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Il morso della faina
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Il morso della faina

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About this ebook

Andrea Grandi, figlio di un famoso avvocato, si trova invischiato dopo la morte della madre e malgrado i valori morali in cui è stato educato, a prendere parte a una sanguinosa rapina. I membri della banda sono appena tre, di cui, l’ideatore finisce in carcere per l’uccisione di due persone, Ennio, l’amico che l’aveva coinvolto, perde la vita e lui scappa con il bottino. Dopo una folle corsa, disperde gli inseguitori e trova rifugio in una stalla. È ferito, bagnato sin nelle ossa a causa della pioggia battente, ma è lì che conosce la ragazza più ingenua e maliziosa del mondo ed inizia il suo recupero morale.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 24, 2019
ISBN9788831613620
Il morso della faina

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    Il morso della faina - Teodora Oliva

    niente.

    Capitolo I

        Gemma Belmonte stentava a chiudere gli occhi. Era desta nonostante fosse gremita dalla stanchezza. La giornata appena trascorsa era stata assai faticosa, si era dovuta barcamenare tra il lavaggio della biancheria sporca e il prendersi cura della casa e del bestiame.

        Oramai era notte fonda e lei si rigirava tra le coperte nel vano tentativo di riuscire a prendere sonno. Ciò era un evento straordinario, perché le bastava poggiare il giovane capo sul cuscino per abbandonarsi beatamente tra le braccia di Morfeo e lasciarsi andare a sogni rosei e futuristici.

        Di sovente sognava il principe azzurro, l’uomo che di lì a poco avrebbe occupato un ruolo determinante nel suo cuore e nella sua testa. Si chiedeva chi potesse essere, che fattezze avesse e soprattutto dove potesse essere in questo momento. Allora, spaziava con la fantasia, immaginandoselo non molto lontano e di fisico bello, aitante, sorridente e per di più con un carattere gentile e generoso, in semplici parole l’uomo perfetto.

        Una volta desta, Gemma sorrideva al riguardo, chiedendosi se chissà sarebbe mai esistita una persona simile, dato che la perfezione non era di questo mondo. Di norma, in una coppia, dopo un avvio frizzante e coinvolgente, susseguivano rimpianti e delusioni, perché una delle due parti in causa costatava che l’altra persona non era scevra di difetti.

        Un uomo era la materializzazione dell’altra sua metà, era il completamento del suo io, ma sarebbe riuscito a farle toccare il cielo con un dito? Sarebbe stato in grado di renderla soddisfatta in ogni senso possibile? Lei sì, che ci sarebbe riuscita. Avrebbe riempito il suo uomo di tanto amore e di tutte le attenzioni. Lo avrebbe posto al centro del cosmo e avrebbe difeso i suoi sentimenti anche a costo della vita.

        L’amore, che bella cosa! Al solo pensiero le si rallegrava il cuore, ma ora no. Gemma era inquieta, non riusciva a pensare a colui che le avrebbe fatto battere il cuore e non capiva se la causa di quest’insonnia fosse d’addebitare al cattivo tempo, all’ansia di vedere nascere subito il vitellino nella stalla, oppure se era dovuta alla zuppa di fagioli che aveva mangiato sul tardo pomeriggio, e che purtroppo le era rimasta sullo stomaco.

        La zuppa era avanzata dal mezzogiorno e lei facendo un piccolo peccato di gola se l’era finita, nonostante si trattava di una generosa razione. Convinta che era inutile continuare a tormentarsi tra le lenzuola, mise i piedi fuori dal letto per dirigersi in cucina e bere un gran bicchiere di acqua fresca.

        Che le era saltato in testa di mangiare così tanto, lei che generalmente piluccava le vivande al pari di un uccellino? La risposta consisteva nel fatto che la nonna era un’ottima cuoca e quel piatto aveva un aspetto davvero allettante.

        Dove stava il bicarbonato?

        Gemma aprì un cassetto della dispensa e lo trovò. Chiuse gli occhi e con un moto istintivo di raccapriccio si portò un cucchiaino di quella sgradevole polverina bianca in bocca. S’impose di bere tanta acqua, per farla scendere subito in gola, senza doverla assaporarla, ma non fu molto abile e un po’ del suo retrogusto cattivo le rimase in bocca.

        Che schifo! Era proprio male. In ogni modo, la consolava il sapere che ora sarebbe stata meglio. Il bicarbonato era un vero toccasana per il bruciore di stomaco. Glielo diceva spesso suo padre che ne faceva regolarmente uso.

        Gemma tornò in camera e si rimise nel letto. Chiuse gli occhi, ma un lampo seguito da un fragoroso rimbombo di tuono, illuminò brevemente la stanza attraverso gli interstizi dell’imposta chiusa.

        Ci mancava il cattivo tempo.

        Gemma pensò ai senzatetto, ai viandanti per strada. Pensò ai poveracci sotto i ponti che si scaldavano al tenue calore di un braciere quasi smorto, mentre spifferi di un vento gelido li penetrava impetuosamente negli stracci, colpendone le ossa. Pensò ai numerosi barboni, fiacchi nelle membra, che dormivano su una panchina di legno in un parco, magari coperti soltanto da fogli di giornali o da scatole di cartoni, e ringraziò Dio della sua buona sorte.

        Ringraziò di avere un solido tetto sul capo e soprattutto di possedere una nonna e due genitori meravigliosi che l’amavano di vero cuore e avevano riposto in lei ogni speranza. Ringraziò Dio di stare in un comodo, caldo e morbido letto, mentre fuori la tempesta impazzava e forse qualcuno moriva a causa delle proibitive condizioni meteorologiche.

        Non trovò giusto che si lamentasse per non riuscire a prendere sonno, quando c'era chi stava messo peggio di lei. Dopotutto non aveva alcun motivo di recriminare.

        Non era ricca ma nemmeno povera, dato che suo padre non si risparmiava di lavorare, per non farle mancare il necessario, anzi delle volte si svenava proprio per soddisfare qualcuno dei suoi numerosi capricci.

        Gemma era una giovane sedicenne, a parere di molti, di bell’aspetto e con una gran voglia di vivere. Accese la luce per guardarsi nello specchio. Fu soddisfatta di ciò che vide. Lo specchio le rimandò l’immagine di una ragazza dalla corporatura longilinea e slanciata e dal bel viso pulito, roseo, ad acqua e sapone.

        Di certo, non aveva bisogno di alcun accorgimento correttivo, per abbellire i suoi tratti graziosamente delineati. Cosa le piaceva più di se stessa? Dire tutto, non le parve un’esagerazione, perché se doveva darsi un voto da uno a dieci si sarebbe data indubbiamente il massimo.

        Si ammirò i serici capelli lisci, lunghi fino alla schiena, i meravigliosi occhi di gatta dalle ciglia lunghissime e le labbra rosse dal taglio perfetto. Un’altra persona un po’ meno magnanima, non l’avrebbe definita la donna più bella del mondo, ma lei ci si sentiva ed era quello che più contava.

        Nel suo cuore, nell’anima e nel suo piccolo mondo, fatto di fantasia e di sprazzi di realtà, lei era l’incontrastata regina. Dopo quest’ottimo riscontro con se stessa, tornò a letto e si mise a contare le pecore. Uno, due e tre.

        Sentì in lontananza il rimbombo cupo del tuono e a seguire un feroce abbaiare di cani. Quando era più piccola e faceva questo tempaccio, spesso era colta dallo spavento, allora lasciava il suo letto per andare a dormire in quello dei genitori o della nonna, che da sempre viveva con loro. Ora no. Lei era diventata grande e doveva affrontare le sue paure con coraggio e determinazione.

        Fuori gli elementi naturali si erano scatenati furiosi, ma lei dentro, al riparo, nulla la toccava, né lo scroscio violento della pioggia, né lo stormire delle fronde degli alberi agitati dal forte vento. Se qualcuno le avrebbe predetto che di lì a poco, si sarebbe inoltrata fuori, sotto quel castigo di Dio, gli avrebbe dato del matto.

        Tornò in cucina, col preciso intento di appisolarsi sul divano, accanto al caminetto. Nel focolare, il carbone ardente giaceva sotto uno spesso strato di cenere grigia. Se non fosse bastato il calore dell’imbottita che si era premunita di portare con sé, avrebbe riaccostato la legna, che in breve tempo sarebbe ripresa a scoppiettare.

        In quel momento sentì un preciso rumore provenire dalle stalle. Era reale o se l’era immaginato? In quella notte disturbata stava accadendo di tutto. Gemma tese l’orecchio all’ascolto e le parve che i cavalli avessero preso a nitrire. Solitamente a quell’ora dormivano. L’immane curiosità insita nella sua personalità, la spinse ad andare a controllare. La prudenza invece le suggerì di andare a svegliare suo padre, per darsi lui da fare. Si avvicinò alla sua camera e attraverso la porta chiusa lo sentì ronfare beato. Non era il caso di svegliarlo, non le andava di allarmarlo, forse per niente.

        Sganciò da una delle pareti, la lampada a olio, indossò una manta di lana e un paio di zoccoli di legno e riparandosi il capo con una cerata, uscì nella tormenta, verso le stalle. Il tratto era breve, manco cento passi.

        Avanzò cautamente e giunse a destinazione scrollandosi di dosso le residue gocce di pioggia. Lì si fermò sulla soglia scossa da un fremito di paura. Per un breve attimo, immaginò che una sorta di Barbablù, un uomo enorme dalla forza bruta, con più di cento chili di peso e alto quanto una quercia, si fosse nascosto nella stalla con l’intento di strangolarla.

        L’idea spaventosa che le era balenata in testa era però assurda per ben due motivi. Il primo e più importante è che non c’era nessuno ad avercela con lei, al punto di volerle fare del male e secondo motivo, chi poteva spingersi con quel tempaccio e di notte tempo nel suo casolare? Infine era inverosimile che una persona se ne andasse sotto l’acquazzone a spaventare il prossimo.

        Nell’ipotesi che ciò che più paventava si fosse avverata, e cioè che un malfattore si era introdotto nella sua proprietà, cosa avrebbe potuto fare lei povera ragazza indifesa, pari a uno scricciolo, per stanarlo? Non era stato meglio obbedire alla vocina che aveva sentito in testa, di affidarsi al padre, invece che di agire in prima persona?

        Tra lei e il Pinocchio della fiaba non c’era poi molta differenza perché entrambi erano restii ad ascoltare i buoni consigli. Il burattino di legno non prendeva in considerazione le raccomandazioni che provenivano dal saggio grillo parlante e lei ignorava volutamente gli sprazzi di ragionevolezza che le venivano suggerite dalla buona coscienza.

        Che assurdità!

        Doveva smettere di galoppare con l’immaginazione. Era ciò che sovente le rimproveravano i genitori. Forte della gioventù, spesso si lasciava andare a fare sogni incantati, trascurando la realtà. I rumori che aveva udito, probabilmente erano stati provocati dalla vacca che doveva partorire.

        Forse era entrata in travaglio. Gemma osservò l’animale che era inquieto. L’accarezzò teneramente e le parlò con voce dolce e rassicurante.

    «Non riesci a dormire nemmeno tu? Siamo in due e dato che ci sono, ti farò compagnia. Hai paura del parto? Non devi averne. Partorire è un evento del tutto naturale. Avrai il più bel vitellino del mondo e andrai fiera di te stessa. Tutte le mucche di qui a un raggio di mille chilometri t’invidieranno e tu camminerai altera, come una regina dei boschi.»

        Gemma non sapeva di essere osservata.

        Due occhi di uomo stavano fissando incantati la giovane ragazza sbucata dal nulla e sorridevano divertiti delle sue parole. Gli occhi febbrili seguivano le movenze femminili e le orecchie si deliziavano alla dolcezza della sua voce che aveva il potere d’infondere calore in fondo al cuore. C’era dell’ingenuità e della regalità nella ragazzina che commuoveva profondamente. Andrea Grandi, questo era il nome dell’intruso, aveva tremato quando all’improvviso, qualcuno aveva spalancato la porta della stalla, in cui aveva preso riparo da quella pioggia torrenziale.

        Aveva immaginato che un rude contadino, insospettito dai rumori che aveva involontariamente prodotto, imbracciasse un fucile per stanarlo, se per impallinarlo a vista oppure consegnarlo alle forze dell’ordine era poco rilevante, perché lui tra le due opzioni, non sapeva proprio dire cosa fosse peggio. Quando invece, si era reso conto che si trattava di una graziosa e minuta ragazza si era acquietato e tenendosi nascosto dietro una voluminosa balla di fieno, prese a osservare al debole chiarore della lampada a olio, la bellezza ridente di lei, i suoi lunghi capelli corvini, il flessuoso corpo da adolescente.

        Con lei non si sentiva più preda, bensì a parità di forza fisica, poteva benissimo calarsi nei panni del predatore, ma non era il caso. Non poteva permettersi di combinare delle altre pazzie. Gli conveniva molto di più celarsi alla sua vista e andarsene di soppiatto, così come era arrivato, non appena cessata la tempesta.

        Gemma levatosi la coperta di dosso, si prodigò per lenire le sofferenze della povera bestia, infine si mise a cantarle una tenera filastrocca accompagnando la voce con dei gesti suadenti del corpo.

        Andrea credé di trovarsi davanti a una visione irreale. Quale ragazza si poteva materializzare nottetempo in una stalla e danzare e cantare divinamente per una vacca? Forse aveva la febbre alta, difatti il suo corpo era scosso da fremiti di freddo e non soltanto perché si era denudato dagli abiti intrisi d’acqua, che aveva messi ad asciugare su delle grosse balle di fieno, ma soprattutto perché la ferita alla coscia gli faceva un male cane.

        Quanto sangue aveva perso? Parecchio, a giudicare dalla mente obnubilata dalle visioni. Quella ragazza era reale o un miraggio? Era troppo bella per esistere davvero. Era davvero in deliquio o forse era solo un sogno, una proiezione della sua fantasia?

        Si stropicciarono gli occhi. Era tutto vero. In una simile notte burrascosa, in cui ne erano successe di tutti i colori, qualcosa di buono ne era scaturito, perché quella visione celestiale gli era di gran conforto all’animo. Andrea, affascinato, prese a filmare con attenzione ogni movimento di lei, ogni suo gesto, ogni sua parola.

        Gli venne da starnutire. Trattenne il respiro, soffocando ogni rumore, ma siccome ogni starnuto non arriva mai da solo, venne travolto da un secondo più forte del precedente, che non riuscì a tenere sotto controllo. «Etciu.»

        Gemma lo sentì e balzò di colpo, spaventata.

    «Cosa è stato?» chiese allarmata. «C’è qualcuno?»

        Andrea si tenne nascosto più che potette. Gemma si guardò in giro, guardinga. Il rumore che aveva sentito cos’era? Era parso simile al verso emesso da un uomo quando è raffreddato.

        In quel momento un colpo di vento fece sbattere una delle ante della porta non assicurata col paletto. La ragazza percorsa da un colpo di freddo andò a chiudere bene.

    «Ah! È il vento.» sospirò sollevata. «Mi ha fatto prendere un mezzo infarto.»

        Rasserenata, tornò a occuparsi dell’animale in dolce attesa, quando spaziando con lo sguardo si accorse di qualcosa d’insolito.

        Cos’era? Gemma indirizzò curioso il fascio di luce della lanterna su quella che si rivelò per una camicia maschile. Andrea abbagliato dalla luce tirò immediatamente il capo all’indietro appiattendosi più che possibile nel suo angolo nascosto.

        Gemma si mise a osservare la camicia. La prese per mano studiandola con interesse. Era bagnata fradicia, come se fosse appena stata sotto la pioggia torrenziale. Che strana cosa!

        Se il papà l’aveva lasciata lì nel tardo pomeriggio, quando aveva smesso di occuparsi dell’ovile, non doveva essere ancora gocciolante, anche perché il diluvio era iniziato un’ora più tardi, quando la famiglia era tutta raccolta attorno alla tavola. Non prima.

        Inoltre non la riconobbe. Non era affatto un capo di biancheria di suo padre. Il babbo possedeva tante camicie, ma di sicuro non quella azzurra a disegni romboidale. Non gliela aveva mai vista indossare e ignorava di un acquisto recente, a meno che non ne avesse comprata una quel mattino stesso, ma era assai improbabile.

        Quel giorno non c’era stato mercato. La mamma e la nonna non erano uscite di casa e solitamente erano loro due che si occupavano di acquistare del vestiario.

        Spinta da una gamma di sentimenti che andavano dalla curiosità, al folle terrore, misto a stoico coraggio, si diresse da quella parte, fermandosi a soli tre passi dal giovane, il quale si teneva celato alla sua vista. Ne avrebbe potuto quasi sentire il respiro, se non fosse spaventata al punto di ascoltare soltanto i battiti impazziti del suo stesso cuore.

        Che stava succedendo? Gemma annusò la camicia incriminata come un segugio. Era calda come se fosse stata appena tolta. Se ne sentiva ancora l’odore di un uomo. Ne dedusse che era appena stata usata, ma da chi? Chiunque fosse, doveva essere ancora lì, nella stalla, con lei. Arretrò con gli occhi sgranati dalla paura. Si diresse presso un forcone appuntito, adagiato in un angolo, per usarlo come arma. Con passo felpato e silenzioso fece il giro della stalla per sorprendere l’intruso.

        Arrivò alle spalle dell’uomo, con l’intento di fargli passare una volta, per tutte, la voglia di intrufolarsi nelle proprietà altrui e di spaventarne le giovani donzelle. Forte dell’arma che impugnava, fu però spiazzata dallo spettacolo che si aprì davanti ai suoi occhi. L’uomo era sì di schiena, ma completamente nudo.

        Gemma, come lo vide, rimase senza fiato. Non aveva mai visto un uomo nudo, figurarsi se poteva affrontarlo in quella maniera. Lui pareva giovane. Aveva un paio di spalle larghe ben fatte, oserebbe dire perfette. I fianchi erano stretti, la linea che descriveva i sodi glutei era morbida, le cosce poderose, i tendini ben tesi. Non era carne cascante, flaccida, ma florida e la pelle era liscia, levigata di un bel colorito ambrato, che traspirava salute da ogni suo poro.

        Gemma prese coraggio. Indirizzandogli i greppi appuntiti del tridente nella schiena, chiese severamente. «Chi è lei? Cosa ci fa nella mia stalla?»

        Lui sobbalzò e fece per voltarsi. In altri momenti sarebbe stata lei stessa a ordinargli di farsi riconoscere in volto, ma non adesso, che non indossava nulla.

    «Non si volti.» gli disse facendogli male con il forcone. «Mi dica piuttosto chi è.»

    «Glielo dirò se mi leva i rebbi dalla carne. Il metallo è freddo e mi ha trasmesso dei brividi.»

    «Bando alle ciance.» esclamò non disposta a scendere a patti.    «Mi dica cosa ci fa qui. È un ladro di bestiame?»

    «No, per carità.»

    «E allora? Si spicci, si presenti.»

    «Sono Andrea, il mio nome è Andrea.»

    «Andrea e poi?»

    «Andrea Grandi.»

    «Sono nomi di fantasia?»

    «No, se mi dà il modo di mostrarle la mia carta d’identità, capirà che non sto mentendo.»

    «Nome e cognome non mi dicono nulla. Lei non è sicuramente di queste parti. Le interessano i cavalli o voleva rubare il vitellino che a breve nascerà.»

    «Nulla di tutto ciò. Torno a ripeterle che non sono un ladro. Deve credermi.»

    «Le credo soltanto se riuscirà a giustificare la sua presenza chiaramente non invitata. Cosa l’ha portata qui?»

    «Sono un viandante. Stavo camminando quando mi ha colto il temporale. Ho avvistato la stalla e vi sono addentrato per ripararmi dalla pioggia e da questo freddo micidiale.»

    «Lei non me la conta giusta. La gente per bene non se va in giro di notte e sotto la pioggia. Ora mi dica una sola ragione perché stava fuori, con questo tempaccio.»

    «La verità è che mi si è impantanata l’auto. È finita in un fossato e non sono riuscito a farla andare né avanti né indietro. Mi sono messo in cammino in cerca di aiuto, ma nel raggio di due chilometri non sono riuscito ad avvistare una casa. Stavo rassegnandomi a tornare indietro per dormire nella macchina, aspettando che la tempesta fosse passata, quando ho avvistato la stalla.»

        Gemma era restia a credergli.

        Obiettò: «Se aveva bisogno di aiuto, perché non ha bussato a casa. È poco distante da qui. Il suo comportamento rispecchia invece quello di chi si nasconde o deve nascondere qualcosa.»

        La ragazzina era perspicace, ma lui pensò di sviarla da quei fondati sospetti, spiegandole pazientemente.

    «Mi sono reso conto soltanto a metà strada che non sarei dovuto scendere dalla macchina. Sarei dovuto starmene buono ad aspettare la schiarita, ma è inutile oramai rimuginarci. Per strada sono stato assalito dai cani randagi, che mi hanno ridotto a mal partito. Sono ferito, lacero e bagnato. Chi vuole che sarebbe venuto ad aprirmi, senza prendere un colpo o senza scambiarmi per un malintenzionato? Il rischio di essere impallinato era altissimo, perciò sul momento, la stalla mi è sembrata l’unico rifugio possibile.»

        La ragazza imbracciò nuovamente il forcone.

    «La spiegazione che mi ha appena data non è del tutto convincente. Perché è nudo?»

    «I miei abiti grondavano acqua da tutte le parti. Li ho tolti per metterli ad asciugare e soprattutto per evitare di buscarmi una broncopolmonite.»

    «E naturalmente lei pensa, che conciato in questa maniera, se la risparmierà.» gli chiese con un filo di sarcasmo.

    «No, difatti sento un freddo bestiale. Forse mi coglierà una febbre da cavallo. Senta, signorina, dal momento, che stiamo discorrendo piacevolmente, possiamo darci del tu?»

    «Non è possibile. Io il tu lo do soltanto a chi conosco. Inoltre lei come fa a sapere che non sono una signora.»

    «Innanzi tutto, ti ho vista arrivare e parlare con la partoriente. Eri tenera e molto carina, soprattutto come ti muovevi. Quanti anni hai? Quattordici, quindici?»

        Gemma si sentì sminuita nel suo orgoglio di donna. Era da un pezzo che non era più una bambina, come dimostrava la ragguardevole lievitazione del seno. Possibile che lui non l’avesse notato, quanto fosse sodo e appariscente.

    «Lei, signore, sta prendendo una solenne cantonata, perché se proprio la vuole sapere tutta, io i sedici anni li ho compiuti da un pezzo.» gli rispose immusonita.

    «Davvero?» chiese lui alzando ironicamente un sopracciglio. «E da quando tempo?»

        Lei ebbe il vago sentore che non la stesse prendendo nella giusta considerazione, a causa della giovane età e la cosa le stava dando enormemente fastidio.

    «Da due mesi.» precisò. «Può chiederlo ai miei genitori, se non crede alla mia parola, anzi vado a svegliarli, così parla direttamente con loro.»

    «Ti credo, piccola. Non c’è bisogno che t‘inalberi o che incomodi i tuoi genitori.»

    «È colpa sua che mi vuole provocare.» lo accusò.

    «Mi scuso, allora, se ho suscitato la tua sensibilità. Facciamo pace?» le disse con un sorriso un po’ beffardo.

    «Che senso ha farla, se noi due nemmeno ci conosciamo.» gli rispose a tono.

    «Ci stiamo conoscendo ora. Una bella signorina come te, non può essere tanto urticante da ignorare una mano tesa. Non quando possiede una voce tanto gradevole e intonata, come la tua.» la complimentò con galanteria. «Per di più, mi sei sembrata la protettrice delle bestie e una fata della notte.»

        Queste parole le piacquero e Gemma senza avvedersene abbandonò tutta la sua aggressività. A lui parve naturale voltarsi, per potersi guardare negli occhi. Quando la ragazza se ne accorse, lui non era più di spalle ed era oramai troppo tardi per porvi rimedio.    Gemma cercò di guardarlo in volto, senza vedere cosa ci stava più in basso, ma non le era sempre possibile, perché gli occhi irrequieti, seguendo un loro moto istintivo di curiosità, spaziavano ovunque, soprattutto dove non dovevano.

        Era dunque difficile non accorgersi dell’appendice carnosa di cui lui era prodigiosamente dotato. Era un membro ragguardevole per lunghezza, spessore e bellezza. Gemma mantenne il mento in alto, fissando lo sguardo in un unico punto che culminava con gli occhi dell’uomo, ma le palpebre tendevano involontariamente ad abbassarsi, le pupille a vagare per conto proprio.

        Il giovane che le stava davanti, era davvero molto carino sia nei tratti virili del volto, che nelle fattezze corporee. I folti capelli di un castano chiaro erano tutti bagnati e gli sferzavano disordinatamente il volto, era una immagine da film hollywoodiano, da divo del cinema ma ciò che la colpì maggiormente furono i suoi occhi, azzurri come il mare.

        Gemma ispezionò ogni tratto di quel volto, le labbra piene e il mento incorniciato da un filo di barba che gli dava l’aspetto di un sopravvissuto dopo il diluvio universale. Il giovane sconosciuto non poté fare a meno di sorridere, nel notare come lei ardimentosamente evitava di confrontarsi con la sua virilità. Gli stava davanti come se fosse una cosa del tutto naturale, ma tutte e due sapevano che non era così. Andrea la sapeva fremere d’imbarazzo e inconsciamente ne godette. Godette della sua ingenuità, del suo essere un’adolescente inesperta. Lei colse la malizia in quello sguardo.

        Chi era? Non di certo del villaggio, altrimenti Gemma lo avrebbe visto da qualche parte. Il luogo in cui viveva era talmente piccolo che ci si conosceva tutti. Ognuno sapeva dell’altro, fatti e fattacci, come dire vita, morte e miracoli.

        Lo minacciò. «Tu vuoi fare il furbo con me. Vado a chiamare mio padre, che se la veda lui.»

        Lui la trattenne per un braccio. «No, ti prego.» le disse. «Non andare, non mettermi in guai peggiori.»

    «Perché no?» chiese combattiva. «Se tu sei quello che dici di essere e se soprattutto sei munito di buone intenzioni che paura hai di confrontarti con lui. Ti assicuro che mio padre è la persona più comprensiva di questo mondo.»

    «Questa volta lui non capirebbe. Credimi che non potrebbe farlo, neanche volendolo.»

    «Capire cosa?»

    «L’intera storia. Tuo padre potrebbe interpretarla molto male.» spiegò. «Ammetterai anche tu che questa situazione è strana e compromettente soprattutto per te.»

    «Che c’entro io?» chiese sobbalzando. «Sei tu che ti sei intrufolato nella proprietà altrui.»

    «Pensaci. Io e te da soli, di notte, con me che sono completamente nudo. Tu sei una ragazza molto appetitosa e

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