sei stato tu in terza superiore ad allontanare l'unico ragazzo che mi sia mai piaciuto?»

    «Lui era uno stronzo e poi non ti piaceva sul serio» sentenzia con un sorrisetto.

    Vero. Ma era il primo per cui avessi provato un minimo di attrazione. O almeno credo.

    «E comunque eri troppo piccola e innocente per avere un ragazzo.»

    Alzo un sopracciglio e lo guardo storto. «Tu e Nicole vi siete messi insieme nello stesso periodo.»

    «Sì, ma noi ci siamo innamorati, è diverso. Tu meriti solo il meglio, Claire. Meriti l'amore vero, genuino e unico.»

    Sollevo lo sguardo e osservo il mio gemello. Stessi occhi, stesse espressioni, stessi modi di fare, solo due fisici diversi. Lui alto e robusto, io bassa e fin troppo magra. Simili, ma decisamente con ideali e convinzioni diverse. Dan ha tutte le qualità per fare invidia a chiunque, io invece devo aver ereditato solo i geni danneggiati dai nostri genitori.

    «Non credo di meritarlo, e non credo neppure che esista un amore così.»

    Dan mi guarda e sorride. «Lo meriti, e poi certo che esiste. Basta vedere mamma e papà, no?»

    «Loro sono un'eccezione. E poi davvero tu ci credi?»

    «Sì. E in fondo ci credi anche tu, solo che non vuoi ammetterlo. Ma un giorno troverai qualcuno che ti apprezzerà per ciò che sei, che ti proteggerà e ti aiuterà in qualsiasi momento.»

    «Ma ho già te per questo» ribatto decisa. «E non vorrei nessun altro al tuo posto.»

    Allunga una mano per afferrarmi dalla tasca della giacca e stringermi forte al suo petto.

    È incredibile quanto sia potente il nostro legame. Non siamo solo fratello e sorella, siamo gemelli.

    Avete presente quella diceria in cui se uno dei due sta male, anche l’altro sente lo stesso dolore? Ecco, tra noi è così.

    Come quando in quarta elementare Dan si è rotto un braccio. Nello stesso istante in cui lui si è fatto male, io ho sentito un pizzico di dolore risalirmi lungo il corpo e una sensazione angosciante schiacciarmi il petto.

    Sapevo, sentivo, che gli era successo qualcosa.

    La stessa cosa vale per l’umore. Quando io sono giù di corda, non faccio in tempo ad aprire la porta di camera mia, che Dan mi sta già aspettando in corridoio con le braccia spalancate.

    È come se ci fosse un filo invisibile che lega l'uno con l'altra. Un'unione profonda che va al di là di tutto e che nessuno è in grado di comprendere o di spezzare.

    «Sono tuo fratello, Claire. È compito mio proteggerti, e lo farò sempre» mormora tra i miei capelli. «Ma non è la stessa cosa che avere al proprio fianco la persona che si ama. Un giorno lo capirai.»

    Sospiro e inalo il suo profumo di muschio, forte e deciso. «Se lo dici tu.»

    Lo sento sorridere e mi stampa un bacio sulla testa. «Ti voglio bene. Ora andiamo, però. Sto congelando.»

    Riprendiamo a camminare e mi accorgo che le strade sono già ricoperte da un sottile strato bianco. Ci avviciniamo alle strisce pedonali e Dan preme il pulsante per chiamare il semaforo.

    Guardo a destra e sinistra, ma in strada non c'è nessuna macchina. Sto per attraversare, quando Dan mi afferra per il cappuccio della giacca e mi tira indietro.

    «Aspetta il verde» ordina.

    «Ma non c'è nessuno.»

    «Non importa. Tu aspetta.»

    Sbuffo e incrocio le braccia al petto. «Neanche mamma e papà mi stressano così tanto.»

    Si sposta un ciuffo di capelli dalla fronte e mi sorride. «Infatti hanno lasciato a me l'ingrato compito di tenerti d’occhio.»

    Gli faccio la linguaccia, e dopo aver dato un'altra sbirciata, mi butto in strada.

    Faccio qualche passo e mi volto verso mio fratello con un ghigno soddisfatto. Scuote la testa e dopo qualche secondo mi raggiunge. «Sei insopportabile.»

    «Ma se mi adori!»

    «Non quando fai così.»

    «Ma dai! È pure scattato il verde.»

    Lo vedo scrollarsi la neve dai capelli, sorridermi e fare un altro passo verso di me mentre io cammino all’indietro.

    Sta per dire qualcosa, ma all’improvviso la sua espressione muta e una maschera di terrore gli trasforma il volto.

    «Claire!» urla terrorizzato.

    Mi volto appena di qualche centimetro, poi non so bene cosa succeda.

    Vengo sbalzata con violenza da un lato e rotolo a terra.

    Sbatto forte il polso sull'asfalto e una fitta di dolore mi stordisce per qualche istante.

    Quando riapro gli occhi, tutti i rumori sono confusi. Sento i pneumatici di una macchina allontanarsi in fretta e qualcuno urlare.

    Il polso pulsa, così come il cuore rischia di schizzarmi fuori dal petto. Le orecchie mi fischiano e il respiro inizia a farsi affannoso e irregolare. È come se un peso mi schiacciasse il petto.

    Qualcosa non va.

    Mi rialzo a fatica e non appena metto a fuoco la scena davanti a me, i miei occhi si fermano su Dan. È riverso a terra, immobile, a qualche metro di distanza.

    In preda al panico, mi precipito da lui e crollo al suo fianco. «Dan!» grido.

    Gli poso le mani sulle spalle e lo scuoto leggermente. «Dan ti prego apri gli occhi! Dan!»

    Lui rantola qualcosa, ma una fitta di dolore si impossessa del mio corpo quando noto la neve rossa attorno a noi.

    Sangue.

    Dietro di me sento dei passi avvicinarsi. «Signorina sta bene? Ho chiamato un'ambulanza, sarà qui a momenti.»

    I miei occhi restano fissi sul volto di mio fratello, mentre lo stringo tra le braccia.

    Gli scosto i capelli dalla fronte con le lacrime che mi scorrono sul viso. Alla fine mi chino in avanti, poso la testa nell'incavo del suo collo e comincio a singhiozzare senza sosta. «Dan…» sussurro. «Dan, Dan… oddio mi dispiace…»

    Resto abbracciata a lui, con la gente che inizia ad avvicinarsi per controllare cos'è successo e chiedere se c’è bisogno di aiuto.

    Vengo inghiottita dalla disperazione e alla fine chiudo gli occhi. I fiocchi di neve mi si posano leggeri sul viso e nei capelli. Sento le sirene dell'ambulanza poco lontane da qui.

    Ma non ha più importanza, è tardi.

    La neve quest'anno ha perso tutta la sua magia.

    ALEX

    Incredibile come la stanchezza venga ogni volta sostituita dall'euforia e dalla soddisfazione. Ho trascorso l'intero fine settimana a Pavia, a una convention di tatuaggi. È stato stancante lavorare così tante ore, ma ne è valsa davvero la pena. Vedere i volti felici delle persone una volta finito di tatuarle, mi ha ripagato di ogni energia spesa.

    Ho conosciuto persone stupende, imparato nuove tecniche e fatto pratica, ma ora sono felice di essere a casa. Non vedo l'ora di farmi una bella dormita e riposarmi.

    Domani sera ho promesso a Celeste di portarla fuori a cena e di stare un po' insieme, dato che ho saltato il suo compleanno a causa della convention. Un evento che, secondo lei, un bravo fidanzato non dovrebbe perdersi.

    In più, domani ho tre appuntamenti in studio. Per fortuna i disegni sono già pronti e sono sicuro che piaceranno anche ai clienti.

    Amo il mio lavoro da tatuatore perché mi permette di dare sfogo alla mia creatività e di fare arte in una maniera tutta mia. Ogni tatuaggio assume un significato diverso a seconda della persona che se lo fa imprimere sulla pelle. I miei stessi tatuaggi hanno significati ben precisi e io non ne rimpiango nemmeno uno.

    Fanno parte di me.

    Scendo dal taxi, recupero il mio borsone e mi incammino lungo il vialetto. Faccio scattare la serratura della porta di casa e subito vengo invaso dall'odore famigliare di vaniglia e gelsomino, che mi ricorda la mia infanzia.

    Sorrido mentre mi sfilo il giaccone e la sciarpa, e li appendo all'ingresso. «Ehi, sono tornato! Mamma? Papà?»

    Nessuna risposta. Probabilmente sono usciti per cena e con loro anche Rebecca, mia sorella.

    Però cavoli, avrebbero anche potuto aspettarmi!

    Scuoto la testa e salgo al piano di sopra, bloccandomi non appena arrivo sul pianerottolo. La porta del bagno in fondo al corridoio è socchiusa e la luce filtra da sotto di essa. Sento l'acqua della doccia scorrere in maniera costante e regolare.

    Lancio un'occhiata verso la camera di mia sorella e noto che, anche lì, la luce è accesa.

    Ecco, tipico di Becca lasciare tutto acceso.

    «Becca?» dico, entrando in camera sua.

    I vestiti sono buttati alla rinfusa sul pavimento e sul letto. Un piatto con delle briciole di biscotti giace sul comodino, mentre le pareti sono tutte tappezzate dai suoi disegni e fotografie. Incredibile come la nostra creatività sia così diversa.

    Sorrido e chiudo la porta. Mi avvicino al bagno e mentre entro mi copro la faccia con una mano. Per quanto ami mia sorella, non rientra nei miei desideri quello di vederla nuda.

    «Becca, sei qui? Sono tornato!»

    Ancora una volta non ottengo risposta, e confuso decido di scoprirmi gli occhi.

    Nel giro di due secondi il mondo mi crolla addosso.

    Sento un peso enorme sulle spalle schiacciarmi verso il pavimento.

    Ai piedi del lavandino c’è il corpo di mia sorella.

    Ma non è questo il motivo per cui ho smesso di respirare.

    È la pozza rossa in cui è immersa a farmi tremare le gambe.

    Con uno scatto mi precipito da lei e non appena mi inginocchio, i jeans mi si inzuppano del suo sangue.

    Le scosto i capelli dal volto con mani tremanti e la bile alla bocca.

    «Rebecca! Rebecca svegliati! Dio, ma che hai fatto?» urlo disperato.

    Faccio correre lo sguardo lungo il suo corpo e scopro che ha dei tagli profondi sul polso, una lametta insanguinata è abbandonata a pochi centimetri dalle sue dita.

    Continuo a toccarla, e mi si accende un barlume di speranza quando noto che il suo petto si alza e si abbassa, anche se piano e in maniera irregolare. Come un forsennato pesco il cellulare dalla tasca dei miei jeans e chiamo il 118. Rispondo come meglio posso alle domande che mi vengono fatte, ma più mi interrogano, più mi accorgo di non essere in grado di dare la maggior parte delle risposte.

    «Cerchi di stare calmo, l'ambulanza sta già arrivando. Da quanto tempo sua sorella è priva di sensi?»

    «Non lo so!»

    «Ha già tentato il suicidio prima d'ora?»

    «No.»

    «Sa se è successo qualcosa che può averla indotta a un gesto simile? Soffre per caso di depressione?»

    Deglutisco. «Io non…»

    Le immagini di Rebecca degli ultimi mesi mi balenano nella mente come flash accecanti. Nell'ultimo periodo mia sorella non era più la stessa: aveva perso il suo sorriso. S orriso che è da sempre il centro del mio mondo.

    Girava per casa come se fosse uno zombie ed era spesso silenziosa, con lo sguardo vuoto e assente. Dentro di me sapevo che era colpa di Vittorio, il suo fidanzato.

    Lui non mi è mai piaciuto, e non lo dico solo perché sono protettivo nei confronti di mia sorella. Nello sguardo di Vittorio c’è sempre stato qualcosa che mi turbava, un lampo di cattiveria che mi faceva dubitare che fosse il bravo ragazzo che tutti credevano.

    E la conferma è arrivata quando un giorno ho intravisto un livido sul fianco di Rebecca, quando in un attimo di distrazione la maglietta le si era sollevata leggermente.

    Sono andato fuori di testa, e non ho mai provato così tanta rabbia come in quel momento. Becca è riuscita a fermarmi in tempo, prima che partissi per andare a commettere un omicidio.

    Mi ha detto che era finita e che era per quello che stava così male, ma che le serviva solo del tempo per tornare a stare bene e riprendersi. Abbiamo evitato di informare i nostri genitori e le sono rimasto accanto.

    Credevo stesse meglio, invece a quanto pare mia sorella ha saputo mascherare bene la verità, oltre che le cicatrici.

    Le ferite interne sono più difficili da guarire.

    È tutta colpa mia. Lei è la mia sorellina. Ci leviamo solo un anno, ma sono sempre stato io a prendermi cura di lei.

    È sempre stato compito mio proteggerla.

    Ma ho fallito quando Vittorio le ha messo per la prima volta le mani addosso.

    E soprattutto ho fallito dopo, quando lei aveva ancora più bisogno di me.

    Altrimenti in questo momento non sarebbe tra le mie braccia, priva di sensi e in una pozza di sangue.

    «Credevo di no» rispondo alla cornetta.

    Accarezzo i capelli di mia sorella mentre piango e allo stesso prego che non mi lasci.

    La stringo sul mio grembo come facevo quando era piccola e veniva a rifugiarsi nel mio letto perché aveva fatto un brutto sogno.

    Ti prego, Becca, resta con me. Non lasciarmi.

    «L'ambulanza dovrebbe essere lì. Sente le sirene?»

    Tendo l’orecchio e sento le sirene ferme proprio davanti casa. In un lampo sono al piano di sotto a far entrare i paramedici e a guidarli da mia sorella. Li osservo soccorrere Rebecca, e mentre le mettono l’ossigeno, parlano di valori e di trasfusioni, il mio cervello va in tilt.

    La caricano sulla barella, e in un attimo siamo di nuovo sul vialetto, pronti per andare di corsa in ospedale.

    «Viene con noi?» mi chiede un paramedico.

    Lo guardo, immobile davanti agli sportelli dell'ambulanza. Nonostante la voglia di stare con Rebecca, non riesco a muovere un solo muscolo.

    Mia sorella sta per morire e io vengo invaso dalla rabbia e dal dolore.

    «Io… io devo avvertire i nostri genitori» farfuglio.

    «D'accordo. Ma ci raggiunga il prima possibile.»

    Annuisco e osservo l'ambulanza partire con le sirene spiegate.

    Torno in casa, recupero il mio cellulare e chiamo mia madre. Il suo urlo mi strazia il cuore e tra un singhiozzo e l'altro ci mettiamo d'accordo di vederci in ospedale.

    Riattacco, e senza un attimo di esitazione afferro le chiavi della macchina di Becca.

    Quando metto in moto ed esco dal vialetto, mi accorgo che dei leggeri fiocchi di neve cadono dal cielo e iniziano ad attecchire l'asfalto.

    Dio, quanto odio la neve!

    Guido come un pazzo, rischiando un incidente quando passo con il rosso a un semaforo, e quando fermo l'auto ho il cuore che batte a mille e l'adrenalina che scorre a fiumi nelle vene.

    Balzo giù dalla macchina, mi incammino verso la porta e comincio a bussare come un pazzo. Sbatto il pugno sul legno fino a quando non scatta la serratura e la faccia di Vittorio mi appare di fronte. «Alex cosa…»

    Non gli do il tempo di dire nient'altro che gli piombo addosso come una furia.

    Lui barcolla e cade a terra e io gli sono sopra. Lo blocco con il mio corpo e inizio a riempirlo di pugni. Vittorio scalcia e prova a respingermi, ma inutilmente.

    L’odio che provo per questo ragazzo è al di là di ogni immaginazione.

    «È tutta colpa tua! Che diavolo le hai fatto di nuovo? Dovevi starle lontano!» gli urlo in faccia.

    Vittorio spalanca i suoi occhi verdi e un ghigno soddisfatto gli appare sul volto. La sua espressione goduta mi coglie impreparato, e questo gli dà la possibilità di darmi un pugno sulla mandibola, costringendomi ad allentare la presa su di lui.

    «Le sta bene!» grida. «Qualsiasi cosa le sia successa, le sta solo bene! Tua sorella merita solo di soffrire!»

    Rivedo Rebecca svenuta nel bagno, circondata dal sangue e non ci vedo più.

    Mi ributto addosso a lui e comincio a colpirlo con violenza. Lo scuoto, lo strattono, gli sbatto la testa sul pavimento e lo prendo a pugni fino a quando il suo volto non è che una maschera di sangue.

    Non sono mai stato un tipo violento, perciò non so da dove trovo tutta questa forza. So solo che quando smetto di colpirlo sono sudato fradicio e ho il respiro pesante.

    Vittorio resta immobile. Non mi sono neanche reso conto di quando abbia smesso di provare a difendersi.

    Mi inginocchio al suo fianco e poso le mani sulle cosce per cercare di calmarmi. Il sangue che ho sulle mani mi fa rivoltare lo stomaco e non so nemmeno più quale appartenga a lui e quale a Becca.

    Il mio cellulare comincia a trillare, così lo afferro e rispondo con il cuore in gola e il fiatone.

    «Alex dove sei? Ti prego vieni subito in ospedale» singhiozza mia madre.

    Mi riscuoto dal mio torpore e mi assale il panico. «Sto… sto arrivando» farfuglio, mentre guardo Vittorio, inerme ai miei piedi.

    «Fai in fretta.»

    Riattacco confuso e spaventato. Mi alzo barcollando, con la paura che mia sorella non ce l'abbia fatta. Senza preoccuparmi di Vittorio, esco da casa sua, consapevole che questo sarà un giorno che mi porterò addosso come un marchio indelebile.

    Torno a casa guidando di nuovo come un folle. Una volta arrivato, mi cambio veloce e butto i vestiti sporchi in un sacchetto dell'immondizia.

    Passo davanti al bagno, dove l'acqua della doccia continua a scorrere imperterrita. La vista di tutto quel sangue mi fa girare la testa, ma riesco lo stesso a pulire con degli asciugamani che poi getto dentro il sacco assieme ai miei vestiti.

    Sto per uscire di casa quando il mio cellulare squilla di nuovo. «Mamma sto arrivando. Sarò lì tra qualche minuto» dico con la voce che trema.

    La sento trarre un lungo sospiro e in quel momento temo il peggio.

    Penso a Rebecca che da piccola mi saltava in braccio felice, a quando si faceva aiutare con i compiti, a come mi ha sempre guardato come se fossi il suo eroe.

    Un eroe che però non l’ha salvata.

    Se mia sorella è morta, io avrei dovuto essere con lei almeno mentre esalava i suoi ultimi respiri.

    «Tranquillo, tesoro. Andrà tutto bene.»

    LA MIA VITA

    Un viaggio di mille miglia comincia sempre con il primo passo. (Lao Tzu)

    Giugno, cinque mesi dopo

    CLARISSA

    Mi sveglio agitata e in un bagno di sudore. Stropiccio gli occhi e guardo l'ora: le 02:48.

    Fuori è buio e la brezza che entra dalla finestra della camera non basta a rinfrescarmi.

    Mi metto a sedere sul letto e bevo un generoso sorso d'acqua dal bicchiere sopra il comodino.

    «Un altro brutto sogno?»

    Sobbalzo nell'udire la sua voce e per poco non mi rovescio l’acqua addosso.

    Dannazione! Eppure ormai dovrei averci fatto l'abitudine!

    Faccio un bel respiro, sollevo la testa e mi scosto i capelli sudati dalla fronte. Lo scorgo nella penombra, seduto sulla poltrona nell'angolo della camera.

    Mi rivolge il suo sguardo dolce e affettuoso, e subito mi sento meglio.

    «Sì, come sempre. Ma ora è passato.»

    «Perché non mi racconti mai cosa sogni?»

    Scuoto la testa. «Perché non è importante.»

    «Claire.»

    «Dan, per favore. Non insistere.»

    Mio fratello mi guarda preoccupato e sbuffa. So perché fa così, ma non è necessario. Non gli racconterò mai dei miei incubi o di come mi sento.

    Fa troppo male.

    «Devi smetterla di guardarmi mentre dormo. È inquietante» lo rimprovero.

    «E cos'altro dovrei fare, scusa?»

    «Non lo so. Dormire, per esempio?»

    Si lascia scappare una risatina e scuote la testa. «Dormire io? E a cosa mi servirebbe, scusa?»

    «Ehm, a riposarti?»

    «Non ne ho bisogno, dato che sono morto.»

    A quelle parole mi si mozza il respiro, e una fitta di dolore mi punge il petto.

    Dan se ne accorge e mi si avvicina, inginocchiandosi vicino al mio letto.

    «Scusa, Claire. Sono stato indelicato.»

    No, non lo è stato. È stato solo sincero.

    Dan è morto cinque mesi fa, tra le mie braccia, sull'asfalto, investito da un'auto.

    Sento gli occhi gonfiarsi di lacrime mentre mi mordo forte il labbro inferiore.

    Scuoto la testa frustrata, confusa e stanca.

    «Sono qui, Claire. Parlami.»

    Lo guardo diritto negli occhi, dove riesco a vedere il mio riflesso.

    Com'è possibile? Come può essere qui con me e allo stesso non esserlo?

    «Claire?»

    Sto per aprire la bocca, senza sapere che cosa ne uscirà, quando la porta della mia camera si apre. La luce del corridoio si riversa nella stanza, illuminando i vestiti per terra e il caos che regna sovrano.

    «Sei sveglia, tesoro?»

    Mi asciugo rapida gli occhi lucidi prima che mia madre se ne accorga.

    «Sì, mamma. Avevo caldo e mi sono svegliata.»

    Non le chiedo come mai anche lei è sveglia. Tende a dormire poco da quando Dan è morto.

    Viene a sedersi sul letto accanto a me, sul volto i segni ben evidenti del dolore e della sofferenza.

    «Ti ho sentita parlare dal corridoio» rivela preoccupata.

    «Stavo leggendo ad alta voce» spiego e indico la mia copia di Orgoglio e pregiudizio poggiata sul comodino.

    È una bugia enorme, e probabilmente lo sa anche lei. Mi sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio e mi fa un sorriso triste. «Clarissa tu… sì insomma…» si interrompe per trovare le parole adatte, e forse anche un modo per non ferirmi. «Tu non credi più di vedere Daniel, vero?»

    Lancio un'occhiata alle sue spalle, dove Dan è in piedi e osserva la scena con espressione addolorata.

    «No, mamma.»

    La vedo rilassarsi leggermente. «E prendi sempre le medicine?»

    No. «Sì.»

    Un'altra bugia. Avrò preso le medicine sì e no quattro volte. Ma non mi piace l'effetto che mi fanno. Mi anestetizzano. I miei sensi si intorpidiscono e ho sempre sonno. Non sono più io. Non riesco a pensare, a leggere e cosa ancora più grave, non sono più in grado di vedere mio fratello.

    E poi il dolore preferisco sentirlo tutto, piuttosto che far finta che non ci sia.

    È l’unica cosa che mi fa sentire ancora viva.

    Guardo mia madre e mi rendo conto di quanta sofferenza debba provare. Ha perso un figlio in un incidente, e l'unica figlia che le è rimasta sostiene di vedere e parlare con il fratello morto.

    Ovvio che ai suoi occhi sembri una follia, ma io non sono pazza. Almeno non ancora del tutto.

    Ricordo il giorno in cui sono arrivata a casa e ho detto ai miei genitori che ero in contatto con Dan, che lo vedevo e ci parlavo.

    Sapevo che poteva essere uno shock, ma era la verità. Io per prima avevo impiegato giorni per accettarla.

    I miei genitori erano seduti sul divano a guardare un film. Era passato appena un mese dalla morte di Dan e la nostra famiglia faceva fatica a sopravvivere. Ricordo di essere entrata in casa con il primo vero sorriso da dopo l'incidente, avevo guardato i miei e avevo detto loro che Dan era con me, che mi parlava.

    Ma appena finii la frase mia madre scoppiò a piangere, e mio padre la strinse forte a sé.

    «Non è possibile, Clary» continuava a ripetere papà.

    «Vi dico di sì! Lui è qui con noi anche ora!»

    Mi voltai verso mio fratello, in piedi accanto alla porta con addosso una felpa e dei jeans strappati. «Diglielo Dan! Di' loro che sei qui. Fatti vedere!» lo implorai sull'orlo delle lacrime, ma lui non fece nulla.

    Dopo due giorni io ero a colloquio con una psichiatra, e la nostra famiglia era ancora più schiacciata dal dolore.

    Da qual momento continuo a far finta di prendere le medicine. Non ho mai più parlato a nessuno di Dan. Forse i miei hanno ragione, forse sto davvero impazzendo.

    Ma la verità è che l'apparizione di Dan mi ha salvata.

    La mamma mi stringe in un tenero abbraccio e mi culla dolcemente come faceva quando eravamo bambini. «Ti voglio bene, piccola mia.»

    «Anche io, mamma.»

    Si stacca dall'abbraccio e si alza dal letto. «Prendi le tue medicine, Clarissa. Te lo chiedo per favore.» La sua voce straziata e implorante mi spezza il cuore.

    Annuisco e resto a fissare la porta che si richiude alle spalle. Non posso fare a meno di pensare che sto provocando altro dolore ai miei genitori.

    È come se in un modo o nell’altro, avessero perso entrambi i figli quella notte.

    «Mi dispiace, Claire.»

    Guardo il mio gemello e sospiro. «Perché posso vederti solo io?»

    «Perché sono qui per te.»

    «Cosa significa?»

    «Lo sai benissimo.»

    Forse. O forse no. Ma di certo non voglio parlarne adesso.

    Il fatto che io sia l’unica a vederlo, spesso mi spinge a pensare che nel mio cervello ci sia davvero qualcosa di danneggiato.

    Sprimaccio il cuscino e mi corico, tirando il lenzuolo fino ai fianchi. Vedo Dan coricarsi sul letto vicino a me, la sua testa a sfiorare la mia.

    Percepisco l'odore del suo profumo, e quando sento una leggera scossa percorrermi il braccio, capisco che ha provato a toccarmi.

    «Dan?»

    «Sì?»

    «Mi racconti una storia?» domando mentre sbadiglio.

    Mi sorride e si avvicina ancora di più a me. «Certo.»

    Chiudo gli occhi, pronta ad assimilare le sue parole. Mi ha sempre raccontato delle storie fin da quando eravamo piccoli. È l'unico modo per calmarmi quando mi succede qualcosa di brutto.

    Ed ha sempre funzionato.

    Mi lascio cullare dalle sue parole, sempre più consapevole che Dan è qui, per me.

    Non sono pazza.

    Non posso esserlo.

    ALEX

    Il ronzio costante della macchinetta ha il potere di rilassarmi.

    Percepisco a malapena il dolore, oramai. Sono talmente ricoperto di inchiostro che faccio fatica a immaginare lo strato di pelle sottostante.

    Mi sto tatuando un teschio sull'avambraccio sinistro. Ha gli occhi infossati e un sorriso macabro da cui sgorga una goccia di sangue. In questo momento sto tracciando una data sul cranio crepato. Non una data qualsiasi, ma bensì quella data maledetta di cinque mesi fa.

    Quel giorno in cui tutto è cambiato ed è andata via una parte di me. Forse la più importante.

    Ecco cosa rappresenta questo tatuaggio. Mi ricorda chi ero, chi non sarò più e chi sono realmente.

    La porta del negozio sbatte rumorosamente, e dopo una manciata di secondi, Roberto appare davanti a me.

    Tengo gli occhi fissi sul braccio, concentrato sugli ultimi dettagli.

    Dopo qualche minuto spengo la macchinetta e mi pulisco il tatuaggio con la carta.

    Quando mi alzo e sollevo la testa, trovo il mio socio e migliore amico che mi fissa con la fronte aggrottata.

    «'Giorno» dico con un sorrisetto.

    «Sì, buongiorno» ribatte seccato.

    Lo seguo verso la sala relax e lo vedo lanciare il sacchetto con le brioche sul tavolino di fronte al divano.

    «Sei almeno tornato a casa ieri sera?» domanda con un sospiro.

    «Ho finito tardi con l'ultimo cliente.»

    Accende la macchinetta del caffè, dandomi le spalle. «Quindi hai di nuovo dormito qui sul divano?»

    Afferro un croissant alla marmellata dal sacchetto e annuisco. «Sì, esatto.»

    Si volta per lanciarmi un'occhiata di rimprovero e scuote la testa.

    «Non farmi la predica, Rob. Non ne ho bisogno.»

    «Sono preoccupato per te, Alex. Insomma guardati» dice indicando i miei vestiti.

    Abbasso il mento e mi faccio un rapido esame: ho la maglietta stropicciata e i jeans sdruciti e consumati, e di certo la mia faccia lascia trapelare tutta la mia stanchezza. Ma non ha senso tornare a casa, dato che resterei comunque sveglio a fissare il soffitto per quasi tutta la notte.

    «Sto bene» ribatto, masticando l'ultimo boccone della mia colazione.

    Rob sbuffa e incrocia le braccia al petto. «Non è vero. Lavori fino a tardi, prendi appuntamenti a orari improponibili, dormi qui in studio sul divano più scomodo del mondo, e cazzo, amico, da quant'è che non ti fai una doccia?»

    Scrollo le spalle senza ribattere, perché tanto so che ha ragione.

    «Dovresti smetterla di punirti e tornare a casa.»

    Faccio una smorfia e mi massaggio le tempie con i polpastrelli per contrastare l'imminente emicrania. «Non mi sto punendo.»

    «Oh, sì invece. E lo fai da mesi. Posso solo immaginare come ti senti, ma stare così non cambierà le cose. Quello che è accaduto…»

    «Rob» lo interrompo brusco. «Ho detto che sto bene.»

    Sento la rabbia montarmi dentro, mentre le immagini di mia sorella insanguinata e di tutto quello che è successo dopo mi investono con una tale potenza da seccarmi la gola.

    Lui sostiene il mio sguardo, fino a quando non decide di lasciar cadere la discussione. «Ok, come preferisci.»

    Prepara due tazze di caffè e quando me ne porge una, punta gli occhi sul mio avambraccio e mi fa un sorrisetto. «L'hai finito, finalmente.»

    «Bello, vero?» dico, ritrovando il controllo sulle mie emozioni.

    «Molto, anche se avrei fatto qualche sfumatura in meno. Ma avrei potuto tatuarti io, lo sai, no?»

    «Certo, ma preferisco averlo fatto da solo.»

    Mi fido di Rob. È il mio migliore amico ed è soprattutto un ottimo tatuatore. Abbiamo aperto lo studio insieme qualche anno fa, e gli affari vanno alla grande. Molti dei tatuaggi che abbiamo ce li siamo fatti reciprocamente quando eravamo ancora alle prime armi. E da allora siamo migliorati molto, ma questo tatuaggio dovevo farlo da solo. Per ricordare e incidere sulla mia pelle la verità.

    Lui annuisce, perché alla fine comprende perfettamente cosa mi passa per il cervello.

    Sorseggio il mio caffè bollente, poi abbandono la tazza sul tavolino, afferro le chiavi e mi dirigo verso la porta.

    «Dove vai?»

    «Hai detto che puzzo, no? Vado a casa tua a farmi una doccia.»

    «Perché non vai nella tua di casa?»

    «Perché la tua è più vicina.»

    Rob sospira e si siede sul divano, allungando le gambe sul tavolino. «Fai in fretta, allora. Hai il primo cliente tra quaranta minuti.»

    Annuisco ed esco fuori all’aria aperta.

    Cammino lungo via Roma con lo sguardo basso e le mani infilate nelle tasche. Per fortuna che l'appartamento di Rob è a soli dieci minuti dallo studio, così sono certo di tornare indietro in tempo. Passo accanto a una ragazza che mi squadra da capo a piedi, probabilmente attratta dai miei tatuaggi.

    È carina.

    Ha lunghi capelli castani e gli occhi da cerbiatta, e sfoggia con sicurezza il suo abito giallo canarino leggero abbinato a delle ballerine.

    Potrei anche farci un pensierino, se non fossi troppo impegnato ad annientare me stesso. Penso a Celeste e a come l'amore che pensavo di provare per lei sia scomparso subito dopo l'incidente.

    È stato semplice per entrambi farla finita.

    Adesso le ragazze non mi interessano più.

    Se sto da solo, almeno non rischio di far male a nessun altro oltre che a me stesso.

    Abbasso lo sguardo e passo oltre.

    Rob ha ragione, dovrei tornare a casa dei miei genitori, ma proprio non riesco ad affrontarli. So che mi vogliono bene e che mi sono stati vicini, ma mi guardano con compassione e io non voglio. Perché nonostante tutto, io non cambierei nulla.

    Arrivo a casa di Rob e mentre faccio scorrere l'acqua della doccia, mi arriva un messaggio.

    Buongiorno! :) Allora, quando vieni a trovarmi?

    Un sorriso sincero mi increspa le labbra.

    Vale la pena affrontare i demoni tutti i giorni, se ogni tanto mi è permesso di tornare in paradiso.

    2

    CLARISSA

    Scorro con lo sguardo i vari prodotti sullo scaffale. Sto cercando lo zucchero, quello con il pacco bianco e blu che compra sempre la mamma.

    Sono passate poche settimane dall'incidente. I miei genitori sono sempre più oppressi dal dolore e stare in loro compagnia mi viene difficile.

    Io e Dan eravamo gemelli e ogni volta che uno dei due mi guarda, è inevitabile che, oltre al mio, vedano anche il viso del figlio che hanno perso.

    Per questo motivo ogni scusa è buona per allontanarmi da casa. La stessa casa piena di ricordi vissuti con mio fratello. Ecco perché mi sono offerta di uscire per andare a fare la spesa.

    Ogni piccola distrazione è ben accetta.

    Perché se i miei genitori soffrono, io sono lacerata dalla sofferenza. Dan si è spento tra le mie braccia, e io ho sentito addosso il momento esatto in cui la vita ha lasciato per sempre il suo corpo.

    Deglutisco e cerco di riprendermi. I miei occhi scorgono finalmente quello che sto cercando e allungo una mano per afferrarlo.

    «Ehi, sorellina.»

    Mi volto di scatto, perché è impossibile che l'abbia sentita davvero.

    Probabilmente la mia mente mi sta giocando un brutto scherzo.

    E invece no.

    Il mio sguardo si posa davvero su mio fratello. Bello, giovane e sorridente e con i vestiti puliti, non macchiati di sangue come l'ultima volta che l'ho stretto a me.

    «O mio Dio… tu non puoi… tu…» Mi si mozza il fiato e mi guardo attorno alla ricerca di qualcuno che lo veda come me.

    «Claire, ascoltami. So che è difficile da credere, ma sono davvero io e sono qui. Mi puoi vedere.»

    Il cuore comincia a galopparmi veloce nel petto e le gambe mi tremano.

    Sbatto le palpebre più volte, con la consapevolezza che probabilmente scomparirà non appena aprirò di nuovo gli occhi. Ma non accade.

    Lascio cadere il cestino della spesa che ho tra le mani, e il suo contenuto si sparpaglia sul pavimento.

    Il rumore attira l'attenzione di altri clienti, e nel giro di pochi secondi un commesso si precipita per vedere cos'è successo. Ci inginocchiamo nello stesso istante per rimediare al caos che ho creato, ma quando sollevo la testa, mi rendo conto di avere ancora gli occhi di Dan fissi su di me.

    Com'è possibile?

    «Tutto bene?» mi domanda il commesso in tono

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