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Il fuoco del ricordo
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Il fuoco del ricordo

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About this ebook

Un libro ricco, come la vita dell’autore che, raccontando la sua esperienza, ci mette di fronte ad una grande varietà di realtà, tutte diverse e con le proprie peculiarità. Una grande storia d’amore, nata grazie alla perseveranza di Umberto, che non si arrende all’iniziale indifferenza dell’interessata, Paola. Il lavoro lo porta in giro in tutto il mondo, e la famiglia viaggia con lui, superando le tante difficoltà che si incontrano quando ci si inserisce in contesti diversi dal proprio. Marchetti descrive ogni luogo, ogni cultura catturandone sia gli aspetti positivi che negativi. Nelle pagine scorrono tanti ricordi: il calore della terra africana, le farfalle del Camerun, il sole, il mare dei Caraibi, ma anche le cavallette, la malaria e poi ancora gli amici incontrati durante il percorso e le tante cene nelle ville residenziali, con le abbuffate di pesce fresco... Una vita avventurosa, un lavoro bello ma difficile, che ha permesso all’autore di vivere altri popoli, altre città e non solo di conoscere. Un’appendice ricca di elementi storici su nazioni, città e popolazioni, oltre ai suoi fatti personali e alle considerazioni sulla sua ritrovata città natale, al suo rientro, Napoli.

Umberto Marchetti nacque il 28 ottobre del 1934 a Napoli. Si laureò in Sociologia presso la Facoltà di Magistero, Università degli Studi di Salerno. Lavorò in giro per tutto il mondo. Si è spento nella sua città il 25 settembre 2015.
LanguageItaliano
Release dateNov 18, 2018
ISBN9788856795653
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    Il fuoco del ricordo - Umberto Marchetti

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-567-9565-3

    II edizione luglio 2018

    www.gruppoalbatros.com

    Libri in uscita, interviste, reading ed eventi.

    Il fuoco del ricordo

    Il Ritorno a Napoli

    L’aereo iniziò la discesa verso l’aeroporto di Napoli.

    Si intravedeva l’isola di Ischia e le colline dei Campi Flegrei. Ora la città appariva ai piedi del Vesuvio, dove l’aereo avrebbe virato trovandosi pronto per la procedura d’atterraggio.

    Il cielo presentava quel grigiore tipico delle aree inquinate, come oramai si incontra su quasi tutte le città industrializzate. L’atterraggio avvenne senza difficoltà per l’assenza di vento e, dopo la lunga attesa in sala arrivi, ci fu riconsegnato il bagaglio. Avevo mantenuto durante il mio periodo di assenza dalla città amichevoli contatti con un mio compagno di studi, Antonio, che fu molto contento della notizia del mio ritorno a Napoli dopo tanti anni. Con il mio amico decidemmo di incontrarci per parlare dei vecchi tempi, dei nostri amici, dei tanti cambiamenti intervenuti in città. E così, dopo un paio di giorni, decidemmo di prendere un caffè insieme, in uno dei bar di piazza San Pasquale – uno di quei locali dove l’espresso è sempre così buono!

    Antonio conosceva Napoli nei suoi molteplici aspetti e aveva assistito ai più profondi scempi avvenuti nell’indifferenza generale: nuove proprietà senza concessioni venute fuori come i funghi, insediamenti di famiglie poco abbienti nei siti storici, chiese saccheggiate con l’asportazione di intere opere marmoree. Tutto con la complicità di famiglie benestanti, pronte a pagare il prezzo pur di avere il piano di cristallo del proprio salotto poggiato su due capitelli di epoca romana...

    Antonio era rimasto a Napoli, a godersi l’aria di mare che si respirava dalla sua casa alla Riviera di Chiaia e che gli faceva dimenticare le migliori condizioni di lavoro esistenti sul mercato del Nord Italia. La caponata di Santa Lucia, la frittura di paranza, il polpo alla Luciana, i bei capelli neri fin sulle spalle delle donne napoletane avevano tracciato nel suo cuore una diretta dipendenza da tutto quel piacere.

    Lui amava sostare accanto al mare e ascoltare la musica delle onde che si infrangevano dolcemente sulle rocce, chiudere gli occhi e sognare.

    Antonio non riusciva a capire il mio modo di vivere, lontano, tra altra gente, diversa per tradizioni, lingua e religione.

    Io non riuscivo a capire il suo volere di stare lontano da altre realtà, di non esplorare altri mondi, di non vivere intensamente altri tramonti, dipinti con un rosso più intenso, di non farsi sferzare il volto dai venti caldi che smuovono le dorate dune del deserto.

    Nonostante i nostri punti di vista così diversi, nutrivamo un sincero senso di amicizia l’un per l’altro e per me sarebbe stata un’esperienza piacevolissima essere guidato da un amico amante della propria città e della sua arte.

    Soddisfatti del nostro espresso ci incamminammo lentamente per la nostra passeggiata, superando il liceo Umberto e inoltrandoci tra gli stretti vicoli che tagliano gli edifici che sorgono alle spalle del palazzo Torella di Caracciolo.

    Al pianoterra dei palazzi che tolgono aria e sole agli abitanti dei vicoli vengono ricavati angusti locali destinati come abitazioni alle povere famiglie. Questi monolocali, chiamati bassi, non usufruiscono di finestre e al loro interno viene ricavata una cucina e un bagno. Al centro, quasi sempre, c’è un grosso letto per accogliere a sera l’intera famiglia.

    Il basso è un alloggio tipico della città di Napoli e la sua superficie è della grandezza di un garage medio.

    Percorrendo i vicoli notavamo i tanti cambiamenti: in quasi tutti i bassi non alloggiavano più famiglie con tanti bambini, ma boutique, bar, ristoranti e tante altre attività commerciali. Antonio mi spiegava che il Comune aveva incentivato sia il trasloco delle famiglie verso sistemazioni più salubri, sia la destinazione dei locali da civile abitazione ad attività commerciale.

    In uno dei vicoli notammo che erano rimasti solo sue bassi. Tra tanti negozi pieni di luci, belle commesse e merce di buon gusto, erano rimaste le due abitazioni, con gli inquilini quasi a sfidare i vari gruppi interessati ad entrare in possesso della proprietà. La curiosità era molta e io mi stavo avvicinando, per vedere chi ci fosse rimasto ad abitare in quella casa. Appena lì vicino fui attratto da una mattonella di ceramica, di quelle che si pongono sulle entrate delle case e che portano sempre delle frasi ben auguranti. Vi era scritto: Fatevi i cazzi vostri. Mi fermai divertito e vidi dal fondo del basso muoversi una figura femminile, che avanzava a fatica verso di noi. Era una vecchietta malandata, i capelli bianchi, le rughe profonde come i solchi della terra, la bocca molle che non riusciva a trattenere due lunghi denti oscillanti, che sembravano volerla abbandonare. Gli occhi sprizzavano odio e angoscia. Nel vederci sostare di fronte alla propria dimora forse l’anziana signora aveva creduto che fossimo emissari dei gruppi interessati a sfrattarla. Gli occhi sprigionavano timore e dolore per quella fine che, probabilmente, tentava di rimandare. Si avvicinò a noi e iniziò a inviarci suoni e frasi in un dialetto così stretto che non riuscivamo a comprendere le sue parole.

    Ma i suoi occhi, il dolore della sua espressione, l’allarme e il terrore di una fine incombente mi ricordarono qualcosa, mi ricordarono due occhi pieni di paura, mi ricordavano dell’attimo già vissuto, di quello sguardo già visto.

    Mi ricordai di essermi già incontrato, in Nigeria, tanti anni prima, con due occhi tanto spaventati, che volevano sfuggire alle sofferenze e alla morte incombente. In un paese lontano quegli occhi mi avevano lasciato un’immagine indelebile del dolore, portato dagli uomini contro altri uomini, da quelli che avevano risvegliato in loro tutte le ragioni del proprio odio e ora ne davano libero sfogo, forti del numero che ne sanciva la superiorità...

    Quegli occhi appartenevano a un giovane di etnia Igbo che era stato individuato forse come venditore nel mercato e, per la sola colpa di appartenere a quella razza, condannato, sul posto, a morte, dalla folla non amica. Il ragazzo, con salti felini, cercava di sfuggire alla massa inferocita e a volte divertita che, armata di arbusti che fendevano l’aria come frustini, gli precludeva ogni via di scampo.

    Io e mia moglie eravamo in un mercato locale appena fuori Lagos, alla ricerca di manufatti artigianali prodotti localmente e ci eravamo fermati accanto a un banchetto che teneva in bella mostra i tessuti locali, quelli a sfondo blu denso che apparivano pieni di quel colore smagliante del West Africa. Il banchetto, dove erano state poste le stoffe in vendita, era costituito da pochi assi che sembravano voler cedere in ogni momento. Noi non comprendevamo la ragione di quel trambusto, e io, che non volevo trovarmi coinvolto in disordini dove la massa agisce senza controllo, cinsi mia moglie con il braccio e mi guardai intorno per capire quale fosse il cammino più sicuro, per tirarci fuori da quella situazione. In un attimo, mentre mi guardavo in giro, il giovanotto, con salti felini, si liberò dalla stretta della folla e, saltando a zig-zag, raggiunse il banchetto presso il quale stavamo ancora sostando, infilandosi sotto le poche assi che reggevano le confezioni di stoffa.

    Tutti si scagliarono al suo inseguimento e ben presto noi fummo circondati da quella folla inferocita, che ora ballava e cantava mentre il cerchio si faceva più stretto e minaccioso. Attraverso le assi del banchetto vidi due occhi imploranti, che chiedevano di sfuggire a quella morte dolorosa, che uomini e donne stavano preparando, un’espressione che scavò nel mio cuore il ricordo di quella tragedia. Io guardavo fisso negli occhi il ragazzo, che ora cercava aiuto da me e pietà dai suoi inseguitori. Mia moglie si serrò a me; capii che lei voleva che facessi qualcosa per salvare la povera vittima. Ma durante la guerra civile che si era scatenata in Nigeria, i casi di violenza tra le etnie si contavano a centinaia. I bianchi ne erano esclusi e non volevo certo essere il primo coinvolto in una guerra che non mi apparteneva. Strinsi il braccio di mia moglie così forte da farle capire che non vi era tempo per pensare agli altri e la sospinsi verso la via che pensavo fosse la meno pericolosa per il nostro rientro. Appena fuori dall’area del mercato sentimmo le feroci urla della massa che si impossessava di quell’essere umano, che avrebbe seviziato fino alla morte.

    Io e mia moglie raggiungemmo la vettura e notammo che accanto a essa non vi era nessuno. Tutti erano accorsi a godersi lo spettacolo della fine di quel povero sciagurato.

    Dopo qualche giorno dal mio arrivo in Nigeria era esplosa la guerra civile, che portava morte e distruzione tra le tre principali etnie: al Nord gli Hausa di religione musulmana; al Sud gli Yoruba, metà musulmani e metà cristiani; a Oriente gli Igbo, cattolici ed evangelici. Questi ultimi, che vivevano nell’Est del paese, ricco di petrolio, stanchi di vedersi portar via quel tesoro dal loro territorio senza ricevere in cambio nessun beneficio, dichiararono nel maggio del 1967 l’indipendenza della Repubblica del Biafra. La conseguenza fu l’esplosione di una guerra civile, con violenze e stragi.

    Nel paese gli Igbo avevano mostrato una forte capacità imprenditoriale, acquisendo posizioni di prestigio. Però questo aveva scatenato contro di loro l’ira delle altre etnie, che avevano iniziato una vera e propria persecuzione verso questi cittadini, i quali ora subivano ogni tipo di violenza, fino alla morte. Alcuni di loro furono prelevati dalle case degli europei dove prestavano servizio come camerieri o addetti alla cucina, trascinati nei giardini e letteralmente fatti a pezzi. Questi episodi generarono la fuga degli Igbo dalle città. Si rifugiarono nella Repubblica del Biafra, da poco nata, dove organizzarono la resistenza contro le forze armate del Governo Federale.

    A Napoli, prima della mia partenza per Lagos, avevo avuto occasione di incontrare molte persone che operavano nell’attività turistica e con loro mi potevo considerare fortunato, perché si presentavano numerose occasioni per visitare paesi lontani. Al ritorno dai viaggi si restava per qualche tempo a ricordare i momenti belli dell’esperienza appena vissuta e nel contempo a rallegrarci nell’attesa della prossima partenza. Fra di noi esisteva un proficuo scambio di informazioni circa la stagione migliore per effettuare una visita, il tipo di valuta da portare con sé, vaccinazioni da effettuare e una vasta gamma di suggerimenti per agevolare il viaggio ed evitare gli imprevisti, una volta giunti a destinazione. Fu così che, ascoltando una descrizione del paese appena visitato, incontrai la mia attuale moglie, Paola, al suo rientro da un viaggio in Kenia.

    Avevo appena visitato il Sud Africa e anche io avevo tanto da raccontare e molti dettagli da fornire. Il Sud Africa mi era apparso un paese felice, abitato solo da bianchi, e, durante la mia veloce visita turistica, non avevo realizzato quante sofferenze vi erano nascoste dietro quelle bidonvilles, dove a sera era vietato agli abitanti di uscirne, e durante le ventiquattro ore era vietato ai bianchi di entrare.

    In seguito rimasi in Sud Africa più di otto anni e, durante la lunga permanenza, tutte le amare contraddizioni finirono per ardere sulla mia pelle.

    Ci incontrammo per prendere una bevanda insieme, in un caffè della zona, e Paola subito mi trasmise con entusiasmo le notizie valide per il viaggio in Kenia.

    Ma il suo racconto non si arrestò a questo: ora mi trascinava nella descrizione dei paesaggi, nei colori della savana, negli incontri con le popolazioni locali, nella scoperta di bellissimi animali. Arricchiva le sue narrazioni con enfasi, dicendomi delle visite nei parchi pieni di animali selvatici, liberi di circolare senza il timore di sentire tuonare qualche grosso calibro da caccia, la scoperta di terre libere con fiumi e fiori, godute da tutti, uomini ed animali.

    Il suo animo era stato imprigionato da quella realtà e nel suo cuore era rimasto un pezzo di quella terra che aveva visitato. Ascoltavo le sue impressioni e la fissavo per scovare l’immagine di un paesaggio rimasto prigioniero nel verde dei suoi occhi. Sembrava una creatura nata per appartenere a quegli elementi naturali che rendono bello il pianeta che ci dà vita. La sua persona emanava una magica attrazione che mi spingeva verso di lei e la mia follia mi diceva che con lei avrei diviso la mia vita e condiviso il mio futuro.

    Il racconto terminò e ci salutammo. Ancora non capivo cosa significasse il fuoco che in pochi minuti mi aveva avvolto. Sentivo di doverla prendere e fuggire con lei, non conoscevo nulla di Paola eppure la sentivo già sangue del mio sangue, desideravo sentirla stringere le sue braccia al mio collo e tenerla a me avvinta, per sempre. Sognavo con lei una vita diversa, piena di avventure, alla scoperta di nuove realtà.

    Ero giunto a casa; mi accorsi che la mia immagine mi appariva allo specchio diversa e smarrita, volevo qualcosa che desideravo e che non potevo avere.

    La testa non mi assecondava più. Poi, tra questi scossoni che mi annullavano, mi ricordai dei problemi che avevo lasciato in ufficio e il lavoro che mi attendeva l’indomani. Lasciai i sogni e cercai di dormire.

    Il giorno seguente in ufficio ero profondamente turbato. Non mi era mai accaduto prima di essere tanto coinvolto dalle descrizioni di un viaggio. L’immagine di Paola ora mi assillava. Con la sua grazia e la sua narrazione aveva dilatato i contorni dei ricordi della sua visita e mi aveva coinvolto come attore sulla scena della sua esistenza. E mi allarmavo di quello che stava avvenendo in me: mi sentivo ora pronto a chiederle di diventare la compagna della mia vita, però, prima di inseguire questo sogno in maniera così bruciante, decisi di andare a parlarle e sincerarmi dello spessore dei miei sentimenti. Il resto della giornata fu lento e noioso e ad orario di chiusura degli uffici, Paola mi trovò ad attenderla all’uscita dal lavoro. Purtroppo le difficoltà dell’attività giornaliera avevano scacciato la possibilità di argomentare su tramonti e chiari di luna, in modo frettoloso giungemmo a casa sua. Fu sotto la sua porta che, sbagliando luogo, momento e tempismo, le dissi:

    «Cara Paola, sento che tu diventerai mia moglie. Ora si è fatto tardi e devi andare a riposare. Ti auguro adesso la buona notte. Riprenderemo questo discorso domani».

    Quel domani non giunse mai. Tutte le mie telefonate, i tentativi di incontrarla andarono a vuoto; questo per mesi.

    Io non rinunziavo, ma lei non mi rispondeva. Le nostre strade ci portavano verso direzioni diverse e i contatti di lavoro che ci obbligavano a comunicare erano ora inesistenti. Gli insuccessi si susseguivano e, nonostante questi risultati, non abbandonavo l’idea di costruire una famiglia con chi, in così breve tempo, mi aveva stregato.

    Oramai era a conoscenza di tutti la mia sofferenza d’amore, che non aveva mancato di sollevare molte perplessità.

    Nella mia famiglia ero guardato con occhio di commiserazione e tutti attendevano di ascoltare la fine di questa storia, di un amore mancato.

    La Compagnia per la quale lavoravo operava su moltissimi mercati esteri. Tra questi non mancavano paesi con guerre, rivoluzioni e conflitti di ogni genere. Naturalmente il servizio doveva essere assicurato e per far ciò si aveva bisogno di uomini. Un giorno non atteso mi pervenne la convocazione. Destinazione, Lagos. Mi recai ad ascoltare le condizioni offertemi e la zona mi fu descritta come una specie di Costa Azzurra africana. Conoscevo quanto stesse accadendo nel paese ma, al momento, non avevo altra scelta e accettai.

    Il West Africa è così diverso dall’Est Africa. Nella regione orientale il clima è più dolce e le condizioni di vita migliori; in Africa occidentale il clima è molto diverso e le malattie tropicali colpiscono i bianchi con violente febbri.

    Alla notizia del mio trasferimento, la prima persona a congratularsi con me fu Paola, che naturalmente mal celava la sua soddisfazione di vedermi lasciare Napoli per una destinazione lontana e con scarsi collegamenti con l’Italia.

    Il mio trasferimento significava per lei la fine di una storia d’amore, nata e sviluppatasi senza il suo interesse.

    Quindi l’epilogo era la naturale conclusione di una storia assurda. Ora poteva incontrarmi con gli amici e augurarmi, anche lei, buona fortuna. Avevo tanto bisogno del suo augurio, e la lasciai promettendole che sarei tornato a prenderla per condurla con me.

    Il tempo per i saluti agli amici era molto poco e terminate le formalità giunse il giorno della partenza.

    In aereo lasciammo l’azzurro del Mediterraneo e ci inoltrammo in territorio africano. A mano a mano che ci avvicinavamo ai Tropici, lo spessore delle nuvole diveniva più consistente. Poi giunse il tramonto e quindi iniziammo a navigare nel buio della notte. Per le alte escursioni termiche, le compagnie aeree preferivano pianificare l’arrivo dei loro velivoli durante le ore fresche della notte: ciò per evitare che il carrello finisse prigioniero dell’asfalto della pista, liquefattosi durante le ore calde del giorno.

    L’aereo, nell’avvicinarsi alla città, si era abbassato di quota e, anche se di notte è difficile fendere l’oscurità, si riusciva comunque a distinguere le fiammelle delle lampade a olio che illuminavano scarsamente le capanne, costruite con le lamiere ricavate dai bidoni metallici utilizzati per il trasporto del petrolio. Le bidonvilles si estendevano per chilometri, accogliendo le migliaia di persone che lasciavano i piccoli villaggi nella foresta e cercavano in città migliori condizioni di vita, offerte dalla richiesta di mano d’opera.

    L’aereo toccò terra senza difficoltà, girò a fondo pista e si diresse verso l’aerostazione che apparve in tutto il suo triste squallore: scendemmo e ci dirigemmo verso l’entrata per superare il controllo da parte di soldati dell’esercito, di funzionari della polizia e di ispettori della dogana: tanti controlli significavano anche tante mance. L’autista inviato in aeroporto per accogliermi era già intervenuto, come consuetudine, sugli uomini preposti ai controlli e quindi il transito fu molto facilitato. Così superai i controlli tra smaglianti sorrisi, caldi saluti e ogni altra forma di benvenuto. Ritirai i miei bagagli e mi incamminai con l’autista verso la vettura che ci attendeva al parcheggio.

    Il percorso dall’aeroporto alla città si svolse su chilometri di strade fiancheggiate da povere case, illuminate scarsamente: quasi tutte disponevano di un banchetto di vendita sul quale faceva bella mostra qualcosa da vendere: arance già sbucciate, qualche banana e delle patate. Quella desolazione stringeva il cuore e faceva nascere l’inquietante interrogativo:

    Dove finivano tutte le ricchezze prodotte dal petrolio? Come potevano esistere baraccopoli che offrivano riparo a migliaia di persone che vivevano senza alcuna igiene, senza assistenza medica, alcuni senza neppure conoscere la loro data di nascita?.

    Ora stavamo entrando in città, la cui atmosfera lugubre stringeva il cuore: costruita quasi interamente da italiani su progetti inglesi, era un cozzo tra l’edilizia Nord europea e il clima tropicale. Tutti gli edifici mostravano un solo tipo di finestra e quasi tutti i locali degli edifici apparivano arredati da un solo tipo di mobilia, questo perché un importante gruppo italiano vendeva gli immobili chiavi in mano, arredati con mobilio prodotto dalle stesse fabbriche e con identiche caratteristiche. In effetti alle multinazionali presenti nel paese non importava nulla dell’immagine: erano presenti lì per arricchirsi, il resto importava poco.

    Per raggiungere la nostra residenza bisognava attraversare tutta la città ed io fremevo di trovarmi nel quartiere residenziale, pensando sempre che la donna che amavo avrebbe accettato di divenire mia moglie se le avessi assicurato una tranquilla dimora, per superare tutto il primo periodo del matrimonio senza grossi sconvolgimenti.

    Finalmente arrivammo al piccolo ponte di Ikoyi e ci trovammo sull’isola. Era questa una parte della città che offriva qualcosa del vecchio stile coloniale tanto amato dagli inglesi: qualche club esclusivo, i campi da tennis, le residenze degli ambasciatori e dei manager delle più importanti compagnie che operavano nel paese. Più avanti si trovava il palazzo del Presidente, rappresentanze diplomatiche, ONU e tante altre unità.

    Mi spiegava l’autista, durante il percorso, che tutte quelle grandi ville disponevano di guardiani appartenenti alla etnia Hausa. Provenivano dal Nord del paese ed erano di religione musulmana. Il loro armamento si componeva di un pugnale, di un arco e di quattro frecce di differenti misure. I guardiani ci tenevano a illustrare al visitatore queste caratteristiche perché la freccia più corta si doveva utilizzare in incontri ravvicinati, come fosse stata una calibro 38 a canna corta, poi a mano a mano le più lunghe fino alla quarta per colpire un ladro in fuga. Questi guardiani, conosciuti per la loro ferocia, trascorrevano la notte distesi davanti all’uscio così da impedire il furto a coloro che, aggirando l’immobile, entravano in casa per la porta posteriore. I ladri usavano spalmare il loro corpo con olio e questo per liberarsi dalle eventuali prese di chi voleva fermarli, ma, se sorpresi a rubare, dovevano sfuggire ai guardiani che si chiudevano a cerchio e scagliavano su di loro le frecce più lunghe e pericolose. Questo sistema, delle due file umane che si stringono sul ladruncolo, era utilizzato anche per punire i borseggiatori sorpresi sui mezzi pubblici. Infatti, quando il delinquente veniva identificato come autore di un borseggio, tutti i viaggiatori scendevano dal mezzo e si disponevano su due file, per ultimo costringevano a scendere il colpevole, che doveva transitare tra le due file di passeggeri inferociti che ad ogni passo gli infliggevano botte e punizioni, colpendolo con pugni e calci e con qualsiasi oggetto di cui disponessero. Alla fine del percorso il ladruncolo appariva lacero e sanguinante, anche se certamente contento di uscire vivo da quella lezione. Così discutendo arrivammo all’Akintola Building, dove la nostra Compagnia aveva alloggiato i propri dipendenti: incontrai allora i miei colleghi già residenti lì da tempo; il nostro incontro fu caldo e cordiale. Restammo a conversare qualche minuto davanti ad un drink che la padrona di casa ci aveva preparato, poi ci salutammo e ognuno proseguì per il proprio appartamento. Sull’uscio del mio alloggio trovai ad attendermi il boy che mi diede il benvenuto, mi disse il suo nome e mi chiese se avessi bisogno di qualcosa. Al mio diniego mi salutò con rispetto per ritirarsi al proprio boy’s quarter, l’alloggio per la servitù che sorgeva

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