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di Vincenzo Ruggiero *
Deprivazione relativa
Tra gli studiosi che non sono disposti a riconoscere il fattore ‘razzismo istituzionale’, e che
tuttavia rifiutano ogni associazione automatica tra retroterra etnico e criminalità, vi sono
coloro che simultaneamente rifiutano l’idea che ‘le statistiche criminali vengano
perennemente manipolate da una polizia razzista che arresta gli stranieri anziché dare la
caccia ai veri criminali’ (FitzGerald, 2004: 22). Penso ad autori che fanno proprio il
paradigma classico della deprivazione relativa, secondo cui la presenza sproporzionata delle
minoranze nelle statistiche criminali è funzione degli svantaggi sociali che ne caratterizzano
la condizione. La loro stessa visibilità, d’altro canto, si deve al tipo di occupazione loro
disponibile, che si svolge spesso per strada, esponendoli così all’attenzione poliziesca. In
questa prospettiva, non ha senso spiegare come mai tanti stranieri vengano fermati per
strada dalle forze dell’ordine, ma piuttosto esaminare come mai tanti stranieri sono
frequentatori assidui della strada.
Il rapporto tra criminalità e condizione sociale generale forma l’oggetto di studio di Tonry
(1999), il quale distingue tra immigrati di prima e di seconda generazione, notando che i
secondi incontrano problemi più acuti di assimilazione e sono più propensi all’illecito in
quanto accusano in misura maggiore il senso di frustrazione per le aspettative deluse. Se ai
genitori, come suggerito sopra, viene imposta una drastica riduzione delle aspettative,
analoga imposizione ha scarsa efficacia nei confronti dei figli, cresciuti nella convinzione di
possedere diritti uguali ai figli degli autoctoni. Le generazioni successive, viene detto,
mostreranno tassi di criminalità non dissimili da quelli rilevati nella popolazione in generale.
Analogamente, Marshall (1997) focalizza l’analisi sul crimine come conseguenza della
disillusione e della discriminazione sociale subita dai giovani figli di immigrati, e la variabile
‘aspettative tradite’ ritorna negli studi post-coloniali, che tentano di interpretare, ad
esempio, le differenze nei tassi di criminalità tra i giovani di origine caraibica e quelli di
origine asiatica. Il declino delle condizioni economiche e sociali che colpisce specifiche
minoranze viene indicato come uno dei fattori che favoriscono le condotte criminali. Questi
fattori includono, tra l’altro, l’inadeguatezza dell’ambiente familiare, l’assenteismo paterno,
l’insuccesso scolastico e la zona urbana di residenza. ‘Le condotte criminali sono senza
dubbio più diffuse nelle aree svantaggiate, particolarmente laddove si concentra la povertà
estrema e dove la stabilità residenziale è limitata e la precarietà elevata’ (Webster, 2007:
65). In simili ambienti urbani, lo svantaggio sociale e l’esclusione darebbero vita a identità
aggressive, mascoline da parodia, e ad atteggiamenti di sopraffazione che favoriscono le
carriere criminali.
In una ricerca promossa dalla Camera dei Comuni nel Regno Unito, similmente, viene
reiterato che, nell’esaminare i dati su criminalità e minoranze, occorre tener presente che
queste ultime vivono condizioni di svantaggio di natura occupazionale, formativa e abitativa,
condizioni che ‘in parte si presentano come fattori predittivi del comportamento illegale e
che favoriscono l’incontro col sistema della giustizia criminale’ (House of Commons, 2007:
38). In breve, le analisi ufficiali del nesso tra mionoranze e criminalità fanno propria la
nozione di deprivazione relativa e con questa spiegano il fenomeno della disproporzionalità;
e mentre quest’ultimo fenomeno viene collegato alle pratiche discriminatorie adottate dalle
agenzie di controllo, un ruolo importante viene anche assegnato a fattori socio-demografici,
alla presenza delle minoranze nelle strade, al loro stile di vita e alla loro visibilità,
particolarmente in zone prese di mira dalla polizia.Viene infine anche ricordato che
l’investigazione poliziesca compie sforzi supplementari quando si trova di fronte a denunce
contro stranieri e minoranze, sui quali per altro custodisce una mole relativamente superiore
di informazione (Home Office, 2005). Questo è ancor più vero nel contesto italiano, dove
come si è detto la quasi totalità degli stranieri viene forzata a depositare i propri dati
dattiloscopici presso le agenzie di controllo.
Se da un lato la letteratura internazionale non fornisce dati definitivi sui tassi criminali
rilevati presso le minoranze in rapporto a quelli delle maggioranze (Bowling e Phillips,
2002), dall’altro lato, gli studi di cui si è appena detto si concentrano quindi, anziché sui
processi di criminalizzazione, sul nesso povertà-delinquenza. In debito con la tradizione
ecologica degli anni ’20 dello scorso secolo, simili studi propongono la nozione di ‘zone
devianti’ come chiave esplicativa di come determinate condotte siano concentrate in alcune
aree urbane. Tra i fattori esaminati vi sono la densità popolativa, l’abbandono, i tassi di
inattività registrata, e l’instabilità demografica.
‘In breve, mentre le diverse zone offrono strutture di opportunità e motivazioni
sensibilmente differenziate all’attività deviante e criminale, simultaneamente
attraggono le persone più propense a svolgere simili attività, in quanto i meccanismi
del controllo sociale in queste zone sono deboli o inefficaci’ (Barak, 1998: 198).
In conclusione, gli alti tassi di criminalità tra le minoranze si devono in larga misura all’area
urbana nella quale queste risiedono, piuttosto che al loro retroterra etnico o alle risposte
istituzionali che la loro criminalità sollecita.
Questa ipotesi, come ho notato, costituisce una estensione delle analisi prodotte dai
sociologi di Chicago i quali, tra gli annni ’20 e ’30, identificavano delle ‘aree di transizione’
nell’ambiente urbano dove si concentravano le più visibili ‘patologie sociali’. I nuovi migranti
che intendevano congiungersi a conoscenti e familiari, veniva argomentato, erano attratti da
zone le cui condizioni sociali e le cui subculture prevalenti determinavano una perpetuazione
dell’illegalità. Questa analisi, tuttavia, merita un decisivo aggiornamento. Con l’espansione
dei movimenti migratori e, simultaneamente, delle economie criminali, la variabile ‘zona
urbana di residenza’ perde in parte di valore esplicativo, in quanto i beni e i servizi illeciti,
anche quando forniti dalle minoranze, raggiungono strati di popolazione che trascendono le
specifiche comunità e la loro composizione etnica. A questo proposito, gli autori che
adottano una prospettiva post-coloniale prestano maggiore attenzione alle differenze di
classe, all’esclusione di tipo strutturale e all’oppressione percepita dagli stranieri (Tatum,
1996), che producono ‘alti livelli di alienazione, criminalità e violenza anche internamente
alle stesse minoranze’ (Barak, 1998: 209). Vorrei partire da queste considerazioni per
affrontare il rapporto stranieri-crimine da un’altra prospettiva.
Crimine e vulnerabilità
Nella ricerca che ho segnalato, condotta in Italia dal Ministero Dell’Interno, si traccia una
distinzione preliminare tra reati strumentali, che mirano a raggiungere fini economici, e reati
espressivi, determinati da passioni e conflitti. Per quanto utile, simile distinzione andrebbe a
mio avviso corredata con categorie che stabiliscono i costi e i benefici dei singoli reati, in
maniera da verificare se alcuni gruppi di rei, tipicamente, adottano condotte criminali che li
espongono a rischi elevati ma producono rendimenti limitati.
L’argomentazione che mi accingo a presentare può trarre beneficio dal discernimento che ci
offre un autore classico afro-americano: Richard Wright. I suoi protagonisti, anche quando
commettono crimini, sono autodistruttivi, incapaci di controllarne gli esiti e di cambiare,
attraverso l’illegalità, la propria condizione sociale. Anche se violenti, la loro è la violenza dei
violati (Ruggiero, 2005). Dobbiamo a Bauman (1990) una serie di riflessioni relative alla
libertà di scelta e a come questa sia profondamente differenziata tra gli individui e i gruppi.
A ognuno viene offerta una gamma di scelte, e con questa, una serie di strumenti per
prevederne gli effetti. Lo svantaggio sociale, in questa prospettiva, coincide con una limitata
varietà di opzioni disponibili, ma anche con una percezione inadeguata dei risultati ai quali
le opzioni conducono. Insomma, i migranti, ai quali vengono offerte opportunità limitate nel
mercato del lavoro ufficiale, si trovano di fronte a una gamma altrettanto limitata di scelte
nei mercati illegittimi. E’ questa una forma meno visibile di ‘criminalizzazione’; si tratta di
una distribuzione differenziata delle opportunità criminali che sfavorisce immigrati e
minoranze, alle quali vengono lasciate le mansioni e le condotte più rischiose, spesso meno
remunerative, e maggiormente esposte all’intervento istituzionale. Se, come ho fatto
notare, il costo della scelta deviante e criminale per i migranti è relativamente basso, sono
invece gli effetti di simile scelta a presentare costi elevatissimi. In altre parole, se la
condizione di marginalità favorisce l’accesso alle aree sociali adiacenti, frequentate da
operatori illeciti e dalla loro clientela, una volta fatto ingresso in simili aree i migranti
troveranno un rapporto costi-benefici radicalmente sfavorevole.
I dati sommariamente esposti nelle pagine precedenti indicano che per le rapine in banca e
negli uffici postali, forse i reati di maggiore valore aggiunto, la quota degli stranieri è
estremamente bassa. E’ alta, al contrario quella relativa ai borseggi, ai furti in abitazione e a
quelli di autovetture, dai quali scaturiscono profitti presumibilmente modesti. Lo è anche per
le rapine di strada, che al costo emotivo elevatissimo per le vittime non fa corrispondere
benefici altrettanto elevati per gli autori. I dati ci rivelano un repertorio di reati bagattellari
altamente stigmatizzati, facilmente investigabili e scarsamente remunerativi. Ci segnalano
poi che esiste un tipo di vittimizzazione che si compie tra stranieri, una vittimizzazione intra-
etnica e inter-etnica. Quello che i dati non rivelano sono i crimini che definisco autoinflitti. Mi
riferisco, ad esempio, al traffico di esseri umani che, quando effettuato da stranieri, colpisce
le stesse minoranze etniche che ne sono l’utenza. La prostituzione, a sua volta, vittimizza le
donne straniere, e non risulta che gli imprenditori criminali immigrati siano in grado di
reclutare lavoratrici del sesso italiane, più propense, semmai, a occupare le fasce protette,
voluttuarie, di simile economia. Il racket della protezione operante nelle maggiori città
italiane, quando condotto da immigrati, colpisce generalmente altri immigrati, né la
vittimizzazione degli italiani verrebbe tollerata dai gruppi indigeni. Come già notato, anche
molti reati di violenza, quando non commessi da italiani ai danni di immigrati, vengono
perpetrati internamente alle enclave delle minoranze etcniche immigrate (Ruggiero, 1999).
Per gli omicidi, infine, quando commessi fuori da strutture ben organizzate, la vulnerabilità
dell’autore si deduce dalla alta probabilità dell’arresto. E’ quanto si osserva in ogni paese,
dove l’uso di assassini a contratto protegge i mandanti e lascia osservare bassissime quote
di denunce nei loro confronti. E’ proprio in relazione alla criminalità strutturata a mo’ di
impresa che gli stranieri in Italia lasciano osservare un panorama di incerta definizione.
Vediamone degli elementi desunti da alcuni degli studi disponibili.
Nella letteratura sul crimine organizzato dei migranti in Italia ricorrono una serie di giudizi, a
volte poco pertinenti, che vengono trasmessi dalle agenzie istituzionali agli studiosi, da
entrambi ai giornalisti, e da questi ultimi al pubblico. In una premessa che viene replicata da
più parti senza fornire prove che ne corroborino il contenuto, si specifica che le
organizzazioni criminali formate da stranieri ‘si caratterizzano per la particolare violenza e
aggressività nella commissione dei reati e per la costante crescita delle loro potenzialità
operative’ (Di Nicola, 2008: 193). E’ davvero difficile stabilire in che cosa consista questa
‘particolarità’, vista la potenza di fuoco e la forza espansiva del crimine organizzato
indigeno. Ma certo: gli stranieri sono sempre partecipi di una cultura più violenta della
nostra! Più utili, semmai, sono gli studi che definirei ‘di settore’, mirati cioè a individuare il
tipo di attività illecita, l’area geografica di influenza e le interazioni che i gruppi stranieri
lasciano osservare con la criminalità indigena in questo e quel contesto. In maniera esitante,
e in attesa di maggiori riscontri, si può allora suggerire che in alcune regioni italiane la
criminalità organizzata straniera è indipendente dai gruppi italiani, questi ultimi essendo
impegnati in attività produttive e finanziarie legittime. Alcuni settori specifici dei mercati
illegali possono avere osservato un processo di ‘successione’, per cui i gruppi stranieri
vengono lasciati liberi di operare. In taluni casi, però, questa libertà viene concessa dai
gruppi indigeni in cambio di una percentuale sui profitti (Becucci e Massari, 2001; Becucci,
2006). In altre zone, tra i gruppi stranieri e quelli italiani si possono stabilire dei consorzi,
con una divisione del lavoro che dipende dal potere rispettivo o dalle abilità specifiche dei
primi di accedere a beni illeciti e distribuirli. In altre ancora, i gruppi stranieri possono agire
da dipendenti di quelli italiani, soprattutto in zone nelle quali la domanda di beni e servizi
illeciti è tradizionalmnete intensa. Infine, se si crede davvero che alcuni gruppi etnici sono
specializzati in attività illecite particolari, vale la pena investigare, ad esempio, se
l’immigrazione clandestina promosa dalle organizzazioni rumene non sia da collegare alla
domanda di lavoro da parte dell’economia sommersa italiana, se l’abilità dei gruppi russi di
penetrare nell’economia legittima non si debba alle modalità illecite che in questa sono
radicate, e se l’interesse dei gruppi cinesi nell’importazione di beni contraffatti non sia
l’effetto della particolare prosperità di questo settore illecito nel nostro Paese. In breve, la
criminalità straniera in Italia andrebbe forse analizzata sullo sfondo delle caratteristiche
criminogene che si osservano nel Paese. E’ quanto cercherò di fare nella parte conclusiva di
questo contributo.
L’Italia criminogena
Si diffonde rapidamente, in Italia, la percezione degli stranieri come una minaccia per
l’identità e la cultura nazionale. Suggerisco di capovolgere la questione e considerare la
pericolosità e la criminalità degli stranieri a partire dalla loro stessa percezione di quella
cultura nazionale che si sente ‘minacciata’. Ma prima, vorrei tornare brevemente all’assunto
di Sutherland dal quale sono partito. Gli stranieri, si è visto, commettono molti reati
bagattellari, mentre per reati particolarmente remunerativi la quota sul totale dei denunciati
‘è assai bassa e inferiore anche a quella degli stranieri sui residenti’ (Ministero Dell’Interno,
2007: 371). Lo stesso Ministero specifica che gli stranieri regolari, non quelli irregolari, sono
autori dei reati più gravi. I primi, infatti, sono responsabili principalmente di furto con
destrezza, furto di automobile e furto in appartamento. ‘Tra i secondi vi sono gli omicidi
consumati e tentati, il contrabbando, le estorsioni, le lesioni dolose, la violenza sessuale, lo
sfruttamento della prostituzione’ (ibid: 373). Se si ritiene che gli stranieri regolari abbiano
avuto più opportunità e più tempo di aquisire alcuni tratti della cultura ospite, di accumulare
una certa familiarità con i suoi mercati illeciti, di perfezionare le abilità nell’offerta di beni
illegali, e di stabilire principi di convivenza con la criminalità indigena, allora l’assunto di
Sutherland trova in Italia una sua innegabile validità. Il processo di ‘acculturazione’ fa in
modo che gli stranieri lentamente apprendano le modalità operative, le tecniche di
sollecitazione della domanda e i principi di regolazione dei mercati illeciti, e che acquisiscano
infine la duttilità di convivere con la concorrenza, in alcuni casi, e di dissuaderla con al
violenza, in altri. I mercati illeciti pre-esistenti al loro arrivo giocano un ruolo cruciale nel
processo della loro ‘acculturazione’. Ma esiste un altro aspetto di questo processo, che rende
l’acculturazione degli stranieri in Italia in un certo senso anomala quanto lo è il Paese che li
ospita.
E’ difficile stabilire quanti italiani siano consapevoli della reputazione del proprio Paese
all’estero. La scelta di migrare verso l’Italia non si nutre solo di immagini fallaci di
prosperità, di sogni irraggiungibili che ruotano intorno ad automobili rutilanti e abiti sfarzosi.
Il Paese è attraente non certo per le opportunità di occupazione legittima che offre, ma in
quanto Paese di illegalità diffusa. Chi cerca lavoro in Italia possiede già un repertorio di
informazioni, realistiche o meno, che descrivono il Paese come culla dell’evasione fiscale e
della mercificazione dei diritti. Sa che le autorità, incapaci di imporre regole ai datori di
lavoro, dimostreranno la stessa incapacità nei suoi confronti. Nella realtà o anche solo nella
percezione di chi non è ancora giunto in Italia, i visti consolari, le chiamate dirette, i
permessi di lavoro e di soggiorno si possono vendere o falsificare. Il Paese offre ad alcuni i
vantaggi della sua stessa cattiva reputazione, mentre suscita presso altri una serie di
commenti beffardi non si sa fino a che punto prodotti dal pregiudizio. I suoi rappresentanti
politici, si dice, sono uniti da un dato comune, i precedenti penali; i suoi colletti bianchi sono
noti esclusivamente per gli episodi di corruzione e per le scorribande irregolari nel mondo
della finanza. Tra le altre caratteristiche del Paese, percepite o comprovate, vi sono poi:
l’impunità degli imprenditori devianti; l’arroganza dei suoi faccendieri, operanti nel modo
dello sport come in quello della moda; il nepotismo dilagante, tra la gente di spettacolo
quanto tra i professionisti; i suoi latitanti eccellenti che per decenni vivono a pochi metri da
casa; le scarcerazioni causate dall’inefficienza o dalla collusione. La sensazione che violare le
norme, in Italia, sia parte del costume, se non addirittura oggetto di orgoglio e
ostentazione, è molto diffusa, tra europei e non. Vi è chi ritiene la stessa violazione delle
norme una delle cause della prosperità italiana a sua volta così ostentata. Dei turisti
facoltosi che arrivano a Londra si dice che vengano a sperperare l’ultima tangente. E delle
donne in pelliccia, uniche ormai in Europa a indossare l’indumento, si sussurra che abbiano
un ruolo centrale nell’esportazione illegittima di capitali. E’ un fatto che l’illegalità eccedente
di un Paese finisce per dar forma a percezioni diffuse ancora più eccedenti rispetto agli
episodi reali che vi si verificano. Ad esempio, un collega turco, non molto tempo fa, mi ha
chiesto se le patenti di guida, in Italia, non siano in vendita al mercato nero, visto che le
violazioni del codice stradale da parte degli automobilisti sono così comuni. Uno mio
studente pakistano è convinto che, per chi voglia vendere bambini, la soluzione migliore sia
rivolgersi a mediatori e acquirenti italiani. Le prostitute nigeriane che tornano al paese
d’origine vengono chiamate ‘italos’: suscitano ammirazione per aver soggiornato a lungo
illegalmente nel Paese in cui la polizia le lascia in pace e gli uomini, amanti della famiglia e
della Chiesa, le considerano merce sessuale prelibata. Il potere della criminalità organizzata,
a sua volta, valutato realisticamente o sopravvalutato, alimenta la percezione che, con
apparati statali così inetti, esistano nel Paese forme vicarie di affermazione sociale. La
longevità dei gruppi criminali italiani non solo rende manifesta l’inefficienza delle agenzie di
controllo, ma sembra suggerire che le attività illegali siano tollerate, o persino incoraggiate
da una domanda elastica che trascende il carattere illegale o meno dei beni erogati e dei
servizi offerti. L’illegalità dilagante, nella percezione dei migranti, possiede capacità
occupativa, offre protezione quando si è reclutati da gruppi potenti, e in generale consente
di elaborare delle efficaci tecniche di razionalizzazione.
Vorrei riferirmi alle ‘tecniche di neutralizzazione’ individuate da Sykes e Matza (1957), i
quali segnalano che per gli autori di reato il problema non è solo apprendere le modalità
pratiche che consentono di condurre con successo un atto illegale, ma anche trovare la
razionalizzazione, nei confronti degli altri e di se stessi, che legittimi quell’atto. Tra le
tecniche di neutralizzazione, oltre al diniego dell’esistenza della vittima o della rilevanza del
reato stesso, e oltre all’appello a una lealtà ‘altra’, gli stranieri possono elaborare la tecnica
del ‘condannare chi condanna’: come potrà un Paese dove ogni cosa è illegale discriminare,
condannandola, la mia illegalità?
Per concludere con una nota di ottimismo, occorre considerare che il processo di
acculturazione degli stranieri, in Italia, non ha ancora percorso tutte le tappe che potrebbero
completarlo. I gruppi criminali formati da migranti non sono in grado di stabilire sodalizi con
imprenditori devianti o uomini politici corrotti, né sono in grado di designare direttamente
dei rappresentanti e degli amministratori pubblici che potrebbero conferire un impeto senza
precedenti alla loro criminalità. In alcuni classsici della sociologia della devianza si sottolinea
che le carriere criminali di successo si compiono quando i gruppi impegnati in attività
illegittime entrano in simbiosi con le élite del mondo economico e politico (Cloward e Ohlin,
1960; Block, 1980; Chambliss, 1978). In questa maniera, crimine organizzato, crimine del
colletto bianco, devianza imprenditoriale e crimine di stato si fondono in una varietà di
forme inestricabili di illegalità dei potenti. A differenza dei gruppi italiani, gli stranieri sono
esclusi da questa simbiosi, e sembrano destinati, almeno per un po’, a frequentare i mercati
nascosti e quelli della criminalità convenzionale. Vi è da augurarsi che la loro acculturazione
non raggiunga presto completamento.
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