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Prova finale di
Francesca Salis
Relatore
Prof. Fabio Viti
Correlatore
Prof. Gino Satta
INTRODUZIONE 5
Tradizione e tradizionale 6
Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica 8
Identità, appartenenza. Il paese 10
Strategie e segni dell’appartenenza 14
Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca 15
BIBLIOGRAFIA 185
4 ▪ Indice
Introduzione
Sappiate adunque, ch' egli v'ha in Sardegna una quantità di costumi ricca di
considerazioni, d'aspetti, e di riguardi, che non furono ancora posti sotto la
speculazione della filosofia […]. Laonde i moderni Etnografi, che pei faticosi e
incerti studi […] tanti rischi si mettono, e tante migliaia di leghe divorano, qui
vicino nel seno del Mediterraneo, senza tanto travaglio, verrebbero al
pienissimo loro intendimento. Ivi non molto discosto dalle marine d'Italia
troverieno di che render paghi i desideri loro, meglio che nelle giogaie del
monte Tauro, del Caucaso, e del Tibet […]. Bresciani, Dei costumi dell’isola di
Sardegna, 1850
Il lavoro qui presentato intende proporre una lettura etnografica delle modalità di
produzione e costruzione di una tradizione e di un’identità locali all’interno di processi
storici e sociali di portata più ampia, messe in atto in un’area dell’hinterland del
capoluogo sardo attraverso l’organizzazione di una manifestazione folkloristica relativa
alle locali usanze nuziali.
Tradizione e tradizionale
In quanto evocazione del passato, la rappresentazione folkloristica, si pone non solo
come ricostruzione o riproposta autentica e fedele della tradizione, ma anche come
forma di “salvaguardia e difesa della tradizione”. Dagli anni ’80 del secolo scorso la
nozione di tradizione è stato oggetto di ampio dibattito antropologico il quale ha
determinato uno spostamento nell’orientamento teorico ed empirico della disciplina
folklorica o demologica, nella sua accezione di “studio della tradizione”. Attualmente la
nozione di tradizione non è più intesa come eredità culturale accettata passivamente
dai contemporanei per un suo valore intrinseco, quanto piuttosto
La disciplina non può allora limitarsi allo studio di ciò che preventivamente è stato
etichettato come tradizionale, bensì cogliere i processi attraverso cui si giunge alla
costruzione di oggetti che si pensano dotati di tale proprietà. L’obiettivo di questo
lavoro non è studiare la manifestazione folkloristica in quanto oggetto dotato di
tradizione, l’interesse non è rivolto ai comportamenti tradizionali come dati, quanto
piuttosto come prodotto finale di pratiche sociali e di strategie discorsive. Oggetto della
ricerca è la comprensione delle concrete modalità degli usi della tradizione, il come e il
perché della conservazione nel presente, nonché il senso e l’effetto sociale prodotto.
Attraverso quali strategie di valorizzazione e di attribuzione di senso la tradizione si
impone come insieme oggettivo di dati di fatto? Come viene utilizzata, da quali attori
sociali, in quali contesti? Per quali motivi?
6 ▪ Introduzione
regionalisti, paesi e storie locali, pensieri e oggetti tipici sono invenzioni” [Palumbo,
2003:13]. Con il termine “invenzione” non si intende però implicare che la comunità
inventata sia falsa, l’antropologia sembra aver definitivamente chiarito che invenzione
non equivale a falsità1. È un dato acquisito che la forza della tradizione non si misuri
sulla base del criterio dell’esattezza della ricostruzione storica [Lenclud, 2001:132]. I
contenuti della memoria possono essere inventati, possono ignorare il passato o
negarne la complessità. Tale consapevolezza ha permesso di mettere in secondo
piano il problema dell’autenticità, quindi di aprire la ricerca ai fenomeni cosiddetti
folkloristici o di revival, che l’approccio classico escludeva o cercava di gestire
separando i tratti “autentici” da quelli “inventati” e ricorrendo a categorie sfuggenti
come quelle di relitto, persistenza, recupero2.
Poiché “non è tuttavia mai inutile saperne un po’ di più sui materiali di cui il presente si
impadronisce per costituirne una tradizione” [Lenclud, 2001:132] e poiché un
sostanziale accordo presenta tali manifestazioni come fedeli rappresentazioni di un
modo tradizionale di fare le cose di cui si conservano dei frammenti, il primo capitolo
getta uno sguardo sul tradizionale prototipo cui fanno riferimento i matrimoni
folkloristici. In particolare, ho cercato di restringere lo studio alle usanze relative al
Campidano di Cagliari, per tentare un’analisi più specifica della rassegna selargina,
senz’altro la più significativa.
1
Si vedano a questo proposito gli articoli di Handler, Linnekin, 1984 e Hanson 1989 e 1991
2
Una definizione di queste categorie si trova in Delitala,1992
Introduzione ▪ 7
Nel secondo capitolo vengono invece descritti i tratti tradizionali che costituiscono il
Matrimonio Selargino nella sua concretezza. Non si tratta tanto di un tentativo di
descrizione della festa quanto di analisi degli elementi messi in scena. Da una parte
questi sono stati messi a confronto con la tradizione nuziale in area campidanese,
dall’altra con gli altri matrimoni folkloristici presenti in Sardegna. Tale strategia ha
permesso di far emergere l’arbitrarietà nella scelta operata dai costruttori della
tradizione, per cui sulla base di un canovaccio simile si ottengono messe in scena
differenti, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare in termini di tempo e
spazio.
Nel caso in questione, le motivazioni emerse a livello locale non appaiono sufficienti a
spiegare la nascita di una festa come il Matrimonio Selargino. La manifestazione è uno
dei primissimi esempi di valorizzazione del folklore sardo, sorta in un periodo, gli anni
’60 del secolo scorso, in cui il richiamo alla tradizione stentava ancora ad acquisire
quella connotazione positiva che costituisce il requisito fondamentale del suo costituirsi
come bene culturale etnografico. Solo inserendo la manifestazione nel più ampio
contesto delle politiche culturali intraprese durante il fascismo prima e di quelle
adottate dalla Sardegna in seguito all’istituzione quale regione autonoma poi, è
possibile comprendere le motivazioni che inizialmente portarono alla proposta di una
manifestazione di questo tipo.
8 ▪ Introduzione
Nel terzo capitolo ho quindi cercato di dare conto, almeno in parte, delle dinamiche
storiche e culturali che hanno dato luogo al processo di “turisticizzazione del dato
folklorico”, segnalato, forse per la prima volta, da Gallini nel 1971, cioè al recupero in
un contesto diverso degli elementi della tradizione, trasformati in spettacolo per i turisti.
Si noti che se molti aspetti del folklore sardo sono sopravvissuti sino ad oggi, la ragione
va ricercata anche nell’aver concepito il folklore come un’importante risorsa fonte di
richiamo turistico. Non è un caso dunque, che la valorizzazione delle tradizioni si
presenti storicamente in strettissima connessione con la promozione turistica. La
stessa gestione del folklore è stata affidata agli enti di promozione turistica. Da una
parte la Regione, che si è preoccupata di stabilire leggi apposite di salvaguardia
istituzionale e finanziamento pubblico, dall’altra i vari enti, a tutti i livelli istituzionali
(dall’Esit alle Pro Loco, passando per Ept e Aziende di Soggiorno), che si occupano
della distribuzione dei finanziamenti, gestendo, patrocinando, reinventando feste e
sagre “tradizionali”.
In generale sono state quelle feste a carattere devozionale che ancora resistevano,
con difficoltà, nei vari centri, le prime espressioni di folklore valorizzate e finanziate dai
vari enti regionali. Ma sin dall’inizio, si è cercato anche di incoraggiare la creazione di
nuove feste che potessero essere oggetto di interesse turistico. Un esempio è appunto
il Matrimonio Selargino, una manifestazione folkloristica che nasce come
rappresentazione di aspetti di vita tradizionale per l’intrattenimento dei turisti.
Introduzione ▪ 9
osservatore esterno, che riprende gli elementi del folklore (balli, canti, musiche,
vestiario) che si pensa possano incuriosirlo maggiormente. Non solo vengono ripresi
elementi caduti in disuso o abbandonati completamente da tempo, ma il cui
accostamento simultaneo sulla scena non ha riscontro con una ricostruzione verosimile
del passato. Non si dovrebbe guardare alla manifestazione come un caso di messa in
spettacolo di ciò che prima spettacolo non era, quanto piuttosto come un caso di
spettacolarizzazione tout court, cioè come scelta e realizzazione di qualcosa
appositamente per essere esibito, per attrarre l’attenzione su di sé. La
rappresentazione non evoca la realtà passata che si dice rappresentare, evoca
piuttosto un’immaginaria realtà passata mai esistita, ma che appare verosimile per la
presenza dei simboli (attuali) dell’identità. La seconda motivazione è che nei discorsi
degli informatori i termini folklore e folkloristico sono usati alla stregua di sinonimi, il
termine folkloristico non ha quella valenza negativa e svalutante assegnatagli da
Cirese [1974:63], così come neppure mi è sembrato averla il termine turistico. La
distinzione è stata avanzata solo da parte di alcuni informatori locali “colti”, per
suggerirmi di distogliere l‘attenzione da un oggetto di ricerca non degno di seria
attenzione. I termini folkloristico e turistico, utilizzati per segnalare i prodotti culturali
non autentici, appaiono in questo contesto i referenti di una demarcazione accademica
per ciò che merita di essere preso in considerazione dagli scienziati sociali.
10 ▪ Introduzione
esclusioni, inclusioni”3. Anche Clemente, scrivendo dell’identità locale, ne mette in luce
la connessione con la dimensione dell’individuo, più che con quella del gruppo
[Clemente, 1997:22]. Entrambi fanno riferimento all’espressione demartiniana di patria
culturale, un “prodotto culturale mai definito una volta per tutte” che rinvia, sul piano
soggettivo, “al duplice ordine delle fedeltà e delle scelte” [Gallini (a cura di), 2003:7],
alla “possibilità paradossale di scegliersi le radici” [Clemente, 1997:23].
Nella sua ripetizione annuale l’evento si traduce in atto simbolico che operando una
congiunzione di passato e presente fonda la comunità di paese definendola nei suoi
termini sociali, politici e religiosi. Selargius è un paese non in ragione delle dimensioni
dell’abitato (che allora sarebbe più giusto definirla città) quanto piuttosto in riferimento
agli sforzi compiuti per definirsi come “primo centro di riferimento e relazione a una
cultura ibrida e molteplice” [Clemente, 1997:39], quindi in sintonia con l’analisi di
Clemente del concetto di paese nel nostro Paese, “un mondo della memoria e
dell’identità comune” [ivi:24], nonché “una realtà dell’immaginazione” [ibidem].
3
Presentazione di Gallini in id. (a cura di), 2003:12. In questo lavoro i termini identità e appartenenza
sono usati per lo più in modo interscambiabile, mentre per Gallini il primo si distingue dal secondo per
“le eventuali implicazioni psicologiche”.
Introduzione ▪ 11
fatto, ogni appartenenza esiste e si manifesta attraverso un lavoro sociale di
produzione dell’identità e della differenza, cioè attraverso l’attivazione di modalità –
immaginarie e pratiche – atte a indicare che questo o quello è un gruppo, e come tale è
dotato di determinate caratteristiche che lo rendono differente da un altro” [Gallini (a
cura di), 2003:7].
Qui il Matrimonio Selargino diventa oggetto di competizione ai fini del relativo controllo.
La manifestazione dà la possibilità di sfruttare risorse economiche e simboliche legata
alla costruzione di mondi tipici, provenienti dalle istituzioni regionali nonché
dall’inserimento nei mercati internazionali (per fare un esempio, la manifestazione è
regolarmente presente alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che si tiene
annualmente a Milano). L’evento è connesso, inoltre, alle logiche e all'immaginazione
dei media (tv locali e nazionali, quotidiani e riviste), capaci d'inscrivere rapidamente
4
Anderson, trad. it. 1996:25 e ivi, prefazione a cura di D’Eramo, p. 10
5
Il coinvolgimento di Serra verrà esaminato nel secondo capitolo. Per quanto riguarda Alziator, alcuni
informatori mi hanno fatto notare, quale motivo di vanto e di legittimazione, che l’importante studioso ha
assistito di persona alla festa e ha usato le foto scattate durante la manifestazione per illustrare quanto
scritto nella sezione “Amoreggiamento e nozze” in La città del sole [1963]
12 ▪ Introduzione
universi locali in contesti comunicativi globali, fornendo ai protagonisti del conflittuale
campo politico locale nuovi motivi di competizione e di legittimazione.
Un’altra osservazione che mi pare importante mettere qui in evidenza è l’idea condivisa
da tutte queste persone e vissuta come ovvia, naturale, per cui la manifestazione è da
considerarsi una risorsa fondamentale per lo sviluppo dell’economia locale.
L’assessorato alla cultura si confonde con quello al turismo e la cultura popolare è
classificata sotto la voce di patrimonio, valorizzata principalmente in relazione al suo
ritorno turistico. Anche qui, come praticamente in tutta l’isola, tutto ciò che si pensa
possa favorire il turismo è oggetto di cure particolari6.
6
Il ruolo del turismo come mezzo di sviluppo è un tema molto sentito in Sardegna. A questo proposito,
una voce fuori dal coro è quella dell’intellettuale cagliaritano Giorgio Todde [2006:30] che si scaglia
contro la politica prevalente per cui “l’unica crescita desiderata, progettata e accettata è quella turistica. Il
turismo violento e nevrastenico dei due mesi anfetaminizzati durante i quali organismi semplificati - i
turisti – confondono la vacanza (il vuoto nobile dei pensieri) con la vacuità (il pieno di pensieri vuoti)”
Introduzione ▪ 13
Strategie e segni dell’appartenenza
Quali sono gli strumenti messi in campo dai soggetti per costruire una versione
celebrativa della propria storia, del proprio patrimonio culturale, di una propria singolare
appartenenza comunitaria?
L’obiettivo della seconda parte del quarto e del quinto capitolo è appunto quello di
esaminare il ruolo giocato da specifici elementi nel contesto del Matrimonio Selargino.
Nel quarto capitolo vengono esaminati in particolare i discorsi intorno agli elementi
chiamati a mostrare la selarginità della festa: l’abbigliamento tradizionale, la catena, la
riproduzione di una tavola del 1800 scelta come logo dell’evento. Nel quinto capitolo
sono esaminati altri elementi quali la questione dell’uso della lingua sarda, le
motivazioni sottese all’uso dello spazio, quale la scelta di ambientare parte della
rappresentazione in tipiche case campidanesi e la scelta del percorso del corteo
nuziale, le motivazioni che hanno spinto a situare la festa in settembre, le voci di spesa
e gli enti finanziatori dell’evento.
14 ▪ Introduzione
Nella costruzione del prodotto “matrimonio tradizionale” si nota una continua
manipolazione degli assi cronologici e degli ordini di antecedenza -successione, causa-
effetto. Inoltre, in tutti i matrimoni folkloristici è presente la tendenza alla ritualizzazione
di ogni oggetto e gesto. Particolarmente evidente nei casi in cui è la “tradizione” a
prescrivere una certa formalità (ad esempio per la benedizione materna), si parla di
comportamento rituale anche per ogni altro elemento che presenti una certa regolarità
nelle sequenza delle azioni. La vestizione degli sposi si trasforma così in “rituale della
vestizione”, la consegna delle chiavi in “rituale della consegna delle chiavi”, ecc. Anche
senza arrivare agli eccessi del caso olianese, in cui ogni cosa, oltre ad essere
ritualizzata, è dotata di un preciso significato simbolico, l’effetto ricercato è
l’attribuzione di una certa solennità e gravità all’evento, un modo per affermare la
fierezza e l’orgoglio che sembra debba caratterizzare ogni rappresentazione identitaria
sarda.
E allora perché una tesi su questo argomento? “Un altro sardo che scrive di Sardegna”
mi sono sentita ripetere più e più volte, scoprendo di far parte di una numerosa
compagnia. Perché gli studiosi sardi di antropologia tendono a confinare le proprie
Introduzione ▪ 15
ricerche nell’ambito dell’Isola? Se i casi fossero in numero limitato si potrebbe parlare
di coincidenza, di comodità o comunque si potrebbe cercare una risposta
personalizzata per ogni caso, ma quando si ha di fronte un comportamento
generalizzato la questione diventa complessa. A parte il mito persistente di una terra
ancora in gran parte da scoprire, a parte la conclamata predilezione di settore per le
isole, è difficile trovare una risposta. Sospetto però che abbia in qualche modo a che
fare con un certo senso di inferiorità culturale che serpeggia tra i sardi, i quali, stanchi
di venir derisi con le solite battute sulla dizione o sulle pecore, reagiscono rinnegando
qualsiasi legame con l’isola oppure, al contrario, approfondendone la conoscenza. Nel
mio caso penso sia stata fatale la combinazione di amore-odio resa affascinante dallo
“sguardo antropologico” e amplificata dallo scoprirmi improvvisamente identificata
come “sarda” dagli amici “continentali”, oggetto di quegli stessi pregiudizi e stereotipi
con cui i cagliaritani si fanno beffe degli abitanti del nuorese.
Sin dall’inizio, sapendo di non poter prevedere le conseguenze, la mia idea è stata
quella di evitare il più possibile ogni riferimento alla mia famiglia e al mio parentado.
L’obiettivo era quello di passare inosservata, cercando di lavorare nel modo più
autonomo possibile, rimanendo estranea a tutte le eventuali reti di relazioni in cui sarei
stata inserita mio malgrado. Ma il tentativo di presentarmi solamente come studentessa
di antropologia culturale a Modena, è caduto quasi sempre nel vuoto. Oltre una certa
fascia di età, questo tipo di presentazione non è mai stato accettato come valido: la
reazione era invariabilmente “Ah… E fill’e di chini sesi?” da parte degli interlocutori più
anziani o l’equivalente in italiano (“Chi sono i tuoi genitori?”) da parte degli altri. Se il
riferimento al nome, poi alla professione, poi al luogo di nascita dei miei genitori non
era sufficiente, si passava alle stesse domande per i nonni, e se questo non bastava si
passava agli zii. Solo al termine di un più o meno lungo processo di inquadramento, mi
veniva chiesto quale fosse l’oggetto delle domande che intendevo rivolgere. Seppure
continui a non sopportare l’idea che il giudizio sulla mia persona e la disponibilità nei
miei confronti possa dipendere, almeno in una prima fase, da questioni su cui non ho il
minimo controllo, quali l’essere la figlia o la nipote di, è giocoforza ammettere che in
certi contesti sia stato così.
16 ▪ Introduzione
Un aspetto interessante della mia posizione sul campo è stata quella di essere
identificata come selargina, ma non al 100%. Per essere una selargina doc mio padre,
mia madre e i miei nonni sarebbero dovuti nascere e vivere a Selargius, ma solo mio
padre e la sua famiglia sono di Selargius, mentre mia madre e la sua famiglia di
Quartucciu, per cui, nonostante abbia sempre vissuto a Selargius, non faccio parte
della ristretta cerchia dei selargini a tutti gli effetti. Ma se fossi stata completamente di
un altro paese, per quanto confinante, molte cose non mi sarebbero state dette perché
non sarebbe sembrato opportuno rivelarle a un estraneo e comunque non avrei potuto
capirle. Mi è stato riferito cosa è stato raccontato ad altre due ragazze, entrambe di
Cagliari, che quest’anno si sono presentate a Selargius interessate a scrivere la tesi
sul Matrimonio Selargino (anche loro!): niente, niente di più di quello che è riportato sul
dépliant della manifestazione. Probabilmente, se non si fossero accontentate di quelle
informazioni, col tempo avrebbero anche potuto superare l’iniziale diffidenza e
raccogliere, in molto più tempo e con molta più fatica, le mie stesse informazioni. Se
invece fossi stata una selargina doc molte cose non mi sarebbero state dette per due
motivi: uno, perché ovvio che le sapessi già e comunque non sarebbe stato affar loro,
ma della mia famiglia, mettermene al corrente, due, perché avrei potuto usarle
impropriamente, e nessuno vuole essere accusato di aver messo in giro pettegolezzi e
voci sul conto di qualcun altro. E in effetti molte domande sono rimaste a lungo senza
risposta (molte lo sono ancora), in alcuni casi non mi è stato permesso di registrare, in
altri casi qualcuno è stato zittito in mia presenza con eloquenti segni non verbali. Alcuni
però, di fronte alla disarmante ingenuità delle domande e all’evidente completa
ignoranza dei giochi di potere e del sistema delle alleanze selargine, si sono assunti la
responsabilità di spiegarmi il non-detto di molti discorsi, giustificando la mia
disinformazione col fatto che, dopotutto, mia madre è di Quartucciu.
Una delle principali difficoltà della ricerca sul campo nel proprio paese è stata quella di
mantenere le distanze dalle categorie del discorso locale, cercando di mantenere una
posizione equidistante dalle parti. Ma è davvero possibile parlare di un evento pubblico
così importante per il paese senza entrare nel gioco politico locale? In alcuni casi è
stato esplicito che la franchezza con la quale si rispondeva alle mie domande era
motivata dalla possibilità di convincermi a sostenere un punto di vista piuttosto che un
altro, e di inserirmi, in quanto selargina, nel proprio sistema di alleanze. Ad esempio mi
è stata proposta una candidatura per le prossime elezioni amministrative, ma anche un
lavoro da “antropologa” in un museo etnografico di prossima (?) apertura.
Introduzione ▪ 17
Da questo punto di vista, il risultato proposto non accontenterà nessuno dei miei
informatori, ma d’altronde neppure me, a cui dispiace dover omettere una parte
consistente del mio lavoro. La conoscenza pregressa della manifestazione mi ha
aiutato a superare ben presto la facciata della festa per scoprirne il dietro le quinte, ma
purtroppo il risultato sono aneddoti, voci, affermazioni sospese tra il detto e il non-detto
il cui status di dichiarazioni appare troppo fragile per essere inserite in questo lavoro.
Mi rendo conto che molte considerazioni non verrebbero mai ripetute in pubblico e che
di molte altre si negherebbe la paternità, inoltre sono consapevole del fatto che alcune
mi sono state riferite perché gli interlocutori non si sarebbero mai immaginati che
potessero entrare a far parte di un lavoro di tesi, così come altre mi sono state riferite
sulla base di un rapporto reciprocamente fiduciatario tra informatore e ricercatore, che
preferisco non mettere in crisi. Per tutti questi motivi ho deciso di inserire solo le
considerazioni che sono state avanzate da più parti e quelle il cui autore non è
immediatamente riconoscibile. Inoltre ho cercato di bilanciare lo status incerto delle
prime ricorrendo alle fonti scritte.
Buona parte del tempo di ricerca è stata dedicata proprio al reperimento e all’analisi
delle fonti scritte, soprattutto dei documenti contenuti nell’archivio comunale e gli
articoli di giornali e riviste, sebbene debba ammettere di aver constatato più volte che
le informazioni contenute negli articoli di giornale sono soggette a errori, falsità,
approssimazioni, tanto quanto le fonti orali. Inoltre, nonostante si dedichi ampio spazio
alla descrizione della manifestazione, il materiale utile ai fini di un’indagine
approfondita è scarso. I mass media tendono a restare prigionieri dei propri stereotipi:
troviamo sempre le stesse foto (solitamente i due sposi “incatenati”) e gli stessi tipi di
descrizione con pochissimi cambiamenti (in alcuni casi il taglia e incolla da un anno
all’altro è palese).
18 ▪ Introduzione
indossando l’abito tradizionale. Durante l’edizione del 2005 ho raccolto i commenti e le
osservazioni del pubblico, estendendo i rilievi non solo alla giornata principale
dell’evento, ma anche agli eventi collaterali organizzati nei giorni precedenti. Nel 2006
sono riuscita infine ad avere accesso a momenti più privati, tra cui il banchetto nuziale.
Come hanno affermato ironicamente alcuni miei amici, ora manca solo che mi sposi
anch’io in questo modo…
Introduzione ▪ 19
1 “Delle usanze maritali” nel Campidano
di Cagliari
Dal che voi vedete quanto degli antichissimi riti abbiano custodito i Sardi nella
solennità de' maritaggi: riti che contengono la storia non solo della divina
istituzione, ma degli esordi altresì della prima civiltà delle genti occidentali.
Tradizioni importantissime, che i Sardi senza punto conoscerlo, ci
conservarono inviolate. [Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna]
1.1 Premessa
L’area denominata
Campidano di Cagliari
corrisponde
approssimativamente
ai territori dell’area
cagliaritana, cioè di
quell’area che può
essere identificata “nel
territorio compreso nei
1.1 Comuni del Campidano di Cagliari
limiti di una
circonferenza che, con
centro in Cagliari, si stenda per un raggio di una ventina di chilometri” [Alziator,
1984:15].
il tipo della casa a pianta rettangolare che gravita sul cortile interno, il tipo del
vestiario, sia maschile che femminile, i motivi dell’oreficeria popolare, i motivi
del patrimonio leggendario tradizionale, la diffusione e la persistenza della
launedda nella musica popolare, una sostanziale unità nella paremiologia, nella
religiosità popolare, nella gastronomia ed in non poche manifestazioni del ciclo
dell’uomo e dell’anno [Alziator, 1984:32]
Non esistono al momento studi che si occupino in modo specifico delle usanze
matrimoniali nell’isola. Affrontarne lo studio significa dunque fare i conti con una
documentazione scarsa e lacunosa, per di più prodotta con fini e metodologie
eterogenei. Inoltre, la scelta di circoscrivere l’ambito di approfondimento a una
specifica zona complica ulteriormente la ricerca. Gli studi concernenti l’area
campidanese sono senza dubbio pochi, specialmente se si prendono in considerazione
i lavori dedicati alla raccolta e all’analisi delle tradizioni popolari, fatto tra l’altro
costantemente evidenziato dagli autori presi in esame.
È opinione diffusa che la “vera” Sardegna sia altrove, la “sardità” viene presentata - nei
dépliant turistici, alla televisione, nei discorsi quotidiani - come una qualità localizzata
per lo più nel nuorese e specie tra i pastori (cfr. Satta 2003). Tendenza che coinvolge
anche gli studiosi; basterebbe una rapida occhiata nelle biblioteche sarde per
accorgersi della netta predilezione per lo studio delle zone più interne dell’isola, più
“tradizionali”1. Il Campidano appare, al confronto, un’area poco conservativa, da
sempre soggetta alle mode “continentali” del momento, per cui l’attenzione a esso
rivolta è di natura per lo più storica e sociologica, mentre l’elemento folklorico è
trascurato.
Il primo tipo di fonti ha il vantaggio di fornire una testimonianza diretta, di prima mano,
su realtà culturali ormai scomparse, la cui descrizione è spesso molto dettagliata. Tale
materiale ha però tutti i limiti della tradizione della letteratura esotica e di viaggio a cui
appartiene di diritto: è costituito da resoconti di politici, uomini di chiesa, esploratori,
geografi, che non possiedono un’adeguata preparazione di tipo antropologico e non
sono guidati da un progetto scientifico esplicito e coerente. L’attenzione tende a
concentrarsi sulla diversità, sulla raccolta di curiosità folkloriche di tipo aneddotico,
1
Angioni è stato uno dei primi antropologi a riequilibrare il quadro degli studi sulla Sardegna,
pubblicando diversi importanti lavori sul lavoro contadino, per di più su aree sarde sino a quel momento
poco studiate, tra cui ad esempio Rapporti di produzione e culture subalterne. Contadini in Sardegna,
Edes, Cagliari, 1974 e Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Edes, Cagliari, 1975.
Una grande quantità di notizie sulle usanze relative al matrimonio si ricava in maniera
indiretta dalle fonti ecclesiastiche: documenti di diritto ecclesiastico locale, annotazioni
nei Quinque Libri3, atti matrimoniali, manuali di catechismo. I divieti, le prescrizioni e le
punizioni con cui la Chiesa tendeva a regolamentare la condotta dei fedeli svelano
quale fosse il reale comportamento delle persone registrando con estrema precisione
le circostanze dell’evento da sanzionare e i dati delle persone coinvolte. Sempre a
differenza dei resoconti di viaggio, l’analisi dei documenti della Chiesa richiede una
discreta preparazione, che consenta di attivare la giusta chiave di lettura del testo,
eliminare le considerazioni negative espresse da parte dei redattori, capire il significato
nascosto dietro le circonlocuzioni e le formule utilizzate. Da tale documentazione
possiamo ricavare ciò che si dovrebbe fare (e con quali modalità) e ciò che non si
dovrebbe fare ma si fa lo stesso (con quali sanzioni), ma ben poco possiamo
conoscere a proposito di quei comportamenti ritenuti talmente normali, ovvi, tali da non
aver bisogno di essere prescritti esplicitamente, o al contrario di essere vietati in
quanto accettati anche dalla Chiesa.
È solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che la ricerca storica e antropologica
si mostra più attenta nei confronti di questioni quali il matrimonio e la famiglia nella
2
A questo riguardo si veda Delitala, 1981
3
Sono così chiamati i registri parrocchiali che in seguito alle normative emanate dal Concilio di Trento
ogni parroco era tenuto a compilare e aggiornare costantemente. I registri parrocchiali erano composti da
cinque libri (da cui il nome): il libro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei defunti, dei confessati
e comunicati (il quale era suddiviso in stati d’anime, elenchi nominativi, dichiarazioni generiche del
parroco). Fonte: Anatra, Puggioni, 1983
Per limitare i possibili errori di fraintendimento del testo, legati alla natura e
all’eterogeneità del materiale di ricerca, si è privilegiato un approccio di tipo selettivo
nella lettura dei documenti. Partendo dalle informazioni ricavate dal lavoro di ricerca sul
campo, su ciò che sanno o ricordano le generazioni viventi a proposito delle
consuetudini relative a nozze e fidanzamento, si è proceduto all’analisi della letteratura
di viaggio, dando la precedenza al materiale che facesse esplicito riferimento a paesi
del Campidano di Cagliari, ma utilizzando anche quanto riferito alla Sardegna in
generale, in cui fosse possibile riconoscere elementi della tradizione campidanese. Per
quanto riguarda il resto delle fonti, la cui contestualizzazione è stata meno
problematica, mi sono limitata a una selezione sulla base del criterio geografico.
Ciò premesso, si può ora passare ad esaminare il contenuto delle opere che si
occupano di fidanzamento e matrimonio in area cagliaritana.
“Calidadi cun calidadi”6, come si sente ripetere ancora, ossia l’endogamia sociale prima
di tutto. Anche quando si diffonde la moda del corteggiamento - una pratica sociale che
si afferma in Sardegna, come nel resto d’Europa, a partire dal XVIII secolo - questo è
rigidamente sottoposto al rispetto della separazione tra le classi. Gli incontri tra i
giovani dei due sessi sono sottoposti a un severo controllo affinché avvengano
4
Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Zonabend, 1988.
5
Un esempio concreto di come le questioni relative alla fondazione di una nuova famiglia non
riguardassero solo i diretti interessati e le loro famiglie, ma l’intera comunità, deriva dalla disamina di
Gallini (1977, secondo capitolo) delle forme di charivari in Sardegna. L’infrazione della norma che
prevedeva che la famiglia fosse monogamica oltre la stessa morte di uno dei partner e che la sessualità
fosse finalizzata alla procreazione legittima, era oggetto di una plateale disapprovazione pubblica che
prendeva il nome di sa coredda (o suo equivalente linguistico). Nei casi di seconde nozze di un vedovo o
una vedova, nozze di un anziano con una giovane, cambiamento di fidanzato di una ragazza, gravidanza
illegittima, cioè nei casi di famiglia “rotta” (per morte di uno dei due membri o per abbandono di uno dei
due fidanzati) ricomposta su altre alleanze, e nei casi di famiglia incompleta (perchè formata solo di
madre e di figlio), veniva organizzata una chiassata satirico-ingiuriosa davanti alla casa dei colpevoli di
infrazione delle norme morali, della durata di alcuni giorni.
6
Nel vocabolario del Canonico Giovani Spano il termine sardo calidadi è tradotto come “qualità, stato,
condizione”.
Purché sia rispettata questa condizione, si può far posto anche all’amore romantico:
Già nel XVIII secolo, similmente a quanto accadeva in altre parti d’Europa
“anche tra il popolo si diffonde il linguaggio dell’amore-passione” e sempre più
spazio si riserva agli slanci del cuore, alle passioni travolgenti, il tutto unito alla
superstizione che i figli dell’amore nascano più belli degli altri. [Pillai, 1991:46-
47]
Sino alla metà del secolo scorso, il termine fastigiu è servito a indicare le forme
attraverso cui poteva esprimersi il corteggiamento cagliaritano: solitamente tra strada e
balcone, poteva essere del tutto muto, fatto di soli sguardi, oppure per cenni e
attraverso il linguaggio dei gesti, i più intraprendenti si servivano di un rudimentale
telefono, costruito con dei barattoli uniti da spaghi tesi. Alziator sottolinea come la
distanza tra i due giovani sia una discriminante di classe: a classe più elevata
corrisponde una maggiore e più rigida distanza. Il fastigiu si esprime anche attraverso
le serenate che il giovane, accompagnato da chitarra, mandolino o mandola, dedica
alla sua bella. Alcune di queste serenate di corteggiamento sono giunte sino a noi,
raccolte da scrittori italiani e stranieri.
Saper gestire i propri spasimanti è una questione di abilità e intelligenza. Le donne che
si espongono troppo rischiano di essere occasione di critiche e di scherzi da parte della
7
A questo proposito ci si potrebbe chiedere, con Angioni (1990:18) se l’endogamia di ceto vada intesa
come una “una forma di dominanza delle esigenze della famiglia, della parentela” o invece come “una
forma di dominanza, di ingerenza, dei rapporti di produzione, di proprietà, anche all’interno dei rapporti
di parentela”.
All’irrompere di una maggiore libertà nei rapporti tra i due sessi, una lunga serie di
disposizioni normative tenta di ristabilire la sottomissione all’autorità familiare. Si
rafforza la consuetudine per la quale è consentito al padre rinchiudere in convento i figli
che si fossero messi a corteggiare donne di condizione sociale diversa dalla propria,
oppure che volessero sposarsi senza il loro permesso. Si aggrava la condanna per le
canzoni infamatorie, punite con mesi di carcere. Baci e abbracci in pubblico continuano
a non essere permessi né dal costume, né dalle leggi [Pillai, 1991:47].
8
Dal greco korkoros, crocoriga o corcoriga è il termine campidanese con il quale si indica la zucca;
donai, pigai c. significa “dare (o prendere) un rifiuto” (in amore), calco sullo spagnolo dar calabazag.
Vedi Spano, 1972:171 e Wagner, 1989:380.
9
Il termine ciàscu è tradotto sia da Spano [1972:157] sia da Wagner [1989:445] come “scherzo, burla,
dispetto”. Secondo Alziator [1963:65] l’espressione donai ciascus deriva dall’espressione spagnola dar
chasque, “disingannare”.
10
Wagner [1989:208] assegna un senso dispregiativo all’espressione campidanese donai su paliéttu che
traduce con “mandar via, dar la gambata (specialmente in fatto di amore)”.
11
Puxeddu in Camboni (a cura di), 2000:154
12
Della Marmora 1826, ediz. 1995:105. Alberto Ferrero conte di La Marmora (Torino 1789- ivi 1863).
Generale piemontese, il La Marmora trascorse lunghi periodi della sua vita in Sardegna come comandane
militare. Alle sue eccelenti capacità di studioso si devono il Voyage e l’Itinéraire, e inoltre la costruzione
di una carta della Sardegna (1845) che è stata per oltre mezzo secolo la più perfetta rappresentazione
cartografica della Sardegna. Il nome di Alberto Ferrero conte di La Marmora si trova citato a volte come
Tutta la letteratura in materia tende a soffermarsi sulla figura degli intermediari. Alziator
scrive di “comari compiacenti, vere professioniste in materia, precisa edizione
cagliaritana delle casamenteras spagnole” cui si ricorreva in contesti urbani, mentre
nell’area non urbana “esisteva il paralimpu, che a nozze concluse riceveva in dono un
paio di scarpe” [Alziator, 1963:67]. Lai Roggero [1995:63] ne descrive le caratteristiche:
la paraninfa doveva possedere la parlantina facile ed essere dotata di una certa
dose di diplomazia e di molta discrezione.
Uomo o donna, si trattava comunque di una figura che doveva aver facile accesso alla
casa della donna, per non destare sospetti sul vero oggetto della sua visita. Questi,
ricevuto l’incarico, si recava a casa della giovane prescelta, di preferenza a sera
inoltrata, per dare meno nell’occhio. Dopo i “necessari” convenevoli,
entrava subito in argomento, e con molta abilità metteva in evidenza le doti del
richiedente, sottolineando in particolare i suoi pregi e le sue qualità [Lai Roggero,
1995:63]
La risposta alla richiesta era solitamente differita nel tempo (Lai Ruggero precisa: non
prima di “due settimane”) anche in caso di risposta affermativa, affinché il parentado
La Marmora, altre come Lamarmora oppure Della Marmora; in questo lavoro si è scelto di usare l’ultimo
tipo di trascrizione.
13
Synodus Diocesana Calaritana, (D.F.Perez, 1576-77), Decretum II (De requisitis ad matrimonium certe
contrahendum), cap.V, citato in Pala, 1985:67
Il giorno fissato, parenti e amici dello sposo si recano in abito di festa a casa della
futura sposa. Giunti sulla soglia della casa, ci si accorge che il portone è sbarrato e
nessuno risponde al ripetuto bussare,
da dentro la casa s’inizia a dare una qualche risposta ai pretendenti solo quando
questi, dopo aver bussato ripetutamente, fanno finta di spazientirsi. Gli si chiede
che cosa vogliano e che cosa portino e la risposta è: “Onore e virtù”. A questo
punto la porta viene aperta e il padrone di casa, facendo credere di non sapere di
averli fatti attendere, li accoglie nella stanza degli ospiti dove è riunita tutta la
famiglia in abito da festa [Della Marmora 1826, ediz. 1995:105]
La persona incaricata, che può essere il padre dello sposo, lo sposo stesso o un altro
uomo, risponde affermando di avere bisogno di aiuto per ritrovare un animale perduto
(o rubato? 14) che ritengono si sia nascosto nella casa.
14
In Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia (1989:129 e sgg.) Caltagirone mette in
evidenza come questa fase della cerimonia del fidanzamento possa essere descritta come una vera e
propria azione di abigeato. Tra le diverse similitudini si nota ad esempio che la dichiarazione riguardante
l’aver perduto del bestiame è la stessa che si usa per la ricerca del bestiame rubato (“in circa ‘e
perdimentu” nel dialetto barbaricino)
Il padrone di casa può far finta di non capire, e presentare uno alla volta i propri figli
maschi e poi le figlie femmine dicendo “Cercate questo?” finché nella stanza viene
portata la futura sposa, tenuta nascosta fino a quel momento, accolta dalle
esclamazioni di gioia di amici e parenti del fidanzato.
Tali doni sono chiamati segnali, dal latino “signa”, “senyals” in catalano. La ragazza,
invitata dal padre, consegnava al futuro suocero il dono destinato al fidanzato; il
suocero ricambiava con un altro dono. Il dono per la ragazza consisteva generalmente
in elementi del vestiario oppure gioielli.
Ciò che segue è di grande interesse perché è stato frainteso dalla stragrande
maggioranza degli studiosi. Viene detto che
durante il pranzo che segue, i due giovani mangiano nello stesso piatto e, da
questo momento, si considerano come uniti da un vincolo indissolubile
[Bottiglioni, 2001:29],
mutavano di abito, mettendo alcuni capi di abbigliamento propri degli sposati [Loi
S., 1988:133],
il fidanzamento ha luogo generalmente in presenza del rettore o di un altro
sacerdote, per conferirgli maggiore validità [Smyth in Boscolo (a cura di),
2003:92],
il fidanzamento veniva festeggiato quasi al pari di un matrimonio [Lai Roggero,
1995:65],
Detto questo, viene da chiedersi: non sarà che quello che gli studiosi chiamano
fidanzamento o “sponsali” sia piuttosto da intendere come un vero e proprio
matrimonio?
15
Gometz, 1995:61. Nella stessa pagina aggiunge che “un tempo, in quasi tutti i paesi dell’isola, non era
consentito alle donne non maritate o non fidanzate portare l’anello, che era il simbolo esteriore della
donna che aveva contratto un patto di fede o il vincolo matrimoniale”.
16
Citazione di Besta, La Sardegna medievale, Palermo, Reber, 1908:171, in Murru Corriga [in Oppo (a
cura di), 1990:237]
La realtà sembra molto diversa. Nel rituale bizantino la celebrazione del matrimonio
prevede due momenti distinti: nel primo i fidanzati, interrogati dal sacerdote, esprimono
il loro consenso con decisione irrevocabile, nel secondo si celebra il sacramento in
chiesa in modo solenne, senza replicare il consenso [Pala, 1985:102]. A seguito della
totale affermazione degli usi bizantini da parte della Chiesa sarda [Pala, 1985:61], la
Si noti che nella lingua sarda mancano i termini “fidanzamento” e “fidanzata/o” così
come li intendiamo attualmente, mentre sono presenti i termini mulleri (dallo spagnolo
“mujer”) e sposa. È plausibile avanzare l’ipotesi del mutamento semantico dei termini in
seguito al Concilio di Trento? La mia ipotesi (tutta da verificare) è che in seguito al
Concilio il primo termine - mulleri - prese a significare che quest’ultima era riconosciuta
come tale anche dalla Chiesa e dallo Stato (in quanto la cerimonia nuziale si era
celebrata seguendo le prescrizioni canoniche), mentre il secondo termine - sposa -
cominciò ad essere utilizzato per la donna sposata agli occhi della comunità, ma che
Chiesa e Stato consideravano solo come ufficialmente fidanzata.
Le cose cambiano radicalmente con il Concilio di Trento, durante il quale, nella VII
Sessione del 3 marzo 1547 e nella XXIV Sessione dell’11 novembre 1563, si riformula
la dottrina sul matrimonio. Viene stabilito che il matrimonio, per essere valido (non più
solo per essere lecito), deve essere celebrato di fronte al parroco o a un suo delegato,
alla presenza di almeno due testimoni. Contemporaneamente si vieta ai parroci di
prendere parte alle celebrazioni in famiglia. La Chiesa romana tende dunque a limitare
l’ambito di partecipazione del sacerdote - prima indispensabile sia nella formulazione
degli sponsali che nella celebrazione del matrimonio - soprattutto per non avallare
l’equivoco che la conclusione degli sponsali, presente il parroco, dovesse ritenersi vero
matrimonio. Nonostante queste prescrizioni, il basso clero continua a intervenire alla
celebrazione familiare del rito nuziale, creando in tal modo una divaricazione tra base e
vertice che confonde i fedeli. A Selargius, ancora nel 1849, Angius scrive nel dizionario
del Casalis che “quando si contraggono gli sponsali, il prete assiste alle consuete
Con il Concilio di Trento, il tradizionale rito familiare assume per la Chiesa il valore di
promessa matrimoniale, ma tra il basso clero e la popolazione la confusione è tale che
ancora nel sinodo del Cariñena - tenutosi a Cagliari circa due secoli dopo il Concilio - si
ritiene necessario precisare in modo esplicito e chiaro la differenza tra sponsali e
matrimonio:
Gli sponsali consistono in una promessa legittima e mutua di accasarsi, fatta tra i
contraenti e anteriore al matrimonio che intendono contrarre, ma non sono il
matrimonio, poiché questo si contrae solo con parole al presente e con
l’immediata consegna e accettazione17
La differenza tra sponsali e matrimonio è dunque che nel primo si parla al futuro,
mentre nel secondo i verbi sono al presente e il proposito espresso ha validità
immediata.
17
Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, pp. 74 -75, traduzione di
Pala, 1985:68, nota 8.
1.5.2 Le coabitazioni
In particolare, la condanna della Chiesa si rivolge contro la coabitazione - sia dei
fidanzati, sia degli sposi che non abbiano ricevuto la benedizione nuziale - terminologia
ecclesiastica colla quale non si indica necessariamente che i due abitino insieme,
quanto il sospetto che siano colpevoli di avere rapporti carnali [Loi S., 1988:133, nota
83].
La pratica delle coabitazioni è un fenomeno diffuso che persiste non solo nelle zone
più interne e isolate, ma anche nel Campidano di Cagliari, come rileva Pillai
analizzando le fonti archivistiche e segnalando casi a Selargius nel 1808, a Sinnai nel
1817, a Quartu Sant’Elena nel 1844, a Settimo San Pietro nel 1851. A Maracalagonis,
nel 1828, si arriva addirittura a ritenere lo “scandalo delle coabitazioni” causa di siccità,
castigo inviato da Dio per punire tali peccatori [Pillai, 1992:443]. Angius annota per
Selargius una media di 20 matrimoni l’anno, con punte che sorpassano i 30
quando per ordine superiore furono obbligati a contrarlo quelli che erano fidanzati
da qualche anno e anche evatitavano [abitavano?!] [Angius, Casalis 1849:793,
voce Selargius]
Simile offesa a Dio veniva punita tramite multa e penitenza pubblica. Le multe
dovevano essere pagate più o meno da tutti, perché il significato della coabitazione
poteva essere esteso sino a includervi qualunque frequentazione dei due fidanzati.
Così, denuncia l’arcivescovo de la Cabra nel 1647, i più ritenevano, avendo pagato la
pena imposta, di aver provveduto all’espiazione della propria colpa e continuavano a
coabitare. Le sanzioni erano estese a tutti quelli che sapevano, ma non denunciavano
immediatamente la situazione, compreso il prete.
Più avanti nello stesso testo si legge che tutta la comunità parrocchiale è tenuta a
vigilare sui comportamenti dei promessi sposi e a denunciarne la coabitazione al
parroco, che, da parte sua, sotto pena di scomunica, è obbligato a tentare di separare i
due fidanzati; se al terzo tentativo non ottiene risultati può vietarne l’ingresso in chiesa.
18
Constitutiones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 180, citazione e
traduzione in Pala, 1985:69 nota 12
L’età minima per convolare a nozze era di 14 anni per l’uomo e di 12 per la donna; la
Chiesa, da un certo momento, stabilisce anche l’età minima perché si potesse essere
coinvolti in contratti sposalizi, sette anni per entrambi [Atzori, 1997:34]. Effettivamente,
l’età non è mai stata un grosso problema: per le motivazioni descritte precedentemente
(preparazione del corredo, spese per la celebrazione), era molto più frequente che gli
sposi si sposassero tardi, causando tassi di fecondità ridotti rispetto alla media
europea. Da una ricerca condotta da Anna Oppo in alcuni paesi del Campidano di
Cagliari sull’età del primo matrimonio di piccoli e medi proprietari coltivatori (nati prima
del 1910), si ricava che l’età media degli uomini è di 29 anni, mentre per le donne di
24,7 [vedi sotto].
Per quanto riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dei vincoli parentali, sembra
che il comportamento fosse differente a seconda che la richiesta provenisse
dall’ambiente popolare o da quello nobiliare [Atzori, 1997:25]. Nei confronti dei nobili, la
dispensa veniva concessa più facilmente, mentre i ceti popolari, di fronte al rifiuto della
Chiesa, erano costretti a subire l’infamia di autodenunciare la consumazione di rapporti
Gli impedimenti al matrimonio, così come fissati dal Concilio di Trento, si dividevano in
dirimenti e impedienti: i primi (sono 15) rendevano nullo il matrimonio, i secondi (sono
4) lo rendevano illecito; mi sembra necessario, per l’importanza che ad essi veniva
attribuita, riportare integralmente, almeno in nota, la spiegazione di Pala per ognuno di
essi19.
19
Pala, 1985:56-57
1) ERROR: l'errore di persona ha luogo quando si contrae matrimonio con persona diversa da quella con
la quale si voleva contrarre;
2) CONDITIO: si verifica quando si contrae matrimonio con persona che appartenga a condizione
totalmente diversa da quella dichiarata;
3) VOTUM: l'emissione del voto di castità perpetua rende nullo il successivo matrimonio sia per l'uomo
che per la donna;
4) COGNATIO: la parentela, che può essere di ordine spirituale, ed è quella che ha origine dal battesimo
e dalla cresima tra padrini e i figliocci; di ordine legale, che si stabilisce tra l'adottante e l'adottato; di
ordine naturale ed è la vera consanguineità. Quest'ultima, in linea retta invalida qualunque matrimonio, in
linea collaterale fino al quarto grado compreso;
5) CRIMEN: in quattro modi si configura questo impedimento: a) quando si uccide il coniuge con la
collaborazione o consenso del coniuge dell'ucciso; b) quando l'uccisione del coniuge è stata preceduta
dall'adulterio consumato con il coniuge superstite; c) quando l'adulterio è accompagnato dalla promessa
di contrarre matrimonio dopo la morte del coniuge; d) quando, vivendo la legittima consorte, si contrae e
si consuma il matrimonio con altra persona, consapevole dell'esistenza del vincolo precedente.
6) CULTUS DISPARITAS: quando il matrimonio viene contratto tra persone di diversa religione, p.e. tra
un cristiano e un giudeo, un pagano, un maomettano;
7) VIS: è la violenza morale esercitata sulla volontà di uno dei contraenti con castighi, vessazioni o
minacce, per indurlo a contrarre matrimonio senza la necessaria libertà. Deve essere esercitata in forma
grave ed ingiusta.
8) ORDO: è l'impedimento derivante dall'aver ricevuto uno degli ordini maggiori; suddiaconato,
diaconato o sacerdozio, che comporta l'obbligo del celibato permanente.
9) LIGAMEN: è dato dal vincolo matrimoniale validamente contratto e non sciolto legittimamente, che
vieta di stringere matrimonio con altri.
10) HONESTAS: detto anche di quasi-affinità, esiste tra l'uomo e i consanguinei in linea retta della donna
con la quale ha celebrato valido fidanzamento o contratto matrimonio non consumato; nel primo caso si
ferma al primo grado, nel secondo caso si estende fino al quarto grado compreso.
11) AMENTIA: la pazzia nella forma che privi l'individuo della ragione e, conseguentemente, della
possibilità di emettere valido senso.
12) AFFINITAS: nasce dal vincolo tra uno dei coniugi e i parenti dell’altro coniuge a seguito di
matrimonio valido, anche se non consumato. Circa il grado di estensione del divieto, bisogna distinguere:
se nasce da copula lecita, si estende fino al quarto grado compreso, se illecita, fino al secondo grado. I
gradi dell'affinità vanno computati con quelli della consanguineità.
13) CLANDESTINITAS: si verifica quando il matrimonio viene celebrato in assenza del Parroco proprio,
o di due o tre testi.
14) IMPOTENTIA: consiste nell'incapacità al compimento della copula matrimoniale, antecedente al
matrimonio e perpetua, cioè inguaribile;
15) RAPTUS: ha luogo con il sequestro violento della donna per scopo di matrimonio. Può effettuarsi o
in forma violenta o con lusinghe e seduzione.
1) TEMPUS: riguardava il tempo della celebrazione che restava interdetto in due periodi dell'anno
Se si superava il controllo, nella parrocchia dei due fidanzati, per tre settimane di
seguito, veniva pubblicizzato il futuro matrimonio durante la messa maggiore, per dare
la possibilità a quanti ne fossero a conoscenza, di rivelare eventuali impedimenti di cui
non si fosse ancora accertata l’esistenza.
Tutti i cultori di tradizioni popolari si trovano d'accordo su quanto spetti all’uomo e alla
donna nel provvedere al necessario per la casa. L’uomo deve provvedere alla casa,
che deve essere nuova o almeno accuratamente ripulita e re-imbiancata, e deve inoltre
provvedere a tutto ciò che attiene al proprio lavoro20; mentre alla donna spetta
liturgico: dall'avvento all'epifania; dal mercoledì delle ceneri all'ottava di Pasqua inclusa;
2) VOTUM: il voto semplice di entrare in religione o il voto di castità, di non sposarsi, il voto di accedere
agli ordini sacri rendevano illecito il matrimonio anche se tale voto fosse stato emesso privatamente;
3) SPONSALIA: gli sponsali contratti validamente e non sciolti con atto legale;
4) ECCLESIAE VETITUM: il divieto apposto dalla Chiesa a contrarre matrimonio fino a che non venisse
chiarita l'esistenza o meno di un impedimento di legge.
20
Per un’analisi approfondita della divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale si veda Da
Re, 1990. In generale, rispetto al resto d’Europa, per la Sardegna tradizionale gli studiosi hanno notato
“una più marcata specializzazione maschile in uno dei tre grandi mestieri tradizionali: contadino, pastore,
artigiano, da una parte; e dall’altra, una più marcata specializzazione genericamente femminile nell’essere
e nel dover essere donna di casa, cioè addetta ai lavori domestici connessi con l’alimentazione, il vestiario
La quantità e la qualità del corredo varia enormemente a seconda del ceto sociale.
Questa considerazione, di per sé banale, non è più tale se si considera che il corredo
viene trasportato per le vie del paese, esposto alla curiosità della comunità, che ne fa il
parametro più significativo per determinare la posizione sociale e il prestigio della
nuova famiglia21. Il trasporto del corredo nella nuova casa è dunque una gara a chi
riesce a mostrare di avere di più e della qualità migliore, il pretesto per fare sfoggio
della propria ricchezza, e nulla nell’organizzazione dell’evento viene lasciato al caso.
Più la famiglia è ricca, maggiore è lo sfarzo e la solennità con cui avviene il
trasferimento, e l’occasione diventa una vera e propria festa, tale che nessuno studioso
resiste alla tentazione di descriverne i particolari.
Nel Campidano il trasporto avveniva per mezzo di carri trainati da buoi, di due tipi: un
tipo serviva per il trasporto delle masserizie, mentre l’altro, le famose traccas, erano
adibite al trasporto di persone e riccamente adornati con drappi di seta e di raso, nastri
colorati e fiori di carta. Della Marmora descrive le traccas come normali carri, “su cui
però si mettono dei materassi e che si copre con una tenda” [Della Marmora 1826,
ediz. 1995:108], mentre Joseph Fuos, nel 1779, lo descrive come un mezzo piuttosto
primitivo: corti e stretti, questi carri
hanno due ruote basse, le quali sono tagliate in cerchio da parecchi assi insieme
incastrati, e non girano all’asse, ma fissate con questo girano fra due cavicchi di
legno attaccati al di sotto del carro. I due buoi aggiogati, sono guidati colla fune
legata alle orecchie.
Il contadino si mette sul carro, tiene le redini nelle mani, punge col suo stimolo i
buoi, grida il suo ci ei ià, e guida colla presunzione di guidare la più ingegnosa
macchina che sia possibile in quel genere [Fuos in Boscolo (a cura di), 2003:60]
e la manutenzione della casa, il riordino e la pulizia di ciò che giornalmente si consuma e si sporca”
[Angioni in Oppo (a cura di), 1990:19].
21
Sul corredo-arredo come oggetto simbolo di status e sulla sua quantità e qualità si veda Da Re,
1990:129 e sgg.
Della Marmora [1826, ediz. 1995:105] ci informa innanzitutto che il trasporto non
avviene un giorno qualsiasi, bensì 8 giorni prima della celebrazione del matrimonio in
chiesa. Giunto il giorno designato, dalla casa dello sposo parte la comitiva che si reca
a casa della sposa per la consegna del corredo, seguita dai carri necessari per il
trasporto. Alla cerimonia del trasporto del corredo nuziale partecipa lo sposo, i suoi
parenti, gli amici, il paralimpu: chi a piedi, chi a cavallo, chi sulle traccas. Tutti sono
vestiti con gli abiti più belli, quelli della festa. Aprono il corteo i suonatori di launeddas,
che con la loro musica amplificano i canti allegri di tutta la comitiva e il chiasso gioioso
prodotto dai cigolii dei carri e dai campanelli degli animali, richiamando l’attenzione di
tutta la comunità che si affaccia alle porte per vederli passare. Fanno seguito i ragazzi
e le ragazze cui è affidato il compito di portare gli oggetti che non trovano posto sui
carri, perché troppo fragili e delicati: vasi, specchi, servizi in porcellana, piatti, bicchieri,
bottiglie. Insieme a loro, altre ragazze trasportano guanciali ornati con nastri colorati e
fiori.
La profusione di nastri colorati è tale (sugli animali, sulle cose, sui carri) che il Bresciani
[1850] è costretto a interrogarsi sul loro significato e la loro origine, ma una volta
informatici dello stesso uso presso tanti antichi popoli, non riesce a dirci granché,
poiché nessuno ne ricorda il significato.
Seguono i carri, in fila uno dietro l’altro; se la sposa è ricca, ci informa Nurra [1894:4],
si adoperano persino sette od otto carri. Sul primo carro c’è sempre il letto
matrimoniale, o le tavole di legno che lo compongono insieme a materasso e accessori
vari, segue il carro con le casse di legno intagliato, nel quale sono conservate la
biancheria per la casa e quella per la sposa; su un altro sono ammucchiate le sedie,
quindi altri carri contenenti sa mesa (il tavolo) con ceste coperte da tovagliette bianche
ricamate, ornate di pizzi, cosparse di chicchi di grano, petali di rose e di gerani in
segno di buon augurio, gli utensili da cucina, il telaio, il fuso e la rocca col lino, tutto
quanto serve per fare il pane, provviste di grano, orzo e fave. L’ultimo carro è quello
Sempre nella stessa casa, successivamente si svolge la cerimonia della filatura della
lana. Una donna, o più di una (in alcuni casi la madre dello sposo, o la donna più
anziana presente al trasloco, in altri paesi alcune fanciulle), sale su un tavolo
appositamente sistemato nel cortile (se il tempo lo permette) e inizia a filare la lana
cantando muttetus beneauguranti per gli sposi, mentre le altre ragazze si preoccupano
di adornare ogni mobilio sistemato con fiori e ramoscelli, che saranno conservati dopo
averli lasciati seccare e cadere da sé.
Lo sposo, ricevuta la benedizione dalla propria madre, si reca a casa della sposa,
accompagnato dal paralimpu, parenti, amici e in qualche caso anche da un prete
Secondo alcuni, quando la ragazza sente giungere il corteo, si getta ai piedi della
madre piangendo, invocando perdono per le colpe commesse, e chiedendone la
benedizione. La madre, allora, tiene un piccolo discorso sui suoi nuovi doveri di moglie
e donna di casa, la benedice e l’affida al prete che ha accompagnato lo sposo, mentre
a questi è dato un altro prete della parte della sposa.
Il corteo dello sposo si ferma sulla soglia della casa, ma non entra; oppure entrano tutti
tranne lo sposo; il compito di chiamare la sposa sembra affidato a un’altra persona.
Il corteo procedeva per coppie, con la sposa a braccetto del padre, verso la parrocchia
della sposa, dove, per consuetudine, si celebrava e si celebra tutt’ora il matrimonio.
Il Rituale Romanum del 1614 costituisce lo standard sul quale si basano tutte le
successive edizioni. Ultimo fra i libri liturgici pubblicati sulla scia del Concilio di Trento,
Prima del 1614, i parroci, per l’attività liturgica ordinaria, dovevano basarsi su una
moltitudine di sussidi di ogni dimensione e tipo, che nella forma e nella sostanza
variavano considerevolmente da luogo a luogo, costituendo motivo di preoccupazione
da parte della gerarchia ecclesiastica che vedeva minacciata l’ortodossia liturgica, o
quantomeno il decoro e la dignità della funzione religiosa. Sulla base di queste
considerazioni, riproduco parte del rituale (scambio del consenso e benedizione
dell’anello) nella pagina seguente, non solo per mostrare i dettagli delle formule
utilizzate, ma anche perché è molto probabile che questo testo abbia costituito la base
delle successive traduzioni in lingua sarda.
Il rito era in latino, ad eccezione delle domande e delle risposte dei contraenti, in lingua
sarda22.
22
Loi Salvatore, comunicazione personale.
1.7 Il piatto de s’arazza esposto nel 2006 alla L’usanza - che mi sembra di capire
Mostra Fotografico - Documentaria sullo coinvolga solo le donne - prevede che
Sposalizio [foto Francesca Salis]
s’arazza venga gettata in forma
propiziatoria sopra gli sposi e che, esauritone il contenuto, il piatto venga rotto ai loro
piedi. Questo viene scagliato con forza, perché è necessario che si rompa, affinché il
tutto sia di buon auspicio per gli sposi. Dando credito alle affermazioni di Nurra, il piatto
si deve rompere per un altro motivo: la rottura del piatto potrebbe essere un’allusione
alla verginità della donna; intuizione plausibile, se si considera che
difatti non si fracassano punto allorché la sposa passa a seconde nozze o si dubiti
della sua verginità [Nurra, 1894:6]
Per Cabiddu, un’usanza pansarda vuole che il corteo nuziale proceda con lo sposo alla
destra, per ricordare che l’uomo è l’essere umano preferito da Dio, che lo ha creato per
Giunti a destinazione, alla madre dello sposo spettano i cerimoniali per l’accoglienza
dei due nella loro casa. La suocera, sentendo avvicinarsi il chiassoso corteo preceduto
dal suono delle launeddas, li attende sulla soglia di casa, tenendo in una mano il piatto
con s’arazza e nell’altra un bicchiere d’acqua. Il rituale con l’acqua prevede che i
novelli sposi ne bevano un po’, mentre la restante parte, dopo aver asperso gli sposi,
viene versata davanti alla sposa nel momento in cui questa attraversa la soglia della
camera nuziale, chiamata sa dom’e lettu.
In ogni caso, giunto il momento del ricevimento (su cumbidu), gli sposi si siedono vicini
e
v’ha luogo la singolar cerimonia di mangiare non solo la minestra ad una scodella,
ma prestandosi il cucchiaio a vicenda; così mangiano il restante allo stesso
piattello, e beono allo stesso nappo, come se l’un fosse nella persona dell’altro
[Bresciani 1850, ediz. 2001:378]24
23
Per quanto riguarda la Barbagia si veda ad esempio Murru Corriga in Oppo (a cura di), 1990
24
Si veda anche Della Marmora 1826, ediz. 1995:108
Per l’occasione venivano poi preparati con cura i dolci26, soprattutto biscotti e amaretti,
e i liquori, primo fra tutti il rosolio, liquore dal sapore dolce, preparato in casa almeno
tre giorni prima con alcool, zucchero e un’essenza in polvere che dà il caratteristico
colore. La “torta” nuziale era costituita da un altro tipo di dolce chiamato gattou, un
croccante confezionato con mandorle tostate e zucchero, di varie forme (castelli,
chiese, case, ecc.).
25
Sull’arte della panificazione nella società tradizionale sarda esiste una vastissima bibliografia, per
maggiori informazioni si rimanda ai seguenti testi e alle relative bibliografie: Cirese (a cura di) Pani
tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977 (in particolare Schirru, “La preparazione
tradizionale del pane nel Campidano di Cagliari”, pp. 41-44), AA. VV., In nome del pane. Forme,
tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, Carlo Delfino, Roma, 1991, (in
particolare “I pani nuziali”, pp. 73-77), e AA. VV., Pani: tradizione e prospettive della panificazione in
Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2005 (il volume è corredato da un vastissimo repertorio di foto relative a ogni
tipologia di pane presente in Sardegna).
26
A differenza di quelli sul pane, gli studi sui dolci sardi tradizionali sono scarsi e non altrettanto
approfonditi. Per un primo inquadramento di carattere generale si rimanda a : Atzori M., Dal grano al
miele: la tradizione dei dolci in Sardegna in “S'ischiglia: rivista mensile di poesia e letteratura sarda”,
Vol. 15, A. 1994 , N. 1; Pinna “Panificazione e pasticceria in Sardegna alla metà dell’Ottocento: saggio di
repertorio”, Cossu - Calvia - Deledda “I pani e i dolci sardi nella Rivista delle Tradizioni popolari
italiane”, Bottiglioni “Pani e dolci tradizionali in Sardegna da Vita Sarda” (tutti e tre in: Cirese (a cura di)
Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977)
27
Canti e balli suona come un’espressione piuttosto generica, ma la mancanza di informazioni dettagliate
impedisce di precisare ulteriormente l’argomento.
Il successo spinge altri paesi a imitare l’iniziativa. A Cagliari, nel 1979, si propone sa
coja casteddaia, col matrimonio in costume del presidente del gruppo folk del quartiere
di Villanova Antonio Piras. Alcuni ricordano un tentativo simile nel Sarrabus, in cui
vennero coinvolti i militari di stanza a Muravera. Nel 1983 è la volta di Monastir
[Caredda, 1983:41]. Negli anni ’80 si arrivò al punto che la Regione dovette intervenire
per frenarne la proliferazione, rifiutandosi di finanziare altre manifestazioni che
avessero per tema il matrimonio tradizionale. Nonostante ciò, la tendenza non accenna
ad arrestarsi e nel 1994 si celebra per la prima volta Sa coja antiga di Ussassai3. Nuovi
casi, recentissimi, si registrano con il “Matrimonio Tradizionale a sa ittiresa”, celebrato
nell’omonimo centro sassarese il 18 giugno 20054 e infine, tra le iniziative per la
manifestazione “Autunno in Barbagia – Cortes Apertas”5, l’”Antico Matrimonio Olianese
- Su Hujviu Ulianesu”, nel 2006 alla seconda edizione.
1
Su internet si trovano informazioni interessanti su Santadi e il matrimonio mauritano in:
www.comune.santadi.ca.it/web_pages/turismo/matrimonio_mauritano.htm, Comune di Santadi,
Matrimonio mauritano (ultima visita 22-04-06) e www.prolocosantadi.altervista.org, Associazione Pro-
Loco di Santadi, Programma manifestazioni estate 2005 (ultima visita 22-04-06). Devo molte
informazioni sulla manifestazione alla cortesia della presidente della pro-loco Denise Usai.
2
Sul sito internet www.assemini.net/Manifestazioni/Matrimonio/Video_01_02 è possibile accedere a un
breve filmato nel quale viene mostrato il momento centrale della messa di matrimonio della coppia in
costume. Il sito è curato da Salvatore Amisani, giornalista e presidente della pro-loco di Assemini, che qui
ringrazio per le informazioni sulla rassegna e per avermi messo a disposizione tutti gli articoli da lui
scritti in proposito su quotidiani e riviste. Per le informazioni generali su Assemini:
www.isolasarda.com/assemini.htm, Isola Sarda. Sito dedicato alla cultura, alla natura ed alla gente di
Sardegna, Assemini. Sintesi storica del paese dell’hinterland cagliaritano, di Atzori Emanuele;
www.comuni-italiani.it/092/003/index.html, Informazioni e dati statistici sui comuni in Italia, Comune di
Assemini (CA).
3
Le informazioni in merito sono tratte dall’intervista alla presidente della pro-loco Maria Serrau.
4
www.bogheseammentos.org/appuntamenti.shtml, Associazione culturale “Boghes e Ammentos” di Ittiri
(SS), Appuntamenti (ultima visita 22-04-06). Ringrazio il presidente dell’associazione Salvatore Scanu
per gli approfondimenti al riguardo.
5
www.nu.camcom.it/agenda/0157/index.asp, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura
di Nuoro, Agenda manifestazione Autunno in Barbagia – Oliena “Cortes Apertas” (ultima visita 22-10-
Ittiri
Oliena
Ussassai
Muravera
Monastir
Assemini
Selargius
Santadi
2.1 Collocazione geografica di alcuni dei paesi in cui si registrano (o si sono registrati) esempi
di “matrimonio alla sarda”
06). Le informazioni sul Matrimonio Olianese sono ricavate dall’intervista ad alcuni membri del “Gruppo
53” : Cenceddu, Catte Nina, Mastroni Ignazia, Palimodde Antioca, che qui ringrazio. Ringrazio inoltre la
prof. Turchi Dolores per gli utili riferimenti bibliografici.
Si può giusto notare come non sembri presente una qualche forma di correlazione tra
le caratteristiche del paese e la proposta di iniziative di questo genere. Santadi, ad
esempio, è un piccolo centro del basso Sulcis, a sud-ovest del capoluogo sardo (dal
quale dista circa 54 km) abitato da meno di 4000 persone (3758 per l’esattezza,
secondo i dati forniti dall’Istat nel 20016), che attualmente basa la propria economia
sull’agricoltura, sulla pastorizia e su una produzione vinicola di tutto rispetto (il cui
prodotto più rinomato è sicuramente il Carignano), mentre in passato ha conosciuto
anche l’attività estrattiva del carbone vegetale prodotto in loco. Assemini, invece, è un
6
www.comuni-italiani.it/092/060/index.html, Informazioni e dati statistici sui comuni in Italia ,Comune
di Santadi, ultima visita 22-04-06.
Ciò che questi paesi condividono tra loro sono i discorsi attorno a queste feste, i quali,
da un capo all’altro della Sardegna, hanno in comune un’incrollabile certezza: si tratta
sempre di “riproposizioni vere e genuine delle antiche tradizioni”.
Una festa di matrimonio, come ogni festa, è formata da un insieme di elementi che
significano, cioè si struttura secondo un proprio codice comunicativo. Gli elementi
costitutivi sono relativamente fissi e standardizzati, fanno parte delle cose che per
tradizione, “si devono fare” per quella determinata festa. O meglio, in questo caso,
delle cose che si crede si dovessero fare in quelle circostanze.
2.2 Immagine tratta dal dépliant Antico Sposalizio Selargino del 25 ottobre 1964
Le differenze tra paese e paese possono essere minime, ma sono queste a fare la
differenza. Ne ho avvertito tutta l’importanza per la prima volta nel 2004 quando,
applicando il metodo dell’osservazione partecipante, mi sono presentata a un’edizione
del Matrimonio Selargino vestita in costume. Per essere sicura di non sbagliare, mi ero
prima rivolta alla Pro - Loco, dove mi avevano raccomandato due cose: calze bianche
e niente trucco, poiché “prima” non ci si truccava, per il resto era facile, avrei capito da
sola come assemblare i vari pezzi. Ma appena arrivata, le ragazze del gruppo
folkloristico mi hanno fatto subito capire che ai loro occhi rasentavo il ridicolo: il numero
di spille con cui avevo fermato il velo era sbagliato, come pure il modo in cui l’avevo
sistemato (avrei dovuto lasciar intravedere una parte della capigliatura), la camicia
Si capirà ora perché gli organizzatori parlino di “rito della vestizione”. Vestirsi
correttamente non è un’impresa semplice, specie per una persona che non ha mai
indossato il costume sardo in precedenza. La parola rito non deve ingannare: significa
semplicemente che qualche esperto/a si assume il compito di aiutare gli sposi a
vestirsi, soprattutto la sposa che deve affrontare l’ulteriore problema di come sistemare
i numerosi gioielli.
A Santadi l’abito tradizionale indossato dagli sposi è il dono di nozze della Pro Loco,
che organizza la manifestazione; mentre negli altri paesi il costume degli sposi è in
genere preso in prestito per la durata della manifestazione. A Ittiri, nel 2005, il
matrimonio della figlia di Salvatore Scanu - presidente dell’associazione culturale
“Boghes e Ammentos” - è stato l’occasione per mostrare una nuova tipologia di abito
femminile, riesumata sulla base degli studi dell’associazione.
7
La scelta di ambientare alcune fasi del Matrimonio Selargino in case “tipiche” verrà discussa più avanti
(cap. 5.3)
Non occorre ricorrere ai libri o ai ricordi di tanti anni fa per attestare la presenza e la
diffusione capillare della cerimonia di benedizione a Selargius. Le interviste ne
confermano l’esistenza almeno sino agli anni ’80 del secolo scorso, ma probabilmente
se ne potrebbero documentare casi in tempi ancora più recenti. Viene raccontato come
un momento molto intimo - presenti solo i parenti più stretti, genitori e figli - che vede
come protagonisti assoluti la madre e il figlio/a pronto a uscire per andare a sposarsi.
La madre può limitarsi a benedire il proprio figlio/a o tenere anche un piccolo discorso.
Le parole di benedizione sono accompagnate dall’aspersione di grano, sale, carta
colorata, sul capo del figlio inginocchiato; è il rito di s’aratza, di cui ho parlato
precedentemente, che si conclude con la rottura del piatto. La riproposizione in chiave
folkloristica delle usanze matrimoniali, non ha dunque riportato in vita un’usanza ormai
scomparsa, ma ha trasformato un evento privato - ancora presente nei primi decenni
8
Per un esempio di benedizione si veda il discorso tenuto dalla madre dello sposo nell’edizione 2005 del
Matrimonio Selargino riportata nelle pagine successive.
9
La cerimonia si celebra nel cortile, invece che in casa, affinché un numero maggiore di spettatori possa
assistervi.
_____________________________________
Benedizione dello sposo Efisio Secci da parte della madre Leonzia Ida Pibiri,
Selargius, 10 settembre 200510
Sa beneditzioni po Efisiu Secci sa dì chi s'est cojau [La benedizione per Efisio Secci nel giorno
del matrimonio]
In nomini de su Babu, de su Fillu e de su Spiritu Santu [In nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo.]
A tui, fillu amau e caru, deu ghetu cust'àratzia. [A te, figlio amato e caro, aspergo con questa
"aratzia"]
Impàri a babu Tuu, torraus gratzias a Deus e a sa Madonna [Assieme a tuo padre rendiamo
grazie a Dio e alla Madonna ]
de s'essi fatu custa grandu gratzia. [per averci fatto questa grazia.]
Gratzia de t'essi donau sa vida, [Grazia per averti donato la vita,]
de t'essi imparau s'educatzioni e su rispètu [d'averti insegnato l'educazione e il rispetto]
po chini t'hat connòtu e t'hat donau tanti afétu. [verso chi t'ha conosciuto e t'ha donato tanto
affetto]
T'heus crèsciu onèstu, bellu e traballànti [Ti abbiamo cresciuto onesto, bello e lavoratore]
e auguraus a tui e a sa sposa tua, [e auguriamo a te e alla tua sposa,]
po is fillus chi hant arribai, chi fatzàis atèretanti. [per i figli che metterete al mondo, che
facciate altrettanto.]
Sa domu e sa famillia chi t'hant biu [La casa e la famiglia che t'hanno visto]
pipiu, piciochéddu e bagadiu,[bimbo, fanciullo e celibe,]
tui hoi dd' has làssas [oggi hai lasciato]
po andai un' àtera a 'ndi formai cun sa sposa tua stimàda. [per andare a costituirne un'altra con
la tua sposa onorata.]
Efisiu, custu coru 'e mama milli augurius imoi ti fàit.
Est stètiu bellu candu t'hapu santziau, [È stato bello quando t'ho cullato,]
ma medas bortas t'hapu puru stratallau. [tante volte t'ho anche redarguito.]
Una mama pònit a su mundu unu fillu, [Una madre mette al mondo un figlio]
dd'anninnìat, dd'incùrat, ddu crèscit, dd'ampàrat [lo vezzeggia, lo cura, lo cresce, lo protegge]
10
Trascrizione e traduzione a cura del poeta sardo Raffaele Piras, che ringrazio per la collaborazione
2.6 Un momento della sfilata del corteo a Selargius, fine anni ’60. Foto tratta dalla brochure
illustrativa Antico Sposalizio Selargino del 1970
Il fatto che a Selargius si sia potuto giustificare come tradizionali entrambi le varianti,
mi pare un’ulteriore conferma che almeno in questo paese il tragitto casa-chiesa non
fosse sottoposto al rispetto di regole fisse. Si racconta che per la prima edizione del
Matrimonio Selargino il comitato organizzativo avesse deciso che i due cortei
dovessero procedere più o meno silenziosamente verso la chiesa, e comunque
separatamente, come descrive il Serra11, e sia stato l’entusiasmo degli spettatori a far
cambiare idea agli organizzatori. Durante la prima edizione una folla di gente si è
riversata lungo il percorso dei due sposi, benedicendo gli sposi, lanciando sale e
grano, gridando ad medas annos cun saludi e cun trigu, ossia “per molti anni con
salute e con grano”, rompendo il piatto beneaugurante contenente s’arazza. In seguito
alle manifestazioni di partecipazione entusiasta del pubblico, la sagra settembrina ha
dedicato una sempre maggiore attenzione al percorso dei due cortei, anno dopo anno
sempre più lungo e tortuoso, con sempre più partecipanti. Dopo vari tentativi - in cui i
due cortei procedono separatamente ma si incontrano nell’ultima parte del percorso - si
rinuncia definitivamente all’idea dei due cortei, che vengono fusi in uno solo. La sfilata
del corteo nuziale, che comprende la partecipazione di gruppi in costume provenienti
da tutta l’isola, passa progressivamente dalla mezz’oretta del 1962 alle due ore e
mezzo di oggi. Quello che in teoria sarebbe dovuto essere il momento meno
11
Serra M., all’interno del pieghevole Antico Sposalizio Selargino del 1962 e anni successivi
Giunti di fronte alla chiesa da ogni gruppo si stacca una coppia, scelta
precedentemente, che va a seguire la messa nuziale, mentre il resto del loro gruppo si
disperde. Per ultimo avanza il gruppo folk selargino con gli sposi.
12
La questione sarà approfondita nel cap. 5
Per quanto riguarda il rito ecclesiastico, la questione dell’uso del sardo nella liturgia e
l’incatenamento dei due sposi, rimando ai capitoli successivi, dove verranno trattati
estensivamente per l’importanza assunta in alcune di queste manifestazioni. A
proposito della catena con la quale vengono legati marito e moglie al termine della
celebrazione religiosa, vorrei qui rimarcare che la presenza dello stesso atto in due
distinte manifestazioni, quella asseminese e quella selargina, non è da considerarsi
come una prova del recupero di una tradizione preesistente nel Campidano, come si
vedrà più avanti.
All’uscita dalla chiesa, marito e moglie ricevono gli applausi della folla. Gli asseminesi
aspettano questo momento per rompere il piatto di s’arazza, lo stesso gli olianesi che
lo chiamano su prattu de sos granos e lo scagliano a terra dopo aver lanciato il grano
in esso contenuto e aver augurato agli sposi ogni bene con la frase hin bona sorte e in
bona fortuna. Secondo uno degli asseminesi intervistati, è solo alla fine del rito
ecclesiastico che qualcuno, che non sia la madre degli sposi, può rompere
legittimamente il piatto, per questo motivo ritiene che l’uso selargino di rompere piatti
dall’inizio alla fine della festa, deve essere considerato un errore nella ripresa delle
tradizioni.
2.8 Santadi 06.08.2006, 38°edizione del Matrimonio Mauritano [foto Francesca Salis]
In tutti i matrimoni in cui si tenta una qualche ripresa delle tradizioni è presente la
benedizione materna dopo il rito ecclesiastico. A Selargius e a Assemini gli sposi
aspettano questo momento per sciogliere la catena che li unisce nel tragitto dalla
chiesa alla casa in cui li aspettano le madri. Peculiarità della sagra asseminese, la
coppia è preceduta dai gruppi in costume e dal consueto suonatore di launeddas, il
quale però porta appeso al fianco un pane lavorato, su coccoi de sa sposa, che si dice
verrà conservato dalla coppia per tutta la vita.
Evidenziando più nel dettaglio quanto indicato da Pirisinu si potrebbe aggiungere che
la sfilata è un elemento costante, presente in tutte le sagre indicate, sempre inserito nel
contesto del tragitto casa-chiesa del corteo nuziale in cui i gruppi folkloristici assumono
il ruolo - un po’ forzatamente - degli invitati dei due sposi. I gruppi procedono compatti,
a una distanza di circa dieci metri l’uno dall’altro, evidenziando in questo modo l’inizio
di un nuovo gruppo, segnalato in genere anche dalla scritta del nome del paese e del
gruppo folkloristico su un arazzo (a Selargius questo compito è affidato a un bambino
del locale gruppo scout che tiene in mano un cartello con il nome del paese). Questo
modo di procedere non dà certo l’impressione di un insieme di persone in festa che
accompagna gli sposi in chiesa, come ha notato anche Salvatore Scanu, padre della
sposa di Ittiri. Quest’ultimo, per il matrimonio della figlia, ha voluto che gli invitati (circa
200-250), ognuno nel costume del proprio paese, accompagnassero il corteo senza
restrizioni, liberi di mescolarsi tra loro, “proprio come nei matrimoni di una volta”.
Quanto al quarto punto, gli spettacoli folkloristici sono un altro degli elementi sempre
presenti in queste feste. Sono collocati generalmente in tarda serata e costituiscono
una sorta di collegamento con i festeggiamenti del passato che prevedevano canti e
balli. La grandissima differenza con il passato, come molti studiosi hanno rilevato, è
nella trasformazione dei festeggiamenti da momenti di partecipazione collettiva, di tutti
per tutti, a momenti spettacolari, di pochi per le masse.13
Nel contesto di intrattenimenti di tipo tradizionale sono inseribili anche le gare poetiche,
che Gallini definisce “tenzoni a più voci su un argomento proposto dal Comitato, la [cui]
origine non va forse oltre il secolo passato, in una forma che peraltro recupera e
riplasma antichissimi certami poetici”14. Questo tipo di gara è presente a Selargius,
dove viene organizzata come momento a sé stante alcuni giorni prima della domenica
del Matrimonio Selargino; il suo rapporto con la tradizione viene giustificato affermando
che sempre, in passato, le famiglie più ricche ingaggiavano dei poeti esperti perché
intrattenessero il pubblico degli invitati alle nozze.
13
Su questo punto rimando al lavoro (e alla bibliografia in esso indicata) di Alessandro Deiana, che
analizza la trasformazione del ballo tradizionale sardo e il ruolo dei gruppi folkloristici in tale
cambiamento.
14
Prefazione di Gallini in Pirisinu 1999:6. In alcuni casi gli interventi dei vari improvvisatori sono stati
trascritti e pubblicati: nella “Biblioteca Interdipartimentale Area Umanistica” dell’Università di Cagliari è
possibile consultare i testi di alcune gare poetiche tenutasi in vari paesi del campidano, tra cui il testo di
una Gara poetica tenutasi a Selargius la sera del 22.10.1949 per la festività di San Lussorio.
2.10 Trasporto del corredo, Antico Sposalizio Selargino, 10.09.2006 [Foto F. Salis]
Nel frattempo la sposa riceve la benedizione della madre che lancia il riso (e non il
grano, il sale e quanto detto in precedenza) e rompe il piatto. Giunto lo sposo, la donna
prende il bouquet di spighe di grano e fiori di campo, e scortata da una bambina col
ruolo di damigella (s'anguria 'e sposa) si pone alla testa del corteo, dirigendosi verso la
chiesa. Lo sposo segue a distanza, anch'egli accompagnato da s'angurios. Solo una
volta giunti a destinazione, i due sposi possono prendersi a braccetto e entrare insieme
Le presentava poi il fuso e la conocchia perché la nuora dimostrasse di saper filare tre
capi di lino senza spezzarli. Il filo sarebbe servito per legare l'ombelico dei primi figli.
La rappresentazione termina con il corteo nuziale che torna a casa della sposa
portando i doni della suocera:
un anello d'oro, per lo più fra quelli posseduti dalla suocera stessa,
una torta di mandorle e miele con la quale la madre dello sposo ricambia alla
famiglia della sposa il regalo omologo donatole il giorno precedente
unico regalo vivente, una bella gallina bianca infiocchettata con un nastro di
broccato e adornata con pezzi di panno rosso, sa pudda hin sa vetta
Tutti i doni sono portati da bambine e ragazze mentre uno speaker spiega il significato
simbolico di ognuno, che è sempre a livello generale un augurio di fertilità, abbondanza
e lunga vita.
L’opera del Bresciani è sicuramente una tra le meglio conosciute tra le opere dei
viaggiatori dell’800 in Sardegna. Pubblicata nel 1850 a Napoli, ebbe grande fortuna,
tanto da venire successivamente pubblicata anche a Roma nel 1861, a Torino nel
1867, a Milano nel 1864, 1872 e 1890. Padre Antonio Bresciani (1798 -1862), ordinato
sacerdote nel 1821, entrò a far parte della Compagnia di Gesù e diventò rettore di vari
collegi (Genova, Torino, Modena), per poi essere trasferito in Sardegna come
Provinciale15. Sappiamo dall’autore stesso che arrivò per la prima volta nell’isola nel
1843, visitando la Trexenta e l’Ogliastra nel 1844, la Barbagia nel 1845 e la zona
occidentale nel 1846, e che si dedicò alla stesura della sua opera tra il 1846 e il 1849,
in seguito all’espulsione dei Gesuiti dai vari Stati Italiani. Del Bresciani, redattore della
rivista “Civiltà Cattolica” e autore di numerosi romanzi e saggi, l’opera ritenuta più
importante e valida è senz’altro Dei Costumi dell’Isola di Sardegna. Nel secondo dei
due volumi, quello in cui tratta anche delle “usanze maritali de’ Sardi”, il Bresciani
immagina di conversare su quanto ha visto in Sardegna con quattro confratelli nel
castello di Montalto, nel quale erano soliti villeggiare gli alunni del collegio dei nobili di
Torino. Tralasciando le comparazioni dei costumi sardi con quelli degli antichi popoli
orientali, riconosciute successivamente come prive di ogni valore scientifico, l’opera è
molto utile alla conoscenza dell’Isola poiché la descrizione delle consuetudini e delle
usanze isolane si basa sull’osservazione diretta.
15
Tali informazioni sulla vita e le opere di Antonio Bresciani sono tratte da Boscolo, 2003:18 e sgg.
Marcello Serra è una figura di spicco nel panorama culturale sardo. Dando un’occhiata
alla sua biografia, si comprende immediatamente il motivo della sua grande notorietà:
sin da giovanissimo pubblica liriche e saggi critici; fonda, dirige e/o collabora con
diverse riviste; nel 1946 gli viene assegnato il Premio Poesia G. Deledda, nel 1947
inizia la collaborazione con la Rai; dal 1954 insegna Letteratura Italiana all’Università di
Cagliari e Letteratura Poetica e Drammatica nel Conservatorio di Musica; nel 1959
pubblica Sardegna quasi un continente, dal quale trae un documentario di quattro
puntate per la TV; nel 1961 e nel 1972 la Presidenza del Consiglio dei Ministri gli
assegna il Premio Cultura. Tra le altre opere, tutte inerenti la Sardegna: nel 1960 la
guida Vacanze in Sardegna (tradotta in cinque lingue), nel 1964 Il mondo dei Sardi,
nel 1968 Sardegna favolosa, nel 1970 L’aurora sui graniti è rossoblu, nel 1978,
L’enciclopedia della Sardegna, ecc. ecc.16
Tra le altre cose, Marcello Serra ha scritto anche un breve brano sulle usanze nuziali
selargine. Quello che sorprende è il modo in cui tale brano sia attualmente utilizzato
come fonte di legittimazione del Matrimonio Selargino. Viene infatti detto che questi
avrebbe avuto modo di osservare le antiche usanze durante alcune visite giovanili a
Selargius, trovandole così significative da descriverne i tratti salienti nella sua opera
Mal di Sardegna (alla voce Selargius). Facendo riferimento all’anno di pubblicazione di
Mal di Sardegna, il 1955, si lascia intendere implicitamente che il Serra racconti di
tradizioni nuziali tipicamente selargine prima della loro riproposta in chiave folkloristica,
fungendo così in qualche modo da ispiratore nella riproposta delle antiche usanze. Si
vorrebbe far credere, cioè, a una precedenza temporale dello scritto di Serra rispetto
alla prima edizione del Matrimonio Selargino. In realtà, per quel che ho potuto
16
Queste, e molte altre informazioni, sono contenute nel risvolto di copertina dell’edizione del 1989 di
Sardegna quasi un continente
17
Del ruolo dell’Enal nel Matrimonio Selargino si discuterà successivamente
18
La descrizione dello scrittore delle principali fasi del Matrimonio Selargino sarà inserita in quasi tutti i
dépliant stampati annualmente in occasione della festa
19
“Conciossiacché Egli abbia già pubblicato la storia naturale dell’Isola, e fattone lo stato e descrittine i
costumi, le arti, i monumenti antichi e moderni con tale una diligenza e un amore, con tanta sapienza ed
erudizione che vince ogni desiderio e toglie altrui la speranza di vantaggiarlo”, Bresciani in Boscolo (a
cura di) 2003:213
20
Non sarebbe l’unico caso: nella prefazione al testo (2001:19, nota 8) il prof. Caltagirone cita altri
esempi “in cui il plagio è più che rasentato”. Il plagio di interi brani di opere altrui era d’altra parte una
pratica corrente nella letteratura di viaggio, molto diffusa ancora per tutto l’Ottocento.
21
La scelta di utilizzare il resoconto del Bresciani piuttosto che quello di Della Marmora è probabilmente
legata alla ricchezza dei particolari del primo. Ciò che ad alcuni è parso un difetto definibile come
“delirio da descrizione”, “esasperato descrittivismo” (per questi giudizi sullo stile del Bresciani rimando
alla prefazione di Caltagirone al testo, p. 14 e sgg.), è al contrario un pregio inestimabile per quanti
abbiano in mente di mettere in scena un evento come il Matrimonio Selargino: maggiore è l’attenzione al
dettaglio, minore il rischio di commettere errori legati all’ignoranza di quello che “realmente” avveniva in
passato. Inoltre, l’ampio uso della figura retorica dell’ipotiposi è una strategia discorsiva che consente a
Bresciani di rappresentare in modo vivido, non noioso, ciò che descrive, quasi da offrirne l’immagine
visiva: un’ulteriore possibile spiegazione della predilezione verso questo testo.
Il problema delle fonti non riguarda solo Selargius, ma in questo paese la situazione è
più difficile poiché l’abbandono del costume e delle “antiche” usanze è iniziata piuttosto
presto, agli inizi del XX secolo. A Ittiri, per esempio, Salvatore Scanu rileva la quasi
totale assenza di fonti attendibili, nonché l’ignoranza degli studiosi interpellati per
quanto riguarda la materia in esame, che non gli ha permesso di organizzare un
matrimonio in cui fossero presenti elementi tradizionali oltre il costume e poco altro.
In altri paesi, specialmente quelli più piccoli e isolati, il folklore locale è durato più a
lungo, cosicché il tempo intercorso dall’abbandono come “vecchiume di altri tempi” al
recupero in quanto “bene” è stato talmente breve da non aver permesso l’oblio. Nel
piccolo centro ogliastrino di Ussassai l’arco temporale di questo passaggio è stato
inferiore a quello di una generazione: la presidente della Pro Loco Maria Serrau può
così curare la riproposizione del matrimonio tradizionale sulla base della propria
esperienza personale, essendo stata lei l’ultima, nel 1956, a sposarsi in questo modo.
Spanu Luigi, nel suo libro sulle sagre e le feste popolari dell’87, tiene a precisare che la
veridicità della fonte non è stata ancora verificata, mentre un articolo promozionale,
pubblicato sempre su “L’Unione Sarda” (01-09-90, p. 15, Un amore legato con catene
d’oro), svela i dettagli della leggenda riportata nell’antico testo. Racconto di
antiche invasioni, di armate crudeli che insanguinavano i villaggi, disperdendo la
gente. Racconto di morti orrende, di crudeltà, di violenze, di tesori nascosti nella
fuga, di olle piene di oro, sotterrate in grotte profonde per essere poi ritrovate,
passata la furia dei predoni venuti dal mare. Ed ecco le “janas” le fate profetiche,
guizzare dai ceppi ardenti del focolare ed indicare i luoghi in cui le olle zeppe di
oro erano nascoste.
Due giovani fidanzati, fra i tanti ricercatori di fantasiosi tesori, inseguendo la
suggestione delle fate finirono in un antro profondo nel quale pensavano di
trovare la pentola ricolma di monete d’oro. Languirono a lungo nel freddo della
voragine, si ferirono con i rovi e con i sassi, furono legati in catene dagli spiriti
maligni che custodivano il tesoro. Li salvò una fata, riportandoli alla luce e
dicendo loro che l’unico vero tesoro sarebbero stati una vita in comune, l’amore
reciproco, l’affetto dei figli
Il resto della storia si può immaginare e infatti, sfortunatamente, l’articolo ci lascia solo
presumere il matrimonio che segue e la descrizione delle sue fasi, rassicurandoci,
però, sulla fedeltà della loro riproduzione nella rappresentazione asseminese.
Ciò che emerge da un’analisi delle dichiarazioni degli informatori che vada oltre
l’indicazione superficiale di questo o quell’altro elemento come specificatamente
tradizionale, è piuttosto il riferimento a una partecipazione comunitaria ora assente. Le
consuetudini relative alle nozze non subiscono negli anni modifiche radicali mentre ciò
che si ritiene andato perduto è il coinvolgimento del vicinato, del paese nelle vicende
dei singoli, l’identità stessa del paese. È un discorso che vale a Selargius, ma che può
essere esteso con le dovute cautele anche agli altri paesi, anche se per opposte o
differenti ragioni: ad esempio a Selargius viene chiamata in causa l’espansione
demografica eccezionale dal secondo dopoguerra a oggi, mentre a Ussassai al
contrario la massiccia emigrazione. Non sono dunque tradizionali le azioni di per sé,
quanto invece la forma in cui sono presentate (l’abito tradizionale al posto dell’abito
bianco, le traccas al posto delle macchine, ecc.), che rimanda a un passato idealizzato
nel quale l’insieme degli abitanti costituiva “ancora” una comunità.
La tradizione è assunta come una sorta di canovaccio, una traccia schematica i cui
elementi vengono ampiamente manipolati da parte degli organizzatori al fine di creare
un momento di partecipazione collettiva. Questi possono dunque subire un dilatamento
o un restringimento temporale, possono acquistare una visibilità che precedentemente
non avevano, possono essere prelevati dal loro contesto e spostati in un altro.
La riproposizione della tradizione sembra allora il mezzo piuttosto che il fine dell’intera
manifestazione. Di questo si era reso conto con sorprendente chiarezza anche Efisio
Salis, l’ex delegato podestarile di Selargius, principale promotore e uomo-chiave del
Matrimonio Selargino, che in una lettera spedita al sindaco di Selargius, esprimeva
tutta la sua delusione per una iniziativa che sente sua, ma la cui organizzazione gli era
completamente sfuggita di mano:
Efisio Salis si mostra consapevole del fatto che - nonostante si affermi sempre il
contrario - non sono le “consuetudini antiche” il centro della manifestazione, non è su
queste che si concentra l’attenzione degli organizzatori e del pubblico.
Una storicizzazione, o almeno un tentativo in tal senso, è necessaria, non fosse altro
che per sottrarre l’oggetto in questione a quell’astrattezza e a quella naturalità cui va
incontro qualunque fenomeno umano che venga dato per scontato o per inevitabile, e
quindi considerato acriticamente.
Non si tratta di un’operazione semplice, perché una delle strategie retoriche della
promozione del prodotto “matrimonio tipico” è quella di insistere sulla continuità della
manifestazione con una tradizione che si vuole antichissima. L’antico sposalizio
selargino si celebra per la prima volta a Selargius il 28 ottobre 1962, domenica
conclusiva della festa patronale di S. Lussorio. Sembrerebbe un punto di partenza, e
invece è già un punto di arrivo: il Matrimonio Selargino non nasce, “esiste da sempre”.
La reazione alle mie domande sull’origine della manifestazione è stata nella
maggioranza dei casi la sorpresa, poi l’insofferenza e infine la noia1. Quando anni, anzi
decenni di promozione turistica, riescono nell’intento di trasmettere l’idea che la
manifestazione sia il fedele proseguimento di antichissime usanze, che sempre si sono
svolte nel modo che ancora oggi possiamo ammirare, il problema di chi l’abbia
organizzata e per quali motivi, semplicemente, non si pone. È una questione di poca
importanza, dal momento che ci si è limitati a riprendere qualcosa di già bell’e pronto.
1
Si noti l’analogia tra le reazioni emerse nella ricerca sul campo e le osservazioni di D’Eramo (nella
presentazione al testo di Anderson Comunità immaginate, 1996:7) a proposito del rapporto patriota-
nazione: “Già la domanda sul quando suona blasfema a un patriota. Per lui la nazione è qualcosa di
originario, un retaggio primordiale che forse era stato dimenticato, sepolto nella memoria e solo di recente
è affiorato, identità ritrovata. Siamo di fronte a una duplicità: la nazione è stata pensata, creata di recente,
ma essa pensa se stessa come antichissima”.
Se la maggioranza degli intervistati non si è mai interessata al problema, la restante
parte sembra voler mantenere lo status quo, rispondendo evasivamente o non
rispondendo affatto; tuttavia, insistendo, è stato possibile raccogliere alcune teorie in
proposito.
2
Dalla biografia sul retro di copertina dell’edizione del 1996 del suo libro Il mio paese: “Opera da anni
nel mondo della comunicazione e della telecomunicazioni. Tra i pionieri della radio e della televisione
privata in Sardegna, è stato dal 1975 al 1983 direttore responsabile di videolina. Ha realizzato una serie di
documentari sulle sagre sarde ed ha raccolto una vasta documentazione in Italia e all’estero sui temi
dell’emigrazione. Esperto di storia e problemi sardi, è laureato in Materie letterarie e pedagogia. Nel 1982
una commissione composta da Indro Montanelli, Luca Goldoni e Ruggero Orlando gli ha assegnato il
Premio di giornalismo televisivo per i documentari realizzati in Germania, Svizzera e Belgio per il Natale
con gli emigrati sardi. Vincitore del Premio internazionale di giornalismo televisivo Città di Castelsardo.
Scrive per “L’Unione Sarda” dal 1962. È stato dirigente dell’Associazione della stampa sarda. Esperto in
relazioni istituzionali. Docente di comunicazione e immagine a Roma”.
Un’altra versione la fornisce una signora responsabile di uno dei tanti gruppi folk
presenti a Quartu Sant’Elena, un altro paese nelle immediate vicinanze di Selargius. La
signora I. sostiene che l’idea del matrimonio “tipico” è un’idea partita dall’alto, dai vertici
turistici regionali, che si erano proposti di finanziare un’iniziativa del genere in uno dei
paesi del Campidano di Cagliari. Ricorda di aver sentito parlare di una specie di bando,
una richiesta da parte di qualche ente regionale per la formazione di una graduatoria
dei paesi più adatti a ospitare un evento simile, ma Quartu Sant’Elena, il paese che
sarebbe stato di gran lunga il più favorito (a suo giudizio), si era lasciato sfuggire
l’occasione sottovalutandone l’importanza, cosicché se lo aggiudicò Selargius.
Il Matrimonio Selargino sarebbe nato quasi per caso, durante l’organizzazione dei
festeggiamenti per San Lussorio:
[…] Il comitato di san Lussorio in quegli anni era costituito dagli amministratori
comunali in cui erano presenti persone appassionate di queste cose tradizionali.
Una sera uno di questi, Efisio Salis, dice: “Ma perché non riproponiamo il
matrimonio come si faceva una volta?”, hanno proposto questa cosa in giunta e il
sindaco ha accolto l’idea.
[…] Questo matrimonio si è potuto fare, ha facilitato un po’ tutto che a Selargius
c’era il gruppo folkloristico e io ne ero capoccino. Quelli che hanno organizzato il
tutto era il dopolavoro provinciale e siccome a Selargius esisteva il gruppo
folkloristico e esisteva frequentatissimo anche il dopo lavoro… il gruppo
dopolavoro provinciale è riuscito ad avere i finanziamenti dalla regione e si è fatto
tutto. Di sicuro c’è stato un collegamento tra il comitato dei festeggiamenti di San
Lussorio e… poi questo Efisio Salis era anche socio dell’Enal. È nato così, per
uno scherzo, noi eravamo solo fidanzati in quel periodo; l’abbiamo fatto per
riempire una serata…
3
Orrù, 2003. Relazione presentata al convegno sulle tradizioni nuziali, organizzata a Selargius nel
contesto delle iniziative per l’edizione del 2003 del Matrimonio Selargino. Ringrazio il signor Orrù per
avermi fornito una copia del suo intervento.
Ma forse il problema è la distanza da cui si affronta l’analisi del fenomeno, una visione
così ravvicinata potrebbe non consentire di studiare il fenomeno nella giusta
prospettiva. Forse i singoli resoconti non vanno analizzate in sé stesse o nel confronto
con le altre, ma sulla base degli elementi deittici presenti nel discorso, cioè di quegli
elementi che costituiscono degli indizi per capire il contesto culturale di riferimento. I
diversi riferimenti a un rinnovato interesse nei confronti delle proprie tradizioni,
l’interesse a livello regionale al finanziamento di manifestazioni folkloristiche, i
riferimenti al fascismo, la scelta di un tema quale il matrimonio, potrebbero essere
tasselli diversi di un unico mosaico. Prendiamo, per esempio, la costante del
riferimento al diffuso interesse a valorizzare le tradizioni locali, sia da parte dei singoli,
sia da parte di enti regionali e provinciali. Si può partire da queste considerazioni per
chiedersi quando nasce questo interesse, la sua storia, le motivazioni.
Non è il caso qui di ricordare il clima culturale che spinse studiosi di tutto il continente a
interessarsi allo studio delle tradizioni popolari, fatto sta che l’interesse crescente in
questa direzione portò a definirne in modo sempre più specifico l’oggetto di studio e il
campo intellettuale. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, forse per recuperare il
ritardo accumulato nei confronti degli altri paesi europei, si assiste a un rapido sviluppo
della disciplina anche in Italia: nel 1893 nasce la “Società per le tradizioni popolari”, nel
1910 la “Società di Etnografia Italiana”, dal 1911 al 1914 si pubblica la prima serie della
rivista “Lares”. Nel 1911, nel cinquantenario dell’unità, la consacrazione ufficiale con il
“I Congresso di Etnografia Italiana” e l’allestimento della mostra etnografica.
L’interesse per la lingua e la cultura della Sardegna inizia alla fine del XVIII secolo,
quando l’isola è meta di sempre più studiosi attratti dal miraggio di un’isola ancora
Nella ricostruzione di Dei [2002], tale oggetto di studio conosce nel Novecento due
principali tipi di lettura. Da una parte, il discorso sulla cultura popolare tradizionale
continua l’impostazione ottocentesca, che concepisce il folklore come lo studio delle
usanze e delle abitudini dei vecchi tempi, “manners, custom, observances,
superstitions, ballads, proverbs etc of the olden time”, nella definizione classica del
1846 di William John Thoms. Il folklore è l’espressione di una “differenza culturale di
tipo verticale”, in senso contemporaneamente sociale e cronologico, perché distanza di
classe e di velocità evolutiva. L’attività del folklorista consiste nel ricercare le
testimonianze del passato che ancora sopravvivono nella cultura popolare:
il suo sogno è imbattersi, in qualche sperduta campagna, in un’isola culturale in
cui si parla ancora così e così, in cui si fanno ancora certi riti – in cui, cioè, si è
fermato il tempo [Dei, 2002, pp. 21-22]
L’altro tipo di discorso che si afferma nel Novecento deriva dalla trasformazione del
concetto di cultura da processo unitario universale a concetto pluralistico e relativistico
che descrive entità sostantive. Il folklore è lo studio di una differenza culturale di tipo
“orizzontale” presente all’interno della società occidentale. Prendiamo ad esempio le
“Osservazioni sul folclore” scritte dal sardo Gramsci negli anni ’30: rifiutando
esplicitamente l’impostazione di quegli studi che si occupano del folclore come
elemento “pittoresco”, spiega che
occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo e della vita”,
implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello
spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita,
meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo “ufficiale” (o in senso più
largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe
nello sviluppo storico [Gramsci, 2000: 261-262]
Il folklore equivale, in entrambi i casi, allo studio di una cultura “altra”, poiché la
distanza sociale rimane invariata: sono sempre gli appartenenti a quelle che Gramsci
definirebbe classi egemoniche a studiare le classi subalterne. E ciò che per gli uni si
configurava come qualcosa da studiare, salvare dall’oblio, per gli altri spesso era il
distintivo di uno status di subalternità, di una condizione esistenziale negativa, che si
tentava piuttosto di abbandonare. Basti pensare all’abbigliamento popolare,
abbandonato in tutta fretta nei primi decenni di questo secolo da quanti potevano
permettersi gli abiti “moderni”. Ancora oggi, nonostante un abito tradizionale originale
abbia assunto un valore inestimabile, le signore più anziane - almeno nei dintorni di
Cagliari - possono offendersi se chiedi loro se da giovani lo indossassero:
Non eravamo certo a quel livello [di povertà]. Lo mettevo a Carnevale, così, per
ridere…4
L’interesse per il folklore rimane a lungo una caratteristica esclusiva di una certa classe
dominante, che si occupava del popolo come oggetto di studio, senza condividerne la
condizione. Oppure ne riprendeva dei tratti, come si racconta a Selargius di una certa
Maria Zucca Coj, figlia dell’alta società, che agli inizi del secolo scorso,
sfidando le mode italianizzanti […], si presentava alle feste danzanti nel
tradizionale costume sardo [Orrù, 2003:1, nota 2],
la sua posizione sociale le consentiva queste stravaganze, ponendola al di sopra del
senso del ridicolo che avrebbe colpito una donna di ceto inferiore.
4
Intervista a E. C. (nata a Selargius nel 1911), marzo 2006. Stesse considerazioni per Maria Laura
Corona (nata a Quartucciu nel 1921), la quale indicava il non aver mai indossato (né lei, né la propria
madre) l’abito tradizionale quale segno evidente dell’agiatezza della propria famiglia.
3.1 1929, Visita di Vittorio Emanuele III a Cagliari [collezione Olinda Melis].
Nella foto alcuni selargini “in costume” accorsi a rendere omaggio al re. Si noti l’abbigliamento
differente delle tre donne: nel secondo dopoguerra solo il secondo modello diventerà
identificativo del costume di gala “tipicamente” selargino.
Dettata dalle scelte autartiche del regime, antidoto contro la degenerazione culturale
prodotta dalla civiltà moderna, la politica ruralista comportò l’esaltazione ideologica
delle virtù rurali e della provincia, spinse all’idealizzazione del mondo contadino
preindustriale, dipinto come la sintesi delle migliori virtù umane, depositario di valori
sani e morali. Per rendere verosimile questa rappresentazione, il regime fascista si
affidò alla vasta e capillare opera che poteva essere condotta tramite l’OND. L’Opera
Nazionale Dopolavoro, fondata con regio decreto legge il 1 maggio 1925, rientrava
All’interno dell’Ond, nella sezione cultura popolare (il C.N.I.A.P., Comitato Nazionale
Italiano per le Arti Popolari), venne istituito nel 1928 un apposito ufficio per sviluppare
l’azione folkloristica, avente come obiettivo la realizzazione di iniziative che
valorizzassero le tradizioni popolari in generale, quindi sagre, cerimonie, usanze locali,
canti e danze folkloristiche, il costume tradizionale. Fu all’epoca e nell’ambito dell’Ond
che sorsero i primi gruppi folkloristici; in Sardegna il primo si formò a Quartu S. Elena
lo stesso anno in cui furono istituite le sezioni di folklore, è il “Città di Quarto” [vedi
Deiana, 2003/2004].
Poiché il folklorismo era inserito tra le attività ricreative proprie della sfera del tempo
libero, quindi non obbligatorie, la prima funzione, essenziale, era quella di fornire un
mezzo di svago che attirasse la maggior quantità possibile di popolazione. Al contrario
di quanto sostengono i nostalgici delle tradizioni, il lavoro di Cavazza afferma
attraverso diversi esempi che la domanda di svago non si traduceva di per sé nella
richiesta di folklore, per cui le attività dovevano essere programmate con molta
attenzione, cercando quanto potesse andare incontro ai gusti del pubblico. Col tempo,
le iniziative del Dopolavoro si concentrarono intorno ad alcune tipologie principali, che
configurarono precisi modelli festivi:
a) feste progettate dall’alto e diffuse poi a livello locale, in cui il ruolo della propaganda
era più evidente;
Un’altra funzione del folklorismo fascista era la promozione del turismo, motivata da
ragioni di tipo economico e di immagine. La prima e più importante ragione economica,
la mancanza di materie prime e di ricchezze coloniali, convinse il regime fascista a
cogliere l’opportunità economica offerta dal turismo straniero, che cercò di incentivare
mediante una più efficiente e valida organizzazione dei comitati turistici locali, il
miglioramento della rete alberghiera e di quella ferroviaria. L’Enit, Ente Nazionale
Industrie Turistiche, aveva, tra gli altri, il compito di valorizzare l’immagine turistica
dell’Italia, attraverso l’acquisto di pagine di pubblicità sui giornali stranieri. Ma il turismo
diventava sempre più un settore economico rilevante grazie anche allo sviluppo del
turismo interno che coinvolgeva ceti medio e piccolo borghesi nella ricerca di vacanze
ed evasione. L’organizzazione di festeggiamenti era lo strumento attraverso il quale
pubblicizzare le piccole località e i centri periferici, che attirando spettatori dai paesi
vicini riuscivano a stimolare i piccoli commerci. Di ogni centro, si cercava di esaltare la
tipicità, le caratteristiche che lo rendevano diverso dai centri vicini; una strategia
pubblicitaria che esaltava l’identificazione locale, l’amore per il proprio paese.
Il Matrimonio Selargino permette inoltre di venire incontro alle esigenze di istituire una
festa che rafforzasse l’identificazione locale, ma senza eccessi. Il matrimonio è
selargino in quanto si celebra a Selargius e perché sono presenti alcuni elementi che
vengono presentati come tipicamente selargini, ma è giocoforza ammettere che le
usanze nuziali selargine sono le stesse di tutto il Campidano e quindi lo stesso evento
poteva essere rappresentativo del matrimonio tipico di tanti altri paesi.
Non appare un caso che il Matrimonio Selargino presenti parte dei requisiti richiesti dal
modello festivo fascista. Efisio Salis era un’autorità fascista, che tra il 1928 e il 1929
ricopre il delicato incarico di delegato podestarile a Selargius, ma era anche un
appassionato organizzatore di eventi di svago e di spettacolo, ricordato ancora oggi
per una famosissima gara di ostentazione di ricchezza a base di fuochi artificiali, in
occasione di una festa paesana negli anni Cinquanta. È perciò ragionevole supporre
che avesse in mente di accrescere il prestigio del suo paese per mezzo di una festa
capace di richiamare curiosi da tutto il circondario, ed è altrettanto ragionevole
supporre che conoscesse le direttive inviate ai dopolavoro locali sui modi e gli obiettivi
delle iniziative festive: un’iniziativa come il Matrimonio Selargino può benissimo essere
stata incubata per anni, in attesa dell’occasione più propizia per venire alla luce. Si
ricordi tra l’altro che Selargius durante il fascismo e poco oltre, più esattamente dal
1928 al 1947, aveva perso la possibilità di decidere autonomamente della propria
politica culturale, poiché subordinata alle decisioni del comune di Cagliari.
Con una produzione ai massimi vertici sardi sia per quanto riguarda il vino comune sia
per il vino fino, il settore vitivinicolo rimase per tutto l’Ottocento il settore trainante
dell’economia selargina. Nel 1865 raggiunse addirittura il primato sardo assoluto con
25000 hl, primato detenuto sino alla fine del 1800. Ma nel 1881 e 1889 le alluvioni
distrussero gli orti, nel 1898 una disastrosa grandinata annientò l’intera produzione
agricola (tanto che “fu sospesa la riscossione delle imposte e delle tasse per un giusto
riguardo ai contribuenti colpiti dal grave infortunio [Camboni, 1997:125]), agli inizi del
1900 arrivò la filossera, una malattia causata da un afide infestante che distrusse i
vigneti; il 23 settembre 1921 una terribile grandinata distrusse tutti i vigneti di Selargius.
L’economia selargina, in gran parte dipendente da questo prodotto, crolla; molti sono
costretti a emigrare, altri a dipendere dai sussidi comunali.
5
L’Ond si trasforma in Enal, Ente Nazionale Assistenza Lavoratori, col decreto legge n. 604 del 22
settembre 1945. I compiti rimangono sostanzialmente gli stessi. “L’ente si proponeva di promuovere il
sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori intellettuali e manuali, con istituzioni ed iniziative
dirette a sviluppare le loro capacità morali, fisiche, intellettuali. In particolare l’E.N.A.L. si distinse
nell’organizzare mense, spacci di generi alimentari, soggiorni per lavoratori e colonie per i loro figli,
facilitazioni commerciali, sanitarie, termali, cinematografiche, assicurazioni extra lavoro, buoni acquisto.
Vanno inoltre ricordate le iniziative culturali, come la promozione di feste folkloristiche, campionati
sportivi, concorsi canori e musicali. L’ente è stato soppresso con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 […]”
Informazioni tratte dal sito internet: http://xoomer.virgilio.it/miovac/Istituti_beneficenza/enal.html,
(ultima visita 22/04/06)
6
Orrù, Desogus, 2001:83. Dopo quanto detto, appare una coincidenza da approfondire trovare il nome del
commerciante di vini Benedetto Meloni tra i dirigenti dell’Enal di Selargius nei primi anni del secondo
dopoguerra.
7
Paolinelli, Salierno, La carcassa del tempo. Inchiesta sul turismo in Sardegna, Roma, Antonio Pellicani
Editore, 1988 citato in Deiana, 2003/2004
3.2 Primi anni ’60, Hotel Capo Sant’Elia, località Calamosca (Ca) [collezione
Olinda Melis]. Il direttore dell’Esit Loi Giuseppe spiega all’Aga Khan in visita a
Cagliari la funzione della catena. La donna in costume selargino è Licia, sorella
di Fedora.
8
Nel giro di pochissimi anni furono costruiti “Alberghi Esit” un po’ in tutta la Sardegna; tra quelli già
presenti nei primi anni ’60: San Leonardo (Santu Lussurgiu), Grande Hotel (Alghero), La Spendula
(Villacidro), Il Gabbiano (La Maddalena), Miramonti (Tempio), Miramare (Santa Teresa di Gallura),
“Albergo Esit” a Nuoro (sul Monte Ortobene). Fonte: L’Italia in automobile, Sardegna, Touring Club
Italiano, 1963
9
Riporto a questo proposito uno stralcio dell’articolo sulla visita del presidente della Sardegna Corrias e
dell’Aga Kan Karim in Costa Smeralda, apparso su “L’Informatore del Lunedì” del 29/10/62 a p. 9,
esattamente sopra l’articolo sulla prima edizione del Matrimonio Selargino: “Si può dire che il nobile
rampollo ismailita vive di speranza nell’orrido dominante alle spalle del primo albergo che va sorgendo
[…]. La Costa Smeralda, per il momento, è lui: si identifica in lui e nei suoi coraggiosi progetti. Per il
resto, è mare aperto e vergine, lentischio, roccia che pare fatta come l’involucro dei canoli: a strati, a
fasce”
Per quanto riguarda la politica culturale inerente il patrimonio etnografico - che qui
interessa maggiormente - il merito della classe politica regionale, sollecitata dagli
intellettuali locali, fu quello di intervenire concretamente per arginare la crisi delle
tradizioni folkloriche. In quest’ottica si registra nel 1957 l’istituzione dell’I.S.O.L.A.,
Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano, con la quale la Sardegna tutela e
valorizza i propri prodotti artigianali inserendoli nel quadro del mercato turistico; ma
anche l’attivazione di fondi destinati agli studi demoetnoantropologici. All’articolo 2
della legge citata in precedenza si afferma che:
Tra gli eventi più importanti, sostenuti da questi contributi: nel 1956 la Sardegna ospita
il VI “Congresso nazionale delle arti e tradizioni popolari”, nel 1957 viene istituito a
Nuoro il “Museo del Costume e delle arti popolari” che nel 1961 ospiterà la “1° Mostra
etnografica sarda”, nel 1972 si crea l’Isre, Istituto Superiore Regionale Etnografico,
tutt’ora in prima linea nell’organizzazione di eventi attinenti alla sfera
demoetnoantropologica sarda.
10
Legge Regionale n. 7 del 21 aprile 1955 tratta dal sito internet www.regionesardegna.it
Allo scopo di incrementare lo sviluppo del turismo nel territorio della Regione,
l’Amministrazione regionale è autorizzata ad erogare contributi e sussidi per:
a) turismo scolastico, […];
b) turismo sociale […];
c) manifestazioni pubbliche di grande interesse turistico, che determinano
particolare afflusso di turisti nelle località ove la manifestazione ha luogo.
L’ammontare della concessione può estendersi all’intera spesa. [corsivo mio]
Un altro esempio: la sagra di Sant’Efisio a Cagliari. La festa, che si celebra dal 1657, è
la perpetuazione del voto fatto dai cagliaritani al santo come ringraziamento per aver
liberato la città dalla peste. Prendendo a prestito le parole di Gallini per sintetizzare il
nucleo della festa:
centro di ogni interesse è la processione del santo, che si svolge secondo un
itinerario ben preciso, dalla sua chiesa a quella di Pula, un paesetto a una trentina
di chilometri da Cagliari, sul mare. Qui il santo, che si è trasferito su una
portantina dorata e in una sosta intermedia si era messo un abito da viaggio, si
cambia vestito, fa tre giorni di vacanza, per poi tornare indietro al suo domicilio
abituale e rimettersi, alle porte di Cagliari, l'abito cittadino [Gallini, 2003:47]
Le grandi città sono le prime che avviano un discorso di turisticizzazione delle feste:
Cagliari con Sant’Efisio, Oristano con la Sartiglia (“una specie di palio che si vince
quando il cavaliere infilza con l'asta un anello” [Gallini, 2003:48]) tradizione
carnevalesca di cui l’Esit finanzia il recupero a metà degli anni ’50, Sassari con la
Cavalcata Sarda, Nuoro con la Sagra del Redentore.
Dai centri più grandi a quelli più piccoli: ogni paese aveva almeno una festa che
attendeva di essere revitalizzata e/o potenziata. “È raro che un comune, o un centro
dell’isola non abbia, nel suo ricordo, un grande santo, o per lo meno, qualche santo
medio e piccolo, del quale parlare e fare festa” conferma Spanu [1987:6], ricordando
come tra il 1965 e il 1973, molte feste religiose andavano perdendosi “per mancanza di
persone che si interessassero alla loro organizzazione”. Certo, la motivazione
espressa da Spanu appare piuttosto semplicistica: le feste tradizionali venivano
trascurate perché, grazie al “periodo di benessere” di quegli anni, “non si aveva il
bisogno dell’aiuto del cielo”. E infatti, spiega, non appena giunta la crisi economica
della metà degli anni ’70, “resuscitano le sagre, riportando i fedeli attorno ai templi, che
si rianimano, perché sono crollati lo star bene e il mangiar meglio” [Spanu, ibidem]. Di
parere contrapposto molti altri studiosi, tra cui Gallini e Atzori, che riconoscono nella
11
Nell’Archivio Storico Comunale di Selargius sono conservate diverse lettere di presentazione di gruppi
folk di nuova formazione che chiedono, per farsi conoscere, di poter partecipare al Matrimonio Selargino
anche a titolo gratuito.
Tornando al Matrimonio Selargino, negli anni ’60 l’Enal provinciale di Cagliari decide di
puntare (di sua iniziativa o su suggerimento) sulla suggestione che può nascere dalla
riproposizione di un ricco matrimonio tradizionale. In questo contesto di rilancio turistico
delle tradizioni, non è fuori luogo immaginare che, come mi raccontava la signora di
Quartu, l’ente decidesse di indire un bando di finanziamento per la proposta festiva che
meglio aderiva ai propri obiettivi in materia di turismo. A questo punto si può anche
ipotizzare che un giovane quartuccese risvegliasse in Efisio Salis l’idea di riproporre
sotto forma di spettacolo il ricordo dei ricchi matrimoni da cui era rimasto impressionato
nei tempi della sua infanzia. Ma appunto, si tratta di supposizioni: per avere delle
risposte certe bisognerebbe trovare informatori più “informati" oppure rovistare tra le
carte dell’Enal, se non fosse che neppure l’Assessorato Regionale al Turismo e l’Ente
Provinciale per il Turismo di Cagliari sappiano dove si trovano13. Nell’archivio comunale
di Selargius si trovano diverse lettere dell’Enal indirizzate al Comune, e relativamente
12
Introduzione di Angioni in Deidda, Della Maria, 1987
13
Le persone interpellate al numero verde non hanno saputo fornirmi indicazioni riguardanti se e dove sia
conservata la documentazione prodotta dall’ente. In effetti, però, non avevano idea neppure di cosa fosse
l’Enal.
3.3 Il gruppo folk selargino a Roma, primi anni ‘60 [collezione Olinda Melis]. Tra gli altri la
capogruppo Olinda Melis (terza in piedi da sinistra) con alla sua destra Gianni Orrù (primo in
piedi a sinistra) e alla sua sinistra il direttore dell’Enal di Cagliari dottor Gavino Manca,
Mariolina Cannuli (quarta in piedi da destra) e Renato Tagliani (sesto in piedi da destra),
presentatori Rai.
14
Della lettera è stata reperita data e numero di protocollo, per cui non dispero possa essere rintracciata
una volta completato il riordino dell’archivio.
la massima parte dei selargini sono dediti all’agricoltura, gli altri, che saranno una
cinquantina al più, sono applicati a vari mestieri. I pastori sono non sono più di
dieci o quindici che pascolano pochi branchi di pecore2
È sempre l’Angius a rilevare che i terreni “sono molto idonei alla coltura de’ cereali”, “le
specie ortensi sono coltivate con cura, perché producono assai vendute nella città
[Cagliari], si seminano soprattutto grano, ma anche orzo, fave, legumi e, in minore
quantità, lino”. Un’altra fonte di reddito è data dalla coltura “estesa e fatta con
diligenza” degli alberi da frutto, mandorli, peri, albicocchi, susini, peschi, da cui si
guadagna molto “o affittando il prodotto ai rigattieri cagliaritani, o vendendolo essi
stessi nella città”. “La vigna è prosperissima e le vendemmie sono abbondantissime”: si
contavano circa “40.000 filari di viti” che arrivavano a produrre circa “4.500.000 litri di
mosto”; la quantità dei “vini gentili, moscato, cannonau, malvasia, ecc.” era stimata
intorno ai 40.000 litri. I campi e i poderi erano circondati dalle siepi di fichi d’india, la
cui abbondante produzione spontanea costituiva “parte del vitto ai poveri per due o tre
mesi”, un’altra entrata “per quella parte che si può vendere nella città, dove trasportasi
in grandi cestoni sul basto de’ cavalli”, cibo destinato all’ingrasso dei maiali, tenuti nei
1
“Selarginità” è un termine che compare più volte nei discorsi degli informatori per indicare l’insieme
delle qualità, l’essenza dell’essere selargini.
2
Angius, Casalis 1849: 793. Le citazioni immediatamente successive, quando non specificato altrimenti,
sono sempre tratte dalla stessa voce (Selargius) del dizionario.
cortili e poi venduti. La quantità di formaggio prodotta dalle poche pecore era minima e
consumata in loco, così come la produzione di miele.
La ricchezza del paese era dovuta alla fertilità dei campi, che tuttavia necessitavano di
una cura continua a causa dell’aridità del suolo. Di passaggio a Selargius negli anni ’30
del XIX sec., Valery [1837, ediz. 1996:165] definisce i selargini “ortolani intelligenti”
poiché riescono a ottenere frutta e ortaggi tanto “saporiti” e “apprezzati” quanto quelli
che si ottengono da terreni migliori.
I prodotti della terra venivano rivenduti a Cagliari, con alti margini di profitto, cosicché
“sono moltissimi quelli che vivono in qualche agiatezza”. I paesi del Campidano
rappresentavano per Cagliari le principali fonti di rifornimento agricolo: Quartu
Sant’Elena era specializzata nelle colture viticole, così come Monserrato e Pirri (dalla
seconda metà dell’800 anche Selargius), Sinnai nella produzione del mandorlo,
Settimo nella coltura del grano.
Alcuni anni più tardi, nel 1858, Della Marmora conferma Selargius come il centro
orticolo più importante del Campidano: “gli abitanti si dedicano in particolar modo
all’orticoltura; sono loro che forniscono al mercato di Cagliari la maggiore quantità di
legumi e di verdura” [Della Marmora 1860, ediz. 1995:187].
Negli anni del boom economico gli abitanti dei paesi limitrofi presero ad abbandonare
le loro terre per andare a trovar fortuna nelle città, soprattutto Cagliari, in forte sviluppo.
Il forte aumento della popolazione di Cagliari cominciò ad interessare anche i centri del
suo circondario, Quartu, Assemini, Capoterra.
4.1 Elaborazione grafica dell’autrice sulla base della “Carta del territorio” in Camboni (a
cura di), 2000:6
Nero - Delimitazione estensione comune di Selargius
Verde - Delimitazione estensione abitato agli inizi del Novecento
Giallo - “ “ “ negli anni ‘30
Blu - “ “ “ agli inizi anni ‘60
Rosso - “ “ “ attuale
1575 982
1580 986
1590 994
1600 1003
1605 1005
1606 998
1610 1011
1620 1020
1630 1028
1640 1037
1650 1046
1660 1063
1670 1072
1680 1094
1688 1080
1700 1163
1710 1195
1720 1228
1728 1256
1730 1264
1740 1305
1750 1347
1751 1352
1760 1436
1770 1536
1775 1849
1780 1643
1790 1758
4.2 Elaborazione dell’autrice sulla base dei dati contenuti in: Camboni (a cura di) 2000; Orrù,
Desogus, 2001; Cordeddu, 2002
1845 2658
1861 3215
1863 3125
1870 2834
1871 2900
1881 3099
1901 3393
1903 3370
1908 3782
1911 3780
1921 3856
1929 4000
1931 4351
1936 4668
1951 6916
1961 8768
1963 8074
1965 8768
1971 12110
1982 18950
1985 20429
1989 22000
1991 23356
1995 26000
1996 27000
2001 28100
2005
4.3 Elaborazione dell’autrice sulla base dei dati contenuti in: Camboni (a cura di) 2000; Orrù,
Desogus, 2001; Cordeddu, 2002
Nel 1961, un secolo dopo le osservazioni dell’Angius e un anno prima della nascita del
Matrimonio Selargino, i dati sulle famiglie residenti, divise per ramo di attività
economica del capofamiglia, mostrano come l’agricoltura avesse perso il suo primato
storico nell’economia selargina. Il settore economico principale è ora quello edilizio. Le
motivazioni: le opere di ricostruzione postbellica, la fuga dalle campagne, l’inurbamento
di massa che coinvolgevano Cagliari e il suo hinterland, richiedendo manodopera
continua.
Lentamente, in sordina, si abbandonano gli antichi mestieri del fabbro (su ferreri), il
costruttore di carri (su maist’e garru), il sarto (su maist’e pannu), il ciabattino (su
sabatteri), il pellaio (su peddaiu). Spariscono o non vengono valorizzate in modo
adeguato le attività produttive legate alla tradizione della tessitura e alla produzione
delle salsicce.
Dal 1971 al 1991, raddoppiano i lavoratori nei settori industriali, rimanendo però quasi
stabili in termini percentuali perché anche la popolazione era raddoppiata. Diminuisce,
all’interno della categoria, la percentuale degli operatori edili: 1005 nel ’71, 1228 nel
’91, poiché “il vigore costruttivo si andava indebolendo in relazione alla esaurita fase di
costruzione post-bellica di Cagliari” [Orrù, Desogus, 2001:216]. Ma il dato più notevole
è l’esplosione, nel giro di vent’anni, delle attività della pubblica amministrazione, del
commercio e dei servizi, che trasformano Selargius in una piccola città a prevalente
economia terziaria.
I fogaronis, i falò, venivano preparati anche per la festa di San Giovanni (23 giugno),
per quella di San Pietro e quella di San Giuliano. I falò prima di essere accesi
dovevano essere benedetti da un sacerdote. Per i falò di Santuànni, il combustile
selargino era composto da ramadùra, cioè un composto di fieno, foglie di vite e fiori
secchi, soprattutto rose e garofani. I falò potevano essere saltati, diversamente dagli
altri paesi del circondario, da uomini, donne (coi capelli sciolti) e bambini, sollevati da
quest’ultime, allo scopo di allontanare le malattie. Sempre a scopo protettivo veniva
3
Testi consultati a cui si rimanda per maggiori approfondimenti sulle feste selargine del passato: Agus,
1994; Camboni V. in Camboni G. (a cura di), 2000; Orrù, 1984; s.a. Guida illustrata turistica -
commerciale di Selargius, 2002
La festa per San Antonio Abate dava inizio al Carnevale. La sera del martedì grasso,
martis de agoa, si celebrava il funerale del Carnevale, un fantoccio che veniva portato
su un carretto funebre trainato da un asinello e che a differenza di altri paesi, non
veniva bruciato o distrutto. La particolarità di Selargius era costituita dal corteo
composto da una folla di uomini tutti vestiti di bianco e col capo incappucciato, recanti
in mano candele adornate con carta variopinta. Il carnevale terminava con la
Quaresima, rappresentata da un fantoccio dalle sembianze di donna vestito di viola,
trasportata per il paese il mercoledì delle ceneri, merculis de cinixu, in assoluto
silenzio. Venti giorni prima della Pasqua si preparava su nenniri, semi di grano fatti
crescere nel cotone imbevuto d’acqua e lasciati al buio per mantenere il colore bianco
dorato, che venivano benedetti in chiesa il giorno della Resurrezione.
La festa per S. Lussorio, Santu Lusciori, era in passato una delle sagre più importanti
del Campidano perché richiamava un gran numero di fedeli attirati dall’indulgenza
concessa nel 1619 da Paolo V a chiunque nel 21 agosto (anniversario del martirio del
santo) si fosse recato presso questa chiesa a pregare. Era una festa di campagna,
perché sino a pochi anni fa la chiesa si trovava in periferia, lontana dal centro abitato,
mentre adesso ne è stata quasi inglobata: i fedeli vi si recavano sulle traccas, si
cucinava all’aperto, si dormiva nel porticato davanti alla chiesa. Dopo un periodo di
abbandono e il restauro dell’antica chiesetta, la festa è stata recuperata negli anni ’90
con l’organizzazione del gremio di San Lussorio, che l’ha spostata dall’ultima domenica
Al posto del solito orpello delle chiese italiane, la chiesa, tutta addobbata,
mandava il profumo dei grandi rami di mirto oltreché delle foglie di menta e delle
erbe aromatiche di cui era rivestita.
[…] Nella piazza della chiesa i buoi adorni di immaginette, di canne, di nastri e
con arance e mazzolini di fiori piantati sulle corna in gran parte dorate, formavano
una pesante fila che doveva precedere la processione. Quest’ultima fu
straordinaria: al seguito dei buoi scortati dai bambini che portavano fronde
c’erano, davanti alla croce, due cavalieri che tenevano la bandiera e camminavano
con molta abilità a ritroso, allo scopo di non dare le spalle alla croce. Le donne,
che seguivano, cantavano alternandosi con gli uomini i pater e le ave in dialetto
sardo al suono della nazionale launedda.
[…] Subito dopo l’uscita dalla messa, come si usa nelle feste sarde, sulla piazza
cominciò un gioioso e immenso ballo tondo.
Di questa festa resta solo la celebrazione sacra voluta dalla famiglia Putzu, a cui
partecipa una ristretta cerchia di fedeli, anche se negli ultimi anni la Confraternita della
Madonna d’Itria si sta impegnando per il suo ripristino.
Da una parte, per indicare i paesi limitrofi alla capitale si diffonde l’espressione
hinterland, circondario di Cagliari, dall’altra si comincia a parlare di identità, di difesa
delle tradizioni, di resistenza all’omologazione. Uccia Agus, pubblicando negli anni ’90
i risultati della ricerca sul campo da lei condotta negli anni ’60, per documentare le
tradizioni popolari campidanesi, si rammarica della scomparsa quasi completa di tutto
ciò che era riuscita a registrare:
il processo di massificazione e dell’irrazionale antropizzazione ha prodotto, come
fenomeno indotto, la omologazione del costume. Un fattore comune a tutte le aree
urbane, ma che si sottolinea perché le usanze dei nostri centri sono oramai
scomparse o, se pur qualche traccia sopravvive, è frutto non più di un vissuto
etnico, ma di sopravissuto per scopi folkloristici e turistici [Agus, 1994:9-10]
Dello stesso parere Antonio Romagnino, che presenta la ristampa del libro di Lucio
Spiga sulla storia e le tradizioni di Quartucciu come “il racconto di una resistenza”, un
invito a non dimenticare:
non basta fermarci agli aspetti esteriori, a fermarsi lì, alla constatazione che le
lolle sono sparite o quasi. E che gli orti e i giardini che pausavano l’abitato hanno
ceduto al cemento o al mattone. Importa di più, superare il cancelletto […] ed
entrare risoluti nelle case.
[…] Che cosa avverrà di Quartucciu, ma anche di Pirri, Monserrato, Selargius?
[…] è in agguato un’omologazione di Fatto. È come se il Campidano ricevesse il
colpo di grazia, rimanesse ancora solo come una pianura fra i monti e il mare, ma
senza la gente specifica che l’ha abitata nei secoli ed ancora la abita4
L’analogia più appropriata per descrivere Cagliari nella mente degli intellettuali locali - o
perlomeno di quelli identificati come tali - è paragonarla a una piovra che allunga i suoi
tentacoli per inglobare i paesi circostanti, alla ricerca soprattutto di spazi per la sua
popolazione.
Riappare lo spettro della perdita dell’autonomia. Nel 1928, un decreto legge voluto da
Mussolini al fine di creare la grande Cagliari, stabiliva la fine dell’autonomia del
comune di Selargius, così come dei comuni di Pirri, Monserrato e Quartucciu, tutti
4
Presentazione di Romagnino in Spiga, 1996:7-8
Selargius recupera la sua autonomia amministrativa, ma nel giro di pochi anni rischia di
perdere quella culturale. Orrù [1984] identifica nella scomparsa del gioco di sa
reinedda, gioco di squadra soprattutto selargino, “il netto trapasso di una civiltà,
verificatosi a cavallo tra gli anni ’50 e ’60”; sa reinedda è il simbolo della vita vissuta
all’interno del paese, la sua scomparsa trasforma gli ultimi giocatori in testimoni della
fine di un’epoca:
Quella che io chiamo la cultura della Reinedda fu l’ultimo colpo d’ali di una
comunità morente, comunità che, intesa come entità particolare, celebra, oggi anni
‘80, la sua quasi totale estinzione
Selargius è minacciata anche della perdita dei propri confini, si teme che il capoluogo
finisca per incorporare nella sua giurisdizione il quartiere di Su Planu, a causa della
presenza di una serie di condizioni, tra cui la continuità territoriale e la tipologia
costruttiva, che indirizzerebbero in questa direzione. Uno degli aspetti che più colpisce
in questa rivoluzione nelle forme di lavoro e nella popolazione, è infatti la continuità
territoriale creatasi tra Cagliari e Selargius. Ciò è dovuto da una parte alla strana forma
dell’area comunale, il cui incunearsi nell’area cagliaritana è l’esito storico
dell’appartenenza alla baronia di San Michele, dall’altra alla decisione del coniglio
comunale, nel 1974, di trasformare una zona agricola dell’estrema periferia del paese
in area edificabile. Il quartiere di Su Planu, nato a ridosso del colle di San Michele e
dell’ospedale Brotzu di Cagliari, è oggi una borgata di oltre 6000 abitanti.
Ma era così anche negli anni ’70? Quanti parlavano di interessi selargini, quanti
sostenevano l’importanza di tramandare le tradizioni locali, non erano piuttosto
accusati di voler soffocare lo sviluppo del paese? Mi sembra che l’uso come arma
politica del tema della salvaguardia dell’identità locale sia una scoperta piuttosto
recente, la cui forza deriva, da una parte, dall’essere un tema “alla moda” a livello
mondiale (per cui il sindaco può citare “Bauman” e “difesa della selarginità” nello
stesso discorso), dall’altra dalle passate scelte politiche e culturali del paese, una
solida base d’appoggio per le rivendicazioni identitarie attuali. Se Selargius può ancora
considerarsi un’unità politica e culturale autonoma - al contrario per esempio di Pirri,
diventata a tutti gli effetti frazione di Cagliari - è perché ha alle sue spalle iniziative che
l’hanno immessa (quanto consapevolmente?) nella direzione, che in seguito si è
rivelata vincente, della valorizzazione del locale.
Sin dagli anni ’70 tale politica, è portata avanti da un preciso gruppo di selargini,
costantemente attivi in tutte le più importanti associazioni culturali del paese. Dai
riferimenti indiretti raccolti sul campo, mi sembra di poter interpretare la storia selargina
come se - di fronte all’inarrestabile numero di immigrati sardi che si stanziavano in
cerchi concentrici intorno al paese, occupando tutte le aree a mano a mano che
venivano dichiarate edificabili - i selargini residenti in quello che prima era l’intero
paese (e improvvisamente si svelava essere diventato il centro storico), scoprissero la
necessità di riunirsi tra loro, impegnandosi attivamente, sia direttamente in politica, sia
indirettamente tramite le associazioni culturali, per cercare di limitare le possibili
conseguenze negative delle trasformazioni vissute dal paese.
Dal punto di vista culturale, un’ottima giustificazione per esaltare le proprie peculiarità
deriva dall’importante scoperta, nel 1981, di un insediamento prenuragico risalente alla
fine del IV millennio a.C. nell’area di Su Coddu. L’occasione per inserire il paese nel
circuito dell’interesse internazionale viene sapientemente sfruttata, organizzando, tra il
1985 e il 1987, diversi convegni in cui parteciparono prestigiosi nomi della cultura
sarda, tra cui l’Accademico dei Lincei prof. Lilliu e ospiti internazionali. Viene fondato il
Gruppo Archeologico Selargino.
5
Per quanto riguarda la prima, l’iniziativa non ottiene però il successo sperato a causa dell’eccessivo
frazionamento della proprietà, mai risolto. Si è parlato a lungo della nascita dell’impresa agricola in forma
associativa, in grado di accorpare le aree per unità aziendali economicamente gestibili, ma non si è mai
andati molto oltre le parole. La decisione di svendere all’Enel 11 ettari di ottima campagna per la
costruzione di una centrale elettrica è stato un altro segnale della debole volontà politica di investire
seriamente nel ritorno a una produzione agricola di forte rilevanza economica.
Come gli ultimi studi antropologici relativi al patrimonio culturale (vedi Palumbo 2003)
hanno messo in evidenza, la storia locale, il folklore, la tradizione, costituiscono una
delle risorse più importanti ai fini della definizione di una identità collettiva. Il patrimonio
culturale starebbe alla definizione di una identità collettiva nazionale, di paese,
regionale, ecc., così come il possesso inalienabile di sé sta alla definizione del
soggetto occidentale. La tradizione costituirebbe la risorsa meno sospetta per garantire
la complicità sociale, in quanto “insieme di beni e di pratiche” la cui “apparente”
perennità lo fa immaginare dotato di un valore indiscutibile, e quindi fonte di consenso
collettivo, al di là delle divisioni. La scelta di cosa sia tradizionale in un luogo o in una
comunità dipende dal contesto, in quanto la scelta dei referenti per la rappresentazione
di sé è frequentemente di natura oppositiva o reattiva; l’idea di una comunità non può
esistere in assenza di una qualche differenza, identità e tradizioni non sono
semplicemente diverse, ma costruite in opposizione alle altre.
Nel caso di Selargius, in cui il fine è quello di distinguersi come unità a sé stante,
mantenere un’identità culturale distinta (sia nei confronti sia di Cagliari, sia dei paesi
del circondario) per conservare la propria autonomia politica e amministrativa, questo
significa puntare su quelle risorse che consentano di riconoscere una località come
comunità. Un luogo, cioè, in cui le persone non siano accomunate solamente dal fatto
Il Matrimonio Selargino era inizialmente una festa tra le altre, gestita quasi interamente
dall’Enal che chiedeva al Comune il solo sforzo di trovare una coppia di sposi selargini.
Eppure, come si evince dalla corrispondenza Enal-Comune reperita in archivio, spesso
l’Enal si è vista costretta a posticipare la data della festa per la mancanza di
collaborazione del Comune. Il tono delle missive dell’ente è molto chiaro a proposito, e
si intuisce un certo rammarico per l’indifferenza del Comune nei confronti della
manifestazione folkloristica. È solo col tempo, dopo la creazione della Pro Loco -
scomparse le altre feste o non adatte a esprimere una unicità locale - che si decide di
puntare sul Matrimonio Selargino, il quale, da prodotto “tipicamente sardo” o, al limite,
campidanese, si trasforma in prodotto “tipicamente” selargino.
Come mostra chiaramente anche l’analisi diacronica degli articoli di giornale, è solo
dalla metà degli anni ’80 che si comincia a valorizzare il Matrimonio Selargino in chiave
identitaria. Nei primi due decenni della manifestazione, l’attenzione degli articoli di
giornale è focalizzata sulla “bontà” della decisione di riproporre, a Selargius, la
tradizione sarda; il matrimonio è selargino in quanto si tiene a Selargius, non in quanto
abbia in sé delle caratteristiche che lo differenzino in modo specifico dalla tradizione
sarda in generale. A metà degli anni ’80 aumenta considerevolmente lo spazio
dedicato all’avvenimento, che non si limita più alle indicazioni dei giorni prima sugli
orari e i luoghi delle attività in programma e a qualche riflessione più generale sul
valore della rassegna folkloristica, bensì - anche con l’aiuto di pagine a pagamento - si
sofferma sui singoli elementi che rendono “unica” la sagra, per almeno tutta la
settimana antecedente l’evento.
Correlazione ancora più arbitraria in un articolo del ’90 [“L’Unione Sarda”, Un “sì” con le
catene, 15-09-90, p. 16]:
Per l’assessore alla cultura Carlo Desogus, il Matrimonio Selargino rappresenta
uno dei momenti più importanti delle tradizioni locali. “Non vi sono dubbi” ha
detto Desogus “Selargius ha una storia che affonda le radici nei millenni. Ricerche
archeologiche hanno dimostrato una forte presenza umana a partire dal terzo
millennio avanti Cristo”.
Anche l’abito selargino tradizionale, così come è stato recepito dal locale gruppo folk, è
costituito da due varianti per il costume femminile e una per quello maschile. Non
intendo qui descrivere ognuno di essi, ma concentrarmi sul cosiddetto “abito femminile
da sposa”, per far emergere la rappresentazione trasmessa attraverso la costruzione di
un modo selargino di “vestire alla sarda” e le idee che circolano al riguardo.
La tipicità del costume è stata costruita sulla base delle regole vestimentarie delle vesti
festive e di gala delle classi più abbienti. Solo sa meri, la moglie del ricco proprietario
agricolo, indossava in occasioni meno importanti e nei giorni feriali su bistiri de
abodrau, caratterizzato dalla gonna di bordato a strisce rosse e blu, di cotone,
raramente di seta. Quello che viene presentato come abito “giornaliero” era tale solo
6
È chiamato “gruppo spontaneo” l’insieme delle persone non facenti parte del locale gruppo folk che si
presentano in costume per sfilare nel corteo nuziale la domenica del Matrimonio Selargino.
Alcuni particolari del vestiario erano esclusivi di una certa classe sociale e
assolutamente proibiti a tutte le altre. Ad esempio Valery [1837, ediz. 1996:165-166], in
visita a Selargius, scrive che:
Le contadine più distinte, dette principali, vestite più riccamente e alcune con le
dita cariche di anelli, quelle che, sole, hanno il privilegio di portare certi ricami
proibiti alle loro compagne, queste duchesse di paese, chiudevano la processione
di cui formavano come il fior fiore.
A Oliena mi è stato raccontato che sino a pochi anni fa le donne più anziane si
recavano in chiesa con le forbici per ristabilire il giusto ordine nella gerarchia sociale, e
tagliando un particolare tipo di frange dagli scialli delle donne che “osavano” una
decorazione non corrispondente alla loro posizione sociale.
Gli abiti utilizzati dai gruppi folk sono nella maggior parte dei casi produzioni industriali
di bassa qualità, in altri copie accurate nella forma ma nondimeno scadenti a causa
delle stoffe utilizzate. Non è dunque possibile condurre un’indagine sull’abito
tradizionale basandosi sulla riproduzioni usate dai gruppi folk. A questo proposito
La gonna è in damasco di seta broccato e laminato [fig. 4.6], tanto più lussuosa quanto
più è alta la balza della gonna, cioè con quanto più tessuto prezioso è confezionato il
bordo inferiore ornamentale. Il grembiule [foto 4.10] abbinato è detto a ventaglio,
perché caratterizzato “da un gruppo centrale di pieghe in cui si raccoglie l’ampiezza del
tessuto che si allarga verso il basso appunto come un ventaglio” [Contu, 2003:214]. La
parte centrale è in velluto di seta o panno in varie gradazioni di rosso. Le parti laterali
sono confezionate “in panno o altro tessuto di media qualità dato che vengono
ricoperte con un alto bordo in lampasso broccato e laminato o broccatello a motivi
floreali policromi su fondo color avorio o giallo” [Contu, 2003:216]. A impreziosire
ulteriormente il capo contribuiscono le bordure in gallone d’oro e le trine lavorate a
fuselli con filati d’oro caratterizzate dal motivo a ventaglietti.
Insieme a questo tipo di gonna e grembiule si utilizza sa velada [nella foto 4.7], una
giacchetta corta indossata sopra camicia e corpetto. Non oltrepassa i fianchi, è resa
rigida da inserti all’interno della fodera, è piuttosto aderente e lascia scoperto il petto. Il
casacchino è confezionato in velluto di seta nero, interamente profilato con galloni
d’oro. Se ne distinguono due tipi a seconda che le maniche, sempre a tre quarti,
terminino con volant arricciato o risvolto “a scure”. La versione con maniche a scure si
indossa lasciando in vista le maniche della camicia.
La cintura, fasc’ ‘e cintroxu, [foto 4.9] non ha scopo pratico, ma solo ornamentale,
copre l’area del punto vita compresa tra l’orlo inferiore del corpetto e la gonna. È
confezionata con un “nastro di gallone in filato metallico, dorato o argentato, largo cm
5-10, lungo fino a cm350, con le estremità in lampasso di seta o altri tessuti a righe o
ricamati”, e viene indossato avvolgendolo “attorno al punto vita, falsando i giri per
aumentare la parte coperta, il lembo in lampasso viene rimboccato per tenere fermo
l’indumento” [Contu, 2003:185].
7
Ad esempio buona parte dei costumi del gruppo folk di Quartucciu.
8
Esemplare che si dice appartenne a Peppina Deiana, moglie di Giuseppe Putzu, sindaco di Selargius tra
il 1914 e il 1916.
Se si confronta l’insieme che è stato tramandato come tradizionale con la tavola del
Cominotti, si nota immediatamente che l’attuale modo di portare il vestito non prevede
l’uso della cuffia, così come del cappello. Le fonti iconografiche più antiche mostrano
come la capigliatura rimanesse sempre celata, coperta da una sovrapposizione di
elementi che poteva comprendere cuffia, velo o scialle, cappello. La cuffia (scòffia)
[foto 4.8], confezionata in materiali diversi a seconda dell’uso per cui era destinata, è
costituita da una parte a sacco che contiene al suo interno l’intera massa dei capelli;
l’estremità aperta, calzata sulla fronte, veniva fermata con un nastro di velluto o taffettà
di seta nero [foto 4.9], che negli esemplari più ricchi è guarnito con canutiglia d’oro. A
Selargius il gruppo folkloristico ha tralasciato l’uso della cuffia, ma persiste la fascia a
testimonianza della sua presenza; sulla fascia viene appuntato il velo, a diretto contatto
con la capigliatura.
I risultati ottenuti dagli studiosi del costume tradizionale, comparati con le informazioni
ricavate dalla ricerca sul campo e le fonti iconografiche, mi spingono a collocare le
regole vestimentarie secondo le quali si vestono le donne del gruppo folk selargino e la
sposa nel giorno del Matrimonio Selargino, in un periodo di poco precedente
l’abbandono del vestiario tradizionale. L’assenza della cuffia, l’oblio totale sulla
possibile presenza di un cappello, lo stabilizzarsi della presenza del fazzoletto copri-
La tavola del Cominotti riprodotta qualche pagina più avanti, rappresenta, come riporta
la didascalia del Viaggio in Sardegna di Della Marmora, “l’arrivo della sposa da un
villaggio vicino”. È stata scelta come logo ufficiale del Matrimonio Selargino. Diverse
persone ritengono che riproduca esattamente un matrimonio celebrato a Selargius, per
diversi motivi: l’abito indossato dalle donne, l’acconciatura dell’uomo, l’edificio presente
sullo sfondo della scena.
9
Si veda La collezione Luzzietti (composta di 48 tavole di datazione incerta, compresa tra il 1790 e il
1800) e La raccolta Cominotti (tavole acquerellate dipinte dal vero tra il giugno 1824 e maggio 1826),
entrambe curate da Alziator Francesco, nonché le considerazioni sulle acconciature degli uomini sardi di
Contu, 2003:230
Quartucciu, Quartu, Monserrato, Pirri, Sinnai, Settimo, Selargius: in tutti questi paesi
l’abito di gala non differiva se non per dei particolari minimi riconoscibili solo da un
occhio esperto. Maria Rosa Contu [2003] scrive che ciò che caratterizzava lo stile
vestimentario dell’una o dell’altra località era ad esempio il modo di stirare e posare sul
capo il velo, per il resto identico tra un paese e l’altro [Contu 2003]. Un’altra
interlocutrice è certa che sa velada con le maniche a volant fosse tipica di Quartucciu,
mentre il modello con le maniche “a scure” fosse più diffuso a Selargius e il colore
marron scuro dell’indumento fosse caratteristico dell’abito di Monserrato. Per Colomo e
Speziale ciò che costituirebbe il carattere distintivo del costume di Selargius sarebbe la
grande quantità di gioielli che lo adornano [Colomo, Speziale, 1983:279], caratteristica
che oggi è piuttosto attribuita ai costumi delle donne di Quartu. La caratteristica del
costume femminile di Quartucciu consisterebbe nel modo di portare la camicia, con
l’ampio scollo di pizzo sempre più voluminoso, nonché sempre più evidente a causa
dell’inamidatura che lo rende rigido.
Ma quanti di questi tratti distintivi erano tali anche per le donne dell’800 e quanti di
questi sono stati introdotti recentemente? Sospetto che l’esasperazione dei tratti
distintivi per lo stesso abito di gala presente in tutta l’area campidanese sia la
conseguenza di una politica culturale mirante a promuovere l’idea di una sostanziale
autonomia culturale paesana. L’adozione di un abito-divisa, uguale per tutti i
componenti del gruppo, rende immediatamente riconoscibile il paese di appartenenza,
esprimendo una unicità che si estende al paese nel suo complesso.
Da una parte abbiamo quelli che chiamerei i sostenitori acritici, che accettano la
consuetudine senza porsi tante domande, quelli critici, che forniscono argomentazioni
Tra le donne in modo particolare, circola anche un altro significato relativo alla disparità
nel modo di essere legati dell’uomo e della donna. Come ho sentito spiegare da una
signora presente tra la folla all’edizione del 2005:
la catena li lega in quel modo perché in passato la donna era sottomessa all’uomo.
Ora la donna non permetterebbe più di essere legata così, come un cagnolino che
si porta a passeggio…
4.14
Sa cadena e su
craugheri [foto Pino
Piras] tratta da:
Selargius, Quartucciu,
Monserrato. Guida
illustrata, 2002: 86
Si è anche cercato di attribuire altri significati importanti alla catena, come la valenza
religiosa attribuita all’essere composta da 66 maglie, numero importante per la
simbologia cattolica in quanto rappresenta il doppio dell’età di Cristo, una maglia per
ogni anno che si augura alla coppia di vivere insieme. In uno degli ultimi articoli de
“L’Unione Sarda” sul Matrimonio Selargino, si legge ad esempio che la catena
è composta da 66 maglie più l’anello perché rappresenta la maturità spirituale
degli anni di Gesù Cristo: 33 per la sposa e 33 per lo sposo [“L’Unione Sarda”,
Sposi in catene davanti all’altare, 11-09-06, p. 14]
Tale interpretazione, che circola ormai da parecchi anni, sembra piuttosto un tentativo
per giustificare a posteriori un rito di cui non si conoscono altre informazioni. Per
quanto si tenti di imporla dubito comunque che possa prendere piede, per un motivo
molto semplice: il numero della maglie presente in catene di questo tipo è variabile,
come ho verificato personalmente su foto e abiti tradizionali. Anche negli articoli su
“L’Unione” la catena risulta composta a volte da 64 maglie, altre da 66 [si veda per
esempio l’articolo del 14-09-98, Nozze d’altri tempi, p. 14].
Se si prende in considerazione la foto alla fine del capitolo, si noterà come neppure
Speranza Putzu Loddo, una delle donne più ricche della Selargius del secolo scorso,
usi una catena d’argento come sistema di chiusura del grembiule. Nell’abito sembra
invece presente il tipo di catena descrittomi per l’abito giornaliero delle ricche
possidenti, su craugheri (letteralmente il portachiavi), pendente dal grembiule sul lato
destro della donna. Detta anche catena de s’onestadi (catena dell’onestà) “era usata
Infatti, l’unico riferimento, indiretto, che sono riuscita a trovare che possa far pensare
all’uso della catena, è tra le proibizioni espresse nel sinodo provinciale turritano del
1606:
I contraenti usino
semplicemente le parole “io
ti prendo come sposo o
sposa”, lasciando da parte
altre parole poco oneste che
il parroco non permetterà
assolutamente che vengono
pronunciate; non
permetterà neppure che si
compiano altre cose simili
quali il legarsi
vicendevolmente, giurando
di essere fedeli e onesti nel
matrimonio e di conservare
l’amore reciproco in
13
eterno (corsivo mio)
Come si è notato in
precedenza, ancora nell’800
persistevano comportamenti
contrari alle direttive della
4.15 Gli sposi del 2001 [foto Piras Pino] in Selargius,
Chiesa, anche da parte dello
Quartucciu, Monserrato. Guida illustrata, 2002
stesso clero, ma è molto
11
Gometz (1995:36) che aggiunge: “È costituita da diverse piastre in argento riprodotte a fusione con
figure di uccelli, mazzi di spighe e elementi floreali legati fra loro da doppi o tripli spezzoni di
giunchiglia, catenella a maglie circolari. […] La parte terminale della catena è fornita di più ganci ai quali
si appendevano le chiavi e le forbici.”
12
Secondo quanto riferitomi dall’organizzatrice della mostra “Is pannus de is bisaius”, tenutasi a Quartu
Sant’Elena nell’aprile 2006, per cui ci sarebbero atti notarili della fine dell’800 che testimoniano la scelta
di ricevere dai genitori come dono, al momento delle nozze, l’abito di broccato piuttosto che la proprietà
di una casa.
13
Sinodo Provinciale Turritano 1606, Bacallar, Cap.XV, De Matrimonio, 9, cc.47r- 47v, citato in Loi S.,
pp. 132 – 133
Allo stato attuale della ricerca è difficile stabilire se dare ragione a quanti difendono
l’autenticità del rito o a coloro che la rifiutano. In ogni caso, la polemica riguardante
l’aderenza alla tradizione del rito della catena è solo a livello superficiale un problema
di “invenzione della tradizione”, alla maniera di Hobsbawm e Ranger. Presentare in
questo momento prove evidenti e certe a favore dell’una o dell’altra tesi,
significherebbe schierarsi automaticamente a favore o contro il lavoro della pro-loco.
Dietro la facciata della polemica sul rituale della catena, infatti, si intravede
chiaramente il gioco di potere per la gestione della festa e dei soldi dei contributi
regionali e degli enti turistici. Quello che è più interessante in questo gioco è la
strategia mediante cui si tenta di delegittimare il lavoro della pro-loco, al fine di toglierle
ogni potere decisionale di una qualche rilevanza: si punta sull’inautenticità delle
tradizioni messe in scena. O meglio, il gioco è più sottile, se ne distrugge il simbolo
facendo intendere che è solo uno degli elementi che potrebbero essere messi alla
berlina, ma si tace su quali sarebbero gli altri. Il rituale della catena è diventato negli
anni l’elemento-chiave pro o contro una certa gestione del Matrimonio Selargino,
rifiutarne l’autenticità significa estendere l’idea dell’invenzione e della falsità alla
manifestazione tout court. Tuttavia, non si va mai oltre l’argomento catena o
considerazioni annuali su scelte contingenti, nessuno si sogna di mettere in
discussione il nucleo centrale di “vera e autentica antichissima tradizione sarda”
consolidatosi negli anni. A nessuno viene in mente di fare riferimento alle strategie di
manipolazione del tempo riguardanti l’antichità della tradizione oppure la pertinenza di
questo o quell’altro elemento tradizionale nella riproposta delle consuetudini passate.
Se crolla il nucleo centrale crolla il senso del far festa: l’elemento catena, per quanto
centrale, può essere eliminato, rimpiazzato, modificato, la reputazione di “la più vera
delle manifestazioni folkloristiche sarde” [Spanu, 1987:120] costruita nei decenni, una
volta messa in crisi è irrimediabilmente persa. E questo non è nell’interesse di
nessuno.
Per una simile forma di turismo, in cui “l’attrazione è una particolare diversità culturale,
con le sue stereotipiche manifestazioni” [Satta, 2001:62], si parla di “turismo etnico”;
una forma di turismo “che si presenta in stretta connessione con i temi dell’identità, e
che si indirizza verso i luoghi, gli oggetti, le figure che si ritiene la possano meglio
rappresentare” [Satta, ibidem]. Rendere le tradizioni visibili ai turisti può comportare
numerose e diverse operazioni, abbiamo visto, tra cui inventare, mescolare e
confondere valori identitari e valori di mercato, selezionando solo quei tratti tradizionali
che si pensa possano attirare l’attenzione del turista, oppure, ancora, prendere un
momento, sganciarlo dal suo contesto e spettacolarizzarlo, come per esempio avviene
a Santadi con la messa in scena della benedizione materna su un palco allestito per
l’occasione nella piazza principale.
143
attenzione, lo studio di un esempio di turismo etnico appare come un campo di studi
privilegiato per studiare i processi di oggettivazione della cultura e le strategie di
elaborazione di una identità locale. Se la maggioranza delle feste e delle sagre
tradizionali sono organizzate dagli enti di promozione turistica (Esit, Ept, Aziende di
soggiorno, Pro Loco), se i tempi e la collocazione delle feste vengono modificati per
trasformarli in eventi fruibili da parte di un pubblico, non è più possibile analizzare le
feste escludendone la finalità turistica, senza cioè chiedersi in che modo il processo di
turisticizzazione del dato folklorico abbia inciso sulle modalità di rappresentazione della
tradizione.
1
Verbale di deliberazione della Giunta Comunale n. 98, 29 dicembre 1962
2
Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 1970
3
ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 08.09.1971
4
Assessore al Turismo di Selargius a ESIT, n°6511 protocollo, Selargius, 18.10.1971
Come abbiamo visto precedentemente, in base alla L.R. 21.4.1955 n. 7, art. 1, lett. c)
“l’amministrazione regionale può erogare contributi per la realizzazione di
manifestazioni turistiche che siano in grado di promuovere l’immagine della Sardegna
attirando nuovi flussi di visitatori e interagendo fortemente con le altre iniziative
pubbliche e private di promozione turistica del territorio”. La delibera del 5 agosto 2005,
n. 39/57, che stabilisce l’entità di questi contributi sulla base del bilancio regionale
2005, permette di capire il grado di rilevanza attributo dalla Regione al Matrimonio
Selargino. Sagre, feste ed eventi sono divise in 5 categorie:
Dal punto di vista delle attenzioni riservate dalla Regione, gli eventi più importanti sono
quelli compresi nella tabella A, che ricevono il 100% dei finanziamenti richiesti. Tra le
“sagre e feste storiche di valenza regionale consolidata e di particolare rilievo storico-
culturale”, la Giunta Regionale ha individuato nove manifestazioni, che sono dunque
considerate come quelle maggiormente rispondenti agli scopi della legge, promozione
della Sardegna e attrazione di visitatori: S. Efisio (Cagliari), la Cavalcata Sarda
(Sassari), la Discesa dei Candelieri (Sassari), la Sagra del Redentore (Nuoro), la
5
EPT Cagliari a Comune di Selargius, Cagliari, 23.07.1974
6
Presidente della Pro Loco fu inizialmente il sindaco Adriano Secci (DC). In seguito ricoprirono la carica
Gino Salis e Franco Camba, che dovette dimettersi nel 1988 per incompatibilità dell’incarico con la carica
di assessore comunale. Da quell’anno è tuttora presidente il geometra Frau Gianni, che è stato anche
presidente delle Pro Loco provinciali e componente di quella regionale.
7
La delibera in questione e l’allegato sono consultabili all’indirizzo internet
http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_45_20050809120054.pdf e
http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_45_20050909133612.pdf
8
L’art. 26 della L. R. 7/2005 ha stabilito la soppressione dell’Ente Sardo Industrie Turistiche, con
conseguente attribuzione delle funzioni e competenze all’Assessorato del Turismo. Le Ept (enti
provinciali per il turismo) dovrebbero essere assorbite dalle città capoluogo, mentre le 8 Aziende di
Soggiorno dalle amministrazioni dei comuni in cui hanno sede.
Ma quali sono le voci che giustificano una previsione di spesa attualmente stimata sui
200.000 euro? La reticenza in merito è massima, nonostante il criterio della
trasparenza che dovrebbe caratterizzare il rendiconto delle spese effettuate coi soldi
pubblici. Nell’archivio comunale è stato tuttavia possibile rintracciare il rendiconto dei
pagamenti effettuati dal comune di Selargius per l’edizione del 1973 [vedi documento
5.1]. È una lettura interessante: permette di andare oltre il preventivo di spesa per
conoscere le spese effettivamente effettuate (minuziosamente dettagliate), consente di
valutare il peso del contributo comunale (circa il 30%, 3.160.000 lire per una spesa
complessiva intorno a 10.000.000 di vecchie lire), dichiara nomi e cognomi delle
persone coinvolte nell’organizzazione dell’evento (si ritrovano nomi di persone ancora
oggi attive, come Gianni Orrù, o che lo sono state per moltissimo tempo, come Fedora
Putzu). Sempre nell’archivio comunale è stato possibile visionare un preventivo di
spesa per l’anno 19749, che riporta più o meno le stesse voci di spesa previste
attualmente:
9
Comune di Selargius, Rievocazione Antico matrimonio Selargino - anno 1974, preventivo di spesa (3
pagine)
Questo potrebbe indurre a pensare che settembre fosse un mese privilegiato per gli
scambi matrimoniali. Si potrebbe provare ad analizzare il complesso delle pratiche
cerimoniali matrimoniali in funzione dello scorrere del tempo, il lavoro d’archivio
potrebbe indicare che certi mesi dell’anno erano privilegiati per la scelta della data
delle nozze. L’iniziatore della letteratura di viaggio sulla Sardegna, il cappellano militare
Fuos, in servizio nella città di Cagliari per tre anni sino al 1777, scrive nel suo Notizie
dalla Sardegna di aver osservato che nei mesi caldi dell’estate “i Sardi […] non
lasciano maritare le loro figlie” poiché la temperatura è così alta che “la miglior cosa a
fare si è affaticare il corpo meno che è possibile” [Fuos, 2000:228]. Caredda ricorda la
superstizione, condannata dal sinodo di Cagliari del 1695, che “sposarsi nei mesi di
maggio ed agosto potesse far morire uno dei coniugi entro l’anno” [Caredda, 1993:38]
mentre da altre parti erano invece considerati “infausti il periodo di Quaresima o il
mese di settembre o quello di luglio, quest’ultimo perché coincideva con la trebbiatura
e, così come il grano veniva lanciato in aria perché il vento lo separasse dalla paglia,
altrettanto avrebbe potuto involarsi la felicità coniugale” [Caredda, 1993:38].
Limitandosi a ciò che in proposito sanno o ricordano le generazioni viventi, tuttavia,
sembrano non sussistere divieti o preferenze particolari.
In ogni caso, la storia del Matrimonio Selargino esclude la possibilità che il periodo
della rievocazione folkloristica sia stato scelto in base a considerazioni riguardanti una
qualche aderenza alla tradizione. Nei primi anni, come si è visto, il Matrimonio
Selargino è un evento collaterale associato ai festeggiamenti in onore del Santo
Lussorio, nell’ultima domenica di ottobre. Ma dopo solo 4 anni, l’Enal di Cagliari decide
che la manifestazione è in grado di reggersi autonomamente e sgancia l’evento dalla
festa tradizionale. La rievocazione folkloristica può finalmente rispondere alle esigenze
turistiche per cui è stata creata. La data viene anticipata all’inizio di settembre:
In Sardegna, fa notare Atzori, “si verifica una certa coincidenza tra proposte culturali di
tipo etnografico e relativa domanda del mercato turistico” [Atzori, 1997:406]. Non è un
caso che l’apertura e la chiusura della stagione turistica coincida con l’inizio e la fine
delle grandi manifestazioni folkloristiche: S. Efisio il primo maggio a Cagliari e le grandi
feste patronali in autunno. La turisticizzazione dell’evento folkloristico è un elemento
che il Matrimonio Selargino condivide con molte altre manifestazioni folkloristiche
sarde, particolarmente evidente nella scelta del periodo in cui queste sono collocate.
Sino alla metà del Novecento, il tempo della festa era subordinato ai ritmi costitutivi del
calendario delle campagne, strettamente vincolato al calendario del lavoro agricolo.
Successivamente, ci sono stati casi in cui sa festa manna de sa bidda, la festa
principale del paese, è stata spostata per venire incontro alle esigenze turistiche. Nei
casi in cui il tempo della festa si sia mantenuto rigido, per inerzia della tradizione o
perché assunto come un'eredità, questo non esclude che sia stato allungato, ridotto o
modificato per adattarlo alle richieste dei visitatori. D’altronde, fa notare Angioni
[1982:244 e 2000], la più importante festa paesana anche in passato si collocava
generalmente in un periodo compreso tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno,
cioè dopo i grandi lavori agricoli estivi o prima di essi, per cui nella maggior parte dei
casi non si è fatto nient’altro che adattare dal punto di vista turistico la tradizionale festa
paesana.
10
ENAL a Comune di Selargius, n°3164 protocollo, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari,
12.08.1966
Perché settembre? Perché non un altro qualsiasi mese compreso all’interno della
stagione turistica sarda? La decisione, mi spiega il presidente della Pro Loco selargina,
è dipesa da due fattori principali strettamente correlati: primo, la necessità di accedere
ai finanziamenti dell’Esit, secondo, la tipologia di turista che arriva in Sardegna. L’Esit
era disposto a sponsorizzare l’evento solo nel caso si accettasse di non situare la festa
nel periodo di alta stagione, luglio e agosto. Il turista che arriva in Sardegna in alta
stagione, venne spiegato, è un turista interessato esclusivamente alla balneazione; è
un turista che non si sposta dalle coste, non è incuriosito da quanto avviene più
all’interno. Il Matrimonio Selargino doveva essere organizzato immediatamente a
ridosso della bassa stagione. In questo modo si riusciva ad attirare il tipo di turista
attratto dalle manifestazioni culturali, che visita la Sardegna non solo per il suo mare.
Poiché a maggio e giugno il tempo è ancora instabile, si decise di puntare su
settembre.
L’abitato di Selargius, nel passato, era concentrato tutto intorno alla via Roma, che
costituiva la via principale del paese. L’attuale via Roma nel passato era denominata
All’esterno del perimetro disegnato dai confini dei due rioni, si ripartivano le numerose
strade che collegavano Selargius direttamente con tutti i centri vicini: bi’e Sestu, (via
S.Martino) verso Sestu; bia beccia (via istria), così chiamata perché era la vecchia
strada per Cagliari prima che venisse aperta anche bi'e Casteddu; bi’e Paoli, via
Trieste, verso Monserrato; bi’e Settimo, il tratto di via Roma esterno al centro abitato,
verso Settimo San Pietro.
5.3 Una vecchia immagine di via Dritta, l’attuale via dell’assenza di arginature delle
Roma cunette.
Il collegamento tra i due vicinati avveniva tramite le salite, ai due lati della via Roma, il
cui nome era legato a quello delle famiglie che ci abitavano; un altro punto di incontro
comune ai due vicinati, al limite del centro abitato era sa ruxixedda (all’incrocio tra bi’e
Settimo, come era chiamato il tratto immediatamente fuori dall’abitato della via Roma,
diretto verso Settimo S.Pietro, dopo via San Salvatore e via Rosselli), così chiamato
per la presenza di una piccola croce ora scomparsa. Ma il vero punto d’incontro, il più
importante, era quello situato tra via S.Olimpia, via Roma e via Dante, s’atziada ‘e
caserma (la salita della caserma, per la presenza dei carabinieri nell’edificio dell’ex
carcere aragonese). Era il punto di incontro dei vivi e dei morti, della Madonna e dei
Santi: qui era il fulcro della vita politica del paese, con la sede del municipio e il
carcere-stazione dei carabinieri, qui si attendeva il passaggio dei cortei funebri diretti al
cimitero, qui la domenica di Pasqua, nel rito de s’incontru, si incontravano le due
distinte processioni, una col simulacro della Madonna, l’altra con quello del Cristo
risorto, per procedere insieme sino alla chiesa dell’Assunta. Qui, infine, nel 1962, si
decise di far incontrare il corteo dello sposo e il corteo della sposa per la sagra del
Matrimonio Selargino.
La festa scorre lungo un percorso concepito come un itinerario, alla scoperta di quello
che una volta costituiva l’intero abitato e ora, con la crescita smisurata del secondo
dopoguerra, è diventato il centro storico. Come è stato scritto in un articolo de
“L’Unione Sarda” [11-09-95, p. 6], il corteo della festa scorre lungo i “rioni storici,
baluardi ancora inespugnati della selarginità più genuina”: lo spazio della festa è lo
spazio della tradizione. Il riferimento semantico proposto dagli organizzatori della festa
si riferisce allo spazio come luogo di riappropriazione di una identità “autentica”, di un
senso di comunità quale quello vissuto dai selargini delle generazioni precedenti.
La proposta degli organizzatori è dunque un salto nel passato, salto facilitato dal fatto
che, per l’occasione, si cerca concretamente di ricreare un’atmosfera di paese di cento
anni fa, come rileva anche Sardu:
le strade in cui sfilerà il corteo nuziale sono almeno per un giorno linde e
completamente sgombre da ogni tipo di veicolo, cosa che produce, per chi non è
più tanto giovane, un piacevole ritorno all’infanzia quando la strada era il regno
incontrastato del viandante e il salotto buono delle comari.11
Oltre che a sgombrare le vie da tutte le macchine, i cittadini sono invitati a mettere in
mostra tutto ciò che in qualche modo possa ricondurre all’atmosfera che si tenta di
ricreare:
È un’occasione straordinaria per spargere le strade di essenza di fiori profumati, di
foglie fresche, stendere drappi, arazzi e lenzuola finemente ricamati sulle finestre,
per aprire i portoni delle case con cortili pieni di fiori e di piante e con le lolle
tipiche per gli affreschi murali e per le cassapanche antiche. Ognuno potrà, nella
settimana di festa, esporre e vendere liberamente i prodotti della campagna alla
propria porta o mettere in mostra le opere che spiccano per l’ispirazione e per
l’arte.12
11
Sardu, VHS Antico Matrimonio Selargino
12
Comune di Selargius e Pro-Loco a cittadinanza, Selargius, 1993, manifesto affisso sui muri e volantino
distribuito nelle case.
L’ornamento delle strade è una tradizione di origine bizantina, utilizzata per onorare il
cammino dell’imperatore e di altre personalità molto importanti, “il cui percorso era
decorato con ghirlande, piante profumate e vari addobbi di pregio” [Pillai, 1997:20]. In
Sardegna l’usanza è stata trasferita alle processioni religiose, quale segno di
devozione e rispetto per la statua del santo, che sfila per le strade cittadine accolta dal
profumo delle foglie di menta e di basilico, dai festoni di mirto e da addobbi vari. Qual è
allora il legame tra sa ramadura e il rito del matrimonio? A detta di diversi informatori, si
tratta della rifunzionalizzazione attuale di un’usanza legata tradizionalmente alla
venerazione del sovrannaturale. È indubbio, in ogni modo, che si tratti di un’operazione
che coglie nel segno l’effetto ricercato. La decorazione delle strade è un espediente
attraverso il quale un’architettura effimera risemantizza quella permanente,
trasformandola in scenario festivo. Da una parte, nascondendo asfalto e cemento, si
trasmette l’immagine di un vecchio borgo agricolo, dall’altra, attraverso i profumi, i fiori,
le bandierine colorate si ricrea l’atmosfera di un paese in festa.
La strada è il luogo principale di una festa che vuole essere “di tutti”. Spazio aperto di
incontro, aggregazione ed esibizione, lascia libera scelta sulle modalità di
partecipazione: da quale punto, per quanto tempo. La strada è concepito come un
luogo di spettacolo in cui si distinguono due settori: uno per gli attori, l’altro per gli
spettatori. È qui la principale difficoltà incontrata dagli organizzatori: conciliare le
esigenze dello spettacolo con quelle del pubblico. Perché se da una parte è indubbio
che l’illusione del “salto nel passato” riuscirebbe al meglio con un corteo in costume
che si snoda per le viuzze del centro storico, è altrettanto chiaro che lo spazio troppo
angusto e la visuale limitata non soddisfa gli spettatori, i quali preferiscono concentrarsi
nei punti che consentono una maggiore libertà di movimento. Non soddisfa neppure le
esigenze dei partecipanti in costume, costretti a sfilare per ore sotto un sole impietoso
per vie in cui gli spettatori si possono contare sulle dita di una mano.
Non è necessario soffermarsi sulle infinite variazioni del percorso negli anni successivi.
En passant, si può giusto far notare come uno dei risultati duraturi delle
sperimentazioni successive sia stato l’utilizzo della via San Martino in tutta la sua
lunghezza. In questa via, nel momento in cui è occupata dall’inizio alla fine, si ferma
l’avanzare del corteo per una decina di minuti cosicché i vari gruppi folcloristici che lo
compongono possono esibirsi in canti e balli più o meno improvvisati, per la gioia del
pubblico.
Negli ultimi anni il percorso si presenta più o meno invariato, segno che si è giunti a
una soluzione che sembra soddisfare le diverse esigenze. Ciò nondimeno, gli
organizzatori la ritengono una soluzione temporanea e sono ancora alla ricerca della
giusta via di mezzo che possa conciliare la richiesta di spettacolo da parte del pubblico
e l’atmosfera di intimità e raccoglimento richiesta dal rito che sta per essere celebrato.
Strade e piazze, centrali e situate nel centro storico, sono nel Matrimonio Selargino gli
spazi privilegiati della festa. Tuttavia, il discorso non potrebbe dirsi completo se non si
facesse cenno al ruolo giocato dalle case campidanesi in questo contesto.
La casa campidanese si sviluppa su un solo piano, sul lato nord, ma senza finestre in
questa direzione; con questo accorgimento si riusciva ad evitare i fastidi provocati dal
soffiare continuo del maestrale, il vento che in Sardegna piega tutto il piegabile in
direzione sud-est. Le stanze erano perciò buie e la poca luce era quella che filtrava
La tipica casa selargina è una costruzione in ladiri (mattoni crudi). Tutti i muri venivano
realizzati con questo materiale e la ragione è presto detta: la pietra è un elemento
quasi assente nel territorio selargino. Per procurarsi il blocco squadrato di pietra
arenaria col quale proteggere le parti più sollecitate e abbellire la costruzione, era
necessario recarsi nella zona “is seddas” a Selargius o direttamente alle cave di
Cagliari. Per proteggere le fondamenta dalle piogge e dall’umidità veniva realizzato
uno zoccolo con pietrame raccolto sul greto dei torrenti misto a malta di fango;
sottovalutare il problema della solidità delle fondamenta ha significato, nelle periodiche
annate delle alluvioni, vedersi portare via la casa dall’impeto delle acque, soprattutto in
zone come la via Roma.
Alte mura, senza finestre, separavano una proprietà dall’altra. Anonimo e dimesso,
l’esterno di una casa campidanese non rivela nulla di quello che si trova all’interno.
L’unica via di comunicazione con l’esterno era costituito dal portale che immetteva nel
cortile. Unico segno esteriore di distinzione tra le case, al portale erano riservate
attenzioni estetiche particolari, tanto da farne il specifico oggetto di trattazione in
pubblicazioni apposite e materia di studio per gli studenti delle scuole medie,
periodicamente inviati in perlustrazione a fotografare gli ultimi portali che nascondono
le vecchie domus.
La prima era una stanza destinata, in modo esclusivo, al solo pernottamento della
coppia marito e moglie; spesso era l’unica stanza dotata di letto, mentre i figli
dormivano in un’altra stanza, per terra, su giacigli realizzati con materiali vari.
Indistintamente, in tutte le abitazioni, mancavano le latrine; al loro posto su
muntronaxiu, uno spazio per i bisogni fisiologici utilizzato anche l’accumulo di tutti i
rifiuti domestici, in cui rovistavano tutti gli animali.
Selargius conserva ben poche delle sue domus. Qualcuno afferma, malignamente, che
il Matrimonio Selargino ne abbia accelerato il processo di abbattimento: si racconta che
ogni qual volta una vecchia casa è stata scelta come sede per la rievocazione
folkloristica, dopo poco tempo è stata abbattuta per far posto a un moderno villino.
Quale che sia il motivo, è indubbio che nella sua storia il Matrimonio Selargino abbia
dovuto modificare più volte la sede della messa in scena di alcuni momenti
fondamentali della rievocazione folkloristica: la vestizione degli sposi, la loro
benedizione e il banchetto nuziale. Attualmente la Pro Loco si avvale della casa Ligas
in via Rosselli, la casa Putzu in via Roma 115 e la casa del canonico Putzu in via
Roma 63. Le prime due, utilizzate quotidianamente dai proprietari come normali
abitazioni, per alcuni giorni diventano rispettivamente “la casa della sposo” e la “casa
della sposa”, mentre la terza casa, di proprietà del Comune, rappresenta la nuova
abitazione della coppia unita in matrimonio, in cui si consuma il banchetto nuziale.
Nel 1861 il maggiore pittore dell’800 sardo, Giovanni Marghinotti, nato a Cagliari nel
1798, dipinge uno dei suoi quadri più noti, Festa campestre in Sardegna, in cui
descrive un momento di una festa campestre sarda. La rappresentazione è ricca di
particolari che sembrano osservati dal vero: il gruppo di ballerini impegnato nel
tradizionale ballu tundu, la figura in primo piano che forse li accompagna suonando
contemporaneamente sulittu e tamburinu, i particolari dei costumi delle altre figure,
appartenenti a diverse località della Sardegna, la tracca “parcheggiata” di fronte alla
chiesa, la chiesa sullo sfondo. L’edificio, dalla “fisionomia tipica dei santuari campestri
del Meridione sardo, con portichetto antistante funzionale allo svolgimento della sagra”
[Serra R., 1993:177] è descritto con una tale fedeltà che Serra Renata lo identifica con
certezza come il santuario dedicato a S. Lussorio, da secoli nel bel mezzo dell’agro
selargino. Se la chiesa è quella di S. Lussorio, la festa non può che essere quella in
onore del santo, una volta fra le più frequentate e celebri feste campidanesi.
Immagino che non esista esempio migliore del quadro di Marghinotti, per illustrare una
proposta che potrebbe modificare radicalmente il senso della manifestazione nella
direzione di una sempre più marcata forma di turismo etnico. Si riosservi il quadro
come se fosse un’istantanea recente di una festa, non più quella per S. Lussorio, bensì
L’idea, di cui si sente discutere per la prima volta nel 1991, è di Tonino Melis.
Importante uomo politico selargino, impegnato sin dai primi anni Settanta nel ruolo di
consigliere comunale, in quello di assessore e di sindaco (1985-1990 e 1994-1998),
Melis non è certo nuovo alle innovazioni nell’ambito del Matrimonio Selargino, con
l’introduzione nell’86 della partecipazione della coppia straniera e l’anno successivo del
“Palio della sposa”. Per un certo periodo è anche un’importante funzionario dell’Esit ed
è in questa veste che lancia una nuova proposta, riportata in un articolo dell’Unione:
Già dalla prossima edizione – dice Melis – sarebbe più bello celebrare lo
sposalizio nella chiesetta di san Lussorio. Non solo, ma utilizzerei il palco
circostante per un altro progetto: creare uno spazio attorno all’antico tempio dove
tutti devono muoversi indossando il costume sardo.
Tutti, dal venditore di noccioline all’artigiano che presenta i suoi elaborati, al
pescatore che vende i pesci. E all’interno di questo spazio – ha aggiunto ancora
Melis – sarebbe opportuno anche organizzare il banchetto nuziale, con tutti gli
ospiti vestiti ugualmente con i costumi tradizionali.
In questo modo, si tornerebbe davvero al passato di una coreografia irripetibile.
Un matrimonio così conquisterebbe davvero spazi imprevedibili e lancerebbe
Selargius verso nuovi orizzonti turistici, ben oltre i confini dell’area
metropolitana14.
Una sorta di presepio dell’identità sarda, un museo vivente di boasiana memoria? Uno
studioso di antropologia non può fare a meno di accostare l’iniziativa a quella di Franz
Boas, il quale nel 1892 si accordò con alcuni indiani Kwakiutl perché andassero ad
abitare in un finto villaggio Kwakiutl, ricostruito appositamente, dove potersi dedicare
alle loro attività abituali sotto lo sguardo dei curiosi che visitavano la mostra15. È lo
stesso accostamento che probabilmente verrebbe in mente a Buttitta, che più volte ha
lamentato la politica di valorizzazione delle tradizioni in senso turistico - consumistico,
la quale condannerebbe alla reiterazione degli stereotipi etnici, alla
13
“L’unione Sarda”, Due coppie all’altare: una sarda l’altra austriaca, 14-09-91, p. 10.
14
Ibidem. L’idea venne rilanciata anche in altri articoli delle successive edizioni del Matrimonio
Selargino. La mancata attuazione del progetto, mi ha spiegato Melis, è legata per lo più alla lentezza dei
lavori di restauro della chiesetta di S. Lussorio e a divergenze ancora irrisolte con i proprietari dei terreni
dell’area circostante. Tuttavia, se venisse rieletto alla carica di sindaco nel prossimo anno …
15
Ma, senza spingersi troppo lontano, si potrebbe ricordare la famiglia fonnese scelta a rappresentare la
Barbagia alla Mostra Etnografica svoltasi a Roma nel 1911, che dimorò per mesi nell’abitazione
“fonnese” tradizionale ricostruita negli spazi espositivi (Muru Corriga, 1990a:99).
Nonostante questo, anzi proprio per questo, l’attuazione del progetto si rivelerebbe
accattivante dal punto di vista di un’indagine antropologica interessata a studiare gli
inevitabili mutamenti apportati ai significati della festa.
A dire il vero, quale che sia il motivo della festa, quella che Ariño [1997: 15] chiama
“esibizione vestimentaria di grandi masse organizzate in associazioni volontarie”, è una
caratteristica presente in qualsiasi manifestazione folkloristica (ma non solo) sarda, il
cui successo pare direttamente proporzionale al numero di gruppi folkloristici che può
permettersi di ospitare. In realtà, non è neppure necessario inventarsi un pretesto per
sfilare: si pensi per esempio alla Cavalcata Sarda, la cui unica ragion d’essere è
propriamente lo sfoggio del costume tradizionale paesano.
La prima considerazione che si può fare al riguardo è che il costume è bello. Questo
perché la storia dell’abito sardo si ferma al culmine, proprio nel momento in cui le
innovazioni tecnologiche, le competizioni estetiche messe in moto da esposizioni come
quella del 1881 a Milano e del 1896 a Sassari, nonché dalle manifestazioni in onore dei
Reali, fanno raggiungere agli abiti “il più alto livello economico e il massimo splendore
estetico e cromatico” [Piquereddu, 2003:53].
La varietà di prodotti dell’industria tessile europea resa accessibile anche alle élite di
paese determina una rivoluzione nelle stoffe, nei colori e negli ornamenti dei vestiti dei
ceti rurali e delle classi popolari. La possibilità di fruire di un catalogo di colori
tradizionalmente precluso, per esempio. È irragionevole pensare che, prima della
scoperta dei coloranti chimici, le classi popolari potessero permettersi toni intensi,
brillanti, saturi e colori come il rosso degli abiti tradizionali del Campidano; non si
andava oltre la “gamma dei bruni e dei mezzi toni, l’opacità della ruvida lana, il colore
sporco delle fibre grezze”16.
Per la folla di spettatori, è uno dei motivi principali per cui assistere alla sfilata dei
gruppi folkloristici. Spesso sono immediatamente riconoscibili i turisti alla loro “prima
sfilata”, paralizzati dallo stupore o al contrario come impazziti nel tentativo di
fotografare tutto, che non resistono alla tentazione di chiedere come sia possibile
portare la mastruca18 in piena estate, mentre gli habitué, sardi o turisti “svezzati”, si
divertono a stilare classifiche sui paesi con il costume più bello, commentando la
bellezza di ogni particolare o criticando il modo in cui è indossato. Un altro divertimento
regionale consiste nell’indovinare la provenienza del gruppo folk, riconoscendo i tratti
distintivi del costume prima che si riesca a leggere la scritta del paese al quale
appartiene.
16
Orsi Landini, “La seta”, in Annali 2003, p. 366 citata in Piquereddu 2003, p. 43
17
Colomo, Speziale 1983; Arca, Ligios 1992
18
Mastruca è il termine italiano col quale si usa indicare sa bist’ ‘e peddi, tipico indumento utilizzato dai
pastori: è un ampio soprabito di pelle di pecora col vello in fuori, senza maniche.
Io oggi ho voluto mettere come si usava fare nelle feste, nelle grandi occasioni,
l’abito più bello; e nel mio armadio l’abito più bello è questo, il costume dei nostri
padri. E vorrei che in questa occasione i concittadini selargini e anche tutti gli altri
sardi capissero quanto sia importante riappropriarsi delle proprie tradizioni, della
propria cultura e andarne orgogliosi.
[…] un modo certo per affermare la nostra dignità di popolo, la nostra identità di
cittadini, e la nostra sardità che deve comunque essere sempre presente. Io invito
tutti quanti per le prossime occasioni affinché aprano i loro armadi, portino i loro
costumi più belli che sono quelli che ci appartengono da sempre, così come ci
appartiene la nostra cultura e la nostra terra.
____________________________________________________________
173
174 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario
5.5 Quale lingua?
“Solo il nostro, e non gli altri diffusi nell’Isola, ha il permesso per celebrare la liturgia e il
consenso matrimoniale in lingua sarda”: un’affermazione costante quando i selargini
parlano del “loro” matrimonio. Costituisce motivo d’orgoglio identitario, nonché un
punto di forza speso sul mercato dell’attrattiva turistica.
Tutto ebbe inizio nel 1970, quando il parroco dell’Assunta, don Carmine Fais,
invitò il vescovo di Cagliari, il cardinale Sebastiano Baggio, ad assistere alla
cerimonia nuziale del Matrimonio Selargino. In quell’occasione venne fatta
esplicita richiesta, dietro presentazione di alcuni antichi documenti, di poter
celebrare la messa del giorno del Matrimonio in lingua sarda campidanese.
Furono esibite alcune disposizioni dei vescovi cagliaritani De Esquivel, De la
Cabra e Cariñena riguardo alla necessità di usare la lingua volgare nelle
celebrazioni liturgiche.
Il cardinale promise di far approfondire il discorso da alcuni canonici, i quali, fatti
passare alcuni anni, richiesero al poeta e linguista selargino Faustino Onnis una
traduzione in sardo del Messale e della liturgia del Matrimonio. Nel 1976,
finalmente, il vescovo ausiliario di Cagliari Pierluigi Tiddia poté celebrare la
messa in lingua sarda campidanese, come si fa tutt’ora.
Tratta invece dell’ordine di spiegare il vangelo e altre “cose spirituali” in sardo affinché
“tutti la capiscano” (“enseñen la doctrina christiana en lengua vulgar para que todos la
entiendan”). Nel testo si fa riferimento al matrimonio unicamente per proibire che i
curati lo celebrino e diano la benedizione nuziale a quanti non conoscano
adeguatamente la dottrina cristiana (“mandamos a dichos curas que de aquí adelante
no desposen ni den benedición a los que no supieren la doctrina christiana”).
La lingua sarda ha sempre costituito un grosso ostacolo nella storia della Chiesa in
Sardegna. Se da un lato i vescovi esortavano il clero a utilizzare la lingua locale, infatti,
dall’altra erano loro stessi a ignorare la parlata dominante nella loro diocesi. A Cagliari
tra il 1500 e il 1720, quindi sino alla fine della dominazione spagnola, su 19 arcivescovi
solo 1 è di origine sarda, il Machin, ma comunque “straniero” in quanto catalano di
Alghero e di sicura formazione spagnola [Pala, 1985:43, nota 4]. Degli altri 18 ben 17
sono di origine spagnola, e di questi “quasi tutti”, scrive Turtas, ignoravano la lingua
locale, “al punto che dovevano servirsi di un interprete quando volevano entrare in
contatto con la parte non alfabetizzata del loro gregge, soprattutto durante la visita
pastorale” [Turtas, 1999:414] (inutile dire che questi erano la stragrande maggioranza).
Nel periodo sabaudo la situazione si presenta invariata, i vescovi costretti a imparare la
lingua locale o, nella stragrande maggioranza dei casi, a servirsi di un interprete: “non
tardarono ad accorgersi che, pur essendo ancora quella spagnola la lingua ufficiale del
regno, la stragrande maggioranza dei loro fedeli capiva soltanto il sardo o, meglio, la
variante di quella lingua che dominava nel territorio nel quale era ubicata la loro
diocesi“ [Turtas, 1999:490]. Consci del problema, sin dalla metà del 1500, per aiutare i
curati nella loro opera di evangelizzazione in sardo, venivano fatti stampare catechismi
elementari e brevi opuscoli in lingua volgare [Turtas, 1999:451 e nota 478].
1
Nella nota 50 a p. 48 viene riportata la trascrizione del brano in questione, tratto dalla Constituciones
Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 91: “…Porque hemos reconocido con
gran dolor de nostro coraçon el olvido culpable, que ay en los Parrocos de ensenarla, y en las personas de
todas edades, y sesos de acudir a a aprehederla, coformandonos con lo decretado en el Santo Concil de
Trento ordenamos, y mandamos, que todos los Plebanos, Rectores, y Curas de almas en cada uno de los
Domingos, y de mas fiestas del ano, en que no huviere sermon, ò festiuidad, que lo impida, en la Missa
conventual, al tiempo de Ofertorio, expliquen en Sardo uno de los misterios de nuestra Fè, instruyendo
los fieles con amor, y caridad, acomodandose con la capacidad de los oyentes.” (grassetto mio)
Ma allora perché voler celebrare a tutti i costi la messa in sardo, esigenza avvertita
anche negli altri paesi in cui si rievocano matrimoni tradizionali? La questione può
essere affrontata come una forma di ipercorrettismo, cioè come sostituzione di una
forma ritenuta corretta, la lingua sarda, a un’altra, l’italiano, che si ritiene scorretta.
L’italiano suona totalmente fuori contesto in occasioni pensate per essere feste delle
sardità in tutte le sue forme. La festa è - dovrebbe essere - un ritorno al passato, alle
“origini”, in tutte le sue forme, dal costume indossato ai dolci, passando per i gioielli, le
launeddas, le traccas, ecc. Tutto dovrebbe essere rigorosamente sardo, dall’inizio alla
fine, esattamente come nel passato: in un contesto del genere sarebbe controintuitivo
ammettere che il primo degli elementi costituivi dell’identità sarda, la lingua, nel
passato era (quasi) assente nella liturgia.
La traduzione, eseguita dal poeta selargino Faustino Onnis, non soddisfa del tutto
Monsignor Zuncheddu, che se ne occupa ormai da dieci anni, avendo celebrato la
messa nuziale nell’edizione del 1996, del 1998 e dal 2002 ininterrottamente sino a
oggi:
Non è solo una questione di maestria è necessario sopra ogni cosa lo studio della
teologia, perché non si possono tradurre con leggerezza le parole. Nella
traduzione ci sono parecchie imperfezioni che bisognerebbe correggere ma il
Monsignor Zuncheddu, giudice istruttore nel tribunale E.R. della Sardegna, avvocato
della Rota Romana, è uno strenuo difensore dell’uso della lingua sarda in tutti i
momenti della liturgia. Il sogno è quello di poter celebrare, un giorno, una messa
interamente in sardo,
perché la gente comune ha diritto di avere la parola di Dio nella sua lingua
Ma la lingua dei sardi non è forse l’italiano? Non siamo ai tempi del Cariñena, oggi è
molto più facile che un sardo non sappia parlare la lingua sarda, piuttosto che la lingua
italiana. Il bilinguismo, o la sua forma detta diglossia, è di gran lunga il caso più
Se così stanno le cose, allora parlare il sardo non è una necessità, bensì il risultato del
processo, storicamente recente, di costruzione e valorizzazione di una identità
regionale sarda. Come si sia passati nella considerazione della lingua sarda dal
“pressoché barbarico vernacolo”, disprezzato come non degno di essere appreso né
tantomeno studiato, a elemento oggetto di specifica tutela - così come deciso dalla
legge regionale n°26, del 15 ottobre 1997 (“Promozione e valorizzazione della cultura e
della lingua della Sardegna”) - è oggetto di una vasta letteratura. Fatto sta che oggi la
lingua è uno degli elementi più importanti nella costruzione di un sentimento di
appartenenza comunitaria, come dimostrano il coinvolgimento e la passione dei
numerosi circoli di emigrati sardi nel resto d’Italia e nel mondo, che guardano sul
satellite il Matrimonio Selargino trasmesso in diretta da una delle maggiori emittenti
televisive sarde, Videolina, e poi chiamano monsignor Zuncheddu perché spedisca loro
il testo della messa.
Liturgia de su Matrimoniu2
DOMANDAS
Acabada s' omelìa e pustis Carissimus (nome dello sposo) i (nome della sposa) seis
calincunu momentu de benìus impari a sa domu de Deus po chi sa stima bosta
silenziu, is sposus e totus is riciat su segliu suu e sa cunsagrazioni sua ananti de su
aterus s'indi strantaxant, e su ministru de sa Cresia e ananti de sa comunidadi.
sacerdotu (si furriat facci a is
sposus), cun custus fueddus Bosaterus seis giai cunsagraus medianti su Battisimu:
o aterus chi s'assimbilint immòi Cristus si benedixit e s' affortiat cun su
nàrada: sacramentu nuziali, po chi si stimeis a pari cun amori
fideli e chen'e fini e s'attueis cunscienziosamenti is
doveris de su matrimoniu.
Is sposus respundit: Sì
2
Estratto dal libretto della messa, a cura di Monsignor Zuncheddu, utilizzato nell’edizione 2005 del
Matrimonio Selargino
CUNSENSU
Su sposu narat: Deu, (nome sposo), pigu a tui, (nome della sposa),
comente sposa mia, e promittu de t'essiri fideli sempiri,
in s'allirghìa e in su dolori, in sa saludi e in sa maladìa, e
de ti stimai e ti onorai totus is dis de sa vida mia.
Sa sposa narat: Deu, (nome della sposa), pigu a tui, (nome dello sposo),
comente sposu miu e promittu de t'essiri fideli sempiri,
in s' allirghìa e in su dolori, in sa saludi e in sa maladìa, e
de ti stimai e ti onorai totus is dis de sa vida mia.
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28.10 Due giovani saliranno l’altare come sposi di tanti secoli fa, “L’Unione Sarda”, p.6
29.10 All’altare come cento anni fa, “L’informatore del Lunedì”, p. 9
1963
26.10 L’antico rito per due sposi cagliaritani, “L’Unione Sarda”, p. 4
27.10 Suggestiva la giornata folkloristica, “L’Unione Sarda”, p. 4
1964
23.10 Un matrimonio con l’antico rito in un clima di fede e di folclore, “L’Unione Sarda”
25.10 Stamane a Selargius l’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p. 6
1965
23.10 Domani si celebra a Selargius il matrimonio con l’antico rito, “L’Unione Sarda”
1966
04.09 Per le nozze in costume gran festa folcloristica, “L’Unione Sarda”, p. 6
1967
22.09 Domenica si rinnova il matrimonio selargino, “L’Unione Sarda”, p. 6
1968
12.10 Per l’antico sposalizio Selargius domani in festa, “L’Unione Sarda”, p. 6
13.10 Si rinnova a Selargius l’antico rito nuziale, “L’Unione Sarda”
1970
25.09 Le nozze di due giovani d’oggi esaltano un suggestivo passato, “L’Unione
Sarda”
26.09 Appuntamento con folklore, “L’Unione Sarda”, p. 7
1971
23.10 Giovani sposi di oggi per un antico rituale, “L’Unione Sarda”, p. 8
24.10 Oggi Selargius in festa per l’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”
1972
06.10 Domani a Selargius lo sposalizio sardo, “L’Unione Sarda”
1973
26.10 Tradizione folk ad Assemini. Andranno all’altare legati con le catene, “L’Unione
Sarda”
1976
16.10 Settimana selargina, “L’Unione Sarda”, p. 8
Bibliografia ▪ 193
1978
09.09 Domani il tradizionale matrimonio selargino, p. 6
1980
13.09 Le sagre in Sardegna. Matrimonio Selargino, “L’Unione Sarda”, p. 6
1983
03.09 Selargius si veste d’antico: domani matrimonio in costume, “L’Unione sarda”,
p.6
1984
02.09 Una catena per gli sposi, “L’Unione Sarda”, p. 7
1985
01.09 Due sposi e una catena, “L’Unione Sarda”, p. 7
1986
28.09 Incontro a Selargius per gli sposi “in catena”, “L’Unione Sarda”
1987
12.09 Assemini rinnova domani l’antico rito del matrimonio in “limba”, “L’Unione
Sarda”, p. 14 (Amisani Salvatore)
12.09 E gli sposi “incatenati” a Selargius avranno al loro fianco anche due francesi
con il costume sardo, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Camboni Gino)
13.09 Selargius in festa rievoca oggi le nozze in costume, “L’Unione Sarda”, p. 14, di
(Camboni Gino)
13.09 Assemini. Canti e balli in chiesa per gli sposi “incatenati”, “L’Unione Sarda”, p.
14 (Amisani Salvatore)
14.09 Un po’ di Francia tra i due sposi incatenati, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Camboni)
14.09 L’acqua e il grano per benedire gli sposini, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Amisani)
1988
11.09 Oggi sposi in catene tra fede, poesia e folclore, “L’Unione Sarda”, p. 16
(Camboni Gino)
11.09 Oggi sposi in catene tra fede, poesia e folclore, “L’Unione Sarda”, p. 16
(Amisani Salvatore)
1989
06.09 Selargius, parte il carro per annunciare lo sposalizio con le catene, “L’Unione
Sarda”, p. 15 (Secci Roberta)
07.09 Il fascino dell’antico Palio, “L’Unione Sarda”, p. 16
09.09 Si rinnova “Sa coja antiga”, “L’Unione Sarda”, p. 16; La catena pegno d’amore,
“L’Unione Sarda”, p. 17
10.09 Selargius, folla e polemiche al Palio, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Casu Roberto)
11.09 Oggi sposi sul filo della tradizione, “L’Unione Sarda”, p. 21 (Secci Roberta)
1990
01.09 Un amore legato con catene d’oro, “L’Unione Sarda”, p. 15
07.09 Tra due domeniche al via l’antico rito degli sposi “incatenati”, “L’Unione Sarda”,
p. 13 (Camboni Gino)
13.09 Il palio della sposa, “L’Unione Sarda”, p. 16; Inviti al matrimonio in lingua sarda.
Attesa per gli scozzesi, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Camboni Gino)
15.09 La catena pegno d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 6; Un “sì” con le catene,
“L’Unione Sarda”, p. 16
16.09 Selargius ripete la festa. Nozze in catene e il fazzoletto in palio, “L’Unione
Sarda”, (Camboni Gino)
194 ▪ Bibliografia
1991
12.09 È il fascino del palio, “L’Unione Sarda”, p. 14
13.09 La magia d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 16
14.09 Due coppie all’altare: una sarda l’altra austriaca, “L’Unione Sarda”, p. 10; I colori
della felicità, “L’Unione Sarda”, p. 11; Un dolce “si” con le catene, “L’Unione Sarda”
15.09 Si ripete stamattina (e siamo a quota 31) l’attesa cerimonia del matrimonio con
gli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Verde Alessandra)
1992
11.09 Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda”, p. 16
12.09 Un “si” con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 6; È lo sposalizio selargino,
“L’Unione Sarda”, p. 18
13.09 Selargius, un sì in catene. Oggi rivive l’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p.
17 (Camba Franco); I colori della felicità, “L’Unione Sarda”, p. 18
1993
10.09 Il grande Palio della sposa, “L’Unione Sarda”, p. 16
11.09 Uniti per la vita con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Verde Alessandra); Una
magia di colori e di suoni, “L’Unione Sarda”, p. 14; Gli anelli magici d’una lunga
catena, “L’Unione Sarda”, p. 15
12.09 Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda”; Festa dell’amore, “L’Unione Sarda”; Le
catene, un pegno d’amore, “L’Unione Sarda”
13.09 Un tuffo nel passato fra launeddas e profumo d’alloro, “L’Unione Sarda”, p. 9
(Verde Alessandra)
1995
08.09 Rito pieno di fascino, “L’Unione Sarda”; Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda”
10.09 Un sì in catene, “L’Unione Sarda”, p. 21 (Piras Lorenzo)
11.09 Le nozze della memoria, “L’Unione Sarda” (Piras Lorenzo)
1997
13.09 Sono anche i turisti i protagonisti della festa, “L’Unione Sarda”; Un antico rito
ripropone i segni magici di secoli fa, “L’Unione Sarda”
14.09 Gli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, p. 23 (Piras Lorenzo);Uniti dalla catena
dell’amore, “L’Unione Sarda”
15.09 “Liberate Silvia Melis”, “L’Unione Sarda”, p. 10 (Piras Lorenzo)
1998
11.09 Ritorna per la 38°volta a Selargius il matrimonio degli sposi incatenati,
“L’Unione Sarda”
13.09 Sposi incatenati dall’amore, “L’Unione Sarda”, p. 19 (Piras Lorenzo)
14.09 Nozze d’altri tempi, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Pinna Francesco)
1999
12.09 Anche due coppie straniere all’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p. 16
13.09 Nozze in catene senza turisti, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Piras Lorenzo)
Bibliografia ▪ 195
Archivio Storico Comunale, Selargius1
Verbale di deliberazione della Giunta Municipale n°98, oggetto: “Contributo per
l’organizzazione della festività S.Lussorio anno 1962”, Selargius, 29.12.62
Verbale di deliberazione della Giunta Municipale, oggetto: “Erogazione contributo per
la festività in onore di S.Lussorio”, Selargius, 17.10.63
Costituzione comitato per la celebrazione della festa religiosa e civile di S.Lussorio,
Cagliari, 21/10/1965
ENAL a Comune di Selargius (n°3164 protocollo), oggetto: “Antico Sposalizio
Selargino”, Cagliari, 12.08.1966
ENAL a Comune di Selargius (n°2630 protocollo), oggetto: “Antico Sposalizio
Selargino”, Cagliari, 15.09.1967
Don Carmine Fois a Sindaco di Selargius, Selargius, 14.09.1970
Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 1970
ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari,
23.08.1971
ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari,
08.09.1971
Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 12.10.1971
Assessore al Turismo di Selargius a ESIT (n°6511 protocollo), Selargius, 18.10.1971
ENAL a Comune di Selargius (n°1584 protocollo), oggetto: “Antico Sposalizio
Selargino”, Cagliari, 28.08.1972
ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari,
13.09.1972
Comune di Selargius, RENDICONTO dei pagamenti effettuati di cui a deliberazione
della Giunta Municipale n°496 del 23 ottobre 1973, ratificata dal Consiglio comunale
con atto n. 184 del 24 ottobre 1973 per la manifestazione folkloristica della
“Rievocazione dell’Antico Matrimonio Selargino” in data 28 ottobre 1973 (2 pagine)
Comune di Selargius, Candidati al Matrimonio Selargino, annotazioni a penna, 1974
Comune di Selargius, Rievocazione Antico matrimonio Selargino - anno 1974,
preventivo di spesa (3 pagine)
EPT Cagliari a Comune di Selargius, Cagliari, 23.07.1974
Comune di Selargius a Assessorato al Turismo Regione Autonoma della Sardegna
(n°4222 protocollo), oggetto: Rievocazione antico matrimonio selargino – Richiesta
contributo, Selargius, 19.08.1975
Camba Franco a Comune di Selargius, Selargius, 06.09.1988
1
Ringrazio la direttrice dell’Archivio Comunale dott.ssa Patrizia Lanero per avermi dato la possibilità di
condurre la ricerca su materiale ancora non accessibile all’utenza pubblica in quanto in via di riordino.
Desidero inoltre ringraziare il dott. Daniele Vacca per avermi assistito durante tutta questa fase della
ricerca e per l’aiuto prestatomi nel reperimento dei materiali utili ai fini di questo lavoro.
196 ▪ Bibliografia
Comune di Selargius, Programma attività per il Matrimonio Selargino, 3-’11 settembre
1988
Telegramma Ufficio Stampa Comune di Selargius a “L’Unione Sarda”, “La nuova
Sardegna”, Videolina, Odeon Tv, Sardegna 1, Rai Tre, Tele Setar, (n°16071protocollo),
Selargius, 1988
Programma Antico Sposalizio Selargino, 32°edizione, 13 settembre 1992
Comune di Selargius e Pro-Loco a cittadinanza, Selargius, 1993
“Predica de su sacerdotu e ministru de Deus dottori GIUANNI FRANCISCU
ZUNCHEDDU laureau in sa Lei canonica e giùgi istruttori de su Tribunali de sa Cresia
de tottu sa Regioni conciliari de sa Sardigna po sa celebrazioni de su matrimonio
cristianu de STEVINI RIVA e GIOVANNA PUGGIONI in su ritu de s’antigu sposaliziu
selarginu, Ceràxiux (prov. de Casteddu), su 15 de cabud’anni, de su 1996, in dominigu,
a mesu dì, custu ritu po sa 36° borta”, 1996 (16 pagine)
Fonti orali2
Associazione folk Su Idanu: Quartu Sant’Elena, 05.04.2006
Associazione folk Kellarious, Selargius, 09.2006
“Gruppo 53” Oliena : Cenceddu, Catte Nina, Mastroni Ignazia, Palimodde Antioca,
Oliena, 09.2006
Amisani Salvatore, Assemini, 23.09.2006
Cordeddu Efisia, Selargius, 24.03.2006, 04.04.2006
Corona Fausto, Selargius, 23.03.2006
Corona Maria Laura, Quartucciu, 12.2005
Frau Cinzia, Selargius, 04.2006
Frau Gianni, Selargius, 13.04.2006
Loi Salvatore, 27.04.2006; 01.05.2006
Melis Olinda, Selargius, 16.03.2006; 04.2006, 10.2006
Melis Tonino, Selargius, 15.09.2006
Mereu Fausto, Etzi Luisanna, Selargius, 02.05.2006
Orrù Gianni, Selargius, 03.2006; 09.2006
Pibiri Ida, Selargius, 08.03.2006
Putzu Felice, Selargius, 10.2006
Gigi e Rosanna Ragatzu, Selargius, 09.2006
Sardu Salvatore, Quartu Sant’Elena, 10.2006
2
Nell’elenco compaiono solo i nomi delle persone il cui contributo è stato maggiormente rilevante per la
ricerca.
Bibliografia ▪ 197
Scanu Salvatore, 04.2006
Secci Albino, Selargius, 08.03.2006
Secci Rachele, Selargius, 23.03.2006, 04.2006, 09.2006
Serrau Maria, 10.2006
Sitzia Simonetta, Selargius, 24.03.2006
Spiga Lucio, Cagliari, 13.03.2006
Turchi Dolores, 09.2006
Usai Denise, 04.2006; Santadi, 08.2006
Zuncheddu Gianfranco, Cagliari, 04.04.2006
Dépliant:
198 ▪ Bibliografia
Pro Loco, Amministrazione Comunale,
Antico Sposalizio Selargino, 29° edizione, 10 settembre 1989
Mascia Rossana,
a.s. 1998/99, 5°D, Antico Sposalizio Selargino, tesina per il diploma di scuola
superiore dell’istituto “Domenico Alberto Azuni”
Orrù Gianni,
1984 Aspetti di vita e cultura selargina, dattiloscritto, Biblioteca comunale di
Selargius;
2003 Antico Sposalizio Selargino, relazione presentata al convegno sulle
tradizioni nuziali, organizzata a Selargius nel contesto delle iniziative per
l’edizione 2003 del Matrimonio Selargino
Sardu Salvatore,
s.a. Antico Matrimonio Selargino, Sarfilm, Selargius (CA), VHS
Bibliografia ▪ 199
This work is intended to propose an ethnographic reading of the
modes of production and construction of a local tradition and identity
in the frame of historical and social processes of wider significance
put into effect in a hinterland area of the chief town, i.e. regional
capital, of Sardinia through the organization of a folkloric display
concerning the local wedding customs.
201