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VIAGGIO NEL LONTANO ORIENTE

(1968)

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Sto per lasciare Bangkok e il lontano Oriente. Alle 5,30
di domattina m’imbarcherò per l’India. Un’ora prima dovrò
stare all’aeroporto. Alle 3,30 un tassì verrà a prendermi qui
in albergo. Non vale la pena di coricarmi. Sono le 23, ho ce-
nato in camera, controllati biglietto e passaporto, chiusa la
valigia. Scrivo questi appunti abbandonato in poltrona. Tut-
to è pronto, tutto è concluso, non aspetto niente e nessuno. O
forse una telefonata.
È la stessa camera dello stesso albergo ove sono arrivato
il mese scorso. Giungevo dalla Persia, carico di dervisci. Al-
l’aeroporto m’aspettava Enzo, geometra italiano, avvertito
dagli amici petrolieri di Tehran, Enzo costruisce dighe nel
Siam.
V’è una catena d’italiani che lavora su tutta la crosta del
globo, quasi una serie di posti radar: se ti ci affidi, lasci l’uno
e trovi l’altro. Passi d’amicizia in amicizia, senza merito al-
cuno, salvo quello di parlare italiano.
Enzo m’ha fatto conoscere Nala, principessa:
- Nel Siam una principessa apre tutte le porte.
Le giovani donne di Bangkok incantano, principesse o no.
Piccine, esili, soavi, le incontri per le strade a mazzi, come i
fiori. In tutte il sorriso è spontaneo, la gaiezza naturale, lieto
il cinguettio. Alcune hanno una bellezza perfetta: piccole dee
da guardare appena, da non toccare, inverosimili, apparizioni
fugaci.
Pranzo al mio albergo con Nala, principessa che all’incan-
to siamese unisce il fascino parigino. È stata educata a Lo-
sanna. Sta a mezza via fra l’Europa e l’Asia.
Risorge in me un maschio vanesio che credevo in letargo:
si sveglia e mi caccia via. Durante l’intero pranzo assisto,
annoiato, alla mia capacità d’essere ilare.

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Alla fine Nala m’offre una sigaretta e il vanesio dichiara,
allusivo:
- Da quando sono in Asia non fumo più, non bevo più e...
Nala accetta l’allusione, sorbisce: il caffè e sogguardando-
mi, osserva, buddista:
- Il peccato è una vostra specialità. Siete bravissimi, ave-
te tutta un’amministrazione: veniale, capitale, originale.
Termina il caffè:
- Così riuscite a rendere peccaminosi i neonati, a spaven-
tare i bambini e a mandare all’inferno i morti.
Accende la sigaretta, canzonatoria:
- Dunque non volete proprio fumare con me?
Ha un viso concavo e delizioso. Eppure quella creatura
attraente mi mise presto in condizione di fuggirmene sino a
Hong Kong.
La faccia di maestro Ch’ang è terribile. Faccia gialla.
Maestro taoista a Hong Kong. Vive in una barca del super-
stite quartiere galleggiante d’una città che, in suolo cinese e
abitata da cinesi, ha la bellezza di Rio de Janeiro, la pulizia di
Rotterdam, l’ordine di Berna e i grattacieli di Nuova York.
Hong Kong significa laguna profumata ed è un posto mirabi-
le, superiore a Bangkok, forse superiore ad ogni altro luogo
della terra. Se vi capiti di buona stagione non te ne vuoi più
andare. Se te ne vai, ti porti la nostalgia.
La faccia di Ch’ang è terribile, egli no. Grasso, panciuto,
ombelico scoperto, maestro del Tao: religione o metafisica o
tradizione o magia o superstizione, ognuno dice la sua. Salvo
i taoisti che tacciono o dichiarano (simili ai sufi): quello che
si può dire del Tao non è Tao.
Pare un’affermazione ermetica, invece è tecnica: l’espe-
rienza del Tao non è riferibile in parole, perché avviene ad
un’altezza sovrammentale.

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«È tecnica, sì è proprio tecnica», grida Ch’ang con voce
tonante, la sola che riesca ad azzittire il gran chiasso della
barca.
È una barca cinese, non capisco niente di barche, ma que-
sta è cinese da per tutto, corrisponde a quello che ognuno ha
in mente come battello a vela cinese: e dentro un mucchio di
gente, poppanti che piangono, bambini che giocano, ragazzet-
ti che si tuffano in acqua e ne risalgono spruzzandoti, donne
che ciarlano, vecchie che cucinano, uomini che mangiano len-
tamente, estranei che passano silenziosi, richiami dalle altre
barche, un ragazzotto nudo, corpo giallo canarino, col sedere
fuori bordo, placido a defecare. In un angolo del caos, accoc-
colato sui talloni, maestro Ch’ang, grasso, ridanciano e vene-
rato. Intorno tutto odora di pesce e di mare.
A prima vista la sua faccia è terribile. Neanche sembra
vera, piuttosto una maschera, cinese all’estremo, larga, occhi
stretti e obliqui, baffi all’ingiù, capelli rasi a zero, da film del-
l’orrore. Rimasi senza fiato.
Ero giunto su quella barca traversandone tante altre, sem-
pre col rischio dì finire in mare e non ero cascato grazie alla
mano d’uno sconosciuto che, fermatomi per la strada, m’ave-
va prima proposto una vergine, poi l’oppio e infine, capiti i
miei gusti, m’aveva assicurato un maestro taoista per poca
moneta. Per poca, moneta a Hong Kong trovi qualsiasi mer-
ce e costa meno che altrove.
Condottomi da maestro Ch’ang, ricevuto il compenso, la
guida indigena era sparita. Mi trovavo davanti a quella fac-
cia, a quella pancia, circondato da tutti quei cinesi. Per un
momento ne fui intimorito, poi scoppiai a ridere e Ch’ang con
me. Anche gli altri ridevano e nessuno di loro ne sapeva la
ragione, che era solo mia: ridevo di quanto sono dissennato,

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ridevo immaginando presente in quel luogo la donna che mi
dice, dolce:
- Sei un po’ matto, sei proprio un po’ matto.
Se fosse stata lì, sai che spavento? Ridevano tutti, io più
degli altri, perché mi dicevo, guardandoli: «E adesso, come
parleremo, essi cinese io italiano, sono un matto, sono un
matto».
Invece parlammo. Ch’ang (si scrive così?) dimostra cin-
quant’anni, la guida m’aveva detto settanta, egli novanta, ma
è un burlone. Riuscimmo a parlare perché Ch’ang è stato
marinaio fin da ragazzo, ha percorso gli oceani, conosce un
po’ tutte le lingue, perfino certe parole genovesi.
La sua faccia è terribile, egli no: uno strano miscuglio di
vecchio e di bambino, più bambino che vecchio. È sempre
impensato. Anche quando grida, a voce tonante: «È tecnica,
sì, è proprio tecnica». Non lo dice perché è d’accordo, ma
perché non disapprova mai, come se in tutto vi fosse un certo
grado di verità, a lui evidente.

Bangkok, Hong Kong, Bangkok, Tokyo, Bangkok, queste


le tappe del mio Estremo Oriente. Tre volte a Bangkok. Per-
ché? Per i bonzi, per maestra Poo, per il Buddha.
Non ridacchiare, non giudicarmi dal basso, non dirmi:
- Un bel visino concavo attira più...
Spesso restiamo fermi davanti a una strada, finché non
appare il richiamo d’una speranza colorata. Alla fine, dopo
aver inseguito quei colori, ci accorgiamo che la vera ragione
del percorso era tutt’altra e che la strada ci ha portato proprio
dove dovevamo andare. Forse gli angeli non hanno altro
modo d’aiutare gli uomini.

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Tuttavia, da quando avevo conosciuto Nala, il mio Arcan-
gelo s’era come impallidito.

La barca di Ch’ang diventò casa mia, finché rimasi a


Hong Kong. Vi passavo i giorni interi, rientrando tardi in al-
bergo, ove gli ospiti occidentali stavano attorno ai televisori,
palpitando per la sorte dei primi cosmonauti sulla Luna.
Nell’alternarmi fra l’Occidente del video e l’Oriente del
battello, andavo paragonando entronauti e cosmonauti. Arri-
vati alla Luna, ci avevano mostrato la Terra, pallottola sper-
duta nell’impassibilità del cosmo. Su quella minuscola crosta
eravamo noi tutti, proprio in quel momento: impercettibili,
meno d’insetti, muffe. Tanto infinitesimi da chiedere aiuto:
uomini, donne, venite qui, non combattiamoci più, siamo
niente, stringiamoci fragili e impauriti, stringiamoci per tro-
vare un po’ di calore. A che è servita, a che serve la nostra
ingegnosità che ha inventato la ruota e il motore, se poi non
ha salvato nessuno, non salva nessuno, non i primi uomini e
non gli ultimi, tutti morti, tutti morituri?
Guardavamo la Terra guardavamo la Luna, morta an-
ch’essa, crateri orbite vuote. La cosmonautica ci dà l’eviden-
za del nostro effimero palpitare.
Gli entronauti invece hanno altre parole. Sì, bisogna stac-
carsi dal il globo, sì, bisogna salire in cielo, sì, bisogna vince-
re l’attrazione terrestre, l’attrazione dell’ego, che ci è servito
per individuarci ma che c’impedisce l’elevazione. V’è un co-
smo interiore che ci attende, lì è l’immortalità, lì il divino.
L’entronautica ci ridà il nostro posto al centro dell’universo.
Così mi dicevo a Hong Kong, alternandomi fra l’Occiden-
te del video e l’oriente della barca.

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Ormai la gente dei battelli mi conosceva, unico bianco a
spingersi quotidianamente fra di loro, di barca in barca, gre-
mite da diecimila o centomila cinesi che nascevano vivevano
morivano a un palmo dall’acqua salata. Mi conoscevano tut-
ti, mentre non conoscevo nessuno, anzi confondevo sempre le
loro facce che mi parevano eguali, come a loro paiono eguali
le nostre e scambiano una svedese per una siciliana.
Mi conoscevano soprattutto i bimbetti, a cui distribuivo
caramelle e che mi canzonavano toccandosi il nasino, per in-
dicare la grossezza della mia proboscide europea. Il primo
giorno in cui la confidenza fra me e i ragazzini li indusse a
deridermi, proprio il primo giorno, si parlò di naso anche con
maestro Ch’ang.
Fu allora che ebbi il primo sospetto. Ero appena entrato,
m’ero appena messo per terra accanto a lui ed egli cominciò a
ridere guardandomi il naso e toccandosi il suo, proprio come
per la prima volta avevano fatto i bambini, allora allora.
Come poteva saperlo?
Parlammo del naso ed egli mi domandò perché l’avevo
tanto grosso, se poi non sapevo usarlo.
- Che dovrei farne?
- Respirare.
In quei giorni m’ero messo a cercare il Tao, nottetempo,
serrato nella camera, spente le luci, in segreto e non ne parla-
vo a nessuno,
Dopo tanti viaggi e tanti incontri, qualcosa mi pareva d’a-
ver capito. Ad esempio i Leroy di Parigi: uscire dal carcere
dei sensi, dal carcere del pensiero. Per i sensi era facile: buio,
occhi chiusi, orecchie tappate, corpo abbandonato. Invece il

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pensiero è una fascia di Allen e non la varchi. O ci vuole un
propellente speciale. La fascia del pensiero ti ferma con le
sue immagini captivanti, si muta nel bel visino di Nala sorri-
dente, si muta nel televisore dell’albergo, ti mostra i cosmo-
nauti e la crosta della Luna. Ipnotizzata da quelle figure, la
tua coscienza annega.
Quando ti riscuoti non sei altrove, sei sempre a terra, sol-
tanto assopito. Tanto vale andare a letto. Prima di prender
sonno, la strofa di Molana, il sufi antico: «Chi è l’essere inti-
mo che sta nel mio occhio e vede fuori?».
In quei giorni m’ero messo segretamente a cercare il Tao e
proprio allora ebbi il secondo sospetto. Ch’ang m’aveva do-
mandato cosa ne facevo d’un naso così grosso, se poi non sa-
pevo usarlo.
- Che ne dovrei fare?
- Cercare il Tao col respiro.
Una donna gli portò un piatto di pesce ed egli si mise a
mangiarlo, dandomene di tanto in tanto un boccone, con le
sue stesse mani. La dispepsia che m’accompagna coetanea
lungo la vita, si giovava di quei cibi cinesi e ne ero ghiotto.
Ma più avido ero della spiegazione che Ch’ang taceva, men-
tre m’arrovellavo: «Come sa che sto cercando il Tao?». So-
spettavo: «Vuoi vedere che costui mi legge dentro?».
Mentre masticava, prese a guardarsi il grosso ventre, nudo
sino all’ombellico:
- Bada al respiro.
Smise di mangiare. Continuava a fissare il proprio ventre,
ondeggiante nella respirazione, che tuttavia diventava sempre
più quieta, a poco a poco la pancia si moveva appena, quasi
non si moveva più.
Ch’ang stava a palpebre abbassate, un singolare sorriso
gli schiudeva le labbra. In quel momento non mi parve più

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ventruto né terribile: era diverso, non so se posso dirlo, era
d’una straordinaria bellezza.
Quando più tardi si riscosse, ripeté:
- Bada al respiro.
Pensai: «Il respiro è il propellente». Assentì:
- È il propellente.
Era vero: mi leggeva dentro. M’alzai per andarmene. Re-
spirai a pieni polmoni. Intorno tutto odorava di pesce e di
mare.
Poi arrivò il telegramma di Nala: «Fissato incontro con
maestra Poo». Così corsi a Bangkok per la seconda volta
senza domandare il parere dell’Arcangelo. In quel tempo il
richiamo di Nala faceva tacere ogni altra voce.

Nell’aereo mi trovai accanto a un belga, sinologo e profes-


sore, da trent’anni in Estremo Oriente. Sapeva tutto sui cine-
si:
- Pensano in un’altra maniera e l’Occidente non li può ca-
pire. Sapete perché Wei-yang, gran capo, ucciso da una con-
giura, non riuscì ad ottenere il comando supremo? Perché
durante le sue esequie gli attentatori furono giustiziati.
Per noi è impensabile che un fatto avvenuto dopo la mor-
te, possa aver avuto conseguenze sul defunto quand’era in
vita. Per loro invece Wei-yang non avrebbe mai potuto dive-
nire il capo supremo, tant’è vero che il suo funerale è stato
funestato da vittime umane. Sapete perché adesso a Pekino si
è molto preoccupati? Perché certi uccelli si sono messi a di-
struggere i propri nidi. Il momento è grave, se perfino gli uc-
celli hanno perduto l’amore familiare. Vedete la differenza?
Per noi vale la successione di causa e effetto, per loro valgo-

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no le concordanze significative. Sono due maniere, diverse
ma valide, di capire il mondo. Se pure il mondo si può capi-
re.
Il professore si compiaceva delle sue scoperte:
- Sapete qual è il vero, il millenario regime della Cina? La
Tai Tai, ossia la prima moglie. Dopo una decina d’anni dal
matrimonio, la Tai Tai comincia a notare nel marito qualche
distrazione. Allora gli dice: «Signore mio, dovresti sposarti di
nuovo, conosco una fanciulla bellina bellina, proprio quella
che andrebbe bene per te e per me, che non sono più tanto
giovane». La fanciulla bellina bellina è una cuginetta della
Tai Tai che l’ha studiata bene e già s’è messa d’accordo. Gli
anni passano, la Tai Tai comanda sui figli propri e altrui.
Quando il marito varca la cinquantina e si notano nuove di-
strazioni, la Tai Tai gli dice: «Signore mio, dovresti sposarti
di nuovo, conosco una ragazzetta giovane giovane, proprio
quella che andrebbe bene per te e per me, che mi faccio vec-
chia». Il marito è soddisfatto e la
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VIAGGIO NEL LONTANO ORIENTE
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Sto per lasciare Bangkok e il lontano Oriente. Alle 5,30 di
domattina m’imbarcherò per l’India. Un’ora prima dovrò
stare all’aeroporto. Alle 3,30 un tassì verrà a prendermi qui
in albergo. Non vale la pena di coricarmi. Sono le 23, ho ce-
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forse una telefonata.
È la stessa camera dello stesso albergo ove sono arrivato il
mese scorso. Giungevo dalla Persia, carico di dervisci. Al-
l’aeroporto m’aspettava Enzo, geometra italiano, avvertito
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Siam.
V’è una catena d’italiani che lavora su tutta la crosta del
globo, quasi una serie di posti radar: se ti ci affidi, lasci l’uno
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cuno, salvo quello di parlare italiano.
Enzo m’ha fatto conoscere Nala, principessa:
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mondo in altra maniera.
E se fossero coincidenze?
Il vanesio che porto nel ventre, aveva scoperto la ragione
della stizza di Nala. Diceva: «Il primo giorno, al pranzo,
l’hai corteggiata e poi più: ecco il motivo». Può un vanesio
veder giusto? Comunque, se questo viaggio ha un senso, non
è la ricerca delle carezze di Essy, di Maggie o di Nala, non è
la ricerca dei piaceri, ma la scoperta della felicità.
Infastidito, avevo preso l’aereo per Hong Kong, lasciando-
le soltanto un biglietto: «Avvertitemi quando potrò vedere
maestra Poo». Dopo un mese m’aveva telegrafato, ma al mio
arrivo era sparita chissà dove, forse in Europa.

31
In mancanza di Poo, m’ero messo alla ricerca dei bonzi.
Mi correggo: monaci buddisti. Ricerca facile: li trovi per la
strada. Portano il saio color zafferano, lo stesso colore delle
tuniche che indossano gli operai delle nostre autostrade. A
Bangkok i monaci si vedono da lontano.
Tutti i siamesi diventano monaci, almeno una volta nella
vita, almeno per una stagione, spesso per un anno o più.
Buddha fu monaco e da monaco giunse al risveglio. L’imita-
zione di Buddha è monastica. L’imitazione di Cristo dovreb-
be portarci per quaranta giorni nel deserto e poi farci vagare
di luogo in luogo, senza radici. La sola idea ci fa ridere e mai
indurremmo i nostri figli a una vita senza fissa dimora: ciò
prova che non vi sono più cristiani. Invece nel Siam esistono
i buddisti e ciascun uomo ha indossato il saio color zafferano,
s’è raso i capelli, ha mendicato il suo cibo, s’è chiuso silen-
zioso e casto nel convento. Poi, se vuole, tiene il saio per
sempre o prende moglie. Il monaco è un ideale vivente: i pas-
santi s’inchinano, gli offrono cibo e fiori. Tutti sanno ch’egli
va verso il risveglio, mentre noi ci rivoltiamo nel nostro so-
gno, agitati.
Ma anche a Bangkok l’abito non fa il monaco. Me ne resi
conto nel quartiere cinese, quando un giovane dal saio stinto
traversò la strada per stendermi la mano ed era scandaloso
poiché il bonzo mai chiede e mai ringrazia. Gli offersi le ba-
nane arrostite ch’erano il mio pranzo, ma mi pregò, mite:
- Money, please.
Prese il denaro, trasse dalla bisaccia una sigaretta, l’acce-
se e mi si mise accanto, verso il tempio del Buddha di smeral-
do. Aveva una faccia patita ma bella, occidentale: gli occhi
erano europei di forma e di colore, un po’ stralunati. Mezzo-

32
sangue? La voce afona, spesso tossiva, parlava un inglese
perfetto, si sarebbe detto un inglese: lo era.
Me n’accorsi dal modo come guardava le ragazze. Diretti
al tempio, mi disse che viaggiava da un paio d’anni, aveva il
freddo in orrore, in Oriente fa caldo, niente bagagli, indossa-
va quel saio donatogli non ricordava da chi, ogni tanto i geni-
tori gli mandavano da Londra un po’ di denaro, in Oriente si
vive con nulla, anche la droga costa poco. Sì, la prendeva da
tre o quattro anni, aveva cominciato a diciassette anni, sì, non
poteva vivere senza, sarebbe morto presto, lo sapeva:
- Sentite che bel caldo. Ecco il tempio. Ci dormo da un
mese.
V’era in lui una mitezza lieta e rassegnata. Era un vaga-
bondo, di quelli chiamati hippies.
Se avessi trent’anni di meno sarei con loro. Stanno dalla
parte del giardiniere, contro l’ingegnere. Anch’io. Fargli la
morale? Era troppo intelligente, aveva studiato a Cambridge,
si giustificava con una teoria. M’offrii d’accompagnarlo alla
sua ambasciata, per il rimpatrio. M’offrii d’accompagnarlo
da un medico, per una cura. Mi guardava, preoccupato:
- No no, qui fa caldo, qui la gente mi vuol bene.
Era vero. Al tempio lo conoscevano, era stato ospite di
conventi fumosi. Guardavano al suo vizio con indulgenza.
Se vuol vivere così, come impedirglielo? Morirà presto? Co-
s’è la vita d’un uomo, quando l’uomo rinasce innumerevoli
volte?
Aveva la sua teoria. Me la illustrò un po’ per volta, nei
giorni seguenti, con la sua voce afona, tossicchiando e spesso
perdendo il filo del discorso. Era una teoria persuasiva:
- Mio padre si droga. Come? Ogni sera, rientrato dal la-
voro, il suo bicchiere di whisky. Perché? Dovrebbe essere fi-
siologicamente felice: mangia secondo la sua fame, beve se-

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condo la sua sete, mia madre gli piace ed è sano. Perché tutte
le sere ha bisogno d’alcool? Guardate che bella ragazza.
Non vado più con le ragazze, non ne ho più voglia, ma ancora
mi piace guardarle. Mia madre si droga. Come? Appena al-
zata deve bere un caffè, appena pranzato deve bere un caffè,
appena sono le cinque deve bere un tè, appena cenato deve
bere un caffè. Perché tutto il giorno ha bisogno di caffeina?
Resterò in Oriente sino alla fine: con questo saio, nessuno mi
domanda chi sono e dove vado. Mia sorella si droga. Come?
Sigarette, mattino pomeriggio sera. Perché tutto il giorno ha
bisogno di nicotina? Mi direte: ma in piccole quantità non è
drogarsi. Invece sì. Non è questione della quantità o dell’ef-
fetto: è questione del bisogno. Gli uomini non possono essere
fisiologicamente felici. Londra è spaventosa, crudele: qui la
gente è dolce. Non v’è popolo che non si droghi, in un modo
o nell’altro. Perché? Ve lo dico io. Perché non possiamo vi-
vere nella coscienza normale. È ristretta, secca, soffocante.
Dobbiamo dilatarla. A me basta la marijuana. La coscienza
si dilata con alcool, caffeina, nicotina, cocaina, oppio e via
via oppure con l’amore, l’arte, la preghiera, la musica, la
poesia, col digiuno, i panorami, i riti, con Dio. E anche chi
non ha proprio niente, almeno dorme. Nel dormire, nel so-
gnare la coscienza si dilata: se non dormi, se non sogni, muo-
ri. I vostri entronauti? Drogati di Dio. Volete vederli? Vi ci
porto. Conosco un monastero sulle montagne: monaci siame-
si, tibetani, cinesi. Ci ho abitato. Andiamoci, vi ci porto io.
Andammo. Il monastero è nei pressi della diga in costru-
zione ed Enzo, il geometra italiano, ci caricò su d’un camion,
fra sacchi di cemento. Partimmo di sera, presto fu notte.
Il mio compagno s’era subito addormentato. Gli riusciva
di trovare il sonno da per tutto, in qualsiasi posizione: lo invi-
diavo, obbligato come sono al letto, al materasso e al guan-

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ciale. Dormiva, indifferente alla durezza dei sacchi, ai morsi
delle zanzare, ai balzi del camion. Tossiva di tanto in tanto,
povero ragazzo, arreso alla sua tisi.
Arrivammo all’alba. Il monastero sta dietro un bosco,
presso il gran cantiere della diga. Quando sarà costruita,
l’acqua sommergerà tutto.

Pur nel lividore dell’alba, il luogo era diverso da come


credevo. L’aurora sopraggiunse dorata, crescendo rapida e
impetuosa, colorando di azzurro il cielo, di verde il bosco, in-
cendiando le paludi e accendendo perfino il saio zafferano dei
bonzi, che sciamavano. Il giovane inglese si diresse verso di
loro e vi si confuse, senza lasciarmi un saluto, disparendo
così improvvisamente come improvvisamente era apparso nel
quartiere cinese di Bangkok. Neanche m’aveva detto il suo
nome.
Non c’è monastero: soltanto un’antica pagoda a torre, cir-
condata da capanne coniche, poverissime. Da lontano, guar-
davo pagoda, capanna e, monaci, e non sapevo che fare, al
solito impacciato dalla timidezza, dalla diversità degli idiomi
e dal senso dell’inutilità. Da quando avevo conosciuto Nala,
l’anima mi si era chiusa e appesantita, senza rapporti con
l’Arcangelo.
Avevo sonno e fame. Giungeva chiaro il rumore delle
grandi macchine che lavoravano alla diga. M’avviai verso il
cantiere, lungo un sentiero del bosco, lasciando la pagoda alle
spalle. Fidavo su di una lettera di Enzo per i costruttori ita-
liani che comandavano L’impresa. Mi presentava come gior-
nalista e come tale m’accolsero, festosi, offrendomi vitto e al-
loggio.

35
La parola giornalista ha un grande potere: è una carta d’i-
dentità, un salvacondotto, un certificato che giustifica le tue
stranezze e induce gli altri a diventarti complici.
Mi bastò parlare di un’intervista al superiore del conven-
to, per rendere plausibile il mio arrivo e mettere tutti in moto
ad: aiutarmi. Ogni mattino alcuni monaci passavano dal can-
tiere e ricevevano riso bollito in elemosina. Loro tramite,
dopo un solo giorno, mi s’annunciò che il gran bonzo aspetta-
va il giornalista venuto d’Europa. Andai subito, come fosse
davvero una intervista, penna e taccuino per gli appunti.

Ciò avveniva dopo il mio ritorno da Hong Kong e prima


della mia andata a Tokyo, ossia nel tempo in cui Nala restò
introvabile. È il tempo precedente la visita a maestra Poo,
già ambasciatrice, ora monaca buddista, vecchia signora in-
nocua, diresti. Eppure m’ha tanto impaurito, che ho fatto la
valigia e vado in India. V’è sempre un vento che mi porta
via.
Molte cose sono accadute dopo l’intervista col gran bon-
zo, che non era grande (anzi mingherlino) né bonzo (monaco,
dice Nala). Fu un’autentica intervista, con domande, risposte
e, fra parentesi, le rapide considerazioni che annotavo lì per
lì. Nel rileggerla adesso per la prima volta, vi trovo il limite
dell’intervista, il pretesto dell’informazione, la superficialità
frettolosa e scheletrica: eppure v’è dentro da far esplodere le
nostre convinzioni.
Mi rivedo nella penombra della pagoda, accanto al gran
bonzo, saio ocra, cranio raso, faccia attempata, quieto e gen-
tile, arrendevole alle mie curiosità, volenteroso nello sforzo di
farmi capire. Spiegare è il primo dovere dell’asceta.

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Stava per terra, le gambe ripiegate, la stessa posa del
grande Buddha d’oro, incombente dietro le sue spalle. Gli
ero di fronte, per terra anch’io, nella posizione per lui perfet-
ta, per me insopportabile, indolenzite le caviglie e le giunture.
Ecco quanto ho scritto, mentre il bonzo mi sorrideva e dall’al-
to mi sorrideva il Buddha.
- La giornata del monaco?
- All’alba, sveglia. Levato il sole, in cammino. Sempre
all’aria aperta. Una volta al giorno accetta che un devoto
riempia la sua ciotola, riso o verdura.
- Ciotola? Quant’è grande?
- Il palmo d’una mano.
- Carne?
- Mai. Compassione per tutti i viventi.
- Denaro?
- Mai. Accetta solo cibo vegetale. Beve acqua di fonte.
- Quanti pasti al giorno?
- Unico. Fra le 9 e le 10.
- Se nessuno gli ha dato niente?
- Digiuna.
- Che fa tutto il giorno?
- Cammina, attento alla vita interiore, meta il risveglio,
modello il Buddha.
- Se l’interrogano?
- Offre a tutti istruzione, consiglio e assistenza, imparzial-
mente, gli uomini essendo eguali, anzi tutti i viventi, animali e
vegetali, uniti nella compassione, tutti da aiutare, perfino il
granello di polvere.
- Le donne?
- L’asceta è casto, le donne rispettose.
- Povero e casto. Sono i suoi voti perpetui?

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- Voti? Perpetui? Non per obbligo il monaco è povero e
casto, ma per scelta. Ha scelto la libertà, continua a sceglier-
la. Gli è chiaro che non v’è libertà nel denaro ma pena, non
v’è libertà nelle donne ma tribolazione.
- E se un giorno il monaco si stanca?
- Lascia il saio e fa quel che vuole.
- Se poi si pente?
- Riprende il saio.
- E il voto d’obbedienza?
- Obbedienza? A chi?
- La notte?
- Torna al luogo ove dorme, fuori dall’abitato: monastero,
pagoda, caverna, albero. Dorme seduto, la schiena appoggia-
ta. Se si sdraia, è nella posizione di Buddha, sul lato destro.
- Letto?
- Non lo conosciamo.
- Il monaco non si lamenta per questa vita dura?
- Dura? Ma come? Perché dura? (Mi guarda, stupito,
tace, si sforza di comprendermi, poi di farmi capire). Non
dura, invidiata. L’asceta è un uomo libero di sé, del suo tem-
po, del suo destino. Tutti vorrebbero questa libertà.
- E il benessere?
- Come? Quale? (Non capisce, sinceramente).
- Il benessere di Bangkok.
- Bangkok. Avete visto quanta povera gente? (Bangkok,
vent’anni fa cinquecento automobili adesso cinquecentomila,
poveri siamesi, sforzi per mantenerle, per mantenersi, affanni,
aspirazioni, disperazioni, cambiali, lavora lavora, non basta
mai, stanchezza stanchezze, invidie rivalità, delusioni incom-
prensioni solitudini, sussulti di piaceri brevi, corri corri, falli-
menti, moltiplicazione dei desideri, una rogna da cui non si
guarisce, ci si gratta a sangue, poi si muore).

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- Per voi è povera la gente in automobile?
- Povera gente senza pace, senza gioia, in un sogno tumul-
tuoso.
È il tramonto, ora privilegiata per la vita interiore. Se Dio
è l’essere, se Dio è il bene, il nostro benessere è il nulla. Il
gran bonzo si ritira, lasciandomi una citazione:
- «L’asceta errante cammina senza dimora, senza moneta,
rasi i capelli, l’anima serena».
S’inchina:
- Potete tornare domani.
Se ne va, mingherlino e saggio.

Torno il giorno dopo, lungo il sentiero ripenso a Nala e


alle sue proteste: «Se a Bangkok cento bonzi s’accendono, li
chiamate fanatici: se a Praga uno studente li imita, lo chiama-
te martire». Prima domanda:
- L’asceta cammina attento alla vita interiore. Ossia?
- Cosciente.
- Ossia?
- Chiudete gli occhi. Dove vi sentite cosciente?
- Non so. Forse dietro la fronte.
- Bisogna rinvigorire la coscienza, non perderne mai il
sentore. Abitarla.
- Come?
- Metterla nel respiro. Muoverla. Posta nei piedi, ti liberi
dal pensiero. Posta nel cuore, ti accendi di gioia. Posta oltre
il capo, t’illumini d’immenso. (Sì, dice proprio to enlighten,
dice proprio immensity, il verso d’Ungaretti, qui in una sper-
duta pagoda del Siam, grandezza dei poeti). Trovata la co-
scienza, ti rendi conto di tutte le forze che da dentro ti muovo-

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no e, invece di esserne condotto, le conduci. Penetri nell’uni-
verso interiore, la strada dell’immortalità, Occorre un mae-
stro.
- Come si diventa monaci? Riti, dogmi, sacramenti,
culto?
- No. È buddista chiunque cerca rifugio in Buddha, è mo-
naco chi dichiara: «Cerco rifugio in Buddha, nella Legge, nel-
l’Ordine». Molti i paesi buddisti, molti i secoli trascorsi,
molte differenze monacali, ma la formula non cambia. Tutta-
via, per cercare rifugio, bisogna aver paura.
- Ossia?
- Vedere il mondo come l’ha visto Buddha.
- Ossia?
Tace.

Nel rievocare questo viaggio in Estremo Oriente, non tutto


m’è chiaro. Bangkok si confonde con Hong Kong e poi con
Tokyo. È notte alta, sono stanco, gli appunti si succedono,
ingarbugliati: Nala, Ch’ang, Nala, l’inglese, il gran bonzo,
Nala, Enzo, Uyeshiba, Nala, Poo. V’è un’assenza: l’Arcan-
gelo. L’unica chiarezza è che fra poco me ne vado in India.

Arrivai di notte a Tokyo con Gloria, il tifone. I meteorolo-


gi danno ai tifoni nomi femminili. A Bangkok avevo lasciato
la dolcezza della primavera, che tuttavia non m’aveva ralle-
grato, anzi soffrivo di malumori.
Il malumore è spesso una tumefazione dell’animo, da col-
po ricevuto. Una tumefazione fastidiosa, che cerca sfogo e

40
glielo diamo prendendocela con persone o circostanze che non
c’entrano affatto, che in altri momenti non ci avrebbero tur-
bato e che ora invece c’inaspriscono. Il ritardo dell’aereo,
l’errore d’un impiegato, l’urto di un gradino, tutto ci è occa-
sione per inveire. Questo bisogno di sfogo ci fa dimenticare il
motivo vero, che è l’urto ricevuto, magari molto tempo prima.
Mentre volavo verso Tokyo, andavo cercando chi m’aves-
se urtato. Non era certo il gran bonzo, quieto e gentile: in
qualche frase m’aveva offerto la sintesi del cammino interio-
re. Nemmeno il giovane inglese, intossicato dalle droghe,
sparito senza lasciare il nome. La tumefazione che mi dava il
malumore, era dovuta ad un’altra scomparsa: Nala.
Nel ripensarla, non la trovavo più bella, il suo musetto mi
pareva quello d’un pechinese, cagnolino delizioso quando
t’accoglie scodinzolando, strofinandosi alle gambe, brusca-
mente innamorato di te e poi, senza ragione, prende ad abba-
iarti ostile e se allunghi la mano per carezzarlo tenta di mor-
derti, infine scappa via: hai voglia a chiamarlo, a cercarlo,
non lo trovi più. Pechinese, cagnolino insopportabile. In-
somma, si manda un telegramma a Hong Kong e poi si scom-
pare?

Arrivai di notte a Tokyo con Gloria. Aperto lo sportello


dell’aereo, entrò una raffica di pioggia gelata. «Maledizione,
piove», imprecai, ignaro che eravamo circondati da un tifone,
ignaro che aveva distrutto villaggi e porti sulla costa, ignaro
che il velivolo a stento era riuscito ad atterrare. Non sapevo
niente di Gloria, anzi non sapevo niente dei tifoni. Mi com-
portavo come fossi giunto in treno da Milano a Lucerna e,
guarda un po’, piove.

41
Nel buio scesi la scaletta, seccato: «Accidenti che tempac-
cio». Il tifone mi toglieva il fiato, mi strappava l’ombrello,
m’inondava la faccia, m’accecava, in pochi passi mi riduceva
l’abito come fossi caduto in un pantano. Ero indignato:
«Guarda come piove in questo paese». Lafcadio, Lafcadio.
Trascinai il malumore al banco dei passaporti
(meticolosi), al banco della dogana (pignoli), al banco della
compagnia aerea (inetti). L’impiegato giapponese:
- Dolente, non è stato possibile trovarvi una camera.
- Come? A Bangkok m’avevano garantito...
- Dolente.
Era l’una di notte, ora locale. Lafcadio Lafcadio, dov’è il
tuo Giappone?

- Siete venuto a Tokyo per vedere maestro Uyeshiba?


Pronuncia la frase come dicesse:
- Ma vedi quanto si può essere scemi.
È una signora del mondo diplomatico, priva d’ogni diplo-
mazia.
Luca la rimbrotta:
- Ma che ne sai, tu?
Siamo a pranzo in un ristorante della Ginza: Luca è l’anfi-
trione, mi tocca la parte d’ospite d’onore, commensali cinque
o sei italiani, donne e uomini. Si mangiano fettine di pesce
crudo, bocconcini di riso, vegetali ignoti, frutti mai visti, si
sorbiscono brodini minimi, sconosciute essenze spiritose, il
tutto in piattini e coppette ove cibi e bevande sono disposti
con la grazia delle aiuole.
- Maestro Uyeshiba ha novant’anni, non lo vede nessuno,
lo tengono come un dio.

42
Luca ripete, autorevole:
- Ma tu che ne sai?
- So tutto dell’aikido. Non lo vede nessuno. Io non sono
riuscita.
Il suo insuccesso esige il mio, altrimenti se ne offendereb-
be.
Luca è colui che m’ha salvato. Nella catena dei radar ita-
liani, occupa il posto di Tokyo. Da Enzo di Bangkok ha rice-
vuto la segnalazione. È bastata a strapparmi ai «dolente, do-
lente» dell’aeroporto, a trovare l’introvabile camera d’alber-
go, a consolarmi di questa Tokyo che m’ha accolto male, mi
tratta male, pioggia gelida, troppi abitanti, brutte donne, stra-
de squallide e senza nome per cui non v’è tassì che ti porti
dove vuoi andare. Lafcadio Lafcadio, il tuo Giappone?
Adesso ci si mette anche questa signora:
- Ma siete proprio venuto da Roma a Tokyo per
Uyeshiba?
Luca, ormai dentro la parte del salvatore:
- Non datele retta. Vi procuro un’interprete e tutto diventa
facile. Chi è questo Uyeshiba?
Un altro commensale:
- È un medico, sì, quello famoso, è stato anche in Italia, è
un medico.
Non è vero, interviene la signora, altra discussione. In
una pausa cade la voce d’una giovanetta, che fino ad allora
s’era incipriata il naso:
- Ma non è quel cantante?
Lafcadio, Lafcadio.

43
La vita di Uyeshiba sarebbe piaciuta a Lafcadio Hearn
che, nato in un’isola greca, cresciuto in Inghilterra, divenuto
giornalista americano, inviato in Giappone, ne trasse motivi
per libri incantevoli e tanto amò questo paese da farsi nippo-
nico col nome di Koizumi e da morire a Tokyo nel 1904. Al-
lora Uyeshiba aveva ventun anni. Forse si sono incontrati.
Maestro Uyeshiba nacque in uno di quei villaggi che Laf-
cadio ci ha descritto, in un Giappone arcaico ove le fanciulle
si chiamavano Iné, ossia germoglio di riso. Ancora ragazzo,
suo pensiero costante fu il budo, parola intraducibile o assai
male. Intraducibile parola, perché ce ne sfugge il senso.
(Definizione approssimativa del budo: antica disciplina
marziale che insegna a lottare, non per vincere l’avversario,
ma per trasmutare se stesso. Altra definizione: combattimen-
to che alla forza muscolare sostituisce un’energia interiore e
invincibile. Ultima definizione: arte della lotta, della scher-
ma, dell’arco come via spirituale per riportare l’uomo a quel-
lo che già è, ma non sa. Tutto ciò i giapponesi dicono con
due sillabe: budo).
Dunque, maestro Uyeshiba, ancora ragazzetto, pensava
continuamente al budo. A sette anni fu istruito da un monaco
buddista, a dieci da un maestro zen. A quattordici vide alcuni
prepotenti del villaggio maltrattare il suo babbo, amatissimo.
Ne soffrì al punto da giurarsi di divenire un uomo tanto forte,
che tutti ne avrebbero rispettato il padre. Così più che mai
pensava al budo. Visitò luoghi e luoghi, ovunque si trovasse-
ro maestri delle arti che dall’antico budo sono derivate: judo,
kendo, sumo, kyudo. Imparò queste arti e vi eccelse, tanto
d’acquistare fama. Tuttavia restava inquieto, cercava una ve-
rità spirituale cui consacrarsi, una verità che non si formula
né si definisce, si vive.

44
Suo padre s’era ammalato e i medici disperavano. Il figlio
corse ad Ayabe, ove viveva il venerabile Deguchi, capo della
scuola iniziatica Omotokio, nella speranza che la guarigione
potesse avvenire con mezzi spirituali. Invece il padre morì.
Il suo dolore fu grande. Questa morte acuiva in lui il bi-
sogno di verità. Al villaggio lo vedevano partire verso i mon-
ti, sostare in lunghi raccoglimenti fra le rocce. Nel 1919 si
trasferì ad Ayabe, con i familiari. Viveva in una casetta soli-
taria, intento alla sua ricerca.
A quarantadue anni, nella primavera del 1925, l’illumina-
zione. Lui stesso ha cercato di descriverla. È un’illuminazio-
ne esemplare, scesa da un alto cielo, poiché i cieli son molti e
alcuni bassi, illuminazione inesprimibile: il riferirla la restrin-
ge in parole inadeguate. Tuttavia maestro Uyeshiba ha tenta-
to, pressappoco così.
In un giorno di quella primavera, egli camminava solitario
nel giardino. Di colpo la sua anima si spalancò (quasi in un
tuono) e l’universo gli apparve trasfigurato, aureo e fulgente,
pervaso dallo spirito divino, presenza amore gioia in ogni es-
sere e in ogni dove. Gli apparve com’è e noi non lo vediamo.
Poi (quanto poi?) si ritrovò nel giardino, si ritrovò stupe-
fatto, il volto bagnato di lacrime. L’incontro sacro e irrefuta-
bile mutò tutta la sua vita.
Così nacque l’aikido, disciplina marziale, pura figlia del-
l’antico budo.
(Gli occidentali, che danno importanza alle grandezze nu-
meriche, saranno impressionati dalle cifre: 300.000 discepoli
dell’aikido in Giappone, 100.000 al l’estero, tutti devoti a
maestro Uyeshiba).
L’ho veduto. A dispetto della signora saccente, l’ho vedu-
to e m’ha parlato.

45
In verità tutto s’era messo assai male. L’interprete giap-
ponese procuratami da Luca aveva quarant’anni, brutta, mal-
vestita, inibita, timorosa di guardarti negli occhi, di parlarti
senza nascondere la bocca con le mani, di sorridere senza vol-
tare la faccia dall’altra parte. Simili moine quindicenni di
una zitella appassita avrebbero infastidito anche Lafcadio.
Eravamo in tassì, (diretti alla sede dell’aikido, ma il condu-
cente sbagliava strada, a Tokyo le vie essendo senza nome e
gli indirizzi sempre approssimativi. Così al fastidio della zi-
tella s’aggiungeva il dispetto del tassametro e l’uggia del con-
tinuo piovere. Avevo l’anima rigata. Alla sede dell’aikido il
gran vecchio naturalmente non c’era.
Venne il figlio, di nessun rilievo. Offrì il tè: «Il maestro
appare raramente, talvolta alle quattro del mattino, ha ottan-
tasei anni, al primo piano si svolgono gli esercizi». Mi mo-
strò un libro, lo comprai. L’interprete capiva male e traduce-
va peggio. L’ascoltavo appena. Tokyo tappa inutile, tempo
perduto. Andarmene, domani. L’India è la terra dei cercato-
ri, l’India. Budo, aikido, che m’importa?
All’uscita v’era un po’ di trambusto. L’interprete:
- Il maestro, inaspettato.
Bel vecchio, nell’abito tradizionale. Passò dritto davanti a
me e mi guardò, benigno. Stavo rispettoso contro la parete
del corridoio. Mi guardò. Occhi grandi, luminosi, turchini.
Turchini? Impossibile.
Era passato, scomparso dietro una porta. L’interprete:
- Saliamo al primo piano?
Grande palestra con cinquanta giovani e alcuni insegnanti,
tutti vestiti come per il judo, intenti a esercizi di lotta. Ran-
nicchiato in un angolo, osservavo. Improvviso brusio: sulla
porta era apparso maestro Uyeshiba.

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Con passo svelto entra nella palestra e si dirige al mio an-
golo. Mi rialzo, imbarazzato, tentando un sorriso. M’è di
fronte. La sua faccia non ha novant’anni: venti di meno.
Unico segno: le grandi efelidi dei vecchi. Gli occhi adesso
sono neri. S’inchina tre volte. Vorrei rispondere, ringraziare,
non faccio niente, arrossisco davanti a tutti, resto impalato,
immobile idiota.
Parla in giapponese, l’interprete traduce qua e là, tuttavia
capisco, poiché egli illustra le parole con l’esempio. Chiama
or questo or quel discepolo (fra i cinquanta silenziosi inginoc-
chiati alle pareti) e li invita sulla pedana. Dà un ordine e
quello gli si getta contro a tutta forza, secondo le regole del-
l’aikido, ma il maestro con un dito (sì, un dito novantenne) lo
arresta e lo proietta rotolante a cinque metri di distanza. Non
è credibile, certo, ma è vero.
Il prodigio si ripete tre, sei, dieci volte. I movimenti del
vecchio sono minimi, gesti floreali, senza impegno del musco-
lo, eppure quei giovanotti sono buttati via, a capriole, carte al
vento.
Poi chiama un mingherlino, lo invita a concentrarsi in
hara, il punto segreto sotto l’ombelico, il centro di gravità in-
teriore, il luogo donde si diparte la potenza. Il mingherlino
chiude gli occhi per un lungo minuto, poi li riapre e fa un cen-
no: è pronto, stende il braccio. Invano tre, cinque forzuti gli
s’aggrappano: il braccio non si piega, divenuto d’acciaio.
Un altro mingherlino, alla stessa maniera, si radica in ter-
ra e in quattro non riescono a smuoverne il corpo, divenuto di
piombo.
Infine il vecchio fa armare gli avversari con grossi basto-
ni, mentre egli impugna una matita. I fendenti non lo colgo-
no: la matita ferma dolcemente il colpo e l’attaccante, toccato
da una scarica (invisibile, incredibile eppure evidente), rotola

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lontano. Quale potere ha quest’uomo e come ne fa dono ai
suoi discepoli?
Ha finito. Mi guarda: grandi occhi luminosi, nuovamente
turchini. S’inchina e se ne va, lasciandomi una verità essen-
ziale: anche la forza fisica ci viene dall’uomo interiore.
Me ne esco. Non piove più: d’improvviso su Tokyo splen-
de il sole.

Poi precipitosamente a Bangkok per la terza volta, al nuo-


vo richiamo di Nala: «Fissato incontro con maestra Poo». Lo
stesso telegramma che già m’aveva strappato a Hong Kong
ha avuto il potere di strapparmi a Tokyo.
All’aeroporto di Bangkok, Nala m’attendeva. Stava die-
tro le transenne, oltre i banchi dei passaporti, dei visti, delle
dogane. La scorsi da lontano e alzai il braccio a salutarla,
impetuosamente, il cuore in festa, dimentico delle dispute,
della sparizione, dell’amarezza.
Mentre passavo di controllo in controllo, andavo conside-
rando il mio viaggio e il mio destino. Non abbiamo un desti-
no, ne abbiamo molti, ascendenti. Il mio corpo ha un destino,
fin dalla nascita: forse aveva in destino una lunga vita. Ma è
stato reso cagionevole dall’animo, che ho facile all’eccita-
mento e alla desolazione, l’animo che può ammalare il corpo,
l’animo che ha anch’esso una propria sorte, originata dagli
impulsi e dagli esempi: l’animo ha abbreviato la vita del mio
corpo. Entrambi si son fatti spesso guidare dalla mente, che
aveva incontrato certe idee e ha cercato di praticarle, mutan-
do così i casi dell’animo e del corpo. Infine su di tutto sta la
sorte dello spirito, in me oscurato da pensieri e impulsi, in al-

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tri apparso luminoso a sovvertire i destini stabiliti e a indicare
il nuovo.
Nel precipitarmi a Bangkok, mi sono arreso al moto del-
l’animo. Il corpo segue, la mente osserva, lo spirito tace, Ar-
cangelo.
Bella Nala da vicino: un po’ dimagrita, velata di malinco-
nia.
- Dove siete stata?
- Al convento di Poo. Non riuscivo a staccarmene.
- Come mai tanto irritata con me?
- Mi stizziva sapervi venuto dall’Europa alla ricerca della
nostra saggezza, mentre io ero alla ricerca della vostra follia.
- E adesso?
- Domani ci aspetta maestra Poo.
Ci avviamo all’uscita, tra la folla, tenendoci per mano.

Ciò accadeva la settimana scorsa. Poi siamo andati insie-


me al monastero femminile. Là sono avvenute poche cose.
Una vecchia che si spoglia. Poche cose, quasi niente. Eppu-
re non mi riesce di ordinarle in questi appunti. Sono le 3 di
notte, le ultime ore di Bangkok, prima dell’India. Nessuno ha
telefonato, nessuno telefonerà. Una vecchia che si spoglia.
Maestra Poo, monaca sdentata, già ambasciatrice, settanta
o ottant’anni, vecchio corpo curvo Sotto una leggera tunica
bianca, voce tremula, tremuli gesti. Le casette del monastero
stanno ai piedi della collina, vicino al mare.
- Maestra, un gran bonzo m’ha detto che, per capire, do-
vrei vedere il mondo come l’ha visto Buddha. Come l’ha vi-
sto?
Vecchio sguardo appannato:

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- Vuoto.
Giovani occhi di Nala bagnante, spiaggia assolata, il filo
della schiena scoperto sino alle fossette dei reni.
Come vuoto? Il mondo è pieno di cose. La natura ha or-
rore del vuoto. Guardiamoci in giro: il mondo è pieno. Mae-
stra, siamo qui, davanti alla vostra casetta, passa un carro...
- Non c’è carro. Togli le ruote, togli le stanghe, non vedi
che si disfa? Pezzi, non carro. Il carro è soltanto nella tua
testa.
- Nella mia testa? Allora sono l’inventore della ruota...
- Non c’è ruota. Togli il cerchio, togli i raggi, non vedi
che si disfa? Pezzi, non ruota. La ruota è soltanto nella tua
testa.
Togli i pezzi, non vedi che si disfa? Vi ho pensato per un
giorno. Poi mi sono detto: è una vecchia matta. E la casa
dove abita, dove dorme?
- Non c’è casa. Togli il tetto, togli i muri, non vedi che si
disfa? Pezzi, non casa. La casa è soltanto nella tua testa.
Risata di Nala, allegra oggi, mentre passeggiamo sulla
collina, tutte le gradazioni del verde.
Togli i pezzi non vedi che si disfa? Vi ho pensato per un
altro giorno. Poi mi sono detto: è una vecchia matta. Però
non ne ero più tanto sicuro.
- Maestra, davvero vedete tutto vuoto?
- Anche tu, quando guardi il castello che ti appare fra le
nubi e già si disfa. Anche tu, quando ricordi dieci anni fa,
gente cose eventi. Dove sono? Disfatti. Così, fra dieci anni,
l’oggi.
Togli i pezzi, non vedi che si disfa? Vi ho pensato per un
altro giorno. Passati dieci anni, i pezzi si son tolti e tutto s’è
disfatto. Poi mi sono detto: è una vecchia matta. Se togli tut-
ti i pezzi, a cosa arrivi?

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- Maestra, allora cosa siamo?
- Bolle d’aria sul fiume, vuote.
Nala distesa sulla rena, in posa dolce di sonno, vera, non è
vuota. La lascio addormentata e torno da Poo.
- Maestra, Nala non è vuota.
Mi fissa col suo sguardo appannato. Per un po’ tace, poi
le sue mani tremule aprono lentamente la tunica bianca, sotto
la quale è nuda: pelli flaccide, ex seno, ventre pendulo, cosce
ulcerate, carni vizze, polpacci varicosi.
Sorride al mio orrore, sdentata, eppure misericordiosa, of-
fertasi oltre il pudore come esempio:
Poo s’è disfatta, Nala si disfa.
Scappo. Tornato alla spiaggia, inorridito, Nala mi viene
incontro, ridente. Nella sua bocca vedo i denti cadere, ad uno
ad uno. Pelli flaccide invadono il suo seno, le sue gambe si
coprono di varici. L’orrore si dilata alla sua giovinezza.
- Stai male?
- Nala, me ne debbo andare.
Nel lasciarla:
- Se torni a Bangkok, telefonami, ti prego.
- Si, certo, se torno.
Sono le 3,30 del mattino. Il tassì è pronto. Nessuno ha
telefonato.
Oscuri gli appunti sul lontano Oriente, come oscuro il mio
animo. Buddha non mi ha voluto, come non mi ha voluto Al-
lah.
M’aspetta l’India, immensa. V’è sempre un vento che mi
porta via. Dove andrò? Una voce improvvisa (l’Arcangelo?)
mormora nell’orecchio:
Benares.

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