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1Una attenta ricostruzione delle vicende progettuali ed esecutive, a cui si rimanda per gli
opportuni approfondimenti, è in A. Falzetti, La chiesa Dio Padre Misericordioso di Richard Meier,
Gangemi, Roma 2003
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razionalità costruttiva spesso più affine alla ‘fangosa’ realtà del cantiere, che non
alle prerogative della progettazione architettonica.
Ma andiamo per ordine. Alla fine di maggio del 1996 una conferenza stampa
rende ufficiale l’esito del concorso ad inviti, assegnando - come è noto - la vittoria
al progetto di Meier. L’immagine architettonica caratterizzante l’edificio, ma che
diventerà presto anche la cifra tecnologica, è affidata alla sequenza di tre
diaframmi murari curvi, assolutamente semplici, candidi e completamente lisci,
che delimitano a sud l’aula. Meier, sostenuto dalla consulenza di Ove Arup,
propone che le tre superfici, ottenute da porzioni rettangolari di sfera di diversa
altezza (la vela interna, più alta, si eleva per m ….. e si sviluppa su un arco di
circonferenza lungo m….) e forate centralmente da portali, siano costituite da un
nucleo metallico rivestito da lastre in calcestruzzo, con interposto uno strato
coibente di 57 cm di polistirolo espanso, realizzando un corpo murario
intonacabile, dallo spessore complessivo di 82 cm. “Scatulicchiume” è il giudizio
del prof. A. Michetti, consulente tecnico del Vicariato, sulla soluzione strutturale
delle ‘conchiglie’ prevista nel progetto2; la tecnica non sembra promettere quella
longevità appropriata alla rilevanza di cui è investita l’opera, che dovrà reggere il
confronto, in termini anche temporali, con le grandi chiese della capitale, ma non
sembra nemmeno garantire, a breve termine, l’integrità del ricercato candore
superficiale, per il rischio di fessurazioni generate sia dai diversi comportamenti
termici dei materiali sia da presumibili assestamenti successivi. La soluzione, infine,
è definita dal confronto tra i principali protagonisti del cantiere: Meier, il professor
Michetti e l’ingegnere G. Guala3 che giungono a concepire le conchiglie come
assemblaggio di conci prefabbricati in calcestruzzo da lasciare faccia a vista.
Soluzione che si rileverà certo più complessa di quella ipotizzata da Meier, ma
anche più opportuna rispetto alle prerogative del progetto; non solo: la scelta
appare subito anche più consona alla tradizione costruttiva della città, poiché
2 Cfr. C. Baglione, Concezione strutturale e costruzione delle vele. Intervista con l’ingegner
Gennaro Guala, in «Casabella», 2003, n. 715, pp. 20-27.
3 Responsabile della Direzione Opere Civili del Centro Tecnico di Gruppo dell’Italcementi di
Bergamo, all’interno del quale è stato sviluppato il progetto strutturale. I dati sono stati inoltre
verificati dalla Scuola Fratelli Pesenti del Politecnico di Milano, dallo studio M.S.C. di Milano e da
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combina alla leggerezza delle forme un deciso senso di “robustezza romana”4.
Affinato il calcolo strutturale, relativo allo schema statico di una mensola a doppia
curvatura incastrata in fondazione, e definite le caratteristiche geometriche dei
singoli conci, nell’ottica anche di ottimizzarne la produzione, viene avviata
un’apposita linea per la prefabbricazione dei 358 conci necessari5: l’attenta
progettazione dei casseri, l’accurato getto del calcestruzzo6 tale da garantire,
oltre la compattezza, la perfetta esecuzione delle superfici in vista, il rigoroso
rispetto delle tolleranze dimensionali del prefabbricato hanno fatto della
produzione dei conci una fase altrettanto impegnativa delle precedenti; non
pochi sono stati scartati per irregolarità dimensionali o superficiali.
Mentre procede la produzione dei conci se ne deve predisporre il montaggio;
ogni concio è largo circa due metri, alto circa 3, ha spessore di 79 centimetri e
pesa circa 12 tonnellate. La loro posa in opera ha richiesto l’invenzione di una
complessa “macchina di cantiere”, ideata dall’ingegner Guala: una robusta
intelaiatura metallica alta 36 metri - denominata troppo poveramente
“carroponte” – che, assecondando il profilo delle conchiglie, scorre su rotaie
parallele alla loro planimetria e può traslare radialmente consentendo la
costruzione di una vela per volta; l’ingegnosa macchina assicura i piani di lavoro
per le maestranze e contemporaneamente provvede al sollevamento di un
concio e alla sua precisa collocazione in opera.
L’avanzamento della costruzione è cadenzato da operazioni di post-
tensionamento di cavi e barre che attraversano la struttura in orizzontale e
verticale, comprimendola: intervento ritenuto necessario alla stabilità della parete
e a prevenire l’insorgenza di fenomeni di fessurazione – con conseguente
infiltrazione di acqua - sia in corrispondenza dei giunti che sui conci stessi.
Molte altre fasi, qui trascurate, hanno carattere ugualmente sperimentale, sì da
frenare il corso esecutivo; per tutte vale certamente accennare ai lenti ritmi con i
Enel Hydro, società del Gruppo Enel, in particolare per quanto riguarda la risposta sismica della
costruzione.
4 Cfr. F. Purini, Richard Meier. La chiesa di Roma, in «Casabella», 2003, n. 715, pp. 6-19.
5 I conci vengono realizzati presso lo stabilimento della EdilGori precompressi di Orte.
6 Il cemento TX Millennium, messo a punto in questa occasione dai Laboratori di Ricerca
dell’Italcementi, è un cemento additivato con biossido di titanio, la cui azione fotocalitica provoca
l’ossidazione delle sostanze organiche presenti nello smog che si depositano sulle superfici,
innescando un’azione autopulente.
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quali, infatti, avanza la costruzione: la prima vela, composta da 78 elementi, viene
montata con un ritmo di 11 conci al mese; per la seconda, costituita da 104
elementi, si arriva a montare 20 conci al mese; la terza, di 176 elementi, viene
montata con un ritmo di 29 conci al mese7.
Il progetto del Centro di Bibione,8 ottiene la concessione edilizia il 28 ottobre del
1999. L’edificio, destinato a svolgere la funzione di chiesa e di sala polifunzionale,
è caratterizzato da pochi elementi architettonici che delimitano l’aula principale:
un muro alto 14 metri e “due ‘vele’ (setti in cls con curvatura sia orizzontale che
verticale) alte rispettivamente circa 20 metri e 18 metri, leggermente ruotate l’una
rispetto all’altra”9. Le vele, che nelle intenzioni dei progettisti rinviano alla curvatura
della volta celeste, da un punto di vista costruttivo rappresentano, anche in
questo caso, la parte più interessante della realizzazione. Lo schema statico è
quello di una lastra a doppia curvatura incastrata in fondazione e vincolata
all’altro estremo da una serie di pilastri pendolari.
Le vele, una delle quali è attraversata da un portale, sono spesse 40 centimetri, la
più lunga sviluppa m ……, e sono realizzate da calcestruzzo gettato in opera, per
fasce di altezza di circa 3 metri. Dopo i primi tre getti, nei quali la vela risulta
autoportante, all’aumentare dell’inclinazione (in corrispondenza di angoli di 25° e
35° con un piano verticale) la vela viene provvisoriamente sostenuta da un triplo
ordine di robusti puntelli, del diametro di 298 mm e 406 mm, necessari a stabilizzare
la parete per i getti successivi. Per la vela interna, più alta (inclinata fino a 40°), i
puntelli dell’ultima serie, posti in sommità a contrasto con il muro, rimarranno in
opera a sostegno della vela, come puntoni pendolari, e ad integrazione strutturale
della prevista copertura vetrata; un’analoga fila di puntoni è posta, ancora, a
contrasto tra le due vele e messa in opera dopo il loro completamento e lo
smontaggio dei puntelli provvisori10.
legati alla diversa direzione dei puntoni rispetto al muro e alle vele: è stato quindi necessario
realizzare una cerniera spaziale, del tipo “giunto cardanico”, costituita da una sfera metallica di 75
mm di raggio, saldata alla vite di regolazione della lunghezza del puntoni, che ruotava nella cavità
sferica di una piastra quadrata.
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La cassaforma rampante utilizzata per i getti, completa di piani di servizio
superiore ed inferiore, è stata realizzata adattando alla forma voluta casseforme e
componenti di produzione industriale: travi, centine e pannelli multistrato sono stati
assemblati per modellare superfici a doppia curvatura; ogni cassero era
composto da 4 pannelli sagomati a concio sferico, larghi circa 2 metri e alti circa
1,70 metri.
La prima fila di casseri pronta per il getto ha previsto la collocazione di 11 elementi
sul lato interno e altrettanti sul lato esterno, fino a coprire lo sviluppo orizzontale
della vela. I piani di servizio, dotati di un sistema di regolazione dell’inclinazione,
consentivano la posa dell’armatura, quello inferiore, e di eseguire il getto, quello
superiore. Dopo circa una settimana si è proceduto al sollevamento delle
casseforme sul lato interno e al loro fissaggio alla parte appena costruita, alla
posa dell’armatura e al sollevamento e fissaggio dei casseri esterni.
Segnature sulle facce interne delle casseforme hanno consentito di ottenere in
vista, sulla superficie interna delle vele, la maglia di meridiani e paralleli, il cui
tracciato è stato ricavato, a seguito della realizzazione di un modello
tridimensionale al computer, discretizzando le superfici e tenendo conto delle
posizioni dei puntelli; i paralleli, in particolare, sono evidenziati dalle riprese del
getto mediante un sistema quanto mai artigianale, che prevedeva di delineare
sulla cassaforma il limite, ovviamente non orizzontale, che il getto non avrebbe
dovuto oltrepassare.
La superficie esterna viene, infine, completata con la posa di un prodotto
impermeabilizzante passato a spruzzo, seguita da intonacatura e tinteggiatura
con colore bianco.
I lavori relativi alle due vele, svolti simultaneamente, sono iniziati nel mese di
settembre del 2000; nel gennaio del 2001 si eseguiva l’ultimo getto.
Due occasioni che sono state, anche se in diversa misura e rilevanza, opportunità
di ricerca e verifica sulle tecniche costruttive, sui sistemi strutturali, sui materiali.
Questo duplice punto di osservazione manifesta l’intreccio fecondo tra l’ordinaria
pratica di cantiere, il suo naturale affinamento e l’esplorazione delle inesauribili
opportunità della moderna tecnologia; l’architettura ora non pone più resistenze,
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ma anzi amalgama filosofie costruttive diverse, passate ed attuali, stimolando la
sperimentazione, nella ricerca della soluzione più idonea, non solo a rendere
possibile la costruzione, ma ad esprimerne i molteplici valori.
Se le tecniche impiegate nelle grandi opere del passato, che hanno segnato, in
Italia, il passo della storia della costruzione, si dimostravano le uniche impiegabili,
essenziali ed ineliminabili, quelle moderne, raccogliendo indifferentemente gli esiti,
sempre rigorosamente temporanei, di uno sperimentalismo tecnologico
plurisecolare, diventano linguaggio, ostentando a volte neutralità alla forma e,
senza brusche soluzioni di continuità con il passato, oscillano ancora tra abilità
artigianali e ardite tecnologie.
Nel cantiere romano le conchiglie travalicano il significato unicamente tettonico;
la tecnica della costruzione muraria in conci, tradizionale, tipicamente artigianale
e per nulla vincolante in senso costruttivo, viene amplificata e prontamente
contraddetta dall’impegnativa definizione geometrica dei conci, dall’alto livello
di specializzazione industriale della prefabbricazione e dalla complessa tecnica di
assemblaggio; i lenti ritmi del cantiere storico, segnati dai timori e dalla laboriosità
dell’esecuzione, distinti dalla continua messa a punto dei metodi costruttivi sono
rievocati nel ‘pigro’ avanzamento delle conchiglie di Meier e
contemporaneamente smentiti dalle macchinose fasi dedicate al post-
tensionamento delle porzioni murarie che, tranquillamente, si innalzano.
Quest’opera, come un’equazione matematica e al pari delle grandi costruzioni,
non poteva ammettere altra soluzione; la consonanza di motivi tecnici, simbolici o
riconducibili alla tradizione costruttiva - non certo economici - hanno sancito la
non intercambiabilità della scelta che, quindi, si manifesta unica e insostituibile.
Anche l’ingegnosa macchina di sollevamento dei conci sembra confermare, con
i dovuti mutamenti legati al processo evolutivo del sapere tecnico, una
consuetudine, il più delle volte oscurata dagli esiti spettacolari delle opere, che
non ha mai abbandonato i più straordinari cantieri, dall’epoca romana sino ad
ora: la necessità di coniugare creatività e maestria meccanica per definire
tecniche e strumenti essenziali alla costruzione, in una transitoria ma inscindibile
simbiosi tra la configurazione della macchina e le caratteristiche della fabbrica.
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Il cassero rampante utilizzato per il complesso di Bibione, erede della tecnica
dell’opera concreta e moderna attrezzatura del settore edilizio, appare quasi
antidiluviano per la sua semplicità di impiego, per la sua inaspettata flessibilità, per
la razionale fluidità dei cicli di lavoro, per la sua dipendenza da una sola,
ordinaria, macchina di cantiere: la gru. Esso permette di modellare superfici
sferiche che crescono rapidamente, senza incertezze o esitazioni ed esprime la
razionalità del processi costruttivi, la razionale programmazione delle fasi di lavoro:
racconta una “moderna” pratica di cantiere. Eppure, scevro da suggestioni
intellettuali, si dimostra anch’esso partecipe di una tecnica che non ha
alternative, vincolata come è, più dell’altra, dalle ragioni economiche; e anche in
un approccio così rigoroso c’è il margine, ampio, per invenzioni artigianali, come
nell’adattamento della cassaforma, o nella ricerca della soluzione per far seguire
al getto di calcestruzzo la linea dei paralleli o, ancora, nella ideazione della
cerniera che collega i puntoni alle pareti; c’è il margine, insomma, per coltivare
quella componente sperimentale che rende, ancora oggi, il cantiere un’officina,
“luogo di miracoli e di trasformazioni alchemiche”11.