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Tempi e spazi per il riconoscimento

Gabriella Villa

Abstract
La mancanza del “riconoscimento a scuola” è la madre di tutte le difficoltà di relazione e
comunicazione e genera, dal punto di vista dello stare bene dove si sta, una serie di “fastidi”
e di “insofferenze” di cui i docenti sono vittime più o meno consapevoli. Spazi e tempi non
sono indifferenti in questa partita che ancora non si gioca nella scuola italiana.

A scuola l’unico luogo del riconoscimento è l’aula, almeno tra gli addetti ai lavori. E il
lavoro d’aula rappresenta anche l’unico spazio/tempo del riconoscimento. Fuori dall’aula, nei
corridoi, sulle scale, nell’atrio l’insegnante è solo e solo di passaggio.
Nella scuola ho fatto fatica, nel corso dei miei quattordici anni circa di lavoro a riconoscermi e a farmi
riconoscere come entità lavorativa: cos'ero? la maestra delle materne all'inizio, poi l'insegnante di
sostegno per molto tempo: ma avevo bisogno di sostegno io, e dovevo sostenere qualcuno (il
bambino) che, spesso e volentieri non era riconosciuto come un essere umano, con diritti uguali a tutti
gli altri esseri umani.

Costruisce rapporti fuggevoli, talvolta non per questo vissuti come poco importanti, ma
relegati dentro la scuola. Per questo tali rapporti poco influenzano o indirizzano il modo di essere
dell’insegnante come persona.
I primi anni sono stati bellissimi, colleghe competenti e disponibili, genitori fiduciosi e alunni in
gamba.
Fuori dall’aula, e dal tempo delle lezioni, pochi di noi si sentono quello che sono:
professionisti dell’educazione.
Probabilmente neanche io mi riconosco in quanto professionista nella scuola, forse perchè mi manca
ancora il riconoscimento ufficiale da parte dello stato: l'inserimento in ruolo.

Siamo in tanti a istruire e a saperlo fare, educare è un impegno più forte, pressante
richiesto in modo contraddittorio dalle famiglie:
un' altra problematica che mi viene in mente è quella del riconoscimento, da parte di molti giovani
genitori, della scuola come ambiente educativo prima ancora che cognitivo per i propri figli. L'aspetto
educativo è considerato di secondo piano per alcuni, soprattutto per quelli iperprotettivi verso i figli,
quelli che, come spesso accade, difendono i loro comportamenti scorretti, per nascondere la loro
inconsistenza di educatori a casa. Ma esiste anche quella categoria di genitori che alla scuola
riconosce un ruolo educativo molto grande, delegando ad essa aspetti dell'educazione dei figli che
non le appartengono.
Del resto le richieste sono molte, anche da fuori, da quei genitori che manifestano bisogni
nuovi e la disponibilità nostra, anche psicologica, è sempre minore.
Si parlava di spazi, all'interno della scuola, di confessionali, di richieste di aiuto da parte delle
mamme, ma noi siamo insegnanti o uno sportello di sostegno psicologico per le famiglie?

L’insicurezza del ruolo, dovuta alla poca considerazione di cui l’insegnante gode anche a
livello sociale, certo non predispone all’apertura alle problematiche degli altri, semmai in qualche
modo giustifica atteggiamenti di chiusura e di rifiuto.
Non tutti noi siamo consapevoli che la nostra professione si gioca sulla capacità di educare altre
persone, qualcuno, pur sapendolo, non se ne cura.
Facciamo tante parole, dichiariamo tanto, ma la coerenza è un’altra cosa: spesso lo sforzo da fare è
quello di agire come si predica!

I non detti agiti o i non detti e non agiti sono connaturati al nostro tessuto relazionale,
anche perché nessuno ci ha mai insegnato a trovare, né ci ha mai messo a disposizione lo spazio e
il tempo per “guardarci in faccia”, per “rispecchiarci” nell’altro e noi solitamente non lo cerchiamo,
lo evitiamo, lo sentiamo come una inutile perdita di tempo.
Soffro un po' del mancato riconoscimento soprattutto delle donne del mio ambiente lavorativo, in
particolare di quelle che mi conoscono superficialmente e a cui istintivamente non piaccio, mentre
godo della stima e dell'amicizia di alcuni amici, colleghi o meno, che mi gratificano del loro tempo e
della loro considerazione.

Anche le riunioni informali, seppur in un contesto istituzionale, sono avvertite dai docenti
come inutili perché non hanno un’investitura ufficiale e paradossalmente, pur potendo offrire uno
spazio e un tempo di confronto tra professionalità non tanto diverse, ma diversamente
esprimibili, non viene considerato come tempo “utilmente speso”.
Mi capita attualmente nello svolgimento del mio lavoro di consulenza per lo Sportello Scuola che non
mi venga riconosciuta la facoltà di indire riunioni di lavoro con pochi docenti interessati a
problematiche specifiche perché, credo, non previste negli incarichi assegnati dai dirigenti alle
referenti o alle funzioni strumentali. Ritengo questo fatto emblematico di un pensiero che non c’è nei
docenti: cioè l’autonomia di azione e contestualmente il riconoscimento di un ruolo diverso dal ruolo
d’aula.

Si auspica, magari, l’intervento dell’esperto di turno o almeno ritenuto tale, che propone la
sua ricetta a un problema e lascia tutto come prima. Si aspetta la “circolare” dal ministero, dall’ex
provveditorato, dal dirigente …
Credo sia anche un difetto di organizzazione del pensiero e una fiacchezza della volontà.
Ci vorrebbe lo spazio fisico a disposizione e, almeno all’inizio, il tempo definito per
incontrarsi. Tempo definito, magari riconosciuto dall’organizzazione come “valido” per … ,
compreso nel … , destinato a … Senza questo, e a volte anche con questo confine che protegge,
non si accetta di correre il rischio, si preferisce lasciare ad altri il compito, la decisione, la scelta.
Salvo poi recriminare per il risultato ottenuto, per le modalità subite, per l’impegno richiesto e
magari nemmeno profuso.
Ci si pensa e si viene pensati come professionisti “finiti” nel senso di completi e staticamente in grado
di affrontare le problematiche disciplinari e relazionali che ci si presenteranno durante il periodo
lavorativo grazie solamente all’esperienza che si va accumulando. Di più, l’esperienza diviene la
discriminante per non aggiungere nulla a quello che già si pensa di sapere. Come afferma Schön
l’eccesso di competenza si “esprime attraverso percorsi collaudati, abituali e rassicuranti, vissuti
come fonte positiva di successo e di sicurezza”.

E ciò basta.
Se l’atto del riconoscimento è reciproco, non può che manifestarsi in uno spazio condiviso
e in un tempo cercato. Se manca la volontà, spazio e tempo non esistono e il riconoscimento è
negato. Noi insegnanti siamo sospesi oggi in questa condizione.

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