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Bastava solo uscire
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Bastava solo uscire

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About this ebook

Un romanzo tutto al femminile: Ines, Nimue, Veronica. Donne tanto fragili quanto coraggiose, una forza d'animo non trascurabile. Ognuna di loro segnate da eventi che avrebbero potuto influenzare lo stile di vita ma che hanno avuto la forza di risollevarsi e ricominciare a vivere. Le loro vite si incrociano con la vita di uomini molto particolari, in grado di condizionare, travolgere e sconvolgere il loro essere donne. Un intreccio virtuoso che appassionerà e farà sussultare il cuore del lettore. Nulla è dato al caso, nulla è scontato. Una scoperta continua...
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJan 12, 2019
ISBN9788827867006
Bastava solo uscire

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    Bastava solo uscire - Letizia Tomasino

    PRIMA PARTE

    INES

    Mi chiamo Ines e sono una signora ancora piacente. Odio gli stereotipi sulle donne siciliane, secondo cui dovremmo essere tutte baffute, ricoperte di peli dalla testa ai piedi, scure di carnagione e di capelli. La Sicilia è stata terra di conquista, un’isola contesa dalle maggiori potenze. Varie dominazioni si sono succedute di volta in volta: dai tiranni delle colonie greche ai proconsoli romani, poi Barbari, Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, i viceré spagnoli, i Borboni e i Savoia, e noi siciliani siamo il miscuglio di tutti questi domini.

    Sono nata bionda e senza peli, sia sul corpo sia sulla lingua. Insomma, sono una che si è sempre ribellata alle ingiustizie. A scuola difendevo le compagne derise perché timide o brutte. I maschi non mi facevano paura; alcuni erano, per stazza, il doppio della mia corporatura ma io mi buttavo a capofitto su di loro, finché non mi usciva sangue dal naso, cosa che mi capitava spesso a causa della cattiva abitudine di infilarci le dita e scavare a più non posso. Continuavo imperterrita a dare legnate di santa ragione a chiunque osasse molestare le mie amiche. Poi, da grande, le cose sono cambiate, in peggio.

    Sono nata a Palermo negli anni precedenti al boom economico. In sostanza, ho visto la Seconda guerra mondiale da una postazione privilegiata: il ventre materno. Mia madre mi raccontava fino allo svilimento di quando gli alleati americani sfilavano per le vie della città e la gente era tutta contenta come se l’Italia avesse vinto i mondiali di calcio.

    In precedenza, li aveva vinti almeno due volte: nel 1934 e nel 1938; dopo che venni al mondo, l’Italia vinse la sua terza coppa del mondo nel 1982. Per la prima volta, le squadre partecipanti al campionato del mondo erano ventiquattro e gli Azzurri di Enzo Bearzot ebbero la meglio sulla Germania, battendola tre a uno. Io festeggiai l’evento ballando sopra una vecchia Fiat 124 color carta da zucchero. Veramente, non ero la sola a ballare sul tetto della macchina del mio primo marito: insieme a me c’erano altre sei ragazze tifose della nazionale. Tenevamo tutte il tricolore in mano sventolandolo, saltando e gridando: Viva l’Italia. Vi risparmio i dettagli del dopo festeggiamenti per il mondiale vinto. Siete curiosi di sapere cosa fece mio marito quando vide com’era stata ridotta la sua macchina? In pratica, la portò dallo sfasciacarrozze e mi riempì di pugni.

    Sono nata esattamente un mese dopo l’arrivo degli alleati americani, cioè il 22 agosto 1943. I miei genitori mi chiamarono Agnese. A me questo nome non piaceva e già da piccola lo cambiai con Ines, la sua forma spagnola. Significa casta, pura, ma io di casto e puro non ho niente, a parte il nome. Ho cominciato presto a provare i piaceri del sesso, intorno ai tredici anni. Il mio iniziatore aveva il triplo dei miei anni: era il signor Giuseppe, marito della vicina di casa, e di mestiere faceva il falegname come San Giuseppe, ma in quanto a bontà e santità manco l’ombra, anzi era un porco maniaco, ma a me piaceva come mi toccava, ci sapeva fare, tanto che cominciai a fargli pubblicità fra le mie amichette. Ogni tanto vedevo qualcuna di loro uscire dalla sua bottega con un dono. Confesso che ero gelosa delle sue attenzioni verso le mie compagne e qualche volta ho fatto a botte con qualcuna di loro proprio fuori dalla sua bottega. Poi finì nel più tragico dei modi: la moglie del falegname scoprì tutto quel traffico e sparò al marito colpendolo prima ai genitali e poi direttamente al cuore. La signora fu arrestata e la mia famiglia, avendo saputo del mio coinvolgimento nella vicenda, decise di cambiare aria, pensando che fossi rimasta traumatizzata da quell’esperienza negativa. Collegarono il mio dimagrimento alla brutta storia col signor Giuseppe, in realtà soffrivo tanto ma solo perché mi mancavano le sue carezze e la sua lingua. Cavolo, aveva una lingua rascagniusa come nessun altro uomo.

    Dopo il falegname mi capitò un tipo strano. Avevo quattordici anni e frequentavo la prima superiore. Per andare a scuola facevo il tragitto a piedi, quindici minuti di camminata veloce. Solo che certe mattine, avendo troppo sonno, finivo per fare tardi, tanto che trovavo il cancello della scuola chiuso e allora mi toccavano i rimproveri prima del bidello e poi dei professori.

    Un giorno notai un ragazzo a bordo di un motorino, sembrava mi stesse seguendo; poi di botto cominciò a impennare solo per farsi notare. Così ogni mattina, fino a quando una di quelle pericolose impennate non lo fece cadere a terra e il motorino andò dritto contro un muro. Corsi ad aiutarlo ma lui, come un supereroe, si drizzò in piedi dicendo che non si era fatto niente. Andò a recuperare il mezzo e mi chiese se volessi un passaggio, che accettai ben volentieri perché mancavano pochi minuti alle otto e trenta, orario di chiusura del famoso cancello. Carmelo, così mi disse di chiamarsi, mi fece salire sulla moto e io lo pregai di andare piano, mi consigliò di stringermi forte a lui e io obbedii. Quei passaggi divennero un’abitudine e qualche volta gli facevo cambiare direzione per vedere il mare, marinando la scuola. Le assenze mi costarono la bocciatura e il divieto di uscire di casa per non so quanto tempo.

    Carmelo aveva vent’anni ed era il figlio di un piccolo boss del quartiere Noce. Aveva paura di suo padre ma gli sottostava, perché la mentalità dei mafiosetti non la cambia nemmeno Dio. Vessare le persone per loro è come una missione che si tramanda di padre in figlio. Carmelo era un mammalucco: un piscialetto con i suoi pari e un despota e tiranno con me, ma è facile esserlo con le donne, anche se non mi picchiava, solo qualche sculacciata durante i nostri accoppiamenti selvaggi. A me piaceva perché parlava il dialetto palermitano e mi diceva le parolacce mentre ficcavamo ‒ così lui chiamava l’atto sessuale. Poi, quando finiva di sfogare la rabbia repressa, tornava a essere dolce. Apprezzavo molto il suo odore, era uno che si lavava, ma si spruzzava il profumo anche sul pene. In pratica, tutto quell’olezzo me lo sorbivo io poiché prima del rapporto ci teneva a mettermelo in bocca. Una volta gli dissi di non ricoprirsi di profumo perché l’avrei apprezzato anche al naturale.

    La natura mi ha fornito di tette grosse e fianchi larghi. Entrambe le caratteristiche sono molto gradite agli uomini, ma questo lo avevo già scoperto a tredici anni quando il signor Giuseppe passava ore intere a ciucciarmi i capezzoli. A quell’età prendevo già una quarta, poi con gli anni il seno è cresciuto a dismisura, così come gli sguardi degli uomini.

    Avevo una compagna di scuola che aveva le minne grosse, forse più delle mie, ma le nascondeva sotto abiti accollati e di taglia larga, in più indossava un busto per schiacciare quelle protuberanze che disturbavano la sua psiche. Anni dopo seppi che si era operata per ridurre il seno; non approvai la sua scelta, ma ognuno di noi ragiona col proprio cervello.

    A ventitré anni andavo in giro per le vie di Palermo con minigonne e top scollati, facendo scalpore, e le donne bigotte si giravano la faccia dall’altro lato, fingendo di non vedere; qualcuna più audace mi diceva parole come: Scostumata, cummuogghiati!; altre, invece, senza peli sulla lingua, mi davano della pulla. Potete immaginare, a questo punto, cosa scatenavo al mio passaggio: facevo finta di niente e guardavo davanti a me senza curarmi degli apprezzamenti sinceri degli uomini, ma dentro di me gongolavo, come quando una si guarda allo specchio e si piace così tanto da finire per farsi i complimenti da sola.

    Sono sempre stata una persona vanesia, come mio padre. Dicono sia grave auto compiacersi perché questo comportamento nasconde altri problemi, il più delle volte risalenti all’infanzia e legati all’insicurezza. Per quanto mi sforzi di ricordare, non riesco a focalizzare nulla di apparentemente pericoloso prima della mia formazione sessuale. Ho trascorso un’infanzia come tante altre bambine, immersa nei giochi e coccolata dai miei genitori. Per loro però devo fare un discorso a parte, perché negli anni mi è capitato di scoprire diverse cose che forse hanno influito sulla mia psiche. In vita mia non ho conosciuto persone più false: stavano tutta la giornata a farsi complimenti, a chiamarsi amore, e poi io stessa ho scoperto

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