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Arrivò i primi di gennaio: Teenage Dreams vol. 01
Arrivò i primi di gennaio: Teenage Dreams vol. 01
Arrivò i primi di gennaio: Teenage Dreams vol. 01
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Arrivò i primi di gennaio: Teenage Dreams vol. 01

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About this ebook

Tra i corridoi della Franklin Gooding Junior High School, Vermont, c'è sempre un gran daffare.
Suze ha appena scoperto di essere incinta del fidanzato già bello che partito per New York, all'inseguimento di un sogno che sembra non gli lasci nemmeno il tempo di guardarsi indietro.
Ash è il playboy della scuola, la borsa di studio in tasca e un futuro pieno di aspettative, nonché di un piccolo segreto che sa che non potrà tenere proprio per sempre.
E un freddo giorno di gennaio ecco arrivare Lian, con l'abbronzatura di Los Angeles e gli occhi turchesi, eccentrico, brillante, linguacciuto e bellissimo, pronto a creare scompiglio e farsi perdonare scoccando incantevoli sorrisi.
Senza dimenticare Gloria, Neil, Jamie, Cody, Chris, Lauren e una girandola di compagni vecchi e nuovi, deliziose infatuazioni arcobaleno, insegnanti fuori dagli schemi, suggestive escursioni sulle Green Mountains, baci rubati sotto fiocchi di neve e vere amicizie che sfidano il tempo e le distanze.
D'altronde, se non è movimentata, che adolescenza è?
LanguageItaliano
PublisherLivin Derevel
Release dateOct 2, 2019
ISBN9788834171226
Arrivò i primi di gennaio: Teenage Dreams vol. 01

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    Arrivò i primi di gennaio - Livin Derevel

    9788834171226

    Suze

    Teneva la mano premuta sulla bocca talmente forte che le unghie le si conficcavano nella guancia, disegnando mezzelune profonde e perfette. Il pizzicore si stava intensificando, ma Suze non vi badava.

    Gli occhi erano fissi sulle linee rettangolari, di pochi millimetri di spessore e di lunghezza. Due maledette lineette di un indaco spento, nel mezzo di un altro rettangolo dallo sfondo bianco, immacolato, che sembrava evidenziare ciò che aveva davanti, ovvero una nuda verità che la logica di Suze stava cercando di smontare. Forse era un errore di fabbricazione. Forse non aveva letto bene il bugiardino. Forse non aveva fatto le cose a dovere. Forse qualcosa che aveva mangiato aveva falsato il risultato.

    Le ci vollero cinque minuti buoni per spostare la mano e riprendere a respirare normalmente. Un tremito l’assaliva a ondate, i brividi le agitavano il petto, il ventre, le gambe rendendole molli, aveva la vista appannata ma non ne era certa. Non che se ne curasse: la realtà parve appartenere a un’altra dimensione.

    Il test di gravidanza era positivo. Positivo, positivo, positivo.

    Il colore delle due stanghette ora era diventato prugna, vivido, visibile e non fraintendibile.

    Abbandonò il test sul mobiletto e si posò i palmi sulle cosce, inspirando a più riprese.

    Non poteva essere.

    Non. Poteva. Essere.

    Con la mente tornò all’ultima volta che lei e Benedict avevano fatto l’amore. Un mese prima, forse un mese e mezzo. Possibile che non si trattasse di un semplice ritardo? Com’era successo? Non l’avevano mai fatto senza preservativo, mai. Che si fosse rotto e nessuno dei due se ne fosse accorto?

    Un vago senso di malessere le formò un grumo in gola, impedendole di deglutire.

    Doveva levarsi ogni dubbio. I test di gravidanza non erano infallibili, avevano l’1% di margine di errore e, per quanto poco fosse, poteva benissimo essere il suo caso. Perché no?

    Raddrizzò le spalle, sospirando a metà, come se avesse paura di attirare su di sé l’attenzione del cosmo che le aveva giocato uno scherzo di cattivo gusto. Si alzò ancora malferma e afferrò la stecca bianca e leggera, alla cui estremità non smettevano di svettare le linee, sfacciate e insinuanti. La gettò nel cestino e richiuse il coperchio, posandovi sopra un piede per impedire che quel segreto trapelasse.

    Doveva andare al consultorio il prima possibile. Con la mente che tornava lucida, calcolò l’orario scolastico e cercò un buco nella sua agenda immaginaria che le permettesse di andare e tornare, forse domani, forse oggi stesso.

    Doveva chiamare Benedict? Doveva metterlo al corrente su cosa stesse succedendo o era meglio non creare inutile allarmismo? E se si fosse trattata di una semplice, stupidissima inesattezza?

    E se invece il test stesse dicendo la verità e Suze fosse…

    Si torturò la frangetta, scompigliandola, lisciandola, arricciandola. Una sorta di intorpidimento le aveva liberato le vie respiratorie ma il peso si era spostato allo stomaco, ai polmoni, e il senso di nausea svaniva e ricompariva, la testa piena di ovatta.

    «Suze? Suze, tutto a posto?»

    La voce di suo padre la trapassò, la pelle d’oca la investì e Suze si rese conto di star sudando freddo.

    «Bene, bene… Arrivo subito!» replicò, più stridula del consueto.

    Normale. Doveva essere normale. Sembrare normale, fare finta di nulla, dimenticarsi di quel mastodontico dettaglio fino a che non avesse trovato un punto di luce nel caos, e fino a quel momento l’idea della gravidanza sarebbe rimasta un fantasma, una fantasia di quelle che evaporavano dopo essersi svegliati la mattina.

    Riaprì il sacchetto dal cestino mezzo vuoto l’assenza degli assorbenti e la presenza della barretta le strizzò le viscere in una morsa – lo sfilò e lo chiuse adoperando il fragile filo di plastica.

    A tradimento, gli occhi le si riempirono di lacrime ma le ricacciò indietro. Non era il caso di disperarsi, né di farsi prendere dal panico. Era ora di andare a scuola.

    Lanciò un’occhiata alla propria immagine riflessa nello specchio, come per accertarsi di essere intera, composta, normale. Tirò il maglioncino sul ventre, non piatto ma nemmeno meritevole di sospetti, insignificante.

    La bocca si piegò in un sorriso all’etere, falso, così falso e molle che sperò non si sciogliesse in un pianto.

    Girò la chiave e uscì. Suo padre era in cucina. Udiva l’acqua del lavandino scorrere e il rumore delle stoviglie che venivano sciacquate e posate sulla griglia per asciugarsi alla frizzante aria di gennaio. Suze corse in camera, posò la borsina verde menta a terra e si infilò la giacca senza perderla di vista un secondo. Assestò la tracolla sulla spalla e la riprese al volo, strinse il solco del laccio come se avesse voluto strozzarla, ucciderla, annientarla.

    «Suze, vuoi i muffin di ieri? Ne sono rimasti due al limone e uno al cioccolato.» Suo padre era sorridente, radioso come sempre, biondo e all’oscuro della tempesta che le stava azzannando l’animo.

    «No, grazie, li lascio per la mamma.» Si arrestò sulla soglia della cucina, a osservare le sue spalle ampie, le scapole che si muovevano sotto una maglietta troppo leggera per l’inverno. Bart si voltò – non si era fatto la barba – e le rivolse un sorriso interrogativo.

    «Sì?»

    La verità le risalì l’esofago, sleale e devastante. Il desiderio di condividere l’ansia, di sfogarsi, di gridare quanto quell’imprevisto la stesse terrorizzando.

    Irrigidì la mascella e il sorriso finto sfumò. Sentì freddo alle guance.

    «Niente. Vado. Ciao.»

    Non incrociò il suo sguardo. Si avviò alla porta con passo troppo lungo e uscì di fretta, trasformata un blocco di esile cristallo.

    Lian

    Più in alto dell’entrata principale campeggiava la scritta a lettere cubitali, in rilievo di almeno sei centimetri, di un color argento fulgido e lucido. Quasi ci passassero la cera tutti i giorni.

    C’era scritto Franklin Gooding Valley High School. Ogni volta che lo si leggeva, pareva che dalle due finestre poste sopra Gooding e High uscissero folate di brillantini glitterati e, in sottofondo, profondi sospiri di intenso, stucchevole e patriottico orgoglio.

    Lian aspirò una boccata dalla sigaretta, col naso all’insù a osservare l’innegabile presenza scenica della facciata del suo nuovo liceo. L’edificio aveva un che di antico che gli ricordava i college inglesi, con i mattoni incastonati con l’accuratezza di un gioco di abilità, delimitati da sottili strisce di cemento dipinto di un professionale color cacao, e la bizzarra sensazione che suscitava il mescolamento tra liberale, moderno, coloniale, rigido e pretenzioso.

    Le ampie ante del portone d’ingresso erano di vetro spesso, zigrinate in due fasce orizzontali che facevano risaltare l’acronimo di ciò che stava scritto qualche metro più su.

    Putacaso qualcuno non l’avesse notato.

    Aspirò di nuovo ed espirò il fumo dalle narici, col collo che doleva un poco per la posizione scomoda. Infilò una mano guantata nella tasca della giacca ed estrasse l’iPhone quel tanto che bastava per controllare l’orario. Era in ritardo di quaranta minuti.

    Non male come primo giorno.

    Aveva acidità di stomaco – come tutti i primi giorni – e probabilmente il caffè che aveva ingoiato bollente un quarto d’ora prima non lo stava aiutando.

    Un’ultima boccata e schiacciò il mozzicone contro il disco del posacenere annesso al portarifiuti e ve lo gettò, decidendosi a entrare. Abbassò la maniglia laccata e spinse.

    All’interno c’era caldo, un corroborante tepore umidiccio che profumava di vaniglia non troppo dolce. Le pareti erano bianche e tappezzate di fogli volanti, attestati di riconoscimento incorniciati, fotografie di sconosciuti che stringevano mani a personaggi ancora più sconosciuti, poster contro l’anoressia e il bullismo, e un’enorme bacheca con gli annunci più disparati, che andavano dal cercare un bassista per una band all’appello di chi cercava testi di biologia usati.

    Lian sarebbe rimasto volentieri lì davanti, a leggere e curiosare, ma la sua parte razionale lo informò che era arrivato il momento di fare il bravo. Imboccò il corridoio di sinistra mentre si sfilava i guanti e li gettava in una tasca qualsiasi della tracolla, lo percorse per qualche metro, poi di nuovo a sinistra, seguendo le indicazioni della mail ricevuta settimane prima. Di tanto in tanto udiva rumori di tacchi alti o risuonare di voci, donne che ridevano, trilli non identificati, ma dovette ammettere che l’ambiente era tranquillo. Insolito. Sereno. Calmo. Eppure, comunque americano.

    Ma d’altronde quella era la Franklin Gooding Valley High School. Chi era quel farabutto che si sarebbe immaginato qualcosa di diverso?

    Trovò l’ufficio del consulente scolastico senza problemi. L’ennesima porta di vetro spesso, goffrata e insonorizzata – neanche a dirlo: con su zigrinata l’immancabile cifra – e accanto a essa un’altra bacheca di sughero, dove però erano appesi avvisi e cartoncini per qualunque tipo di aiuto di cui chiunque avrebbe potuto aver bisogno. Sostegno psicologico per studenti, e per genitori, numeri utili per chi avesse subito maltrattamenti a casa, o a scuola, o sui mezzi pubblici, brevi vademecum su cosa occorresse fare in caso qualcuno accusasse un malore, indirizzi di consultori e dipartimenti sanitari che Lian non sapeva esistessero.

    Tenevano anche sedute degli alcolisti anonimi?

    Bussò due volte, con garbo, evitando di indovinare le sagome di cosa ci fosse oltre. Attese cinque secondi. Al settimo una voce femminile gli concesse il permesso di entrare.

    «Salve» esordì con un sorriso rassegnato, quello del buon viso a cattivo gioco.

    Si stupì di ciò che vide.

    Di solito i consulenti erano di mezza età, tracagnotti, ben messi e con sorrisi prossimi alla paresi, indossavano eccentrici abiti da grandi magazzini e ai polsi portavano orologi appariscenti o enormi bracciali pacchiani.

    Quella che si trovò davanti, invece, era una bella ragazza. Bionda, i capelli mossi che le cadevano sulle spalle come acqua increspata, formosa, un seno di proporzioni appropriate e un viso grazioso, due pazienti occhi da gatta e le labbra dolci. Un paio di orecchini a forma di fragole dotate di pupille strabuzzate. Giovane. E pallidissima.

    «Ciao, accomodati pure» lo salutò sollevando la testa dal documento che stava compilando, indicandogli la sedia di plastica arancione di fronte alla scrivania. «Tu sei il ragazzo nuovo, vero? Sei… Sei…» Frugò tra incartamenti e post-it con la fronte aggrottata, nascosta da una frangetta di perfezione geometrica.

    «Lian» terminò per lei. «Killian Brethower.» Si accomodò poggiando la borsa accanto a sé e accavallò le gambe. «Killian Ellis Brethower.»

    «Killian, sì…» confermò la ragazza. Parve spaesata per un attimo, poi si ricordò di sorridergli e di tendergli la mano. Era carina. «Scusami per la confusione. Io sono Suzanne Ollister, ma per tutti a scuola sono Suze.»

    «Piacere di conoscerti» ricambiò il sorriso. «Non avevo idea che gli studenti potessero fare da consulenti.»

    Suze rise, una risatina sensuale, delicata, mentre estraeva da un cassetto una cartelletta rossa che spalancò.

    «I primi anni sono stata l’assistente della consulente, e quando è andata in pensione hanno pensato bene di evitare di spendere soldi e ci hanno messo me in cambio di qualche credito e una bella lettera di raccomandazione per l’università. Adesso sono all’ultimo anno» cinguettò con le gote che riacquistavano colore.

    «Wow» si sentì in dovere di commentare, dandosi un’occhiata in giro. Rosso, arancio, giallo, verde e blu, scaffali lucidi, libri dalle copertine incellofanate. Un caleidoscopio studiato per stimolare le allucinazioni.

    «Dunque, Killian…»

    «Lian» precisò d’istinto. Si aspettò la legittima ramanzina per essere entrato in ritardo, ma non arrivò.

    Suze lo squadrava a tratti, in tralice, poi spuntava caselle presenti qua e là sulle carte contenute nella carpetta.

    Burocrazia studentesca. Sarebbe stato di gran lunga più divertente se Suze stesse compilando una valutazione basata sulla prima impressione. Magari la Franklin aveva standard talmente alti da aver ideato griglie per giudicare se un estraneo desideroso di entrare a far parte della congrega fosse un bullo, un criminale, una spia o uno psicotico armato che avrebbe potuto freddare venti persone in un giorno d’eclissi.

    «Perché hai cambiato scuola a inizio semestre?» gli chiese la ragazza, ignara delle sue divagazioni visionarie.

    «I miei viaggiano parecchio, per lavoro, ma stavolta hanno optato per stabilire il definitivo campo base qui» spiegò con semplicità.

    «Bello.» Suze gli fece un sorriso di circostanza. «Che lavoro fanno?»

    «Manager. Mia madre si occupa dell’organizzazione di eventi di beneficenza, sportivi, fiere, mio padre invece di concerti, party, presentazioni… Roba così.»

    «Mh-mh» annuì la ragazza, per nulla impressionata. Riprese a scribacchiare con la penna sulla cui estremità si ergeva un variopinto animaletto dai connotati non identificabili.

    Lian lo trovava piacevole. Preferiva non avere più a che fare con consulenti zuccherosi che lo inondavano di moine pur di farlo sentire a casa, che lo trattavano come il figliolo perduto e ritrovato dopo una decade, o che passavano il tempo ad appioppargli problematiche surreali.

    Suze si manteneva a distanza e sembrava non dare peso né al suo piercing né al suo taglio di capelli né il suo abbigliamento. Il che gli piacque.

    Cominciava inaspettatamente bene.

    «Ok.» Suze chiuse la cartelletta, posando la penna. «Probabile che ti ci vorrà un po’ per ambientarti, ma vedrai che ti piacerà.» Si alzò e andò a uno degli scaffali, quello rosso vivo. Fece scorrere l’anta e ficcò le dita tra grossi raccoglitori ed enormi buste di plastica trasparente. «Non abbiamo ancora ricevuto i tuoi documenti dalla scuola precedente ma immagino siano stati in vacanza anche loro, quindi credo arriveranno entro questa settimana. Intanto ti do…» Posò sulla scrivania una risma di opuscoli e plichi graffettati. «… i programmi delle materie, i libri di testo che puoi trovare usati cercando con cura nella bacheca all’entrata, gli orari, le tabelle dei corsi extra-curricolari, il calendario degli esami, la lista dei club nel caso ti voglia iscrivere…»

    Ecco, quella era la parte che peggiorava l’acidità di stomaco di Lian. Informazioni, troppe, troppe indicazioni tra cui orientarsi ogni dannata volta, tra professori di cui non avrebbe ricordato i nomi, aule che non avrebbe trovato, club stravaganti a caccia di adesioni. Ma li accettò e li allineò docile, sospirando dentro di sé.

    Sperò che il New England sarebbe davvero diventato il campo base.

    «Le squadre ormai sono al completo ma se tu volessi provare a entrare in qualcuna fammelo sapere, potrei riuscire a farti avere qualche aggancio» continuò Suze, conciliante. «Suppongo che con alcune materie avrai bisogno di sostegno giacché il programma è diverso da quello seguito in California, vero?»

    Giacché. Aveva sul serio detto giacché?

    «Abbiamo diversi aiutanti che si occupano del range completo di studenti: freshman, sophomore e junior, e anche senior quando hanno bisogno dell’ultima spintarella, ma non si tratta di veri e propri gruppi di studio. Se hai qualche problema con una materia comunicamelo, e ti farò avere un appuntamento con un supporter, ok?» Attese che Lian scuotesse la testa per proseguire. «E, oh… tra due settimane c’è il Sadie’s Hoaks [1] .» Gli porse il volantino con su stampata una tremenda fantasia di colori confetto che raffigurava una ninfa, o una fata, o una cosa del genere.

    «Grazie, anche se penso sia tardi per me» rise.

    «Le ragazze della Franklin sono molto intraprendenti. E tu sei un bel ragazzo.» Suze gli fece l’occhiolino. «Secondo me alla fine della giornata ci sarà la fila per le proposte.»

    Lian si limitò a fare un sorriso a metà tra la perplessità e il divertimento.

    Allora la consulente non aveva occhi soltanto per la burocrazia…

    «Dunque… il tuo armadietto è il 34/A» dichiarò ricontrollando uno dei post-it, che incollò alla carpetta rossa. «Se vieni con me andiamo alla portineria e ci facciamo dare la combinazione, e ti mostrerò l’ala dov’è il tuo corridoio.»

    «Stupendo.»

    Lian raccattò la risma che Suze gli aveva consegnato e la ficcò nella tracolla, cosa che l’appesantì di almeno due chili. Prima di allontanarsi, Suze infilò nella maniglia un piccolo cartello con su scritto Torno subito.

    Spaventoso.

    «Purtroppo nemmeno noi sfuggiamo a saltuari episodi di bullismo e nonnismo» notificò, mentre camminavano fianco a fianco. Si voltò verso di lui con un sorrisino ironico. «Ma di solito con quelli alti e con le spalle quadrate non se la prende nessuno.»

    Lian rise.

    «M’impegnerò per tenermi fuori dai guai.»

    «Sei uno che di solito li combina?» Lo chiese con aria divertita, da sorella maggiore.

    «Di solito sono loro a combinarsi intorno a me.» Suze rise di nuovo.

    «Sei un furbetto» riassunse col tono di chi fosse aduso a interpretare le persone. Tornati all’entrata si affacciarono alla soglia laterale, che dava su un grande ufficio che trasudava competenza, organizzazione e impegno.

    «So farmi perdonare piuttosto bene» mormorò, sornione.

    Suze lo studiò, da capo a piedi.

    «Sì. Scommetto che riceverai un sacco di inviti per il Sadie’s» confermò a se stessa. Entrò e Lian la seguì, domandandosi se alla Franklin anche gli arcobaleni fossero intraprendenti.


    [1] Il Sadie’s Hoaks è un ballo scolastico che di norma si svolge in gennaio e in cui, al contrario di come accade al ballo di fine anno oppure a quello di homecoming, è tradizione che sia una ragazza a invitare un ragazzo.

    Ash

    «Gli italiani dovrebbero farsi meno seghe mentali» fu il commento di Neil, che frugava nel proprio armadietto. «Non bastava lo Spleen di Baudelaire, ci servivano anche le tre fasi del pessimismo.»

    Ashley sorrise nel sistemare i libri di lingua. E imprecando sottovoce perché lo spazio lì dentro non era mai abbastanza. Un Senior non ne poteva chiedere uno più grande?

    Qualcuno sferrò un pugno all’armadietto accanto al suo, provocando un gran sferragliare.

    «Ehi, latin lover, perché non dici alla Paris Hilton dei poveri di dare una calmata agli ormoni?»

    Gloria stava masticando una gomma dal raccapricciante sentore di liquirizia, il ciuffo tinto di nero le cadeva sull’occhio sinistro facendola ritornare al suo periodo emo.

    «Ti sta ancora tormentando?» ridacchiò Neil.

    «Si è seduta vicino a me a storia e ha passato l’intera ora a chiedermi di te.» Ficcò l’indice con l’unghia laccata nella spalla di Ashley, punzecchiandolo più volte. «Non eri tu quello che metteva subito in chiaro le cose?»

    «È esattamente quello che ho fatto anche con lei» replicò tranquillo, infilando nella borsa il tomo di algebra avanzata. «Se sono così affascinante da distrarle mentre provano ad ascoltarmi non è colpa mia.» Si passò una mano tra i capelli con fare teatrale. Gloria inarcò le sopracciglia.

    Era difficile batterla sul suo stesso terreno.

    «La prossima volta le dirò che sei andato a letto con la sua migliore amica, così vi odierà entrambi.»

    «La sua amica è quella che ha un neo sopra l’ombelico?» Sia lui che Gloria si misero a ridere.

    «Ehi, c’è uno nuovo» disse Neil.

    Ashley e Gloria si voltarono. All’altro lato del corridoio c’erano gli armadietti delle terze.

    «Porcatroiachefigo.» Gloria si affrettò a portare la ciocca dietro l’orecchio per avere la visuale completa.

    Quello nuovo si notava.

    Uno stangone con un taglio di capelli improbabile e jeans talmente aderenti che Ashley non fece fatica a registrare la forma tonda e soda del fondoschiena. Indossava una giacca di denim imbottita che lo fasciava come se fosse fatta su misura, millimetro per millimetro. Accanto a lui c’era Suze che era tutta un sorriso, e che non gli arrivava nemmeno alla spalla.

    Ashley tornò a concentrarsi sulla scelta dei libri per l’ora successiva, dando prima una rassicurante occhiata alla stampa della pin-up dalle labbra scarlatte che aveva appesa all’anta dell’armadietto. Ammiccava candida e maliziosa, con i seni messi in bellavista da un abito rosso vermiglio costellato di pois bianchi.

    «Potrei chiedere a lui di venire al Sadie’s Hoaks» ragionò Gloria. «È il mio tipo.»

    «Ma il tuo tipo non era quello sfigato del club di…»

    «Neil, sei rimasto indietro, l’ho scaricato da settimane.»

    «Ah…»

    Ashley richiuse l’armadietto con un sospiro.

    «Ci vediamo oggi, ragazzi» si congedò avviandosi verso le scale che portavano al secondo piano, senza voltarsi.

    Gli studenti si smistavano nelle rispettive aule in un chiacchiericcio che si andava smorzando. Scese i gradini con calma, conscio che la professoressa Insky sarebbe arrivata col solito quarto d’ora di ritardo, quindi non c’era bisogno di mettersi fretta. Alle spalle udì passi che scendevano spediti, gli ci vollero pochi istanti per capire di chi si trattasse.

    «Ash!» Suze gli afferrò un lembo del maglione, agitandolo come se dovesse usarlo per farsi aria. «Sei scappato senza una parola!» lo rimproverò, col tono di una maestrina.

    «Eri impegnata a fare gli onori di casa con quella pertica, non volevo distoglierti dal compito» sorrise, riappropriandosi del suo indumento.

    «Hai notato quant’è carino?» Finse di civettare, imitando a scelta una delle fanciulle frequentate da Ash. «Fa molto anni ’90 conciato in quel modo, vero? Ma è simpatico.» Sorrise. «Che ne diresti di portarlo a una partita, uno di questi giorni?»

    «Ti direi di no.» Non era la prima volta che Suze tentava di fargli fare da baby-sitter a un novellino. «Lo sai che tratto novizi solo se questi indossano calze a rete, abitini aderenti con fiocchetti e la scollatura in evidenza.» Si fermarono nei pressi di un uscio aperto. Dalla classe si levava un brusio allegro, e un aeroplanino di carta entrò in collisione con la lavagna magnetica. «Inoltre, mi pare che stesse benissimo in tua compagnia.»

    Suze sorrise alla frecciatina, ma non durò. D’un tratto si rabbuiò, e Ashley ebbe l’impressione che il sangue le fosse defluito dal volto all’improvviso, rendendolo una maschera di cera.

    «Stai bene?» Aveva detto qualcosa di sbagliato? «Tu e Benedict avete litigato?»

    «No…» soffiò lei. Scosse la testa con energia. «No, non ti preoccupare. Oggi ho… Fatico a concentrarmi.» Si passò le dita nella frangia e l’arricciò. Ashley la osservò dubbioso. La frangia era l’indicatore esterno di Suze, e ogni volta che lo toccava significava che le cose non andavano per il verso giusto.

    «Sul serio, Suze?» Marcò l’ultima parola, un espediente che di norma la convinceva. «Cos’è successo?»

    «Learson, che fa fuori dalla classe?» La Insky arrivò nel momento meno appropriato. «Non è l’ora di pausa. Si sbrighi o dovrà giustificare l’assenza che le segnerò.» Camminò in mezzo a loro, con le scarpe dal tacco vertiginoso che rumoreggiavano, smaltate di vernice verde pisello in tinta coi collant menta ricamati.

    «Vai» annuì Suze. Che sembrò sollevata.

    «Ehi, mi devi raccontare» sussurrò sulla soglia. «Ci vediamo all’uscita?»

    Suze fece cenno di no e gli mimò il gesto di scrivergli un messaggio al cellulare. Dopodiché si voltò e zampettò via, come il personaggio di uno dei cartoni animati che guardava.

    « Learson» lo riprese la Insky.

    Ashley si sedette in uno dei banchi della prima fila, vuoti come di consueto, chiedendosi che diavolo fosse preso a Suze. A rifletterci, era difficile che avesse discusso con Benedict: la notte prima era rimasto in videochiamata con lui fino all’una e non aveva accennato a niente di simile, e Ashley dubitava che avessero potuto litigare di prima mattina.

    La lavagna si riempì di calcoli, cifre, incognite e simboli, si udì lo sfogliare delle copertine dei quaderni e delle pagine, e poi l’unica voce fu quella della professoressa che teneva una lezione monocorde sull’aritmetica.

    Ad Ashley la Insky non piaceva. La trovava fredda, sgarbata e noiosa, incapace di trasmettere i concetti chiave e di coinvolgere gli studenti, col risultato di arrivare alla fine dei semestri con valanghe di insufficienze per cui non faceva altro che lamentarsi di fronte al bancone della caffetteria. E, se possibile, le lezioni supplementari erano ancora peggio.

    Per fortuna non erano problemi suoi, e tra qualche mese avrebbe considerato quella vistosa scorbutica e boriosa come un vago ricordo, fastidioso e marginale.

    Si massaggiò la radice del naso con la gomma del portamine, ripensando a Suze e alla potenziale questione con Benedict.

    La sua mente vagò ancora, un poco più indietro, a quando l’aveva scorta accanto al nuovo studente proveniente dalla California – che gli aveva nominato a dicembre dell’anno precedente.

    Aggrottò la fronte, risolvendo distratto una funzione differenziabile.

    Lo spilungone non c’entrava. Suze non era il genere di persona che si prendeva una cotta per il belloccio di turno, né tantomeno che si creasse problemi per un ragazzo appena conosciuto.

    Si trattava di una delle loro faccende private in cui non doveva impicciarsi? Forse.

    Seppure fosse strano che nessuno dei due non si fosse confidato.

    Sospirò alzando gli occhi, incontrando una brutta scrittura storta e un’espressione che sarebbe stato in grado di risolvere a mente.

    Si chiamava Lian. Che nome sciocco. Aveva dei capelli del cazzo. Un bel fisico. Un bel culo. E gli pareva di aver intravisto una bella bocca e un piercing.

    Si batté il portamine sulla tempia, facendo uscire tre millimetri di grafite.

    Non c’era ragione di pensarci. Si sarebbero incrociati ai cambi d’ora – forse neppure in tutti – ed era improbabile che avrebbero frequentato le stesse compagnie, a giudicare dal suo aspetto. Al termine dell’anno scolastico sarebbe diventato una macchiolina indistinta nei suoi ricordi, meno pregnante della Insky ma altrettanto trascurabile.

    Riportò l’attenzione agli esercizi individuali, e un biglietto ripiegato a quadratino gli rotolò sul banco. Lanciò un’occhiata alla sua destra, appena indietro, dove Maggie Winter gli stava facendo l’occhiolino, arrotolandosi una ciocca intorno alla biro. Ashley le sorrise e sbirciò il bigliettino.

    Rise senza rumore per la proposta esplicita che vi era scritta, e di nuovo si girò, con in sottofondo una voce roca e sgraziata che spiegava che il limite fosse da intendersi in relazione alla topologia del piano. Le diede conferma con uno sguardo d’intesa, rapido, essenziale, che non pretendeva preliminari. Infatti Maggie emise una risatina, guadagnandosi un richiamo dalla Insky.

    Ashley tornò alla sua funzione con un sorrisetto sulle labbra, col buonumore che montava e riponeva in un cassetto a chiusura temporanea Suze, il nuovo venuto, e un’altra tremenda ora di inutili spiegazioni mal gestite.

    Si prospettava un pranzo movimentato.

    Lian

    Chris era simpatico, anche se aveva l’aria dell’allucinato che si fumava di tutto e di più. Nell’arco di venti minuti gli aveva raccontato la sua vita, e ora Lian sapeva che suonava in una band – grunge, glam-rock, soft-metal e chissà che altro – in cui faceva il batterista, che il giorno di Natale si era lasciato con la ragazza, che aveva saggiamente deciso di lasciar perdere i sentimenti per un po’ visti i disastrosi trascorsi, e che andava bene in storia, letteratura, italiano e spagnolo.

    «Quindi, se hai bisogno chiedimi quello che vuoi. Ti darò una mano volentieri!» gli stava dicendo, agitando una forchetta di plastica della mensa.

    «Lo farò senz’altro» assicurò Lian, infilandosi in bocca uno sfilaccetto di pollo di insolita bontà per provenire da una mensa scolastica. Alla Franklin si trattavano bene.

    Intorno, il tipico chiasso degli studenti allo stato brado.

    Lui e Chris – Christian in realtà – erano seduti a un tavolo al confine tra l’ala loser e quella dei comuni mortali, e Lian si stava chiedendo a quale casta scolastica potesse appartenere la sua consulente. Ricopriva una carica importante all’interno del sistema, era bella, probabile che avesse ottimi voti, simpatica e con plausibili doti da leader.

    Ma quegli orecchini…

    Lian concluse che fosse da annoverare tra gli outsider. All’apparenza aveva le carte in regola per fluttuare nel cielo dei popolari, ma sospettava che avesse interessi troppo personali per potersi uniformare alla massa quanto essa chiedesse.

    «Chris, ciao…» Una vocina attirò l’attenzione di entrambi.

    «Ciao, Lauren! Ti siedi con noi?» replicò il batterista, con quel modo di fare a cui sembrava impossibile dire di no. Lian nascose una risata bevendo un sorso di acqua minerale.

    La ragazza era ben piazzata, coperta da una felpa grigia con il logo di un’università dell’Arkansas e capelli rossicci legati in una coda di cavallo sulla nuca. Aveva il viso coperto di lentiggini e una bocca timida, che però dava l’idea di qualcuno a cui piacesse ridere.

    «Lauren, ti presento l’ultimo acquisto della scuola!» esclamò Chris indicando l’interessato con entrambi gli indici. «Stavolta non l’hanno preso ai saldi.»

    Lauren virò a un colore che ricordava un’amarena, nel salutarlo.

    L’esuberanza di Chris non doveva essere facile da gestire.

    Lian le sorrise, cosciente che quella non sarebbe stata l’ultima scena quantomeno bizzarra in cui si sarebbe trovato, al nuovo liceo. Cercava di evitare i gesti plateali, di mettersi in mostra, di parlare a voce troppo alta, ma attirare l’attenzione era uno di quei talenti che prescindevano dal suo controllo.

    Nel bene e nel male.

    Aveva notato diverse ragazze – di secondo o terzo anno – voltarsi a intervalli di tre minuti, lanciandogli occhiate che a volte sorridenti, a volte curiose, a volte perplesse.

    Doveva ammetterlo: il suo ultimo taglio non era venuto granché bene.

    Li aveva lasciati troppo lunghi sulla destra e li aveva scalati dall’altra parte, senza contare che la rasatura sulla sinistra non risultava regolare ma obliqua, che tendeva verso l’alto in modo vistoso e non troppo professionale.

    Suo padre aveva ragione: Lian faceva schifo come parrucchiere. Soprattutto di se stesso.

    «Puoi dire quello che ti pare, ma intanto il semestre me l’ha salvato» sentì dire da Lauren.

    «Bello sforzo: ha una borsa di studio! Se l’avessi pagato avrebbe fatto il compito al posto tuo» replicò Chris. Lian riportò lo sguardo sui due.

    «E quindi? È riuscito ad aiutarmi, al contrario di Lynde, perché perlomeno Ash sa spiegare una formula senza partire dall’abaco.»

    Chris allargò le braccia con aria fatalista.

    «Lynde però si era offerta di aiutarti.»

    «L’ho anche ringraziata, ma con le sue divagazioni non l’avrei presa, una B.»

    «Oh, andiamo, Ash non è poi quel genio che dicono!»

    «Genio o no, preferisco farmi dare ripetizioni da chi è in grado di insegnare.»

    «Di chi parlate?» domandò. Lauren e Chris lo fissarono per un attimo. Ci volle qualche istante perché si ricordassero della presenza di un estraneo.

    «Ah, non so. Da come ne parlano pare lo Stephen Hawking della scuola, ma a me risulta che sia solo bravo in matematica» commentò Chris, disfattista. Lauren scosse la testa.

    «Sono stata assente quasi due settimane perché mi sono fratturata un braccio a ottobre, ed ero rimasta indietro col programma» spiegò la ragazza. «Avevo bisogno di un aiuto in fisica o non ce l’avrei fatta, ma sembrava che i supporter disponibili se ne intendessero ma che nessuno la sapesse esporre in maniera decente.» Scrollò le spalle. «Lynde è una tutor ma non mi è stata d’aiuto, quindi ho supplicato l’unico che credevo potesse insegnarmela, e infatti…» Si rivolse a Chris, che non perse il suo atteggiamento scettico. «E ha la media della A in ogni materia.»

    «Non lo definirei un mito per certe bazzecole.»

    Lauren lo squadrò con un’espressione talmente aspra che Lian per poco non si mise a ridere.

    «Quand’è che hai preso cinque A consecutive?»

    «Siamo a gennaio. Finora ho conservato le energie» asserì, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

    «Ashley è uno studente di quarta.» Precisò Lauren a beneficio di Lian, ignorando il compagno di corso. «Ha ottenuto una borsa di studio per la matematica e l’anno prossimo andrà al MIT [2] .»

    «Per la matematica?» Lian rise. «Cazzo, beato lui.» Lian era una sega coi numeri, così pessimo che nemmeno un patto col diavolo gli avrebbe mai fatto ottenere una A.

    «È arrivato primo nelle graduatorie nazionali» aggiunse Lauren, addolcita e, a quanto pareva, fiera che frequentassero il medesimo istituto. «Si farà valere.»

    Chris emise un verso simile al gracchiare di un corvo.

    «Sa fare due più due. Non è che abbia inventato la macchina del tempo, o fatto tornare in vita Michael Jackson.»

    Lauren riprese a mangiare con aperto sdegno. Lian sorrise nell’osservarli. Le fitte di nostalgia per gli amici lasciati a godersi le spiagge della west coast non si erano ancora fatte sentire, e si augurò di trovare qualcuno che le avrebbe rese più sopportabili.

    Forse avrebbe dovuto finire il pranzo e farsi i fatti propri.

    Ma farsi i fatti propri non era il suo forte.

    «Perché tanta antipatia, Chris?» lo interrogò, sbirciando Lauren nel caso avesse avuto qualche reazione eloquente.

    «Per quanto mi riguarda non ho motivo di considerarlo la perla del liceo… come fa invece certa gente.»

    Un secondo di vaga perplessità aleggiò sullo stretto tavolo.

    «È perché ha avuto una tresca con la sua ragazza.»

    Fu il turno di Chris di lanciare sguardi omicidi a Lauren. Lian socchiuse la bocca, sorpreso.

    «Beh, sì, Ashley è un playboy» ammise Lauren, seguitando a trascurare la vena che stava assumendo contorni definiti sulla fronte di Chris. «Ha una certa nomea di sciupafemmine, già dal primo anno, e…»

    «Oh, sul serio?»

    Chris schioccò la lingua, assestandosi sulla sedia di plastica grigio scuro.

    «Due anni fa. Annie adesso è al college. E ci tengo a far notare che non era una tresca ma è stata la storia di una notte. Anche Annie diceva che era stato soltanto sesso» assicurò.

    Lian annuì cercando di immaginarsi che tipo fosse l’ex di Chris. Una suonata sopra le righe? Una tosta rocker con i capelli tinti di tre colori? O una ragazzetta sbarazzina, amante delle sensazioni stravaganti? E Ashley che persona era? Assomigliava a Chris o ne era agli antipodi?

    «Peccato che ti abbia paragonato ad Ash prima di mollarti» mormorò Lauren bevendo diversi sorsi d’acqua, prima di aggiungere una postilla. «Quella stronza.»

    «Annie non era una stronza, era…»

    «Era una stronza.»

    Lian tolse la pellicola d’alluminio da un budino al cioccolato e vi immerse il cucchiaio, smettendo di ascoltare discorsi personali che in fin dei conti non lo riguardavano. Mentre Chris e Lauren battibeccavano, si rilassò tornando a esaminare coloro che sarebbero potuti essere i suoi futuri compagni.

    Le suddivisioni erano meno marcate rispetto a ciò cui era abituato.

    Intravide il tavolo degli emo in disparte, verso la vetrata in fondo alla sala. Un ragazzo dalla chioma bionda e gonfia, una ragazza con una selva di capelli rosa peonia e mèches nere e con indosso un abito gotico, un’altra platinata e minuta con una specie di astrusa divisa bianca e blu, e uno stuolo di personaggi più o meno truccati, più o meno scapigliati.

    I nerd erano facili da individuare, per l’aspetto dimesso e per la tendenza a riunirsi ai margini. Un ragazzo con degli enormi occhiali dalla montatura nera – che, chissà come chissà perché, a Lian piacevano tantissimo – se ne stava chino sul vassoio e accanto a sé armeggiava con un tablet o un reader. Un secondo, dalla raccapricciante pettinatura anni ‘80, stava scrivendo sul cellulare da cinque minuti ininterrotti e sembrava che le palpebre dovessero stare attente a non far cadere i bulbi oculari.

    C’era anche un gruppetto di ragazzi alternativi – due dark, quattro di quelli che sembravano punk, e un tizio che Lian riconobbe con una certa meraviglia come molto simile allo steampunk. Prima o poi gli avrebbe rivolto la parola.

    Si accorse di una ragazza carina, ossigenata, seduta a qualche tavolo di distanza, che indossava una maglia a bande rosa fluorescenti e un paio di scarpe con piccoli teschi disegnati a mano libera. Che lo stava guardando.

    Mentre il suono della campanella irrompeva con un trillo frettoloso, Lian le sorrise, e lei fece lo stesso.


    [2] Massachusetts Institute of Technology: una delle più importanti università di ricerca del mondo con sede a Cambridge, nel Massachusetts.

    Ash

    Ashley si massaggiò una tempia. Sospirò, appoggiato con la schiena all’armadietto. Lasciò cadere a terra la tracolla e svitò il tappo dell’acqua frizzante per berne metà in una volta, col piacevole brivido dell’anidride carbonica che gli solleticava il naso.

    Farsi fare un pompino all’ora di pranzo era senz’altro piacevole, ma ritornarsene al terzo piano con le proprie gambe diventava difficile. Soprattutto se si doveva fare di corsa, soprattutto se non metteva niente sotto i denti dalle sette di quella mattina.

    Forse aveva ragione sua madre. Stava passando troppo tempo sui libri.

    Rialzò le palpebre quando udì un debole chiacchiericcio lungo i gradini, rumore di passi, di suole di scarpe, ma poi niente, nessuno che stesse salendo. Meglio.

    Tornò a posare la nuca contro la lamiera, abbandonandosi a un lungo momento di riposo nel sonnacchioso silenzio del primo pomeriggio.

    Durante le vacanze ci aveva dato dentro come un forsennato per completare la tesina di presentazione e per prepararsi al test di matematica dell’università. Per due settimane si era svegliato alle sei di mattina e aveva svolto esercizi su esercizi, studiato una quantità inimmaginabile di nozioni e teoremi, che poi aveva applicato a dozzine di esempi, sfogliato decine di testi consigliati per rendere la sua formazione quanto più elastica possibile. Il tutto fino alle undici di sera, quando il suo cervello chiedeva pietà e decideva di staccare in automatico i contatti col mondo.

    Ingollò l’acqua che era rimasta. Il mal di testa si profilava lontano ma concreto in una qualche zona frontale, segno di un imminente calo di zuccheri. Aveva lo stomaco chiuso e la sola idea di inghiottire qualcosa di solido gli faceva venire da vomitare.

    Sapeva di aver raggiunto la meta. Sapeva di aver svolto un buon lavoro sin dal primo anno e ora il successo era diventato reale, tangibile, tanto da poterlo rileggere a suo piacimento ogni volta che riapriva la lettera siglata giunta dal Massachusetts.

    In quei mesi non gli restava altro che mantenersi allenato, senza né adagiarsi sugli allori né scivolare fuori dal tracciato.

    Mancava poco.

    Così poco.

    Persino il diploma gli sembrava un passaggio intermedio e non più un obiettivo. Quello che per ogni liceale era il punto d’arrivo per antonomasia, per Ashley era un banale momento di transizione, perché consapevole di cosa l’aspettasse oltre il tocco e quel foglio di carta intestata con la firma della preside.

    Gli sembrò di udire uno scalpiccio ma non volle uscire dallo stato di sopore in cui si era calato. Una manciata di secondi, la morbida illusione di un sonno rubato.

    Una parte di lui avrebbe voluto che il tempo volasse. Che fosse già estate, che il primo giorno in università fosse l’indomani, le aule enormi, le lezioni elaborate, la massa di studenti che provenivano da ogni parte d’America e del mondo, l’appartamento spoglio in un palazzo umido, il sentirsi maledettamente lontano da qualunque cosa. Il sentirsi un qualsiasi nessuno e fare finta che non esistesse niente che non andasse.

    L’altra parte, invece, aveva un terrore fottuto che gli impediva anche solo di immaginare come sarebbe stato.

    «Qui nel Vermont siete sempre tutti così calmi o è questo freddo?» s’intromise una voce che costrinse Ashley a risvegliarsi di colpo. Il presente gli assestò uno schiaffo tale da destabilizzarlo quando si accorse che la voce apparteneva alla pertica.

    A Lian.

    Che lo stava osservava con un sorriso, dal lato opposto del corridoio.

    Merda.

    «Non c’è motivo per andare di fretta.» La risposta più stereotipata che Ashley avrebbe potuto dare. La classica frase da turisti della domenica che veniva stampata sulle cartoline con lo sfondo delle Green Mountains.

    «No, in effetti» commentò, tornando a scartabellare all’interno del proprio armadietto, ancora vuoto, disadorno e triste. «Non è male qui. Nella scuola dove stavo prima non si poteva girare l’angolo senza venire travolti da qualcuno che correva a gambe levate.» Rise lanciando un’occhiata ad Ashley, che non aveva dato segni di vita. «Questo liceo è un’oasi di pace.»

    Ashley si sforzava di ascoltarlo. Si sforzava di pensare che dovesse ficcare a sua volta le mani tra le sue carabattole fingendo di essere occupato, di ricordarsi della lezione di letteratura spagnola che era iniziata da venti minuti, di non dimenticare di essere venuto tra le labbra alla ciliegia di una ragazza appena un quarto d’ora prima.

    Eppure tutto quello che riuscì a fare fu continuare a fissare quelle spalle muscolose, la schiena ampia e i fianchi gentili. I capelli erano neri, lisci, lunghi fino alle scapole, tosati da un giardiniere impazzito, scalati sulla destra e rasati sulla sinistra, dove si intravedeva un sottile velo di crescita.

    «Oh.» Lian si voltò. E Ashley avvertì il vuoto sotto i piedi quando incontrò senza ostacoli due occhi dalle ciglia scure, blu, enormi, che brillavano come riflessi sull’acqua. «Era un complimento, eh.»

    I nuovi arrivati erano il male.

    «Certo.» Preda di un’ispirazione divina, riuscì a muoversi per andare a gettare la bottiglietta vuota nel cestino della spazzatura, e quando tornò accanto alla borsa fu felice di spendere due minuti buoni armeggiando con il lucchetto.

    «Poca carica?»

    Perché certa gente si ostinava a voler fare conversazione? Non aveva notato di avere di fronte un tizio mezzo addormentato che stava usando espedienti imbarazzanti per non assecondarlo? Non poteva partire con qualcun altro per farsi degli amici?

    «Vorrei essere a letto, in questo momento.»

    Senza compagnia. Da precisare.

    «Io dovrei avere lezione di…» Fruscio di fogli spiegazzati. «Di health. Cavoli, non credevo fosse obbligatoria.»

    «Qui lo è da tre anni» puntualizzò. Da bravo precisino, avrebbe cinguettato sua madre. E un ulteriore centinaio di conoscenti.

    «Ti prego, dimmi che non usano banane.»

    Suo malgrado, Ashley si ritrovò a ridere sul libro di chimica.

    «Quando c’è la Feldman.»

    Lo sentì emettere un verso con un’intonazione bassa, virile, che gli scivolò lungo la colonna vertebrale come la prima pioggerella estiva. Avvolgente, liscio, come se Lian si fosse appena svegliato.

    Ashley puntò lo sguardo alla pin-up che ammiccava, procace e invitante. Si sforzò di riportare alla mente Hailey, e poi Maegan, Samira, Justine, e una conseguente serie di ragazze che in un modo o nell’altro avevano reso liete molte ore di scuola.

    «È normale questo clima?» riprese Lian, facendolo fremere. Ashley respirò adagio. Il cuore batteva accelerato nella gabbia toracica e lungo le vene del collo.

    «È gennaio.» Di nuovo quel verso insoddisfatto, sfiduciato, di nuovo un brivido che gli scalò il torace.

    Doveva stare calmo.

    «Sono cresciuto a Los

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