Non vergognatevi di me
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Gli anni degli arresti celebri, della lotta alla corruzione ed anche della caccia alle streghe. Gli anni affannati di una società implosa in se stessa e alla ricerca estrema di un nuovo assetto sociale prima che politico.
Quegli anni, che ormai sono diventati la “storia” del nostro Paese, sono stati raccontati attraverso centinaia di parole, interpretati in film e fiction, scandagliati in mille modi diversi, analizzati in ogni sfaccettatura, studiati al microscopio.
Ma anche la migliore delle analisi corre il rischio di rimanere sulla superficie delle cose. Sfiorandole soltanto.
Perché quella Storia è fatta di piccole storie che si intrecciano e confondono, sfuggendo alle nostre letture più attente.
In queste pagine Antonio Chieffallo ci racconta una di quelle piccole storie. Le storie dietro le quinte che nessuno conosce o è interessato a conoscere. Storie fatte di arresti, notti insonni, paure, improvvisi atti di coraggio, legami familiari che vanno oltre ogni cosa.
A dare il titolo al libro, una frase racchiusa in un biglietto fatto recapitare ai figli da un agente penitenziario quattro giorni dopo l’arresto. Poche parole, riportate su un foglio a righe piegato in due:
«Non vergognatevi di me, sono innocente. Papà».
Nelle sue parole accorate potrete riconoscere solo una grande, grandissima, dichiarazione d’amore filiale. Perché d’amore sono fatte sempre tutte le piccole storie degli uomini.
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Non vergognatevi di me - Antonio Chieffallo
vita.
Quel 20 dicembre
Non avevo sentito nulla. Nessun rumore, nessuna voce, niente di niente. Ma quando scesi in soggiorno, poco dopo le sette, trovai mia madre seduta sul divano con il viso stravolto.
«Sono venuti due agenti in borghese, lo hanno portato in segreteria per una perquisizione». Nient’altro. Pensai subito al peggio. Era da un po’ che a casa si parlava di un’inchiesta in corso. Mio padre non aveva mai affrontato il discorso, ma non mi era sfuggita la sua preoccupazione negli ultimi tempi, strana per un uomo come lui, pronto ad attenuare ogni problema con il sorriso. Ancora più strana pensando ad un episodio accaduto quindici giorni prima.
Stavo leggendo il giornale in cucina. Solito resoconto quotidiano di arresti e vicende giudiziarie. Per alleggerire il clima cupo che si era creato, inventai che c’era il suo nome su un articolo. Fu una battuta infelice, certo, ma rimasi stupito della sua reazione quando dissi che stavo scherzando. Prese il giornale e lo strappò, imprecando come non faceva mai. Non era da lui un comportamento del genere.
Pensai nuovamente a quello scatto d’ira. «È successo qualcosa, ne sono sicuro», ripetevo a bassa voce. «Ma’, vado in segreteria a vedere se c’è qualcuno». Speravo di sapere qualcosa in più su quello che era accaduto.
Arrivato al portone d’ingresso, infilai la chiave nella serratura. Le mie mani iniziarono a tremare. Entrai nella prima stanza, dove gli ospiti aspettavano prima di essere ricevuti. Vidi una bottiglia d’acqua su un tavolo, con a fianco un bicchiere di carta. Non c’era la sera prima: avevamo avuto una riunione e avevo sistemato tutto io. Non ci misi molto a capire: ha bevuto per riprendersi da quello che i due agenti gli hanno detto
. La mia fronte si riempì di sudore e sparì ogni dubbio. Dio mio, lo hanno arrestato
. Presi la bottiglia e la scaraventai contro una parete della stanza, facendola finire in mille pezzi. Con un calcio spezzai il piede di una sedia. E adesso, che faccio? Cosa cazzo faccio?
. Ansimavo. Mi fermai a riflettere: «devo tornare a casa». Mia madre era sola, qualcuno avrebbe potuto avvisarla e volevo essere lì. Rientrai subito. Lei stava ancora inchiodata a quel divano.
Le dissi: «Forse lo hanno portato via. Dobbiamo aspettarci di tutto ed essere forti».
«Lo so, figlio mio, lo so».
Stava immobile, con lo sguardo fisso al muro. Aveva capito anche lei.
«Come si sono comportati?».
Glielo chiesi con ansia, perché avevo il terrore che mio padre potesse essere stato portato via con le manette, che qualcuno avesse potuto scattargli delle foto, che la gente potesse averlo visto in quel modo.
«Sono stati gentili».
Era lunedì 20 dicembre 1993. Mancavano quattro giorni alla vigilia di Natale. Un Natale che avrebbe segnato per sempre la nostra vita. Ed io avevo 23 anni.
Arrestato
Passarono due ore nella speranza che potesse arrivare qualche buona notizia, che si fosse trattato davvero solo di una perquisizione, magari un controllo, ma non avevamo ricevuto nessuna chiamata. Io non volevo accendere la televisione. Erano gli anni di Tangentopoli, conoscevo bene il trattamento riservato ai politici che finivano nelle maglie della giustizia. Nessuna pietà o possibilità di essere ascoltati. Una sorta d’isterismo collettivo impediva ogni ragionamento e si traduceva in un solo atteggiamento: la gogna. Terrificanti i meccanismi del tritacarne mediatico di quei giorni, tipico dei momenti di rottura come quello che stavamo vivendo. Bastava una qualsiasi forma di vicinanza a un politico per guadagnarsi il pubblico disprezzo. La condanna era un fatto assodato. Insieme ai corrotti, agli affaristi, ai mafiosi, per i quali sarebbe stato opportuno buttare le chiavi della prigione, avevo visto massacrare molte persone perbene. Galantuomini che avevano dedicato una vita intera alla politica e agito con rettitudine e dedizione verso gli altri. Imposi a me stesso che se fosse arrivata quella notizia, televisione e giornali sarebbero stati banditi per lungo tempo.
Intanto, passavano i minuti e l’angoscia cresceva. L’incertezza consumava energie e spalancava la mia mente a pensieri feroci. Alle dieci squillò il telefono di casa. Era l’avvocato Felice Manfredi: «Lucrezia mia, Leopoldo è stato arrestato». Lo sapevo, ma il colpo fu tremendo lo stesso.
Ripensai a quel bicchiere d’acqua sul tavolo. Immaginai mio padre seduto sulla sedia, stordito, con la testa chinata, gli occhi chiusi. Forse svenuto.
Le gambe stavano per abbandonarmi e dovetti poggiare le mani su una sedia per non cadere. Mia madre cercava di non piangere, ma l’espressione del suo viso era terrorizzata. Rimase seduta su quel divano, ripiegata su se stessa. Provai a dare ordine alle idee, ma pensavo solo a quello che stava succedendo a lui. Lo vedevo in macchina con gli agenti e poi al carcere. Le foto. Le impronte digitali. Mi sembrava impossibile che avrebbe potuto sopportare un colpo del genere. Non dissi una sola parola fino a quando il telefono iniziò a squillare. La notizia ormai si era diffusa. Chiamarono parenti, amici, compagni di partito. Cercavamo di darci sostegno reciproco. Due erano le cose che mi passavano per la testa: come avrei potuto aiutarlo e in che modo avrebbe reagito il mondo fuori casa. Quale sarebbe stato il trattamento che avremmo dovuto subire e sopportare nell’epoca dei politici ladri, dei cappi in Parlamento, degli insulti per strada. E certo mio padre non era uno sconosciuto: cinquantenne assessore Regionale, il suo nome lo conoscevano ovunque in Calabria. Dovevamo essere pronti a tutto.
Una decisione, però, andava subito presa: individuare il collegio di difesa. Decidemmo di nominare Giancarlo Pittelli, Felice Manfredi e Mario Casalinuovo. Amici prima che grandi professionisti. Felice Manfredi era sempre stato un punto di riferimento per la nostra famiglia. Nato anche lui nello stesso paese di mio padre, si era distinto come uno dei primi sanmanghesi affermatosi nella sua professione, diventando un esempio per tutti quelli che aspiravano a emanciparsi da una realtà poverissima quale era la nostra negli anni Sessanta. Di lui conoscevo la generosità con la quale aveva sempre trattato i miei nonni ai tempi in cui non si possedeva nulla. Giancarlo Pittelli era, invece, un giovane e travolgente avvocato con cui si erano rafforzati legami di grande affetto. Persona perbene, uomo infaticabile, con il cipiglio sognatore di chi è incline alle battaglie contro i mulini a vento. E poi Mario Casalinuovo, deputato e ministro del PSI. Un gentiluomo che faceva onore alla politica e alla sua terra. Uno di quelli da cui si può solo imparare. Un campione di onestà.
Giancarlo Pittelli arrivò nel primo pomeriggio. Immediatamente ci informò dei capi d’imputazione: falso in atto pubblico, truffa aggravata, abuso in atti di ufficio e turbativa d’asta. La vicenda riguardava la realizzazione della strada del medio Savuto. Un tratto che avrebbe dovuto collegare Marcellinara a Colosimi, costituendo un ponte tra le provincie di Catanzaro e Cosenza, e che aveva lo scopo di togliere dall’isolamento diciotto comuni montani. Mio padre era accusato di aver autorizzato e firmato la presentazione di una scheda non veritiera che trasformava il progetto di massima dell’opera in atto esecutivo, senza che ci fossero i requisiti tecnici per farlo. Lo scopo era ottenere un finanziamento che diversamente non sarebbe stato assegnato. A questo si aggiungeva l’addebito di aver favorito, dopo che era stato successivamente bandito l’appalto, una ditta per la realizzazione dell’opera. Una bella montagna d’illeciti, ma tirai lo stesso un sospiro di sollievo quando mi resi conto che non c’erano ipotesi di corruzione, il reato più odioso in quel periodo.
Facemmo una prima sommaria valutazione della situazione. Non ci fu molto da discutere. Troppo pochi gli elementi per avere un quadro completo della situazione. Prima di salutare, chiesi all’avvocato una sola cosa: «Aiutami a vederlo prima possibile, ho bisogno di sapere come sta, e devi tranquillizzarlo sulla nostra condizione». Conoscevo bene i suoi pensieri, avevamo parlato tante volte. Scritte sui muri di case, telefonate d’insulti, macchine danneggiate, amici che si dileguavano. Questo toccava, nell’era Mani Pulite, a molti degli inquisiti e alle loro famiglie. C’era un clima di odio che montava, giorno dopo giorno, contro l’intera classe politica. Non c’era modo di difendersi, non si poteva neanche provare. Chi finiva nelle maglie della magistratura veniva spazzato via. Sarebbe stato un peso insopportabile per lui immaginare una situazione simile.
Quella prima giornata, però, le cose andarono diversamente. Non ci furono solo le chiamate, ma dal primo pomeriggio casa nostra fu letteralmente invasa da tanta gente, che ci regalò un abbraccio collettivo e un sollievo immenso. Vivevamo l’esperienza politica con gli occhi di mio padre, per il quale idee e amicizia stavano sullo stesso piano. «Ricorda – mi disse una volta – che tutta questa gente crede in quello che faccio. È come se fosse la nostra famiglia».
Quella processione di amici e compagni era servita ad attutire il colpo, almeno in quelle ore. Ci dava la possibilità di non pensare sempre alla stessa cosa.
Poco prima delle otto sentii suonare per l’ennesima volta il citofono. Qualcuno andò ad aprire. Io ero seduto sul divano del salotto, con la porta di vetro socchiusa sull’entrata. Vidi la figura di un omaccione alto e goffo che si faceva avanti. Lo riconobbi quasi subito. Era uno dei grandi amici d’infanzia di mio padre. Cresciuti insieme, si erano sostenuti a vicenda per