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Operazione Marcuse
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Operazione Marcuse

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About this ebook

Più si va avanti nella lettura e meno sappiamo di Marcuse. Molte lacune si adunano nella mente del lettore, come bicchieri sporchi che nessuno lava in certi acquai di certi appartamenti universitari. In questo che non è un romanzo e non è un saggio, in bilico tra récit, pamphlet e agiografia, Stepor Marqucci ci riporta al mito novecentesco per eccellenza, la «nostalgia del futuro», e ci propone una discesa nell'archeologia del presente, di un tempo, e di un tempio, in rovina. Uno spettro si aggira per queste pagine.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 15, 2019
ISBN9788831606462
Operazione Marcuse

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    Operazione Marcuse - Stepor Marqucci

    COLOPHON

    © L’Errore di Kafka

    © www.erroredikafka.blog

    ISBN 9788831606462

    Prima edizione digitale: marzo 2019

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    Nota sul copyright

    La foto riprodotta in Appendice 2 è di Olivier Laban-Mattei (Francia). La foto si è aggiudicata il premio giornalistico World Press 2011, categoria «Stories General News».

    La mappa del Centro Addestramento Manager riprodotta in Appendice 3 è stata rielaborata sulla base della mappa del sito archeologico di Teotihuacán pubblicata nella Rough Guide Messico, prima ed. 1996.

    La Lettera al carcere di Gloria Guerra al capitolo 18 è di G.P.

    I link ipertestuali rimandano o a video autoprodotto (capitolo 15) o a brani musicali, ed in questo secondo caso vanno considerati come citazioni, non soggette pertanto alle leggi sul copyright.

    Avvertenze

    Operazione Marcuse (O.M. nel testo) non è un romanzo, non è un saggio, è un romaggio, un omaggio saggistico e romanzato.

    Ciò non significa che O.M. non sia un’opera di fantasia, anzi, in esso la fantasia è all’opera. I fatti e i personaggi escono ed entrano di continuo dalla storia - recente e meno recente - alla fantasia e viceversa, senza che sia possibile separare l’una dall’altra. Detto altrimenti, ci muoviamo in un’opera di finzione.

    Il capitolo 28 è trascritto, e secretato, in braille.

    L’autore desidera far presente che questo libro non contiene errori di impaginazione né refusi. Gli «a capo» irregolari, come ad esempio al capitolo 23, sono voluti, come sono volute le irregolarità ortografiche, i giochi e gli scambi di parole riscontrabili nel testo.

    COPERTINA

    FRONTESPIZIO

    operazione marcuse

    era stata una guerra, quella primavera

    stepor marqucci

    L’errore di Kafka

    INDICE GENERALE

    COLOPHON

    COPERTINA

    FRONTESPIZIO

    INDICE GENERALE

    ESERGO

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    PARTE SECONDA

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    INDICE DEI NOMI

    APPENDICE 1

    APPENDICE 2

    APPENDICE 3

    ESERGO

    La parabola è il porsi dell’assoluto nel mondo delle cose.

    Il mito è il porsi delle cose nel mondo dell’assoluto.

    (Martin Buber, L’insegnamento del Tao)

    PARTE PRIMA

    Capitolo 1

    Alcuni anni fa annotavo nel mio moleskine a quadretti:

    «Ci sono persone che fanno cose a tempo scaduto. Entra ogni tanto in libreria quel tipo che veniva chiamato Marcuse (il suo nome e cognome anagrafico qui non interessano, anche se io li conosco). Lo conobbi all’università all’epoca della Pantera, oggi avrà tra i quarantacinque e i cinquant’anni, porta gli stessi pantaloni allo zompo di allora, è buffo, un po’ retrò, sicuramente ancora vestito dalla mamma. È pelato con la chierica, ha un’aria parrocchiale. Credo sia ancora iscritto all’università, Scienze Politiche, immagino. Ordina tomi enormi sul pensiero marxista, è rimasto bloccato agli anni settanta. Gli intellettuali di sinistra, ammesso che ancora ve ne siano, e che vi sia una sinistra, ma questo è ormai un refrain, oggi hanno sulla bocca parole come globalizzazione, diritti di cittadinanza, bene comune, e, ahimè, memoria condivisa, mentre Marcuse continua a ferrarsi sui fondamenti della dottrina marxista, in vista di un cimento (un esame? la rivoluzione?) che è già scaduto, se mai è accaduto, venti e passa anni fa.» (L’appunto del taccuino non ha data, ma dalle date di appunti precedenti e successivi dovrebbe essere databile nel mese di gennaio 2007).

    Marcuse era diventato comunista alle medie, quando aveva letto nell’antologia che le arance in eccedenza venivano mandate al macero per non far diminuire il prezzo di mercato, mentre c'erano bambini che in Africa morivano di fame.

    L’eterno universitario aveva respirato l’aria dei tempi, quella degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso e scorsoio, e ne era rimasto intossicato. Quando, nel 1977, si era iscritto a Scienze Politiche c'erano i tascapane di tela verde o le borse di cuoio, e le tesi di laurea si battevano a macchina con la carta carbone; era ancora all’università quando, nei primi novanta, facevano ingresso gli zainetti Invicta, e muoveva i suoi primi passi il programma di scrittura word, anche se ancora sul dos e non in windows. Marcuse non era approdato alla redazione della tesi di laurea.

    Con quell'impalcatura che hanno sulla testa, i cervi sono la prova definitiva che la selezione darwiniana avviene, più che per adattamento, per emulazione: sulla testa si portano dietro un pezzo di foresta. L’eterno universitario, con il suo perenne eskimo e quei cappottoni lunghi, i pantaloni allo zompo, gli occhiali bisunti, la valigetta di cuoio consunto, si portava appresso un’aria di assemblea studentesca, di contestazione, di manifestazione, di occupazione universitaria, di attesa della rivoluzione. Sebbene tutto fosse finito, e da decenni, lui era rimasto bloccato, nessuna evoluzione era avvenuta in lui.

    Benché la secolarizzazione abbia un poco confuso le tracce, Malebranche in questo ha ragione, si tratta, in sostanza, di una questione di fede. Il credente ripone la sua fede in Dio, il romanista in Totti, e Marcuse aveva avuto fede nella classe operaia, aveva avuto fede in un mito originatosi nelle miniere di carbone dell'Inghilterra della prima rivoluzione industriale e che era giunto fino ai cancelli della Fiat; un mito che si alimentava del senso di una ferita e di un'ingiustizia patita, come pensano della Chiesa e della Roma il tifoso e il fedele; e che si perpetuava nella fiducia in un riscatto finale, la medesima irrazionale e cieca fiducia nella resurrezione e nello scudetto. L'operaio, per Marcuse, era la trasposizione e la trasfigurazione moderna di Gesù Cristo. A dispetto delle nuove forme di alienazione della società post industriale, che aveva condotto Günther Anders a proclamare antiquato il proletariato, per Marcuse la questione operaia restava quella, immutata e forse immutabile, se non per via rivoluzionaria. Non avrebbe cambiato opinione neppure oggi, Marcuse, se ancora fosse in vita, nel vedere alla tv gli operai Fiat indossare le tute non più blu ma bianche e immacolate, simili a quelle dei meccanici del pit stop, e applaudire Sergio Marchionne e John Elkan in visita al loro stabilimento, così come fanno i tecnici che applaudono il pilota vincente al termine della corsa di Formula uno.¹

    I falliti si dividono in due gruppi. Quelli che hanno fallito a partire da un certo punto della loro vita (cioè tutti) e quelli che sono falliti dall’inizio (i pochi, gli eletti). Marcuse era un fallito della primissima ora. Avendo però caparbiamente e ostinatamente opposto un no alla prospettiva del posto fisso, e più in generale alla prospettiva di un lavoro quale che sia, non aveva provato quel sottile senso di fallimento che talvolta si insinua nella mente dell'impiegato di banca quando ripensa ai compagni di liceo che hanno fatto carriera come liberi professionisti o che hanno avuto successo all'estero, chi aprendo un ristorantino a New York, chi girando continuamente il mondo per una grande e notissima agenzia di viaggi. Marcuse non provava nulla di ciò. Non provava nulla di ciò perché per lui il tempo non scorreva alla medesima velocità con cui precipitava per i suoi affermati ex compagni di liceo. Per Marcuse il tempo era fermo. Si era incagliato.

    Nel corso degli anni non pochi si erano perduti nell'eroina, alcuni erano morti e la memoria di loro era impallidita, altri si erano salvati nelle comunità di don Gelmini o di Muccioli, le correzioni avevano estirpato l'oppio dalle vene e dalle menti dei giovani, molti si erano rifatti una vita ed anche una famiglia, qualcuno, superato il test dell'Aids, aveva perfino messo al mondo dei figli, e mentre la ruota del mondo girava sull'asse dell'ingiustizia Marcuse era rimasto sui libri e sul misterioso avvento della rivoluzione, continuando a fumare sigarette fuori dalla biblioteca comunale e a meditare sulle masse operaie. In effetti Marcuse era rimasto sotto al trotskismo come sotto all'eroina erano rimasti quelli che ebbero in sorte la loro incandescenza e la loro giovinezza negli anni ‘80 del secolo scorso. Era in fondo un tossico anche lui, però sopravvissuto senza comunità di recupero, questa era l'unica differenza. Il trotskismo lo aveva intossicato ma lo aveva anche preservato.

    La vera espiazione per aver visitato i paradisi artificiali dell’oppio non era tanto la crisi di astinenza (un dazio irrisorio per cotanto viaggio), quanto il doversi recare ogni mattina nello squallore del Sert, entro quei muri grigi come quelli di un penitenziario. Persone che avevano avuto visioni celestiali costrette a sostare per ore intere nello stanzone del Sert, davanti ai poster che spiegavano come si trasmette il contagio dell’HIV. Persone che avevano avuto il flash, che avevano provato l’estasi, che custodivano un segreto iniziatico, che si erano fusi nel lago della pace universale, che avevano viaggiato nei colori del lusso, nello sfolgorante agio dell’oblio e della pietà infinita, che erano arrivate alle soglie del Tartaro e ne erano tornate indietro, ambasciatori muniti di ogni credenziale psichedelica, questi eroi del cedimento al miraggio costretti come uccelli del paradiso in una gabbia di cemento, questi albatros con ali di giganti trattati come malati dal personale paramedico, che non si faceva neppure beffe di loro ma solo li compativa, somministrandogli dosi decrescenti di metadone... Erano quei muri da nosocomio abbandonato, quelle sedie di plastica grigie, quella era la condanna che l’Ordinamento riservava a quegli incauti che avevano osato scavalcare il filo spinato (del principio) della realtà. Proprio a loro, agli orfani della felicità più grande, che avrebbero invece avuto più di ogni altro il diritto ad un posto accogliente, un boudoir di tappeti e tende, con quadri alle pareti, luce soffusa, incensi accesi, un ambiente più colorato di un reparto di pediatria.

    C'è una sopportazione da antico anacoreta, o da sciamano, nel restare sui libri e sulle sigarette e sui banchi dell'università quando non solo i tuoi coetanei sono diventati professionisti, docenti, imprenditori, e hanno dismesso l'eskimo e la kefiah e vanno in vacanza con la famiglia a bordo di costose station wagon; ma anche quando coloro che hanno vent'anni meno di te si sono ormai laureati e stanno seguendo un master in Inghilterra. C'è un'attesa messianica e cocciuta nella rivoluzione, da epigono di periferia di Walter Benjamin. Marcuse era come un innamorato che non riesce a scordarsi la sua ragazza dei venti anni, e continua a vivere nel quotidiano pensiero e nella quotidiana attesa di lei e del suo ritorno, o meglio, del suo confermarsi presente, dato che per l’eterno innamorato la ragazza non se ne è mai andata, sebbene nei fatti lei sia andata a vivere in un'altra città, si sia addirittura sposata con un architetto ed abbia due figli, due maschi.

    Ci sono persone che sembrano vivere perennemente su un carro in movimento, ti parlano senza fermarsi, se vuoi conversare con loro devi metterti al loro passo, non cessano di parlare di sé, di quello che stanno per fare, dei loro programmi e progetti, non un accenno al passato o ai trascorsi comuni, o se c'è è solo un aggancio per parlare delle prossime azioni. Queste persone sono quelle che seducono, che evitano la domanda «come stai?», l'imbarazzo e la tristezza di fermarsi e scendere dal carro, di raccontare quello che si è diventati, come la vita ci ha rovinato. Marcuse non era salito su quel carro.

    Dopo il Movimento lo persi di vista. Passarono anni. Quando presi in gestione la libreria me lo ritrovai una mattina davanti. Mi chiese un libro che non avevo disponibile. Lo ordinai. Era ancora alle prese con la questione operaia. Non divenne un assiduo, ma spuntava silenziosamente e felpatamente una volta alla settimana. Aveva uno sguardo così inerme, così disperato, in fondo, anche se non lo dava a vedere. Conservo ancora la lista dei libri che ha via via acquistato. L’ultimo libro che acquistò fu Tute blu. Seppi da Malebranche che aveva un tumore e che stava facendo la chemio. Viveva ancora a casa di sua madre. Di pomeriggio giocava a scacchi con un bambino di nove anni, coinquilino, al quale una volta mostrò le sue collezioni di fumetti di quando aveva dieci anni, Il Monello e L’Intrepido.

    Una mattina presi il primo treno per Milano, il Tacito, che nome perfetto per un treno dell'alba! Dal treno, che in prossimità della città serafica rallentava, appariva nella nebbia uno stabilimento siderurgico, per un secondo ebbi l'impressione di continuare a dormire e a sognare, non mi ero mai reso conto prima che in prossimità della stazione di Assisi, della città medievale e serafica, tutta turismo e misticismo, ci fosse un complesso industriale con i suoi capannoni di acciaio e cemento. Sembrava nella nebbia un’entità spettrale. Alle sei del mattino alla fine di gennaio, ed era ancora buio, dal finestrino si intravede tra la nebbia, che ogni cosa dilata, un falò acceso con pezzi di legno da cantiere che ardono, bagnati forse con il kerosene. Due sollevatori o muletti fanno nel piazzale movimenti nervosi e rapidissimi, come a scatti. Dentro ci sono gli operai, che muoiono ancora dal freddo sotto le loro tute termiche, o forse è solo di un uso che si tratta, di un rito che si ripete dall'antichità, una speranza accesa contro le tenebre ed il freddo, un atto propiziatorio al sorgere del sole, che a quest'ora gelida appare impossibile che possa presentarsi di nuovo, stella gelida anch'esso, e fuoco estinto, mentre dai muletti i due operai si urlano in slavo, rododàxtulos eos.

    Questa scena mitica mi fece ripensare a Marcuse, il paladino della classe operaia. Quella che per me era una visione arcaica, per lui era una questione di sfruttamento. Seppi poi che quella stessa mattina, poche ore dopo, gli avevano diagnosticato un tumore al pancreas.²

    Capitolo 2

    Ho conosciuto Marcuse all’università, nel 1990, all’epoca della Pantera. Aveva già più di trent’anni, aveva l’aria triste e grigia dell’impiegato, una certa aria parrocchiale, era stempiato, con la chierica da anziano, gli occhialoni di metallo. Partecipava a tutte le assemblee, ma non prendeva la parola. Faceva venire in mente anche lui l’addetto alle pulizie di un palasport, in questo almeno siamo stati simili. Nessuno si era chiesto dove Marcuse tornasse, e da chi, finita l’Occupazione. E nessuno aveva pensato che la sua presenza nel Movimento fosse essenziale. Ammesso che qualcuno nel Movimento fosse poi essenziale, e ammesso altresì che il Movimento stesso fosse poi essenziale.

    Ho ancora negli occhi una manifestazione studentesca, in un freddo pomeriggio d'inverno. Una manifestazione di protesta contro l’irruzione della celere al rettorato, che la Pantera aveva tentato di occupare al mattino. Il rettore aveva chiamato le forze dell'ordine. Per gli stretti corridoi poco c'era mancato che non avvenisse una mattanza sudamericana. Il capo della Celere, un giovane in borghese, aveva saputo contenere la violenza poliziesca degli agenti in assetto anti sommossa, limitandola a pesanti manganellate e sgambetti agli studenti mentre venivano fatti uscire uno ad uno per le ripide scale tra due ali di celerini. Solo qualche ferito lieve.

    La manifestazione si era da subito preannunciata brutta, carica di tensione, con volti coperti dai passamontagna o dalle kefiah, candelotti rossi, slogan cattivi, un'autoambulanza che a sirene spiegate fende il corteo, palese operazione poliziesca. Ho ancora negli occhi il gruppo dei trotskisti che avanza in schiera compatta a catena, i più rabbiosi del corteo, cupi, catacombali, pronti a reggere lo scontro. Polizia fascista, polizia assassina! Mi pare di vederlo ancora tra le fila dei trotskisti, lui, occhialuto, così mite e inerme.³

    Marcuse era come il sarto manzoniano, amava leggere e istruirsi, ma non aveva la prontezza di spirito della battuta brillante, anzi, entrava in blocco come una caldaia. Come era accaduto al sarto manzoniano alla visita del Cardinal Borromeo, il suo idolo, quando non aveva saputo spiccicare parola, e durante i giorni a seguire e le notti a seguire aveva continuato a macerarsi e a tormentarsi immaginando tutto ciò che avrebbe potuto dire al Cardinale per fargli capire quanto lo ammirasse e quanto sapesse apprezzare i suoi insegnamenti; così era accaduto a Marcuse quando, alla Facoltà occupata di Scienze politiche, era venuto, aula magna gremita, Antonio Negri, il sommo sacerdote del marxismo italiano, circondato, e quasi scortato, dai capi del Movimento. Quando erano cominciati gli interventi, il cuore di Marcuse aveva preso a galoppare incontrollabilmente, si era preparato una domanda acuta e forse anche scomoda, ma era rimasto in silenzio.

    Marcuse ammirava l’oratoria politica quando riusciva a coniugare la competenza tecnica con i saperi attinti da altri ambiti, in particolare dalla letteratura. Come era convincente il discorso di un leader che, alle parole d’ordine del Movimento ed alle analisi condotte nel gergo del marxismo, sapeva innestare una citazione da Shakespeare, o da Sterne, cioè da scrittori della tradizione e non tanto da poeti e scrittori contemporanei suppostamente vicini al movimento, come, solo per fare un esempio, Balestrini. Ammirava anche la competenza di chi conosceva a memoria i dati relativi alle spese militari, dati che suggellavano, con il crisma della incontrovertibilità aritmetica, la natura guerrafondaia dello stato capitalista.

    Se il linguaggio di Marcuse non era intriso di tutti quei «cioè» che intasavano i discorsi assembleari degli anni ’70 e ’80, esso, e va detto, non era scevro da quella locuzione che circolava ininterrottamente, quasi una parola d’ordine, nella sinistra radicale fine novecentesca, «presa di coscienza», locuzione che a me, che pure sono uno che ha avuto a che fare con la coscienza, mi ha fatto sempre venire in mente la presa di tabacco.

    Marcuse, seppur in continua astinenza sessuale, o forse proprio a causa di ciò, provava un’intima soddisfazione quando vedeva compagni che lui aveva messo in contatto parlare tra di loro ad una festa, piacersi, annuirsi con un bicchiere di plastica in mano, scambiarsi i numeri del telefono di casa. In alcuni casi Marcuse era stato pronubo di relazioni, alcune anche clandestine. Alcune effimere, altre durature. Di queste ultime, nessuna aveva retto agli sgambetti degli anni, e, quale prima quale poi, erano finite per terra. Anni dopo il Movimento Marcuse aveva incontrato per caso un compagno, divenuto ufficiale di vascello, con i denti un po’ ingialliti. Si erano salutati, e l’ufficiale, non richiesto, gli aveva detto che non vedeva più Carla, si erano lasciati da alcuni anni. Era stato Marcuse a presentarli, pochi giorni dopo erano entrati mano nella mano all’assemblea interfacoltà, sembrava una di quelle storie destinate ad inabissarsi non appena placata l’onda del Movimento, e invece la loro storia aveva galleggiato per anni, in lunghi anni di bonaccia. «E tu, ancora all’università?», aveva domandato l’ufficiale di lungo corso. Marcuse si era limitato a quel suo mesto sorriso, incurvando le spalle.

    Marcuse, infine, seppur notoriamente marxista, lo era in modo felpato, si direbbe intimista. Provava un forte imbarazzo quando si profilava, ad esempio durante una cena, la possibilità di uno scontro verbale tra persone di orientamento politico opposto. Aveva uno zio acquisito che era notoriamente fascista, di cui si mormorava anche un passato di picchiatore nei ranghi del FUAN. Nelle rare occasioni in cui lo zio fascista era invitato a cena, e questo accadeva una volta all’anno durante le feste di Natale, e talvolta era invitata anche un’amica di famiglia, professoressa liceale nonché dirigente comunale del PCI, Marcuse evitava qualunque discussione politica e si augurava che anche gli altri commensali adottassero una simile sospensione del giudizio, si accordassero tacitamente per una sorta di tregua della guerra civile. Tregua che normalmente reggeva. Il marxismo di Marcuse volava più alto delle risse postprandiali.

    Il duello tra lo zio neofascista e l’amica di famiglia comunista iniziava davanti al camino, ancor prima dell’apertura ufficiale della cena, mentre Marcuse, tanto per togliersi di impaccio, girava le fette del pane sulla graticola, dove si stavano abbrustolendo per farne bruschette con l’olio nuovo. Lo scambio di cortesie, in una logica cavalleresca rovesciata, principiava dal versante comunista, giacché era la professoressa di storia a portare la conversazione sul processo di Verona, per ricordare che l’unico gerarca, e congiurato, scampato al plotone di esecuzione, Tullio Cianetti, era stato difeso dall’avv. Arnaldo Fortini, podestà fascista ma soprattutto storico e scrittore, stimato anche da Benedetto Croce e uomo di cultura cosmopolita, con conoscenze di altissimo livello anche nelle più importanti corti europee. Lo zio fascista, mentre addentava la bruschetta ben unta di olio nuovo e previamente struffata con aglio, riconosceva da par suo

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