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JAMES BIANCOSPINO e le sette pietre magiche
JAMES BIANCOSPINO e le sette pietre magiche
JAMES BIANCOSPINO e le sette pietre magiche
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JAMES BIANCOSPINO e le sette pietre magiche

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About this ebook

Agli albori del XVI secolo l’eterna lotta tra il Bene e il Male non si svolge solo con spade e pugnali, ma anche attraverso il dominio di antiche e misteriose pietre magiche: la vittoria arriderà a chi si dimostrerà più abile nel controllarne l’arcano potere. James Biancospino, un timido ragazzo del terzo millennio, si trova suo malgrado coinvolto nella guerra senza esclusione di colpi tra la Confraternita della Luce e la terrificante setta degli Oscuri. Attraverso viaggi avventurosi e mirabolanti battaglie, James scopre un po’ alla volta il valore di parole come onore, dovere, coraggio, sacrificio, amicizia e amore, che doneranno un nuovo senso alla sua vita.
LanguageItaliano
Release dateOct 31, 2018
ISBN9788832144017
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    JAMES BIANCOSPINO e le sette pietre magiche - Simone Chialchia

    .

    Prologo

    Il vento soffiava dolce lungo la valle, lasciando il cielo limpido e sgombro. Tutto taceva. Solo il rumore dell’acqua nel fiume rompeva il silenzio.

    Ogni guerriero controllava il proprio respiro, preoccupandosi di non aprir bocca, nonostante il pensiero fosse dominato da sentimenti di paura e tensione.

    L’idea che tutto potesse finire di lì a poco raggelava gli animi e scuoteva le coscienze: tutte, eccetto quella del grande genera le che, sicuro e fiero, risplendeva come una luce nell’oscurità, un ica stella in mezzo a tenebre infinite.

    Il momento era giunto, lo si aspettava da secoli, ma nessuno pareva ancora preparato fino in fondo a viverlo da protagonista. Le sorti dell’umanità sarebbero state decise in quello scontro. Epico, memorabile, consacrato al coraggio e alla speranza, certo; ma quanta morte e quanto sangue avrebbero dovuto affrontare quegli eroi, affinché il Bene trionfasse sul Male?

    Il generale si spogliò della celata e gettò lo sguardo al cielo terso, rispondendo con un sorriso alla maestosa e abbacinante luminosità del sole.

    Calore e fiducia lo indussero a rivolgersi ai soldati.

    Cavalcò lento lungo la prima linea e sguainò la spada lucente. Il pomolo e la guardia brillaro no sotto gli occhi dei presenti , filtrando i raggi di sole attraverso le pietre preziose incastonate come schegge nel metallo.

    Trasse un grosso respiro ed esordì:

    «Soldati, amici, fratelli miei... So che nei vostri cuori dimorano inquietudine e spavento, ma non disperate! Non sappiamo come andrà a finire. Nessuno di noi può saperlo, nemmeno gli indovini o i saggi più eruditi. Ho addestrato alcuni di voi sin dall’inizio, imparando molto a mia volta dalle vostre qualità; altrettanti ne ho cresciuti come fossero figli miei.»

    Dopo aver fissato gli occhi di alcuni soldati e scosso la testa, continuò.

    «Non nego di esser combattuto tra rabbia e frustrazione: non era certo questo il destino che avevo in serbo per voi; ma nonostante tutto siete qui al mio fianco e pronti a combattere. La vostra lealtà e il vostro coraggio vi fanno onore e oggi sono fiero di stare qui in vostra compagnia, dove tutto, in un modo o nell’altro, dovrà finire. Non posso costringervi ad abbandonare la paura, ma vi esorto a pensare a quanta forza e a quanto amore possiamo attingere. Siamo qui perché crediamo nella luce, perché crediamo nel Bene. Noi non cederemo!»

    L’esercito tremò come un unico corpo, vibrando alle sollecitazioni profonde di quell’orazione, alla maniera del metallo risonante, quando risponde a un intenso stimolo acustico.

    «Lo dobbiamo a noi stessi» riprese il generale , «ai nostri cari, a coloro che hanno creduto nella nostra battaglia, a tutti gli abitanti di questo mondo, che continuano a vivere inseguendo una speranza, e soprattutto a tutti quelli che hanno dato la propria vita per questa missione!»

    Un brivido corse lungo la schiena del paladino, facendogli gelare l’anima. Chiuse gli occhi e strinse l’anello che pendeva da un filo, assicurato intorno all’avambraccio. Dopo qualche attimo di raccoglimento, alzò la mano destra e urlò: «Per voi!»

    Un raggio di luce accecante, che partiva dal suo pugno serrato, sfavillò verso il cielo illuminando i volti dei suoi devoti. Una lacrima gli scivolò sulla guancia, segnandogli il volto come una cicatrice, che mai sarebbe guarita.

    A poco a poco, tutti i soldati alzarono i pugni al cielo e un migliaio di raggi lucenti schiarì la valle silenziosa. Uno spettacolo unico. Mai prima d’allora tanti confratelli si erano riuniti per dare battaglia alle forze oscure.

    Nubi veloci e imponenti apparvero al di là della valle. Nere come la notte e gelide come la morte, cominciarono a offuscare il cielo, facendo sprofondare in un sonno fatale l’intera zona.

    In lontananza si udì il lento e pesante marciare di una rigida moltitudine.

    Regolari e insistenti, quei passi si avvicinavano sempre più, accompagnati dallo spettrale battito cadenzato dei tamburi da guerra. A poco a poco schiere interminabili di ombre coprirono l’orizzonte. Sagome dalla forma umana, che sfumavano piano piano, diventando tutt’uno con l’oscurità sopraggiunta dai cieli.

    In poco tempo il sole fu del tutto eclissato e il calore scomparve, raggelando il sangue dei soldati.

    L’esercito dei non-morti era arrivato sul campo di battaglia. I dannati iniziarono a urlare e ringhiare come bestie affamate e incattivite: era il loro modo di terrorizzare gli avversari.

    Ci fu un attimo di silenzio che sembrò durare un’eternità, poi un lampo improvviso risvegliò le parti in gioco e un tuono rimbombò con una potenza inaudita. Le prime gocce di fredda pioggia rimbalzarono sulle armature dei soldati, generando un tintinnio lugubre, agghiacciante.

    Il generale avanzò una decina di metri, cavalcando da solo verso il nemico.

    La pioggia si tramutò in grandine.

    Tra i nemici spiccava una figura imponente. La testa pressoché calva conservava ai lati due lunghe ciocche di capelli, che si muovevano all’impazzata, assecondando gli scatti nervosi del collo.

    Un fulmine si schiantò a pochi passi dal generale, costringendolo ad abbracciare il collo del suo cavallo, per non essere sbalzato dalla sella.

    Tornato veloce dai soldati, saltò a terra e s’inginocchiò infilandosi un altro anello, collegato all’avambraccio. Un velo invisibile coprì tutti i suoi guerrieri, proteggendoli da grandine e saette.

    Adesso il paladino attendeva i nemici senza fiatare.

    Quando furono abbastanza vicini, poggiò una strana pietra per terra, pronunciò qualcosa tra le labbra e l’erba iniziò a crescere a dismisura: alta e fitta, si avvolgeva su se stessa, intrecciandosi in modo inestricabile. Una barriera spessa e in continua espansione si frappose tra i due schieramenti opposti, occultando i soldati guidati dal generale.

    Un fumo nero e prepotente iniziò presto ad alzarsi dal lato esterno della fortificazione. Le prime truppe oscure saltarono attraverso la muraglia verde squarciandola. Brandivano armi di ogni genere: lance acuminate, asce bipenni, martelli, mazze e spade dalla forma contorta.

    Guardando in faccia il nemico, il generale ordinò la carica dal suo bianco destriero. All’unisono le sue truppe lo seguirono impavide, urlando a squarciagola per liberarsi dalla tensione iniziale. La lama della sua spada, sfavillante di luce, prese a trafiggere i primi nemici.

    Le teste mozzate dei non-morti sfumavano in sublimazione, per poi scomparire, lasciando ricadere sul suolo fangoso solo i resti degli elmi carbonizzati.

    Nessuna pietà o compassione.

    I due fronti si congiunsero in una mischia sempre più articolata. I cadaveri dei soldati aumentavano col passare dei secondi. I loro volti spenti venivano illuminati da lampi di luce, prodotti dalle spade scintillanti, sferrate in attacco alle tenebre combattenti.

    Vista dall’alto la battaglia appariva come una specie di temporale: bagliori esiziali esplodevano a intermittenza nel buio della notte, turbini, schianti e saette vorticavano e si ramificavano tra terra e cielo come scariche elettriche.

    Un gruppo di oscuri assalì il cavallo immacolato e il generale cadde disarcionato. Questi però alzò la spada al cielo, sprigionando una colonna di luce visibile per molte miglia e scagliando un fendente a terra, provocò un’onda d’urto folgorante che incenerì i nemici presenti nel raggio di diverse iarde.

    Tutto tacque per un istante ed egli poté distinguere l’affanno che gli appesantiva il respiro.

    Si tolse l’elmo e lo gettò a terra.

    Tre giganti infuocati, seguiti da una marea nera di nemici, evasero dal muro di fumo: creature enormi, tozze e senza controllo, reggevano alabarde alte quanto gli alberi della foresta. Le loro armi erano fatte di oscurità. Si avventarono tutti assieme sul generale, ma il paladino si librò in aria, lasciandoli immobili e stupefatti.

    Volando, oltrepassò le plumbee nubi e percepì di nuovo la benefica presenza del sole. I raggi potevano riscaldare il suo volto e ristorargli l’animo. Con un gesto delle mani raccolse dietro di sé gocce di pioggia e chicchi di grandine per creare una nobile aquila dalle ali spiegate. Volò in picchiata puntando i giganti di fuoco. La velocità di caduta gli permetteva a stento di tenere aperti gli occhi; la distanza dal bersaglio era sempre minore, l’impatto imminente.

    Un lampo di luce intensa avvolse tutto e tutti.

    Come folgorato dallo smagliante fenomeno luminoso, il ragazzo si svegliò di soprassalto nel cuore della notte. Era tutto sudato e ansimante dalla paura.

    Quando le cose non vanno

    Non era la prima volta che James si svegliava angosciato da strani sogni: visioni oniriche così autentiche, concitate e preoccupanti, da alterare il ritmo cardiaco e togliere il respiro.

    Per calmarsi scese in cucina e prese dal frigo mezzo vuoto una bottiglia d’acqua. Dopo qualche sorso, si diresse in bagno per sciacquarsi la faccia. Riempì il lavandino fino all’orlo e ci ficcò la testa trattenendo il fiato. Alcune ciocche dei lunghi capelli biondo scuro, sfuggite al codino, finirono in acqua insieme al viso. Riemerse di scatto per non bagnarsi il resto della testa e prese a scrutare l’immagine riflessa dallo specchio. Gli occhi azzurro cielo brillavano alla luce opaca dei faretti palesando agitazione e smarrimento.

    Sentì un dolore acuto alla spalla sinistra, la solita sensazione che lo assaliva dopo quel tipo di sogni, insieme a un bruciore improvviso e opprimente, come di un fuoco interno. Proprio non riusciva a spiegarselo quel male, ma non aveva il coraggio di parlarne a un medico. Su internet aveva scoperto che sintomi del genere potevano essere legati a un conflitto subacromiale o a una patologia chiamata fibromialgia; ma informandosi meglio era venuto a sa pere che si trattava di un disturbo prettamente femminile.

    Il battito frenetico del cuore si stava calmando un po’ alla volta, per lasciar spazio a lunghi sospiri di sconforto.

    Tornato in camera e tolta la maglietta sudata, si sedette a terra con la schiena nuda contro il muro, freddo e ruvido. Appoggiò le cuffie sulle orecchie e iniziò a fissare le stelle dalla finestra, mentre le prime note di The Unforgiven III dei Metallica si misero ad accompagnare le sue preoccupazioni.

    Quel buco di camera era il suo piccolo angolo di vita disordinata. Sui muri erano affissi i poster dei suoi gruppi preferiti e, a lato della scrivania piena di libri, giacevano il suo amplificatore e la chitarra. A suonare James non era quello che si dice un portento, ma riusciva a trovare nella musica la forza per affrontare gli ostacoli e i limiti con cui doveva scontrarsi ogni giorno.

    Isolandosi e viaggiando con la fantasia, riusciva a trovare quella serenità e quella gioia che, a detta di molti, avrebbero dovuto caratterizzare il suo essere adolescente. Soprattutto di serenità aveva bisogno, James Biancospino, specie in quell’ultimo periodo. Non pretendeva pace, felicità, o fortuna: voleva solo imparare a godersi i suoi anni e le esperienze della vita senza tanti turbamenti, angosce e paranoie.

    Il mattino seguente aprì gli occhi malvolentieri, allertato da un rumore prima ovattato poi più distinto. Si era svegliato nel letto, ma non ricordava come e quando ci fosse entrato, dopo aver passato quasi tutta la notte in bianco.

    C’era qualcosa di strano.

    Quella che sentiva non era la suoneria della sveglia, con la quale era abituato alzarsi: qualcuno lo stava chiamando al cellulare. Dopo che Always, Wu dei Volbeat terminò di ruggire, comprese il significato di quella chiamata.

    «Merda! Sono in ritardo.»

    Si vestì di fretta e furia con i primi abiti a portata di mano: una felpa rossa e dei jeans non stirati. Prese la tracolla, ci infilò a casaccio un quaderno e due tomi qualsiasi e corse di sotto.

    Nella concitazione dimenticò di chiudere la cerniera della borsa, facendo cadere tutti i libri nel corridoio. Prese al volo qualcosa da mangiare dalla cucina, guardò l’orologio quadrato alla parete e scosse la testa. Forse sarebbe riuscito a entrare prima dello scoccare della seconda ora di lezione. Stava già per sfrecciare in strada con la sua bici, quando si ricordò di non aver chiuso la porta.

    Quella mattina, come tante altre, James era solo in casa. Sua madre, Kathleen, era partita per lavoro. Faceva la hostess e capitava spesso che non tornasse per diversi giorni. James c’era abituato. Da anni aveva imparato a gestirsi da solo, a passare due o tre giorni a settimana senza la madre, ma non per questo poteva dirsi un ragazzo organizzato e ordinato. Ammetteva lui stesso di essere un disastro.

    Il padre, Evert, aveva deciso di abbandonare la famiglia quando James era ancora piccolo. Il ragazzo non sapeva molto sul suo conto: di fatto non sapeva altro che il nome. Quando chiedeva a sua madre qualcosa in merito, riceveva sempre notizie vaghe e vedendo come l’argomento le creasse dolore, col tempo se n’era fatto una ragione e aveva smesso di parlarne. A quanto pare il padre non era pronto a fare il genitore, o non voleva condurre quel genere di vita. Si era dileguato senza fare troppo rumore e da allora aveva evitato con cura di farsi vivo, di dare o di cercare notizie.

    Crescere senza capire perché il proprio papà fosse andato via e perché non si decidesse a tornare non era stata la cosa più semplice del mondo; ma tutto sommato James non aveva molto da recriminare. Con lui c’era la mamma, una donna in gamba che riusciva a colmare ogni mancanza. Il lavoro irregolare di Kathleen era stato un problema, soprattutto nei primi anni, poi tutto era andato più o meno stabilizzandosi.

    Di fatto, il ragazzo era cresciuto con la signora Eloisia, la vicina di casa, che si era presa la briga di badare al bambino, quando la madre era assente. Col passare del tempo i ruoli si erano un po’ invertiti: da qualche anno James aiutava la signora nei lavori di casa che lei non riusciva più a svolgere in modo autonomo. Ed Eloisia, ormai affezionata a lui, lo considerava come un nipote su cui fare affidamento e da cui cercare conforto.

    La sua era una famiglia minima, così aveva imparato a chiamarla, composta solo da lui e la madre. Non aveva fratelli né zii, quindi neanche cugini. I nonni materni erano morti prima che nascesse e quelli paterni viaggiavano per i cavoli loro, un po’ come il padre: nonni inesistenti.

    In fin dei conti, non c’era niente di strano nel non avere parenti: a lui bastava la madre. Ma la cosa, inspiegabilmente, non andava giù a vicini e conoscenti. Ai loro occhi sembrava quasi una colpa non formare una famiglia degna di tal nome.

    E poi c’era dell’altro.

    Quei loro nomi insolitamente stranieri, per esempio.

    Un giorno, quand’era ancora piccolo, James ne aveva chiesto spiegazione alla madre.

    «Perché vuoi saperlo?» aveva tagliato corto lei con il suo solito radioso sorriso. «Cos’hanno i nomi Kathleen e James che non va? Non ti piacciono?» e la cosa era finita lì.

    Il loro modo di vivere era comunque visto con sospetto dalla gente del paese, forse perché lontano dagli stereotipi e dalla normalità, alla quale erano assuefatti da generazioni. Per molti anni, prima che l’abitudine intervenisse a smussare la diffidenza, lui e la mamma erano stati giudicati con sufficienza e astio dalla maggior parte della gente del quartiere. Nel concreto, gli unici ad andare al di là delle apparenze e dei soliti pregiudizi erano stati Eloisia e suo marito.

    James viveva in una casa arancione a due piani, a pochi passi dalle antiche mura che un tempo avevano segnato il confine di Cividale del Friuli. Si trattava di una zona tranquilla, abitata in prevalenza da anziani, aspetto questo che lo penalizzava, specie in termini musicali: ogni volta che alzava il volume delle casse o del suo amplificatore i vicini storcevano il naso o protestavano.

    Anche quella mattina, appena messo piede fuori casa, dovette affrontare lo sguardo di rimprovero di una vicina, inviperita per il rumore patito il pomeriggio del giorno precedente.

    Cercò di non farci caso. Uscì, chiuse la porta a doppia mandata e, accarezzato il suo cagnolone Brewal, un golden retriever color miele di due anni, montò in bici, pedalando più in fretta possibile. Quel giorno infatti doveva sostenere un’importante verifica di matematica, determinante in vista della valutazione finale del primo quadrimestre.

    Non era uno studente ritardatario, né particolarmente svogliato; ma dall’inizio di quell’anno scolastico qualcosa era cambiato, e tutti lo avevano notato, dai professori ai compagni di classe. La stanchezza, i dubbi e quegli incubi che non davano tregua: ce l’aveva scritto in fronte che qualcosa gli andava storto e non riusciva più a concentrarsi o applicarsi negli studi.

    I suoi amici avevano preso a evitarlo di proposito.

    Era visto come un tipo bizzarro, solitario, dal quale era meglio tenersi distanti. Noncurante di ciò, James si sforzava di mantenere un comportamento normale, pacifico, cercando di non lasciarsi risucchiare dall’angoscia derivante dal senso di solitudine e dalle sue sfiancanti esperienze notturne.

    Dopo essere stato quasi investito da un’auto per non aver rispettato un semaforo e aver subito epiteti irripetibili, James arrivò a scuola. Legò la bici alla sbarra e bruciò le scale in quattro disperati salti.

    A pochi metri dalla porta dell’aula rallentò l’andatura e percepito l’assoluto silenzio proveniente dalla stanza, intuì la tesissima atmosfera da compito in classe. Mentre accompagnava la maniglia con un respiro affannoso disse: «Buongiorno professoressa, scusi il ritardo: sono stato trattenuto da cause di forza maggiore.»

    «Cause di forza maggiore?» replicò l’insegnante fissandolo con occhi inquisitori. «Non me ne faccio niente delle sue stupide scuse, Biancospino! Il compito lo farà lo stesso, nell’ora che le rimane. Su, si sieda in prima fila e inizi a lavorare: s a bene quanto questo peserà sulla sua valutazione finale. Veda almeno di non combinare altri disastri. Ora silenzio e non disturbi i compagni! La tengo d’occhio.»

    James Biancospino non rientrava certo nelle grazie della professoressa Pontiani. Aveva provato a sorriderle, in passato, a dimostrarsi serio e impassibile, ad assumere atteggiamenti reattivi e in seguito arrendevoli, ma niente: qualsiasi cosa lui facesse, a lei non andava bene. E anche quel giorno sentì lo sguardo della prof pesare come un macigno sulla sua testa per tutto il resto del tempo.

    Il suono della campanella fu un sollievo per gran parte degli alunni. Chi aveva già consegnato, perché troppo bravo, oppure consapevole della propria ignoranza, poteva finalmente lasciare l’aula. Chi era ancora in alto mare, come James, poteva sfruttare la concitazione della fine della lezione e quei preziosi attimi di anarchia generale per copiare, rubare un suggerimento volante o sperare nell’ispirazione provvidenziale.

    In ogni caso James sapeva bene come sarebbe andata a finire. Poteva dar colpa all’infelice nottata, al ritardo, alle pressioni psicologiche dell’insegnante; ma sotto sotto sapeva di non aver studiato abbastanza. Con ogni probabilità avrebbe rimediato l’ennesima insufficienza e quindi l’obbligo di seguire i noiosissimi corsi di recupero a fine quadrimestre.

    Beh, quell’anno le cose proprio non giravano per il verso giusto. Una serie di eventi sfavorevoli lo aveva penalizzato e continuava a tormentarlo senza un minimo di pietà. E per di più quegli strani sogni tornavano a cadenze sempre più serrate, mettendo a dura prova la sua resistenza.

    Da quando aveva iniziato a sognare cruente battaglie lontane e a sentire fastidiosi bruciori alla spalla sinistra? Mesi. Doveva esserci per forza qualche spiegazione razionale, un nesso causale. Ci pensava e ripensava, eppure nulla di strano gli era capitato nell’ultimo periodo per giustificare quelle inspiegabili situazioni.

    Rapito dalle proprie ambasce, il ragazzo si trascinò con lo sguardo basso fino al distributore di snack e bevande in corridoio. I soldi in tasca gli permettevano di selezionare solo e sempre un caffè.

    Una manata lo sorprese alle spalle.

    «Allora com’è andata?» chiese Andrea, suo compagno di banco.

    «Insomma...» sospirò James, mentre recuperava il bicchierino dalla bocca unta della macchina.

    «Dove cazzo eri finito? Ho provato a chiamarti per salvarti il culo, ma manco mi rispondi!»

    «Lascia stare, va’. Non ho sentito la sveglia. Non ho dormito niente stanotte.»

    «Infatti si vede. Hai la faccia ancora sbattuta.»

    «Sto sotto un treno, in effetti; ’sto compito proprio non ci voleva.»

    «Ma sei riuscito comunque a combinar qualcosa?»

    «Poco e niente. Ho cannato di brutto. Avrò buca in mate, lo do per assodato. Tu, invece?»

    «Da dio! Ho risolto la derivata del primo esercizio e zero altro. Sfiga! Vorrà dire che ci ciucceremo insieme ’sto recupero. La prof mi odia, e mica poco» sibilò Andrea. «Mai quanto odia te, sia chiaro! L’hai fatta proprio incazzare oggi.»

    «Mica lo faccio apposta!» chiarì James bevendo il caffè dal sapore bruciato. «È che ’sto periodo: mi va tutto storto. Per fortuna è l’ultima settimana. Non ne posso più. Viva le vacanze di Natale!»

    «A proposito di vacanze, cosa fai per Capodanno? Vieni anche tu alla festa? Ci sarà un botto di gente, da come dicono, e tante ragazze!»

    «La festa? Non son stato neppure invitato…»

    «E che cazzo c’entra? Ti imbuchi, come fa la maggior parte. Oh, è una festa, mica un’esecuzione! Poi lo sai, il bacio di Capodanno è un must a cui non ci si può sottrarre, e poi se ti va bene, si scopa anche. E se da cosa nasce cosa…» esclamò Andrea tirando un pugno fraterno sulla spalla dell’amico.

    James accartocciò il bicchiere di plastica e lo lanciò in direzione del cestino della spazzatura. Fece quasi centro.

    «Non lo so, devo ancora vedere» spiegò abbassandosi per recuperare lo scarto e archiviarlo con maggior cura tra i rifiuti. «Boh, se proprio riesco faccio un salto. Non so a che ora, però. Ma, sì, dovrei riuscire a venire, dai. E poi è inutile che mi guardi con quella faccia da fesso. Non penso sia proprio il momento giusto per incasinarmi con una ragazza. Ci manca solo quella e poi sì che son finito!»

    «Il problema è che tu pensi troppo, James. Basta lagne! Ecco, te l’ho detto: ti fai sempre mille fisse che t’incasinano e basta. Divertiti, lasciati andare ogni tanto: sei sempre sulle tue! Che poi, l’ho capito sai, è tutto un tuo stratagemma del cazzo per fare colpo. Alle donne piacciono i misteriosi.»

    «E tu non pensi affatto, ecco perché non arrivi a farti mai nessuna» chiosò divertito l’altro.

    «Meglio rientrare, su; il quarto d’ora d’aria è già finito! Non mi ricordo, cosa abbiamo adesso?»

    «Storia?»

    «Storia. Ah, mi sa che dormirò, non lo reggo proprio quello» rispose Andrea con un gran sbadiglio.

    Mentre rientrava lentamente in aula, James vide due ragazzi di quarta parlare con Alessia, la sua compagna di classe. Rideva divertita, sembrava assai coinvolta da quanto le stavano raccontando.

    Conosceva Alessia da tanto tempo, ma non aveva mai trovato il coraggio di rivolgerle la parola. Non sapeva proprio cosa dirle e ogni volta che le era vicino andava in panico. Abbassò lo sguardo e tirò dritto.

    S’interrogò ancora sugli incubi notturni. Magari erano un messaggio inconscio della mente. O probabilmente doveva solo smetterla di leggere romanzi fantasy e bere caffè. Eppure quelle immagini sembravano così vivide, dettagliate. Un’ambigua sensazione che non sapeva spiegarsi.

    Il compito di matematica aveva stravolto tutti.

    Mentre il professore spiegava alcune tattiche militari utilizzate dagli americani durante la seconda guerra mondiale, quasi la totalità della classe era assorta nei propri pensieri o stava facendo finta di seguire.

    James fissava la pagina del libro, annuiva meccanicamente a intervalli regolari e intanto scarabocchiava con la matita per fingere di prendere appunti. Per mimare con maggiore verosimiglianza l’attività di scrittura prese a fissare sul foglio i nomi dei suoi gruppi musicali preferiti, poi si lasciò andare a stralci diaristici e a improbabili tesi psicologiche sulla propria condizione.

    Sogni. Inconscio. Malessere. Quale legame? La mente rivive e ricombina in maniera originale frammenti di realtà che mi hanno colpito o inquietato. Possibile si tratti di qualche battaglia passata? Magari l’ho vista in TV, in qualche film, o chissà dove, e mi è entrata in testa con prepotenza, senza voler più uscirne. Non ricordo però di aver mai visto né sentito parlare di nulla di simile. E poi perché quegli stramaledetti dolori alla spalla? Sono solo una coincidenza?

    Terminato il calvario scolastico, poté infine tornare a casa per riposare. Non si reggeva in piedi dalla stanchezza, tanto che il tragitto di ritorno lo fece portando a mano la sua vecchia e malandata bici.

    Appena svoltato nella sua via, vide Brewal scodinzolare di gioia, ritto sul portone d’ingresso. Era così bello sentirlo felice, sapere che c’era chi non aspettava altro che lui, senza volerlo giudicare o criticare. Tutte le preoccupazioni per un attimo sembrarono come svanite.

    In fin dei conti è proprio vero che il cane è il miglior amico dell’uom o, pensò.

    Dopo aver messo via la bicicletta, James notò però il disastro combinato dall’animale: due enormi buche e alcuni vasi rotti in giardino.

    «Grazie, Brewal, spero ti sia almeno divertito. Mi fai solo lavorare! Fammi entrare, sono stanco. Seduto! Seduto, Brewal!» ordinò al cane col naso sporco di terra. Offrì un biscotto al cagnone e lo carezzò sulla testa. Poi entrò in casa e crollò sul divano, sospirando rumorosamente.

    «James, sei tornato! Giornata pesante, tesoro mio? Ehi, ma cos’è quella brutta faccia?»

    Sua madre era rientrata prima del previsto e James non se lo aspettava.

    «Sì, giornataccia, non ne parliamo... Come mai già a casa? Non dovevi tornare domani?»

    «Non fare salti di gioia, eh! Volo sospeso per problemi meccanici. Sono tornata perché non potevo far altro» rispose sorridendo. «È andata male la verifica? Eh, me lo aspettavo, mica mi sorprendi! Per quello sei col morale a terra? Non rispondi? Dai, in ogni caso hai la possibilità di recuperare: non è la fine del mondo un brutto voto. So che puoi farcela senza problemi e lo sai anche tu!»

    James avrebbe voluto raccontare tutta la verità, ma non si sentiva pronto e si limitò a poche parole: «Sì, posso

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