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LA CONSAPEVOLEZZA DELLO SFORZO

da
IL CUORE DEL BUDDHA
di Chogyam Trungpa Rinpoche

Trad. Alberto Mengoni


Il successivo fondamento della consapevolezza è la consapevolezza
dello sforzo. Il concetto di sforzo è apparentemente problematico. Lo
sforzo sembra essere in contrasto col senso di esistere che sorge dalla
consapevolezza del corpo. Inoltre sforzi di vario tipo non hanno certo
spazio nella tecnica 'toccare e lasciar andare' della consapevolezza
della vita. In entrambi i casi, il puro sforzo intenzionale sembrerebbe
compromettere la chiara precisione del processo di consapevolezza.
D'altra parte non possiamo aspettarci che si sviluppi l'appropriata
presenza mentale senza alcun tipo di sforzo da parte nostra. Lo sforzo
è necessario.
Ma la nozione buddhista di retto sforzo è abbastanza differente dalla
definizione convenzionale di sforzo.
Lo sforzo convenzionale è orientato verso il raggiungimento di un
risultato: vi è un senso di lotta e di spinta, che viene incoraggiato
dall'idea di uno scopo. Un simile sforzo cattura il momento e cresce
nella sua stessa velocità, come la corsa di un corridore.
Un altro approccio allo sforzo è accompagnato da un senso di grande
espressività: non vi è un senso di elevazione o ispirazione in questo
lavoro. Vi è, invece, un forte sentimento di obbedienza. Si lavora
duramente, lentamente e con calma, cercando di macinare le
incombenze come un verme in un albero. Un lombrico mastica proprio
tutto ciò che si para davanti alla sua bocca; il canale che attraversa il
suo ventre è il suo spazio totale. Tuttavia nessuno di questi due tipi di
sforzo possiede un senso di spaziosità o precisione. La tradizionale
analogia buddhista per 'retto sforzo' è il passo dell'elefante o della
tartaruga. L'elefante avanza sicuro, inarrestabile, con grande dignità.
Come il verme, esso è imperturbabile ma, al contrario del verme, ha
una visione panoramica del terreno su cui procede. Benché sia lento e
maestoso, a causa della abilità dell'elefante di controllare il terreno, nel
suo movimento vi è un senso di giocosità e di intelligenza.

Nel caso della meditazione, cercare di sviluppare una ispirazione che si


basa sul voler dimenticare le proprie pene per far crescere la propria
pratica come una continua realizzazione è qualcosa di abbastanza
immaturo. D'altra parte, troppo solennità e deferenza producono un
pratica povera e senza energia e una disposizione psicologica statica.
Lo stile del retto sforzo, come insegnò il Buddha, è serio, ma non
troppo serio. Si avvantaggia del naturale processo istintivo a riportare
la mente, costantemente vagante, alla consapevolezza del respiro.

Il punto cruciale nel processo del ritornare a sé stessi è che non è


necessario attraversare fasi precostituite: prima prepararsi, poi
controllare la propria attenzione, infine ricondurla al respiro come se si
stesse cercando di guidare un bambino birichino per non fargli
commettere qualcosa di tremendo. Non è questione di forzare la
mente su qualche particolare oggetto, ma di riportarla dal mondo dei
sogni alla realtà. Stiamo respirando, stiamo sedendo. Questo è ciò che
stiamo facendo e dovremmo farlo totalmente, pienamente, con tutto il
cuore.
Vi è un tipo di tecnica, un trucco, che in questo caso è di estrema
efficacia ed utilità, non soltanto per sedere in meditazione, ma anche
nella vita quotidiana o meditazione-in-azione. Il metodo per ritornare a
noi consiste in ciò che potremmo chiamare l'osservatore astratto.
Questo osservatore è proprio semplicemente l'autocoscienza, senza
scopo né meta. Quando incontriamo qualcosa, la prima scintilla che si
manifesta è il nudo senso di dualità, di separatezza. Su questa base,
noi cominciamo a valutare, prendere e scegliere, prendere decisioni,
compiere ciò che vogliamo. L'osservatore astratto è proprio quel senso
di separatezza di base - la chiara cognizione di essere lì prima che
tutto il resto si sviluppi. Invece di condannare questa autocoscienza
come dualistica, possiamo avvantaggiarci di questa tendenza del
nostro sistema psicologico e usarla come base della consapevolezza
dello sforzo. Questa esperienza è proprio un lampo improvviso del
fatto che c'è un osservatore. A questo punto non pensiamo "Devo
ritornare al respiro" oppure "Devo cercare di staccarmi da questi
pensieri ". Non abbiamo da intrattenerci con questo deliberato e logico
movimento della mente che ripete a se stessa lo scopo della pratica
seduta. Vi è solo un'improvvisa e generale sensazione che qualcosa
sta avvenendo qui e ora e che noi stiamo tornando a noi stessi.
All'improvviso, bruscamente, senza un nome, senza
applicare alcun tipo di concetto, abbiamo un veloce accenno del
cambiamento di tono. Questo è il nocciolo della pratica della
consapevolezza di sforzo.
Una delle ragioni per cui lo sforzo ordinario diventa così tetro e
stagnante è che la nostra intenzione produce sempre una
verbalizzazione. Nel subcosciente noi verbalizziamo:"devo andare ad
aiutare così e così perché è l'una passata" oppure: "questa cosa da
fare è buona per me; va bene che io adempia a questo obbligo". Ogni
tipo di senso del dovere che ci capita di avere è sempre verbalizzato,
anche se la velocità della mente concettuale è così rapida che
p o tr e m m o n o n e sse r e co n sa p e vo li d e lla ve r b a lizza zio n e .
Ciononostante i contenuti della verbalizzazione sono sentiti in modo
chiaro. Questa verbalizzazione spinge lo sforzo verso una prefissata
griglia di riferimento che lo rende estremamente stancante. All'opposto,
lo sforzo astratto di cui stiamo parlando, brilla e sprizza in una
frazione di secondo, privo di nome o di idea che l'accompagni. E'
giusto un balzo, un improvviso cambio di direzione che non definisce la
sua destinazione. La base dello sforzo è proprio come il passo
dell'elefante: andamento lento, passo dopo passo, osservando la
situazione intorno a sé.
Se volete potreste chiamare questa autocoscienza astratta un salto o
un balzo o un improvviso ricordo; o potete chiamarlo stupore.
Talvolta potrebbe essere avvertito come panico, panico incondizionato,
a causa dell'inversione di marcia: qualcosa ci viene incontro e cambia
l'intero corso degli eventi. Se lavoriamo con questo salto
improvviso e lo facciamo senza sforzo nello sforzo, allora lo
sforzo diventa auto-esistente. E' come dire che sta' sui suoi
propri piedi, anziché aver bisogno di altro sforzo per essere
messo in moto. Se fosse questo il caso, lo sforzo si produrrebbe
deliberatamente e andrebbe contro l'intero spirito della meditazione.
Una volta che avete avuto un simile improvviso istante di presenza
mentale, l'idea è che non cerchiate di mantenerla. Non dovreste
conservarla o cercare di coltivarla. Non intrattenete il messaggero.
Non nutrite il ricordo. Tornate alla meditazione. Comprendete il
messaggio. Questo tipo di sforzo è estremamente importante. Il lampo
improvviso è la chiave di ogni meditazione buddhista, partendo dal
livello della meditazione di base fino ad arrivare ai piùelevati livelli del
tantra.
Tale consapevolezza dello sforzo potrebbe definitivamente essere
considerata il più importante aspetto della pratica di presenza mentale.
La consapevolezza del corpo crea l'ambiente generale; essa porta
la meditazione nella situazione psicosomatica della propria esistenza.
La consapevolezza della vita rende la meditazione una pratica
personale ed intima.
La consapevolezza dello sforzo rende la meditazione operativa:
collega i fondamenti della consapevolezza al sentiero, al percorso
spirituale.
E' come la ruota di un carro che crea la connessione tra il carro e la
strada, o come i remi di una barca. La consapevolezza dello sforzo
attualizza la pratica; fa si che essa si muova, che vada avanti. Ma c'è
un problema. La consapevolezza dello sforzo non può essere prodotta
deliberatamente, ma d'altra parte, non è sufficiente sperare che un
improvviso barlume ci giunga e possa essere notato. Non possiamo
solo lasciare che 'quella cosa' ci accada. Dobbiamo stabilire un
qualche tipo di sistema d'allarme, per così dire. Preparare una
atmosfera generale. Deve esserci una base di disciplina che dia il
tono alla pratica seduta. Lo sforzo è importante in questo senso;
come anche l'impegno a non avere la minima indulgenza verso
qualsiasi forma di svago. Dobbiamo abbandonare qualcosa. Se non
abbandoniamo le nostre riserve sul prendere sul serio la pratica,
è virtualmente impossibile far sì che quel tipo di sforzo
istantaneo sorga in noi. Quindi, è estremamente importante avere
rispetto per la pratica, provare un senso di apprezzamento e buona
disposizione a lavorare duro. Una volta che avremo un senso di fiducia
per prendere contatto con le cose così come esse sono realmente,
avremo aperto la via al lampo che ci rammenterà: questo, questo,
questo. Ma, questo che ? Non pensateci più su. Solo 'questo', che si
porta dietro un intero nuovo stato di coscienza e ci riporta
automaticamente alla presenza mentale del respiro o ad un generale
senso di esistere.
Lavoriamo sodo per non essere distratti dalle divagazioni. Di nuovo
possiamo, in un certo senso, gustarci la situazione assai noiosa della
pratica della meditazione seduta. Possiamo apprezzare realmente di
non avere ampie risorse di intrattenimento disponibili. Per il fatto di
avere già incluso il nostro tedio e la nostra noia, non dobbiamo
scappare da nulla e possiamo sentirci completamente sicuri e ben
stabili.
Questo senso fondamentale di apprezzamento è un altro aspetto del
terreno che rende possibile al lampo spontaneo di arrivare con
maggiore facilità. E' come quando ci si innamora. Quando ci
innamoriamo di qualcuno, dato che la nostra intera indole è
aperta verso quella persona, in un modo o nell'altro, abbiamo un
improvviso lampo di quella persona - non come un nome od un
concetto di ciò a cui la persona assomiglia; questi sono pensieri
successivi. Abbiamo proprio un lampo astratto del nostro
innamorato, come 'questo'. Un flash di questo è quello che per primo
arriva nella nostra mente. Poi possiamo ragionare su questo lampo,
elaborarlo, goderci i nostri sogni ad occhi aperti su di esso. Ma tutto
questo accade dopo. Il lampo è primario. L'apertura porta sempre
questo tipo di risultato.

Una analogia tradizionale è quella del cacciatore. Il cacciatore non si


mette a pensare se incappa in un cervo, un capriolo o un orso, o
qualche altro animale specifico, egli sta cercando 'questo'. Quando
cammina e sente un rumore, o percepisce qualche sottile possibilità,
non pensa a quale animale sta dando la caccia; soltanto gli arriva un
senso di 'questo'. Ognuno, nel coinvolgimento più completo - al livello
del cacciatore, dell'innamorato, o del meditante - ha quel tipo di
apertura che determina questi lampi improvvisi. E' una sensazione
quasi magica di essenza, senza nome, senza concetto, senza idee.

Questo è l'istante dello sforzo, dello sforzo concentrato e la


consapevolezza ne consegue subito dopo. La consapevolezza,
una volta accantonata quella improvvisa esperienza, lentamente
a rriv a e s i a g g iu s t a n e lla t e rre s t re re a lt à d e ll'e s s e re
semplicemente lì.

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