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Ezio Tarantino. Segreti di famiglia. prima parte. capitolo uno. "E questo tutto", disse Paolo.

. La mezzanotte era passata da poco. Si vers ancora un po' di brandy, Stock 84, non c'era altro in casa, a parte il Fernet. Il portacenere era colmo di sigarette di diversa lunghezza, accartocciate. Ora che aveva finito di raccontare (molto pi di quanto non avesse previsto, molti pi dettagli) non sarebbe stato facile giudicare se la sua lunga confessione fosse stata ispirata da un desiderio di vendetta, oppure se avesse voluto semplicemente sgravarsi dal peso di un segreto e ora misurasse come un evaso gli spazi larghi riconquistati anzitempo della libert. Luisa, che lo aveva ascoltato in silenzio, quasi senza interromperlo, senza fare domande, non lo poteva stabilire. Le sembrava che le avesse voluto affidare un pacco importante alla vigilia di un viaggio pericoloso. I bambini erano a letto, si erano addormentati improvvisamente dopo l'euforia provocata dalla visita non prevista dello zio, che neppure questa volta s'era scordato di portare giocattoli nuovi e motti da scout che i gemelli poi ripetevano nelle loro simulate avventure ("passi lunghi, ben distesi e seguire le curve"). Il maschio era crollato per primo, la sorellina lo aveva imitato subito dopo, sudata, con i capelli neri appiccicati sul collo, dopo aver ballato sulle reti del letto cantando a squarciagola, mentre a voce bassa Paolo, nel soggiorno, smantellava tutte le certezze di Luisa riguardo Antonio, rovistando senza pudore nella loro complicit, sporcando la loro reciproca fiducia lasciandovi sparse le impronte di un veleno che, pur non essendo abbastanza potente da far cessare l'amore, lo era a sufficienza da radicarvi la linfa amara di una maturit nuova: da quel momento Luisa sarebbe stata costretta a chiudere per sempre l'et della passione ingenua per aprire gli occhi su una realt diversa. Ne fu consapevole da subito: con la stessa prontezza di riflessi conosciuta nelle donne che in un attimo sanno che un uomo sar il loro uomo, per tutta al vita, quella sera stessa, ancora mentre Paolo parlava, Luisa ebbe chiaro che a partire da allora sarebbe dovuta diventare una donna indulgente e comprensiva che conoscendo le debolezze del marito dovr saperle circoscrivere per attenuarne gli effetti, sacrificando la sua felicit sull'altare dell'unit della famiglia. Era il giugno del 1964. Luisa se lo ricorda bene: ha riportato tutto su un quaderno che and a comprare la mattina seguente, uno di quelli dalla copertina rigida in carta fiorentina e le pagine completamente bianche, perch lei aveva una scrittura lineare e ordinata, sin da bambina. "Non so perch mi abbia raccontato tutto questo", annot fra le prime righe Luisa, "non so nemmeno se tutto quello che mi ha detto sia la verit. E' necessario che io ora possa avere il suo racconto fra le mani: forse proprio per convincermi che non lo sia." Non era certo per rivelare aspetti oscuri della vita di suo fratello che Paolo aveva salito quella sera le scale del loro appartamento. M quando si trov davanti non Antonio come si augurava, ma Luisa (con cui aveva pochissima confidenza) come un attore disilluso che svela la maschera prima ancora di salire sulla scena senza tuttavia rinunciare alla recita, a fianco delle motivazioni che lo avevano condotto l, trov all'improvviso inattese alleanze, che adott con furtivo stupore. Se non seppe respingerle fu perch quella casa stessa le concimava, dando loro nerbo e urgenza - le pareti di carta da parati giallo paglierino, le riproduzioni di quadri famosi e di fiori pi o meno rari, le fotografie dei gemelli dentro cornici d'argento lavorate, le loro canzoni sguaiate dalla camera accanto, il Fernet, lo Stock 84, il grembiule di Luisa, la sua bellezza domestica. Paolo aveva salito quelle scale dopo aver temuto di morire, o per maggiore precisione, di essere ucciso. Una cosa tanto pi assurda a ricordarla ora tra quelle pareti, nella calma penombra di lampadine di poche candele. Considerare

che fuori da quella porta scorreva tumultuosa una vita cos diversa da sembrargli adesso inverosimile e desiderare ora quella speciale protezione, quel calore che solo la vendetta familiare sa offrire, era una cosa sola. Probabilmente se fosse tornato gi in strada sottobraccio a Luisa, e i gemelli dietro, con un cono gelato in mano; se avesse cantato lui una ninnananna ai bambini, e avesse continuato a fare i complimenti a Luisa per i filetti di baccal; se avesse ripercorso tutta la sua vita alla ricerca di un punto da cui ripartire, sarebbe, forse, riuscito a salvarsi, a diventare invisibile come Antonio, a percepire la sua vita come un dolore leggero. Ma non poteva pi. Era come non gli fosse rimasto che assecondare l'impulso infantile di innestare nel perfetto congegno di quel matrimonio ordinato un meccanismo a tempo che presto o tardi l'avrebbe travolto. Fece questo con il candore e la coscienza leggera di colui che non ha scelta, ma solo un obbligo, e sa di avere agito senza predeterminazione. Antonio, come chi non ha rimorsi n conti da regolare, insomma niente da nascondere, non aveva mai ritenuto opportuno mettere a parte Luisa del suo passato partendo dall'inizio, e lei non aveva mai avuto motivo di sospettarlo reticente. Proprio quello che invece Paolo fece quella sera di giugno: chiudere arbitrariamente il libro della loro vita per riaprirlo alla prima pagina, impegnandosi quindi metodicamente a riferirne senza il conforto di alcuna emozione. Tutto filava, concatenandosi perfettamente; ogni episodio pareva trarsi da una sua causa come la mano dal guanto, tutto bollato e controfirmato da un testimone indifferente, la coda burocratica di un interrogatorio in istruttoria congelato in formulari d'occasione con cui il cancelliere si fa carico di assorbire le emozioni, normalizzando democraticamente ogni dialetto o inclinazione retorica. Quello che pi feriva Luisa (ed era di fatto l'unica eredit che a lei rimaneva di quel lungo racconto nel quale suo marito aveva avuto malgrado tutto una parte davvero marginale) era che Paolo con quella sua storia di paure, di morti e di tradimenti delle amicizie, delle donne, della patria, le aveva d'un tratto stravolto il senso del suo amore per Antonio, in pratica intimandole (perch alla fine aveva ragione di ogni possibile perplessit grazie al peso dell'evidenza dei fatti) di amare non Antonio come lei lo conosceva, ma un volgare verbale consuntivo; non pi l'Antonio di cui lei stimava proprio il suo modo gentile di nascondersi, di non intromettersi, di amare senza dire mai "io", trasparente e segreto. Di una inesorabile carta d'identit avrebbe dovuto d'ora in poi essere la sposa: un documento nitido, colpevole; di una sentenza, della confessione da cui ora Antonio non avrebbe potuto sottrarsi; che era come dire essere la sposa di uno scheletro, privo anche del diritto di riservarsi un margine all'insicurezza, alla paura e alla vergogna. Tuttavia Luisa era una donna concreta, e non si lasci travolgere dalla malinconia. Appena Paolo se ne fu andato, mentre faceva ordine nel soggiorno, portando i bicchieri in cucina, raccolse le idee e lasci che quello si allontanasse nel buio, che il suono della sua voce si estinguesse come il fuoco di un camino a fine serata, fino a che il silenzio della notte non la fece risultare il ricordo rarefatto di un'inverosimile conversazione avvenuta in treno con uno sconosciuto. Si fece avvolgere dalle mura della sua casa percependone uno spirito vivificante e benefico: tutto quello che la circondava era suo e di Antonio e il racconto di Paolo non vi trovava posto. Solo quando fu a letto e i riflessi della luce dei lampioni e dei fari delle auto disegnavano sul soffitto quelle forme che specie quando non c'era suo marito la conducevano a vagare verso pensieri sottili che in breve si sarebbero trasformati in sogni, la domanda che si portava dentro gi da qualche minuto e che era riuscita fino ad allora a respingere semplicemente ignorandola, le si present davanti inesorabile: "perch Paolo avrebbe dovuto inventarsi tutto?" Allung le gambe dalla parte fredda di Antonio e si sent sola. capitolo due "Antonio!" Il bambino si volt senza rispondere, era solo uno sguardo.

"Antonio, che fai? Vammi a riprendere il bucato, fammi questa cortesia." Antonio trascinando i piedi usc scostando con un gesto ampio la tenda ricamata che svolazzava pigra verso l'interno. "Su, vai!" ribad la zia Agata, che stava accanto a sua madre. Era ancora un bambino, un bambino di dieci anni che trascinava i piedi, ma ubbidiva alla madre. Erano pomeriggi cortissimi di luce inconsistente fra rami secchi e corsi d'acqua gelati, terra bruciata dal freddo, fumo dai camini. Una lieve stratificazione di vapori faceva da corona alle vette delle colline. Antonio aveva molto tempo libero, specialmente dopo che il professore era sparito e non aveva pi i compiti da fare. Stava sempre in giro, con le gambe arrossate e le ginocchia sporche, a giocare in silenzio, da solo. E quando si riposava si sedeva su uno degli sgabelli di marmo freddissimo piantati sghembi nel terreno intorno a un tavolino rotondo nel giardinetto davanti casa, dove ora stava ritirando il bucato appeso al filo teso tra un nespolo e un mandorlo. Era il suo gioco preferito, specialmente quando c'era la neve: ficcarsi sotto il tavolino, al riparo dal gelo e all'asciutto, era come esplorare una caverna misteriosa dov'era custodito il tesoro nascosto di cui si parlava nell'unico libro che suo fratello Paolo s'era portato da leggere, dalle pagine ormai unte e strappate, che anche lui sapeva a memoria; o una di quelle case di ghiaccio di cui non ricordava mai il nome dove abitano gli esquimesi. Nelle altre stagioni quel tavolo, molto meno divertente, se ne stava l come un qualunque giocattolo caduto in disgrazia. Erano andati a stare dalla zia Agata, in un posto di cui Antonio non avrebbe mai pi ricordato il nome, ma solo un viaggio lunghissimo: avevano preso anche il traghetto. Agata, una delle sorelle della madre, tanti anni prima aveva fatto lo stesso lungo cammino per seguire un uomo quasi sconosciuto, che era suo marito e che poco tempo dopo sarebbe partito per l'America, e forse era morto, comunque lei non lo aveva n visto, n amato, n ricordato pi ("se l' portato il mare", supponeva incredula - sorridendo con qualche precauzione, per via delle gengive prominenti di cui si vergognava - e con un gesto ampio sopra la testa minimizzava le conseguenze di quell'incertezza). Sua madre, Concetta, e la sorella Agata, Paolo se le ricorda come un'unica entit. Se ne stavano sempre vicine come due lampadine fioche, avendo sempre qualcosa da dirsi, consolandosi reciprocamente di preoccupazioni che pareva riguardassero loro soltanto, e che perci non potessero condividere con alcuno, anche se quella principale era sicuramente la guerra e quale disgrazia era meno privata di quella? Concetta era una donna logorata da un'attesa segreta per un futuro senza fame e dolori, dove sarebbe stato di nuovo possibile ritrovare gli affetti raggelati ora dalla paura e dall'incertezza, cos da poter tornare ad essere premurosa e sorridente, senza pi cupi pensieri, e poter di nuovo carezzare Antonio senza pi il senso di colpa di non avergli evitato tutto quel dolore; di nuovo disponibile a comprendere tutto, forse perfino la disperazione di suo marito. Antonio raccoglieva il bucato allungandosi sulla punta dei piedi: arrivava al filo, ma non all'estremit della molletta di legno, e allora doveva compensare con un saltino. Si volt, guardando verso la strada: suo fratello pi grande, Paolo, di sedici anni, sorreggeva distratto un uomo ubriaco, che tirando dalla sua parte cercava di allentare la presa. In silenzio venivano avanti, in direzione della casa. Paolo con la mano liberava la fronte dal ciuffo nero dei capelli. L'uomo ubriaco era suo padre, Michele Ribera; di lui nel paese nessuno sapeva cosa facesse, o cosa fosse in grado di fare. Veniva da Palermo per difendersi dalle bombe degli americani, come tanti, e fra le molte cose che aveva lasciato laggi c'era anche il suo lavoro e la sua dignit: di entrambe le cose speriment senza sforzo che si poteva fare a meno. Il suo pensiero era che la guerra non avesse tolto a tutti in ugual misura, ma che ci fosse qualcuno pi penalizzato di altri. Lui era uno di questi. Non sarebbe stato facile capire bene il perch, visto che le ragioni da cui questo dipendeva erano cos complesse e per larga misura

inspiegabili, o comunque a lui del tutto sconosciute, che era del tutto inutile tentare di contrastarle; pertanto la sola reazione possibile era quella di assumere un altrettanto imperscrutabile atteggiamento di eroica passivit. In verit il suo pensiero era molto pi sintetico, condensato nelle parole: "Non mi dovete scocciare" (Paolo rifer la frase in dialetto - Paolo usa il dialetto solo per citare frasi di suo padre - : "Un m'aviti a siddiare!"), senza aggiungere altro. Aveva perso casa, lavoro, amici: la stima della sua famiglia a quel punto era davvero l'ultima delle sue preoccupazioni. Di quel periodo, Paolo non ricordava invece n il sole polverizzato nel pulviscolo sottile del pomeriggio, n il filo di fumo costante e quieto che saliva dai camini, n le colline che la neve lasciava appena intravedere come fossero coperte da uno scialle traforato. Non aveva tutto questo tempo da perdere. Altro che guardarsi intorno e perdersi in ammirate esplorazioni della natura! Non che non gli sarebbe piaciuto. Solo che alle sette di ogni mattina un camion passava a prenderlo per portarlo nella fabbrica di un paese vicino, dove lo avevano preso come magazziniere. Gli sembra ancora di sentire nelle orecchie, dopo tanti anni, il muggito roco del clacson preannunciato dallo stridore di freni, che lo feriva ancora nel sonno pi profondo. E poi le impazienti accelerate a vuoto, e visto che di lui non c'era traccia, dopo un estremo, inutile colpo di clacson, la partenza faticosa, a causa della salita. Solo allora in genere Paolo apriva gli occhi. Si alzava, improvvisamente lucido e consapevole e si precipitava fuori, con i pantaloni slacciati che aveva tenuto indosso anche durante la notte, i capelli arruffati e i denti stretti, i muscoli del viso tirati in una smorfia provocata dal freddo, gi a capofitto per una discesa fra i campi in modo da tagliare la strada e montare infine di corsa sul camion che sopraggiungeva rallentando in prossimit di un crocevia. Questo tutte le mattine, escluse solo le domeniche. Il lavoro era duro, facile e noioso; i suoi compagni: gente di cui ha dimenticato nomi e volti, uomini dai polsi grossi, e le dita lo stesso (mentre lui era sempre stato sottile, "come una femminedda", secondo suo padre). Smontava alla cinque, alle sei era a casa, dove trovava sguardi bassi come per qualcosa che era successo, ma non era successo mai niente, era la guerra, anche se nessuno ne parlava, anche se nessuno osava pronunciare quella parola. Mentre Antonio non aveva sulla guerra alcuna opinione (in questo era come suo padre), Paolo invece un'opinione sua se l'era fatta, ed era che tanto valeva andarci, se l'alternativa era star l, a lavorare come un animale (proprio lui che a scuola faceva bene i temi e passava ore immerso nella lettura dei meravigliosi libri di avventure che gli passava complice il suo professore di italiano), affondando i denti in una patata bollita rosicchiando del pane raffermo nella pausa-pranzo, e verdure e uova e ancora patate e pane raffermo la sera a cena. Tanto valeva arruolarsi, essere fatto prigioniero, che differenza c'era, alzarsi che ancora notte, tornare che gi notte, e un padre ubriaco aggrappato al braccio oggi che domenica e Antonio, beato lui, se ne sta l a ritirare il bucato, con la purezza dei suoi dieci anni. Paolo sosteneva il passo di suo padre e con la mano scostava il ciuffo nero di capelli dalla fronte. Si sforzava di pensare che quell'uomo poteva essere un estraneo, uno qualunque. Doveva fare cos per non picchiarlo, per impedire a se stesso di rendersi conto che la sua vita veniva dissipata nel magazzino di una fabbrica a trasportare pesi insignificanti, lontano dalla battaglia, per mantenere le bevute di quell'uomo. Aveva la sensazione di trovarsi in una stanza chiusa, in silenzio e senza desideri. Al contatto fisico con suo padre non era pi abituato, era sgradevole. Alz lo sguardo e vide Antonio, cos piccolo. Si sent investito da una responsabilit che gli arrivava addosso come una donna che lo forzasse a perdere la verginit. Impar allora a sostituire la vergogna, il disprezzo o la paura degli obblighi indesiderati, con un gesto come quello di ravviarsi il ciuffo dei capelli, non pensando a niente e ostentarlo con sicurezza. Fu allora che decise di cominciare a concentrarsi in modo esclusivo sulla propria felicit. Sentiva il corpo di quell'uomo appoggiarsi a lui come si sarebbe appoggiato su chiunque. Questo lo aiutava a non pensare a niente: n a volergli bene, n a volergli male, pensava

solo che gli sarebbe piaciuto combattere in una terra lontana e sconosciuta, dare prova di coraggio. Paolo non sapeva niente della guerra. Michele, uomo di poche parole, che pure aveva partecipato alla prima guerra mondiale, non gliene aveva parlato mai. Quando veniva sollecitato dai suoi figli, o da altri su quell'argomento, meravigliato e infastidito che qualcuno potesse avere simili curiosit, non sapeva mai cosa dovesse rispondere. Cosa avrebbe dovuto raccontare? Gli unici ricordi erano il rumore delle granate, la sporcizia, il sapore di terra in bocca, il freddo, la noia, il silenzio delle notti. La paura di morire, certo. Che dire pi di questo? Tanto valeva starsene zitto: allora storceva la bocca in un sorriso sbieco ed emetteva un sospiro rauco, gli si annebbiava la mente e subito il ricordo non era che rumore e quel fumo che sempre avvolge i morti e i vivi quando si deciso di giocare la carta dell'ipocrisia della memoria come scusa per vivere. Anche per questo Michele Ribera non era tipo da girare con distintivi da reduce sull'occhiello della giacca: perch non gli piaceva ricordare. N altro distintivo: nessun distintivo (a questo proposito Paolo ricord a Luisa che suo padre naturalmente un lavoro ce l'aveva - Antonio non gliene aveva mai parlato , era falegname presso l'azienda dei telegrafi, ma con debolissime ragioni ne era stato licenziato). Ma non aveva proprio una opinione sua al riguardo. Cos era, e basta. Tanto che al paese dov'erano sfollati il solo che gli divenne amico fu il professore di italiano e storia di suo figlio Antonio, con cui condivideva lo stesso odio per gli americani, venuti a bombardare le loro case. Quello stesso professore che passava lunghi minuti in silenzio, in classe, il viso allungato dalla tristezza, con il collo perennemente avvolto in una sciarpa di lana grigia fatta dalla sorella e i pensieri in chiss quali meditazioni, andando su e gi, avanti e indietro per l'aula, senza aprire bocca, lo sguardo ora alto, sul soffitto, ora basso, sul pavimento, incurante dei suoi ragazzi, cui solo il freddo pungente impediva la messa in opera di giustificabili reazioni goliardiche. Quello stesso professore che un giorno non si present a scuola, e neppure il giorno successivo, e non si vide mai pi perch, si disse, era partito per Sal per difendere l'Italia. Quando lo venne a sapere, il padre di Antonio non fece alcun commento; al solito trascorse l'intera mattinata a spaccare legna, fermandosi a rimirare ogni ceppo: rapito quasi dal sogno di possibili metamorfosi, avrebbe detto chi avesse conosciuto il suo vecchio segreto mestiere; ma lui che sapeva solo tagliare pali per il telegrafo, lunghi e arrotondati, non aveva davvero certi pensieri per la testa. Non ne aveva mai avuti. "Pensando a lui mi viene in mente che ci sono uomini che non hanno mai visto il mare; altri che non hanno mai visto la neve o altri che non conoscono la campagna", disse Paolo a Luisa mentre due mosche incrociavano la rotta del volo davanti al suo sguardo. "Ma mio padre sembrava uno che non aveva mai visto niente, n il mare, n la neve delle montagne, niente." Aggiunse poco altro Paolo su quel periodo che per alcuni fu decisivo, per altri tragico e che invece per lui fu solamente un buco di tempo ammuffito dall'abitudine a cose che gli erano insopportabili. Luisa gli domand se si ricordava dell'episodio del ladro del maiale, che era l'unico che gli aveva raccontato Antonio di quegli anni, ma Paolo disse di no. (una notte si sentirono sparare due colpi di fucile. "E' la guerra!" pens Antonio svegliandosi e rimanendo immobile e sudato con le mani strette sul lembo del lenzuolo rimase in ascolto: voci, passi: "Fermatelo!" Trov il coraggio che gli sembrava opportuno mostrare in certe occasioni e raggiunse la finestra immaginando le conseguenze di trovarsi al centro della battaglia. La apr. Era successo che nel cortile della casa di fronte alla loro un uomo aveva cercato di rubare un maiale, ma i colpi sparati dal padrone l'avevano raggiunto ad una gamba. Quell'uomo adesso era davanti ad Antonio, illuminato solo dalla luna. Non era la guerra: era molto peggio. Antonio non aveva mai visto un ladro, ma se l'era spesso immaginato, molto di pi di quanto non avesse mai fatto per la guerra. "Ladro" era per lui una parola orrenda, e misteriosa, non la pronunciava

mai, forse per paura di evocare uno spirito maligno, o semplicemente per buona educazione. I ladri erano esseri minacciosi come animali feroci, che per fortuna stanno solo nei libri, o negli ammonimenti di sua madre, e non s'incontrano mai. L'uomo intanto veniva giusto nella sua direzione, allora lui, che dormiva al piano terra, si sent gelare e si ritrasse, in modo per da poter continuare a vedere senza esser visto. Era vicinissimo: era un ladro, un vero ladro. Era come vedere il diavolo in persona, ma era cos simile ad un uomo normale! Non era mostruoso, ma vecchio e grasso. Era come se la tigre feroce avesse le sembianze di un innocuo gattino. Antonio respirava forte, ancora pi terrorizzato, come se quell'uomo stesse cercando proprio lui, e se l'avesse trovato era sicuro che sarebbe riuscito senza dubbio ad abbindolarlo per farsi aiutare nella fuga. Gli avrebbe fatto credere che loro due erano uguali, che un ladro e un bambino sono la stessa cosa, che anche lui era stato bambino, anche lui mangiava patate e cavoli, quando era fortunato, altrimenti niente, si saltava il pranzo e la cena; che anche lui aveva un figlio che un giorno avrebbe fatto anche lui il ladro Antonio non aveva dubbi che quelle dei ladri erano stirpi che si tramandavano il lavoro di generazione in generazione. Lui non sapeva come si trattasse con i ladri, non si era mai posto il problema, convinto che non ne avrebbe mai incontrato mai uno. Segu gli ultimi passi zoppicanti di quell'uomo, ormai lontano, definitivamente inoffensivo, con la bocca spalancata. Si fece pure un rapido, tardivo segno di croce, che termin baciandosi la mano, come vedeva fare alla zia Agata: si sent grande. Tornando a letto si stup di non aver sentito per niente il bisogno di una protezione, di non aver pensato neanche per un momento a sua madre o a suo padre, di essere stato solo e coraggioso. Si sentiva lo stomaco in subbuglio, appesantito da un segreto che non avrebbe potuto rivelare perch, come succede a chi ha delle apparizioni, non sarebbe certo stato creduto. I suoi sensi, che fino ad allora erano stati cos innaturalmente attivi e vigili si ritirarono alla spicciolata, come una pattuglia reduce da un'imboscata notturna: e si addorment) No, Paolo non ricordava quell'episodio, e non capiva perch Antonio gli avesse dato importanza. "Perch effettivamente poi non ha mai pi visto un ladro in tutta la sua vita!" disse Luisa, ridendo sollevata dalla fatica di quel racconto di cui via via anche lei aveva compreso la scarsa importanza, e che aveva preso sicuramente troppo per le lunghe, tanto che Paolo a un certo punto aveva anche guardato l'orologio, e lei era arrossita. Paolo non fece alcun commento: aveva fretta di arrivare alla conclusione, e per fare questo doveva saltare altri due anni di sveglie alle sei, di patate e cavoli e di suo padre ubriaco e di sua madre con la sorella Agata. Aggiunse solo che era esausto, e che avrebbe accettato tutto pur di farla finita con quella vita insulsa. Sognava il mare della sua citt, sognava di arrivarvi a bordo di un aereo e buttarsi gi appeso col paracadute. Avevano una radio e sapevano che l'Italia era divisa in due, che a Palermo la guerra era praticamente finita da due anni. Che idea venire fin quass, a fare il magazziniere, a casa della zia Agata! E in pi in tutto quel tempo non avevano sentito nemmeno il suono lontano di una bomba, non avevano visto neanche un soldato tedesco, di cui non conosceva neppure la divisa, se non fosse stato per qualche cinegiornale. Quel posto pareva essere stato dimenticato dal resto del mondo. Bene, come Dio volle, due anni erano passati e la radio annunci la sconfitta definitiva, o la vittoria, dipendeva dai punti di vista. Il pomeriggio del venticinque aprile del 1945 Paolo era sul camion che lo riportava a casa alla fine dell'ennesima giornata di lavoro. Dormiva. Quello che gli stava seduto accanto lo scosse, per svegliarlo. "Guarda, guarda l!" Il camion stava rallentando. Erano gi arrivati? Aveva dormito cos tanto? In realt stavano appena per attraversare il paese pi vicino alla fabbrica, ma una folla festante, fatta di donne e anziani che si abbracciavano abbastanza compostamente come alla fine di una festa di nozze, non gli permetteva di proseguire.

Si fece largo a colpi di clacson. Dalla sua posizione Paolo riusciva a intravedere solamente il braccio dell'autista sporgersi dal finestrino e stringere le mani di quella gente. Al margine del gruppo pi folto, bambini ignari giocavano a rincorrersi, come forse facevano ogni giorno, ma con un maggiore inconsapevole entusiasmo, anche loro contagiati da quell'euforia generale che gli consentiva di essere come a carnevale, liberi di disobbedire impunemente a tutte le raccomandazioni. La folla dilagava maestosa come una nave che lascia il porto. Paolo ne aveva orrore e paura. Fu lo stesso in ogni paese che attraversarono, tanto che si stava facendo sera e Paolo, a causa della stanchezza, e di certe sue note convinzioni sulla guerra, non riusciva a condividere quella felicit, sebbene ad ogni paese incontrato fosse sempre peggio, la gente fosse sempre di pi. Si sentivano spari di fucili e fisarmoniche che improvvisavano inaudite marcette rivoluzionarie, e campane liberate come uccelli che spiegano le ali per il primo volo. Anche Michele Ribera aveva a che fare con la folla, che lui riteneva ostile, ma che pi semplicemente lo ignorava, come suppergi era stato per tutti i tre anni di convivenza forzata. Era ancora abbastanza lucido, perch non aveva quasi bevuto e mescolato alla gente cercava di capire, faceva domande, ma nessuno gli rispondeva direttamente. Era la voce indistinta della folla a parlare: "La guerra finita!" "Siamo liberi!" Michele incalzava chi gli capitava sotto mano: "Come finita?" "E' finita, finita!" La folla non faceva ragionamenti e non si poneva tanti problemi. Michele si guardava intorno: ma da dove saltava fuori tutta quella gente che adesso straripava nella piazza del Municipio, da sotto i portici? Dove si erano tenuti nascosti? Arrivavano a gruppi, correndo, brandendo per il collo fiaschi di vino rosso. Qualcuno inciampava e rideva di pi. C'erano anche le donne, pi discrete e imbarazzate, ma non meno contente (mancavano probabilmente solo Agata e Concetta). Anche il prete. "Liberi! Siamo liberi!" urlava sarcastico. Si faceva largo fra le persone che spingendosi a vicenda barcollavano come avessero persero l'equilibrio per un'improvvisa burrasca. "Ci hanno bombardato la casa! Ci hanno ammazzati a tutti! Che libert? Che libert?!" si sgolava Michele, e andava avanti, deciso a raggiungere un tale che stringeva in mano la bandiera italiana. "Assassino! Quello un assassino!" Nessuno capiva a chi o a che cosa si riferisse. La voce gli si spezzava in gola, sospinto dal flusso della folla. Non sent il suono del clacson, perch uno gli grid nell'orecchio: "Viva gli americani!" Michele lo guard con lo sguardo feroce, barcollando. Urla scomposte, non pi parole o slogan. Il clacson di nuovo, ritmico, festoso e con le mani gli facevano l'eco. Michele vide in terra un bastone, l'asta di una bandiera. Il camion sband, forse l'autista appoggi pesantemente il piede sull'acceleratore, forse sterz perch si era distratto, forse una macchia d'olio. "Scostatevi!" disse una voce, "attenzione!" Michele, chino per raccogliere il bastone, invisibile a chi era alla guida, non si accorse di nulla, e fu toccato alla schiena, spinto a terra, ma non con violenza, cos almeno gli parve; poi dovette essere inavvertitamente calpestato da qualcuno che correva. Sent una fitta tremenda alla schiena e alle gambe. Passata la festa il piccolo paese ritorn al suo consueto spettrale silenzio. Passarono le stagioni e torn la neve. Il giardino della casa di Agata, il nespolo e il mandorlo, il tavolino e gli sgabelli di marmo piantati nel terreno rimasero inerti sotto il manto bianco che da soffice presto indur in un unico cristallo di ghiaccio dagli spigoli arrotondati. La neve e il silenzio di quel primo inverno senza la guerra, rendevano vivo quell'innaturale stato di abbandono. Erano tornati a casa: tutti, anche Agata. Ci sarebbe stato bisogno anche di lei. I ragazzi ancora giovani, chiss se avrebbero trovato un lavoro. Michele sulla sedia a rotelle.

"Ma tuo padre non ha denunciato nessuno? poteva chiedere un risarcimento" disse Luisa. "A chi? ", le rispose Paolo. "Mi ero messo a guidarlo io il camion. Era tardi, mi stavo annoiando e almeno volevo divertirmi. Non l'avevo mai detto a nessuno." capitolo tre Tornarono a Palermo che la guerra era davvero finita, era gi nei film e basta. La citt era stata squassata dai bombardamenti, ma non la casa di via Porta di Castro, vicino al mercato di Ballar, rimasta al suo posto, intatta, ignorata dalle bombe e dai vandali, rimasta perfettamente cos come l'avevano lasciata, con i materassi rialzati, le poltrone protette da vecchi lenzuoli, e forse pure le briciole sul tavolo della cucina. Michele, nel suo stile non fece alcun commento, e ad appellarsi alla provvidenza non ci pensava neppure. Mostr accidentalmente solo un segreto stupore che tuttavia non spostava il cuore del problema: gli americani era meglio che se ne stavano a casa loro, che tanto prima o dopo Mussolini cadeva da solo. E magari rimaneva anche il re: che figura gli avevano fatto fare! Questo lo faceva ridere, ma non era sufficiente a farlo schierare con i repubblicani, perch questa repubblica non aveva capito bene che cosa fosse, e perci ne diffidava. Non gli aveva neanche ridato il suo posto di falegname all'azienda dei telegrafi, e questo forse, date le sue condizioni, lo capiva, ma nemmeno una pensione. "Sono tutti uguali" disse Michele e di politica da quel momento non parl pi. Il ritorno a casa non fu come se l'erano immaginato. La palazzina era in piedi, va bene, ma tutto il resto? Col passare dei giorni risultava sempre pi evidente che non erano passati tre anni da quando se n'erano andati, ma tre secoli, e ora non erano che stranieri in una terra sconosciuta. Per di pi il fatto che la guerra a Palermo fosse praticamente finita qualche mese dopo la loro fuga, mentre per loro lo era solo da pochi giorni, marcava una differenza abissale tra loro e il resto della gente, i loro vicini di casa, le donne che Concetta incontrava al mercato: prostrate da una diversa disperazione, meno attuale, pi duratura. Erano reduci da un mondo in cui il tempo veniva conteggiato in un modo diverso, dove avevano imparato una lingua nuova e dimenticata la loro. Erano guardati non con disprezzo, ma con una muta diffidenza. Questa citt esausta, sventrata e offesa, che stava gi cercando di dimenticare il sangue sparso, le sirene degli allarmi, i carretti che trasportavano i morti dell'ultimo bombardamento, la fame, non li riconosceva, e loro non riconoscevano lei. Antonio fu il solo ad adattarsi velocemente, costruendosi senza lamentarsi e senza fare paragoni col passato, un suo mondo tranquillo e accogliente. Ricominci la scuola dalla quinta elementare, anche se aveva tredici anni, e tanto in classe non era nemmeno il pi grande (ma di questo, successivamente, si sarebbe vergognato, e se poteva non parlarne era meglio, e infatti Luisa questo lo sentiva ora per la prima volta). Paolo invece sentiva Palermo opprimente come una punizione, la giusta condanna per la loro vigliaccheria, e per non essere riuscito, lui, ad approfittare della guerra, come avevano fatto in tanti, per diventare un uomo. Era quello che si meritava: era scappato, si era salvato, alcuni dei suoi amici invece erano partiti senza pi fare ritorno, le loro case erano franate, risucchiate dentro voragini aperte nel ventre della citt. Sentiva che gli stavano presentando il conto. Ma poich questo dolore conteneva in s anche la medicina per essere curato (erano pur sempre tornati a casa, l dove erano nati, dove avevano i loro morti) era destinato a non durare a lungo. Lentamente tutto torn come prima, e dopo sei mesi avevano senza accorgersene ripreso a muoversi e pensare allo stesso ritmo dei loro concittadini, e Paolo piano piano scopr che la sua citt non era affatto vendicativa e ostile, ma luminosa e tollerante, disincantata, brusca ma solidale, unita, con le notti troppo calde, ma dolce, insaporita dall'odore del mare, traversata da venti umidi che facevano compagnia; la sua gente non era

presa dall'assillo di ricostruire, di ricominciare, ma invece, vinta da una guerra infinita che si portava dentro, tirava avanti dando importanza solo alle cose semplici e vere quali l'amicizia, i rapporti di parentela, il rispetto: cose antiche che possedevano tutti nella stessa misura e che perci mettevano tutti su uno stesso piano, facendo s che nei rapporti fra le persone veniva naturale privilegiare pi quello che le faceva simili che non quello che le divideva, e nessuno cercava di imbrogliare il vicino; in questo modo anche la povert non sembrava essere vissuta come un dramma, ma condivisa come un bene comune. Tutte queste belle considerazioni tuttavia non impedivano a Paolo di passare gran parte del suo tempo a guardare gli altri e indovinare di loro tutto il male possibile. Era il suo passatempo silenzioso, un vizio inesorabile, forse solo il frutto della giovent e dell'impazienza (e poi sono passati quindici anni, e un conto la memoria, un conto il trascorrere monotono e pigro di quei giorni, quando tutto era diverso). Perci se da un lato si sentiva parte di una citt buona, da un altro non riusciva a non pensare che, presi singolarmente, i pezzetti di quell'insieme informe erano individui che all'occasione avrebbero sicuramente cercato in qualche modo di fargli del male, di fargli pesare le sue colpe, di non accettarlo: era una coalizione di uomini virtuosi e prodighi di sentimenti generosi che si concedevano quest'unico peccato veniale, quello di aver scelto lui come valvola di sfogo della loro residua malvagit. Per questo tipo di considerazioni aveva senz'altro preso da suo padre. Paolo non aveva voglia di studiare, n di lavorare, n di stare a casa a non far niente tutto il giorno. Se avesse potuto considerarle entit dotate di un peso e di un'estensione nello spazio, avrebbe potuto facilmente raccogliere le sue giornate in qualche piccolo contenitore insieme alle cose di poco conto che si conservano per scaramanzia, ma che alla fine sono tutto quello che si ha. E nemmeno aveva voglia di andare a perdere il tempo al circolo sotto casa a giocare al biliardo, ma in mancanza di meglio era proprio quello che andava a fare, pur di non avere a che fare con suo padre, sua madre e la zia Agata: cio con quella che nessuno di loro definiva pi da tanto tempo una famiglia. Almeno durante la guerra c'era un ritmo quotidiano che batteva il loro tempo secondo una scansione costante in cui ognuno di loro aveva un ruolo. Il lavoro di Paolo, Michele al bar sotto i portici, Antonio a scuola. La cena, povera e ripetitiva, ma sicura. Adesso invece lui cercava di esserci il meno possibile, e di non sapere cosa succedesse in sua assenza, chi accompagnasse Michele al bar spingendo la carrozzina, chi lo andasse a riprendere. Cosa facesse Antonio, se cresceva, se aveva degli amici, come andava a scuola. Cosa pensasse sua madre, se ancora avesse qualcosa da dirsi con suo marito, in quelle loro conversazioni meramente informative, smozzicate come i loro diminuitivi senza affetto: Miche', Conce'. E tuttavia, fra tali macerie, ancora accadeva che Paolo venisse fatto oggetto di aspettative, come se malgrado tutto su di lui gravasse l'opprimente incombenza della testarda fiducia a un giuramento. Questo non lo inorgogliva, n lo responsabilizzava. Al contrario: si sentiva perseguitato e lo faceva automaticamente mettere in competizione con Antonio (una competizione alla rovescia). Ma insomma, perch da lui si attendevano tutto, pretendevano risultati, quando invece ad Antonio tutto era concesso? Non c'entrava l'et. O almeno c'entrava, ma non nel senso che Antonio godesse dei privilegi che spettano al fratello pi piccolo, e quindi fosse protetto e coccolato. Forse, in apparenza, poteva sembrare cos, ma la ragione, pensava Paolo, stava nel fatto che tutto quello che Antonio faceva o non faceva andava bene perch non importava a nessuno. Era ignorato, lasciato solo: avrebbe potuto perdersi, o lottare per affermarsi in qualsiasi campo, o diventare il capo del governo, era pi o meno la stessa cosa. Lui per questo lo invidiava: gli sembrava oggetto di uno strano privilegio: comunque un privilegio. Lui invece era sotto pressione, incalzato, su di lui contavano e su di lui si riponevano tutte le speranze, a lui spettava non tradire le attese della

famiglia. Per esempio Antonio usciva di casa, nel primo pomeriggio, non diceva dove andava, e nessuno glielo domandava, libero come un ospite, senza doveri. Appena Paolo si avvicinava alla porta sua madre lo guardava triste e scoraggiata, facendogli pesare l'amarezza dovuta alla constatazione che su di lui proprio non potevano contare. "Lagnuso come a tia un si n'hanno a vriri" gli diceva. O se voleva rincarare la dose: "Si' lagnuso come a tuo padre!" In questi casi la zia Agata invece si limitava a commentare con il suo abituale gesto della mano infastidito e impaziente: "La lagnusia!." e non aggiungendo altro era come scolpire una lapide, incastrando Paolo sopra a una didascalia, arrendendosi (dopo "averle provate tutte") di fronte a una forza contro cui non esisteva rimedio. Era assolutamente vero. Paolo era diventato un lagnuso autentico e anzi, pure troppo faceva! La lagnusia, spieg a Luisa che lo interrogava con un sorriso, una malattia del sangue simile alla pigrizia, all'indolenza, all'accidia, insomma un misto di tutte e tre. Il lagnuso non uno che non avendo voglia di fare niente poi veramente non lo fa. Solo, ha bisogno di qualcuno capace di costringerlo, facendogli il favore di rimuovergli gli ostacoli invisibili che gli impediscono di agire. Non il movimento il suo nemico, ma la decisione. Talvolta il lagnuso lascia trasparire un interesse, o un'ombra, una memoria di interesse, una possibilit di redenzione, uno sgravio momentaneo dal peso della vita, per lui insostenibile. E' molto raro che tale occupazione abbia una sua utilit generale, ma pu succedere. Pi facilmente per essa fa parte della sfera pi intima e inaccessibile, spieg ancora Paolo infervorandosi. E questa attivit segreta, questa coltivazione canicolare spesso l'unica inquilina degli spazi dello spirito, dove risiede il principio della fondazione dell'anima, la sua ragione e il fine. Fece un'espressione visibilmente soddisfatta. Non vedeva come non si potesse condividere quello che aveva detto. C'era poco da ridere. Erano cose serie! Purtroppo il mondo sottovaluta la funzione del lagnuso nell'economia del progresso della umanit, come capita per i sognatori, o per quelli che sono convinti dell'esistenza dei marziani. Ma Luisa sorrideva solo perch le venne in mente la frase di qualcuno, forse un filosofo greco: "I dormienti sono artefici e collaborano alla produzione di quanto accade nel mondo". E quindi: "Paolo, senza fare niente stai? avanti, scendi a comprare il ghiaccio, che cos almeno ti muovi". Ad Antonio no. perch Antonio non era un lagnuso: "Antonio, va', sta passando quello col ghiaccio, scendi un minuto, fa' la cortesia." Anche la zia Agata ci si metteva, e per esempio diceva ad Antonio che era stato bocciato, in seconda media: "E si capisce, figlio mio (Antonio non sopportava che la zia Agata lo chiamasse cos), anzi hai fatto assai!" E a Paolo: "Guarda, Paolo, che se tuo fratello stato bocciato anche colpa tua! Bell'esempio che gli dai! Sei tu che devi fare qualcosa per lui, tuo padre non pu niente, tu ci devi pensare!" "Zia, pure tu ti ci metti?" ("ah, solo io non posso parlare in questa casa?" diceva lei offesa asciugandosi gli occhi: piangeva cos spesso che non poteva essere vero, pensava Paolo) mentre le andava voltando le spalle. "Ma che volete da me, si pu sapere? che, non ci penso a mio fratello? L'ho aiutato a fare i temi." "Ma quando mai?!" protestava Antonio soverchiando con la sua voce infantile quella del fratello senza per riuscire a fermarlo. "Sempre appresso ci sono stato! Me lo sono portato a Mondello, pure al cinema! Che, figlio mio ? non ho capito! Quando fu?. avanti, d che non vero. Era un film comico. A una scena di torte in faccia si mise a piangere!" continu Paolo ancora incredulo. "Disse che gli parevanopiatusi . Allora me lo sono portato a un western: stessa cosa.Mizzica , appena uno cadeva da cavallo si metteva a piangere! Cominci all'inizio e smise dopo la parola fine! E al cinema non me lo sono portato pi. Si pigliasse il diploma e si trovasse un lavoro pure lui!" "E tu? il lavoro?" Gli domand la madre. "Lavoro non ce n'!" rispose lui esagitato e persuasivo. "Lavoro non ce n' per chi non vuole lavorare."

"Ah, io non voglio lavorare? E chi ha lavorato quando c'era la guerra? Antonio ha lavorato? Pap ha lavorato?" "Cercati un lavoro. La guerra finita." "Mi debbo prendere almeno la patente." "E prenditi la patente!" "Ci voglionopccioli !" "E dopo?" "Intanto ci ho la patente." "Minchia!" comment Antonio con insospettabile sarcasmo. La zia Agata si segn piena di plateale stupore: "Padre Figlio e Spirito Santo!" declam sconcertata. Paolo insomma si era semplicemente convinto che una volta che era finita la guerra, una parentesi ormai chiusa per sempre, non dovesse toccare pi a lui mantenere la famiglia, e finalmente poteva pensare solo a se stesso. Tornare a Palermo significava chiudere col passato e ricominciare una nuova vita. Quante volte l'aveva sognato quel momento? Se voleva poteva pure partire per l'America, come il marito di zia Agata, o farsi brigante: erano solo affari suoi. O andare a Roma a fare l'attore. Comunque dimenticare quell'orrendo magazzino, quegli uomini grossi e sudati, maleodoranti, e suo padre ubriaco. Aveva diciotto anni e il futuro tutto davanti. Gi, ma intanto chi che lo doveva portare il mangiare a casa? Se non ci pensava lui, davvero come poteva pensare che avrebbero potuto fare? Ma lui a questo non solo non ci pensava, ma non ci voleva neanche pensare. Era arrivato finalmente il tempo in cui doveva concentrare i suoi sforzi solamente su se stesso. Per fortuna zia Agata sapeva cucire e faceva qualche lavoretto per le signore del quartiere, e in questo modo riuscivano a pagare i creditori e a mangiare quasi tutti i giorni. Curiosamente, l'abitudine di non parlare fra di loro fece s che anche, o specialmente, su questo argomento calasse il pi assoluto silenzio, che qualcuno poco informato avrebbe imputato a una superiore forma di dignitosa compostezza. Finch sua madre ritenne che Antonio continuasse a dimostrare meno degli anni che aveva, e con la sua magrezza avrebbe indotto chiunque a compassione, questi veniva mandato o dal prete della Casa Professa o da un fratello del padre che con loro, chiss per quale motivo, non parlava pi da anni, da prima della guerra, e si diceva che faceva il mercato nero. La mamma istruiva Antonio: "Devi essere gentile e premuroso, lo saluti, domandi come sta la zia, se gli serve qualcosa. Insomma, sono tuoi parenti e cos si fa coi parenti." Antonio andava, e poich non era stupido (e soprattutto non poteva spacciarsi pi per niente per un bambino) sapeva benissimo qual era lo scopo della sua visita di cortesia allo zio Filippo e allora, dopo aver provato una volta e aver trovato insulse e improduttive tutte quelle smancerie, appena arrivato traduceva a modo suo le istruzioni della madre: "Zio Filippo, ci avete qualcosa da darci da mangiare?" Allora lo zio Filippo, senza guardarlo negli occhi, perch con loro era bisticciato, gli dava due uova che aveva fatto una delle sue galline. Siccome Antonio sapeva che tanto la madre non l'avrebbe cotte quel giorno stesso, perch due uova per cinque persone erano poche, e aspettava uno o due giorni per averne abbastanza da fare almeno una frittata, qualche volta riteneva di non fare una cosa tanto grave se uno se lo fosse bevuto lui, ora che era fresco, bucandolo con uno degli spilli della zia Agata. In fin dei conti quello non era il loro pranzo, e non sarebbe stato per colpa sua se quel giorno avrebbero mangiato, tanto per cambiare, patate o verdura in un brodo insipido. Non stava rubando il mangiare dalla bocca di nessuno. Tutt'al pi cos facendo ritardava di un giorno o di due la preparazione della frittata, che a lui poi non piaceva nemmeno. Insomma, non era che un uovo, era pi la fatica di andarlo a prendere! Quando consegnava l'uovo superstite la mamma gli dava un bacio, e la sentiva

maledire, a bassa voce, con la zia Agata, quello spilorcio dello zio Filippo. Cos gli anni passavano, ma era come un girare di lancette, e ogni volta ricominciava tutto come prima. Antonio cresceva e ora era pure pi alto di Paolo. Studiava per prendersi il diploma: dopo quella volta non sarebbe stato pi bocciato; anzi aveva stabilito che sarebbe stato sempre il primo della classe: e cos fu. Paolo non aveva pi diciotto anni e il futuro andava veloce, e gli veniva incontro pi rapido di quanto non gli permettessero gli sforzi che faceva per cercare di raggiungerlo. Vent'anni, ventuno. Era un uomo, con una camicia bianca e una cravatta scura perch non si vedessero le macchie. Era una freccia senza bersaglio, e non sapeva cercarsene uno. A ventidue anni aveva un lavoro al porto in un ufficio di spedizioni (aveva evitato le mansioni pi faticose perch sapeva leggere e scrivere). Cos si arriv al 1950 e stranamente si sent meglio. Non perch fra l'alba del nuovo anno e il tramonto di quello vecchio si potessero apprezzare delle differenze. Forse era proprio per via del numero, il cinquanta, che gli faceva un'istintiva simpatia, completo e rotondo, sia nel suono che nell'aspetto: come entrare in un mattino di sole. Sar stato per questa o per altre ragioni, quella sensazione di leggerezza venne, all'inizio del 1950, legittimata dall'incontro che avrebbe cambiato stavolta radicalmente, e per sempre - la sua vita. Accadde nella bisca che ora frequentava sempre pi raramente, per sottrarsi alla fatica che ci voleva per fingere noncuranza e familiarit in quell'ambiente sordido e buio, da cui per ci teneva a non essere respinto. Cosa che invece accadeva facilmente a causa delle sue scarse risorse in ogni tipo di specialit del gioco del biliardo. Non si erano mai visti contemporaneamente due giocatori tanto scadenti in quella sala da gioco. Ne furono entrambi consapevoli e si sorrisero. Terminato l'incontro Paolo propose a quel ragazzo allampanato, dai capelli rossi impomatati e l'aria perbene, di andare a bere qualcosa fuori. Da quel giorno alla sala del biliardo fecero coppia fissa, dapprima irrisi, poi ignorati, sopportati come una macchia sul muro, che non si ha tempo e interesse a rimuovere. Come detto l'incontro con Nicola Spinnato, ("un certo Spinnato" dice ora che sono passati quasi quindici anni, a Luisa, come se per decenza debba prenderne le distanze; ma non si sarebbe espresso cos allora) fu di quelli che possono cambiare la vita di un uomo, e cos in effetti fu. Per cominciare, Spinnato (cos lo chiamavano, era Spinnato per tutti, anche per gli amici) che era orfano di madre e che grazie a dei soldi che questa gli aveva lasciato aveva vissuto in un collegio fino a quando non erano cominciati i bombardamenti, aveva potuto studiare fino a prendersi un diploma e farsi perfino venire la voglia di andare all'Universit. Fu lui, Spinnato, a mettere Paolo davanti a un fatto cos evidente quanto pericoloso, se quello l'aveva voluto rimuovere per cos tanto tempo: "Ma come?" gli diceva, "ti manca solo un anno? E che aspetti a prenderti il diploma? Ma lo sai in quanti cercano gente brava con il diploma? E poi serve per i concorsi.." "I concorsi!" sbuffava Paolo, "Non sono per gente come me i concorsi!" Ma Spinnato insisteva: "Prenditi il diploma, scemo!" Era vero: gli mancava solo un anno, ma com' che non ci aveva pensato prima? Il diploma serviva. Tra un po' anche Antonio se lo sarebbe preso. Andava bene a scuola, prima della guerra. Tutta colpa di suo padre, che un giorno, approfittando di una distrazione, gli aveva sfilato con l'inganno la vita a cui aveva diritto, la giovent, i traguardi da scalare uno alla volta, e gli aveva dato in mano una copia fasulla, piena di trabocchetti e false promesse: la maturit, un lavoro, la responsabilit della famiglia. Il diploma divenne il suo pensiero fisso. Nel silenzio della notte stentava a prendere sonno perch cercava di ricostruire faticosamente i ricordi di scuola completamente scoloriti, la paura delle interrogazioni, il clima sereno e appassionato, e le amicizie. Ad occhi aperti sognava come avrebbe potuto fare per recuperare il

tempo perduto. Sognava la sua vendetta su suo padre, e su Antonio. Un altro punto di merito di Spinnato, era che suo padre, stanco della vita da vedovo, s'era da poco fatto una donna, una cassiera di un cinema del centro. In questo modo (approfittando con furbizia del tentativo della donna di conquistare il suo affetto - cosa che a lui stava indifferente) poteva andare tutti i giorni al cinema senza pagare il biglietto. Siccome Spinnato voleva bene a Paolo, cominci subito a portarselo dietro con una immediata complicit che lasciava indovinare l'avventura futura di una lunga amicizia. Paolo, che gi trovava il cinema il passatempo pi piacevole, perch costava poco, gli permetteva di non pensare a niente e di starsene lontano sia da casa che dalla sala del biliardo, cominci a trascorrervi pomeriggi interi, rimanendo a vedere lo stesso film anche per tre volte di seguito, cosa che quando pagava regolarmente il biglietto non faceva mai, perch pensava fosse proibita. In breve divenne un esperto riconoscitore di divi americani e attricette italiane, di cui commentava con l'amico fattezze e presunte licenziosit dei costumi. Entrambi le preferivano a quelle straniere perch nei loro sguardi ingenui promettevano incontri probabili, e baci pi alla loro portata. Un altro merito di Spinnato era quello di abitare al piano sottostante una anziana insegnante di pianoforte. Spinnato non aveva alcun talento musicale e i suoi progressi esistevano solo nelle bugie pietose di quella donna quando mensilmente, in occasioni del pagamento della modesta retta, relazionava il padre dell'allievo sui "continui miglioramenti." Un pomeriggio Spinnato chiese a Paolo di accompagnarlo e la Maestra lo preg di "cimentarsi con lo strumento", giusto per saggiare qualche eventuale, "recondita inclinazione". Paolo, che a scuola aveva imparato a incatenare ruvidi accordi a sostegno di ritornelli sguaiati, si gett sulla tastiera con l'intento di scoraggiare qualsiasi aspettativa. "Niente di eccezionale", comment fredda e con ipocrita mortificazione la maestra, come se avesse ascoltato il risultato di anni di studi e di applicazioni, in realt lusingandolo poich risultava chiara la sua desolante mancanza di dimestichezza con lo strumento. Paolo ci rimase male: l'inesperienza delle cose del mondo gli imped di intuire le reali intenzioni della donna che, definendo la sua manovra di accerchiamento, gli domand: "Da quanto tempo studi?" "Da Io veramente studiavo qualche anno fa." "Dovresti applicarti di pi", sentenzi la signora, alludendo con una muta torsione del collo ad un futuro di cui lei avrebbe potuto farsi garante. Spinnato lo guard riempiendosi d'orgoglio. Mentre a prendere il diploma ci teneva, a suonare il pianoforte non ci pensava proprio. E poi i soldi chi glieli dava? Quello che guadagnava al porto bastava a stento a comprare da mangiare per la famiglia. Ma Spinnato non volle sentire ragioni. Un accordo fu presto raggiunto: da quel giorno Spinnato alle insopportabili lezioni non sarebbe pi andato da solo, ma in compagnia dell'amico, al quale cominci a concedere dapprima un quarto d'ora, poi mezz'ora, infine tre quarti d'ora di esercizi. Spinnato compr l'assenso e il silenzio della Maestra con enormi vassoi di paste di mandorla e cannoli, specialit per le quali la donna nutriva una passione pi forte dei divieti del medico, ma smorzata dalla volont di rispettarli (Spinnato ruppe questo delicato equilibrio senza alcuna fatica). Paolo era dotato, aveva orecchio, ma non aveva idea di cosa significasse studiare uno strumento. Per aveva mani sottili, con le dita lunghe, che sembravano fatte apposta per suonare il pianoforte, e impar presto a leggere la musica, a solfeggiare, infine a suonare sonatine di Mozart con lo stesso controllo critico di un bambino impegnato nel dettato in una lingua straniera. Ma fra tutte, la principale dote di Spinnato era suo padre, un rappresentante di vini che a bordo di un camioncino girava per i ristoranti della provincia di Palermo. Era conosciuto e stimato da tutti, e gli affari, specie dopo la guerra, andavano bene. Sapeva come distribuirsi le visite. Verso l'ora di pranzo capitava nei locali dove pi facilmente avrebbe spuntato un invito a mangiare un

boccone. Quando ebbe finita la scuola dell'obbligo, oppure in estate, il figlio lo accompagnava spesso. Per lui il padre sognava un futuro da avvocato, o da dottore, ma nel frattempo si imparava un mestiere. Presto Spinnato propose a Paolo che, se ne aveva voglia e tempo, avrebbe potuto accompagnarlo. Oppure, se aveva problemi con il lavoro, avrebbe potuto raggiungerli quando il padre doveva andare in qualche ristorante della citt. E cos fu. Era la fine di un'epoca: sparivano d'un colpo patate e cavoli bolliti, frittate e brodini insapori. Ma il sale di questo nuovo mangiare era che questo valeva per lui soltanto, e non per il resto della famiglia, al quale non disse mai nulla (questa era la prima volta che lo raccontava a qualcuno), e che abbandon senza rimorsi al suo sciapo destino. Quando andava a uno di quei saporitissimi appuntamenti era come se uscisse di casa gi sazio. La pietanza pi prelibata era quella soddisfazione, uscire assaporando, con la stessa volutt riservata agli avanzi del banchetto di un matrimonio a San Martino, quel segreto risarcimento. Spinnato era insomma un uomo pieno di qualit altrui, e questa era la sua vera qualit: Paolo aveva imparato presto a riconoscergliela. La sua compagnia era garanzia che qualcosa sarebbe successo. Se non per suo merito, certamente per suo tramite. Quale fosse la contropartita che bilanciava l'equilibrio della loro amicizia Paolo non lo seppe mai. Probabilmente l'amicizia stessa. Spinnato considerava Paolo il suo unico amico e anche se tutto quello che facevano insieme era in qualche modo merito suo, si considerava molto inferiore a lui da cui dipendeva come un discepolo fedele. Con chi altri, del resto, si era mai incontrato sotto la magnolia ai giardini Inglesi, o alla Marina, stringendosi la mano? Con chi si scambiava sigarette marciando lungo via Libert o in via Maqueda, in un trionfo di profumi e spavalderia, testimonianza baldanzosa di una forza elementare e inossidabile che supera qualunque ostacolo e che permetteva di ingaggiare duelli silenziosi a forza di sguardi con i ragazzi che incrociavano sul loro cammino per chi doveva cedere il passo, o abbassare lo sguardo, o avvicinare le ragazze pi carine? I vincitori intascavano soddisfatti la caparra del rispetto che in futuro avrebbero preteso come prezzo stabilito nel loro codice d'onore. Terminate le scuole, Spinnato aveva continuato a frequentare l'oratorio del collegio dove aveva vissuto e studiato per tanti anni. Lo faceva sempre di meno, specialmente da quando aveva conosciuto Paolo. L'Istituto da qualche mese aveva cominciato a pubblicare un giornalino per il quale anche Spinnato di tanto in tanto scriveva un articolo, in genere il commento ad un film che aveva visto. Era l'unica attivit della quale non aveva mai voluto fare partecipe l'amico. E fu proprio quella che a Paolo avrebbe cambiato la vita. Talvolta Paolo lo accompagnava, o andava a riprenderlo, per andare a fare un bagno a Sferracavallo, o all'Addaura. Conobbe i suoi amici: "conoscenze", si affrettava a correggere Spinnato, ma non gli sembrava sincero; probabilmente, pensava, era lo stesso che diceva di lui quando si trovava con loro, e perci ne diffidava, se ne teneva lontano: evitava di entrare, e se Spinnato era in loro compagnia, lo aspettava di fuori. Non gli piacevano perch parlavano troppo e tutti a voce troppo alta, e quando le loro conversazioni avevano per argomento film e attori rivelavano, aggravata dalla insopportabile presunzione, tutta la loro incompetenza. Facevano gruppo, si dividevano i modi di dire, erano ironici, andavano all'Universit. Si autodefinivano "i Migliori", e ne erano convinti al punto che anche quando le risorse della giovent s'andarono esaurendo, e al posto dei sogni si erano ritrovati tra le mani amarezze e disinganni, continuarono ostinatamente a mantenere viva la loro certezza, cos che tra granite di limone e di caff, bevande all'anice e cassate domenicali da Caflish, mogli, figli e un impiego alla Regione, si conservarono intatti per tutto il resto della loro vita. Una mattina calda e grigia, quasi di pioggia, Paolo and a prendere l'amico all'Istituto. Dopo averlo aspettato per oltre un quarto d'ora, meravigliato perch da che l'aveva conosciuto non era mai successo che non fosse arrivato in anticipo agli appuntamenti, ritenendo che qualcosa fosse successo, entr.

Facendosi leggero, invisibile, tenendo gli occhi bassi, il passo cauto e veloce, Paolo si orient fino alla stanza dove si preparava il giornale. Nessuno l'aveva visto, anzi, erano infuriati con lui perch avrebbe dovuto consegnare la recensione che andava in tipografia quel giorno stesso. "Di che film?" domand Paolo. Gli risposero. L'aveva visto? L'aveva visto. "Per quando vi serve?" "Tra cinque minuti non ci serve pi. Di, provaci. Se ci piace, bene, se no amici come prima. Avanti, sbrigati!" Paolo era bravo a scuola, nei temi, il professore glielo diceva sempre: il pi bravo che gli fosse capitato. Ma un articolo di giornale Non sapeva da dove cominciare. Una critica a un film lui forse non l'aveva mai nemmeno letta: in casa sua i giornali non entravano, perch cos aveva stabilito Michele una volta, prima della guerra, per chiss quale motivo, e cos era stato. Almeno fino a quando la zia Agata non ne cominci ad avere bisogno per farci i modelli dei vestiti che aveva preso a confezionare, aiutata da Concetta, con insospettabile abilit, utilizzando la stoffa dei vecchi abiti fuori moda. Quei ritagli a forma di corpetto, di mezze maniche, quelle sagome di gonne, e di mantelline furono per diverso tempo l'unica possibilit che ebbe Paolo di trovarsi un quotidiano fra le mani. Spesso erano vecchi di qualche giorno, qualche volta di mesi, eppure leggerli, presto divenne per lui quel passatempo segreto che riscatta dallalagnusia . Non chiedeva di meglio: soddisfaceva la curiosit e stimolava l'immaginazione. Certo, per quello che lo riguardava, la completezza delle notizie non dipendeva dall'onest professionale dei redattori, ma dalle dimensioni del giro-vita della portinaia, o della circonferenza-petto della moglie del macellaio. Cos toccava a lui terminare frasi che le forbici avevano tranciato a met, a lui spettava completare il racconto della rapina al treno per Agrigento, ricostruire gli eventi che avevano provocato la tragica fine del bandito che appariva feroce e spietato all'altezza della spalla, e docile agnellino fra le mani dei Carabinieri, sotto la tasca. Piano piano gli venne naturale pensare nello stesso stile usato dal cronista. Pi tardi cominci a scrivere sui margini del giornale le sue aggiunte, e divenne cos esigente con se stesso che faceva e rifaceva fino a quando alla lettura a voce alta non risultassero pi differenze fra la sua prosa e quella del giornalista. L'articolo piacque, e dopo qualche giorno gliene chiesero un altro. Spinnato, che aveva momentaneamente accantonato la carriera universitaria, era sempre fuori con il padre, e non aveva pi molto tempo n per Paolo n per il giornale. Paolo cominci poco a poco ad uscire con gli amici dell'Istituto, e pur mantenendo nei loro confronti la stessa freddezza di prima, quando capitava che loro parlassero male di Spinnato (e capitava abbastanza spesso) lui non ne prendeva le difese. Con lui continuava a vedersi, ma sempre pi raramente. Ci furono altre passeggiate, sogni di ragazze viste davanti alle scuole, e invitate senza successo a ballare, sigarette divise il sabato pomeriggio su via Libert e incursioni temerarie nei bar del porto. Appena libero, Paolo lo raggiungeva al ristorante concordato per scroccare il pranzo. Ma era come se la loro amicizia avesse d'un tratto doppiato il Capo Horn della sua navigazione, fossero cambiati i venti, ma solo uno di loro se ne fosse accorto, regolando di conseguenza la rotta. Il loro sodalizio non aveva pi un obiettivo in comune, e presto dovettero prenderne atto. Per un po' andarono avanti d'inerzia, ma erano finiti ormai senza rimedio in quella fase dei rapporti umani in cui nello stesso istante una parola sembra essere ancora il frutto della semina lontana, ma un'azione gi annuncia il gelo invernale. Smisero cos una dopo l'altra le cose che facevano insieme: andare a lezione di pianoforte, al cinema, al mare, da Giannettino in piazza Politeama a mangiare pane e panelle, passeggiare fumando su via Libert. Questa, che per Spinnato era

la pi importante, fu l'ultima. In quel periodo Paolo smise pure di sognare di prendersi il diploma. Spinnato s'era fatto la ragazza, e questo contribu a rendere meno gravosa la separazione. Paolo non chiese nemmeno di conoscerla. Non ne avrebbe avuto forse nemmeno il tempo, perch quella lo lasci dopo pochi giorni, spaventata da un'avventata richiesta di matrimonio. Ma questo Spinnato a Paolo lo disse solo molto tempo dopo che era successo. Per quanto Paolo continuasse a trascorrere buona parte delle sue giornate a casa, la sua indifferenza alla sorte della sua famiglia gli aveva impedito di accorgersi dei cambiamenti che anche l stavano avvenendo. Non che i suoi familiari facessero molto per renderli evidenti; tuttavia era chiaro che Paolo, avendo tenuto gli occhi sbarrati di fronte alle richieste d'aiuto, non li avrebbe aperti nemmeno davanti all'improvvisa ricchezza, magari dovuta ad un'eredit, o a una vincita al lotto. A sua discolpa c'era da dire che il lavoro della zia Agata sembrava che non producesse alcun risultato commestibile, per cui la cena, per una specie di strana punizione che si autoinfliggevano senza motivo, continuava ad essere a base di patate e cavoli bolliti. Aument la disponibilit di pomodori, di uova e a poco a poco anche di caff. Ma non in modo che risultasse un passo da cui non si potesse tornare pi indietro. Continuavano a vivere ai margini di un peccato innominabile, costretti nella penombra di espiazione non redimibile dalla generosa assoluzione impartita per il momento dalla buona fortuna, il cui frutto sarebbe stato improvvido e peccaminoso consumare maturo. Giudiziosamente bisognava metterlo da parte, in attesa di poterne godere quando un vero, significativo cambiamento avrebbe concesso di aprirsi, purificati, ai raggi di un sole nuovo: qualcosa di inequivocabile, ad esempio la guarigione miracolosa di Michele, o una bella sistemazione per Antonio Agata e Concetta, donne di casa, umili e senza ambizione non si ritenevano all'altezza di potere, loro due da sole, acquistare l'indulgenza indispensabile al riscatto di tutte le colpe, della vergogna. Sia che si fosse trattato di ragionevole inquietudine di fronte all'illusione di un imprevisto benessere, sia che fosse pura e semplice incapacit ad essere felici, o, come sospett in tempi successivi Paolo, per avarizia, confortate dall'assenso silenzioso variamente motivato di Michele, di Antonio e di Paolo, non potevano considerare esaurito il tempo del castigo. E cos Antonio diventava sempre pi magro, mentre Paolo ostentava un colorito della pelle invidiabile. Tra i due ormai sembrava Antonio il pi grande: sar stato lo studio o gli stenti causati dal vizio ascetico della madre e della zia, sta di fatto che il pi giovane aveva ormai assorbito la differenza d'et, e si apprestava a lasciarsi l'altro alle spalle, come un ciclista che al termine dell'inseguimento si lancia solitario verso il traguardo. Il cambiamento fisico di Antonio, anzich avvicinarli, li priv di quanto fino ad allora aveva funzionato da collante: la consuetudine della diversit; e fece di loro due estranei, due uomini uguali con lo stesso bagaglio, con lo stesso nome, diritto, opportunit, ma senza alcuna confidenza, niente da dirsi. Due sconosciuti costretti da un'imposizione autoritaria a darsi del tu, a condividere un'intimit innaturale. E per finire, rivali a causa della stessa donna. Quell'atmosfera quaresimale di lutto recente impieg diversi anni a dissolversi. E quando accadde fu all'improvviso, e per sempre. Concetta aveva trovato lavoro come commessa in una merceria, un negozio ben avviato, con doppia entrata su Corso Vittorio Emanuele, all'angolo di via Marchese Arezzo. Il padrone, Gaspare Boscarino, era un "uomo all'antica", per sua stessa ammissione. Immancabilmente in abito chiaro, con i capelli lucidi e una sigaretta fra le mani, sorrideva cerimonioso alle clienti dando contemporaneamente severe indicazioni con gli sguardi alle commesse su come dovevano comportarsi per non scontentarne nessuna. Dietro il bancone sua moglie Giuseppina andava su e gi, grassa, diafana e con un sorriso che si faceva largo affondando fra le pieghe rotonde delle guance. Era di supporto nei casi pi

delicati, quando occorrevano i prodigi della sua memoria per ritrovare una particolare serie di bottoni, o un certo tipo di stoffa; altrimenti si alternava alla cassa con il marito. Concetta interpret il suo lavoro come avrebbe potuto fare una schiava miracolosamente avviata ad un riscatto sociale passando dalla piantagione alle stanze di trine della figlia dei padroni. Discreta fino all'annullamento della propria persona, eseguiva il suo compito con la cura diligente di una scolara poco dotata, senza assumere mai iniziative, avvampando di vergogna tutte le volte che sentiva pronunciato il suo nome, evitando persino qualunque confidenza con le altre commesse: due ragazze che potevano essere sue figlie, che lei ammirava e rispettava solo perch lavoravano l da pi tempo di lei. C'erano dei giorni in cui Antonio la veniva a prendere con la bicicletta. Entrava, salutava stringendo educatamente la mano ai signori Boscarino, accennando a un inchino. Se mancava ancora qualche minuto all'orario di chiusura Concetta si rifiutava di anticipare l'uscita come le veniva suggerito, e costringeva Antonio ad attenderla, in piedi, dentro il negozio, ad arrostire nell'imbarazzo di un'impossibile conversazione con il signor Boscarino, che puntualmente dimenticandosi che quello non fumava gli offriva una sigaretta. E commentava: "Un ragazzo senza vizi!" ma era tanto per non stare in silenzio. Una mattina Antonio pass dal negozio prima del solito. Non aveva voglia di studiare. Preservato dai progetti che per lui erano stati concepiti dalla mamma e dalla zia, a lui non era chiesto di ingegnarsi, di uscire per strada e offrirsi per fare "la qualunque" purch portasse a casa qualcosa, cio quello che continuava essere il principale dovere del fratello. Il suo unico impegno era quello di stare a casa a studiare per i concorsi; ed era quello che faceva, non sospettando neppure che ci potesse essere un modo alternativo di passare il tempo. Cocciutamente, con una forza di volont che non tard a divenire esemplare, Antonio non accendeva mai la radio, non usciva di casa, non andava al cinema, non aveva amici, non pensava alle ragazze, non abbandonava mai per un secondo i libri per una distrazione qualsiasi. Dalla mattina fino alla sera. Di alcuni manuali era arrivato a conoscere interi capitoli a memoria. Ma questo non gli bastava. Non perch avesse idea del punto al quale arrivare per potersi dire soddisfatto. Il suo compito era studiare, fare un concorso, vincerlo. Era semplicemente un ragazzo che sapeva applicarsi con successo ai doveri, senza farsi distrarre dai perch. L'unico svago che in quell'anno si concesse (era il 1953) fu uscire verso l'ora di pranzo e andare con la vecchia bicicletta del padre, che aveva ritrovato in un sottoscala in condizioni incredibilmente decenti, per andare a prendere sua madre al negozio: un gesto di affetto non concordato e mai discusso che si era presto trasformato per Antonio in una consuetudine alla quale raramente rinunciava. Sentire sue madre, leggera sulla canna, silenziosa, con il viso alto perch i capelli grigi assecondassero il vento, con una mano al centro del manubrio e l'altra sul ventre a protezione della gonna, cos vicina, protetta nella gabbia delle sue braccia, era qualcosa che viveva con l'urgenza innocente di una necessit indolore; era il suo modo segreto, sognato e non vissuto realmente, di dirle grazie. Dunque quella mattina prese la bicicletta e cominci un lungo giro, senza fermarsi mai. Respirava bene, perch l'aria era fresca e piena di colori: era sabato. (trema la penna a Luisa, mentre comincia a trascrivere sul suo quadernetto questa fase del racconto di Paolo, perch anche lei, da adesso in poi, comincia ad essere direttamente investita dalle conseguenze dei fatti accaduti. Si sente avvolta da una seconda vita; quello che lei ora percepisce con estrema chiarezza quel fenomeno naturale di cui, in genere, si sottovalutano opportunamente le conseguenze, che coinvolge tutti gli uomini, ma in particolare chi, sposandosi, si trova improvvisamente a condividere il destino di un altra vita, dal pi lontano passato e, per chi ci crede, da prima ancora. Luisa ha per la prima volta la sensazione di non essere stata mai sola, e che la conclusione di una storia non pu non essere il fine di tutte le sue cause e che si tratta di

un'unit indivisibile in cui ognuno obbligato a condividere le responsabilit, e che ogni movimento, ogni gesto, pensiero, aspirazione, omissione, si porta dietro conseguenze inimmaginabili, pu sconvolgere il corso dei fiumi, uccidere, trasformare, accendere fuochi. Che insomma esiste un solo grande destino che ci riguarda tutti, ma che non ha molta importanza, perch tutto avviene a nostra insaputa) Antonio vide Anna ferma davanti l'entrata del negozio, immobile, scura, quasi invisibile, dal tronco in su, protetta dall'ombra della tenda a strisce bianche e rosse allungata sul marciapiede, mentre sotto l'orlo della gonna le gambe, riflettendo la luce accecante di mezzogiorno, erano bianchissime. Non sapeva chi fosse, ma trov educato lasciare la bicicletta appoggiata al bordo del marciapiede opposto. Incastr il pedale sull'asfalto, sciolse il fondo dei pantaloni e si volt. La ragazza era scomparsa. La strada era vuota. Lontano, si avvicinava un filobus. Attravers velocemente. In quel momento il signor Boscarino usc dal negozio lasciando alle sue spalle la scia di una bestemmia. Antonio fece finta di non averlo n visto n sentito, e si infil sotto la saracinesca, gi abbassata per met. All'interno, fra la penombra, percep l'eco che si stava estinguendo di qualcosa di sgradevole appena avvenuto. Concetta, a testa bassa, stava rimettendo una sedia al suo posto; un'altra commessa raccoglieva con una lacrima appesa alla cipria un'intera scatola di bottoni di madreperla che si erano infilati dappertutto. Seduta dietro la cassa, la ragazza che aveva visto all'entrata, a braccia conserte guardava un punto obliquo del vuoto. Il suo ingresso contribu a sciogliere definitivamente il peso della tensione. La signora Boscarino sbuc dal retrobottega e seppe mutare istantaneamente l'espressione ereditata dalla violenta discussione, nel suo morbido sorriso. La madre gli and incontro afferrando la borsa gi preparata sul bancone, cercando di trascinarlo fuori prima che qualche spiegazione si rendesse inevitabile. Ma la padrona l'anticip e disse: "Conosce mia figlia Anna?" Anna lo guard senza intenzione. Antonio le sorrise e le offr la mano, ritirandola subito indietro con un certo impaccio: "Piacere, Antonio." Lei sorrise e disse: "Molto piacere." Ad Antonio parve di essere indagato, censurato e liquidato per sempre. Si rivolse alla madre: "Andiamo?" Lo disse con la voce cos bassa che la madre non cap e lui dovette ripeterlo, facendosi rosso: "Ti ho chiesto se possiamo andare." Concetta non disse niente, salut con un sorriso tutti quelli che rimanevano e precedette il figlio verso l'uscita. Paolo stava tornando a casa a piedi. Pass davanti al bar dove suo padre trascorreva le sue giornate. Pens di andare a dare un'occhiata, senza farsi notare, per soddisfare la curiosit di vedere chi fosse la gente che frequentava, come passasse il suo tempo. Non fece in tempo ad entrare che un trambusto di gente che urlava e quasi veniva alle mani lo fece indietreggiare. Si and a mettere dietro l'albero nell'aiuola al centro della piazza e vide degli uomini che uscivano dal locale discutendo tra loro di qualcosa che qualcuno di loro aveva fatto. "Non si doveva permettere!" gridava uno, il pi giovane, mentre altri cercavano di calmarlo. "Ci faccio cascare le braccia! Ci faccio passare io il vizio!" "Ci pensiamo noi", cercavano di tranquillizzarlo. Spingendo con uno sforzo scomposto sulle ruote della carrozzella, usc Michele. L'unico ad essergli rimasto accanto era un tale, grasso, stordito, in pantaloncini corti e canottiera. Lo aiut a scendere il gradino del marciapiede, ma l'uomo che urlava pi di tutti gli si scagli contro. "Non me ne fai compassione, locapisti ?" Altri uomini uscirono dal locale, e fra questi il proprietario, con un grembiule blu indosso. Disse a Michele: "Te ne devi andare! Non ti devi fare pi vedere! Mai!" "Cornuti come atia qua non ce ne vogliamo!" Michele si fece largo fra quegli uomini ricevendone altri spintoni, ancora insulti, e sputi. Lui teneva la testa bassa, inerme e sbavava. Si rivolgevano anche all'altro: "E questo vale pure per te!" Dall'altro lato della piazza sbucarono Antonio e sua madre, in bicicletta. Antonio fece scendere Concetta e prese a correre in soccorso del padre. Pass

accanto a Paolo, che inizialmente non aveva neanche visto. "Che fai, non lo vedi?" Paolo era impietrito, rintanato nel suo stesso corpo, diventato il contenitore di un'anima raggrinzita, che come una camera d'aria afflosciata non riusciva a fissarsi nel modo dovuto al tessuto della pelle e per affacciarsi alla finestra degli occhi avesse dovuto allungarsi colmando la distanza di un interstizio buio. La voce di Antonio lo risvegli dal torpore, lo stesso che, se ne ricordava in quel momento per la prima volta, lo aveva attanagliato negli attimi successivi all'incidente con il camion. Un misto di panico, indifferenza e soddisfazione. Antonio prosegu la corsa verso Michele. Gli uomini, senza mostrare alcuna forma di pentimento gli fecero largo. Il barista sibil: "Se lo portasse a casa, qui quelli come lui non ce li vogliamo", e gli gir le spalle. Prima che Antonio potesse fare domande un altro spieg: "Bara, tuo padre: questo figlio di puttana." Antonio si liber facilmente dell'uomo in canottiera, afferr la carrozzina e la spinse lontano. "Pap, vero?" Michele non disse niente: si toccava la fronte che aveva cominciato a sanguinare. Antonio si volt ancora verso il gruppo che assisteva alla ritirata e disse: "Malacarne!" Uno gli rispose senza scaldarsi troppo: "Non ti ci immischiare pure tu che se no fai la stessa fine, cretino!" Paolo gli si avvicin dicendo: "Ero appena arrivato." Antonio lo guard negli occhi. "Hai avuto paura", gli disse. Quella fu la prima volta che Paolo odi suo fratello. Dalle loro spalle lo stesso tipo di prima ripet: "Cretino!" Un amico lo tir per un braccio. Concetta era rimasta immobile, dall'altro lato della piazza, a sorreggere la bicicletta. La settimana seguente pass senza che Antonio riuscisse a rivedere Anna, il cui ricordo l'aveva accompagnato durante quei giorni come un'ossessione di cui non ci si sente responsabili. Era bella, ma l'aveva incantato la voce (due sole parole aveva pronunciato, "molto piacere", ma erano state sufficienti): aspra, come un mantello posato sulla sua bocca sorridente, dalla linea delle labbra sottile, e i denti perfettamente allineati, ma con una significativa prominenza che spezzava con un tratto quasi infantile la banalit di quella precisione, come un'indiscrezione maliziosa, una protuberanza dell'anima che aveva scelto quella via per rivelare la sua vera identit, proclamandola con orgoglio: quella di una ragazza indifferente ai luoghi comuni, compiaciuta pi della sua indipendenza che della sua bellezza. Naturalmente tutto questo Antonio lo aveva appena intuito. Lui non pretese mai di giudicarla, forse neanche di capirla. Ma Paolo raccontando non pot fare a meno di parlare di Anna come soltanto lui avrebbe potuto fare, anche a costo di attribuire al fratello sentimenti, emozioni e motivazioni che realmente non gli erano appartenuti mai. Fu sabato e Anna era di nuovo al negozio. Antonio c'era andato a met mattinata, di ritorno da una commissione che aveva fatto per sua madre. Non c'erano clienti, la signora Boscarino era alla cassa, Anna passeggiava su e gi, annoiata. Si scambi un sorriso con una delle commesse, che le rispose educatamente, senza alzare la testa. La madre le chiese, con una durezza che nessuna cliente avrebbe mai potuto sospettare: "Allora, ti smuovi, s o no?" "T'ho gi detto di no!" Fece una pausa, poi aggiunse: "E sai pure perch." "Gaspare, senti qua tua figlia." Gaspare Boscarino le si avvicin aggrottando le sopracciglia. "Sono stanca!" "La principessa stanca! Insomma", grid rabbioso, "vuoi fare quello che ti dice tua madre?" Era chiaro che era una domanda a cui non era necessario rispondere. Entr Antonio. Nessuno fece lo sforzo di ricomporsi. Anna gli and vicino e gli disse: "Ti ricordi di me?" Antonio guard sua madre. "Certo."

"Ti va di uscire?" "Veramente stavo andando a studiare." "Offrimi un gelato." "Come vuoi." Anna guard trionfante sua madre, che guard Gaspare, che guard Concetta, che implor con gli occhi appuntiti il figlio di non uscire, di rifiutare cortesemente, di inventarsi una scusa, insomma di non immischiarsi. Antonio e Anna invece uscirono, e Antonio ebbe l'impressione di calpestare il silenzio. Quel giorno non torn a prendere sua madre con la bicicletta. Fatti pochi passi Anna ruppe l'assedio dei suoi pensieri: "Dovevo fare una cosa a mia madre, ma mi scocciava." "Non m'interessa. Stavate litigando" "No, con i miei ci parliamo sempre cos!" "Per anche l'altra volta" "L'altra volta quando?" "Sabato scorso, quando ci siamo conosciuti Che era successo?" "Li conosci tu i miei genitori?" "No." "E allora non puoi capire", disse con un sorriso, inseguendo un'idea che scavava un fossato fra di loro. La solita scusa per non dire niente di s: Paolo la conosceva bene quella porta chiusa, quella fuga misteriosa per paura di bruciarsi con la verit. Camminarono ancora un po'. Antonio con una mano sul manubrio e l'altra appoggiata sul sellino della bicicletta, Anna con le braccia incrociate dietro la schiena, lontana come un pianeta immaginario. "Ancora studi? Ma quanti anni hai?" "Studio per i concorsi." "Oggi non hai studiato", gli disse Anna. "Non importa." "Ora darai la colpa a me." "No! La colpa a te!" "Perch sono stata io a farti uscire con me." "Vuoi che ti do la colpa a te?" "Che sei complicato! Con te non ci si pu scherzare!" disse lei facendosi seria mentre lo fissava negli occhi. Antonio sorprese se stesso e le domand se si potevano rivedere. Ma lei lo sorprese ancora di pi rispondendogli: "Domani pomeriggio va bene?" Per Antonio, che a quell'epoca aveva ventun'anni, si trattava del primo appuntamento. Ci and con il vestito usato per andare a uno dei suoi soliti concorsi. Era tranquillo. Il momento pi imbarazzante fu quando lei si separ dall'amica che le aveva fatto da schermo, da cui fu salutato con un imprevisto sorriso accattivante e promettente che lo gel davanti all'eventualit del fallimento che quella, proponendosi come alternativa, gi gli stava di fatto prospettando possibile, se non probabile, e contro il quale lui non aveva preparato alcun rimedio. Antonio era un ragazzo semplice e riservato, ma con un'incrollabile, smisurata fiducia nelle sue capacit. Solo, non aveva ancora avuto modo di confrontarle con la sua timidezza. "Ce l'hai una macchina?" "Ho la bicicletta. Che non neanche mia. E' di mio padre." Si morse la lingua. Aveva giurato a se stesso di non nominarlo mai. Per fortuna Anna non era tipo da chiedere cosa facevano i genitori dei ragazzi con cui usciva. "Amici non ce ne hai?" "No. E tu?" "Solo compagne di scuola. Guarda, eccone una." Una ragazza gli stava venendo incontro, in compagnia della madre. Entrambe indossavano un cappello piumato. Anna prese Antonio sottobraccio e rallent il passo. Lui la guard. Da cos vicino non l'aveva ancora fatto. Vide le ciglia nere, gli occhi verdi, e le ciocche dei capelli. L'amica di Anna era ormai a pochi passi. Anna indoss un sorriso largo e sicuro e abbass la testa per guardarla con una ambigua complicit dal basso in alto.

Quando la ragazza fu di nuovo lontana, alle loro spalle, lei disse a bassa voce: "Scema," e sorrise ad Antonio come una bambina. Quando la riaccompagn al punto dove l'amica l'avrebbe ripresa in consegna era il tramonto. Era stata una giornata abbastanza noiosa per tutti e due. Ce ne furono altre, ugualmente noiose, ma benedette dal consenso dei genitori di Anna, che videro in Antonio un buon antidoto contro le alzate di testa della figlia. E lui non trad le loro attese, difendendo con Anna tutte le loro prese di posizione e i rimproveri, giustificando la loro severit come il segno di una presenza attenta e ispirata dall'amore. Antonio ammirava sinceramente Gaspare Boscarino e sua moglie: la loro affabilit che non significava arrendevolezza, la rettitudine, la tenacia, le capacit nel lavoro, tutte qualit che gli avevano permesso di superare la guerra tanto brillantemente. Un esempio per tutti. Antonio passava tanto di quel tempo a parlare dei Boscarino, che era di loro che pareva innamorato, e non di Anna. "Tu li conosci? No, non li conosci. Perci non sai di cosa parli." E se quello insisteva allora lei diceva: "Ti piacciono? Te li regalo!" Antonio l'andava a prendere a casa, saliva, porgeva i suoi saluti e la riportava all'ora concordata. Gaspare Boscarino piano piano prese a considerare la sua presenza pi un'abitudine incolore, come la lettura pomeridiana del giornale, che una necessit. La signora invece mantenne la sua convinzione che si sarebbero dovuti sposare, perch ragazzi con la testa a posto come Antonio non se ne trovano. Anna gli voleva bene perch lui la rispettava, le parlava con un'aria certo troppo seria, ma mai in modo banale. Cap la sua riservatezza molto pi di quanto gli diede mai modo di fargli intuire, e d'altra parte a lui non premeva granch conoscere la sua opinione al riguardo: da quando lei aveva accettato di uscire con lui, la sua approvazione, il suo affetto non era in discussione. Per quello che lo riguardava, i suoi sentimenti erano perfettamente ricambiati. E visto che anche lui si guardava bene dal metterli in mostra (per farlo aspettava naturalmente un colloquio definitivo con il padre), il fatto che lei facesse altrettanto non lo meravigliava affatto. Non chiedeva di pi. Era proprio questo, tuttavia, ad impedire ad Anna di sognare un progetto con lui. Non era questo di cui aveva bisogno! Possibile che dopo aver tanto scappato ora si trovava, nemmeno lei sapeva come e perch, ad uscire con questa specie di mostro ben educato partorito dalla mente dei suoi genitori? Un'anticipazione del futuro che loro avevano sempre immaginato per lei. Era una trappola nella quale non poteva lasciarsi incastrare. Malgrado tutto Antonio continuava ad apparirle troppo buono, ingenuo, in buona fede, cos che non le veniva difficile mantenere nei suoi confronti un atteggiamento benevolo e sottomesso. Sapeva offrirle protezione. Era chiaro che non le avrebbe mai fatto mancare niente e questo lei sapeva apprezzarlo. In fondo uscire con lui era meglio che stare al negozio, come avrebbe voluto suo padre, o chiusa a casa come voleva sua madre. E poi mille volte meglio Antonio, il figlio della commessa, con la sua calma buona, facilmente addomesticabile, e ancora senza un lavoro (quest'ultima era la migliore garanzia di poter facilmente troncare la loro frequentazione quando voleva, per di pi con l'assenso del padre, che non era stupido e su questo avrebbe vigilato) che non quel buon partito del padrone della boutique accanto, che aveva gi scritto al signor Boscarino una lettera dettagliata sul ci che poteva offrire e sulla dote che, in proporzione, si aspettava. Anna amava provocarlo, indossando una gonna pi corta del dovuto; prendendolo per mano davanti a tutti, al negozio, trascinandolo fuori euforica; implorandolo di andare a ballare nei locali di cui i suoi genitori fingevano di non conoscere neppure l'esistenza, per non essere tentati dal sospettare che la loro unica figlia potesse frequentarli. Lo chiamava "Studioso" e non era un complimento. Nei suoi lunghi minuti di silenzio gli domandava risentita: "Perch mi guardi e non dici niente? Ti credi che sono uno dei tuoi libri da studiare?" Ma Antonio non aveva questa ambizione, e se qualcosa in comune fra lei e i libri poteva esserci, era che tutti e due

costituivano per lui un ostacolo da superare, non da capire. La loro occupazione preferita era fare lunghe passeggiate, perch cos stabiliva Antonio, che non andava al cinema, non amava ballare e le concessioni che le faceva erano rarissime e vincolate al patto che per chiss quante settimane non ne avrebbe voluto neppure sentire parlare (e lei lo assecondava per non perderne la fiducia). La sapeva riempire di attenzioni discrete; concedeva e negava con lo stessa magnanimit, sempre con l'aria grave del benefattore che lascia trapelare un affetto pi profondo di quello che il naturale pudore gli consente di rendere pubblico. Questo atteggiamento contrastava con la sua giovane et in un modo che la divertiva. Un giorno di scirocco Anna era stanca, tutto le veniva a noia. Gli fece l'elenco dei film che davano nei cinema della citt, per provare a convincerlo, ma per Antonio quei titoli, come i nomi degli attori che lei pronunciava come un banditore della fiera non gli dicevano niente, li ignorava completamente. "Dammi una sigaretta allora." "Una sigaretta? Non ce n'ho. Ho una gomma americana." Mugol che andava bene lo stesso. Lui la divise in due, come faceva sempre. Lei rimase con la bocca aperta e sorrise. "Al Foro Italico ti va di andarci?" chiese lei, "al luna park." Non gli andava. Era per bambini. "E io che, non sono una bambina?" "Non scherzare." "Allora accompagnami a casa." L'accompagn. Salirono le scale in un silenzio che li avvolgeva da molti minuti. Anna apr la porta con le chiavi. Antonio non gliel'aveva mai visto fare. "Di, entra." Antonio entr. "Non ci sono i tuoi genitori?" "Adesso mi vuoi fare credere che non lo sapevi?" "No, non lo sapevo." Lo port nel salone. C'era un pianoforte bianco a mezza coda. "Bello, chi lo suona? Lo suoni tu?" "No, nessuno. Sta l. Tu lo sai suonare?" "No. Paolo, mio fratello. Ma non a casa, da una vicina. Ha preso pure lezioni da una maestra di musica." E Anna disse: "Fallo venire." Paolo passava sempre pi tempo all'Istituto. Quell'inverno aveva organizzato il cineforum, e preparare le proiezioni, scrivere le schede informative, reperire le riviste americane e il materiale pubblicitario per allestire i cartelloni, gli prendeva tutto il tempo libero. Le uniche persone che vedeva erano i Migliori. Con loro tuttavia non usciva, non andava al mare, o a giocare a biliardo. E nemmeno a passeggiare su via Libert. Nessuno di loro aveva realmente sostituito Spinnato. (il quale nel frattempo aveva completamente smesso di frequentare l'Istituto, cos come aveva abbandonato l'Universit. Suo padre era morto in un incidente di macchina. Veniva gi da Monreale. Forse aveva mangiato troppo, un malore: "Quella strada la conosceva troppo bene" ripeteva pi volte Spinnato a chi gli chiedeva di raccontare l'accaduto, mantenendo ogni volta la stessa incredulit, come se nascondesse un vero motivo, o coltivasse un terribile sospetto che non gli era permesso rivelare. Per sei mesi prov a portare avanti gli affari del padre, ma senza successo. Allora trasse "le dovute conseguenze" e prese la sua decisione: entr in seminario e dopo qualche anno Paolo venne a sapere che era diventato prete. Non un bravo prete) Paolo si sentiva "troppo importante", come disse sua madre, per poter continuare il lavoro nel magazzino al porto, e si licenzi. Cos fin a scaricare merci ai mercati generali. Si alzava all'alba, faceva dieci volte la fatica di prima, guadagnava meno, ma in compenso, di giorno, anche tolte quelle che passava a letto distrutto dalla stanchezza, gli rimanevano molte pi ore libere. Malgrado a nessuno del gruppo dei Migliori fosse mai venuta la voglia di consolidare in un rapporto pi stretto la conoscenza con Paolo, molti di loro lo stimavano e venne naturale, pur mantenendo in vita l'antica reciproca

diffidenza, ritenere la sua presenza indispensabile. Uno di loro lo present un giorno al redattore di un piccolo settimanale della citt legato ad alcuni gruppi vicini a un importante deputato della Regione che non gli faceva mancare mai il suo aiuto. Lui s'era portato dietro tutti gli articoli che in due anni aveva scritto per il giornalino dell'Istituto, ma quello, un uomo giovane e visibilmente senza alcun talento, neanche si fosse trattato di materiale pornografico, si rifiut categoricamente di vederli, e pass tutta la conversazione a dire che quel lavoro era il pi difficile che si potesse immaginare, il pi duro, senza orari, e senza casa: "Dia retta a me: si faccia qualche amico e s'impiegasse al Comune." Ma Paolo aveva deciso che era quello il lavoro che faceva per lui. Da quel giorno quasi tutti i giorni sal i gradini della sede del giornale per lasciare sul tavolo del redattore i suoi pezzi. Chiedeva solo un parere. Quello continuava a non guardarli neppure, e quando Paolo ritornava, gli diceva che erano "acerbi", che "mancavano di ritmo", ma quando lui insisteva, chiedendogli dov'era che avrebbe dovuto correggere, quali fossero le frasi da cancellare, o da cambiare il redattore inventava una scusa, bofonchiava qualcosa e lo invitava a tornare un'altra volta, "in un momento di maggior calma", e Paolo non sapeva immaginare quale potesse essere, visto che in quelle stanze non aveva visto passare quasi mai nessuno, in estate si sentiva il rumore dell'aria tritata dal ventilatore, e d'inverno le gocce di pioggia picchiettare sul canale di gronda; si vedevano cappelli appesi all'appendiabiti, e nuvole di fumo di sigaro ristagnare pigre nei corridoi: segno del passaggio di qualcuno, ma mai di una presenza stabile. La sua presenza divenne piano piano un'ossessione. Per il redattore non farsi trovare era del tutto inutile, perch Paolo sapeva a quale bar lo poteva rintracciare, sapeva a quale ora sarebbe sceso dal tram, e a quale vi sarebbe risalito per tornare a casa. Non poteva pi fingere di aver letto, e tuttavia non aveva alcuna intenzione di cominciare a farlo ora. "Lei la deve finire di starmi di dietro! Lo vuole capire o no che a me i suoi articoli non mi interessano? Come glielo debbo spiegare? Qui lei sta perdendo il suo tempo!" Paolo non si scoraggi. Preso dalla tasca della giacca il foglio spiegazzato della sua ultima recensione, lo dispieg con cura lisciando gli angoli, lo lasci ondeggiare sul tavolo e disse trionfante: "Gli uomini preferiscono le bionde!" Il redattore dapprima pens si dovesse trattare di una specie di frase in codice; quando realizz che era solo il titolo di un film diede una manata sulla scrivania, una specie di schiaffo con traiettoria dal basso in alto che fece volare per aria tutti i fogli che vi erano posati, compreso quello di Paolo. "Ma per favore!" disse e cominci, con la fronte imperlata di sudore e gli occhi bassi, a cercare di fare ordine. Paolo usc dalla stanza con la sensazione che quelle urla non fossero indirizzate proprio a lui. L'indomani sarebbe tornato e il redattore, sbollita la rabbia, gli avrebbe senz'altro dato retta. Forse era opportuno dargli un po' di respiro; sarebbe ripassato dopo due giorni, o forse tre. Forse quel ridicolo giornale non era all'altezza delle sue straordinarie capacit. Tanto per cominciare, la recensione al film con Marilyn Monroe l'avrebbe pubblicata sul giornalino della parrocchia: gli era venuta troppo bene, era un peccato che nessuno la leggesse: " Un sogno fatto a primavera il trionfo della purezza della carne Canzoni seducenti e bellezza orecchiabile Due angeli incantatori" L'aveva scritta di getto. Magari avrebbe fatto qualche cambiamento. Invece accadde che nella fretta si dimentic di tagliare le frasi pi ad effetto, e il giornale dell'Istituto Reverendissimo la pubblic cos come l'aveva lasciata alla redazione del settimanale. Il Reverendissimo Padre Direttore del giornalino, nonch Superiore dell'Istituto, appena avuta fra le mani la copia che gi poteva essere acquistata in quasi tutte le parrocchie della citt, lo fece chiamare, gli chiese com'era stato possibile che sul suo giornale si potessero leggere cose "talmente talmente" non trov la parola, e allora pass alla lettura: "Il

trionfo della purezza della carne Canzoni seducenti!" Inforc di nuovo gli occhiali, apr un opuscolo, si lev di nuovo gli occhiali avvicinando il foglio a pochi centimetri dagli occhi e lesse con ben altro tono stentoreo: "La frivolezza della trama, i principi ostentati dalle protagoniste", e comment indignato: "che lei definisce come degli "angeli"" "Incantatori" aggiunse Paolo per amore di correttezza. "Mi lasci proseguire, " il loro contegno, il loro abbigliamento sconveniente, le scene e le canzoni scabrose, rendono inaccettabile il film dal punto di vista morale. La visione esclusa per tutti!" Esclusa per tutti! Questo il giudizio che stato dato a questa pellicola. E a questo noi dobbiamo attenerci. Lei si crede in possesso di una deroga particolare?" "Ma chi ha scritto quelle cose non capisce niente!" "E' il giudizio pastorale!" esclam sconcertato il Padre, "lei ha motivo di dubitare della correttezza del giudizio della Commissione?" "No, ma" "Escluso per tutti! Invece lei, per scrivere quelle sciocchezze se lo andato a vedere, dico bene?" "Anche chi ha scritto il giudizio pastorale lo andato a vedere!" "Lei non sa quello che dice, giovanotto. Corra a confessarsi! Ma se crede di scrivere ancora simili idiozie sul giornale dell'Istituto si sbaglia. Come ho sbagliato io a darle fiducia." Paolo alz le spalle e usc con una grande confusione in testa: sapeva di avere ragione, ma che tutto questo aveva una sua logica. Quello non era il suo posto. Torn a casa. Entr nella sua stanza. Sdraiato sul letto c'era anche Antonio. Strano, di solito a quell'ora era in cucina a studiare. Si lev le scarpe e gli chiese cosa stava facendo: non in quel momento (Antonio gi gli aveva risposto: "Mi riposo"), ma in genere, nella vita. Era la prima volta che Paolo aveva certe curiosit. Antonio non rispose. Paolo allora chiar meglio la sua domanda: "Ti sei fidanzato? Mi pareva che la mamma diceva" "Non c' nessuna fidanzata!" "Ma anche io avevo sentito qualcuno che ti aveva visto con una ragazza. Pure carina." "Quale ragazza! e quale fidanzamento! Lasciami in pace!" "Una gomma americana me la dai?" Antonio gli diede la met di quella che aveva messo in bocca per masticare le bugie. "Scusa", disse ironico Paolo, e si addorment. ""Un sogno fatto a primavera La purezza della carne!" Bello. Un po' colorito, ma si vede che c' stoffa." Quello che il direttore del settimanale aveva fra le mani non era la copia del giornalino dell'Istituto, ma l'ultimo numero della sua rivista, in edicola da poche ore. Appena s'era reso conto del tragico errore, il redattore aveva cercato di ritardarne l'uscita, di fare ristampare almeno quella pagina, ma non era stato possibile. Era pronto al peggio. Era successo che nella confusione generata sulla scrivania dalla sua ira travolgente, i fogli si erano mescolati, gli occhiali appannati dovettero aver fatto il resto, il proto aveva urgenza di comporre la pagina degli spettacoli, e cos luned otto di marzo del 1954 l'articolo di Paolo aveva visto trionfalmente la luce. Per sua fortuna al direttore piacque al punto che chiese di conoscerne l'autore (che non fu semplice rintracciare perch quella mattina aveva comprato tre copie della rivista e aveva camminato a lungo per strade sconosciute guardando i passanti dai quali si aspettava di essere riconosciuto come una stella del cinema). La storia si ripeteva. Il pezzo piaceva, gliene chiedevano degli altri. Solo che questa volta chi gli offriva di scrivere sul giornale gli avrebbe dato anche dei soldi e rimborsato la spesa del cinema. Concordarono due articoli al mese. Dopo tre mesi il suo impegno divenne settimanale. Quello che gli davano era poco, ma lui decise ugualmente di licenziarsi dai mercati generali e cominci a chiedere soldi a sua madre e a zia Agata. Pranzava con loro, raccontava episodi che gli erano capitati. Salvaguardava il pudore mantenendo la testa bassa sul piatto di minestra, soprattutto quando rideva. Fece amicizia con il figlio del direttore della rivista, un giovane con pochi capelli che si vantava di aver studiato "in continente", ma non specificava

dove, e girava con una spider inglese rossa. Paolo non aveva ancora preso la patente, ma sapeva guidare la macchina. Se gliela chiedeva in prestito quello gliela dava volentieri: non era legato alle cose. Fu con quella spider che una mattina and a prendere sua madre al negozio. Anna era sulla porta: il viso nascosto all'ombra della tenda, le gambe risplendenti alla luce del sole. La spider le si ferm proprio davanti. Lei fece due passi in avanti, strizz gli occhi per proteggersi dal sole, ma siccome non bastava alz il braccio: una posa plastica alla Sarah Bernhard. Paolo la guard e le sorrise. Entr nel negozio. Sua madre fu molto sorpresa nel vederlo. "Ciao mamma!" Lo disse a voce cos alta da fare girare una cliente. Concetta lo zitt con uno sguardo. "E che siamo in chiesa?" Protest. Anna rientr in quel momento, e gli and vicino. "Tu sei Paolo." "E tu Anna." "Vieni a suonare da noi qualche volta." "Volentieri." Il signor Boscarino lo volle salutare: "Tu saresti quello che sa tutto sul cinema! Lo sai che da giovane ho fatto anche io un film? A Torino!" La moglie non perdette occasione per farlo sfigurare : "Una parte piccolissima in un film muto girato quando gi ci stava il sonoro." Il signor Boscarino aggiunse qualche dettaglio, poi si salutarono. Paolo disse alla madre che era venuto a prenderla, ma visto che era troppo presto se ne andava a fare un giro. Sarebbe ritornato. Quindi guard Anna e le propose a voce bassa: "Se ti va" Lei lo fiss per qualche interminabile secondo, dando a Paolo la possibilit di osservarla, in un modo di cui si sarebbe sempre ricordato durante tutti gli anni passati insieme, perch solo in quel momento la vide come lei era veramente; solo allora, forse, nella lunga trama del loro rapporto, Anna offr ai suoi occhi il vuoto della sua anima, il non amore, il freddo calcolo mostrato in tutta la sua crudezza senza la finzione dei sentimenti, il bisogno di lasciare negli altri un dolore vivo, l'illusione di concedere una speranza, quando invece la sua era una recita senza pubblico e senza destino. A partire da quel lungo sguardo, del quale Paolo avrebbe poi intuito la sofferenza di mostrarsi senza la protezione della consuetudine dell'affetto, di lei avrebbe avuto una sofisticazione perpetua che non gliela avrebbe pi restituita nella purezza della sua solitudine. Se non era disprezzo di s e degli altri, cos'era quella domanda silenziosa rivolta senza imbarazzo ad uno sconosciuto (il fratello dell'uomo che forse le voleva bene) di essere accettata, salvata, estratta con la forza di una promessa stupida (la corsa su una decappottabile inglese) dalle macerie della giovinezza vissuta come un castigo familiare? In quel momento Paolo vide ci che poi vide chiss quante altre volte nel corso degli anni: gli occhi sottili farsi all'improvviso grandi e indagatori; la bocca, mossa da una necessit misteriosa, socchiudersi in un sorriso (la sua domanda d'aiuto, che in futuro, equivocando, avrebbe interpretato come un'offerta), le labbra lasciate semiaperte per un tempo lunghissimo, che agli occhi di Paolo si dilatava senza pudore oltre i limiti di quello concesso alla fiducia in una promessa. Quel giorno Paolo non torn a prendere sua madre, perch fecero un giro lunghissimo, fino a Mondello e poi su per la salita di Monte Pellegrino. Il clacson era la loro fanfara, l'autoradio trasmetteva a tutto volume musiche delle orchestre Barzizza e di Armando Fragna. Ridevano senza dirsi niente, perch non avevano niente da dirsi, ma si compiacevano della loro allegria. Capirono subito di piacersi, ma nessuno dei due se ne domand il motivo. "Ci vieni al cinema oggi? Offre il giornale", le propose alla fine lui. "Magari! Tuo fratello non mi ci porta mai!" "Ti ha detto perch?" Le raccont la storia dei pianti alle scene di torte in faccia. "Ci andiamo a vedere Un giorno in pretura: "Un film pieno di situazioni scabrose, scene di nudit, e frasi equivoche. Escluso per tutti!"" Non andarono al cinema. Lei gli disse del pianoforte, e andarono a casa. Il silenzio del salone era scandito dal tic-toc del metronomo, veloce come il

battito del cuore di Anna. Paolo la stava baciando. Erano come ubriachi, si conoscevano da poco pi di tre ore. Lui infil una mano dentro la camicetta e le mise una mano sul seno. Nessuno prima di allora aveva mai osato tanto. Avendo fatto le sue precedenti esperienze con quel tipo di ragazze con le quali tutto era concesso, Paolo con una cos per bene non sapeva in che modo comportarsi, e dopo essersi chiesto quale fosse il limite che con lei era opportuno non oltrepassare, stabil che quelle carezze rientravano in quei confini. Anna sent un fuoco dentro che le bruci le radici dei centri nervosi. All'improvviso ebbe paura e vide l'immagine di suo padre e di sua madre seduti sul divano, mano nella mano, ma questo aliment di pi le fiamme; si lev le scarpe, cos aument la differenza di statura con Paolo tanto che dovette quasi rovesciare la testa all'indietro per raggiungere la bocca di lui. Sentirono il campanello della porta. Paolo si scost immediatamente da lei, che lo riattir a s con uno strattone. "Bussano" disse Paolo. "C' la governante." "Non me l'avevi detto." In quel momento la governante buss e senza aspettare risposta entr. Paolo fece appena a tempo ad infilare una porta indicatagli da Anna. La donna annunci l'arrivo di Antonio. Lei si avvi scalza verso la finestra per allacciarsi la camicetta senza farsi vedere. Le disse di farlo entrare, e quando quella fu scomparsa and a recuperare le scarpe. Antonio era confuso e sudato. Fra le mani stringeva un pezzo di carta gialla sgualcita. Glielo porse e infil le mani nelle tasche dei pantaloni da dove non le tir pi fuori. Era un telegramma. Anna facendo una fatica enorme lo lesse rapidamente. Le lettere le si accavallavano negli occhi. Si pass ripetutamente la lingua sulle labbra perch vi era rimasto ancora vivo il sapore di quelle di Paolo. "Hai vinto un concorso!" "Alla televisione. Parto domani." Paolo origliava da dietro la porta. "Complimenti." "Dovr stare fuori, a viaggiare. Per molto tempo non potr tornare a casa." La mano stringeva forte nel fondo della tasca l'anello rinchiuso in un piccolo contenitore in pelle che aveva comprato con i soldi che si era fatto prestare dalla zia Agata. Era cos sudata che oltre alla timidezza ora c'era pure l'imbarazzo a suggerirgli di non darglielo. "Torna presto." gli disse Anna. "Non mi dimenticare." "No." Anna non vedeva l'ora che se ne andasse, soffriva come se l'amasse veramente. "Mi mancherai" disse Antonio. "Anche tu." Paolo e Anna si salutarono freddamente. Anna gli disse: "Tuo fratello solo un amico." "Me l'immaginavo." In quel momento nessuno dei due sapeva se si sarebbero rivisti. Antonio era stato rincuorato dalle risposte di Anna, e pot tornare a casa con il morale un po' pi risollevato. Spese le ultime lire che gli erano rimaste in un bar. Era astemio: due bicchieri di vino bastarono a ubriacarlo. Tornato a casa, barcollando e sudato, pens seriamente di aver sbagliato indirizzo. Possibile che quelle risate provenissero dal suo appartamento? Che quell'aria di festa soffiasse all'interno della sua famiglia? Entr con il sospetto di avere le allucinazioni: sua madre e zia Agata avevano un bicchiere in mano e stavano brindando. Paolo stava versando della birra nel bicchiere del padre, che sorrideva con gli occhi bassi. Possibile che sapessero del concorso? Non l'aveva detto a nessuno. Forse era stata Anna Concetta and ad abbracciarlo: anche questo era un gesto che sar stato usuale in altre famiglie, ma non in quella! "Non venivi pi! A pap gli hanno dato la pensione di invalido. Stavamo festeggiando senza di te!" Antonio si ritrasse da

quell'abbraccio per paura che scoprisse che aveva bevuto. Aveva gi immaginato il suo ingresso trionfale, l'annuncio che aveva finalmente vinto un concorso che avrebbe colorato il grigiore della casa, i commenti affettuosi, o almeno benevoli di suo padre, i consigli. "Non sei contento? Lo capisci quello che significa?" "Sono contentissimo!" La zia Agata fu prodiga di spiegazioni: era stato tutto merito dell'interessamento di un suo cugino che viveva a Roma, uno che aveva delle conoscenze. Antonio non ne aveva mai sentito parlare prima. Disse: "Non poteva pensarci prima ad aiutarci?" "Antonio!" lo rimprover sua madre, senza aggiungere una spiegazione. Paolo gli offr un bicchiere: "Anche Antonio ci deve dire qualcosa." Non cap subito di essersi tradito. Antonio, sorpreso, domand cosa. Al momento di rispondergli Paolo si rese conto che lui non poteva sapere! Rimedi abilmente: "Visto che ti sei gi scolato una bottiglia un motivo ci deve essere!" Antonio si sent osservato. La zia gli si avvicin e l'avrebbe carezzato sulla testa se lui non l'avesse prevenuta andando ad aprire una finestra. "E' vero. Ho vinto il concorso alla RAI. Debbo presentarmi domani." Fu assalito dai baci e dalle lacrime di sua madre e di sua zia, che alzarono alte le grida del loro ringraziamento, perch arrivassero correttamente a tutti i santi che in tutti quegli anni avevano scomodato nelle loro invocazioni. Michele si stava versando la scolatura della bottiglia e non partecip alla commozione generale. Paolo gli strinse la mano: "Bravo, fratellino." Paolo e Anna ripresero a frequentarsi dopo pochi giorni. Stavano sempre insieme: lei lo accompagnava all'Istituto, dove se ne stava in disparte, a guardarlo lavorare. Lo interrompeva per spesso per chiedergli di suonarle qualcosa al pianoforte, appoggiato a una delle pareti della sala parrocchiale. Aveva imparato a suonare moltissime canzoni. A lei piacevano quelle napoletane, che facevano piangere, specialmenteNu quart'e luna : "Cielo, e che nuvole stasera, pare c'o munno se ne muore, ma na speranza pe' stu core non po' mor!" Paolo, contrariamente ad Antonio, le concedeva tutto, senza molto entusiasmo, e lei era contenta. Con lui si sentiva finalmente vicina a qualcuno. Se ne approfittava: chiedeva sempre di pi; con lui la provocazione non poteva essere una gonna corta, ma presentarlo alle sue amiche; lo costrinse a fare amicizia con i fidanzati di quelle, persone che lui non sapeva se compiangere o invidiare tanto gli erano diverse. Con loro andavano a giocare a tennis alla Favorita (con risultati simili a quelli raggiunti nel biliardo), incurante dell'umiliazione di doversi fare prestare da quelli l'attrezzatura necessaria, e agli spettacoli musicali all'Odeon e una volta perfino all'operetta, al Teatro Massimo. Lo cercava quando lui voleva stare solo, e si negava quando lui la desiderava. Non pensava neanche un istante a fargli del male: era la condiscendenza totale di Paolo a darle il coraggio, o l'incoscienza di forzare il suo amore fino al suo limite estremo. Sapeva di non rischiare. Anna disponeva infatti di quella speciale forza d'attrazione che contraddistingue le persone che non richiedono di essere capite per essere amate: lei non se lo poteva permettere. Aveva bisogno di tutti. E sapeva riconoscere al primo sguardo quelli che dalla sua forza erano attratti pi di altri. Paolo era uno di questi, pi di Antonio, pi di chiunque altro fino ad allora. Di questo lei era sicura. Mentre agli occhi di Antonio Anna era una ragazza da proteggere, per non lasciarla sola, per Paolo era una donna da lasciare libera, per non farle del male. Confrontata con la presenza asfissiante di Antonio, la noncuranza di Paolo forse poteva essere scambiata per indifferenza, ma per Anna non era cos. L'aria pesante che le faceva respirare Antonio diventava con Paolo aria di festa. Con lui sentiva garantito il suo diritto alla scelta, alla ricerca della felicit possibile. Antonio, con quell'ipotesi scontata che si doveva supporre trattarsi di vero amore, le impediva di immaginarsi il futuro. Tutto si sarebbe svolto secondo un presupposto sbiadito di cui non era dignitoso conoscere la forma, e neppure la sostanza. Per lei, questo era chiedere troppo. Era troppa la fiducia che le

veniva chiesta per mantenere la promessa della felicit eterna. Nemmeno Paolo le parlava mai del futuro; la sua fanfara copriva, come il silenzio di Antonio, la stessa paura di permettere che qualcuno accedesse ai suoi sentimenti pi intimi. Per Anna non temeva di rischiare con Paolo, perch il suo silenzio le pareva una strada da fare insieme; quello di Antonio era solo la promessa di un modesto vitalizio concesso da un parente sconosciuto. Trascorse cos circa un anno. Paolo era benvoluto dal padre di Anna; non dalla madre, che provava nostalgia per la scrupolosa correttezza di Antonio. Finch arriv pure per lui il giorno in cui dovette dirle: "Debbo partire." Il cugino della zia Agata aveva mandato un telegramma perentorio: "Presentarsi dott. Misuraca. Assunzione garantita. A Milano. Subito." Che voleva dire? Superando non poche difficolt dovettero telefonargli a Roma, e chiedere spiegazioni. "Come, non sapete chi Misuraca? Questo Paolo il giornalista lo vuole fare o non lo vuole fare? Misuraca! Il giornalista!" Zia Agata, mettendo una mano sul ricevitore, chiese a Paolo se conoscesse un giornalista con quel nome e lui fece finta di ricordarsene solo ora. "Che debbo fare?" chiese spaurito alla zia e sua madre. "Quello che vuoi fare fai" fu la lapidaria risposta di entrambe, che su Paolo con il passare degli anni, non avevano cambiato d'un millimetro il loro giudizio. Lui allora le minacci: "Allora parto!" Pass una mano fra i capelli. Restarono tutti in silenzio. Concetta tir fuori il fazzoletto e si asciug una lacrima, voltandogli le spalle. La zia Agata infil velocemente un ago. Se dopo Antonio se ne fosse andato anche lui la loro famiglia non sarebbe pi esistita, il loro stesso lavoro, la loro funzione, non avrebbe avuto pi senso. Provarono simultaneamente nostalgia e rimorso per la loro storia di rinunce, per i loro sentimenti repressi. Avevano costruito la casa, che ora rimaneva vuota. Se l'avessero potuto decidere loro, quello sarebbe stato il momento giusto per morire. Anna invece gli disse: "Vengo con te", e lo baci, serissima. Era una pazzia, che agli occhi di Paolo non era neanche fortemente motivata. Eppure, abituato a non dirle mai di no neppure stavolta seppe farlo. Si limit a pensarlo. Semplicemente cadde in una delle assenze momentanee in cui si imbatteva ai crocevia significativi del suo cammino, attraverso le quali precipitava in modo indolore in una fase nuova della vita. capitolo quattro La mattina seguente l'incontro con Paolo, Luisa dovette andare a scuola per concludere gli scrutini. Pioveva. Entr in cartoleria scrollando l'ombrello e compr il quaderno dove aveva stabilito, alzandosi, di riportare con la massima fedelt il racconto di Paolo. Era stato lui a chiederle di non lasciare che andasse perduto, ma forse non intendeva questo. Compr anche una boccetta di inchiostro, per non rischiare di rimanerne sprovvista. A scuola fu svogliata e distratta. L'attribu al tempo: una collega le diede ragione. Pensava al momento in cui Antonio avrebbe fatto ritorno a casa, quella sera. Il risveglio aveva attenuato le conseguenze delle rivelazioni di Paolo, e ora non vedeva l'ora di dimostrare al marito il suo amore. Antonio sarebbe arrivato dopo cena. I bambini sarebbero rimasti alzati, in pigiama, fino a quando lui non avesse bussato alla porta. Era buono con i bambini, si faceva amare e rispettare. Sapeva concedere con misura, senza lasciare campo libero alla supposizione che, volendo, si potrebbe avere molto di pi. Per esempio faceva loro meno regali di Paolo, ma i bambini non facevano confronti e si abbandonavano fiduciosi tra le braccia del suo affetto severo. Poi lei gli si sarebbe avvicinata, dopo aver mandato i bambini a letto, per poterlo baciare da sola, riconoscente e risollevata. Curiosamente non pens neppure per un istante a Paolo, a quello che doveva aver fatto appena uscito dal loro appartamento. Sembrava essere arrivato in

prossimit di un muro, o all'inizio di una fuga. Impensabile che avesse potuto riprendere una normale attivit. Ma la cosa pareva non le importasse per nulla. Come se per lui non potesse pi esserci un futuro. Aspettava di verificare con Antonio l'assoluta infondatezza delle storie prodotte dalla gelosia del fratello. Con il trascorrere delle ore di quella giornata, che torn presto a farsi calda, illuminata da un sole abbagliante che rese un fatto remoto il temporale della mattina, Luisa fu lentamente conquistata dall'alta marea del ricordo, che le fu preannunciata da fitti crampi allo stomaco, e un senso di nausea che fatic a tenere nascosto ai bambini. Stette seduta sulla stessa poltrona della sera prima, con gli occhi chiusi e la testa rivoltata all'indietro. Il cuscino di quella di fronte, che pure aveva coscienziosamente battuto, aveva riacquistato la fossa sgualcita causata dal peso di Paolo, che vi era rimasto seduto ininterrottamente per pi di tre ore. Non poteva fingere ancora: sapeva perfettamente che Paolo aveva alterato per sempre la bilancia su cui aveva pesato giorno dopo giorno il suo amore per Antonio, fornendole una unit di misura nuova: artificiosa, certo, estranea a tutte le loro esperienze comuni, ma infinitamente pi convincente e precisa, che la costringeva a rimettere tutto in discussione. O almeno: avrebbe dovuto farlo, se ne avesse avuto interesse. O se avesse deciso di credergli. Qual era questo nuovo metro di giudizio sul quale avrebbe dovuto misurare i suoi sentimenti? E che tipo di amore era quello di Antonio per lei? Si sentiva prigioniera di una squallida storia di uomini. Puntualmente quella sera Antonio arriv, apr la porta con la chiave facendo il dovuto rumore per attirare l'attenzione dei bambini, che gli corsero incontro ululando come indiani, li tir su in trionfo, uno per braccio, si lasci baciare sulle guance gi ruvide della barba di un giorno. Con le mani gli rovistarono i capelli, frizionandoglieli come avevano tante volte visto fare alla parrucchiera della mamma, in prosecuzione del gioco che li aveva impegnati lungo il pomeriggio. Li depose in terra, sicuro che risollevando lo sguardo avrebbe incrociato il sorriso affettuoso di Luisa, pronta, secondo la consuetudine, a dargli il suo benvenuto con un bacio discreto. Ma Luisa non c'era. Entr allora nel salone, senza chiamarla, e poi ancora senza fortuna in cucina, cercando di dominare una prematura inquietudine, temperata del resto dalle urla festose dei gemelli che lo annunciavano come staffette reali, gi presi, a quel punto, da un gioco che riguardava loro soltanto. Cerc nel soggiorno, attravers il corridoio, si affacci nella stanza dei bambini, e finalmente, affrettando, anche non volendo, il passo, entr nella camera da letto, che aveva lasciato per ultima, perch l'aveva vista al buio. Entr, accese la luce. Luisa si volt verso di lui, con il cuore in gola come un'adolescente: aveva appena riposto fra la lavanda, in un cassetto del com, il quaderno sul quale aveva scritto fino a pochi attimi prima. Lo vide fermo, con la valigia in mano, sorpreso e stanco, sorridente: un'immagine attesa, rassicurante. Pens a lui bambino, in punta di piedi a raccogliere il bucato, immerso nel crepuscolo di una guerra gi dimenticata. Lo vide in lacrime, al cinema, e con la madre in bicicletta; vide le cartoline impersonali che spediva a Gaspare Boscarino da tutti i paesi e dalle citt che attravers a bordo della Topolino dell'Azienda negli inverni del 1954 e del 1955 ("un cordiale saluto a lei, alla sua signora, e alla signorina Anna"). Vide il suo coraggio e la sua solitudine, e per la prima volta da quando erano sposati cap quanto Antonio le fosse necessario: non, come aveva sempre creduto, per sentirsi sicura all'ombra della stabilit e dell'armonia che le trasmetteva il suo sguardo sereno; ma perch con lui accanto sentiva esaltato il suo istinto di madre, ripagato da una fiducia non incrinata dalla prudenza, non sminuita dal riserbo geloso dei ricordi; una fedelt molto pi appagante di quella che le potevano offrire i suoi figli, al riparo senza merito dall'incostanza e dalla violenza dei sentimenti: era un uomo puro, Antonio, bugiardo e fragile, che

all'ombra della protezione che voleva offrire, nascondeva la paura di ammettere di averne bisogno. Paolo non era riuscito a soffocare, con i suoi ricordi intinti nel fiele, il suo bisogno di avere Antonio accanto, per amarlo cos forte da cancellare la paura retrospettiva di aver rischiato di perderlo. Avrebbe saputo perdonargli qualunque tradimento, ora lo sapeva. Sent Antonio una cosa sua, se lo sent dentro, visceralmente posseduto dalle promesse coniugali. Sent di essere lei la donna che lui amava veramente, e se anche avesse voluto inseguire fino alla morte un sogno infantile non avrebbe potuto ribellarsi alla sua signoria assoluta, al suo diritto scritto per sempre nel libro della loro storia: loro due erano uno, e lei aveva fiducia. Non cercava vendetta, non le interessavano spiegazioni, confessioni postume. Le bastava la sua scelta finale, anche se quasi certamente doveva essere stata dettata unicamente da poco coraggio e paura dell'ignoto (questo lei lo capiva benissimo): ma che non era una soluzione di ripiego. Semplicemente era quella che meglio si adattava alla capacit di Antonio di esprimere l'amore. Adesso era l, sulla porta, e la voleva fra le braccia. Lei si sent forte, pi forte di sempre. Si sent la madre di quella famiglia. Gli and vicino e lo baci. Lui non si accorse che aveva le labbra umide, per una lacrima che aveva ingoiato furtivamente, nel buio. Nel racconto di Paolo non potevano aver trovato posto quei due inverni che invece per Antonio erano stati fondamentali: andare su e gi per strade di montagna, alla scoperta di paesi e persone, sentimenti, discorsi che non somigliavano a niente di vissuto prima. Sempre alla guida, perch altrimenti soffriva il mal d'auto, silenzioso e attento, Antonio in quei due anni impar a fumare sigarette senza filtro, a usare la brillantina e il rasoio elettrico, a leggere le carte geografiche, a familiarizzare con bussole, alidade, e altri ingombranti strumenti di misurazione, impar tutto sui ponti radio al fianco di colleghi che pur avendo qualche anno di anzianit in pi sulle spalle, dispensavano il loro sapere come pionieri circondati dall'alone del mito. Qualcuno di loro il tre di gennaio di quello stesso anno era a Torino quando il direttore Viarengo aveva inaugurato la televisione italiana. Da loro, senza accorgersene, Antonio non impar solamente tutto ci che gli sarebbe stato utile per il mestiere. All'inizio cercava di nascondersi, di eseguire le sue mansioni con la diligente apprensione dell'ultimo arrivato, disposto ad accettare consigli senza discuterli. Entrando nel suo gruppo di lavoro (la "squadra") cap immediatamente che quello che serviva per farsi strada era una ben dosata mescolanza di qualit umane e professionali: dedizione assoluta al lavoro; rispetto dei superiori ritenuti pi utili al raggiungimento dei propri interessi, senza per questo insinuare il sospetto di voler ignorare gerarchie consolidate; riserbo assoluto; duttilit nei giudizi; riallineamento della propria scala di valori morali, tarata sull'esigenza di farsi apprezzare per fare rapidamente carriera. Osservandolo, nessuno avrebbe potuto dire di lui che era un volgare arrivista. La sua timidezza infatti gli impediva di assumerne le pose, consentendogli al contrario di raggiungere l'identico obiettivo attraverso lo strumento pi saggio e discreto di una semina paziente. Per mettere in pratica il suo piano Antonio aveva bisogno per di attrezzarsi adeguatamente, come l'alpinista prima di una severa arrampicata. Non gli difettavano solo le cognizioni tecniche, ma anche, anzi specialmente quello, il bagaglio di esperienza indispensabile per imparare a vivere, con il maggior profitto possibile, all'interno di una comunit. Chi era Antonio Ribera nell'inverno del 1954? Non era necessario essere filosofi per rendersi conto, avendo l'opportunit di fare quotidiani confronti con i propri compagni di lavoro, che tutto ci che c'era stato prima non era che una scipita imitazione della vita. Niente da dire, da raccontare, niente di cui andare orgoglioso, eccetto i sogni, eccetto Anna. Non si riteneva all'altezza del compito, sapeva che in quelle condizioni chiunque, anche meno preparato di lui, avrebbe facilmente potuto ottenere molto

di pi. "Qui si guarda ai fatti!" ripeteva spesso con enfasi militaresca il suo caposervizio, un uomo aperto come il golfo di Genova, da dove proveniva, che tutti chiamavano l'Ingegnere. Antonio, se provava a guardarsi indietro, qualifatti vedeva? Del suo passato non poteva che constatare amaramente l'inconsistenza di un unico blocco di ghiaccio che ora, sciogliendosi, faceva scomparire tutto, e lui, l sotto, a giocare in segreto come da bambino, durante la guerra. Era davvero passato tanto tempo? Ne aveva di strada da fare. Per fortuna ebbe il buon senso di non cercare stupidamente di rinnegare il suo modo di essere, ma di sfruttarlo al meglio. La riservatezza, che specie all'inizio derivava dalla vera e propria paura degli altri, dei rimproveri, della lontananza da casa, dell'ignoto, si assest col tempo divenendo, agli occhi di tutti, coscienziosa abnegazione al lavoro. La sua docilit, e la mancanza straordinaria di preconcetti gli permisero, contro le sue pessimistiche aspettative, di garantirsi la stima, addirittura l'affetto, dell'Ingegnere, che con i suoi capelli precocemente bianchi e la pelle morbida e profumata, si impose subito ai suoi occhi come la guida a cui fare riferimento e ottenere protezione. Osservandolo intravedeva, dietro le pieghe del sorriso, nella voce bassa e gentile, o nel tratto sicuro della mano alle prese con un disegno tecnico fatto senza l'aiuto di alcuno strumento il faro di un porto lontano che non tard a divenire la meta del suo viaggio. Davanti a lui si vergognava della sua vita passata, evanescente come l'odore di un temporale scaricato altrove, dove l'unico fatto era un anello sudato che dal fondo della tasca dei pantaloni era finito in valigia, e ora continuava a perseguitarlo. Aveva fretta di cambiare, Antonio, di stare al passo degli altri compagni della squadra: Loi, Bassoli, Fazzolari e Ghirotto, inseparabili, come dimenticare i loro nomi? e Madonia, di Palermo come lui, pi giovane ma gi sposato, con un figlio di tre anni. I due presto diventarono amici, non per omogeneit di razza, ma perch quello, malgrado fosse il pi giovane del gruppo, era considerato il braccio destro dell'Ingegnere, e questo ad Antonio non era sfuggito. Avevano base a Torino, dove Antonio viveva in una camera gelata in subaffitto da una vecchia cortese e spilorcia. Gran parte dello stipendio finiva a casa (nessuno glielo aveva mai chiesto, ma lui pensava fosse scontato che fosse quello il motivo per cui lavorava); il resto se ne andava per l'affitto, e nelle cene nei modestissimi ristoranti dove andava quasi sempre solo, perch in citt quelli della squadra avevano altre amicizie, e se c'erano i soldi preferivano spenderli al cinema o in prostitute, due modi di occupare il tempo che Antonio non avrebbe mai, a quel tempo, considerato praticabili. Il lavoro nei laboratori era monotono e freddo. Poche le occasioni per mettersi in luce, frequenti gli incarichi di poco conto assegnati da funzionari sconosciuti che impartivano ordini con la dovuta impersonalit, che Antonio interpretava come ingiustificato astio nei suoi confronti. Per fortuna quasi ogni mese la squadra partiva in missione. Nessuno manifestava mai particolare entusiasmo, ma una volta superato lo scoglio iniziale delle formalit ripetitive (riempire la valigia, salutare gli affetti per chi ce li aveva vicini, preparare gli strumenti, studiare le carte), gi in occasione della prima cena si ricreava quel clima di complicit e di intimit che riscaldava Antonio come l'abbraccio di una famiglia. Le fotografie di quei giorni, che Luisa ha avuto quel pomeriggio fra le mani ritraggono quegli uomini in ingenue pose da cacciatori, capelli lucidi e sigarette fra le labbra, l'Ingegnere nel mezzo, sul margine di strade di montagna, nella neve, sulle piazze di paesi dai nomi mai sentiti (scritti sul retro, a matita, con la data accanto: Bertinoro, Fossombrone, Cantagallo, Monte Chiappozzo), davanti alle locande dove avevano pernottato e fatto amicizia con le cameriere, che spuntavano, timide, col grembiule, a braccia conserte in maniche di camicia, con le facce tirate in imbarazzati sorrisi. Dentro la sua tuta marrone, il marchio dell'Azienda inscritto in un rombo, nel petto, Antonio imparava giorno dopo giorno a sentirsi uno di loro: gli pareva di essere il primo uomo della sua famiglia.

A giudicare da queste poche fotografie, stampate su carta lucida, dal vistoso bordo bianco, si sarebbe detto (e Luisa lo pensava) che quelli della squadra ostentassero la consapevolezza dell'eccezionalit della loro missione. Questi piccoli uomini, provenienti da piccole famiglie per lo pi povere, che provavano piccoli sentimenti, e avevano piccole idee, tuttavia custodivano segreti come cavalieri di un ordine misterioso; erano i campioni di una fede nuova, incomprensibile, ma alla quale non costava nulla dare fiducia. Andavano predicando l'arrivo di un mondo nuovo, e ovunque catturavano adepti ai quali affidare, come garanzia, immensi tralicci piantati in cima alle vette pi alte, insieme a una promessa: qui, un giorno, verr la televisione. O forse erano davvero uomini semplici, e la loro era una vita di sacrifici e rinunce. Erano uomini fortunati, questo s, che per niente al mondo avrebbero rinunciato a quello che avevano, orgogliosi, sicuri del fatto loro. Antonio non avrebbe potuto trovare di meglio, per diventare un uomo. Non per dimenticare Anna. Ma di tutto questo non c'era traccia nel racconto di Paolo, perch la storia che aveva urgenza di affidare nelle mani affusolate di Luisa non era la storia di figure vere, con un passato, e motivazioni. A lui non interessava capire, e meno che mai gli stava a cuore la verit dei fatti. Lui, soltanto lui era nucleo, fondamento e orizzonte della sua storia; gli altri, Antonio incluso, vi giocavano un ruolo secondario, non erano che pallide immagini senza contorno, e senza luce. Colpevoli senza scampo. Luisa si sentiva ferita da questo inganno come da un'offesa indirizzata precisamente a lei da qualcuno che ne conosceva il lato pi vulnerabile. "Che ci facevi al buio?" le domand Antonio. Ricominciava la vita. capitolo cinque Per la loro prima notte a Milano, Paolo e Anna scelsero una pensione vicina alla stazione, dall'ingresso cos piccolo che il bancone delconcierge era incastrato nel sottoscala, e fra questo e la porta che dava sul marciapiede c'era solo lo spazio per uno zerbino. Le pareti erano rivestite di mattonelle verdemare lucide come quelle di un bagno pubblico. La rastrelliera della chiavi era quasi piena, e il padrone sembrava un tipo tranquillo: leggeva senza interesse il giornale della sera in maniche di camicia. Anna era entrata per prima, ma Paolo, con uno strattone, l'aveva tirata dietro di s: non gli pareva conveniente. Erano arrivati fin l camminando l'uno dietro all'altro, ognuno con la testa piena di pensieri e delle immagini indecifrabili che avevano accumulato lungo l'interminabile viaggio in treno, e sempre Anna gli era stata davanti, condottiera decisa che solo di tanto in tanto si ricordava di voltarsi, o per incoraggiarlo con un sorriso, o per consultarlo con uno sguardo in prossimit dell'insegna di un albergo. Ora quella folla rumorosa di ricordi sfiatava diluendosi al contatto con la realt, e del viaggio non rimaneva che l'odore metallico nelle mani, e il grasso sulla pelle del viso, per l'aria sporca entrata dentro lo scompartimento nelle gallerie. Anche al buffet della stazione era entrata per prima Anna, ordinando pure per lui, assente, distratto dall'osservazione di un'umanit che gli risultava completamente nuova: fatta di poche parole, pochi gesti, luci spente di una giornata conclusa. Pens a Palermo: a quell'ora, nelle case, nei bar era invece il momento della pi grande confusione, delle risate, delle storie, delle urla, dell'esibizione dell'affetto dispotico e chiassoso dei mariti, della rabbia eloquente, ma non sincera, delle donne. Erano quasi le sette, quando Anna gli fin di mescolare lo zucchero nel cappuccino. Paolo osserv la sua energia inesausta: Anna era una proiettile che non aveva ancora raggiunto il bersaglio, e il fuoco che aveva fatto esplodere la carica non solo non s'era ancora spento, ma ne alimentava ancora la corsa. Lui, al contrario, sentiva sulle spalle tutta la stanchezza di un viaggio scomodo, precipitato verso un futuro che la presenza di Anna funestava di dubbi e ansie

sconosciute. Trafitta a bassa velocit dal treno, aveva ancora negli occhi la periferia di Milano, composta all'improvviso davanti ai suoi occhi dopo la lunga traversata della pianura buia, punteggiata da luci lontane, segnali di vite inconcepibili. Quei palazzi quasi sfiorati, sfuggenti, improvvisamente alti con le finestre delle cucine illuminate all'interno delle quali si potevano indovinare i gesti e le parole, le automobili ferme ai passaggi a livello, i passanti frettolosi con le buste della spesa, o in bicicletta, le insegne dei negozi, i cartelloni pubblicitari: tutto quello che esprimeva la continuit quotidiana di una vita che non gli apparteneva, gli procur uno struggimento latente, come fosse prigioniero di un sogno dal significato oscuro, una nostalgia per una memoria non posseduta, che in definitiva era il frutto della sua ammirazione per la sapiente armonia del mondo che svolgeva le sue trame a sua insaputa, in una dimensione comunque irraggiungibile. Era stato un viaggio lungo e silenzioso. L'uno di fronte all'altro, in una carrozza di terza classe, senza niente da dirsi, ma legati al binario di un uguale destino dalla stessa folla di pensieri, e dai sorrisi accattivanti con i quali Anna cercava di strapparlo alla corrente delle paure. Sul vetro del finestrino il paesaggio scivolava senza rimedio, come una punizione. Era successo tutto cos rapidamente. Ora non c'era pi modo di fermarsi, ragionare, mettere i piedi in terra. Invece tutto correva, la ruota aveva cominciato a girare al ritmo delle cose che cambiano: un'accelerazione costante perpetua. Una donna giovane e sua madre erano salite a Firenze e avevano parlato incessantemente, interrompendosi di colpo a pochi chilometri da Milano, come se avessero fatto male i conti ed esaurito troppo presto l'ultimo argomento di conversazione. Paolo, che era finalmente riuscito a chiudere gli occhi dopo una notte trascorsa insonne, percepiva quelle voci sottili e pungenti, cullate dal beccheggiare del vagone, perforargli a ondate la coscienza intorpidita dal sonno non ancora profondo, inquinandogli i sogni con le loro storie, entrando nel meccanismo indifeso della memoria che le avrebbe assorbite con conseguenze di cui avrebbe per sempre ignorato le cause. Cose che succedono: l'aveva letto di recente in un romanzo di fantascienza. Invece Anna, la notte, aveva dormito, a braccia conserte e con le gambe strette, immobile e serena. Aveva aperto gli occhi all'alba e dopo non s'era pi riaddormentata. Avevano lasciato a Palermo un caldo malato, prepotente, in un principio di novembre di cui qualcuno si sarebbe ricordato per questo soltanto. Il cielo quella sera copriva la citt con uno strato compatto di nuvole dove condensavano vapori, odori di fritture e di mare, da via Roma a corso Calatafimi, dal porto fino a monte Cuccio, come una coperta troppo corta: sull'orizzonte infatti, al tramonto, comparve il sole, che riflettendo su quel tetto opaco fece brillare per pochi minuti la citt come per il fuoco di un incendio lontano. La salita verso Milano temper quel caldo tropicale sciogliendolo in una pioggia sottile, che alla fine del viaggio si fece sempre pi fitta e fredda, una polvere d'acqua che, lenta e maestosa, attraversava quasi senza toccare terra l'alone delle luci nelle stazioni. Tutto era diverso. Era un dato di fatto. L'aveva vista arrivare in stazione con le scarpe con il tacco a spillo, le calze di seta, un cappotto attillato color vinaccia, da mezza stagione, le labbra scarlatte e un cappello di sua madre che la faceva pi alta, "perch cos non mi riconosce nessuno!" Non l'aveva mai vista cos bella: da confondere le idee, cancellare ogni rimorso, da inventare un sogno praticabile; inaspettatamente compiuta nella sua maturit, consapevole e innocente, gli si imponeva con la delicata autorit di un vincolo naturale. Quasi gli venivano le lacrime agli occhi perch non trovava parole che potessero ristabilire il normale ordine delle cose. Forte delle ragioni del buon senso aveva l'obbligo di respingere quella pazzia, di essere dolce e comprensivo, ma irremovibile; ringraziarla, ma convincerla ad aspettare, ad essere paziente. Invece, come d'accordo, fece finta di non riconoscerla. Le and vicino, quasi sfiorandola per farla tradire: sent il suo profumo e il cuore che batteva.

Salirono in carrozza da porte diverse. Precauzione non indispensabile: la banchina era semideserta. C'era solo il capotreno, che inciampando su se stesso gli era quasi rovinato addosso. Dopo pochi minuti il treno part. "Quanti soldi hai?" Sdraiati sul letto, con la luce accesa, fissavano il soffitto. Anna gli rispose. Non era poco, era tutto quello che aveva trovato nel portafogli di suo padre. "Tu non ti sei portato il cappotto", gli disse lei. Era vero: Paolo non aveva voluto portarsi un cappotto, e ora, intirizzito, se ne pentiva. Quello che aveva non gli piaceva: era stato del figlio di non sapeva chi, poi rimesso a nuovo dalla zia Agata. Gli veniva lungo, era troppo caldo, troppo largo. Aveva fatto finta di scordarselo appeso nell'armadio; e cos non solo aveva rinunciato a un cappotto, ma anche ai soldi che la zia Agata ci aveva infilato nella tasca interna all'insaputa della sorella. Fecero dei conti: se compravano il cappotto non avrebbero potuto pagare la pensione. Paolo cerc di rassicurarla: "Non fa tanto freddo." "Dobbiamo trovarci una casa", aggiunse ancora Anna. Paolo ancora non si convinceva che facesse sul serio. Tutto quello che diceva, le espressioni del viso, loro due sdraiati sul letto di quella pensione, tutto suonava falso. Lo tranquillizzava solo la certezza che nel giro di qualche giorno Anna si sarebbe pentita e sarebbe tornata a casa. Naturalmente non sarebbe stato lui a proporglielo, ma era sicuro che sarebbe successo. "S. Una casa." Anna spense la luce, e si addormentarono. Fu una notte tormentata: rumori dalle scale, urla misteriose entravano e uscivano dagli incubi. Era la loro prima notte insieme. Dovevano essere le due. Paolo si svegli e si accorse che anche Anna non riusciva a dormire. Osserv il bianco dei suoi occhi inumidirsi, gonfiarsi, spezzarsi in una lacrima. Non avrebbe voluto neppure sfiorarla, non quella notte. Cerc per un po' di tenere dietro ai suoi gesti repressi, alle carezze, alla mano che avrebbe voluto spogliarla con dolcezza, ma l'inseguimento dur poco: ben presto quelli accelerarono il passo, e se lo lasciarono alle spalle. Lei, molto semplicemente, in armonia con tutto il suo corpo, lo desiderava. Sentiva il suo respiro, profondo e regolare. Ci mise un po' ad accorgersi che anche lui si era svegliato. Voleva che le cose fossero subito chiare: quello suo non era stato un capriccio a cui sarebbe stato facile porre rimedio. Lei, Anna, aveva scelto lui, Paolo, perch con lui voleva vivere, non per dimostrare qualcosa a suo padre e sua madre. Vide il battito delle sue ciglia lunghe. Fece un movimento brusco per segnalare la sua presenza. Ma Paolo continuava a fissare il buio. Anna ebbe paura della paura di Paolo: non parlava, non le diceva niente, ma non avrebbe potuto essere pi esplicito. Era chiaro: lui non la voleva, la considerava una ragazzina viziata, e non una donna. Prov repulsione per se stessa bambina: aveva fretta di scomparire, di farsi del male, di essere un'altra, di smetterla di arrendersi al suo destino e cominciare lei a toccarlo, senza aspettare che fosse lui a fare la prima mossa. Quel letto le sembrava enorme, e lui era lontanissimo. Ecco perch piangeva: lo voleva, ma si sentiva svuotata, come se tutto il suo desiderio trovasse sfogo nei suoi pensieri per evitare di doversi realizzare per davvero. Le sarebbe piaciuto pronunciare allora, nell'oscurit, il suo nome, ma non riusciva a trovare la voce, la sua voce scura che lui tante volte le aveva detto di amare. Si domand se sarebbe stata all'altezza, se si rendeva veramente conto di quello che stava facendo. Come chi, alla vigilia di un viaggio, controlla cento volte di aver preso tutto il necessario, pass velocemente in rassegna le sue buone ragioni e le sue certezze. Curiosamente pens a certi suoi lontani parenti e a cosa avrebbero pensato di lei. Mille altri pensieri cercavano di distoglierla da quello che doveva succedere. Lo vedeva appena, nella penombra: remoto come una montagna. Lo desiderava come un terreno da possedere, un terreno che ha dentro di s la storia di tutti i raccolti, la saggezza eterna della natura, e per rimane inerte di fronte al bisogno, sebbene senza la semina rimarrebbe arido, privo di vita. Eppure pi forte, molto pi forte del suo potere, e di questa prospettiva. Ne sentiva l'odore aspro, l'avrebbe coltivato, avrebbe affondato la mano nella

terra, strappando le radici dell'erba cattiva, lo avrebbe assoggettato al suo dominio: si sarebbe sentita comunque, come in quel momento, una piccola cosa di fronte a lui. Perch non alzava un dito per affermare la forza del suo diritto? Lo ebbe chiaro, finalmente. Un'idea che prese vigore e si impossess di lei: perch era una donna, e non era sposata. Era questo a immobilizzarla, a toglierle la voce? Certo, cos'altro? Avrebbe voluto essere un uomo. Questo pensiero le incendi la punta delle mani e dei piedi, le imperl la fronte di sudore, e tutta la superficie della pelle. Se lui l'avesse toccata in quel momento pens che non avrebbe pi avuto la forza di accettarlo. Era come se fossero d'un tratto mutate le condizioni del patto naturale dell'uomo e della donna, e andassero rinegoziate da capo. Si rintan ancora di pi dentro il suo corpo, umiliato dalla paura di tutti i pregiudizi e torturato dal silenzio. Respirava a fatica, senza fiato, ormai decisa ad ottenere quello che voleva nel modo che lei avrebbe stabilito. Era rigida, immobile, inaccessibile. Ma quando finalmente sent la mano di Paolo farsi calda sul ventre sciolse il nodo che la soffocava, si disfece di tutti i pensieri e liber, come un animale selvatico, il suo canto d'amore. Il giorno seguente Paolo and all'appuntamento che lo zio gli aveva fissato alla redazione dell'importante giornale. La nebbia s'era dissolta e il sipario, levandosi, aveva scoperto una scena inattesa: luminosa, chiara, freddissima. Si erano attardati nel letto fino all'ora del pranzo. Anna non aveva fame, e non aveva voglia di uscire. Era stato faticoso, come sconfiggere il drago, o partorire. Ora si godeva il trionfale riposo accarezzando Paolo in ogni parte del corpo con l'accuratezza di un'infermiera alle prese con una delicata medicazione. L'incontro era fissato alle sei di sera. La notte gli aveva lasciato un freddo ancora maggiore nelle ossa. Anna gli era sembrata una bambina violenta e capricciosa, vittima, alla fine, solo di se stessa. Ma non riusciva a provare piet, n si sentiva in grado di proteggerla. La libert che le aveva concesso nei mesi in cui erano stati insieme tutt'a un tratto rivelava la propria natura, costringendolo a riconoscere di non esserne stato semplicemente il garante, ma la vittima, perch la libert per Anna era un campo di battaglia, la rete con la quale catturare le sue prede. Che liberazione, quella notte, ripeterle "ti amo" cos tante volte, con rabbia e dolore: "Anna ti amo" era come vuotare il sacco e prendersi una rivincita, accettare il confronto che aveva fino ad allora eluso per non correre il rischio di rimanerle legato. Ti amo, e non essere vero, farsi del male, come picchiarla e picchiandola confessare e cos scrivere la propria condanna. "Ti amo" per imporre la propria supremazia. Non glielo aveva ancora mai detto. Non cos. Aveva le mani gelate, sprofondate nelle tasche. Avanzava deciso, pi per il freddo che per la certezza di avere preso la direzione giusta, a testa alta, alla ricerca delle targhe con i nomi delle strade, fermando spesso i passanti per avere informazioni, su quale fosse la via pi breve per piazza Cavour. Not che i milanesi ragionavano su diverse grandezze: riceveva da tutti spiegazioni molto dettagliate, che coprivano, con l'aiuto di pochi gesti calibrati, distanze misurabili in chilometri, ma che in definitiva si risolvevano nei nomi di due o tre strade. Pens che a Palermo, per sapere dove si trovava un posto doveva affidarsi a una staffetta di indicazioni generiche e prolisse. Il pensiero di Anna svan nel mezzo di un incrocio. Stava per mettere piede all'interno di un vero giornale! Gi, ma per fare che cosa? Bastava guardarlo: se si aspettavano un giornalista avrebbero pensato ad un errore di persona, o che si trattasse di un impostore. Non aveva neanche un titolo di studio (ma su questo punto non sarebbe stato indispensabile dire la verit). Con l'impertinenza di piccoli fantasmi burloni tutti gli articoli scritti per il giornale dell'Istituto e sulla rivista gli apparvero, nella loro dilettantesca ingenuit, drammaticamente inadeguati, come schizzi d'inchiostro sulla camicia bianca. Li ricordava tutti: ogni frase, ogni aggettivo, pure le virgole; e di ognuno avrebbe voluto disfarsi senza rimorso, per giungere a

quell'appuntamento vergine e incosciente. Pens a una cosa che lo sorprese e lo fece sorridere: si vergognava di loro come della sua famiglia. Era arrivato. Chiese del dottor Misuraca, pronunciando questo nome come fosse evidente che stava dicendo uno sproposito ed era pronto a scomparire e a non farsi vedere mai pi. Aspett l'arrivo un giovane con le maniche della camicia arrotolate, indisponente e sospettoso. Questi lo precedette lungo i grandi stanzoni della redazione, gi deserti, tamburellando fugacemente sulle scrivanie che evitava con aggraziati ondeggiamenti del tronco. Paolo not una donna delle pulizie che in un angolo lontano stava dando l'ultimo colpo di straccio. Di fronte a lei finalmente si sent qualcuno. Attraversarono la stanza con le cabine dei telefoni dai quali gli stenografi ricevevano le corrispondenze degli inviati, e poi il corridoio con le telescriventi. Non c'era nessuno. Un unico tappeto di silenzio. Ma il tepore sviluppato dai radiatori rimasti accesi e dalle mille sigarette consumate lungo il pomeriggio determinava in Paolo un senso di sicurezza, di stabilit: percepiva l'abbraccio di un'organizzazione funzionante. Lo colp l'ordine che regnava sulle scrivanie in legno: le macchine da scrivere erano gi coperte da cerate grigie: c'era qualcuno che ci pensava. Niente lasciava indovinare il ritmo frenetico che doveva aver scandito il lavoro della giornata, i telefoni arroventati, le imprecazioni, le corse dell'ultimo secondo in tipografia. Il giovane non disse una parola fino a quando non si ferm davanti ad una porta chiusa. Buss. "E' tutto tuo" gli disse, e torn sui suoi passi. Dopo un po' si volt verso di lui, e trovandolo ancora l, indeciso, gli sugger a gesti di provare a bussare di nuovo. Fu ci che fece, troppo piano. Tutto quel silenzio era un ostacolo in pi, la minaccia di un agguato. C'era nell'aria uno strano odore di t al limone. Riprov. Attese, deciso, se nessuno gli avesse aperto nel giro di un minuto, a ritornare indietro, andare diretto alla stazione a tornare a casa. Al diavolo pure Anna. Intanto si stringeva il nodo della cravatta e si lisciava i capelli. Dopo qualche secondo venne ad aprirgli una giovane donna bruna, alta, formosa, dai tratti decisi, contadini. "Il dottor Ribera!" disse la donna. "No cio, non dottore" si affrett a correggerla Paolo. "E vabb! Sa quanti ce ne stanno qui dottori come lei!" La sua voce squillante trad un accento meridionale. Qualunque cosa dicesse le si illuminava il viso, come una bambola meccanica. "Venga." "Lei non di qui." "No!" si fece una risata. "Vengo dall'Abruzzo!" Il tono della voce era quello di chi proclama con un orgoglio la propria rassicurante franchezza. Percorsero un lungo corridoio avvolto da una penombra spezzata solo dai riflessi opachi della luce di grandi applique in ferro battuto sulla superficie dei quadri appesi alle pareti: stampe di Milano, Bergamo, Mantova La donna avanzava maestosa con il suo bacino rotondo e alto, indiscreto e gioviale, voltandosi ogni tre quattro passi tranquillizzando l'ospite con il biancore del suo sorriso. La moquette li avvolgeva nel silenzio. "Ci siamo quasi." Buss all'ultima porta, apr senza aspettare risposta, gli fece cenno di entrare. Dietro la scrivania c'era un uomo in grigio, e la faccia altrettanto, con gli occhiali spessi. Gli indic la sedia. "Lei quanti modi conosce di diventare un giornalista?" gli domand dopo qualche convenevole. "Non so." "Lei mi dir: questo uno come un altro." "Quale?" "Lei che esperienza ha?" "Ho fatto" "Lasci stare, mi guarder tutto dopo con calma. Mi lasci il curriculum. Lei viene da Palermo dico bene?"

"S." Questa finalmente era la prima domanda alla quale seppe dare una risposta convinta. Pos sulla scrivania il foglio spiegazzato dove si era limitato a scrivere la data di nascita e il nome della rivista dove aveva pubblicato le sue recensioni. "Io ho cominciato durante la guerra. Venivo da Messina: il balcone della Sicilia. La nostra Sicilia Se non ci stiamo attenti un giorno ci svegliamo e ce la ritroviamo chiss dove, in mezzo al mare. E' cos che finir, prima o poi, no?" Paolo non sapeva cosa doveva rispondere per non contrariarlo, cos non rispose affatto. L'uomo si alz in piedi, prese il curriculum e se lo infil in tasca. "Porti i miei saluti a suo zio. Zio, cugino, non ricordo bene." "E' cugino di mia zia." "Adesso ho da fare. Torni domani all'una. Arrivederci." Non si strinsero nemmeno la mano. In tutto il tempo che Paolo pass al giornale non lo avrebbe mai pi rivisto. "Allora come andata? Sei stato preso? Che ti hanno detto?" Anna era eccitata come una bambina ansiosa di aprire i regali di Natale. "E' andata bene. Credo." "Quando cominci?" "Domani." Anna lo abbracci e lo baci sulla bocca scompigliandogli i capelli. "E quanto ti danno?" "Veramente di soldi non abbiamo ancora parlato." "Hai fatto malissimo." Decisero di mettersi a cercare un appartamento. Paolo sentiva di doverle dare fiducia. capitolo sei "Ieri sera il capo-redattore del giornale mi avvicina: c' uno spettacolo, al Teatro Olimpia. Vacci a dare un'occhiata, e mi raccomando, sono tempi difficili per tutti. Nulla in contrario, vero, sono tempi difficili. Specie per gli spettatori di spettacoli come questo, dove gli attori vagano per le assi del palcoscenico; la scenografia faceva rimpiangere la radio, e la regia che avrebbe voluto essere velleitaria, era inesistente" Questo fu l'inizio del primo articolo che fu affidato a Paolo e che per poco non gli cost la carriera. La firmavice lo salv. Erano passate tre settimane dal loro arrivo a Milano. Grazie al vaglia postale della zia Agata, lui a Anna avevano potuto pagare la pensione e trasferirsi in un appartamento in una vecchia palazzina quasi in campagna in viale Zara, un primo piano che si affacciava giusto all'altezza dei fili del tram. Due grandi stanze fredde con pochi mobili e le pareti scorticate dall'umido. Nella prima, sulla parete di fronte all'entrata c'era un lavabo profondo, da lavanderia, proprio accanto alla porta che dava nel piccolo corridoio dove si affacciava la seconda stanza (dove c'erano il letto, due sedie e un armadio di legno traforato dai tarli) e un bagno cos piccolo che se ci entravano tutti e due non potevano neanche alzare le braccia per sfilarsi la maglia di lana. Mancava lo specchio e la tavola della tazza, e non c'era n la vasca n la doccia. Mentre Anna era ancora in luna di miele, e vedeva solo il lato positivo delle cose, Paolo era troppo preso dal suo lavoro per avere un'opinione su loro due. Per tutti, il padrone di casa, i negozianti, Anna era sua moglie, ma lui evitava di pensarci, e cercava di essere quanto pi gentile e premuroso, in modo da prevenire ogni possibile recriminazione. All'inizio questo gli riusc abbastanza facile, dal momento che il lavoro lo impegnava a orari fissi che non subivano imprevisti. Il primo giorno di lavoro un redattore lo prese con s e gli fece fare un'altra volta il giro della redazione, spiegandogli sommariamente quello che stava succedendo in quel momento della giornata. Paolo cercava di memorizzare quante pi informazioni possibili. "Allora, hai visto tutto? Cosa ti piace di pi? Che vuoi fare?" Paolo calibr la risposta in modo da non apparire troppo sfacciato: "Prima facevo il critico

cinematografico, ma ora, non lo so, anche la cronaca." Cit la notizia dell'omicidio del barbone a Piazza Trento: a suo giudizio l'articolo era troppo lungo e non si soffermava sulla figura dell'ucciso. "Ah non si soffermava? Vieni con me." Alz le sopracciglia e la fronte si riemp di rughe. Paolo lo segu aggiustandosi i capelli, cercando di concentrarsi sulla propria immagine. Il redattore strinse fra i denti la pipa spenta e prese da una scrivania un foglietto sgualcito. Intanto intorno a loro s'era fatto un piccolo circolo di curiosi, ma Paolo non se n'era accorto. "Sai cos' questo?" "No." Paolo sapeva benissimo che avrebbe dovuto rispondere di s, ma prefer giocare al ribasso. "Non hai mai visto un'agenzia?" Gli occhi puntati su di lui aumentavano secondo dopo secondo. Qualcuno si soffermava solo per qualche istante, per poi allontanarsi deluso. Lui alz lo sguardo e cap finalmente di essere il centro dell'attenzione: con una frazione di secondo di ritardo rispetto ai centri nervosi, che lo avevano gi fatto incominciare a sudare. "La vedi? vedi come sono scritte?" "Tutto maiuscolo." "Tu ti prendi una matita, una bella matita appuntita." Una voce disse: "Hai presente una matita?" La sua guida la zitt con un ampio gesto. "Con la matita tu ci metti un bel segnino sui cognomi, sui nomi delle citt, sulle sigle. E' chiaro, no? Devi fare le maiuscole: per il proto, che non intelligente come te." Divenne tutt'a un tratto ironico e sbrigativo: "Poi se fai il bravo, cronaca!" E se ne and. Attorno improvvisamente non c'era pi nessuno. Paolo si sent come un condannato graziato a un secondo dall'esecuzione. Entrava alle otto della mattina e per nove ore, escluso il pranzo, se ne stava seduto a un tavolo a fare le maiuscole. Alle cinque usciva, prendeva il tram e dopo mezz'ora era a casa. Lanciava un fischio e Anna si affacciava alla finestra e veniva ad aprirgli. Spesso per si tratteneva oltre l'orario, per vedere stampata l'ultima edizione. Usciva che era ormai buio. Se non pioveva, o non era troppo freddo faceva un lungo pezzo a piedi. Gli piacevano le strade del centro di Milano, specie con la nebbia. Era attratto dai grandi cantieri della ricostruzione aperti dappertutto, le gru, le trivelle gigantesche, i riflessi delle fiamme ossidriche che illuminavano a giorno le facciate dei palazzi: erano immagini di una vita crudele, che non regala niente a nessuno. Dopo tre settimane di maiuscole venne passato alle necrologie, quindi all'anagrafe e infine all'archivio. Era una vita deludente: non solo non scriveva mai una riga, ma non parlava mai con nessuno, se il lavoro non lo costringeva. In compenso divorava pagine su pagine della raccolta del giornale. Finch una sera il caporedattore degli Spettacoli lo avvicin, e come se lo conoscesse bene gli mise una mano sulla spalla e gli disse: "C' uno spettacolo all'Olimpia. Tu facevi il cinema, giusto? Beh, questo teatro. Che ci capisci?" Portava ancora le scottature del primo giorno di lavoro. Stavolta non poteva rischiare. Intuiva che era la sua occasione. "Ci sono stato qualche volta." Non dovette essere stato troppo convincente, perch il caporedattore si sent in obbligo di rassicurarlo. "E' come il cinema, solo pi noioso, e ci si veste un po' meglio, credo per rispetto a quelli che recitano. Poi, le storie sono sempre quelle", e fin con le parole che Paolo riport fedelmente nel suo pezzo: "Cerchiamo di trattarlo bene. Sono tempi difficili per tutti." Ferrante, un vecchio giornalista della Cronaca dall'accento e dai modi emiliani, la faccia rosa e rotonda con due piccoli occhi umidi, gli disse come mettendolo a parte di un segreto: "Io preferisco il teatro. Il teatro come fare all'amore, il cinema pi masturbazione!" Paolo, colpito dal tono confidenziale, cedette all'impulso di condividere con qualcuno la sua paura e gli confess: "Ma io di teatro non so niente!" "Per questo ti ci manda!" E si caric la pipa, allontanandosi. Fu come quella volta all'Istituto dei Padri reverendissimi: l'articolo provoc scompiglio, e per poco non lo rispediva a casa, ma piacque a qualcuno, e alla fine fece la sua fortuna. "Ribera", gli disse il vicedirettore, "ti prenderei volentieri a calci in culo, se non fosse" lo guard con una complicit che a Paolo risult del tutto incomprensibile.

Si stava avvicinando il Natale. Faceva freddo e ancora non aveva visto nemmeno una lira. Quello che ci aveva guadagnato dall'articolo erano state due settimane di maiuscole. Quando un giorno fu chiamato da qualcuno della Cronaca. Si present al capocronista, un uomo grasso, con un paio di baffi piccoli e curati, dalla perfetta forma trapezoidale, bianchissimi in alto, gialli di nicotina sul bordo delle labbra. Con l'impermeabile e il cappello: sempre, a qualunque ora del giorno, con qualsiasi tempo e forse in qualsiasi stagione dell'anno. Giornalista temuto e ascoltato, sebbene fosse di poche parole, e di molti colpi di tosse, era stato lui a chiedere di conoscere "quell'imbecille che aveva fatto il pezzo dall'Olimpia". Quando se lo trov davanti disse solo: "Ah, sei tu." Si accese il toscanello, sput in terra i fili di tabacco rimasti sulla lingua, prese in mano l'inseparabile agenda e usc. Sussurr appena: "Ci vediamo domani. Fatti dire dalla Dueminuti." Paolo rest immobile, non trovando il coraggio di chiedere a qualcuno che cosa gli avesse voluto dire. Erano le due, l'attivit era frenetica, e se c'era qualcuno che si interessava a lui era unicamente per squadrarlo per poi stabilire se passargli a destra o a sinistra. Le macchine da scrivere in azione, i telefoni squillavano tutti insieme. Paolo, fermo, vicino la porta d'ingresso era solo un ostacolo da evitare. Gli pass accanto una donna giovane, sui trent'anni, piuttosto bassa, dall'espressione concitata, piena di dispacci di agenzia. Ecco che fine facevano, pens Paolo. Si sent utile. Gli disse: "Due minuti e sono da te!" Ricomparve qualche minuto dopo, pi affannata di prima, con gli occhiali da miope scivolati sul naso: "Due minuti! Aspettami, eh? non te ne andare!" Paolo cominci ad aggirarsi per la redazione. Fu avvicinato da Ferrante, che gli tocc le spalle benevolmente e lo inond del fumo dolce della pipa. Gli disse qualcosa che lui non afferr, qualcosa tipo "anche tu in questa gabbia di matti", ma lo disse nel suo dialetto modenese. Paolo rimase colpito dal sudore della fronte. Poi gli vide schioccare le bretelle e sparire infine dietro una porta a vetri. Intravide poco dopo il giovane che lo aveva preso in consegna il primo giorno, aveva una matita sopra l'orecchio e un pacco di fotografie nelle mani: fecero finta di non riconoscersi. Si avvicin ad un telefono che squillava su una scrivania deserta. Si guard attorno: alz la cornetta. Cercavano uno di cui non cap il nome. Disse che non c'era, e aggiunse: "Pu dire a me." Riappesero senza nemmeno rispondergli. La segretaria ritorn a occuparsi di lui. "Ti avevo detto di non muoverti." "Non mi sono mosso." "Gabriella, piacere. Sono la segretaria di redazione." "Ribera, piacere." Not che quando camminava la segretaria serrava le labbra come quando le donne devono fissare il rossetto appena applicato alle labbra: un movimento che coinvolgeva numerosi muscoli delle guance, che si irrigidivano e si scioglievano formando rughe e fossette nervose. Il naso era piccolo, regolare ma squadrato in fondo. Sembrava ancora pi piccolo a causa degli occhiali. Aveva sopracciglia sottili, ma a guardar bene, artificiali, disegnate con la matita del trucco. Indossava un tailleur marrone con la gonna stretta, lunga sino al polpaccio sottile. Portava calze bianche all'apparenza elasticizzate, che le facevano le gambe di porcellana, da infermiera. "Prestami ascolto: l'orario dalle sei, del mattino naturalmente, alle quindici e trenta. Gli straordinari si fanno ma non te li pagano, a te specialmente che sei nuovo. Sei alla nera' te l'han detto? Siccome gli assassini, te lo dico per esperienza, difficilmente rispettano l'orario, devi sempre essere reperibile, 24 ore su 24. Mi di il telefono? Ah, poi un'ultima cosa: se ci hai la macchina, bene, ma una motocicletta meglio. Hai capito bene tutto? Sul lavoro vero e proprio ti dir poi domani il capo. Dammi il tuo numero." "Il numero Facciamo una cosa: chiamo io, perch in questo momento" Si vergogn ad ammettere che non aveva il telefono. Per non parlare della motocicletta! "Perch ti chiamano "Dueminuti"?" disse per deviare il discorso. Voleva farla sorridere, ma ottenne l'effetto contrario.

"Ti ci metti anche tu adesso?" Gli volt le spalle e se ne and parlando da sola, a voce alta. Un redattore la chiam, e lei, senza fermarsi: "Due minuti!" Il giorno dopo, puntuale, alle sei, Paolo si present in cronaca, eccitato, sicuro che le cose finalmente stavano per cambiare. Per festeggiare l'avvenimento Anna s'era alzata con lui e gli aveva preparato il caff. Fecero progetti per la domenica. Efficiente come un tram la signorina Dueminuti gi percorreva col suo passo regolare lo stanzone della redazione carica di dispacci che fuoriuscivano da cartelline marroni con l'elastico mangiato dall'usura. "Ricordati che mi devi lasciare il telefono. Vai, siediti l, e aspetta." "Tra quanto arriva il capo?" Le chiese un cronista entrato in quel momento per provocarla. "Due minuti", fu la risposta. Era come verificare il buon funzionamento della macchina prima di accendere il motore. Dopo un po' Paolo la vide ritornare, con due fumanti tazze di t. Era pi giovane di quanto non lasciasse credere. La stanza era trafitta dal primo raggio di sole. Le ore trascorsero senza che del capocronista ci fosse traccia. La Dueminuti gli pass davanti almeno un centinaio di volte, e sempre gli concedeva il sostegno di un sorriso. "Forse malato, e non viene", azzard Paolo verso l'ora di pranzo. La segretaria nemmeno gli rispose. Era una giornata calma. Cap che la pagina di cronaca sarebbe stata piena solo di riprese di fatti accaduti nei giorni precedenti. Questo provocava un senso di generale rilassamento che a sua volta determinava un irrisolto malumore. "Vediamo cosa sai fare." Si stava facendo buio. La voce ristagn nell'aria spessa per qualche secondo. L'attesa era stata cos lunga che gli sembrava impossibile che quelle parole fossero dirette a lui. La redazione s'era gi svuotata. Era immerso nella lettura del giornale che la Dueminuti gli aveva appena portato dalla tipografia. Ne aveva distribuito una copia per ogni scrivania. La maggior parte erano rimaste l, ancora calde, perfettamente in piega, perch quasi tutti i cronisti avevano lasciato in anticipo il giornale, commentando l'evoluzione delle condizioni del tempo. Il capocronista era entrato senza fare rumore. Gli si avvicin lentamente. Si sedette al suo posto, senza levarsi n l'impermeabile n il cappello. Era un uomo pesante che faceva tutto con un certo sforzo. Poggi l'agenda sul piano della scrivania e ci mise la mani sopra. Rimase a testa bassa a pensare. Guardava fisso in terra, ruminando un pezzo di tabacco. Paolo si alz dalla sedia e and a mettersi davanti a lui. "Sai cosa devi fare? Esci, guardati un po' in giro. Un'idea te la sei fatta, no?" "A proposito di che?" "Milano. Ti piace Milano?" "Non lo so." "Non lo so! Fammi duemila parole." Solo ora il capocronista lo guard. Lo fece lentamente, come gli costasse fatica e non ne valesse la pena. "Per quando?" "Per subito, idiota! Di, vai." Paolo si allontan sicuro del fatto suo. Scese le scale di corsa, schivando i giornalisti che si voltavano verso di lui incuriositi: come se Milano potesse scappare, e lui avesse solo quest'ultima occasione. Aveva la testa completamente vuota e la fretta era questo niente assoluto che si travestiva da un obiettivo preciso. Arrivato sul marciapiede rallent, senza fermarsi. Ma dove stava andando? Che cosa andava cercando? Che ne sapeva lui di Milano? Niente. Ma era o no un giornalista? Sarebbe andato in giro a fare domande. Ma a chi? E poi a quell'ora Era un personaggio da intervistare, Milano? O un fatto di cronaca da raccontare? Roba da terza pagina del Corriere! Non doveva cadere in questa trappola. Facile a dirsi! Aveva solo da rimetterci. Si guard attorno e cerc di ricordarsi di definizioni che doveva aver letto da qualche parte: "Milano una signora operosa senza grilli per la testa, una brava governante disciplinata, instancabile." Duemila parole! Quante pagine sono? Aveva intanto iniziato a nevicare. Via Manzoni s'era fatta silenziosa

all'improvviso, e deserta. Erano rimasti solo loro due, come nella scena finale dei film western: lui e Milano, questa severa regina operaia, nuda, sotto la neve, senza difese, eppure austera, dignitosa, sprezzante ma sincera, come un buon padrone. Triste. Si sentiva come al primo appuntamento con una ragazza, orgoglioso, sicuro di s, irrobustito da quella speciale forza che d il sentirsi un uomo nuovo, trasformato dall'amore. Da dietro un angolo vide spuntare la signorina Dueminuti. Veniva avanti con passi rapidi e sincronici con l'ondulare del braccio libero dalla borsa, protetta soltanto da un cappellino di velluto rosso, incurante della neve e del ghiaccio, rassicurante come un angelo custode non troppo invadente, perch sempre preso da qualcos'altro da fare: gli dava il senso della comunit di cui era entrato a far parte. Vedendola ora pens che doveva essere una donna sola. E che era piuttosto bella, anche se lo nascondeva. Attravers la strada e imbocc via Montenapoleone. Dopo qualche istante scomparve nel buio. Milano era stata subito ai suoi occhi una citt senza colore e senza alternative, cos piatta, senza montagne n mare, un lungo piano orizzontale che non consente scappatoie, senza fantasia, fatto apposta per farvi passare i tram che quando c'era la nebbia parevano marionette legate al cielo, ma curiosamente dotate di una vita propria, come vagoni di un'enorme giostra senza padrone. Una citt fine a se stessa che per non si accontenta di sferragliare efficiente, ma che fa finta di avere un'anima; dove anche gli enormi cartelloni pubblicitari sembrano non prevedere un pubblico, simulandone per la necessit. Una citt che produce essa stessa lavoro e ricchezza come un frutto maturo della sua terra d'acciaio e ghisa, e gli uomini, il loro sudore, le loro braccia, ne sono solo strumento. Una citt dove muoversi andare, mentre a Palermo era puro movimento, anzi finzione di movimento, come le chiacchiere con un amico a un bar; dove le strade sono indirizzi e non stati d'animo, posti dove crescere e incontrarsi, o pure evocazioni di altre vite sempre presenti come a Palermo: via Ruggero Settimo, via Principe di Scorda, via Duca della Verdura Paolo ci si era trovato bene. Confuso tra tutta quella folla anonima si sentiva protetto e libero: come indossare una maschera. Anna no. Anna osservava per ore i tram avanzare rigidi mentre le scariche elettriche sfrigolavano sui fili umidi in prossimit degli incroci, e stava male, e questo malessere le faceva sentire crescere dentro una forza nuova, un rispetto di s che non aveva provato prima. Eppure Paolo sarebbe volentieri tornato indietro, e sognava spesso il mare. Invece Anna a tornare non ci pensava proprio: preferiva mille volte odiare Milano che tornare a sciogliersi nel dolore incomprensibile e acerbo di Palermo; meglio sfidare quel nemico nuovo che rinchiudersi nel covo di una disperazione silenziosa. Pochissimo di questi pensieri seppe tradurlo nell'articolo da duemila parole che invece infarc di statistiche trovate in archivio, che a lui erano parse interessanti e divertenti: e cos aveva parlato delle 280 piazze e delle 3.589 vie, dei 109.147 alberi, i 360 incroci con semaforo, i 18 commissariati e i 20 ritrovi notturni. Dopo due giorni di elaborazione e di scuse lo consegn al capocronista. Il quale gli diede una rapida occhiata senza fare nessun commento e poi lo ripose in un cassetto della scrivania completamente vuoto (questo sorprese Paolo, che gir lo sguardo imbarazzato come se gli avesse carpito involontariamente un segreto), e da l non fu tirato pi fuori, n mai letto da nessuno. Mentre richiudeva con delicatezza il cassetto il capocronista gli domand: "Sai guidare?" "Certo." Paolo aveva imparato la lezione: dire la verit solo quando serve. Poi lui sapeva guidare. Solo non aveva mai preso la patente. "Vuoi davvero fare questo mestiere?" "S." "Andiamo." Paolo lo segu verso l'uscita, adeguando il passo al suo. capitolo sette

Qualche giorno prima di Natale era giunta a Milano la mamma di Anna. Era stato Paolo a chiamarla, accogliendo il suggerimento di sua madre, che in una cartolina raffigurante il Charleston di Mondello gli aveva scritto che al negozio di Gaspare Boscarino l'imbarazzo diventava ogni giorno sempre pi insopportabile, e che se non facevano qualcosa lei si sarebbe licenziata, oppure sarebbe stato il padrone a farlo. Era come se Anna se lo aspettasse. Quando Paolo le disse della telefonata che glielo annunciava si sent sollevata da un peso. La stessa Giuseppina Boscarino fu abile quanto bastava a non innervosirla inutilmente; si mostr rassegnata e costruttiva, dimostrandole coi fatti che era venuta solamente a darle una mano, se serviva. Rivedersi non fu piacevole per nessuna delle due. Era come se il loro incontro fosse stato studiato nei dettagli in riunioni preparatorie dei loro ambasciatori, che avevano stabilito di farle rinunciare per sempre alle vecchie ostilit senza per questo obbligarle a mettere in scena la recita di un affetto inesistente. Questa innaturale sincerit, in cui grande spazio continuava a riservarsi un incancellabile risentimento e la totale mancanza di stima reciproca, suggellava per sempre la loro separazione facendola diventare un dato di fatto non pi modificabile. Si salutarono con un abbraccio freddo come due cugine troppo diverse e riservate, legate solo dalla parentela, e si misero subito al lavoro. Cos in pochi giorni la loro casa assunse l'aspetto definitivo che hanno le case quando una donna ne prende vigorosamente il comando. Fecero finalmente la loro apparizione tappetini per il bagno e per la cucina, presine, cucchiai di legno, tendine, mollettoni, ferro da stiro, pentole di varie dimensioni. Anna le lasci totale libert di agire, non sognandosi neppure di rivendicare diritti che il suo amor proprio non riconosceva come tali. Con i soldi avanzati ci vennero un impermeabile e un paio di scarpe nuove per Paolo. Lui a casa ormai ci stava giusto il tempo di dormire, e nemmeno sempre. Scopr ben presto che l'orario dato dalla signorina Dueminuti poteva forse andar bene per il giorno di ferragosto. Era sempre dopo le quattro del pomeriggio, o ancora pi facilmente nel cuore della notte che venivano consumati delitti, tentate rapine, suicidi, si verificavano orrendi incidenti di macchina. Tutti casi in cui la presenza di Paolo era indispensabile. Il capocronista infatti, sebbene la carica, e le funzioni che ne derivavano, gli consentisse di scivolare verso la pensione senza pi doversi sporcare le scarpe nel fango della prima linea, per nulla al mondo si sarebbe negata la soddisfazione di continuare a scambiare impressioni con i colleghi, confusi tra la nebbia e l'alone delle torce elettriche, di respirare l'odore di benzina di un rogo recente, di gustare con i colleghi sigari e caff nel bar pi vicino al luogo dell'accaduto in attesa che il telefono si fosse liberato. Paolo, tutto quello che doveva fare era accompagnare in macchina il capocronista. Era diventato il suo autista. N pi n meno. Non gli era concesso fare domande, n ascoltare il capo mentre ne faceva; non poteva fare commenti, suggerire impressioni. Meno che mai scrivere due righe o telefonare al giornale. Tutto quello che poteva fare era guardare. Trascorrevano lunghe ore insieme. Le direttive erano chiare: ogni mattina alle sette Paolo doveva passare in garage, prendere la Seicento grigia del giornale, fermarsi davanti l'ingresso secondario di via Senato e caricare il capocronista, che con la sua proverbiale mitezza da ippopotamo prendeva posto accanto a lui, con il sigaro in bocca e l'agenda sulle ginocchia. Montare sulla Seicento con il contrassegno "Stampa" era per Paolo motivo di una gioia indescrivibile, che gli regalava un modo tutto particolare di guardare la gente, con la fuggevole rapidit di chi ostentando un'accuratissima noncuranza, fa di tutto per essere osservato, giudicato, magari invidiato semplicemente sulla base di particolari, come il modo di vestire, o di camminare, gesticolare, di quello che si sta leggendo, o di un contrassegno sul parabrezza della Seicento. Come se ognuno di questi dettagli fosse il marchio bene in vista delle proprie qualit morali. L'itinerario delle mattinate trascorse per lo pi in silenzio a "prevenire i

fatti", diceva il capocronista, era quasi sempre uguale: l'ippodromo a San Siro (passava ore a studiare i cavalli sgambare con profitto lasciando lunghe strisce di vapore dalla bocca affannata - questo a Paolo piaceva moltissimo: il circo senza il pubblico, i tram nelle rimesse, il garage senza automobili). Poi certi meccanici che forse non erano proprio dei meccanici in via Farini, con il fango nelle strade, la guerra ancora nelle piaghe dei palazzi e negli occhi delle persone, poi un saluto e una parola di conforto per certe prostitute tristi del turno di giorno in viale Palmanova. Paolo cercava di fare tesoro di ogni di ogni gemito del capocronista, di ogni indizio utile, qualora ci fosse stato bisogno di lui. Aveva imparato a conoscere gli allibratori pi fidati e i confidenti meno reticenti. Salutava con un cenno uomini con giacconi di pelle lucida a doppio petto con precedenti penali. Era difficile far capire cosa significasse trascorrere ore e ore stretti in una Seicento gomito a gomito con un uomo che s e no pronunciava venti parole in un giorno, e che non mostra di provare alcuna stima nei confronti di chi gli stava accanto. Era qualcosa che si instillava nel tessuto della pelle, insieme al fumo del sigaro che appannava i vetri umidi del parabrezza, e bruciava gli occhi. Paolo era spettatore impassibile della sua assuefazione a questa desolazione, alla noia di questa vita di confine vissuta da intruso. Eppure appena tornato a casa non poteva evitare di entrare in uno stato di ansia continua che gli impediva di stare vicino ad Anna come lei reclamava. E se il capo avesse avuto bisogno di lui? Non passava giorno che la Dueminuti non gli ricordasse di lasciarle il recapito per le emergenze. Lui la rassicurava, ma non sapendo come ovviare era costretto a scendere ogni due o tre ore, fino a notte inoltrata, gi alla latteria sotto casa da dove telefonava al giornale per sapere se il capo o la Dueminuti l'avevano cercato. Era fortunato perch il negozio restava aperto fino a tardi. Oramai la padrona sapeva che non poteva abbassare la saracinesca se prima non avesse ricevuto la visita del "dottore", i capelli arruffati, stretto nel suo impermeabile nuovo, la sigaretta appena accesa, e sotto i vestiti il pigiama ancora caldo e stropicciato. E se qualcosa era davvero successo non gli restava che attendere il passaggio del Trentuno notturno e soffiarsi il fiato caldo nelle mani, implorando l'autista di fare pi in fretta. Solo una volta, ricorda Paolo, il suo pachidermico superiore mise improvvisamente in mostra un'insospettabile vigoria fisica. "Frmati!" Gli intim. Scese dalla macchina e affrett il passo. Paolo, stupito, gli si mise alle costole. Quello subito lo blocc: "Resta l, scemo, torno subito." Erano mesi che non succedeva mai niente, quest'occasione Paolo non aveva nessuna intenzione di lasciarsela scappare. Il vecchio aument il ritmo dei suoi passi pesanti, tenendosi con le mani le punte dell'impermeabile. Paolo non lo mollava. Quello acceler ancora. Lui era sempre l. Il capocronista aveva il fiatone, si volt indietro: "Stai fermo, imbecille!" e prosegu. Paolo pens "stai fresco!" Il vecchio volt un angolo, poi un altro, sbuffando all'indirizzo del giovane rompiscatole. Poi smise di voltarsi, e rallent l'andatura. "Sei ancora qui?" Paolo non rispondeva. Erano arrivati in un pratone deserto. Il vecchio si ferm. Paolo si guard intorno: che c'era venuto a fare in quel posto? Si sentiva solo il ronzio delle mosche. Il vecchio gli diede subito la risposta. "Scostati, pirla!" Si stava slacciando i pantaloni. La presenza della mamma di Anna fu un sollievo per Paolo, molto pi di quanto non lo fosse per Anna stessa. Lo aiut anche ad essere meno neutrale nei confronti del suo destino: se ne cominciava a sentire direttamente investito. Assecond l'istinto che gli suggeriva di fare s che la signora Boscarino potesse tornare a casa certa che la figlia non era finita nelle mani di uno spiantato, un asociale incapace di badare n a se stesso n alla sua bambina. Ci teneva a mostrare il suo lato migliore, anche se questo significava costruirlo l per l. Fu affettuoso e severo come non era mai stato. Se non fosse che la sera a letto poi commentavano sotto le coperte la rappresentazione del "bravo maritino", Anna poteva pensare che si era ritrovata davanti una riedizione di Antonio, cos premuroso e disponibile. Prima della fine dell'anno la mamma di Anna ritorn a Palermo. Non voleva fare arrabbiare troppo il marito che a questo viaggio era assolutamente contrario, e

che alla fine le aveva concesso di andar via per Natale, pretendendo per da lei l'assicurazione di essere di ritorno almeno per capodanno. Lui non amava ammetterlo, ma si fidava di Paolo, se non altro era un tipo sveglio, un giornalista, uno che stava dentro al mondo del cinema. Per Anna e sua madre le due settimane passate a Milano erano state fitte di conversazioni futili su cose concrete, molte raccomandazioni di economia domestica, poche risate. Non fecero mai cenno a quello di cui entrambe avrebbero voluto parlare: nelle loro conversazioni Paolo veniva nominato il meno possibile. Il giorno di Natale andarono a mangiare in un ristorante semivuoto in Corso Buenos Aires. Al ritorno a casa, sul tram, ben presto erano rimasti gli unici passeggeri, seduti, in silenzio, l'uno accanto all'altro. Il conducente parlava da solo, mentre il bigliettaio leggeva il giornale. La sera della vigilia, invece, la madre li aveva convinti ad andare in Duomo, tanto per rendere meno triste la serata. Trovarono molta pi gente di quanta non immaginassero, e dovettero rimanere fuori, al freddo, in attesa di non si capiva bene cosa. Cos l'ultimo dell'anno Paolo e Anna si ritrovarono soli, colpiti dall'improvviso silenzio, senza molto da dirsi. Paolo le aveva chiesto se le andava di uscire. Aveva i nomi di un paio di locali rimediati al giornale, ma voleva che fosse lei a decidere. Anna disse che preferiva stare a casa, che queste erano occasioni tristi e non conoscendo nessuno ancora peggio, e che non l'ha ordinato il medico di fare baldoria l'ultimo dell'anno. "Prima non dicevi cos" si lament lui. "Si vede che ho cambiato idea." A metterla di malumore era stata la partenza della madre; ma anche il fatto di rivedere la stazione (dove non era pi stata) e non trovarvi niente della magia e delle speranze della sera del loro arrivo. C3ominci ad apparecchiare la tavola con gesti nervosi e precisi. C'erano da finire gli avanzi della cena preparata dalla mamma. Paolo disse: "L'ultima occasione di mangiare qualcosa di decente." Quindi infil le mani in tasca, divaricando le gambe. Anna alz lo sguardo verso di lui: vederlo in quella posa di sfida, volgare e violenta la rese furiosa. "Sei un cretino. Pensi solo a te", gli disse in un sussurro convulso. Paolo l'afferr per un braccio. Rimase colpito dalla sua magrezza. "Ah, io penso solo a me! perch , a me chi ci pensa? Tu?" "Per cortesia non fare la vittima." "Si pu sapere che vuoi? T'ho detto io di venire?" Cap subito che non avrebbe dovuto fare questa domanda, ma non ne trov un'altra che potesse farle pi male. Per ora che la vedeva ferita, ai suoi piedi, si avvicin per accarezzarla. La strinse a s. Lei gli disse: "Fai schifo." "Per oggi sei rimasta." "Credevi che me ne tornavo a casa? Allora non mi conosci proprio." Accettava la sua stretta affettuosa con rabbia. Lo guard negli occhi, lui non cap mai con quale intenzione. In qualche modo lui sapeva che lei lo amava, ma era come se quell'amore gli venisse detto in una lingua straniera, di cui lui conosceva solo qualche parola: per esempio il fatto che non era tornata a casa con sua madre. O il fatto che ora si faceva accarezzare i capelli. Paolo non sapeva niente del suo amore, non l'avrebbe saputo descrivere. Conosceva il suo orgoglio, la sua testardaggine, la forza distruttrice: i suoi occhi graffiavano. Eppure anche solo intuirlo, il suo amore, era qualche cosa che lo riscaldava; sentiva di appartenerle. "Io ci penso a te", gli disse Anna mentre continuavano a stare abbracciati. Lei stessa non sapeva se stava dicendo la verit, ma era bello poterlo credere. A tavola lui raccont qualche storia divertente che aveva sentito al giornale. Discussero su un incrocio pericoloso di viale Fulvio Testi, che aveva provocato gi alcuni incidenti mortali negli ultimi tempi. Il giornale gli aveva dato grande risalto. Per queste cose Ferrante era insuperabile, le disse, spiegandole chi fosse Ferrante, ti faceva proprio sentire il rumore della frenata, lo schianto delle lamiere, le urla dei feriti, il sapore del sangue. Un maestro. Ne parl come un amico, quando si erano incontrati s e no quattro volte, ma quello non gli negava mai un sorriso e una pacca sulle spalle, cosa che il capocronista

si sognava. Finito di mangiare accesero la radio (il regalo di Natale della madre di Anna; lei aveva regalato a lui un cappello; lui un foulard stampato con troppi colori comprato in un chiosco alla stazione). Dalle finestre videro che aveva cominciato a nevicare. Ballarono bevendo vino forte siciliano da un bottiglione senza etichetta. Vedendo che Anna aveva cominciato a guardarlo con la bocca socchiusa in un silenzio carico di significato, pens che le avrebbe fatto piacere se avesse cominciato a spogliarla. Lei lo lasci fare fino a un certo punto. Poi disse: "Adesso basta. Non voglio essere toccata da te." Quindi si tir indietro e fin di spogliarsi da sola, al ritmo dell'orchestra Ferrari. Quando fu completamente nuda assunse una posa da odalisca, e prima che lui potesse raggiungerla per baciarla, in punta di piedi corse a piccoli passetti verso la porta di casa, e la apr. Paolo osserv il seno ondeggiare maldestro, fuori tempo. Paolo non si mosse. "Di!" lo esort lei, ma non si capiva che intenzioni avesse. Paolo sent entrare l'aria fredda della notte, insieme alle voci euforiche che venivano dall'appartamento accanto, quello dei padroni di casa. Era certo che se l'avesse voluto lei sarebbe potuta uscire cantando, e lui non l'avrebbe fermata. Lo minacci: "Lo faccio!" Gli punt contro il dito. Saltellava sul posto, intirizzita. Le unghie dei piedi smaltate di rosso sembravano di un'altra persona. "Se mi arrestano colpa tua!" La voce arrivava lontana, come da un sogno. Anna usc, e si avvicin alla porta dei vicini. Paolo si spinse in avanti per poterla vedere. Si aspettava che ora si voltasse verso di lui, ma non fu cos. Era perfetta. Buss alla porta: "Ehi!" Solo allora Paolo si precipit di fuori, sicuro di non fare in tempo, e la afferr per un polso. Lei fece resistenza: troppa, per essere solo uno scherzo. Scivol sul fango portato l dalle scarpe di qualcuno. "Ho detto che non voglio essere toccata!" Paolo fece forza e riusc a farla entrare e a chiudere la porta un attimo prima che i vicini aprissero la loro. Sentirono bussare. Anna aveva cominciato a spogliare Paolo furiosamente, baciandolo tutto. Trov il tempo di dire: "Entrate, aperto!" e lo fiss negli occhi, un'altra volta. Si stesero sul pavimento gelato. Paolo si lasci baciare e sopraffare. Si sentiva libero di non dover garantire nulla, di non esserci, di essere completamente suo. Mancavano ancora venti minuti a mezzanotte. capitolo otto La svolta professionale nella carriera di Antonio avvenne quando in cima alle montagne, o attraversando le pianure, risalendo le coste del paese, il suo sguardo cominci a non essere pi attratto dai calcoli trigonometrici dell'Ingegnere, o dall'efficienza di un ponte-radio, quanto piuttosto dai colori di un tramonto, o dal ronzio del vento, o dall'alternanza di vuoti e di pieni che offriva ai suoi occhi il dischiudersi delle stagioni, vissuto tra l'incresparsi dello specchio del mare nelle giornate ventose di primavera a Nervi, e il crepuscolo di un entroterra arcaico dove tutto sepolto dalle abitudini; e attratto infine dai toni aspri e dagli occhi indifferenti delle donne di via del Campo, a Genova. Insomma quando cominci a riconoscere in s la tranquillit che gli derivava dalla consapevolezza del suo valore, lasciando che l'istinto e poi la volont si indirizzassero liberamente verso spazi fino ad allora inesplorati. Si tratt di una simultanea coincidenza di cambiamenti, tanto che non gli fu facile stabilire se il suo successo professionale (misurabile dal numero sempre crescente di attenzioni provenienti dall'Ingegnere e da altri funzionari che avevano imparato a conoscere ed apprezzare la sua disponibilit e assoluta affidabilit) fosse da attribuirsi a quello che definiva "risveglio dell'anima", o viceversa. Impar a conoscere il valore del coraggio, delle scelte personali, che non richiedevano pi l'isolamento o il disprezzo, perch l'orgoglio della diversit era una forza che aveva dentro, e che la corrivit della vita sociale non poteva mettere alla prova.

Si poteva concedere il lusso di bevute comunitarie, di condividere aneddoti e confessare speranze; e nominare Anna con un sorriso di sufficienza, che la propria forza di maschio giustificava come anticipo sulla inevitabile vittoria finale: quella donna che non rispondeva alle sue lettere, alle cartoline, che in due anni non aveva dato alcun cenno di s, un giorno, sicuramente, sarebbe stata sua. Antonio lavorava caparbiamente anche per questo. A fine mese continuava a inviare a casa con un vaglia postale quasi la met dello stipendio: il vaglia che Concetta spediva lo stesso giorno a Milano, col risultato che in pratica era Antonio a mantenere il tradimento di Anna. Il numero delle missioni non era diminuito, anzi, ora si occupava anche di collegamenti radio. Sempre pi raramente gli veniva chiesto di montare in macchina e farsi mille chilometri di tornanti alla ricerca della montagna pi adatta a installarvi un ripetitore. Entr invece a fare parte delle squadre esterne che a bordo di un torpedone con i vetri oscurati, un antenna sul tetto e il marchio dell'azienda davanti al radiatore in mezzo ai fari, consentivano i collegamenti del Festival di San Remo, o delle radiocronache dal Giro d'Italia, che segu nel 1956, o dagli stadi delle partite del campionato di calcio (da Marassi, o da Torino). Seduto a bordo campo, chino sui suoi strumenti, un metro dietro Nicol Carosio, era felice. Si sentiva indispensabile. Ogni tanto il pallone di cuoio (pi duro di quello che gli era sempre sembrato) gli rotolava fra i piedi e doveva rilanciarlo al calciatore che gli si avvicinava con un certo rispetto. Lo meravigliava, all'inizio, la presenza pesante dei giocatori, il fiato grosso, il sudore sulle magliette, i muscoli delle gambe, il fango sulle facce. Gli piacevano i calciatori, molto pi dei ciclisti visti al Giro: i ciclisti non sono che uomini in bicicletta, che vanno giusto un po' pi veloci. I calciatori invece sono angeli, visti dalle tribune, e poi, da vicino, rivelano un mistero, sono uomini sporchi e duri, implacabili e sofferenti. Era come entrare dentro un libro di avventure, intuire una verit segreta. Una volta, era al Comunale di Torino, nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo, Carosio gli affid cuffia e microfono e spar, raggiungendo di corsa l'imboccatura degli spogliatoi. Pass qualche minuto. Il momento di andare in onda si avvicinava minaccioso e del radiocronista non c'era traccia. Mancavano due minuti. Le squadre erano gi rientrate in campo. Antonio scrutava con lo sguardo le tribune. Sapeva che l'avrebbe visto, impegnato a raccogliere le impressioni di qualche personaggio, lui gli avrebbe fatto un cenno con la mano indicandogli i minuti mancanti e quel silenzio da panico che malgrado il brusio della folla gli ronzava nelle orecchie, sarebbe finalmente cessato. Ma continuava a non vederlo da nessuna parte. Un minuto. Si mise la cuffia nelle orecchie, verific la qualit del segnale. Disinnest un cavetto, l'ago del potenziometro piomb sullo zero; osserv a lungo l'estremit dello spinotto controluce, senza alcuna ragione. Voleva soltanto prendere tempo, non dover guardare l'orologio. Si volt verso gli spogliatoi: nessuno. Reinser il cavo e alz il livello dell'audio, di poco. L'arbitro fischi la ripresa del gioco: in anticipo! Trenta secondi. Sent in cuffia l'annunciatrice: "Ci ricolleghiamo ora con lo stadio Comunale di Torino, per trasmettervi la radiocronaca dell'incontro di calcio Juventus-Lazio, valido per la ottava giornata del campionato italiano." L'annuncio non terminava mai. Pareva pi importante della partita. "Radiocronaca di Niccol Carosio". E ora? Antonio alz il potenziometro. Sudava. Avvicin il microfono alla bocca, tremante. Gli venne in mente una cosa assurda: Anna. Che idea! Ma certo! Lei non rispondeva alle sue lettere? Lui avrebbe fatto sapere che l'amava a tutta l'Italia. Si volt, frastornato da quell'impulso, che il vedere Carosio avvicinarsi impettito e composto nel suo cappotto lungo quasi alle caviglie, non serv a reprimere. Ancora una decina di metri e sarebbe stato l. Non aveva pi il cappello, strano, e il cappotto era abbottonato male: aveva saltato il primo bottone. Gli rimanevano pochi secondi. Intanto cominciava a sfilarsi la cuffia. Il cronista gli sorrise, per nulla turbato dal ritardo e dalle possibili ripercussioni. Gli chiese semplicemente: "Ci siamo?" E Antonio, senza allontanare a sufficienza il microfono dalle labbra rispose: "S, io l'amo."

Niccol Carosio non ci fece caso e inizi la radiocronaca scusandosi per "qualche lieve contrattempo tecnico". Nessuno dei conoscenti di Antonio quel pomeriggio era all'ascolto. Cos che quell'episodio pass del tutto inosservato. Trascorsero ancora pochi mesi e Antonio ricevette un telegramma: aveva ottenuto il trasferimento, ritornava a casa. Quando sua madre lo vide si mise a piangere. Zia Agata lo guardava senza osare avvicinarsi, come fosse un santo. Michele gli sorrise senza troppa convinzione. Le prime attenzioni furono per lui: "Pap! Come stai?" "Come ivecchiareddi !" Non lo riconosceva: era proprio un vecchio stremato dalla fatica di stare al mondo. "Allora, questa televisione? Noi andiamo a vederla al bar qua sotto. Amia mi pare una cosa inutile." Antonio sorrise. Antonio si rivolse allora a Concetta: "E Paolo?" "Bene, Paolo sta bene", disse con il tono pi rassicurante che poteva. Ma fu uno sforzo inutile, dato che lei stessa subito si oscur, vinta dal rimorso di aver taciuto la verit per cos tanto tempo, e aggiunse: "Antonio, ti debbo dire una cosa." "E dimmela! Che fai, mi fai stare sulle spine?" "Tuo fratello. Paolo." "Gli successo qualcosa?" "Sta a Milano. E non da solo. Sta con Anna, te la ricordi? Anna Boscarino." Pens che fare finta di non sapere quello che Antonio provava per lei gli potesse attenuare la sorpresa. Lei stessa un attimo dopo si chiese come pot fargli una cosa simile: dopo che era due anni che nelle lettere non le domandava che di lei. Antonio abbass semplicemente la testa, quasi a concentrarsi meglio su un dolore che doveva rimanere segreto, e si lasci avvolgere da un soffio di vento gelato. Di Anna non parl pi. In questo era come suo padre. Si gett sul lavoro con una foga ottusa e distruttiva. Non c'era nulla che potesse distoglierlo: nemmeno la delusione iniziale di non vedere riconosciuto in nessun modo tutto il lavoro fatto con risultati eccellenti, nei due anni precedenti. Tutto ricominciava: nel nuovo ufficio, fra nuovi colleghi, lui un'altra volta era l'ultimo arrivato, e non sembrava che interessasse a nessuno il fatto che paragonato a loro che non si erano mai mossi da casa, lui fosse reduce da un viaggio in cui aveva visto terre sconosciute. L'arrivo, a distanza di poche settimane dal suo, del vecchio amico Madonia serv a ricostituire, in piccolo, il clima della squadra dei tempi di Torino, delle scorribande sulla riviera di ponente. Tra loro due si consolid un legame cameratesco e affettuoso, che non gli permise di arrivare a chiamarsi per nome, ma di frequentarsi fuori dell'orario di lavoro, la domenica, per andare insieme a Cefal, o a Sferracavallo. Per i figli di Madonia, Antonio divenne "lo zio". "Non ci crederai", gli disse un giorno Madonia mentre, approfittando di un giro di controllo a un impianto, andavano a rifornirsi di vino di Pachino, "l'ho saputo giusto ieri: mia moglie aspetta un altro bambino." Antonio gli disse: "Uno all'anno, complimenti!" ma non aveva un'opinione al riguardo. "Quasi. Non ce la facciamo E' dura" Antonio lo consol arcuando le sopracciglia in segno di solidariet. Madonia continu: "Lo stipendio non basta mai. Anche con tutto lo straordinario" "E' vero." Sembrava che Madonia stesse riscaldando il motore in attesa di una partenza lanciata. Antonio si aspettava che gli chiedesse un prestito, e cominciava ad innervosirsi e a preparare una risposta convincente. Antonio continuava a consegnare parte dello stipendio a sua madre, ora in contanti. Non stava l a guardare esattamente quanti soldi fossero, quindi spesso le affidava di pi di quanto non faceva da Torino. Anche perch adesso le necessit erano diminuite. A trarre profitto da questa nuova situazione furono Paolo e Anna, che non chiesero mai spiegazioni sull'aumento, n perdevano tempo in ringraziamenti. "Ho visto che conosci bene Mimmo Grande", gli disse finalmente Madonia accendendosi una sigaretta. Era il caposervizio. Antonio aveva avuto pi tempo del collega per mettersi in mostra, fargli notare le sue capacit, la sua disponibilit a coprire l'assenza di qualcuno, ad accettare il turno festivo, a

dare una mano all'ultimo arrivato, a rinunciare a un riposo. Ogni attimo in pi dedicato al lavoro era un pensiero sottratto ad Anna. "S, una persona corretta." "Infatti", conferm Madonia per introdurlo nel suo ragionamento. "Ho saputo che c' la possibilit di fare un corso per salire un po', per fare carriera. Per me sarebbe importante. Mah, staremo a vedere." "Non ne so niente." "No, infatti. Ancora non uscito. Solo voci. Forse da qui uno o due ce li possono mandare. E' dura." Antonio promise che si sarebbe interessato, e rassicur l'amico: "Io non mi muovo pi. Basta viaggiare." "Ti capisco." Antonio mantenne la parola. Si inform, ma non subito. Aveva imparato a farsi rispettare. Madonia lo incalzava. Lo avvicinava ogni giorno, per sapere se c'erano novit. Antonio lo tranquillizzava: "E' tutto a posto. Non ti stare a preoccupare." "Sai, per me importante." Grande era un uomo tarchiato e rosso in viso, sempre affannato. Indossava polo marroni abbottonate fino al collo e calzava in testa un berretto di lana, anche quello marrone, con il pompon. Aveva sempre qualche cosa da fare, ma di rado inerente al lavoro: schedine del totocalcio, l'arrivo dell'olio da Casteldaccia, del pesce da Sferracavallo. Tutte le volte che qualcuno lo chiamava "Grande!" immancabilmente proclamava: "Di nome e di fatto!" e accompagnava l'uscita con una risata a denti stretti ed occhi socchiusi, indifferente al fatto che in genere il suo interlocutore non si sforzava di sorridere nemmeno per compiacenza. Era per questo suo modo di essere spiccio che Antonio era riuscito a divenirgli presto amico: era tale la differenza di classe con l'Ingegnere che, quasi per rispetto a quello, con lui era doveroso trattare da pari a pari. Dava pacche sulle spalle e familiarizzava con gli uscieri, con i quali organizzava traffici di ogni tipo. Quando Madonia cominci a farsi ossessivo, Antonio chiese a Grande notizie sul corso di aggiornamento. "No! Quale corso! Non cominciamo con questi corsi!" "Non ho detto che ci debbo andare. Volevo solo sapere se c'." "Che io sappia no. Ma poi non a me che devi domandare." "Madonia l'ha saputo." "Ma no qui: a Milano, credo." "A Milano?" Antonio era seduto davanti la scrivania di Grande. Si alz. "Madonia ci vuole andare?" "Ma vero che alla fine c' la promozione?" "Per quelli che lo passano s. Che lo passa Madonia ho dei dubbi!" rise forte calzando il passamontagna e aggiustandoselo con i palmi delle mani. Si alz anche lui. Dopo qualche giorno la voce del corso di aggiornamento era di dominio pubblico. C'era posto per uno soltanto. Madonia era contrariato, ma era sicuro dell'appoggio di Antonio, e quindi, indirettamente, di quello di Grande. Antonio, parlandone con altri colleghi, diceva sempre: "Non conviene a nessuno. A parte il freddo, i soldi non bastano mai, e poi alla fine chi te lo dice che lo passi? E anche quando? Se poi ti lasciano a Milano, o a Torino?" "Com' Torino?" gli domandavano. "Mica come qua!" Antonio aveva la fiducia di tutti. Dopo averlo preso a lungo in giro per la sua eccessiva seriet, avevano cominciato a rispettarlo. Al momento di prendere decisioni si chiedeva sempre la sua opinione. In questa faccenda era chiaro a tutti, vista la sua insistenza, che a quel corso ci doveva per forza andare Madonia, e poi forse non ne valeva la pena, quindi, che ci andasse pure. Se ci fosse stato qualcuno, fra coloro che ebbero modo di stargli vicino in quel periodo, che lo avesse conosciuto veramente, avrebbe compreso senz'altro che quel suo sguardo ancora pi scuro del solito era quello di chi, dentro i suoi oscuri pensieri, architettava un suo disegno privato e inaccessibile. Ma lui non aveva bisogno di un tale difensore d'ufficio. Lui bastava a se stesso e non si fidava della comprensione degli altri. Non aveva voglia di spiegare. Era un uomo mite, Antonio, ed era stata la vita a imporgli il comandamento: aspettati dagli altri ci che tu saresti in grado di fare loro. Se fino a quel momento non aveva fatto del male ad alcuno questo non voleva dire che non sarebbe potuto succedere. E infatti stava succedendo, ma questa era un'eccezione, tentava di convincersi, non sarebbe capitato pi. Si sentiva preso da una corrente alla

quale non poteva n voleva resistere. Cos come per incendiare un bosco basta accendere un cerino, e per sposare una donna basta qualche volta toccarle un braccio, per distruggere l'amicizia, e perdere la stima dei colleghi basta fare una telefonata. L'Ingegnere fu ben felice di accontentarlo: "Stai tranquillo. Vai a fare le valigie!" I commenti pi benevoli furono: "E' come tutti gli altri" "Ce lo dovevamo aspettare". Antonio and a Milano. capitolo nove Anche la carriera di Paolo era ad una svolta. "Fermati!" disse il capocronista. Paolo accost e spense il motore. Il volante aveva cominciato da qualche giorno a cigolare: non rimase che quell'unico rumore. Poi cess. Cercarono di entrare con la macchina nel cortile di una palazzina in via Torricelli, tra via Sforza e Corso San Gottardo, a Porta Ticinese. Non erano i primi. C'erano vetture della polizia, un'autoambulanza, e diverse macchine di giornalisti. Si accodarono all'ultima. Pi avanti alcuni agenti di polizia e cronisti infreddoliti discutevano animatamente proprio a causa del modo con cui erano state parcheggiate le macchine. Ci sarebbe voluta mezz'ora per sciogliere l'ingorgo e fare uscire l'ambulanza. Paolo si freg le mani. Lanci un'occhiata al suo capo, e solo cos riflett sul fatto che quello ancora non era sceso dall'auto. Forse voleva che lui andasse ad aprirgli lo sportello? Se lo poteva scordare! Era pi di un anno che gli faceva da autista. Pure in agosto. Aveva osato chiedergli dei giorni per portare Anna al mare. "Vacanze?" aveva detto, "mai fatte." E cos era passata l'estate, caldissima. Arriv subito novembre, non si parlava che di Suez e dell'Ungheria. E del quiz della televisione. Ma a lui che cosa gliene importava? Odiava quell'uomo. Odiava quella situazione assurda. Tuttavia avevano cominciato a pagarlo con regolarit. Poco per poterci campare dignitosamente; se non ci fossero stato i soldi che continuavano ad arrivare da Palermo (ora in busta raccomandata), al giorno 28 di ogni mese, non sapeva proprio come avrebbero potuto fare. Torn a guardare fuori, e pens ad Anna. La notte prima si era svegliata e aveva voluto fare l'amore. "Forse vuole rimanere incinta", pens. "Che aspetti? Va a vedere quello che successo." Paolo se lo dovette far ripetere. "Insomma, scendi o no?" Il corpo di un uomo, dall'apparente et di quarant'anni, coperto da un lenzuolo macchiato di sangue fresco, attendeva che gli agenti della scientifica terminassero i rilevamenti. Sembrava che stesse utilizzando la riserva di pazienza cui non aveva avuto il tempo di ricorrere da vivo. Paolo s'intromise in un conciliabolo di investigatori, calzando il basco blu sulla testa. Lo guardarono con rapida ostilit: "Circolare!" "Sono un giornalista!" "Vedere il tesserino!" Paolo si volt spaventato in cerca di soccorso verso la macchina. Il capocronista guardava assente verso un punto indefinibile. Lui non aveva nessun tesserino. Disse rassicurante: "Do solo un'occhiata." Ma gi la sua presenza non interessava a nessuno. I colleghi lo guardavano curiosi e divertiti: "Il vecchio ha mollato il guinzaglio?" Si avvicin al corpo. In quel momento arriv un infermiere, che con un gesto ampio ed elegante sostitu il lenzuolo con una cerata professionale. Paolo vide le viscere di quell'uomo riverse sull'asfalto, e sent un conato di vomito risalirgli faticosamente l'esofago. Si allontan velocemente, uscendo dalla corte sperando di non essere visto da nessuno. Volt un angolo, entr in un altro cortile, vuoto. Si accost a un muro, piegato in due. I panni appena stesi tra una parete e l'altra gocciolavano proprio sopra di lui. Si fece forza e ritorn nella mischia. Si mise ad osservare, cercando di captare frammenti di conversazione e le domande che facevano i colleghi. Not una giovane donna infreddolita: due agenti la stavano accompagnando nel suo appartamento al secondo piano. Si form un piccolo corteo su per le scale esterne. Qualcuno rischi di scivolare. Paolo per discrezione prefer tornare

indietro a relazionare il capo: "Non si capisce bene, nessuno parla. Gli hanno sparato." "Chi?" "Non si sa." "Vai su, scemo!" La giovane era entrata in casa. I cronisti erano rimasti sul ballatoio in attesa di poterle fare delle domande. Paolo si mescol a loro. Parlavano di calcio. Usc un commissario: "La signorina non pu dire niente, e comunque non ha visto niente!" Paolo si fece forza, e con la voce tremante e il fiato acido domand: "Che ci pu dire sul morto?" Fu guardato come si guarda un marziano. Il commissario interrog con lo sguardo gli altri cronisti, che lo giustificarono: "E' nuovo." Il gruppetto si sciolse ordinatamente. Paolo ripet la domanda, questa volta a bassa voce, al primo che gli pass vicino: "Lo conoscevate?" Lo guard con un ghigno. "Se te lo dico tu cosa mi dai poi in cambio?" Paolo non cap: "Come, in cambio?" Quello gli diede una pacca sulla spalla. Nessuno si mostrava particolarmente ostile nei suoi confronti; semplicemente facevano come se non esistesse. Torn in macchina. "Niente. Non parla." "Sali, che fa freddo." Durante il tragitto di ritorno il capo gli fece qualche domanda: "T'hanno detto chi era?" "No." "Quindi non lo sai." "No." "Era un bel tipo." "Lo conosceva?" "Uno strozzino. Lo conoscevano tutti. La ragazza ha parlato?" "No, a noi non ha voluto dire niente, ma secondo me sa qualcosa." "Nessuno ti ha chiesto di me?" "Nessuno." "Hai una prima pagina, l'hai capito o no?" Paolo lo fiss, approfittando di un semaforo. "Quello morto, non si sa chi stato, e la ragazza non ha detto niente! Che notizia ?" "Sei un pirla." Duemila parole. Arrivato al giornale si mise immediatamente al lavoro. Ogni cinque minuti il capo gridava dall'altra parte dello stanzone: "E' pronto?" "Sto quasi finendo!" diceva lui, senza alzare lo sguardo. I fogli entravano e uscivano dal rullo della macchina da scrivere come nella rotativa. Descrisse l'ambiente, avanz ipotesi. Parl della ragazza, vittima innocente. Aveva gli occhi verdi. Si ricord di un mazzo di fiori poggiato accanto al cadavere. Ce lo mise dentro. Il capo lesse il pezzo velocemente. Lo gett sul tavolo: "Rifare!" Paolo prese in mano i fogli precipitandovi dentro con lo sguardo: dove aveva sbagliato? Disse per giustificarsi: "Manca mezz'ora alla chiusura!" "Che me ne importa?" "Ma cos lo buchiamo!" "Vai!" L'urlo fece girare la Dueminuti, che passava in quel momento. Si rimise al lavoro. Ogni dieci secondi alzava lo sguardo verso l'orologio. Modific due o tre frasi, corresse l'attacco. Elimin i fiori. Torn dal capo, sempre seduto con le gambe fuori dalla scrivania, l'impermeabile indosso e l'agenda sotto le mani giunte. Ostent un'invidiabile sicurezza. "Ho fatto. Molto meglio, mi pare. Aveva ragione lei." Il capocronista lesse in fretta. Prese in mano una matita rossa, ma non la us: "No!" disse. Paolo afferr i fogli con rabbia. "Perch ?" Quello si alz pesantemente e non gli rispose. Lasci cadere la matita sul tavolo e si allontan bisbigliando tra s: "Stiam mica qui a perder tempo." All'improvviso si ferm: Paolo sent il sudore gelarsi sulla schiena. Lo vide voltarsi, rosso in faccia, non l'aveva mai visto cos. "La Cronaca!" grid con il poco fiato stentato che aveva. "Sai te cos' la Cronaca?" Aveva afferrato il primo giornale che gli era capitato a tiro, una copia del Corriere. Lo stritol nella mano grassa. "Se di queste ventiquattro pagine venti fossero completamente bianche, eh? bianche! la gente lo comprerebbe lo stesso, se per quello che rimane la Cronaca ed fatta come Dio comanda!" Da come si sforzava sembrava si volesse far sentire dal creatore in persona. Paolo invece credette che si stesse riferendo a se stesso. "Rapine, processi, morti ammazzati! Cronaca, cronaca!" Detto questo spar. Paolo sprofond su una sedia e maled il giorno che aveva deciso di voler fare questo mestiere. La Dueminuti gli si avvicin e lo incoraggi mettendogli una mano sulla spalla: "Di, c' ancora cinque minuti." Lui la guard con invidia: da lei nessuno pretendeva niente. Lo stanzone della cronaca si svuot poco a poco. Rimasero solo lui e quella donna. "Mi butteranno fuori vero?" "Ne ho viste di peggiori!" "Da quanto lavori qui?" "Cinque anni." Paolo scarabocchiava su un foglio di carta velina. I segni

delle matita si scorgevano appena. La Dueminuti gli parl un po' di s, che non aveva finito le scuole, che aveva perso i genitori durante la guerra e che doveva pensare a un fratello pi piccolo. Poi gli disse: "Tu sei una persona sola." "Da cosa lo capisci?" "Da come ti sei stirata la camicia!" Veramente l'aveva stirata Anna: un'altra cosa che non era capace di fare. Stettero l finch non arriv il giornale: la notizia dell'omicidio dello strozzino occupava met della prima pagina. Paolo corse alla pagina di cronaca: l'articolo era l, come se si fosse scritto da solo, lungo molto pi di duemila parole. Del suo c'era solo il riferimento al mazzo di fiori. Era esauriente, completo, articolato, e pieno di dichiarazioni messe tra virgolette. "La giovane donna, di cui era nota la relazione con la vittima, ha dichiarato: E' stato terribile, una cosa tremenda. Ho visto la morte in faccia.'" Queste ultime parole erano riprese come titolo del breve articolo di spalla, nel quale l'anonimo estensore si faceva carico di descrivere con un tono misto di piet e di riprovazione l'ambiente sordido e disgraziato dov'era maturata l'atroce vicenda. Paolo cominci ad agitarsi. Lo rilesse tre volte, saltando da una colonna all'altra. Si alz in piedi, buttando platealmente il giornale in terra. "Non possibile!" Si rimise a sedere. Pens che probabilmente era meglio cos: pi del fallimento personale lo terrorizzava quello del giornale. Non sapeva come (ma non aveva poi molta importanza), ma almeno questo era stato evitato. "Sono un cretino. Un cretino, che non vede l'ora di diventare uno stronzo." La signorina Dueminuti aveva l'aria di quella che non capisce i drammi di un uomo. "Da come ti sei stirata la camicia." Tornando a casa Paolo ripens a lungo a quella frase. E cos pure i giorni successivi. Questi pensieri produssero almeno due immediate conseguenze: la prima fu che da quel giorno Paolo anticip ulteriormente la sveglia per stirarsi meglio la camicia, e cos, per un motivo o per un altro era costretto ad alzarsi ben prima delle cinque; una cosa che per unlagnuso come lui era quanto di peggio ci potesse essere, comunque meglio di un'inutile scenata. La seconda fu la decisione di mostrarsi in pubblico con Anna. Non era stata la frase in s a convincerlo di questo, quanto il modo con cui la segretaria l'aveva pronunciata: era evidente che non chiedeva niente di meglio alla vita di essere lei a stirargli le camicie. A questo proposito Paolo si convinse che la Dueminuti bevesse di nascosto, perch certe volte parlava come se traesse ispirazione da una seconda coscienza che non poteva essere liberata se non da un bicchiere di troppo. Questo lo commuoveva, ma lo lasciava senza difese. L'unica arma a sua disposizione era rivelare il suo segreto. Qualche volta gli diceva frasi tipo "certe cose una donna come me non le conosce", oppure "no, io al cinema non ci vado mai, non c' mai nessuno che mi ci porta. Ma secondo te sono proprio cos da buttare?" Quando lo vedeva al telefono gli si avvicinava per domandargli: "chi , la tua fidanzata?", e siccome non era mai la sua fidanzata, e lo sapevano benissimo tutti e due, il rossore che accaldava le guance di Paolo finiva con essere un segnale che la incoraggiava al di l, secondo Paolo, della convenienza. E s che la signorina Dueminuti gli piaceva, specie quando si toglieva gli occhiali e si massaggiava con le dita tese la radice del piccolo naso. Per un riflesso condizionato apriva anche la bocca. Quando poi la richiudeva, le rimanevano sulle labbra sottili rughe, che provvedeva ad eliminare passandovi sopra la lingua. Concludeva l'operazione con uno schiocco volgare, sereno, materno. Era piccola, ma aveva un bel seno, valorizzato da camicette in jersey attillate con le maniche corte, a dispetto del freddo, ma era la moda. Tuttavia era chiaro a tutti che la Dueminuti non poteva essere l'amante di nessuno. Aveva gi trentun'anni. Quello di cui aveva bisogno era un marito, o di un figlio, o di tutti e due, e nessuno era disposto a tanto, e nessuno era cos vigliacco da approfittarne. Nemmeno Paolo. Il giorno dopo, come se niente fosse accaduto, fu mandato di nuovo in via Torricelli. Da solo. Non trov nessuno. Solo due uomini scaricavano merce da un furgone. L'assenza di altri cronisti gli sugger per un attimo di tornare indietro. Il suo sguardo fu attirato da una macchia di colore, qualcosa che era attaccato al bordo della ringhiera, in corrispondenza dell'appartamento della

ragazza. Sal le scale, con il cuore in gola, come se stesse per commettere lui un delitto. Il capo gli aveva detto: "Falla parlare, vedi cosa sa. D il nome del giornale solo se sei costretto." Era un fiore di carta crespa, fatto probabilmente con l'involucro del mazzo lasciato pietosamente accanto al cadavere il giorno precedente. Lo teneva dritto e legato alla ringhiera un filo di ferro, che faceva da stelo. Si avvicin alla porta. Buss. Non ci fu risposta. Si sent sollevato, e fece per andarsene. "I fiori erano per me. Un suo regalo. L'ultimo, poveretto." Si volt. La voce della ragazza era stata un colpo di pistola in un sogno, ma invece soltanto una porta che sbatte. "La disturbo?" "Figurati!" Aveva le labbra rosse e il trucco pesante sulle palpebre. Sentendosi osservata disse: "Vengo dalla Questura." "L'hanno interrogata?" "Per forza!" "Li ha visti?" "Te chi sei?" "Paolo Ribera. Giornalista." "Giornalista!" "Non siamo tutti cos." "Cos come?" "Come quelli che dicono che hanno parlato con lei e non vero." "Te che ne sai che non ci hanno parlato? Tutti sanno tutto. Arrivederci, di, fammi entrare." Scost Paolo e tir fuori la chiave dalla borsa. "Posso farle due domande?" "No, guarda" Tremava tutta. "Il fiore?" "Ho lavorato in un negozio. Sono io che li faccio." "E adesso?" "Adesso faccio la puttana. Non li leggi i giornali?" "Veramente" "Te lo dico a te: era una brava persona." Paolo la guard cercando di condividerne la piet. "Mi fa entrare?" "Che vuole vedere? In che modo vive una come me?" Era passata allei . Questo a Paolo fece piacere. "Solo due domande." "Due pi due fanno quattro!" Paolo rise. Anche lei. Lui la salut levandosi il basco. "Magari posso passare domani, o un altro giorno." "Un altro giorno la faccio entrare." "Come si chiama?" "Glielo dico domani." La ragazza aveva un tono sorpreso e gentile, triste, come quello di certi malati di mente consapevoli, ma solo fino a un certo punto, della propria condizione. Quando and via, Paolo not un'auto della polizia ferma all'angolo della strada con via Ascanio Sforza. Si sentiva il rumore dell'acqua del Naviglio. Torn, come promesso, il giorno dopo, portandole dei fiori. L'auto della polizia non c'era gi pi. Ne fu sollevato. Vide un uomo elegante uscire dal suo appartamento, dalla parte della ringhiera. Non faceva molto per nascondersi. Infil guanti e cappello e si avvi, composto. Lui non si fece vedere, ma non se la sent di bussare. Le lasci il mazzo di fiori e una copia spiegazzata del giornale accanto alla bottiglia vuota del latte. Torn il giorno successivo. Alla ringhiera c'era un fiore nuovo, fatto con la carta dei fiori che le aveva lasciato il giorno prima. Buss. Fecero l'amore, e alla fine la pag, secondo la normale tariffa. "Perch il giornale, ieri? Non c'era niente su di me." "Per questo." "Ma a me piace stare sul giornale." Sorrise allungando la testa, come un cigno, spalancando la bocca. La salut, come sempre sollevando il basco, galante, in segno di rispetto. Lei gli porse la mano, tenendo il gomito piegato: "Piacere, Rosa." Paolo apr la porta e le indic il fiore: "Non toglierlo." Come in occasione della visita della madre di Anna, della presenza di Antonio dei tre il pi contento sembr essere Paolo. Pens che la presenza di suo fratello avrebbe giovato ad Anna. Aveva paura della sua solitudine, e della propria incapacit a porvi rimedio. Come passava le sue giornate? Si era fatta delle amicizie? Parlava con qualcuno? Era un argomento di cui preferiva non occuparsi. Non l'ammetteva volentieri, ma la sua paura era che se fosse uscito nel corso di qualche discussione le cose avrebbero potuto prendere una piega non rimediabile; non parlandone, invece, il problema non esisteva; facendolo entrare in casa non se ne sarebbero liberati facilmente. Anna ne avrebbe preso coscienza, e avrebbe potuto decidere di cercare una soluzione. E questa avrebbe potuto essere quella di andarsene. Era questo che lo terrorizzava. Ovviamente non faceva niente, assolutamente niente per trattenerla. Tuttavia era contento che lei continuasse a restargli vicina senza pretendere di riceverne qualcosa in

cambio. perch lo faceva? A giudicare dai fatti Anna gli stava dedicando la vita per amore, e basta. La loro reciproca fedelt, concludeva Paolo, significava molto di pi dei gesti che ognuno di loro avrebbe potuto fare per dimostrarla. Questo lo tranquillizzava pi di una dichiarazione d'amore, e lo assolveva da una serie di doveri da cui si sentiva oppresso i primi tempi (il che non significava che provasse l'obbligo di onorarli): esserle vicino, mostrarsi affettuoso e solidale. Le domeniche andavano spesso a ballare, o al cinema. Cominciarono a vedersi con un collega sposato con una donna pallida e robusta, senza idee, che scompariva di fronte alla bellezza trionfante di Anna. Le due donne uscivano spesso insieme. Anna la disprezzava e la trattava come fosse la sua dama di compagnia. La divertiva: non aveva un'opinione sua su niente ("mio marito dice, mio marito pensa, anche io come mio marito"). Qualche volta le veniva l'impulso di picchiarla. Per aveva sempre una discreta somma di danaro nella borsetta, che le veniva dal lavoro del padre, che aveva una macelleria a Porta Romana. E questo era un particolare da non sottovalutare. Alle cene della redazione cronaca per le si sedeva lontano, lasciandola annoiata e silenziosa per tutta la serata. Per qualche sua misteriosa ragione il capocronista aveva finalmente deciso di mettere Paolo alla prova. Cos uno o due giorni alla settimana lo esonerava dalla sua principale attivit, quella di autista, per consentirgli di seguire personalmente alcuni fatti di cronaca. In particolare, e questo era il fatto pi straordinario, aveva mano libera sul caso dello strozzino. Poich in queste occasioni l'uso della Seicento gli era assolutamente precluso doveva utilizzare i mezzi pubblici e questo un po' lo penalizzava: il pi delle volte arrivava sul luogo del delitto, della rapina, o dell'incidente, a fatto ampiamente concluso, quando non c'era pi niente da vedere, nessuno da intervistare. Impar a ingegnarsi, e a fare come tutti gli altri. All'inizio ne era disgustato, poi non ci fece pi caso. Anzi, era divertente. Leggeva le agenzie e si inventava dichiarazioni a caldo che non facevano rimpiangere quelle originali. Spesso era costretto a inventarsi non solo le dichiarazioni rese dal suicida un attimo prima di morire, ma anche fatti, nomi, circostanze. In fondo quello che contava era essere credibile per almeno un'ora, vale a dire il tempo che gli occorreva in genere per raggiungere il pi vicino commissariato, o la Questura di via Fatebenefratelli, che si trovava a due passi dal giornale, dove otteneva maggiori ragguagli, che telefonava velocemente in redazione accompagnandoli da qualche scusa per giustificare la preghiera di annullare le precedenti informazioni. Solo una volta riusc a battere la concorrenza e a far bella figura: fu quando in Corso Indipendenza il tram sul quale viaggiava travolse una anziana signora che attraversava la strada, facendola rimanere incastrata per pi di due ore, fino a che una gru non venne a sollevare la vettura. Essendo gi quasi l'ora del pranzo il suo fu l'unico giornale del pomeriggio a dare la notizia, con grande rilievo, in prima pagina. Dett il pezzo a braccio, ed era tale l'urgenza che non venne modificato neppure nella punteggiatura. Ferrante lo cerc per complimentarsi a suo modo, sbuffandogli addosso il fumo della pipa: "Bravino, eh, il giovane di bottega! Ti dico la verit, cominciavo a dubitare. Giusto il finale, un po' troppo diarroico." Paolo esit. Ferrante gli rise addosso, massaggiandosi la pancia: "Il finale sempre stitico. Ma non troppo, se no sai i dolori!" Era lo spirito di Ferrante. Era un anno e mezzo che lavorava al giornale: quello era il suo primo articolo. Per festeggiare, Antonio, che era a Milano ormai da una settimana, port lui ed Anna negli studi della RAI, alla Fiera, per assistere alla ripresa di Lascia o raddoppia. Antonio ostentava dimestichezza e noncuranza. Salut i colleghi. Rispose con un'alzata di spalle ad una domanda del noto presentatore su un dettaglio tecnico. Era un uomo sicuro di s, forte, ben nutrito, mentre Paolo era sempre pi pallido, sgualcito. Rispetto a quando erano due ragazzi le parti si erano capovolte. Eppure per lui Antonio continuava ad essere il fratello piccolo, e per questo privo di una sua storia interessante, incapace di comprendere i veri drammi della vita, le grandi passioni. "Eccolo, sempre uguale, non

cambiato", pensava mentre al ritorno, sul tram, lo osservava chiacchierare tranquillo con Anna, "un ragazzino. Chiss se si mai innamorato. Ora le sta accendendo una sigaretta. Sembra che abbia imparato a farlo ieri, per non trovarsi impreparato. E' buffo vederlo vestito cos, giacca e cravatta scura. Deve guadagnare bei soldini. E' un tipo abituato a fare, senza pensare troppo. Si pu permettere di ridere con Anna. A me non riesce pi. Forse non mi riuscito mai. Uno come Antonio non sar mai pazzo d'amore. E s che un tempo gli piaceva. Ma eravamo tutti dei ragazzini Io amo Anna. Allora perch ho bisogno di tornare da Rosa?" In quei giorni il capocronista port Paolo all'ippodromo, per il Premio Apertura, che inaugurava la stagione del galoppo, e Paolo si lasci convincere a fare una scommessa. Gioc, seguendo le istruzioni del suo capo, e vinse. Una discreta somma: mai avuto tanti soldi in mano. Ebbe la forza di resistere alla tentazione di rigiocarli nella corsa successiva, e and di filato, quasi in apnea, in un negozio davanti al quale passava tutti i giorni, coltivando un sogno impossibile. Entr e con un piccolo anticipo compr un pianoforte. Usato, da accordare (ne fece a meno), e senza un tasto. Quando il giorno dopo glielo consegnarono, Anna non poteva crederci: "Madre Santissima, sono due anni che non mi compro un vestito come si deve Quanto hai vinto, si pu sapere? Magari il televisore, o la lavatrice" Paolo era troppo eccitato per starla a sentire. Dava ordini impazienti ai facchini, che fecero entrare in casa lo strumento attraverso la porta finestra per mezzo di una carrucola. Li ringrazi con una mancia memorabile. Anna gli ronzava attorno come una zanzara: "Ti pareva la cosa giusta da farsi? Padre-figlio-e-Spiritosanto! Tu devi essere pazzo." Ma appena Paolo attacc le note diNu quart'e luna , la commozione che aveva cercato di tenere a bada esplose in un pianto che si mescolava ai ricordi, e al riso, e a tutto l'amore che aveva provato per lui: "Cielo, e che nuvole stasera, pare c'o munno se ne muore, ma na speranza pe' stu core non po' mor!" Paolo suon tutta la sera, lasciando che Anna ballasse con Antonio, eccitata come una bambina la notte di Natale. Era davvero serena, proprio come una notte tranquilla. "La strada la sai" aveva detto Rosa a Paolo. E Paolo, con l'ottima scusa di dover proseguire la difficile inchiesta, non ebbe bisogno di farselo dire un'altra volta. All'inizio andava da lei almeno due volte la settimana; poi si fece via via sempre pi assiduo: tre volte, quattro. Tutti i giorni, tranne la domenica. Non mancava mai di pagarla regolarmente. Con il suo stipendio l'ignaro Antonio stava finanziando il tradimento del tradimento di Paolo. Rosa aveva una montagna di capelli neri, e vestiva con gonne lunghe da zingara. Era una donna solida "come unosfincione " le diceva lui per farla sorridere, il che capitava raramente. Viveva ancora nel terrore che, in seguito all'omicidio dello strozzino (un uomo disgustoso che lei diceva di odiare, ma che la proteggeva lealmente) potesse capitarle qualcosa di brutto. Gli domandava sempre: "Ci sono novit? Alla Questura che si dice?" "Ancora niente." "Eh gi," gli faceva eco lei, rassegnata ad un altro destino. Una volta, per soddisfare la curiosit di Paolo, lo port nella casa dove stavano accampati i suoi genitori e i suoi fratelli. Era un posto fangoso, lurido, nella periferia sud, vicino la ferrovia. Vi erano arrivati qualche anno prima, subito finita la guerra, da Matera. Facevano finta di ignorare il modo in cui Rosa si guadagnasse da vivere e si facevano gli affari loro. Il padre e i suoi due figli maschi facevano i muratori. Paolo fu sorpreso perch in uno dei fratelli di Rosa gli parve di riconoscere un tale che aveva gi visto, forse all'ippodromo. La stranezza non stava in questo, ma nel fatto che era quasi certo che l'aveva visto discutere animatamente con il vecchio capocronista a proposito di una scommessa. Stavano tutti in una stanza di quattro metri per tre (oltre ai genitori e ai figli maschi c'era anche una figlia femmina che aveva quindici anni e non faceva niente tutto il giorno). Da un angolo all'altro era tirato un filo per stendere. A terra, accanto ad uno dei materassi (non c'era che un'unica rete e su quella

dormivano i genitori) era posata e forse dimenticata una bacinella col bucato fatto. C'era puzza di chiuso, di sudore. C'era solo un'altra stanza, una cucina stretta e lunga, quasi priva di mobili. Giusto un tavolo, piatti da lavare, molliche e cicche dappertutto. Mosche come in un letamaio. Sotto la vasca dell'acqua c'era una bacinella con lo smalto raschiato e ingiallito dall'urina. Dentro vide un paio di calzini corti bianchi, sporchi di fango. "Questa la casa", disse Rosa. "Dovresti vedere dove sto io", le disse Paolo per rincuorarla, ma non aggiunse spiegazioni che sarebbero suonate inverosimili. Aveva la sensazione di essere il primo essere civile a mettere piede in quell'antro di cavernicoli. "E al paese era pure peggio", aggiunse Rosa con un tentativo di amarezza adulta, che lasciava trapelare un fondo di furbizia. Ma ci che stup pi di tutto Paolo fu la dignit, in qualche modo austera, del padre di Rosa. Un uomo dalla barba lunga e lo sguardo basso, dai gesti precisi e misurati, chiuso in un silenzio che forse si sarebbe potuto protrarre per tutto il resto della vita. Quest'uomo gli strinse vigorosamente la mano, chiedendogli di dove venisse: "Palermo", disse lui orgoglioso. Sembravano due uomini pronti a capirsi. "Ne parler al giornale", gli disse Paolo per confortarlo. Quello non cap, o almeno cos sembr. Mentre stava l, arriv un gruppo di operai in bicicletta. Ferrovieri, pens Paolo, molti tenevano legata alla canna una borsa di cuoio squarciato dagli anni, chiusa da fibbie arrugginite, spesso solo annodate. Poco dopo fu la volta di altro gruppo, a piedi: buste di carta tenute con lo spago al posto delle borse, scarpe grosse, sigarette accese. Tutti, prima di dividersi, lanciavano un'occhiata a quell'intruso con le mani in tasca. A un paio di loro che si avvicinarono, pi curiosi degli altri, il padre di Rosa spieg con un sorriso inedito e imprevedibile: "E' un giornalista! Scrive sui giornali!" Dunque il grugno diffidente che gli aveva opposto sino ad allora era semplicemente l'assenza di dimestichezza con la civilt, lo stupore dell'ignoto. Paolo lo salut stringendogli la mano, con il calore di chi ha da poco qualcosa da condividere. Da quando aveva vinto alle corse sembrava che il capocronista fosse meglio disposto nei suoi confronti: si capiva che era entrato a far parte di un club. Cominci a scrivere brevi cronache da trenta righe, riassunti di fatti curiosi passati dalle agenzie, rigorosamente anonimi. Tuttavia il rapporto esclusivo che lo teneva legato al capocronista cominciava a costituire per lui un tappo messo a freno alle sue ambizioni e al suo legittimo interesse a passarle al vaglio delle opportunit. Che ad altri, anche pi giovani, e con minore anzianit, non venivano negate. Gli toccava sentirsi dire, per esempio da Fabrizio Righi, il giovane borioso che lo aveva accolto al giornale con il sussiego del veterano, "parliamo, vediamoci, se non leghiamo fra noi giovani qui finisce che diventiamo come questi qua, roba da ulcera a quarant'anni", e per poi vederlo prendere i gradi di redattore ordinario, contratto, contributi e tredicesima, dopo due anni trascorsi a passare agenzie alla pagina degli spettacoli. A Righi piaceva dire "questo quello che vuole il pubblico", con l'aria ipocrita e grave del giovane giornalista che finge di non voler ammettere di mangiare merda, ma soprattutto che gli piace. Sapeva il fatto suo. Paolo gli domandava: "Ma a te non fanno effetto tutte le minchiate che scriviamo? Tu non stai in Cronaca e queste cose non le sai - (sapeva prendersi qualche piccola rivincita) - ma io che ci vivo tutti i giorni Quello che raccontiamo non mai quello che successo veramente. Solo i nomi di quei disgraziati sono gli stessi, ma per il resto tutte invenzioni. E la gente ci casca. Vuole sapere dal giornale quello che successo, e come successo. E si formano un'opinione. Ma che opinione ? Si formano un loro giudizio: ma su che cosa? Tutta Milano piena di opinioni inventate!" E il Righi gli rispondeva serafico: "Ma noi a chi ci rivolgiamo? All'impiegato che torna a casa stanco, al portinaio, alla tabaccaia. L'importante farsi capire. Parlare la loro lingua. Non solo un problema di modi di dire, ma di farli desiderare di essere protagonisti. Dico: ma tu la conosci la gente che legge il giornale? Li hai mai sentiti parlare? La gente i fatti che stanno sul

giornale li legge e se li racconta, a tavola, in tram, come se fossero capitati a loro. Pure invenzioni, bugie. Che male c'? Un giornale non un libro di storia. Sono chiacchiere. E allora?" Paolo non lo capiva. Righi era figlio di un avvocato e di una donna francese, o belga, ed era perfino laureato. A Paolo non piaceva perch, anche quando gli concesse la sua amicizia, quello non smont mai quell'impalcatura supponente fatta di vacanze in Brasile, o villa sul Lago di Como, prime alla Scala, che il pi delle volte utilizzava come uno scudo (aveva un suo modo invidiabile di disinteressarsi totalmente delle critiche dei suoi superiori senza per questo offenderli o innervosirli), ma che sapeva trasformare in un'arma infallibile: in occasione delle cene di redazione, il primo luned del mese, a cui Paolo aveva appena cominciato ad essere ammesso, quando sfoderava tutta la sua arguzia: per fare colpo su Anna. Paolo, sottoposto a marcamento stretto da parte della signorina Dueminuti (che la presenza di Anna non demoralizzava, ma che stranamente anzi incoraggiava a insistere) poteva solo assistere "disgustato", come le diceva ostentando indifferenza al ritorno a casa. "E' un presuntuoso", diceva di lui. Ma era sempre Righi a chiamarlo per andare a prendersi una cosa al bar. Il giornale era diventato la sua vera casa. Un giorno si trovava seduto al tavolo della redazione. Sent due colleghi che, mentre uscivano, alla fine della giornata, lo nominavano per questioni di lavoro: "Secondo Ribera si potrebbe" La porta si richiuse al loro passaggio e lui non pot afferrare il resto della conversazione. Per la prima volta si sent uno di loro. In assenza del capocronista nessuno gli dava da svolgere alcun compito. Per questa ragione gli capitavano intere giornate in cui non aveva altro da fare se non osservare l'andirivieni dei colleghi, come fosse sulla banchina di una stazione ferroviaria, in attesa che l'altoparlante annunci la partenza del suo treno. Che ovviamente non partiva mai. Per gli piaceva restare in quei locali affumicati, a contatto con i suoi colleghi operosi. Gli piaceva specialmente l'arrivo dell'ultima edizione appena sfornata dalle rotative, che tutte le volte gli dava la stessa sensazione, e cio che non ci fosse alcun nesso fra l'affaccendarsi di quegli uomini in maniche di camicia che da una vita gettavano sudore e lacrime in attesa dell'et pensionabile e le pagine stampate, come se il giornale in qualche maniera si componesse da s, quasi che tutte le notizie provenienti da ogni parte della terra si convogliassero autonomamente sulla carta stampata, come rispondendo a un bisogno collettivo della pubblica opinione, una gigantesca calamita, un mostro dotato di un potere medianico tale da sprigionare e attrarre volumi di energia per i quali non esisteva strumento capace di misurarli, in grado di produrre ogni giorno quel miracolo tecnologico indispensabile, come diceva Ferrante, a incartare verdure e uova, e a foderare milioni di pattumiere di latta. L'arrivo di Antonio aveva squilibrato il corso delle giornate di Paolo, come quando viene la febbre. Era un fastidio leggero. Sentiva che, chiss per quale motivo, doveva difendersi da lui. Se fossero stati personaggi di un western avrebbe potuto dirgli: "questa citt non grande abbastanza per tutti e due". A lui stesso sfuggivano le ragioni, e cercava di pensarci il meno possibile. Forse, semplicemente, Antonio era l'ombra lunga della sua famiglia. Milano era sua, era stata la sua fuga, e ora non voleva dividerla con nessuno. Paolo non accett mai tanti inviti come in quei giorni: per feste in casa di colleghi, per gite fuori citt con Righi, per cene e dopocene goliardiche per soli uomini: tutte occasioni nelle quali sarebbe stato scorretto, o quantomeno poco prudente, presentarsi con un ospite imprevisto, il fratello pi piccolo arrivato dalla lontana terra natale. Per questo tutte le volte era una discussione con Anna. E tuttavia Paolo aveva l'impressione che in un modo o in un altro trascorresse tutto il suo tempo fuori del giornale in compagnia di Antonio, come se questi avesse il potere di dilatare il tempo, e le giornate durassero il doppio. Insieme, lui Antonio ed Anna, andavano al luna park montato ai prati della Fabbrica del gas alla Bovisa, o al Circo, allo Stadio, all'ippodromo (dove a scommettere era solamente lui), e una volta pure a passeggiare al Naviglio Grande, dietro Porta Ticinese, a due passi dalla casa di Rosa. Avvolti nella

nebbia, si erano spinti fino a San Cristoforo, quando a un certo punto Antonio e Anna si allontanarono da lui, di pochi passi, ma sufficienti a farli scomparire nel nulla. Uno dei due dovette poi gettare una pietra in acqua; Paolo non disse niente, ma tutto quel silenzio lo obblig ad avvicinarsi al ponte, dietro la chiesa, nella direzione dalla quale aveva sentito arrivare il tonfo cupo e il gorgoglio dell'acqua che si richiudeva. Il silenzio si materializza in quello che non c': Anna e Antonio non c'erano. A bassa voce chiam: "Anna!" senza ottenere risposta. Sal lentamente i gradini, accostandosi al parapetto. Anna e Antonio non seppero condurre oltre lo scherzo, e piombarono alle sue spalle. Antonio non si ferm in tempo e urt Paolo, in modo da fargli scivolare il cappello, gi nel canale. Di quel giorno Paolo ricorder sempre le pupille di Anna, illuminate come lucciole incastrate, senza ribellione, fra il cappello, scivolato per vezzo fino alle sopracciglia, e la sciarpa, tirata su fino a met del naso a protezione del freddo. Camminavano insieme, Anna al centro, indecisa nel dispensare sorrisi e ricatti, in Galleria, in piazza Duomo, la domenica mattina. A Paolo sembrava che fosse sempre domenica: Antonio era sempre presente, anche se non c'era. Anna ne aveva assunto i modi di dire (quando mai l'aveva sentita esclamare, come invece Antonio, "botta di sale e botta di veleno!" oppure, quando si arrabbiava, con l'aria divertita di chi ha rubato la marmellata, "viri ca ti rugnu quattru scassuna", che gi in bocca ad Antonio faceva ridere, e Paolo si chiedeva quando e dove avesse imparato ad essere cos impertinente e sicuro di s). E anche le abitudini, come quella di spezzare in due la gomma americana prima di masticarla. Paolo, tornando una sera dal lavoro, ne trov la met intatta sul suo comodino e lei, fissandolo negli occhi disse: "L'ho sempre fatto. Ti sei scordato che stato Antonio che ci ha fatto conoscere?" "Ma questo che c'entra?" si insospett Paolo. Anna spieg, mentre si sfilava la sottoveste: "C'entra, c'entra, perch Antonio lo conosco meglio io di te. Anzi, lo conosco da prima che lo conoscessi tu!" e a questo lui non aggiunse altro: era vero. Anna lo nominava di continuo, spuntava sempre fuori in un confronto, in un sogno. "Antonio, Antonio! Che lo dobbiamo fare, santo?" Esclamava Paolo quando non ne poteva pi. "Pi santo di te di sicuro!" Era vero anche questo. Antonio era buono, e lui era cattivo, era sempre stato cos. Somigliava alla mamma, Antonio. Anzi, per essere pi precisi, di pi somigliava alla zia Agata. Si commuoveva ancora facilmente. Le tragedie del mondo pareva lo riguardassero personalmente. Anche se forse il suo modo di reagire era il solo di cui dispone chi non in grado di esibirne uno meno ovvio. Paolo continuava ad andare da Rosa. Rosa non gli chiedeva niente, non cercava niente. Prestava la sua voce da bambina a risate incandescenti. Era buona. Lui la pagava, lei era tranquilla. Non c'era bisogno di amarla. Bastava volerle bene. Aveva cominciato a farle anche qualche piccolo regalo, anche se questa non era la sua specialit: un borsellino rosso di finta pelle, un'agenda per la casa piena di ricette che lei non avrebbe saputo cucinare mai, un portafotografie di plastica che per tutto il tempo che la frequent vide sempre desolatamente vuoto. Andava all'ippodromo appena poteva: i soldi non gli bastavano mai. Il denaro da Palermo andava sempre di pi diminuendo, e d'altra parte non poteva avanzare pretese (la mamma gli scriveva: "la vita sempre pi cara. Spero che stai bene e che questi soldi ti basteranno."). Piuttosto aveva l'impressione che anche Anna ne ricevesse dai suoi genitori (perch non avrebbero dovuto farlo?) ma che per una ragione sua non glielo volesse dire. Le aveva visto delle collane da bigiotteria nuove, e non immaginava se con i soldi che le passava lui avrebbe potuto permettersele. In quel periodo vinceva e perdeva piccole somme giudiziose. Un pomeriggio rivide all'ippodromo il fratello di Rosa. Accettava scommesse in un angolo del parterre, lontano della mischia. Teneva una sigaretta spenta fra le labbra ed era svelto di mani. Paolo gli si fece incontro, ma quello fece finta di non riconoscerlo. Lui gli

tese la mano. "Sono io, Ribera. Non ti ricordi? Ci siamo" Il giovane non lo fece finire: "Stai zitto e vattene da un'altra parte", e con lo sguardo vag per le tribune piene, e pi lontano ancora, oltre la siepe delle gare di galoppo, forse per mostrargli dove. "Dammi un buon cavallo", insistette Paolo, con un tono familiare. "Vai via, stronzo" gli rispose quello. Paolo and allora da un allibratore ufficiale, senza voltarsi indietro, e gioc un cavallo qualsiasi. Si mise quindi in cerca del suo capo, del quale, appena entrati in ippodromo, aveva perso le tracce. Era una giornata di sole, c'era molta gente. Era da poco iniziata la primavera. Part la corsa. Senza storia: il suo cavallo arriv ultimo. Torn dallo stesso allibratore e gioc, sulla corsa seguente, un cavallo che gi gli aveva fatto vincere una volta, si chiamava Nillapizzi. In realt era tornato da lui per domandargli se per caso conosceva il fratello di Rosa, e se era in grado di dirgli che tipo fosse, ma il fratello di Rosa era scomparso, e lui non seppe fornirgli una descrizione sufficiente a fare capire a quello di chi stava parlando. Allora and al bar. Ordin un Campari. Nillapizzi era data a cinque. Si guard intorno. Mancava ancora qualche minuto all'inizio della corsa. Fu preso da uno strano presentimento. L'indomani Antonio sarebbe ritornato a casa, a Palermo. Un po' gli dispiaceva. Pi per Anna: le era stato di compagnia. Su Antonio ne sapeva quanto prima, cio poco, anzi di meno. Cio niente. Ne sorrise. Non avrebbe dovuto giocare ancora. Non su Nillapizzi. Voleva andare da Rosa: un modo pi sensato di spendere i soldi. Rosa era sincera e generosa. Rosa, Rosina un nome buono per una cavalla. Ma, come di suo fratello, anche di lei sapeva poco, quasi niente. Per era sicuro di una cosa: vedersi faceva bene a tutti e due. Si facevano compagnia. Ognuno nei confini che aveva stabilito quali contenitori di quella storia, si stimavano, si sentivano utili. Le piacevano i suoi capelli, e il fatto che era bassa, molto pi bassa di Anna, e che spesso in casa girava a piedi nudi, sopra tappeti di corda. Diceva di non sognare mai. Paolo cominci a sentire fame. Non aveva mangiato niente. Alle due, prima ancora della chiusura, il capo lo aveva fatto montare in macchina. Cominci a passeggiare avanti e indietro. Consider che le azioni pi insignificanti, alle quali non c' ragione di tornare mai con il pensiero, anche quelle pi recenti, se per un caso divengono oggetto di un ricordo non voluto, finiscono con il sembrare remote, come si fossero distanziate per qualche motivo. Cominci la corsa. Nillapizzi si piazz. Poteva andare peggio. And a riscuotere la piccola vincita. Alla cassa rivide il fratello di Rosa in compagnia del capocronista. Cerc di non farsi notare, confondendosi tra la gente, fino a che non raggiunse una colonna da dietro la quale poteva facilmente vedere senza essere visto. I due uomini parlavano senza guardarsi negli occhi. Presto si separarono, prendendo direzioni opposte. Paolo decise di seguire il giovane, ma appena si rese conto che la strada che aveva preso era quella dell'uscita, torn sui propri passi, verso il ristorante. Chiese a un cameriere che conosceva, se per caso il capocronista fosse passato di l, ma quello non l'aveva visto. L'altoparlante diede l'annuncio della composizione della corsa successiva, la principale di quella riunione. Paolo apr il giornale, guadagnando velocemente le gradinate. Cerc tra i nomi dei cavalli uno che gli ispirasse simpatia. Non ne trov nessuno, e d'altra parte non aveva voglia di giocare. Vide un allibratore clandestino che conosceva. Si fece notare, e lo raggiunse nel parterre. "Hai visto mica il dottore?" gli chiese. "E' andato via." "Ma no, l'ho visto un minuto fa!" "Se lo sai che mi chiedi a fare?" Alz le spalle e si riaggiust il cappello. "Dammi un cavallo buono." "Non ce n' cavalli buoni." Fece una smorfia e si volt verso l'anello della pista. Significava che non poteva parlare liberamente. Paolo si guard in giro,

esattamente dalla parte opposta rispetto a quella verso cui guardava quello. Era un codice concordato di cui lui era orgoglioso di essere a conoscenza. Vide avvicinarsi due carabinieri, seguiti da un uomo basso con l'impermeabile. Era quest'ultimo quello pericoloso. Attesero che se ne fossero andati e ripresero a parlarsi normalmente. L'allibratore gli disse: "San Bernardo. Lo danno a cinque, ma il terreno pesante: questa corsa roba per lui." "San Bernardo!" Esclam divertito Paolo. E mise le mani in tasca. "Oh, non facciamo scherzi!" Lo minacci l'allibratore. Significava che in caso di vincita una quota spettava a lui. Significava soprattutto che il cavallo era davvero sicuro. "A quanto?" "Sei e mezzo." Paolo gli mostr quello che aveva, non molto. Quello non lo consider neanche: "Che roba quella l?!" "Perch ?" Paolo lo sapeva benissimo il perch. "Ma va via, barbone! Va" E aggiunse in dialetto esclamazioni senza rancore. Paolo lanci un'occhiata alla pista. San Bernardo sgambava proprio sotto di lui. Era un sauro disinvolto e scattante che incuteva fiducia. Si ricord che tra due giorni sarebbe stato il compleanno di Anna. Lanci un'occhiata al totalizzatore: San Bernardo era dato a sette. Torn dall'allibratore. "E' salito", gli disse, mettendosi al suo fianco. Osservava il via vai dei giocatori e, poco pi sotto, quello dei driver, con le loro casacche colorate. "Chi?" Fece quello, mentre staccava uno scontrino a uno scommettitore che puntava su un altro cavallo. "San Bernardo, no?" "Appunto!" "Te, quanto?" "Sette e mezzo." Che aspettava ancora? L'occasione era di quelle che capitano una volta nella vita. Paolo si accese una sigaretta. L'ultima. Tir fuori dal taschino interno della giacca una penna, e sul pacchetto morbido di Nazionali scrisse una cifra. L'uomo prese il suo blocchetto dalla tasca posteriore dei pantaloni, dove l'aveva appena riposto, vi trascrisse la giocata e diede a Paolo la ricevuta. Paolo conferm: "San Bernardo." Il gioco era semplice. L'allibratore era al soldo di un allibratore pi grosso, il quale a sua volta rispondeva probabilmente a qualcun altro. La sua abilit era nel permettere ogni tanto a qualcuno, fra tutta una serie di sconfitte sicure, di realizzare qualche grossa vincita di cui lui pure avrebbe beneficiato. Tutto stava a fidarsi. Paolo si fidava. Raggiunse a passo spedito il botteghino ufficiale. L si doveva pagare in contanti. Tir fuori dalle tasche tutto quello che aveva e gioc su Aiace, il favorito: lo davano a uno. I clandestini neanche lo trattavano. Era la prima volta che agiva in proprio. Fino ad allora si era semplicemente limitato ad eseguire ordini precisi. Torn sulle tribune. Il capocronista se ne stava in piedi, appoggiato all'inferriata di un cancello aperto. Gli si avvicin. "Ah, sei qua!" Paolo taceva come chi ha molto da dire. Friggeva dalla curiosit di sapere su chi avesse puntato il vecchio. Mancava ancora qualche minuto alla partenza. "Lei" fece per domandargli. "Andiamo via." Lo precedette quello. "Io veramente" "Hai giocato San Bernardo?" Paolo neg, ma il capocronista rise sotto i baffi e aspir il toscano. "Allora andiamocene." "Io resto." "Pezzo di idiota, vuoi farti" non termin la frase. Per ribad: "Sei un imbecille." Lo guard di traverso, come solo nei momenti importanti. "Ti aspetto in macchina." Paolo gli allung le chiavi. "Uhm" bofonchi il capocronista per esprimere il suo definitivo disappunto. La vita di Paolo era ad un bivio. Se lo sentiva. Se un giorno avesse avuto un figlio lo avrebbe chiamato Bernardo. Avrebbe avuto soldi abbastanza per fare un

viaggio (a Parigi) per comprarsi bei vestiti. Una macchina. Ancora doveva prendersi la patente. Sarebbe stata la volta buona. I cavalli si disposero faticosamente dietro l'auto dello starter. Paolo odiava quella situazione. La quota di San Bernardo s'era assestata sul sei e mezzo. Si pent di aver giocato anche sul favorito. Era stato un chiaro segno di debolezza. Sono errori che si pagano. Porta male. Le urla del pubblico cominciarono a farsi sempre pi alte e vivaci. Un dialogo difficile, quasi disperato fra gli scommettitori e i cavalli. Paolo non si ricordava pi nemmeno quale fossero il numero di San Bernardo. I cavalli avevano da poco terminato il primo giro. I prime tre erano su una stessa linea. Gli altri seguivano distanziati di qualche incollatura. All'improvviso Paolo cap di non essere pi attratto da quello spettacolo. Eppure c'era un filo robusto che lo legava saldamente alla sua vita. Era assurdo. Non aveva mai giocato tanto. Perch il fratello di Rosa lo aveva trattato a quel modo? O era a causa di Rosa, o del capocronista. O di entrambi. Evidentemente non gli piaceva avere a che fare con un cliente della sorella. Anche ne fosse l'amante. Un uomo come lui, di una diversa posizione sociale, un giornalista. No, non poteva trattarsi di questo. Il modo con cui lo aveva allontanato era quello di chi vuole evitare di essere visto insieme a qualcuno. Era un rimprovero pi che un insulto. Con il suo capo s, ci aveva parlato. Per fingendo di non farlo, simulando la casualit di uno scambio di idee tra sconosciuti. Dunque c'era un segreto che li univa. Gi da qualche minuto quando pensava all'uno vedeva comporsi anche l'immagine dell'altro. Erano partecipi di una stessa storia. Ma quale? E che parte vi svolgeva lui? I cavalli erano all'ultima curva. Chiese al vicino in quale posizione stesse San Bernardo. "Non l'hai visto? Ha rotto!" Rispose quello, contrariato. Se lo sentiva. Ma non gli importava. Gi, ma ora? In un attimo era diventato un uomo che non sa come onorare un debito di gioco. In qualche modo doveva trovare quei soldi. Il suo capo conosceva lo strozzino: gli sarebbe tornato utile! Anche Rosa lo conosceva. E come! Era il suo protettore. Chiss se il fratello di Rosa ce l'aveva con quello come ora con lui. Ecco cosa li univa! Lo strozzino! Solamente lui, Paolo, non lo conosceva, non lo aveva mai visto. Per conosceva Rosa, e conosceva il fratello di Rosa. Il capocronista non aveva voluto occuparsi del caso San Bernardo aveva rotto poco prima dell'ultima curva, e Aiace era arrivato secondo. Aveva perso tutto. Usc dall'ippodromo. Sent la folla alle sue spalle farsi un suono quieto. La Seicento non c'era pi. Corse al capolinea dei tram. Gli rimanevano giusto i soldi per tornare a casa. C'era molta gente. Fu un viaggio scomodo. Non and al giornale, ma a casa di Rosa. Era una sera tiepida. Il calore del primo sole di primavera restituito dalla terra e dai canali del Naviglio si fondeva in un tessuto di vapori che si intrecciavano in un abbraccio accogliente e profumato. Il cielo per si stava coprendo. La luna era attraversata da strisce di nuvole veloci. Arriv a Porta Ticinese che era gi buio. Fece di corsa la strada che lo separava da via Torricelli. Sal le scale. Era sudato. Gli eventi avevano fatto prima di lui. Gli eventi, che altro? Quello che c'era intorno era il silenzio di una colpa, di un sentimento nascosto, ma era uguale a quello di un sospetto, e un sospetto non niente. Rosa s'era tagliata le vene. Un suicidio "in piena regola". Non c'erano dubbi. La porta sul ballatoio era socchiusa. Pot entrare facilmente. Tutto era sporco di sangue. Non accese la luce. Per riuscire a guardare l'orologio dovette avvicinarsi alla finestra e approfittare della luce della luna. Si accorse che stava cominciando a piovere. Si domand se si era ancora in tempo per un'edizione straordinaria. Erano quasi le sette. La guard a lungo. I suoi lunghi capelli neri sfioravano il pavimento. Pi che dall'orrore era sopraffatto

dai dubbi e dalla rabbia. Che storia! Un noto giornalista ha un debito con uno strozzino, che anche il magnaccia di una puttana ingenua. Il noto giornalista incarica il fratello della puttana di farlo fuori. La puttana sconvolta, ma non accuserebbe mai suo fratello. Un giovane cronista rischia di mandare tutto per aria. La puttana sconvolta dal rimorso si toglie la vita. E' troppo grossa! Chi ci creder mai? Come le chiamava queste notizie Ferrante? L'intervista all'amante del papa. Cominci a frugare in cerca di prove. Ma di cosa? Lui era un giornalista, e non voleva dimenticarselo. Soprattutto non era l'amante di quella donna. Ma le voleva bene. Era confuso. Aprendo un cassetto trov il portamonete di finta pelle rossa ancora incartato. E cos pure il foulard, e la cipria, la collana, il libro di cucina. Raccolse tutti i suoi regali ancora intatti e li infil in una busta per cancellare ogni traccia del suo passaggio. Poi potevano andar bene per Anna. Lo sguardo gli cadde sul portafotografie di plastica. Era ancora vuoto. La sua funzione era sempre stata quella di sorreggere calze e reggiseni. Si guard intorno. Trov una cartolina di Milano non utilizzata. Prese una matita per il trucco e vi scrisse il messaggio di addio che lei non aveva avuto il coraggio di scrivere. Un addio e un'accusa. Un nome. La infil nel portafotografie, e se ne and. Uscendo not che sulla ringhiera, sotto il temporale, resisteva un piccolo fiore di carta: lo vide mentre si stava afflosciando a poco a poco, e i colori si stingevano l'uno sull'altro. Una goccia pi pesante delle altre lo colp in pieno. Si pieg da un lato, rimanendo per avvinghiato alla ringhiera con la determinazione che Rosa non aveva avuto. Paolo si pass la mano sul viso, asciugandolo dalla pioggia e dalle lacrime."Cielo, e che nuvole stasera, pare c'o munno se ne muore" Quando entr in casa era completamente bagnato. Anna non era sola. C'era anche Antonio. Stavano in piedi, come se lo stessero aspettando e volessero comunicargli qualcosa che era capitato nel pomeriggio. Tra loro, in terra, era posata una valigia. Paolo pens fosse di suo fratello. Era Antonio che si sarebbe dovuto far carico dell'annuncio, ma non riusc a parlare. Allora Anna disse: "Parto con lui." Attese una risposta. Paolo li fissava e non trovava le parole per esprimere la sorpresa. Anche perch se avesse parlato forse avrebbe parlato di Rosa. Anna si aspettava una risposta. Una risposta qualunque forse sarebbe riuscita a trattenerla. Poteva essere tutto un gioco, ma ora toccava a lui muovere. Ma quando alla fine parl, dopo un lungo vuoto silenzio, Paolo seppe dire soltanto: "Devi decidere tu." L'avrebbe capito Anna che non l'aveva mai amata tanto come in quel momento? Il giorno dopo Paolo venne licenziato dal giornale. All'obiezione che non essendovi stato mai assunto non capiva come sarebbe stato possibile esserne licenziato, il direttore gli disse guardandolo di traverso: "Ribera, lei vive solo?" "No." "Ma non sposato" "No." Quello continu con lo stesso tono: "Mi faccia vedere la patente." Mise la mano in tasca per estrarre il portafogli, senza sapere ancora fino a che punto avesse intenzione di portare avanti la recita. Se ne pent subito. Si ravvi i capelli e rispose: "Lo sa benissimo che una scusa." "Lei ha abusato della nostra fiducia. Non le dar un'altra possibilit." "Di che cosa mi state accusando?" "L'ha combinata grossa, sa? Io sono di Messina, lo so come ragionate voi della capitale." Voleva minimizzare, ma Paolo non gliene diede il tempo. "Ho telefonato la notizia al giornale. Che dovevo fare di pi? Era tardi per un'altra edizione. Se poi voi non l'avete pubblicata sono affari che non mi riguardano proprio. Ma inutile stare a parlare con voi Se credete che mi fate paura Anzi, sa che le dico? Sono io che me ne vado!" "Ribera, quella ragazza, Rosa, non ha lasciato nessun messaggio. Tu hai troppa fantasia." "E chi gliel'ha detto, scusi?"

"Perch non sapeva scrivere. Era analfabeta. Dia ascolto: si messo gi abbastanza nei guai." Quella stessa mattina, Paolo, dopo aver perduto prima Anna e poi il lavoro, dovette separarsi anche dal pianoforte, che rimandava indietro per poter pagare, almeno in parte, l'allibratore. Passeggeri distratti, a bordo dei tram che velocemente si dirigevano verso il centro della citt, videro ondeggiare pericolosamente lo strumento sulla carrucola, mentre uomini con il cappello da marinaio sulla testa ne controllavano le sbandate. Tre mesi prima Anna e Antonio si erano dati appuntamento davanti alla Scala, alle tre del pomeriggio. Antonio era nervoso. Non avrebbe dovuto portare con s l'anello. Era come se l'uomo che era stato, e che incontestabilmente non era pi, si giocasse l'ultima carta per ritornare alla ribalta e lottasse pateticamente con l'uomo maturo che per parte sua legittimava, sulla scorta di quegli ultimi tre anni, il suo diritto a prevalere. Ma erano stati tre anni senza Anna. Era stato troppo facile crescere senza di lei. Ora aveva davanti a lui tre mesi, tre mesi da passare a Milano. Era la sua ultima occasione. Erano venuti alla stazione a prenderlo. Lui era riuscito a dirle senza farsi vedere da Paolo: "Ci possiamo incontrare?" Anna sorrise. Era contenta di rivederlo. Si sentiva in colpa. Non era pi sicura di aver fatto la scelta giusta. "Perch no?" Quando la vide scendere dal tram, vide una donna, che non era lo stesso che vedere Anna, il ricordo di Anna, il concettoAnna . Vide una donna che le somigliava, tutta collo, per via di un nuovo taglio di capelli. Non l'aveva vista crescere. Anna, come l'aveva conosciuta lui, non esisteva pi. Era come essere investito dall'eco di una perdita che non gli apparteneva. Si erano salutati stringendosi la mano. Lui, con troppo vigore. Stabilirono con la prima occhiata un'intesa strategica che li sollev da ogni ulteriore imbarazzo: lei avrebbe fatto finta di non sapere che Antonio era stato innamorato di lei, e lui non ne avrebbe tenuto conto. Furono subito due buoni amici che recitavano un'amicizia inesistente, un passato senza delusioni costruito artificiosamente, come una proiezione retrospettiva di una speranza, su quella stretta di mano e su quel tono cordiale. "Va tutto bene?" le chiese lui, badando a non appesantire le parole di significati inopportuni. "Certo, tutto quanto benissimo." La voce era quella scura di sempre. Antonio non cap se gli nascondesse qualcosa. Le domand: "Dove mi porti?" "Andiamo al cinema?" "No!" Risero trattenendosi dentro la ragione. Gli parve che lei fosse leggera non in modo naturale, come se le mancasse qualcosa. "Che ti faccio vedere?" Anna si guard intorno, come se ci fosse da scegliere. "Non lo so. Guida tu!" Per la prima volta Anna cap di abitare a Milano, di appartenere a questa citt. S'incamminarono in silenzio, sorridendo, fissando ora le punte dei piedi, ora le cime dei palazzi. Antonio si accese una sigaretta, con gesti collaudati. Disse: "Tu fumi?" Lei allung la mano verso il pacchetto. "Il fumo fa male" Lei lo fiss negli occhi mentre lui afferrava con le unghie lunghe il cerino dalla scatola. Ad ogni passo lei si lasciava dietro la scia di quei tre anni sconosciuti. Cominciarono a sciogliersi: sei mai stato a Milano? No, per a Torino s, per molto tempo. Eravamo vicini! Antonio inizi a sfruttare il pozzo senza fondo fatto di aneddoti sui divi della televisione, sui cantanti. Anna non sapeva cosa fargli vedere. Cos avevano camminato a lungo senza una meta precisa. Passarono davanti al Duomo, che fu degnato solo di uno sguardo; sfiorarono Sant'Ambrogio, e arrivarono fino al Castello, che oltrepassarono indifferenti, per raggiungere il parco, che attraversarono tutto, fino all'Arco della Pace. Niente suscitava la loro meraviglia. Era quasi calato il tramonto. Antonio le aveva domandato: "A che ora finisce Paolo?" "A che ora finisce Paolo? Mai finisce! Pu essere alle sei, o alle sette, come pure che non ritorna proprio." "E tu rimani da sola?" "Mi sono abituata." Antonio annu. Il vapore della sera si sovrapponeva alla luce trasversale dell'ultimo raggio di sole.

Erano gi sulla via del ritorno. Fecero una strada pi corta, tagliando da via Dante. "Non c' molto da vedere a Milano", disse lei. Lui conferm. Anna aveva il tramonto alle spalle: il viso era gi quasi completamente al buio, come protetto da una maschera di carnevale che lasciava liberi solo gli occhi e i denti maliziosi. Erano stanchi, ognuno consapevole per conto suo che non potevano continuare a lungo a raccontarsi cose che non interessavano a nessuno dei due. Ma n lui n lei osavano leggere nei pensieri dell'altro, perch gi avevano paura dei propri. Il buio, calato all'improvviso, privandoli dei contorni, aveva sciolto ogni forma di difesa: c'erano solo loro due, come se fossero chiusi in una stanza, con una decisione da prendere. Antonio cerc un segno nel buio del suo volto. Ma lo sguardo scivol sul collo, che era come una pesca matura. Salirono sul tram, senza dirsi niente. Antonio sentiva formarsi un grumo doloroso nello stomaco. Chiedeva aiuto ai ricordi del loro passato. In tutti questi anni non si era mai chiesto se lei avesse mai corrisposto ai suoi sentimenti. Lei invece si stava domandando se lui avesse mai capito i suoi. Pi che non averlo desiderato mai, non lo aveva voluto mai desiderare. Giunti alla stazione Anna disse: "E' tardi. Scendiamo, vieni." Antonio era incapace di pensare. Aveva il mondo tutto negli occhi, una massa confusa. Lei lo prese sottobraccio e cos camminarono senza dirsi niente per circa dieci minuti. Giunsero alla pensione dove Anna e Paolo avevano trascorso la loro prima notte insieme. Anna guard il padrone con aria di sfida, certa che quello l'avrebbe riconosciuta e avesse commentato dentro di s la presenza di un uomo diverso. Sembrava che la cosa gli stesse del tutto indifferente. Facile che non si ricordasse nemmeno. Appena entrati nella stanza Anna disse: "Peggio per lui." Antonio aveva paura, ed era l l per dire una parola che avrebbe riportato tutto al proprio posto. Anna gli si fece vicina. Lui aveva acceso la luce, tossicchiando nervoso. Lei and a spegnerla. Antonio stava iniziando la supplica (Anna che stiamo facendo una pazzia, non dobbiamo) quando si accorse che la bocca di lei era a pochi centimetri dalla sua. Si fissarono negli occhi. Antonio ebbe chiara la sensazione che lei non era lei e lui non era lui. Aveva sempre sognato questo momento. Lei lo baci. O meglio: appoggi le labbra su quelle sue, non in modo irreversibile, ma come per lasciarvi interrogativi inquietanti e un margine aperto alla fuga. Lui and subito a baciarle il collo, come aveva immaginato di fare sul tram. Lei gli domand: "Mi desideri?" "Ti amo." "Non dire bugie. Sono diventata cattiva, lo sai? Dimmi se mi desideri." "S." "Allora giuralo." "Ve bene, lo giuro!" Gli credette, e sganci il fermaglio della collana. Si sentiva pienamente realizzata. Conduceva lei il gioco. Certo, anche con Paolo era cos, solo che Antonio ora cercava di tenerle testa: lei aveva cominciato a spogliarlo, lui l'aveva fermata e aveva proseguito da solo. Lei aveva cominciato a toccarlo, lui le afferr le mani e la baci tutta. L'affrontava con la fierezza elementare che gli derivava dall'istinto di supremazia. Paolo invece l'aveva sempre lasciata fare, senza aver mai nulla da ridire: la sua inerzia suonava come un'accusa, un rifiuto cos pieno di disprezzo da non meritare nemmeno di essere motivato e difeso, ma nascosto dietro l'ipocrisia di una magnanima concessione priva di conseguenze. Antonio invece la desiderava e per questo cercava di affermare il diritto di fissare lui i confini, di ristabilire l'ordine e la precedenza. Ogni suo gesto era un volerla riacchiappare dal baratro in cui la disperazione e la solitudine l'avevano spinta. Era come se imponendole il diritto naturale di maschio la restituisse al calore di una famiglia, all'abbraccio generoso e sano dei principi della comunit civile. Anna era eccitata come la prima notte con Paolo. Da allora non le era quasi pi capitato. Aveva voglia di fare l'amore, e questa voglia si autoalimentava a mano a mano che ne prendeva coscienza. Si sentiva meravigliosamente libera e nello stesso tempo al sicuro tra le braccia del desiderio di Antonio. Niente la rendeva pi felice che sentirsi protetta dal suo tentativo di sottometterla, e

combattere con tutte le sue forze questo affronto alla sua libert. Si sentiva viva. Aveva la prova che alle sue condizioni la felicit era ancora a portata di mano. Aveva ormai acquisito abbastanza esperienza con Paolo per capire che quanto avveniva a letto era la riproduzione schematica di ci che la vita mette normalmente in scena con qualche complicazione e qualche lungaggine in pi. Da Antonio avrebbe accettato qualunque cosa perch la trattava da vera donna. Era una festa. Una giostra. Non c'erano pi ostacoli, poteva gridare, e grid, aveva vinto lei, grid cos forte che poi le venne da ridere fino alle convulsioni. Alla fine di quella lotta silenziosa, avvolta fra sospiri e baci coraggiosi, Anna si distese su di un fianco, dandogli le spalle. Antonio non aveva la forza di dire niente: stupito, emozionato, pentito. Anna ripass ogni momento perch nulla andasse perduto. La dolcezza di Antonio era stata sopraffatta dalla rabbia provocata dalle tante rivincite reclamate dal suo corpo sottile, ma non and perduta. Infatti se la ritrov intatta sulla bocca, sulla pelle, fra i capelli, nelle orecchie, e gliene fu grata. Era come una parola di conforto, di assoluzione per la sua prepotenza. Chiuse gli occhi, cullata dal silenzio. Antonio si accese una sigaretta. Lei gli disse: "Passamela." In quei tre mesi Antonio impar tutto quello che c'era da imparare su se stesso e sulle sue capacit di amare, che pass al setaccio con l'accanimento di un inquisitore. Da allora cominciarono a frequentarsi regolarmente. All'inizio in quella che Antonio chiamava la loro pensione; poi, malgrado lui fosse decisamente contrario, cominciarono a vedersi nell'appartamento di viale Zara. Questo la eccitava pi di ogni altra cosa. Antonio non aveva mai avuto una fidanzata, e non sapeva bene in che modo regolarsi. Per di pi Anna non poteva considerarla una vera e propria fidanzata. Era la sua amante. Cercava di ribellarsi a questo dato di fatto, ma era inutile. La loro era una storia segreta. Non potendole fare regali compromettenti Antonio era costretto a ripiegare su prodotti immediatamente consumabili, come caramelle, pasticcini, torte (che andavano mangiate fino all'ultima briciola per evitare di lasciare tracce). Cos Anna ingrassava, e Paolo ne era contento. Anche durante quei tre mesi di trasferta a Milano Antonio non manc di inviare a casa parte dello stipendio; tuttavia, essendo aumentate le spese, per via di Anna, il vaglia si and progressivamente alleggerendo ("cara mamma, la vita a Milano costa cara. Io sto bene, e cos pure Paolo. Anche Anna sta bene"). In questo modo anche le entrate di Paolo diminuivano in modo proporzionale al tradimento di cui era vittima. Fortunatamente, pur destinandone buona parte al mantenimento del suo commercio amoroso con Rosa, ad Anna non veniva comunque a mancare nulla, visto che delle sue necessit si faceva ora carico Antonio e dunque se il vaglia era pi leggero la quantit di denaro circolante era sempre la stessa, solo, diversamente distribuita. Una cosa che eccitava di pi Anna delle visite di Antonio (la cui paura di essere scoperto dal fratello sviliva di ogni significato quegli appuntamenti, e quell'amore cos malfatto diventava per Anna un semplice esercizio ginnico che la indispettiva quasi quanto l'inerzia di Paolo), era uscire tutti e tre insieme, stringersi tra i due fratelli, per poi sfuggire, libera di non decidersi. Si sentiva sincera. Le piaceva sentire Paolo prendere in giro il fratello perch dopo tanto tempo non era cambiato. Osservarlo di sbieco mentre Antonio le accende una sigaretta e indovinare i suoi pensieri. Cercare il conforto di Antonio, al cinema, dopo aver litigato senza ragione con Paolo. Prendere la mano di entrambi, al luna park alla Bovisa, o al circo, appartarsi dietro la tenda ruffiana della nebbia ai Navigli e baciare Antonio dopo aver gettato nel canale una pietra del selciato per allontanare Paolo, e subito coprirsi la bocca con la sciarpa per nascondere la voglia di non esserne sazia. Riconciliata con le paure e i desideri pi segreti, era la loro bambina felice. Li prendeva sottobraccio, in Galleria, e li guardava alternativamente, rammaricandosi che, se il letto era la metafora della vita, purtroppo non era vero il contrario, e che perci doveva accontentarsi di quell'emozione

infantile. Paolo non amava raccontare niente del suo lavoro. N ad Anna, n a nessun altro. Cos fu anche con Antonio, il quale aveva sempre considerato il fratello uno che si faceva solo i fatti suoi. Questo favoriva la relazione fra Antonio ed Anna, non soltanto perch Paolo non c'era quasi mai, fisicamente; quanto perch la sua assenza, sommata al mistero che avvolgeva la sua attivit, era un dato di fatto costitutivo della sua persona. Paolo era uno che non c'era, come un marinaio. Un nomade che non accampava diritti territoriali. Quindi non era una minaccia. Avrebbe potuto diventarlo, naturalmente: poteva arrivare all'improvviso e sorprenderli a letto, o incontrarli in un bar del centro, o in un cinema. Ma questo non era nemmeno improbabile: era impossibile. Pensare che sarebbe potuto succedere, cio che fosse semplicemente poco probabile, equivaleva a desiderare che questo si verificasse: come per una esperienza soprannaturale, un miracolo, o una visione mistica. E se questo forse poteva valere per Anna, di certo non per Antonio. Cos in quei tre mesi Antonio fin con il non sentirsi pi l'amante di Anna. Non era sua intenzione competere con il fratello. Era lui l'unico pretendente di Anna, e il suo comportamento era ineccepibile. Per questa ragione, passata la prima euforia, Antonio aveva cominciato ad incalzarla: "perch continui a stare con lui? Non siete mica sposati!" A questo tipo di domande Anna rispondeva scrollando le spalle, ma non perch non sapesse cosa doveva rispondere, come pensava Antonio, ma perch l'orgoglio le suggeriva di non farlo (Anna detestava rispondere a qualsiasi domanda, e se poteva lo evitava, anche su argomenti del tutto inoffensivi). Allora lei gli diceva: "non mi fare pi queste domande, e dimmi le cose belle che mi dici sempre". Se Antonio non la riempiva di delicatezze, standosene sulle sue, lei lo rimproverava: Antonio non poteva comportarsi come Paolo, non doveva, non glielo avrebbe mai perdonato. Doveva continuare ad essere l'uomo buono e gentile che lei aveva tanti anni prima temuto che fosse, e che invece ora auspicava che non smettesse di essere. Antonio le permetteva di essere nel posto dove preferiva di pi stare, e cio nel centro del mondo di qualcuno. Questo valeva pi di tutte le incertezze. Era vero: per lei Antonio rimaneva uno sconosciuto di cui lei si serviva per raggiungere uno scopo che con lui non c'entrava per nulla. Era lo strumento della sua furia vendicatrice. Un'arma che era tranquillizzante anche limitarsi a tenere in mano, apprezzandone qualit non strettamente connesse alla funzione per cui stata concepita. Al centro del mondo di Antonio. Ma allora perch si sentiva con le spalle al muro? Il piccolo mondo di Antonio Era una piccola stanza dove fare l'amore perch non ci sono alternative. Una cos piccola stanza. "Io devo tornare a Palermo. Il corso finito", le disse finalmente lui. Teneva le mani affondate nelle tasche della giacca. Era scoppiata una primavera precoce, i colori degli alberi annunciavano cambiamenti, e la Sicilia sarebbe stata gi tutta in fiore. Nel fondo della tasca stringeva una piccola scatola di velluto, e dentro un piccolo anello. "Vieni con me. Torniamo insieme. Io ti amo." "Come faccio?" "Farei tutto per te. Sai? Il corso finito gi da una settimana. Mi sono messo in malattia. Non te l'avevo detto." Lo proclam come se le stesse rivelando i confini smisurati del proprio coraggio, istruito dall'amore. E aggiunse: "Anna, ti voglio sposare." "Non dire cretinate. Antonio, stringimi forte e basta. Non parlare, non parlare" Lui la strinse a s, e le baci i capelli. Aveva le mani sudate. Avevano oltrepassato il Palazzo Reale. Il pomeriggio di aprile trionfava. Anna si guard intorno. Non riusciva a pensare a niente. "S, ma ne debbo parlare con lui." "Che gli devi dire? Lui non ci pensa a te. Tu per lui nemmeno esisti." "Ma che dici?" Anna sentiva che Antonio esercitava su di lei una pressione sleale. Prov a parlare di loro due: "Sono stati tre mesi bellissimi." Antonio cap che gli stava chiudendo la porta in faccia, che Anna cominciava a

considerarlo gi un rimorso. "Senti, Paolo a te non ci pensa proprio. E tu me che ami." No, Antonio non poteva parlarle cos. Che cosa ne poteva sapere: "Che ne puoi sapere tu?" "Lo so, perch io ti amo, e Paolo no. Non pensiamoci a lui." "Non sono pronta." "Lo so che quello che vuoi anche tu." "Non lo so nemmeno io." "Anna, ti prometto che con me sarai felice." Qualunque cosa le dicesse per lei era la prima volta. Curioso che non potesse fare nessun confronto con Paolo. Paolo non le aveva mai promesso niente, non l'aveva mai forzata a fare niente. Non le aveva mai indirizzato i pensieri verso un approdo comune. Se lo meritava, in fondo. L'aveva sempre trattata come una serva. Paolo il marinaio. Non le aveva mai dedicato veramente cinque minuti del suo tempo; il suo amore, se pure esisteva da qualche parte, non era mai stato detto, e lei non poteva dire di essere mai stata davvero felice con lui. Che cosa ci aveva fatto con tutta quella libert? Antonio era cos sincero, e generoso. "Insomma, lo sai come andata a finire", disse Paolo a Luisa. "E' stato brutto. Ma molto istruttivo."

seconda parte capitolo dieci

Nell'atrio della stazione centrale una coppia di giovani slavi, la donna al violino, l'uomo alla fisarmonica, s'impegnavano tutte le mattine in un duetto di valzer di Strauss, che riecheggiando tra le volte monumentali provocava, in chi era disposto a lasciarsi abbandonare alla melodia del piacere e della memoria, uno struggimento passeggero. Erano bravi. Attorno a loro si costituiva un piccolo cerchio solidale e sorridente, e il cappello di feltro nero era sempre pieno di monete. Facevano venire la voglia di essere altrove e di misurare il tempo della propria giornata su quel ritmo ordinato e pure ricco di prospettive fantastiche, di evoluzioni geometriche rassicuranti. Paolo era spettatore assiduo di quello spettacolo. Gli piaceva fermarsi davanti a quei due, e starsene senza pensieri. Gli piaceva anche allontanarsene, percorrendo l'atrio fino a raggiungere il punto esatto dove il suono cessava di essere percepibile. Una volta individuato, vi si fermava, concentrato, per poi muovere qualche passo ora nella direzione da cui arrivava l'eco sbiadita della marcia di Radetzki, ora dalla parte opposta. Era un confine che andava continuamente tracciato, non si sapeva spiegare il perch. Osservava le differenze nei volti della gente che affollavano le due met in cui lo spazio era stato diviso dalla musica. Tutti quelli in grado di ascoltarla lasciavano trapelare, attraverso un lieve movimento del capo, o degli occhi soltanto, un'interruzione nel corso dei loro pensieri, come quando sembra di cogliere nel brusio della folla la voce di un amico, o il viso interessante di

una donna. Stette solo dieci giorni senza lavorare. Ma quel periodo di completa inattivit fu sufficiente a fargli assumere, come un veleno che diffusosi nell'aria prende possesso dell'organismo semplicemente respirando, un malessere nuovo. Se ne accorse, senza riuscire a definirlo, proprio mentre osservava la gente alla stazione, o nei tram, o nelle vie affollate, o nei cinema, rendendosi conto di esser tornato a provare, a distanza di anni, quello stesso sentimento di fastidio nei confronti del mondo, che aveva conosciuto al ritorno a casa alla fine della guerra. Un odio che spargeva come una grandine che si abbatte sulla massa, ma in un modo cos consapevole, armato di un risentimento ragionato con una tale esattezza da permettergli di riscuoterne non un piacere generico, ma l'esatto corrispettivo del danno di ognuno. Paolo aveva cos eccitato la sua vigilanza da riuscire a vedere la folla per quello che in definitiva veramente era: un composto di identit differenti ognuno con le sue ragioni di essere oggetto del suo disprezzo. Ma questo sentimento non poteva bastare da solo a dargli piacere e serenit. Ad impedirlo c'era la consapevolezza che tutto quell'odio convogliato verso uomini e donne incontrate durante il suo cammino era niente di pi che un'ipotesi che non poteva procurare alcun dolore, e dunque alcun piacere, se non quello fasullo frutto di una proiezione che si rifletteva su di lui provenendo da un'altra dimensione, che facilmente si traduceva in un'amarezza, un'inquietudine, un'esplosione provocata da una miscela di soddisfazione e inganno. Non era questo il malessere nuovo. Questo non era che uno stato d'animo che aveva soltanto accantonato, senza eliminare del tutto, per convenienza. Quest'alternanza di odio, piacere e frustrazione era solo la spia del cambiamento. Gli succedeva appena si trovava da solo, e questa, allora, era la sua condizione naturale. Usciva di casa molto presto (per inerzia aveva mantenuto le abitudini precedenti il licenziamento) e non vi faceva ritorno che a sera inoltrata. Il silenzio gli pesava. Quella casa non la sentiva sua. Non senza Anna. Gli mancava il pianoforte. Gli mancava di pi il rumore della redazione, le voci della consuetudine quotidiana, la Dueminuti, Righi, i consigli poco seri di Ferrante, le facce misteriose dei tipografi, le anime sfuggenti e sottili degli stenografi, piccoli impiegati pieni di indecifrabili sogni nel cassetto. Aveva deciso tuttavia di chiudere definitivamente con il giornale e con tutti quelli che vi lavoravano. L'umiliazione e il torto che gli era stato fatto erano stati cos violenti da rendergli l'attuazione di questa drastica decisione pi facile di quanto non potesse prevedere. Gli mancava Anna, certo. L'aveva trascurata. Che idiota a non aver capito niente! Antonio! Non ce l'aveva con lui. Non ce l'aveva con nessuno. Era stato tutto troppo ridicolo. Con quelli del giornale s. Loro dovevano pagare. Non sapeva ancora come. Sentiva un mare gelido straripargli dentro. Era svuotato, non pensava a niente. Non aveva voglia di reagire. Andava all'ippodromo, ma non faceva scommesse. And a vedere tre volteIl gigante , uscendone tutte le volte distrutto da un'amarezza che non si riconosceva: gli sarebbe piaciuto che tutti fossero felici e che tutti riconoscessero il suo diritto alla felicit, al successo. L'assoluta impossibilit di vedere realizzati questi desideri gli provocava una prostrazione senza via d'uscita. Non c'era nessuno disposto a fare niente per la felicit di nessuno. Una volta, nel mezzo di una discussione, Anna gli aveva domandato: "ma insomma, cosa fai tu per gli altri?" Paolo era rimasto colpito da questa domanda che nessuno gli aveva mai posto in modo cos diretto e riflett che se da una parte era vero - lui era uno che non faceva niente per gli altri - dall'altra si domand, ed era la prima volta che aveva occasione di farlo, se per caso non fosse lui l'altro per il quale qualcuno avrebbe dovuto fare qualcosa. Il malessere nuovo era un morso allo stomaco, o una calma eccessiva, il sogno abbandonato di un'ambizione. Era un accavallarsi di immagini, di episodi, di dolori, recenti o passati, rivissuti in un'alternanza senza logica. Cos si ritrovava a dover sconfiggere un improvviso scatto di nervi causato da un

rimprovero di sua madre, e subito dopo era invaso dalla nostalgia di un bacio di Anna, o dalla rabbia per una parola di troppo detta dal vecchio capocronista. Era come se tutta la sua vita non fosse pi un susseguirsi naturale di eventi, ma un unico gigantesco affresco all'interno del quale i fatti, le persone, i sentimenti si offrivano a lui simultaneamente, annullando ogni coerenza, strappando come carta straccia il vincolo obiettivo che tiene unito lo spazio al tempo. In quest'unico grande scenario, dove tutto era presente, dove tutto avveniva nello stesso momento, lui poteva vagare oscillando tra gelosie che credeva di aver superato, desideri che riteneva di aver soddisfatto, dolori che lo portavano fino alle lacrime, dai quali si era illuso di essere stato risarcito. Era come se questi sentimenti gli fossero imposti da una forza alla quale non sapeva opporsi. Vi era trasportato dal vento - un vento leggero. Il ripresentarsi di quel sentimento distruttivo nei confronti dell'intero genere umano era appunto una prova di questo suo nuovo smarrimento. Eppure bastava entrare in contatto, anche per poco, con un essere umano disposto a sorridergli, a rivelargli il miracolo della riconoscenza, che il malessere di colpo scompariva, e lui riacquistava fiducia, naturalezza. Ma erano parentesi che duravano poco. Appena si ritrovava solo, confuso nella folla, cadeva nella sua confusione: era un pozzo trasparente, dalle pareti lisce, chiare, attraverso le quali la luce proveniente da un mondo che gli era ogni giorno pi estraneo, lo illuminava come d'inverno, senza fare calore. In quei giorni si tenne lontano sia dal giornale che da Porta Ticinese. La mattina prendeva il tram e si lasciava trasportare, cedendo alle suggestioni che gli provenivano dalle immagini che scappavano, fuori dei finestrini, al ritmo sincopato imposto dal procedere della vettura, e probabilmente sognava. Gli piaceva quando, fermo ad un semaforo, il conducente interrompeva i contatti e l'accumulatore taceva all'improvviso, lasciando i passeggeri in un silenzio imbarazzante e coinvolgente. Dopo dieci giorni ricevette un telegramma. Doveva presentarsi negli uffici della RAI, in Corso Sempione. L sostenne un breve colloquio. Di nuovo gli fu fatto capire che c'era stato un interessamento del suo signor zio, al quale loroovviamente avrebbero anche potuto dire di no, ma in definitiva con quali ragioni? Le referenze in fondo erano ottime. Ora bisognava vedere come se la sarebbe cavata sul campo. "Naturalmente si tratter di ricominciare da zero. E' un lavoro nuovo. Vedr, le piacer. E' stata dura per tutti, all'inizio. Bisogna adattarsi", gli disse un funzionario. Era stato assunto in prova. "Va bene", fu quanto riusc a dire lui, immaginando di dover tornare a fare maiuscole, e che quella sarebbe stata la sua attivit per il resto della vita. Poi per pens alle giornate passate alla guida della Seicento con il capocronista e stabil che qualunque cosa, maiuscole comprese, sarebbe stata pi dignitosa. Fu assegnato proprio alle agenzie. Nessuno gli spieg nei dettagli cosa dovesse fare. Ma quando, come gli pareva logico, si predispose, matita alla mano, a compiere il suo dovere, un giovane che arrivava in quel momento lo ferm quasi terrorizzato: "Dottore che fa? Lasci stare, il lavoro mio!" dilungandosi in scuse non dovute. "Siciliano?" gli chiese Paolo che aveva subito colto l'accento. "S, perch, anche lei? Io sono di Catania." "No, io di Palermo. Mi chiamo Paolo Ribera." Gli diede la mano. Dunque era un giornalista. Alla fine dell'estate gli fecero fare l'esame, e in autunno prese pure la patente. Il lavoro era semplice e tranquillo. L'orario di tutto comodo, e non c'era mai molto da fare. Lo stipendio era superiore ad ogni sua aspettativa. La differenza tra quegli uffici e quelli del vecchio giornale era la stessa che passa fra un mercato di quartiere e un grande magazzino. L c'era sporcizia, sudore e fumo, qui organizzazione, ordine e lucidi pavimenti in linoleum. Non c'erano aspettative, n la frenesia dell'ultimo minuto. Sembravano tutti in attesa di decisioni che dovevano arrivare da chiss dove. Il suo diretto superiore

scriveva redazionali per servizi che non si sapeva se avrebbero trovato spazio nell'edizione della sera. Nove volte su dieci era cos. Agli occhi di Paolo l'attivit pi importante era quella dei cineoperatori e dei montatori. I giornalisti pi affermati davano la sensazione di essere pi dei liberi pensatori che si trovavano l per caso che non artigiani del racconto quotidiano. Tutti gli altri avevano l'aria da impiegato di un ufficio pubblico. Era un posto senza storia, dove tutti si livellavano ad un gradino decisamente basso, frutto della media fra un'apprezzabile cultura personale, una discreta capacit professionale, e una scarsissima conoscenza del nuovo mezzo, che li rendeva del tutto dipendenti dalle opinioni e dai consigli dei tecnici. Con l'avanzare della primavera l'aria si faceva ogni giorno pi spessa e le giornate lunghe, unitamente al profumo dei tigli, regalavano malinconie nuove. Paolo passava gran parte delle giornate in redazione, ben oltre l'orario di lavoro. Ma questo sembrava che non fosse notato da nessuno. Certi giorni non faceva assolutamente niente. Ebbe il sospetto che questo non fosse morale, ma presto incontr qualcuno che gli fece capire che con la morale il lavoro non aveva molto a che vedere. Capitava talvolta che un redattore anziano alla mattina se lo prendesse sottobraccio con la promessa tiepida di mostrargli finalmente qualcosa di "come funziona questa baracca" perch "se non lo faccio io qui nessuno si prende il disturbo", e poi invece si allontanava "per cinque minuti" e scompariva, non si sapeva dove andava, ma ci stava un tempo lunghissimo, due ore o anche di pi, convinto che Paolo avrebbe capito e si sarebbe trovato qualcosa da fare, e invece se lo ritrovava esattamente dove lo aveva lasciato, magari in piedi vicino alla sua scrivania. Paolo era capace di stare immobile per ore, affondato in un cuscino di pensieri oziosi. Approfitt dell'estate e del fatto che la redazione s'era svuotata, per imparare sul serio il mestiere. Trov anche chi era disposto a stargli dietro. In fondo era un patrimonio dell'azienda che andava valorizzato. Impar che i servizi dovevano riguardare sempre fatti ufficiali tipo discorsi di deputati, o incontri di diplomatici. I telegiornali erano pieni di gente che scendeva le scalette di aerei, e di sindaci e vescovi che tagliavano nastri inaugurali. Paolo giudicava inconcepibile che di una rapina in banca, se andava bene, se cio c'era scappato il morto, si poteva dare notizia, ma senza immagini n interviste. Per vedere un fotogramma di un fatto di cronaca bisognava che le vittime fossero almeno una dozzina, come capit in maggio nella Mille Miglia. Degli scontri in Puglia fra braccianti e polizia si diede notizia, senza enfatizzare. "Forse non ti chiara una cosa", cominci a spiegargli una sera di agosto che era di turno, Rosati, un uomo sudato e livido a cui era stato affidato. Sulla scorta dell'esperienza fatta con il vecchio capocronista, Paolo non cerc mai di conquistarne n la stima n tantomeno l'amicizia. Rosati era di quegli uomini sicuri soltanto di certe poche idee riguardanti il lavoro, perch orecchiate in cos tante discussioni alla mensa, o nei corridoi, da potersi definire ormai patrimonio perfino dei ritratti appesi alle pareti; e invece indecisi su quasi tutte le altre questioni della vita che per, vissuta come una propaggine inerziale della loro competenza professionale, affrontavano con una commovente sicurezza, che a conti fatti in una normale conversazione garantiva loro, contentandoli, s e no un'autonomia di due o tre scambi di battute. "Il telegiornale" disse, "non va nelle edicole. C': come l'aria, l'acqua del rubinetto. Hai capito?" "Insomma o questa minestra o salti dalla finestra!" "Stammi bene a sentire: i giornali, come quello dove lavoravi tu, li conosco, sai. Bella roba! Pur di vendere una copia pi del concorrente certi redattori sono capaci di tutto Hai vistoL'asso nella manica , no? Qui da noi no, questo non potrebbe succedere. A noi non ci corre dietro nessuno e noi non corriamo dietro a nessuno! Noi siamo liberi di scegliere le notizie da dare. La gente si fida di quello che dice il telegiornale. E' come il telefono, il gas, la luce elettrica! Noi non prendiamo per i fondelli nessuno."

"Ma la gente cos non fa confronti!" "Perch quello che compra il giornale fa confronti? Ma in che pianeta vivi? Gli d a mala pena una letta, si ricorda solo di quello che si vuole ricordare, e non ci giurerei, capisce quello che vuole capire, poi lo butta nel cestino e ciao! Della televisione sa che si pu fidare e sai perch?" Paolo si fece coraggioso e lo interruppe: "Perch con quello che gli costata!" "Bravo!" Gli mise una mano sulla spalla. Ritirandola urt inavvertitamente il braccio scoperto di Paolo, e questi sent che era sudata. E continu: "La televisione sai cosa fa? Fa sembrare intelligenti quelli che la fanno e quindi anche quelli che la guardano. E bisogna tenere gli occhi aperti. L'occhio della televisione l'occhio di quello che sta a guardare, hai capito perch si fidano? E' educata, non urla, si vede subito che non ti vuol vendere merda. Ti fa vedere il mondo!" Paolo non sapeva se crederci o no, ma gli piaceva. Come con Anna: amava dare fiducia alle situazioni che intuiva avrebbero potuto tornargli utili. Di sicuro i suoi colleghi, rispetto a quelli del giornale, sfoderavano vestiti ben tagliati, dai bei tessuti dalle tinte talvolta coraggiose. Non gli ci volle molto per capire che se voleva fare strada doveva essere, in tutto, uno di loro. Si adegu rapidamente, e non se ne pent. Dormiva nove ore a notte, si faceva la barba tutti i giorni, si profumava e indossava principi di Galles in primavera e abiti di cotone beige, o celeste chiaro, in estate. Si affezion alla brillantina, e faceva sforzi sovrumani per cancellare l'inflessione siciliana. E ci riusc. Diventava ogni giorno sempre di pi sicuro di s, tanto che sempre pi spesso cedeva al vecchio vizio di dare lezioni a chi non doveva. A Rosati che gli mostrava come si montava un servizio, muoveva critiche di tutti i tipi. "Non va bene, perch non va bene?" diceva quello senza accorgersi della imbarazzante inversione dei ruoli. "Non la vede la fotografia, il taglio delle inquadrature? Sono squilibrate, e poi non lo vede? qui c' uno scavalcamento di campo." Rosati non era il pi veloce nel capire le situazioni, poi per, su un tardivo suggerimento dell'amor proprio scioglieva la tensione con una battuta: "Oh, qui siamo in televisione, mica a Cinecitt!" La mattina, quando lo vedeva lo salutava dicendogli: "Il mio allievo ribelle!" Oppure: "Il nostro De Sica! " All'inizio Paolo lo temeva, poi cominci a provarne compassione. Aveva paura di dovergli essere riconoscente e per questo desiderava che fosse subito chiaro che se lui fosse diventato un bravo giornalista il merito non era di nessuno se non di lui stesso. Cos trascorse l'estate. L'assenza di Anna era ogni giorno di pi insopportabile. Si sentiva perduto dentro il suo sguardo assente. Ora che era lontana gli appariva finalmente a fuoco: Anna era la minaccia di una cosa molto concreta, un incidente stradale, o una perdita ai cavalli, qualcosa con cui essere obbligati a fare i conti. Per questa ragione gli sfuggiva, perch era un richiamo all'ordine. Lui ne aveva paura. Lei non sapeva cosa fosse la paura. Di una cosa era certo: tra tutte le cose che possono succedere nella vita, Anna era una di quelle che succedono una volta sola. E lui l'aveva persa. Appena pot permetterselo riprese il pianoforte. Fissata alla ringhiera la solita carrucola, lo strumento, imbracato nelle cinghie di cuoio consumato, urtando contro uno spigolo risuon in modo sordo e prolungato. Paolo, al quale venne in mente una comica con Stanlio e Ollio, si mise a ridere, mentre i trasportatori bestemmiavano. I successi di quell'anno eranoMamma ,Casetta in Canada ,Resta cu' mme , ma lui preferiva sempre suonareReginella , perch era quella che gli veniva meglio. Quando cantava "distrattamente pienz' a me" Anna piangeva.Distrattamente L'amarezza senza conforto di questo avverbio messo l senza intenzione lo feriva come se lo chiamasse in causa. Una sera i vicini si lamentarono "per il rumore". Lui disse: "Ah s? Allora me ne vado!" Dopo pochi giorni e pochi rimpianti si trasfer in una vera casa, un grande appartamento in affitto che gli avevano segnalato in ufficio, in Piazzale Alcuino.

A novembre gli venne affidato il primo servizio. Rosati gli disse chiaramente: "Non t'aspettare l'edizione della sera. Per un buco ti si trova." Part per Bergamo, eccitato e sicuro di s. Non aveva mai visto una fiera del bestiame. C'era confusione, fango e cattivo odore. Pioveva, c'era la nebbia, ma nessuno sembrava interessarsene. Andava bene cos. Gli uomini, vestiti con giacche di velluto si scambiavano opinioni brusche, interrompendosi come se avessero visto in faccia l'angelo della morte non appena Paolo li metteva davanti all'occhio della macchina da presa. Aveva in mente La terra trema. Non c'era verso di rendere in modo autentico la loro spontaneit. Appena usciti dallo stupore catatonico, si mettevano in posa e sorridevano, scambiandosi a mezza bocca commenti divertiti, come se davanti a loro ci fosse una donna nuda. Scoraggiato, Paolo ritenne molto spiritosa l'idea di rimediare intervistando "i veri protagonisti di questa giornata": i bovini. Vanamente sconsigliato dagli operatori, microfono sotto il muso delle bestie, fece un "rapido giro di domande" nel recinto dove quelle avevano l'aria di annoiarsi mortalmente, fino a quando una mucca, evidentemente meglio disposta verso la stampa, ad una precisa domanda sulla situazione politica non mugg sonoramente. L'operatore guard il fonico, sperando che quello gli dicesse che non aveva alzato il livello dell'audio. Quindi alz le spalle indifferente, perch non erano affari suoi. Tornarono a Milano che era gi buio. In macchina Paolo fu assalito da uno di quei suoi vuoti del pensiero che lo scollavano dalla realt, facendolo precipitare nel suo pozzo lucido, di rabbia e nostalgia. Riusc, con molta fatica, a comporre l'immagine di Anna a casa, ad attenderlo. Un'immagine piuttosto generica, perch da qualche giorno non gli riusciva pi di ricordarla precisamente com'era. Le sarebbe piaciuta, la casa nuova. Certo l'avrebbe trovata spoglia, disordinata. Ma era una vera casa. Certo, quando sarebbe tornato a casa la sera, non avrebbe potuto lanciare il fischio di riconoscimento, perch per il rumore del traffico non si sarebbe sentito. Chiss se le era stato riferito che ora lavorava per la televisione. Ci sar rimasta di stucco. I successi di chi si lasciato per andare con un altro fanno male come un'offesa personale. Ma anche se fosse stato cos lui non si sarebbe sentito meglio. La nebbia s'era diradata. L'asfalto era umido e sdrucciolevole. L'autista guidava canticchiando, battendo il ritmo con i pollici sul volante. Paolo gli sedeva accanto. I giorni seguenti li pass cercando di convincere Rosati che, privato dell'intervista alla mucca, il servizio non stava pi in piedi, era troppo corto, poco significativo, tanto valeva non mandarlo neanche in onda. "L'hai detto!" rispose Rosati, che raccont l'episodio all'intera sede di Milano. Fu cos che un dirigente dei programmi, trovandolo divertente, decise che gli avrebbe trovato lui un buco. Lo fece rimontare, tagliare qua e l, tolse qualche riferimento a uomini politici che in quel contesto rischiavano di suscitare involontari accostamenti, e chiam Paolo. Dopo averlo visto Paolo disse: "Cos non se ne parla nemmeno!" Il dirigente lo squadr dalla testa ai piedi, e gli disse: "Peggio per te." Paolo insistette: "Ma non capisce! Cos cambiato tutto il senso che io gli avevo voluto dare!" "Non un problema di senso, ma di tempi, di ritmo." Paolo, abituato a discutere con Rosati, rimase stupito di una risposta pertinente. Senza aspettare che quello entrasse nel merito, a causa di quella semplice osservazione che non concedeva spazio alla contestazione, Paolo si sent improvvisamente spinto dalla parte del torto. Si sent una nullit, e non sapendo cosa rispondere disse soltanto: "Faccia pure come vuole lei." L'uomo sorrise e gli comunic la data della messa in onda. Paolo aveva un'idea in testa, gi da diversi mesi. Telefon a casa, comunicando la grande notizia: "Mi vedrete alla televisione!" Spieg quando e a che ora. Poi chiese di Antonio: "Come va?" "Cos." Era la

prima volta che domandava a sua madre di suo fratello. Durante i mesi precedenti aveva cercato di mettersi in contatto con Anna, telefonandole a casa. Il pi delle volte il telefono aveva squillato a vuoto. In un paio di occasioni gli aveva risposto il padre che, affettuosamente, ma con la necessaria durezza, pari alla remissivit dimostrata nei confronti della moglie, lo preg di non insistere perch "tanto male gi le aveva fatto" Sembrava un prigioniero di guerra costretto a riferire frasi concordate col nemico. Questo lo rincuorava. Arrivato il giorno della trasmissione le due famiglie si riunirono in un bar di un amico dei Boscarino, ostentando tutta la fredda formalit necessaria tra due famiglie in procinto di combinare un matrimonio. I Ribera erano presenti fino al terzo grado di parentela, avendo arruolato fra le loro fila certe anziane cugine di Michele che non sapevano con esattezza cosa fosse questa televisione ("come il telefono, ma fatevi conto il cinema" aveva tagliato corto Concetta). Per contro, i Boscarino si erano presentati solamente in quattro. Oltre a Gaspare, a Giuseppina e ad Anna (cui la promessa di nozze oneste e riparatrici aveva conferito una dignitosa austerit principesca che ne valorizzava pi la bellezza che la malinconia), c'era una sorella della madre, venuta da sola, perch il marito e i figli "odiavano la televisione". Giuseppina aveva avversato finch aveva potuto questa "sceneggiata", dopo tutto quello che era successo, ma il marito, per una volta, riusc a convincerla che a decidere "dovevano essere i ragazzi". "Figuriamoci", aveva risposto lei, e le si erano imporporate di rabbia le guance non pi disposte a gonfiarsi come palloncini stretti attorno alla bocca nei sorrisi in cui era maestra. Antonio non aveva una sua opinione. Per quello che riguardava lui naturalmente era ben contento di vedere suo fratello alla televisione. Ma Anna? Anna gli aveva risposto: "Come vuoi tu." Antonio commise l'errore di non contagiarle le sue paure e pens, in fondo, cosa pu succedere? Nemmeno sul fatto che Paolo era entrato anche lui in RAI, ma sbarcando direttamente nella vetrina delle celebrit, s'era fatto un'opinione. Paolo fece il suo ingresso nel bar esattamente nel momento in cui dal televisore venivano trasmesse le immagini dell'intervista alla mucca. Nel vederlo entrare, e continuando a vederlo nella scatola luminosa, le anziane cugine Ribera stettero con la bocca aperta per circa dieci minuti in una docile, umiliata rassegnazione. Paolo avanz, lentissimo, verso Anna. Tutti gli sguardi finirono su Antonio. Paolo si volt verso il televisore, poi disse ad Anna: "Hai visto?" Anna si alz in piedi. Subito dopo, Antonio. Paolo le prese delicatamente la mano e le disse: "Torna a casa." Le loro bocche erano vicine. Paolo sapeva di treno, di foglie marce, di combustibile. Anna gli ravvi i capelli sulla fronte, e poi guard Antonio, che riusc a dire: "Lasciala stare", ma era pi per compiacere la mamma di Anna, che da lui s'aspettava una reazione. Michele e Concetta Ribera erano invece, ciascuno a suo modo, rassegnati al peggio: Michele guardando di traverso la scena, perplesso e indifferente; Concetta asciugandosi lacrime di cui sarebbe stato difficile stabilire la causa. Paolo e Anna passarono attraverso quel rovo di sguardi incrociati tenendosi per mano. Antonio si ricord di quando le aveva domandato: perch continui a stare con lui? Adesso il suo sguardo, legato a quello di Paolo come l'anello di una catena, gli dava la risposta. Agli occhi di Anna, Paolo aveva qualcosa di unico, di speciale: l'aveva visto crescere, conosceva ogni sua paura. Ma soprattutto verso di lei era comprensivo e indulgente, come un vizio. Qualche mese dopo Antonio chiese, ed ottenne, di essere assegnato al controllo di un trasmettitore isolato, sul monte Penice, nella provincia di Pavia, sotto la neve per quattro mesi all'anno, in compagnia di una cane lupo ammaestrato da un tale, un tedesco malvisto da tutti, che due volte la settimana gli portava, dal paese a valle, la posta e i viveri. Stette lass, come un re in esilio, per quasi due anni, fino all'estate del 1960. Su quello che era successo non disse mai una parola: era come suo padre.

Ad Antonio Anna non chiese neppure scusa. capitolo undici

"Dobbiamo incontrarci. Ho da dirle qualcosa che le interessa." Il tono della voce era perentorio, ma il dialetto siciliano era una garanzia. "Va bene. Vediamoci. " Fissarono l'appuntamento in Corso Sempione. Si sedettero all'unico tavolino di un bar latteria all'incrocio con via Moscati, e ordinarono un caff e una sambuca. L'uomo era alto e magro, i capelli neri, lucidi, e i baffi storti. Il colletto della camicia a righe era floscio e sporco: odorava di uomo di fatica. Con le mani nodose si grattava continuamente la guancia, con un movimento su e gi, lento e pigro. Teneva le gambe accavallate, ma erano cos magre che sembrava occupassero lo spazio di una gamba soltanto. Fumava sigarette senza filtro. Ne offr una a Paolo, che accett. Stettero qualche secondo in silenzio a pulirsi la lingua dai fili di tabacco. "E' un bel lavoro, il suo" fece l'uomo. Paolo non cap. "Ma lei come mi conosce?" "Lavora alla televisione, giusto?" "Per" "Abito a Roma. E' una bella citt. C' il sole, c' lavoro, per chi ha voglia di lavorare. Ma non roba di fabbriche, come qui nel nord. Lavoro che non ci si sporcano le mani. Come posso dirle: sono una persona di fiducia di suo zio." "E' il cugino di mia zia." "Appunto." "Me lo saluti." Assent: "Sar fatto." Sorseggi la sambuca e aspir profondamente dalla sigaretta. Si aggiust l'impermeabile sotto l'unica coscia appoggiata sulla sedia. Paolo not che gli tremavano le mani. L'uomo disse: "Conosce un posto dove si mangia bene?" "Venga a casa mia." "Grazie." Continu: "Suo zio le vuole bene. Si fida. E' una brava persona. Ci ha aiutato a tutti." Non specific chi. "Non lo conosco." Paolo esit, ma era certo che quello sapeva benissimo come stavano le cose, e non ritenne particolarmente pericoloso dire la verit. Concluse: "Non lo conosco di persona." "Tutti gli dobbiamo qualcosa." "Si capisce." "Ce lo farebbe un favore?" Paolo spense la sigaretta: "Dipende." "A suo zio. Un favore." Lo ripet nel caso Paolo non avesse capito bene. "Certo." "Aiutarlo in certe cose. Roba facile." "Mi dica quello che debbo fare." "Non posso dirglielo." "Mi dica quello che mi pu dire. Altrimenti" "Calmo." Sembrava che dovesse aggiungere: guardi me, e prenda esempio. Ma Paolo ormai aveva abbrancato la preda ed era deciso a non mollarla: "Mi sta facendo perdere tempo. Chi me lo dice che lavora per mio zio?" "Ha ragione. Quello che giusto" Mise la mano in tasca. Quando la tir fuori stringeva con tutte le dita una busta gialla. Paolo riusc a leggere: Ministero degli Interni. Non c'era il nome del destinatario. L'uomo la poggi sul tavolino con la scritta rivolta all'ingi.

"Per lei", disse. Paolo la prese in mano e la apr. L'uomo guard di fuori. La lettera non era molto lunga. L'uomo segu lo sguardo di Paolo. Quando vide che era giunto quasi al termine disse: "A che ora posso venire?" "Non dice granch." " Questo io non lo so." "S, ma Chi mi assicura. "Collaborare Dare una mano Momento delicato" Che significa?" Ripieg la lettera e la infil nella tasca interna della giacca. "La stracci." Paolo rimise la mano in tasca. Quello lo blocc: "Dopo. Pu anche dire di no, mica nessuno la costringe. Certo suo zio sarebbe contento. Suo zio gi le ha dimostrato che le vuole bene, o no?" "Ma per fare che, esattamente?" "Ho detto troppo." Si guard intorno. Paolo tradusse chel non era libero di parlare. "Venga stasera. Alle otto", gli disse. L'uomo insistette per pagare lui la consumazione. Paolo si stropicci sui pantaloni le mani che sapevano del bordo di alluminio del tavolo. Anna apparecchiava la tavola come le fosse imposto dalla sentenza di un tribunale. "Proprio stasera che non ci abbiamo niente Senza dire che non ci ho niente da mettermi Mai che mi chiedi il mio parere prima di fare una cosa! Non hai mai voluto invitare nessuno e ora questo qui Vedrai: questo si pensa che pu stare qui anche per dormire La casa fa schifo. Ma si sa: a te che te ne importa! Tanto sono io che ci faccio la bella figura!" Anna era molto cambiata. A Paolo dava l'impressione che, tornando a casa, dovesse aver fatto scorta di tutti quei valori familiari che fino ad allora aveva probabilmente ignorato di possedere: l'amor proprio, la decenza, il desiderio di una costante crescita sociale. Per questo tutte le volte che lui minacciava questo suo nuovo ordine perdeva il controllo, rinunciando fragorosamente, ma per difenderla, alla sua ritrovata dignit. Ricordando gli anni della loro prima fuga, era come se una frattura, ricomponendosi avesse dato luogo a una forma diversa e inaspettata. Paolo attribuiva quel sentimento al fatto di essersi trovata, senza averlo deciso, senza poterne vantare alcun merito, in quella casa, cos diversa dalla precedente. Questo probabilmente in un primo momento le doveva aver fatto rabbia, ma successivamente aveva certamente avuto l'effetto di esaltare i suoi vizi profondi, la sua natura aristocratica, in virt della quale ci che apprezzava di pi nella vita era la consapevolezza che tutto le era dovuto, che il benessere fosse un suo diritto per il quale non occorreva affannarsi pi di tanto. Il regalo di questo bell'appartamento borghese, inaspettato e in parte doloroso, perch la privava di un pezzo della sua vita recente sulla quale sarebbe stato bello versare una lacrima di rimpianto, l'aveva indotta a prendere le distanze da Paolo, per non concedergli alcun vantaggio, nemmeno quello del diritto alla riconoscenza. Non voleva implicarsi in un debito da risarcirsi con una prematura fedelt, o una generica sottomissione. Era stato Antonio a consentirle di praticare a lungo questo sentimento, sin da quando erano due ragazzi senza destino, e poi durante quei mesi recenti di clausura a Palermo, di espiazione, di eroica passivit, confinata nella casa dei genitori in attesa che il suo promesso venisse a prenderla dopo il lavoro, o che la domenica pranzasse da loro, e le insegnasse, con la risolutezza discreta di chi ha molto imparato dal mondo ma riuscito a mantenere alta la soglia del discernimento morale, la lezione del saper vivere dignitoso e controllato, il rispetto dell'autorit, l'accettazione serena della forma della societ. Per Anna tutti i consigli di Antonio si risolvevano in definitiva in un unico grande ammonimento che li conteneva tutti: prendi l'ombrello quando piove. L'uomo siciliano quella sera a tavola non disse una parola. Mangi senza fare commenti, alzando lo sguardo ora verso Paolo, ora verso Anna, a loro volta

reclusi in un profondissimo silenzio senza sbocchi, indecente e imbarazzante come un'intimit spudoratamente condivisa. Quel pomeriggio Paolo aveva tirato fuori il discorso del matrimonio, accusando Anna di voler aspettare ancora. Lei era convinta che fosse lui a non volersi sposare. Davvero non riusciva a capire perch, e lo accus di essere un bugiardo e un vigliacco. Ma allora, aveva aggiunto lui, se siamo tutti e due convinti, facciamolo e non se ne parla pi. Anna aveva detto che cos le sembrava un ricatto, che tutto ricadeva sulle sue spalle, e che comunque, certo, prima o dopo l'avrebbero fatto. "Tu sei convinto che io non mi voglio sposare, per mi dici: sposiamoci. Ma dimmi un'altra cosa: mi credi quando ti dico le cose? No: non mi credi. A chi credi tu? Solamente a te stesso credi. Ma perch non te ne stai da solo? Per te ci vorrebbe una caverna in un posto dove non c' nessuno: lagrevianza fatta persona." "Ma quale ricatto? " L'aveva aggredita lui. "Contorte come te non ne ho viste mai! " "Se non ci sposiamo colpa mia: tu questo mi stai dicendo." "E questo si chiama ricatto?" "E avanti, dilla tutta la verit: lo sai qual la verit? Che tu hai paura. Il matrimonio la scusa. Tu un figlio che non vuoi, vero? Non ho ragione?" "Perch non vorrei?" "Perch hai paura". "Paura! Casomai sei tu che hai paura: e sai come si chiama la tua paura? Si chiama "mamma e pap"". "Tu invece fai come se non ce li avessi mamma e pap. Tu sei orfano Sono io quella che ha paura?" "Una persona si metter in contatto con lei", disse l'uomo siciliano all'improvviso, come gli costasse fatica interrompere quell'ostinata mancanza di educazione. "Un amico fidato". "Ma io non ho ancora capito di che si tratta", protest Paolo. "Appunto per questo", concluse quello, e si alz da tavola. "L'accompagno?" "No, vado da solo". Qualche giorno dopo un uomo grasso e bonario attendeva Paolo all'uscita degli studi della televisione. Teneva le mani nelle tasche di un cappotto corto dal pelo rasato grigio; il cappello ben calcato sulla testa. Uscendo, Paolo cap subito che era l per lui. Lo condusse senza dire niente verso lo stesso piccolo bar all'angolo dove aveva avuto il colloquio con il siciliano. Aveva un modo strano di camminare, goffo e marziale allo stesso tempo: dapprima scalciava all'indietro, poi tirava avanti la gamba destra, come se dovesse colpire ostacoli invisibili. Presero posto nello stesso tavolino rotondo. Parlava in modo sbrigativo, con un forte accento veneto. Borbottava sempre qualche monosillabo prima di dire qualcosa di comprensibile. Per s chiese un bicchiere di vino bianco, Paolo ordin un cognac. Dopo qualche preliminare l'uomo gli chiese: "Che ne pensi dei comunisti?" Il suo garbo era un problema in pi per Paolo, che non capiva mai quale fosse la risposta giusta da dare. "Quello che ne pensano tutti." "L'Italia corre un grave rischio", continu quello. "Hai visto in Ungheria? C' da essere davvero preoccupati." Paolo si dispose meglio all'ascolto: "Indubbiamente." "Hai mai pensato a quello che potrebbe succederci, voglio dire, a noi personalmente, alle persone cui vogliamo bene, se andassero su anche qui, in Italia?" Disse Italia come Paolo non l'aveva sentito dire mai da nessuno: come una cosa cui imporsi di voler bene senza duttilit. Paolo si sentiva inadeguato: per lui personalmente i comunisti costituivano una minaccia quanto i coccodrilli delle paludi: "Veramente no." "E' uno sbaglio che fanno in molti. Eppure, anche se stranamente il pericolo comunista non viene quasi mai spiegato al popolo, tutti gli italiani onesti nel loro intimo avvertono che il pericolo esiste, ed grave. E noi, noi non

possiamo sottrarci alle nostre responsabilit. Noi non possiamo considerarci come persone qualunque, vero Paolo? Noi dobbiamo essere soldati in prima linea!" Disse noi troppe volte, per lasciarlo indifferente, e ogni volta puntandosi contro l'indice con una forza che a Paolo parve eccessiva. Lo seguiva con grande attenzione. Ma come spesso gli succedeva in casi simili, senza volere si distrasse, lasciando fortunatamente lo sguardo corrucciato e intenso a fargli da controfigura. Pens che aveva evitato il servizio militare. Poi chiss perch al fatto che non aveva amici. Solo Anna. Ma Anna non era una sua amica. Non lo era mai stata. Quel tipo continu a parlare per qualche altro minuto. Infine gli fece una domanda diretta, che ebbe l'effetto dello schiaffo che l'ipnotizzatore d alla sua vittima per svegliarlo alla fine dell'esperimento: "Non sei d'accordo?" "Certo." L'uomo cambi il tono della voce, dopo essersi accomodato meglio sulla sedia, aggiustandosi il cappotto: "Ho saputo di tuo padre. Tuo zio me ne ha accennato." "Preferirei non ritornarci pi sopra." "Ma come? Gli hanno spezzato la schiena! Una vita distrutta" Ritenendo che questo avrebbe potuto agevolare la concessione della pensione di invalidit, era stato stabilito di raccontare al cugino della zia Agata che Michele era stato investito da un camion di partigiani, e non per sbaglio, per una disgraziata fatalit, come aveva sempre raccontato lui per evitare inutili complicazioni, ma a bella posta, con l'intenzione di ucciderlo. "Tu sei troppo buono, e questo ti fa onore", prosegu. "O c' qualcosa che non mi vuoi dire?" Paolo cominci ad innervosirsi. Che diritto aveva quello a parlargli in quel modo? Non rispose. "Cos'? hai qualche amico comunista? Ti capisco sai. Succede Oggi come oggi si stanno infilando dappertutto." "No, nessuno, non ne conosco nemmeno uno. Almeno credo: io non so di nessuno che idee ha." "Ma ce ne saranno dove lavori tu." "Credo di s." "E in genere quando uno comunista non cerca di nasconderlo, no?" "In televisione forse s." "Ma non quando li si comincia a frequentare dopo il lavoro, andando a cena insieme, quando si stabilisce un rapporto basato sulla fiducia. I nostri nemici sono appassionati, gli piace parlare. E soprattutto cercano sempre di convincere che hanno ragione loro. Leggono, leggono sempre: propaganda, si capisce, ma sono tosti. Lo sapevi?" "No." "Quello che devi fare guardarti in giro, stare con gli occhi aperti, vedere quello che non ti piace, capire cosa fare. Prendere nota di orari, spostamenti, riunioni amicizie Non difficile. Sei un bravo ragazzo. Ora devo proprio andare." Estrasse il portafogli e lasci una banconota da mille sul tavolino. Paolo not che non ne aveva molte altre. "Pensaci." Si alz rumorosamente, gli tocc leggermente la spalla e si allontan. Qualcuno aveva parlato bene di lui allo zio. Ma chi? Il suo direttore? Impossibile. Un caposervizio Dopo l'intervista alla mucca era ancora pi improbabile. Da allora non aveva pi visto una macchina da presa nemmeno nel magazzino, e passava il suo tempo a selezionare dai quotidiani e dai rotocalchi notizie di costume su cui altri colleghi avrebbero realizzato servizi per la squallida edizione del pomeriggio. Il primo che gli venne in mente fu Rosati, ma come faceva uno come Rosati ad avere rapporti con suo zio? Del quale aveva potuto apprendere da una cronaca su un quotidiano nazionale che era nel frattempo diventato il capo di gabinetto di un sottosegretario al ministero degli Interni, o qualcosa del genere. Come quando si incomincia a seguire una donna, anche contro ogni speranza e ogni convenienza, Paolo decise di sospettare di lui. Se era stato davvero Rosati era chiaro che doveva avere qualcosa in mente: su che cosa poteva fondare un giudizio positivo sul suo conto? Sicuramente lo voleva incastrare.

Da quel giorno cominci a fare cose che non avrebbe mai pensato di essere in grado di poter fare, ma mantenendosene cos lontano da non sentirsene per nulla responsabile. Le cose avvenivano da sole, erano loro a guidare lui, e non viceversa. Lui divenne il mezzo di una volont che non era pi in grado di controllare. Era qualcosa che aveva gi conosciuto, ma della quale era sempre riuscito a salvarsi in tempo da non esserne sopraffatto: nelle scommesse sulle corse dei cavalli. Ma ora, non essendoci in ballo il rischio di una perdita economica, tutto diventava pi semplice, e meno resistente al suo controllo. Per eliminare le incertezze sul conto di Rosati doveva conoscerlo meglio. Conoscere la sua vita privata, i suoi interessi, il suo modo di pensare, le sue opinioni politiche. Soprattutto le persone che frequentava. Osservandolo meglio si poteva facilmente ritenere che fosse un uomo molto furbo, molto attento a dissimulare, per poter tranquillamente addentrarsi nelle confidenze altrui. Alla fine di una giornata di lavoro lo segu fino a casa. Non fu difficile: bastava fare come nei film. Non fu un tragitto breve. Rosati abitava in una tranquilla palazzina vicino piazza Carlo Erba. Attese in macchina di vedere accendersi una luce. Terzo piano. Aveva gi notato in altre occasioni che non portava la fede, eppure lo aveva sentito dire pi di una volta che era sposato. Di certo in casa sua non c'era nessuno ad aspettarlo. Vide accendersi altre luci, e ne indovin il pi scontato dei percorsi domestici: dalla cucina, alla camera da letto, al bagno. Poi dal bagno al salotto. Stette l ancora un'ora. Cominci a collaudare gesti e accorgimenti. Scese dall'auto e si accese una sigaretta. La prima voluta di fumo s'impenn festosa nell'aria e vi ristagn per qualche secondo. Cominci a passeggiare fingendosi attratto dalle vetrine dei negozi in penombra. Erano ormai le nove della sera, quando inizi a piovere. Si alz il bavero della giacca e raggiunse in fretta la sua automobile, ma la violenza dello scroscio fece s che vi arrivasse gi completamente bagnato. Si sedette e afferr le razze del volante. Si mise in ascolto della pioggia sul tetto e sul cofano della Seicento. Il parabrezza era attraversato da strisce d'acqua incanalate dentro percorsi segnati dalla polvere accumulata sul vetro e sembravano formare morbidi drappeggi. Le cose, al di l, tremavano e luccicavano come fiammelle. Verso le undici tutte le luci dell'appartamento si spensero. Fortunatamente in quel momento Paolo stava guardando altrove, altrimenti se ne sarebbe andato, e non avrebbe visto Rosati uscire, dopo alcuni minuti, con l'impermeabile sbottonato, senza cravatta e una sigaretta quasi spenta fra le labbra. Paolo interpret questo dettaglio come il segno di una decisione improvvisa. Si appiatt nell'ombra. Riflett che quando un uomo esce di casa a quell'ora, dopo essersi quasi fumata una sigaretta, o per andare dal pi vicino tabaccaio, o da una puttana. Di seguirlo nel primo caso non valeva la pena, nel secondo sarebbe stato imbarazzante. Cos decise di lasciar perdere, e quando lo vide sparire dietro l'angolo tra via Amedeo d'Aosta e via Plinio gir la chiave nel quadro e si avvi con cautela nella direzione opposta. Fatti pochi metri gli si gel il sudore sulla schiena: e se Rosati fosse uscito perch si era accorto di essere spiato? Gli sarebbe bastato affacciarsi due o tre volte per prendere una boccata d'aria, o chiudendo le imposte all'inizio del temporale e notare una Seicento color crema parcheggiata proprio davanti al suo portone, in doppia fila, con un uomo nervoso al volante. Aveva solo un modo per eliminare questo sospetto: fare il giro dell'isolato, anche rischiando di trovarselo all'improvviso di fronte e registrarne le reazioni. La luce dei fari abbaglianti lo avrebbe protetto dal rischio di un imbarazzante riconoscimento. Fu cos che fece, ma di Rosati non c'era pi traccia. La sua auto era sempre al suo posto e l'appartamento era al buio. Paolo allora scese dall'auto e si avvicin al portone. Aveva smesso di piovere. L'androne era illuminato da gialle luci pastose, che si riflettevano sulle pareti foderate di carta rosso aragosta. Non c'era che il rumore dello scroscio del bagno proveniente dall'appartamento del portiere. Nella guardiola i giornali erano ordinati in pile di altezze irregolari. Prov ad entrare, ma la porta a vetri era chiusa a chiave. Il suo tentativo la fece vibrare rumorosamente. Su un lato del tavolo era poggiato un

gomitolo grigio infilzato da una coppia di ferri rossi. Paolo lesse il nomeRosati sulla casella della posta, e in qualche modo ne fu rassicurato. Usc. Tornare a casa fu come compiere un gesto liberatorio, oscurato da un'ombra di dispiacere. Giur a se stesso che quella era stata la prima e ultima volta. Nei giorni successivi evit accuratamente di trovarsi vicino alla sua preda. Non ne avrebbe retto lo sguardo. Dopo qualche giorno, in redazione, gli fu recapitata una lettera. Poche righe: "Cos non serve a niente. Continua. Non ti scoraggiare". Si guard intorno, tremando. Per la prima volta sent quello che stava facendo come un dovere. Erano le duemila parole su Milano, il caso dello strozzino, la fiera delle vacche di Bergamo bassa. Ma chi poteva essere stato? Per primo pens allo stesso Rosati, ma era la soluzione meno gratificante e volle abbandonarla. Dunque qualcuno, mentre lui stava spiando Rosati, aveva spiato lui. Era sotto esame. And in bagno perch aveva bisogno di guardarsi allo specchio. Non voleva tirarsi indietro, anzi. La missione era cominciata. Cos ripet l'appostamento altre tre sere. Per precauzione si port l'impermeabile, ma non ce ne fu bisogno. Anzi, il glicine, fecondato dal caldo e dall'umido delle prime sere tiepide dell'anno, diffondeva un profumo estivo narcotizzante. Stabil dei turni di appostamento anche mattutini. Rosati si rivel un tipo abitudinario. Scendeva verso le otto e andava in edicola. Poi al bar. Scambiava poche parole con gente che conosceva poco. Ritornava a casa per poi uscire verso le undici per andare a lavorare. Al di fuori della redazione sembrava non avere rapporti con altro essere umano. Certo Paolo non poteva tenere sotto controllo il telefono, ma era ragionevole pensare che certi discorsi evitasse di farli proprio per telefono, con i rischi che questo comportava. Una sera lo chiam un paio di volte, riagganciando appena quello rispondeva. Ne sapeva quanto prima. Quando per la prima volta se lo trov accanto in ufficio Paolo sent un vuoto allo stomaco, come di fame, ma molto pi piacevole: una fame che non si ha voglia di soddisfare, per prolungare il piacere dell'attesa. Lessero insieme i giornali del mattino, poi le agenzie. Paolo lo fece parlare della situazione politica. Si stavano avvicinando le elezioni. Gli domand: "Tu pensi che i comunisti siano davvero una minaccia?" "Perch , chi che lo dice?" "Come chi lo dice? Lo pensano tutti. E io anche." "Propaganda. Non che io abbia simpatie da quella parte Ma un conto quello che dicono i giornali" "E i telegiornali!" "Certo, i telegiornali. E' tutta politica. Meno ce ne interessiamo meglio . "Progresso senza avventure": io sono d'accordo." "E dei socialisti ci si pu fidare?" "I socialisti sono pi pericolosi dei comunisti. Un giorno s e un giorno no esce fuori qualcuno che dice: facciamo un governo coi socialisti. Sai perch lo dicono? Per farli litigare, socialisti e comunisti. Va bene, litigheranno pure, dico io, e che cosa abbiamo ottenuto? che uno come Nenni poi va al governo. E che ci va a fare uno come Nenni al governo?" Apr un giornale, inforc gli occhiali. "Uno che dice, leggi qua: "nessuna alternativa possibile senza i comunisti." Ci capisci qualcosa?" "E allora? Che bisogna votare?" "Ti dico questo: un voto non dato alla DC un voto ai comunisti, ma un voto ai comunisti un voto in meno ai socialisti." "Perci tu voti comunista?" "Non ho detto mica questo! Io ci tengo alla mia casa! Oh, non facciamo scherzi!" Ne sapeva abbastanza. Quindi fece in modo di farsi fare delle domande su Anna, cos da giustificare un suo interessamento reciproco. "Vacanze, quest'anno?" gli domand senza alzare gli occhi da un giornale. "Solito mare vedremo." "Noi anche, oppure come l'anno scorso torniamo in Sicilia." Rosati sembr cadere nella trappola: "Anche tua moglie siciliana?"

"S. La tua?" "Ah, sei sposato? Non lo sapevo." Questa Paolo non se l'aspettava. Era stato un ingenuo. Mentre Rosati era furbo: questo alimentava i suoi sospetti: allenato a stare sulle generali, evasivo. "Anzi, credo proprio che non lo sapeva nessuno Eh, Paolino" Paolo alz le spalle sorridendo, per non dire n s n no. Si alz e si allontan, sconfitto. Nei giorni successivi venne a sapere senza troppe difficolt che Rosati era separato dalla moglie da pi di due anni, e che la nominava solamente quando cominciava a fare la corte a qualche segretaria, per tranquillizzarla, ma in realt per impedirsi di osare e di fallire (in lui le due cose erano sinonimi). Dati i tempi era una notizia che preferiva tenere riservata. Dopo una settimana ne sapeva abbastanza per provare a stendere un rapporto informativo abbastanza dettagliato. Non pensava assolutamente pi che potesse essere stato lui a fare il suo nome allo zio. Aveva per abbastanza elementi per sospettare della sua lealt istituzionale. Gli venne da ridere a pensare queste cose. Era tutto un gioco, molto divertente. Tanto, poi avrebbe stracciato tutto, e gi dall'indomani se ne sarebbe dimenticato. Cominci a scrivere: "individuo potenzialmente pericoloso". Alz la testa. Fece una smorfia cattiva e si accese una sigaretta aspirando di gusto. Si era appartato nella stanza delle moviole, buia, illuminata solo da lampade agganciate ai tavoli che diffondevano una luce forte tutta orientata verso il basso in modo da illuminare un preciso spicchio del pavimento. Sentiva le voci di due tecnici provenire dalla stanza accanto: discutevano di calcio. Prosegu enfatizzando la sua situazione matrimoniale, esprimendo un giudizio morale tagliente e risolutivo. Aveva anche avuto modo di verificare che non andava mai a messa la domenica, e che la moglie aveva una relazione con un ingegnere pi giovane di lei. Non avevano avuto figli. Infine disse delle sue pericolose inclinazioni politiche: "Pur non dichiarandosi comunista, in numerose discussioni avute con lui sul luogo di lavoro ha pi volte dichiarato che a suo giudizio i comunisti non costituiscono un reale pericolo per il Paese." Rilesse il foglio. Sorrise, e si ravvi il ciuffo di capelli sulla fronte. Cancell l'ultimo periodo con un tratto di penna e lo sostitu con una frase pi concisa: "simpatizzante comunista". Naturalmente non era vero, ma di fatto era libero di scrivere tutto quello che gli pareva; questo lo eccitava. Tanto era un gioco: lui non voleva fargli del male. Era sul punto di fare quel foglio in mille pezzi, quando pens che non era prudente gettarlo, sebbene sminuzzato, all'interno dell'ufficio e, dopo averlo ripiegato con cura, lo infil nella tasca della giacca, dove rimase per diversi giorni. Una mattina era annunciata in redazione la visita di un importante deputato milanese, incaricato di dare assicurazioni sul futuro assetto del telegiornale, in rapporto a voci che ne prefiguravano lo spostamento a Roma. Il deputato arriv preceduto da una piccola scorta colorita: portaborse e carabinieri, poliziotti e segretarie solerti e altere. Paolo ne attendeva l'entrata insieme ad altri colleghi con le braccia conserte, tutti armati di un inevitabile scetticismo. Le prime vedette attraversarono l'androne in compagnia dei vertici dell'azienda, stretti in conciliaboli preparatori: il deputato avrebbe concesso un'intervista. Un uomo alto e allampanato allung al capo servizio della politica interna un foglio dattiloscritto. Paolo afferr due battute del loro dialogo: "Questo?" L'uomo alto, schiacciando il mento sulla gola inglobando nelle pieghe della pelle il pomo appuntito, disse, guardando negli occhi l'interlocutore senza modificare la sua aria assorta: "Le domande". Il caposervizio butt un'occhiata: "Ci deve essere un errore." L'uomo alto riprese furtivamente il foglio e lo lesse levandosi gli occhiali per succhiarne le estremit delle stanghette. Rimise il foglio nella cartellina che teneva stretta sotto l'ascella, e ne estrasse un altro. Prima di consegnarlo nelle mani del caposervizio lo lesse attentamente: "Erano le risposte". Manteneva un'eterea aria di meraviglia e di lontananza insieme. Paolo scambi un'occhiata con quello che gli stava vicino: misurarono la loro

superiorit intellettuale e l'arroganza del potere. Ma non si dissero niente, perch l'attenzione di Paolo era stata nel frattempo distolta dall'arrivo del deputato, un omettino basso, con baffetti rasati, preceduto affiancato e seguito da un nugolo di carabinieri, discreti e disinvolti. Paolo li osserv con una curiosit indecisa, come se la voce di un sesto senso pi lungimirante gli volesse suggerire qualcosa che superficialmente gli sfuggiva, ma nello stesso tempo gli facesse ritenere superflua la fatica di capire di cosa si trattava, perch lo sapeva gi. Guard con maggiore intenzione, lasciando che della scena che si svolgeva sotto i suoi occhi rimanessero solamente i protagonisti, isolati dal contesto come santi dotati di un alone di luce propria, ma prima di approdare a qualche risultato il piccolo corteo era gi sfilato sotto i suoi occhi. Insieme ad altri colleghi si mise sulle loro tracce. Percorsero il corridoio che conduceva allo studio di registrazione. Visti da dietro sembravano un gregge di pecore, o la processione della festa del santo patrono. I militari parlottavano fra di loro come si fossero incontrati l per caso, per un rinfresco. Paolo si mise alla testa del gruppetto degli inseguitori. Sulla porta, ad attendere l'onorevole c'erano altri dirigenti, tra cui il direttore del telegiornale. Quando Paolo riusc a colmare la distanza che lo divideva dall'uomo politico, la grande porta pesantemente si stava richiudendo alle sue spalle, e la luce di servizio sulla parete si illumin sulla scritta rossaSilenzio. In onda . Le guardie del corpo rimasero fuori a osservare particolari dei soffitti come fossero fra la penombra sacra di una cattedrale. Paolo si lasci superare dai colleghi. La porta si riapr. L'uomo alto chiam un carabiniere della scorta con un gesto conciso della mano. Il militare gli si avvicin. Finalmente Paolo fu in grado di ritagliare i contorni delle persone dallo sfondo e isolare in uno stesso sguardo quello che vedeva e quello che ricordava. Lo identific dal passo, prima ancora che dal volto che, incorniciato da un diverso cappello, sembrava avere modificato i tratti e le proporzioni: il maresciallo dei carabinieri che ora entrava nello studio di registrazione era l'"amico fidato" che quindici giorni prima era intervenuto con un'autorit che agli occhi di Paolo quel giorno nulla giustificava, per arruolarlo alla causa. Paolo si sent automaticamente parte di un mondo segreto di cospiratori al quale pu essere ammesso solo un manipolo di uomini scelti, una casta di uomini superiori sprezzanti del genere umano meschino, austeri e aristocratici sacerdoti di un credo duro, ma nobilitato dall'interesse pi elevato: il bene della propria patria. Apprezz che quello avesse evitato accuratamente di riconoscerlo pubblicamente, e si limit, per contraccambiare lo scrupolo, ad infilare la mano nella tasca della giacca e stropicciare il rapporto su Rosati che l era rimasto da giorni, in modo da sentirsi pi vicino, anche fisicamente, alla missione che in quel momento stava decidendo di accettare. capitolo dodici

Ogni mese Paolo si incontrava con il maresciallo per riferirgli dei progressi fatti. Quello era pienamente soddisfatto del suo lavoro, che a lui, per la verit, continuava a sembrare poca cosa. Fino ad allora non era ancora riuscito a stanare nemmeno un sovversivo. Di Rosati ormai aveva smesso di occuparsi. Era stato un buon allenamento. S'era quindi dedicato a F., per quella sua mania di calzare dei sandali francescani in estate e pedule scamosciate in inverno che ne facevano, quasi certamente, un socialista; poi era stata la volta di M., perch si era fatto crescere la barba e frequentava persone molto pi giovani di lui che aveva certamente pi di quarant'anni: persone dalla dubbia dirittura morale.

B., che dichiarava ai quattro venti che se continuava cos finiva che avrebbe votato per i socialisti, "malgrado Nenni". Laureato in Economia, sapeva quattro lingue, possedeva tre appartamenti nel centro di Milano. Paolo lo detestava. V. era un democristiano grasso e inaffidabile: su precisa provocazione dichiar che non avrebbe alzato un dito in difesa n della patria n, probabilmente, neppure di se stesso. L'unica cosa che lo interessava erano i fumetti: ne aveva la casa piena, ma vietava ai suoi cinque figli di sfiorarli. Per quelli era capace di uccidere. L'unico di cui in breve fu certo che fosse comunista era l'usciere, Filippo, un uomo alto e oscuro, grigio di capelli e di baffi, del quale fu fin troppo facile conoscere nei dettagli ogni movimento, l'ora in cui andava in sezione, l'ora in cui ne usciva, se e quando prendeva parte a scioperi o manifestazioni, o a diffusioni straordinarie dell'Unit. Non potendo enfatizzare, nel suo rapporto, questi aspetti della vita di Filippo gi abbastanza enfatizzati da soli essendo del tutto pubblici, cerc di scavare nella sua vita privata, senza ricavarne assolutamente niente, perch la vita di militante comunista era quanto di pi metodico, insignificante e ordinario si potesse immaginare. Al principio pedinarlo si era rivelata al contrario un'esperienza eccitante. Non aveva mai visto un militante al lavoro. Non credeva che un comunista professasse tanto liberamente, e al tempo stesso con cos poco entusiasmo, la propria religione. L'usciere Filippo non discuteva quasi mai di politica, se lo faceva, sbuffava. Era un impiegato del comunismo, probabilmente non sapeva neppure perch lo fosse. Non era agguerrito, piuttosto fatalista. Andava su e gi davanti la portineria con le mani in tasca, salutando rispettosamente quando era il caso. Era un "individuo potenzialmente pericoloso"? Nel dubbio Paolo ritenne di s, senz'altro. Un elemento lo aveva infine convinto: una volta gli aveva risposto in modo sgarbato. Malgrado anche il rapporto sull'usciere fosse ai suoi occhi del tutto privo di utilit, il maresciallo si compliment con molto entusiasmo, perch secondo la sua opinione sugli avversari non se ne sapeva mai abbastanza, e poi, se si eccettuavano coloro che avevano avuto a che fare con le questure, una schedatura sistematica dei militanti non era ancora stata fatta "come si deve". Questo Filippo, per esempio, lui non l'aveva mai sentito nominare. Paolo cerc di figurarsi Filippo imbracciare il fucile e salire sulle barricate della rivoluzione proletaria. Incoraggiato a proseguire, sembrava non trovare pi ostacoli. Tranne in quelle rare occasioni in cui la personalit dell'osservato gli consigliava di andarci cauto, e allora preferiva rimandare gli appostamenti pi pericolosi, o gli abboccamenti pi esposti, a "momenti migliori". Per finire in questa lista di riserva era sufficiente essere o molto alti o molto pi anziani di lui: in entrambi questi casi gli riusciva troppo difficile stabilire il primo contatto, quello decisivo, porre le domande utili a sondarne il pensiero e i segreti. Aveva per diradato di molto le attivit pi faticose e pericolose: aveva imparato che si possono ottenere molte pi informazioni alla mensa che non in un noioso pedinamento per le vie della citt, dal quale poteva desumere i gusti in materia di negozi di abbigliamento, raramente dettagli poco significativi sulle abitudini sessuali, il pi delle volte su modi innocui di trascorrere il tempo libero. L'unico aspetto veramente divertente era potersi mascherare con baffi finti e larghi cappelli. Il momento che preferiva continuava ad essere quello della stesura del rapporto conclusivo: l dava spazio alle sue note capacit di sintesi, al suo talento per la metamorfosi stilistica e alla fantasia. Anche se ovviamente qualche traccia dell'estensore, nella catena di mani che dalle sue arrivavano a Roma, doveva certamente restare, i fascicoli rimanevano anonimi, e questa era la cosa pi eccitante. Per maggiore sicurezza, oltre a scriverli sempre utilizzando uno stile diverso, Paolo prese ben presto ad adottare altre precauzioni, ad esempio quella di usare ogni volta una differente macchina da scrivere, e di indossare i guanti prima di cominciare il lavoro. Roberto N. non era n pi alto, n pi anziano di lui, lo teneva d'occhio da alcuni giorni, eppure gli sfuggiva. Sar stato per quelle cravatte di lana

francesi che gli arrivavano a met della pancia come fossero state tranciate di netto, per le sue caratteristiche giacche di velluto, o per la sua bellezza indiscussa che, abbinata ad un pallore da eterno convalescente, ne faceva un piccolo eroe romantico. Era un uomo che si sarebbe detto predestinato a ricoprire ruoli di responsabilit, ma in posizione di immediato rincalzo. Era intelligente e in pace con se stesso, distaccato, efficiente ma senza il calore dell'ambizione o semplicemente della passione, come una chiesa in un giorno feriale. Aveva i capelli biondi, sottili, divisi dalla riga al centro e tirati all'indietro, gli occhi trasparenti, di un azzurro chiarissimo, e un sorriso che spesso si allungava sulle guance molli, che voleva lasciar trapelare una malinconia innominabile, un bacino di tristezze dal quale trarsi ogni mattina come viatico eternamente rinnovato e inestinguibile. Non fumava, non beveva, non aveva vizi, era sposato con una segretaria giovanissima e all'apparenza ancora pi discreta di lui, bassa d'altezza e di sguardi ma con un viso pieno di grazia, dalla quale aveva avuto due bambine che Paolo immaginava educate e silenziose come due piccole suore. Abitavano in un appartamento in affitto dell'Inacasa in via Feltre. Proprio per la sua moglie-bambina, che era riuscito a far assumere in RAI grazie ad una robusta raccomandazione, Roberto N. aveva violato il suo codice morale, imbevuto di richiami all'onest, alla lealt, al rispetto della legalit (tanto rigore provocava in Paolo il sospetto che di fianco a un tale schieramento di precetti vi fosse il modo per eluderli tutti: un passaggio che, pur essendo bene in vista, essendo cos ben dissimulato, non viene notato da nessuno). Paolo e Roberto erano due estranei. Fu Roberto che un giorno lo avvicin, altrimenti lui non lo avrebbe fatto mai, chiedendogli se potevano mangiare insieme. Paolo lo guard infastidito, perch gi intravedeva l'imbarazzo di una conversazione su noiosi argomenti di lavoro. Si misero in cammino in silenzio, dando cos una veste di ufficialit a quel pranzo nel quale evidentemente sarebbero state dette cose importanti. Se ne stava ciascuno con i propri pensieri e le mani in tasca: era il silenzio di due che si conoscono bene. A tavola Roberto fu cordiale e premuroso, ordinando per entrambi. Vers l'acqua minerale nel bicchiere di Paolo (era evidente che ormai questi era suo ospite) e gli chiese se era al corrente di certi trasferimenti di cui si sentiva in giro. Parlava lentamente, cauto, come scusandosi continuamente per l'intromissione: "Te la faccio breve: dieci di noi vanno a Roma, non si sa bene a fare che cosa, con quali prospettive. Quindi sono dieci posti che si liberano. Dipende da chi ci va. Dieci come te, faccio per dire, e sono dieci nuovi da piazzare, e questo pu essere, sarebbero dieci posti garantiti pertu sai chi . Dieci come me, faccio sempre per dire, e farebbero cinque e cinque, cinque da fuori, cinque interni. Secondo te come pensi che finir?" Paolo ci pens un attimo, asciugandosi le labbra con il tovagliolo, disse: "Nessuna delle due. A Roma ci andranno dieci di Roma. Poi i dieci rimpiazzi sarebbero tre di questo, tre di quello e quattro di quell'altro, perci si scanneranno fino a che non se ne far niente." Roberto lo guard meravigliato. Gli disse sinceramente: "Non ci avevo pensato." Paolo ebbe la conferma di quello che pensava: Roberto N. era un uomo intelligente, s, ma un po' limitato, che viveva al di sopra delle sue possibilit. Ma la domanda era: perch voleva sapere la sua opinione? "Vuoi sapere perch t'ho chiesto come la pensi?" Era un indovino! Paolo sorrise. Roberto continu: "C' qualcuno che ti vuole bene." Paolo pens nell'ordine al maresciallo, ad Anna e a Rosati, ma Roberto naturalmente non si riferiva a nessuno di questi tre. "Insomma, un sacco di complimenti. Sai cosa si sente dire di te?" "Da parte di chi?" "Per esempio del direttore: "Ribera: quello bravo". Magari non t'ha mai visto, ma l'ha sentito dire da qualcuno e le voci corrono: per pigrizia, per imitazione, fai tu. Poi nessuno controlla, nessuno sa se vero. A te ti andrebbe di andare a Roma?"

"Io sto bene qui. Non mi va di ricominciare un'altra volta." Roberto lo studi qualche secondo. "Dite tutti cos." "Tutti chi?" Roberto sorrise quel suo sorriso triste, come se avesse un traguardo che non riuscisse a raggiungere per colpa di una causa antica. A Paolo sembrava del tutto ingiustificato. Per gli pareva un tipo raffinato, e questo un po' lo imbarazzava. "Invece a me non dispiacerebbe. Cos come non mi dispiacerebbe restare. Sia fatto di me quello che si vuole!" "Sai se per caso stato fatto il mio nome?" domand Paolo. " Ma non questo." "Ah no? E che cos'? perch hai detto che c' qualcuno che mi vuole bene?" "Non per farmi gli affari tuoi, assolutamente. Ci sono delle liste." "Che tipo di liste?" "Non buoni e cattivi, come pensi tu" "No, io veramente non penso niente Saranno per andare a Roma, forse" "No, Roma non c'entra. Il vento cambia, Paolo. Sembrava che andasse in una certa direzione, e invece " "Dimmi di queste liste." "Ne sentirai parlare comunque." "Se non sono "buoni e cattivi" allora che sono? perch ti preoccupano?" "Sai, uno crede di far bene, che ti stimano, poi da un giorno all'altro non sai pi che posizione devi prendere" "C'entra la politica?" "La politica Se continua cos Le cose sono sempre diverse da come uno si crede. Tu lo sai qual la parte giusta?" "La parte giusta?" "Cos' quest'acqua minerale?! Prendiamoci un po' di vino! Vuoi?" Paolo cominciava a capire la malinconia di quell'uomo. Roberto gli chiese se era sposato. Lui disse, per la prima volta sincero: "Ancora no. Ma vivo con una ragazza." Anna non era pi una ragazza, ma cos gli suonava meglio, decisamente. "Sei fortunato" gli disse Roberto e risero insieme. Poi aggiunse: "Io ho due bambine. Anzi tre: anche mia moglie una bambina. La conosci? Lavora al primo piano." "E' quella bassina", conferm Paolo, che aggiunse: "Per carina. Mia cio, Anna, la ragazza con cui invece alta" Roberto aveva ordinato una bottiglia di vino e riemp i bicchieri, e disse: "E' bellissima, almeno cos ho sentito dire." "Da chi?" "Non lo so, in giro." Brindarono alla salute di qualche collega: un paio di nomi li fece Paolo, un altro paio Roberto. Dopo mezz'ora avevano finito la bottiglia e tornarono in redazione riacquistando istantaneamente un equilibrio insospettabile, ma durante il pomeriggio Paolo si addorment sul tavolo sommerso di agenzie. Paolo riflett a lungo su quelle mezze parole, su quello strano discorso che gli aveva fatto Roberto N., prima su Roma, poi sulle liste, perfino su Anna. Il fatto che si parlasse di lei, di loro, lo lasciava del tutto indifferente. Ormai s'era fatto l'idea che tutti l dentro spiavano tutti, e che perci le conseguenze si annullavano a vicenda. Alla fine era riuscito a non dirgli assolutamente nulla, salvo che qualunque cosa fosse successa, c'era qualcuno che a lui "voleva bene". Si sentiva rassicurato, e decise di cominciare a frequentarlo pi assiduamente. In realt non vedeva l'ora di impossessarsi di quelle misteriose liste. Se non si trattava di "buoni e cattivi" perch tanta preoccupazione? Invece proprio di questo doveva trattarsi, e lui stava nei buoni; Roberto N., chiss mai perch, nei cattivi, su questo Paolo poteva giurarci. Chiss se i suoi rapporti informativi c'entravano qualcosa. Doveva assolutamente saperne di pi. Con lui non potevano bastare pedinamenti, baffi finti, e chiacchiere al bar, perci lo invit a cena, ma se avesse invitato una sua fotografia sarebbe stato lo stesso: in quel genere di occasioni Roberto era abilissimo a mostrare solamente il suo proverbiale sorriso e la sua classe. La sensazione era che fosse proprio la piccola moglie a tenere in pugno il timone: era il tipo di donna che, non contenta di non saper stare al proprio posto, si sdraia,

addirittura, su quello conquistato abusivamente, per timore che qualcuno possa avanzare dei dubbi sulla legittimit della sua faccia tosta. Lei poi completava la sua occupazione del territorio con una stucchevole esibizione di falsa modestia, sempre protesa a tessere le lodi del suo adorato marito spiegando in modo pedante quanto fosse bravo e giudizioso, come fosse indispensabile tanto a casa quanto sul lavoro, al punto che lei era costretta a rimproverarlo, "perch troppo zelo si pu ritorcere contro, e alla fine tutti si approfittano, anche io!" Lo riconosceva come il suo unico difetto. Fu una di quelle serate che quando finiscono lasciano le cose esattamente nella posizione in cui si trovavano. Nulla di Roberto e di sua moglie era rimasto in quella casa, nulla di quella casa era rimasto in loro: un pareggio inutile e indolore. Era stato come accendere la televisione su un programma poco interessante. Anna, che aveva sopportato con la pazienza di chi sa stare al mondo la recita da filodrammatica di quella donnina petulante, alla fine disse: "Roberto si muove come se ha qualcosa da scontare." "Dici?" "Non triste, come mi avevi detto tu. Per me sulla difensiva. Non hai visto come sfugge con lo sguardo? Non modesto. E' uno che ha paura che prima o poi lo fanno fuori. E se lo pensa ci sar un motivo!" Strano, riflett Paolo, proprio quello che penso io di me! Cambi discorso: "E di sua moglie che dici? Insopportabile!" "Non la sono stata a sentire per niente!" Conoscendolo meglio, Paolo scopr con una certa delusione che le vere qualit di Roberto N. erano: essere informato come pochi sulla politica internazionale e avere una memoria da elefante; saper scrivere bene, in modo ordinato, ma sciatto; avere avuto in dote un'invidiabile rapidit nel formulare il giudizio che l'interlocutore di turno si aspettava di ascoltare: una specie di oracolo del sentire comune, piuttosto tempestivo, per. Utile. Un'agenzia di stampa vivente della pubblica opinione. Politicamente si diceva fosse agnostico, ma con appannate simpatie per la destra. Per il centro-destra, qualcosa di non troppo spinto. La sua delusione era forse da attribuirsi ai recenti orientamenti della Democrazia Cristiana verso una possibile apertura ai socialisti. "Sarebbe una bella fregatura per molti" si sentiva dire nei corridoi in quel periodo. Tuttavia la frase di Roberto "il vento cambia sembrava che andava in una direzione e invece" non gli sembrava sincera. E se non lo era, voleva dire che Roberto era un opportunista, oppure uno che sapeva prendersi gioco degli altri con quella sublime strafottenza di chi favorito da un sorriso cos tranquillizzante e contagioso? E se cos fosse stato, quali erano le sue vere idee politiche? Un opportunista non ha idee politiche, pens Paolo, un ingannatore s. Poteva essere perfino comunista. No, questo proprio non era possibile. Roberto N. era un raffinato aristocratico intelligente, ingenuo e forse pigro. Cosa poteva avere in comune con Filippo, l'usciere? Ma non gli avevano spiegato che i comunisti sono dappertutto, si nascondono, si mascherano? Paolo constat che ne sapeva ancora troppo poco dei comunisti. Doveva assolutamente cominciare a frequentarne qualcuno, per capire com'erano fatti. Roberto comunista? Veniva da ridere solo a pensarci. Cominci a redigere un rapporto preliminare, piuttosto benevolo, ma severo nei confronti della moglie. Valut "estremamente fondate" le voci secondo cui sarebbe stata favorita nell'assunzione da una raccomandazione di un certo onorevole, conosciuto dal marito per ragioni di lavoro. Paolo arriv cos all'appuntamento con il maresciallo alla Stazione, binario 5, alle cinque: il maresciallo aveva sempre paura di confondersi, quindi cercava di mettere meno numeri possibili negli appuntamenti: Corso Genova 18 alle diciotto, Viale Duilio alle due, via S. Pietro all'Orto alle otto, e cos via. Il maresciallo gli stava simpatico. Dopo i soliti cifrati convenevoli ("Com' l il tempo?" "Buono, non piove" "Comunque ricordati l'impermeabile" eccetera, andavano avanti cos per diversi

minuti finch non erano pi che sicuri che "l'aria fosse pulita") il maresciallo lo prese sottobraccio. Paolo si scus per lo scarso risultato, ma con la promessa di fargli avere qualcosa di "importante" quanto prima. Il maresciallo non si preoccup pi di tanto, e come al solito elogi la sua intraprendenza e il suo attaccamento alla causa. Paolo gli confid le sue recenti difficolt: "Sa, maresciallo, ho qualche problema." "Dimmi." "A riconoscerli i comunisti." Il maresciallo sorrise fissandolo negli occhi. "Te l'avevo detto. Brutta razza." "Ci deve essere un sistema!" "Parlarci, frequentarli" "Una parola!" Il maresciallo continuava a sorridere visibilmente soddisfatto. Quindi se ne usc con una domanda: "Paolo, ti andrebbe di esporti un pochettino?" Paolo cominci a sudare; cap che stava per succedere qualcosa di importante. "Certo!" "Si pensava di farti fare qualcosina di pi. Retribuita, s'intende." "Non c' problema." "Si vorrebbe che. Lo sai che non te lo dovrei dire?" "Non mi lasci sulle spine!" "Vorrebbero infiltrarti." "Va bene." Paolo avrebbe detto di s a qualunque cosa. Non pensava a quello che significava, ma alla stima che avevano per lui. "Conoscerai qualcuno pi importante di me, che ti dir di che si tratta." "Infiltrarmi dove?" "Nelle fila del nemico!" "Mi spieghi meglio." "Fra i comunisti! Ho paura che non sar una cosa facile." Quando il maresciallo se ne fu andato Paolo gi aveva rimosso la loro conversazione. Per non dover avere paura delle conseguenze delle decisioni che avrebbe dovuto prendere, semplicemente le cancellava. Gli bastavano pochi minuti. Cominci a guardare i treni. Gli venne voglia di viaggiare, e sal su una carrozza a caso. Dopo qualche minuto part. Scese a Novara, ma si sent stanco e insoddisfatto. Si guard un po' in giro.Sentiva di essere in un'altra citt, ma non riusciva a distinguere che genere di sensazioni questo gli provocasse. Era buio, c'era poca gente, e molto pi silenzio che a Milano. Stava calando la nebbia. Non capiva cos'era: stava male. Era come se avesse voluto essere l da sempre, voleva essere una di queste facce che incontrava. Era orribile. Come se per il solo fatto di non esserci mai stato, questo posto fosse migliore, avesse una certa caratteristica sconosciuta che la sua citt non avrebbe mai potuto avere, ma che a lui, anche se avesse deciso di andarci a stare, non sarebbe mai stato concesso di sentirla una cosa sua. In fondo, riflett, la stessa sensazione ce l'aveva sempre avuta anche a Milano. Si ricord con precisione quando fu che la prov per la prima volta: subito, ancora sul treno che attraversava lentamente la periferia. Sentiva il rumore delle ruote sui binari, e lui sapeva che quel rumore aveva senso solo ad ascoltarlo da fuori, dal marciapiede di una di quelle strade poco illuminate, o dal sellino di una delle biciclette in attesa al passaggio a livello. Come se ogni bene, ogni felicit si possa solo intuire tra i fantasmi di una periferia intravista da un treno in corsa. capitolo tredici

Ogni uomo, pensava Luisa, ha il diritto di nascondere dentro di s un segreto che non pu dividere con nessuno; se sposato, nemmeno con la propria moglie. Si tratta in genere di segreti innocenti, come voler coltivare un giardino, l'amore per la propria madre, l'appartenenza a un partito politico, la passione per una squadra di calcio, per un'attrice prosperosa, oppure la nostalgia di una speranza che non si mai realizzata. Qualche volta questo segreto pu irrigidire lo sguardo, pu sciogliere debolezze inconfessate, allontanare. Nessun uomo onesto per pu segretamente dividere l'amore per la sua famiglia con quello per un'altra donna. E Antonio era un uomo onesto. Quello di Antonio per Anna non era amore, ma il ritorno a una tristezza non rimarginata. Non una crepa, ma un'ombra, un suono, un sogno. Non si pu essere gelosi di un sogno, nemmeno averne paura. Il rispetto della libert del proprio uomo qualcosa che fa star bene, pensava Luisa, qualcosa che riempie di orgoglio e aumenta l'amore e la stima. Lei spesso immaginava Antonio da solo: in uno dei suoi viaggi, o semplicemente sul posto di lavoro. Le piaceva pensare alla solitudine di suo marito: lo faceva vivo, autentico, degno di considerazione. Non poteva essere lei a riempire quella solitudine. Nessuno poteva. Ne doveva rimanere estranea e aspettare. Luisa era davvero determinata a credere in tutto questo. Non solo perch viveva nella comoda certezza che Antonio non l'avrebbe mai messa alla prova. Non era abituata a concedere nessuna opportunit alle paure incontrollabili, e non se ne era mai pentita. Ora per si trovava costretta a fare i conti con una realt nuova: aggressiva come un incendio, sorprendente come una rivoluzione ritenuta impossibile. Non che ne fosse stata colpita irreversibilmente. Poteva ancora salvarsi. Sebbene radicalmente mutata rispetto a pochi giorni prima, la situazione era ancora sotto il suo controllo e ne avrebbe saputo cogliere gli aspetti che, osservati nella loro giusta prospettiva, senza allarmismi, le avrebbero concesso di sfruttarla a proprio vantaggio. Ai suoi ragazzi, a scuola, aveva spiegato che nella storia, in occasione dei grandi cambiamenti, la nuova classe dirigente quasi sempre quella che, pur essendo parte del vecchio regime, era riuscita a non esservi completamente coinvolta, o a farlo credere, godendo di tutti i vantaggi, compresi quelli derivanti dalla sua caduta. Era esattamente cos che si sentiva. Ne sorrise, mentre ne prendeva nota sul suo quaderno. La lunga storia di Paolo era stata una valanga che al termine di un lunghissimo tragitto l'aveva miracolosamente solo sfiorata, fermandosi di colpo mentre stava per distruggerle la casa. Fortunatamente con il passare dei giorni la vita quotidiana sopravanzava discreta e implacabile quella specie di fiume carsico che era la vita passata di Antonio, riducendola alle proporzioni in apparenza inoffensive di un peccato lontano, di un rimorso fastidioso ma evanescente. C'era la casa da mandare avanti, e il lavoro a scuola, gli esami che si avvicinavano. E c'erano i bambini da curare: tuttavia niente era come prima. Si sentiva chiamata ad un compito nuovo e pi gravoso poich, per essere a posto con la propria coscienza, non era pi sufficiente tenere la casa in ordine, lavorare diligentemente e con imparzialit in classe, custodire i figli dalle cattiverie del mondo: il male era stato capace di penetrare come un soffio gelido nella loro casa e restarvi. Non era tanto il comportamento di Antonio a corrodere l'ordine e la serenit della loro famiglia, non il suo silenzio, del resto giustificabile. La vera responsabile era lei: il male era il suo bisogno di non fargli domande, di non pretendere alcuna spiegazione; la sua omert, paradossale e contraddittoria che, forse motivata dall'amore (come sosteneva lei) o dalla paura di perderlo, la faceva sentire solidale al suo segreto, e quindi complice. Il racconto di Paolo aveva anche acceso in Luisa la curiosit di conoscere meglio Anna. Non aveva rivincite da prendersi, e non aveva paura di capire quello che Paolo non era riuscito a spiegarle, e cio cosa ci fosse di davvero speciale in Anna da giustificare quella segreta devozione. Una donna non mai cos ingenua da credere che la bellezza sia sufficiente. Senza contare per che

una donna non mai in grado di capire quanto sia davvero bella un'altra donna, una rivale specialmente. Luisa sentiva che, anche a distanza di tanto tempo, ci doveva essere qualcosa che solo Anna era in grado di spiegare. Da quando Paolo e Anna erano venuti a Roma, e ormai erano passati circa tre mesi, non avevano avuto ancora occasione di vedersi. Il loro unico incontro si era svolto ormai quattro anni prima, a Palermo, dove avevano trascorso il Natale. Non era venuta n al matrimonio n al battesimo dei gemelli. Luisa non era nemmeno sicura se, rivedendola, l'avrebbe riconosciuta, nemmeno tenendo fra le mani l'unica fotografia che c'era di lei, scattata da Antonio con la Rollei di servizio la sera di capodanno del 1961. Le era rimasta impressa per la voce, la sua voce scura che faceva innamorare. Gli stessi bambini, che riversavano sull'occasione di conoscerla un'aspettativa che, misurata sull'affetto che provavano per lo zio Paolo, si dilatava in un gioco che li faceva sentire importanti, le domandavano spesso quando sarebbero potuti andare a casa loro, oppure quando loro sarebbero venuti a trovarli, e infine perch non potessero andare in vacanza insieme, una volta. Paolo e Anna avevano preso un appartamento in affitto ai Parioli, in via Micheli. Era una strada lunga e sottile come tutte le strade del quartiere, d'altra parte, sterili e silenziosi spazi vuoti che separano palazzine grigie cresciute per reciproca imitazione, modeste come donne di mezza et che per paura degli uomini o del fisco si fingono senza troppe risorse. A Luisa i Parioli non piacevano affatto. Da Viale Marconi poi era un viaggio che non aveva niente di eccitante. Luisa non disse ai bambini dov'era che esattamente stessero andando, li prese come due piccole valigie, e tirando la loro svogliatezza con le sue mani energiche, li fece salire sull'autobus e cos attraversarono la fissit umida che sapeva di cloro di quella mattina di luglio. Non disse niente perch non aveva alcuna intenzione di parlare con Anna: le bastava vederla, anche solo per pochi istanti, da lontano, senza farsi riconoscere. Eventualmente seguirla, capire qualcosa di lei dai suoi movimenti, dal modo di vestirsi. Il cielo s'era nel frattempo momentaneamente velato, con uno strato di nubi sottile che soffocava. I bambini erano irrequieti come animali che fiutano i cambiamenti del tempo. Quando furono infine sotto il portone di casa di Paolo, Luisa li tranquillizz con la promessa di un ghiacciolo, che non pot tuttavia mantenere perch nella strada non c'erano bar, n negozi di nessun genere. Le loro lamentele per fortuna non durarono a lungo, perch dal portone usc subito Anna, che loro riconobbero dalla fotografia, e tacquero incantati e intimiditi, non appena la mamma le si avvicin con una decisione che ormai li escludeva categoricamente dal mondo dei grandi. "Anna?" Luisa affrett il passo, lasciando i gemelli dietro di s. Anna si volt sorridendo. Indossava una canottiera a righe sottili bianche e rosse, e un paio di pantaloni stretti al polpaccio, bianchi, e sandali che mostravano impietosi le crepe dello smalto rosso sulle unghie dei piedi. Aveva i capelli raccolti in uno chignon e portava un paio di occhiali scuri che non lev mai, ma fu sufficiente che si mettesse una volta di traverso perch Luisa potesse scorgere, sotto l'occhio destro, un livido scuro, lucido come una prugna, e perfettamente composto. Teneva il borsellino in una mano e una sigaretta nell'altra. Non mostr alcuno stupore, Luisa invece era stordita. Anna ci tenne subito a scusarsi per il suo aspetto. La sua voce roca contrastava con il suo sorriso sbilanciato, come un cielo confuso di nuvole e sole. "Sono scesa giusto un secondo. Ho lasciato la donna apuliziare , tutto sottosopra, non ti dico di entrare" quindi deposit un'occhiata morbida, pi in sintonia con il timbro della voce che con il sorriso, sui bambini, e disse semplicemente: "Ah, i bambini", per tornare subito a ci che le stava pi a cuore: "Mi devi scusare per come sono conciata Stavo andando giusto a fare un po' di spesa."

Luisa non sapeva che cosa dirle, non era preparata, nemmeno ad ascoltarla. "Passavamo qui vicino Sai, i bambini mi chiedono sempre" I bambini avevano il sole negli occhi. "Non vi dico di salire" "Ci mancherebbe. Un'altra volta." "Telefonami, prima, magari" "Non volevamo disturbare. Su, salutate la zia Anna." I bambini restarono nel loro silenzio. "Non mi volete salutare? Anche loro un'altra volta", li giustific Anna, e poi aspir dalla sigaretta. Nessuna delle due aveva il coraggio di muovere il primo passo per andarsene, perci rimasero l qualche secondo. Luisa ora acquistava naturalezza, mentre Anna si nascose di nuovo dietro il fumo che faceva uscire dalla bocca e dal naso, tradendo un imbarazzo nascente. Disse: "Se mi vedeva Paolo! Cos combinata Ti pare che sono indecente?" Luisa abbozz un sorriso. "Appunto. Quello Paolo. Tu non lo conosci." Anna si perse con lo sguardo tra i balconi senza fiori, che si affacciavano muti, senza interesse sulla strada senza alberi. I bambini non capivano: come "non lo conosci"? Loro lo zio Paolo lo conoscevano, eccome. Luisa sentiva di avere sempre di pi la situazione in pugno. Anna la stava deludendo. Tutto qui?', pensava. Ma non os pronunciare il nome di Antonio, non poteva farlo ancora, non davanti ai bambini. "Un'altra volta ci facciamo una chiacchierata", disse perci Luisa, sicura ed eccitata, contenta per il poco sforzo che aveva dovuto fare per ottenere questo buon risultato. La sicurezza spavalda con cui Anna si era voltata, appena due minuti prima, uscendo dal portone, era un ricordo sbiadito. Era come se l'avanzata invisibile ma implacabile della propria colpa le avesse tolto a poco a poco la terra sotto i piedi. Gett lontano la cicca della sigaretta, con un gesto che aveva copiato da Antonio: era entrata in un vicolo cieco, nel quale si prova a far male all'altro solo per accelerare la propria fine. Prov contemporaneamente un senso di disgusto acido verso l'intera famiglia Ribera, e verso se stessa, che si era andata a cacciare in quel guaio ridicolo. C'era tutto un mondo dietro, accanto, sotto Paolo e Antonio Ribera. Possibile che tutta la sua smisurata libert si concludesse negli spazi ottusi di quei due uomini insignificanti e presuntuosi? Possibile che entrambi potessero arrogarsi il diritto di tenersi in tasca la sua vita e lei non sapesse scegliersi la possibilit, almeno, di una scelta pi ampia? Possibile, pens, che il destino di una donna sia cos poca cosa? Solo farsi del male, rinchiudersi in una paura. Antonio e Paolo: come se con loro due avesse sperimentato tutto l'amore disponibile, la sua curiosit, messo in gioco la sua leggerezza, spento il radar che, quando si giovani, percepisce le presenze del mondo sconosciuto. Si sentiva in una giornata troppo corta, nel niente di una consuetudine non desiderata. Antonio, poi, era un fantasma. Ora cosa voleva da lei sua moglie? Insipida, piena di cautele, una che non s' ferita mai, e che nemmeno sa graffiare, con le unghie arrotondate senza smalto e i capelli lisci, e questo vestito a righe verticali. Cosa vuole da me? Antonio un ricordo, e io per lui sono niente, una mollica, una canzone cretina. Non doveva farsi vivo dopo tanto tempo. E' un imbecille: questo lo sappiamo benissimo tutti e tre. Aveva voglia di spogliarsi, per liberarsi di tutto, aspettando docilmente il corpo di chiunque altro. In silenzio, per sempre. Ne aveva abbastanza delle spiegazioni di un uomo. Per il gelato Luisa e i gemelli dovettero arrivare a piazza Euclide. Era di buon umore Luisa, e fece ridere i bambini facendo le voci strane. Ritornarono quindi lentamente sui loro passi, passando di nuovo davanti la palazzina di Paolo e Anna. Luisa lanci un'occhiata apparentemente distratta. Non sapeva quale fosse il loro appartamento. Ma proprio in quel momento Anna apparve incorniciata dalla finestra del pian terreno, con le braccia inerti lungo i fianchi come due lacrime che Luisa,

comunque, ormai lontana, non avrebbe potuto vedere. capitolo quattordici

Paolo scese le scalette della Sezione Antonio Gramsci in un pomeriggio pieno di vento della fine di gennaio del 1959, illuminato di traverso da un sole prezioso. I locali erano quelli di un vecchio scantinato dal soffitto a volte basse, e umido. La prima sala che incontr era quella delle riunioni, vuota. Sapeva di fumo. Le sedie in disordine raccontavano di un dibattito recente. Sulla parete in fondo c'era un piccolo pulpito avvolto in una bandiera rossa, cos vicino alla platea da risultare pleonastico. Super un corridoio stretto, dove, fra un ritratto di Lenin e uno di Gramsci, un'ingombrante macchina per i ciclostilati in attesa di una riparazione impediva il passaggio. Da una porta si affacci un giovane sporco di grasso nelle mani e in faccia; si tir su i capelli con il braccio interrogando Paolo con lo sguardo, che tir diritto, scavalcando come poteva l'ingombro, perch sapeva dove andare. Buss alla porta sul fondo del corridoio, appena socchiusa. Gli venne incontro una donna robusta, dai brutti capelli stoppacciosi, con la pancia prominente di diverse gravidanze sottolineata da una gonna marrone, stretta in vita. Gli disse: "Cerchi qualcuno?" Lo squadr dalla testa ai piedi. "Sono un giornalista. Lavoro alla televisione" La donna fece un passo indietro e mise le mani avanti. Paolo sorrise: "Non sono qui per un'intervista. Voglio iscrivermi." La donna non sapeva che dire. "Ah, beh Devi parlare con il segretario, ora non c'." Paolo se lo immaginava. Gli era stato detto che avrebbe dovuto sostenere un colloquio. S'era preparato a dovere. Sapeva tutto su Gramsci, Lenin, Stalin, Togliatti, la guerra di Spagna, la Resistenza, il proletariato, l'imperialismo. Era motivato a dare il suo contributo per il riscatto della classe operaia a qualunque prezzo. Sapeva che non poteva sbagliare: era la sua grande occasione. La donna si affacci sul corridoio, rivolgendosi a bassa voce al ragazzo con la faccia sporca: "L'hai mica visto il Davide?" "No." "Deve aspettare." La donna scomparve per ricomparire altre due o tre volte, sempre indagandolo con uno sguardo allenato ad essere sospettoso. Qualche minuto dopo entr un'altra donna, pi giovane, con il naso lungo e il sorriso sbieco. Nei suoi grandi occhi luminosi risplendeva la sua verit rivelata. Era allegra, ottimista, distribuiva fiducia come un capitano d'impresa. Si rivolse alla compagna orientando il capo verso di lei. Quella disse: "Aspetta il Davide. E' un giornalista, non so mica." La donna giovane lo guard senza smettere mai di sorridere, ma recitando una delusione. "Ah, giornalista Beh, va bene, no? Va bene lo stesso!" Cercava di coinvolgere quella pi vecchia. Paolo sent di condividerne lo spirito: "Non mangio mica!" La donna giovane smise di sorridere: la battuta le era parsa stupida. "Perch ti vuoi iscrivere al Partito? perch tu ti vuoi iscrivere, ho capito bene?" Sorridere era pi forte di lei: ci ricasc. Paolo alz le spalle. Aveva pronto un discorso serio, articolato, che in quel momento sarebbe stato fuori luogo. Disse: "Perch non mi ci sono ancora iscritto!" "Giusto!" Segu un confuso silenzio. Paolo si fece cupo e aggiunse: "Ho paura di una svolta autoritaria." La donna non lo prese sul serio: "Hai paura! Ti dobbiamo far conoscere, com' che si chiama? Alessandro eh Teresa? Anche lui ha paura della svolta

autoritaria!" Paolo non capiva che cosa c'era che non andava in quello che aveva detto. Si gratt dietro la testa. La donna grassa, Teresa, annu, incrociando le braccia: "Sandro. Non viene mai." Paolo insistette, a rischio di svelare tutta la sua inadeguatezza: si sentiva come la prima volta che entr in un bordello. "Ha sentito quello che ha detto Scelba? "Nei partiti marxisti non pu avvenire altro cambiamento se non quello fittizio e strumentale al perseguimento dell'obiettivo della presa del potere". I socialdemocratici secondo me hanno fatto male a mollare la maggioranza." "Hanno fatto male?" "Non hanno fatto male?" "Cos ora ci sar una svolta autoritaria!" "E' quello che sto dicendo", prese coraggio Paolo. La donna giovane disse: "E per noi che cosa cambia? Tutti uguali voi borghesi." Paolo la studi aggrottando le sopracciglia. Quella si protese verso di lui toccandolo su un braccio: "T'ho mica offeso? Stavo scherzando! Sul serio! Oddio Ma il Davide?" Anche lei tent con il ragazzo sporco: "E' mica passato il Davide?" Quello le rispose, con una pazienza che stup Paolo, che non lo aveva visto passare. Poi rimase qualche secondo a fissarla, con un rancore profondissimo, ma Paolo non si volle impicciare e distolse lo sguardo. Si accese una sigaretta. La donna grassa senza dire niente allung la mano: Paolo la fiss negli occhi, con disprezzo. Lasci che si servisse da sola. Visto che del Davide non c'era traccia si accommiat con discrezione dalle due donne e fece due passi nel corridoio. Sent Teresa dire all'altra: "Ma cos' che vuole quello l?" Ritorn sui suoi passi, le ritrov nelle stesse posizioni in cui l'aveva lasciate. Disse a quella giovane: "Non le ho chiesto come si chiama." "Mi dai del lei? Fausta." Lo disse senza pi nessuna enfasi. A lui dispiacque. "Io Paolo Ribera." Si strinsero la mano. Era una mano piccola, ma forte. Paolo avrebbe desiderato prolungare ancora quella conversazione, perch non vedeva occhi cos da un secolo. Il ragazzo sporco li stava guardando. Convincerlo non era stato cos facile come l'iniziale entusiasmo poteva lasciare supporre. Ci vollero diversi incontri con interlocutori di grado sempre crescente. "Hai paura?" gli domandavano tutti, e lui cosa poteva rispondere? no, figuriamoci, paura. "Allora cosa? Pensi di non essere all'altezza?" "Non questo, vi ho gi dato prova, mi pare." "E allora cosa?" L'appuntamento era per il primo pomeriggio di fronte al Cenacolo di Santa Maria delle Grazie. Paolo lo riconobbe subito: solo le spie se ne stanno a leggere il giornale in piedi all'angolo di una strada alle tre del pomeriggio. Il maresciallo lo aveva messo in guardia: "Sta' attento: questo qui non come noialtri. Lo vedi oggi e non lo vedrai pi". Il cielo era grigio e l'aria calma. L'uomo indossava un bel cappotto nero, e si copriva il capo con un colbacco alla russa. Aveva un bel paio di baffi color argento, ben curati, con le punte all'ins. "Paura?" L'uomo, l'ultimo di questa staffetta paziente e logorante, gli fece le solite domande, per con l'aria grave e comprensiva di chi ha l'autorit per poter ignorare di essere ripetitivo, e sa di avere in mano la carta che servir finalmente a infrangere quella non motivata ostinazione. Passeggiarono radente il muro di via Caradosso, alle spalle della chiesa, come due ombre. Dopo la consueta scarica di domande e di altrettanto consuete risposte, Paolo gli fece la domanda che per discrezione non aveva mai fatto nei precedenti colloqui: "Ci saranno ripercussioni sul mio lavoro?" "Allora era questo?" L'uomo con il colbacco si apr in un sorriso paterno. Paolo not i suoi denti lunghi e brillanti. "Potevi dircelo prima." "Sa com'" "Ti dovevi fidare" "Voi forse non conoscete bene il clima l dentro, quello che si pensa dei comunisti Io ho una carriera davanti appena cominciata " Si apr un piccolo portone. Entrarono nel chiostro e qui, sotto il portico, iniziarono a camminare, apparentemente silenziosi, imitando i due domenicani in

preghiera che nella direzione opposta percorrevano con passo spedito il loro stesso tragitto circolare. "Vedo che tu parli di carriera Non sar io a deludere le tue legittime aspettative. Ma" (qui l'uomo sistem con perizia di artificiere una lunga pausa, per proseguire con un filo di voce) "Tu hai preso un impegno con qualcosa che molto, molto pi importante della tua carriera: la tua patria." Dissepatria come il maresciallo aveva dettoItalia in occasione del loro primo incontro: come certi preti dicevano "Dio", senza amore. "Cosa conta di pi, Ribera, la tua carriera personale, o l'orgoglio per aver servito lealmente, con scrupolo, abnegazione, affrontando le dovute rinunce cosa conta di pi agli occhi della nazione, se non a quelli, un po' appannati della tua coscienza?" Paolo cadde nel suo caratteristico smarrimento e segu un filo di pensieri impropri. L'acqua della fontana al centro del cortile zampillava dalla bocca di quattro piccole rane di pietra. Quello continu, severo, ispirato direttamente del Signore: "Tu hai un dovere da compiere, Ribera, non puoi rinunciare adesso. Non puoi." Guard in terra, si freg le mani per il freddo. Si fermarono. Non puoi : neppure Paolo, assente e distratto avrebbe mai potuto scambiare questa espressione per un suggerimento, n per un invito accorato. Tuttavia non si sent particolarmente colpito da questo obbligo che emergeva dietro il profilo di un ricatto. In fondo lui non aveva ancora detto di no. Solo, gli sarebbe piaciuto che oltre a pretendere da lui un "salto di qualit" dimostrassero che non lo avrebbero abbandonato a se stesso. L'uomo lo guard nervoso, toccandosi le punte dei baffi. Paolo lo tranquillizz: "Per me va bene." Quello gli rispose a bassa voce: "E comunque puoi stare tranquillo. Abbi pazienza e fede." Osserv i due frati rientrare in chiesa in un fruscio. "Non possiamo esporti troppo. Ne convieni: o fai una cosa o ne fai un'altra. Per non ti preoccupare. Chi deve sapere sapr. Non te ne pentirai." Paolo si chin a terra, e raccolse una briciola di pane, per gettarla ai pesci rossi della vasca. L'uomo fece quasi per andarsene, quando si volt come gli fosse venuta alla mente all'improvviso qualcosa di importanza risolutiva. Disse: "Lo sai che secoli fa proprio qui c'era la sede dell'Inquisizione?" Paolo lo fiss senza scoprire se, per non deluderlo, doveva compiacersene o preoccuparsene. Cos quello si volt lentamente e si allontan. Paolo non gli era piaciuto. Troppo individualista e remissivo. Paolo torn a casa e si mise a suonare il piano fino a quando non gli fecero male i polsi. Si prepar con scrupolo. Cambi il suo modo di vestire, anche se questo gli dispiacque, concedendo pi spazio a maglioni e giacche di velluto, e rinunciando alla brillantina. Lesse una quantit insopportabile di libri oscuri, sfogli annate dell'Unit. In redazione la "metamorfosi", come veniva chiamata, senza che ci fosse bisogno di specificare di chi, suscit reazioni diverse, e alcune volte imprevedibili: presa di distanza netta e inequivocabile (specie da parte di alcune segretarie ispirate da coniugi con le idee molto chiare); incredulit divertita, derisione, preoccupazione, indifferenza. Rosati lo avvicin e gli disse "te l'avevo detto io" Ma l'effetto che Paolo non si sarebbe mai aspettato fu quello di far venire alla luce, timidamente prima, poi con sempre maggiore sfrontatezza, coloro che, fino ad allora, avevano preferito tenere nascosta la loro fede. Anche questo faceva parte dei suoi compiti: esca per i topi. Tre settimane furono abbastanza perch nei corridoi di Corso Sempione risuonassero le prime trappole che si serravano sulle loro vittime. Roberto N. non fu tra queste. Anzi, da allora Roberto cominci ad evitarlo, sorridendogli educatamente quando lo incrociava nei corridoi, ma sempre sottolineando, in un modo che chi non lo conosceva avrebbe giudicato indisponente, e che invece era semplice debolezza nei confronti di un ordine

superiore delle cose, il differente livello gerarchico, e ora anche l'abissale distanza delle loro posizioni politiche. Paolo smise di pensare a lui. Dal momento che ancora non esisteva un atteggiamento al quale attenersi, nel quale riconoscere il "giornalista comunista" (se non nelle aspettative marginali, e neppure quelle indispensabili, come quella di rispettare un certo modo di vestire), rispetto alla messinscena che era chiamato a recitare al partito, in redazione il suo compito era facilitato dal fatto che il copione lasciava molto pi spazio all'improvvisazione. Il giornalista comunista per sua regola evitava di proclamare ad alta voce il proprio punto di vista, in modo categorico ed approfondito. I pi coraggiosi si spingevano, tutt'al pi, a mettere in luce, nel corso delle conversazioni al bar o alla mensa, una particolare ironia disfattista nel commentare il servilismo del telegiornale e la situazione politica in generale. Paolo insomma fu una specie di pioniere che trovava davanti a s un territorio vergine. Poteva limitarsi a citare di tanto in tanto all'opinione di qualche alto dirigente del partito (mai a quelle del segretario, troppo in vista); oppure a sistemare provocatoriamente L'Unit in testa alla mazzetta di quotidiani che, come tutti, aveva l'abitudine di trasferire da una stanza all'altra senza nessuna apparente motivazione; o a dileggiare il verbo di un certo ministro o dello stesso Presidente del Consiglio. E infine trov eccitante e liberatorio potersi riferire ad Anna per quello che realmente era: parlando di lei cominci a dire, come aveva orecchiato in sezione, "la mia compagna". Gli piacque suscitare negli interlocutori una curiosit che, in coloro che avevano conosciuto e ammirato Anna nella sua perfetta osservanza delle regole della buona societ, metteva in luce, tradito da una fulminea divagazione dello sguardo, il cedimento morboso a una tentazione, che il contrasto fra l'ostentazione della convivenza peccaminosa e quella dignit quasi aristocratica, suggeriva essere a portata di mano. (Anna osservava incredula il suo cambiamento, ma non gli fece mai alcuna domanda. Aveva smesso da tempo di pretendere di condividere con lui qualunque complicit, senza sentirne la mancanza. Se il ruolo di Paolo era stato, in definitiva, di esaltare la sua indipendenza, a lei stava bene cos, e gliene era grata. Era la sola cosa di cui fosse fiera: la sua decisione incosciente di lasciare Palermo, come si lascia indispettiti, orgogliosi e sicuri del fatto proprio, un albergo dove si stati trattati male. A ripensarci, anche a distanza di tempo, era sicura di non essersi mai sentita meglio: quella determinazione esprimeva fino in fondo se stessa, era quella che le permetteva di realizzare il progetto esistenziale inciso nel codice genetico a compimento della propria unicit. Tutto quello che c'era stato dopo continuava ad essere saldamente legato a quella sera calda e umida di novembre. Ne era la propaggine, pi che la conseguenza: come quel promontorio collegato alla terraferma da un istmo sottile, che l'inganno dell'alta marea fa scambiare per un'isola lontana. Non le dispiaceva pi che Paolo si disinteressasse alla sua felicit, perch chiunque avesse provato a farlo, l'aveva solo ferita. Questa era la vita che si aspettava? Forse no, ma che importanza aveva? Non le succedeva mai di guardarsi indietro e fare confronti con le proprie aspettative. Non sarebbe stato da lei. Non aveva mai posseduto album di fotografie, n aveva mai conservato fiori secchi fra le pagine dei vocabolari. Il passato e il futuro ai suoi occhi avevano lo stesso spento colore del vuoto. La domanda che pi la innervosiva, da ragazzina, era: "cosa vuoi fare da grande?" perch era chiudere una porta alle spalle, favorire la suddivisione del tempo in capitoli, considerare l'avvenire. "Niente", avrebbe voluto dire, nel senso: "niente di quello che avete in testa voi", cio sposarsi con un giovane di buona famiglia in grado, un giorno, di ereditare il negozio e prosperare negli affari. Paolo aveva significato fuggire da questa prospettiva. Era il volto che riempiva il suo "niente". Un "niente" con due occhi, un naso e una bocca: questo solo. Ma a lei bastava. La cosa pi straordinaria era come Paolo avesse da subito indovinato la natura di questa sua unica ambizione limitandosi a soddisfarla,

senza aggiungere mai, alla sua offerta d'amore, nulla di suo. Solamente con Antonio aveva tentato di colorare quel vuoto: ma avrebbe potuto funzionare? Certo, lui era buono, generoso e caldo come una coperta. Ma che lui avrebbe potuto essere solo l'illusione di una via d'uscita le fu chiaro immediatamente: era stato un tentativo fatto con il solo scopo di farsi del male picchiando le nocche della mano contro una parete fino a farle sanguinare, un'innocua ribellione all'autorit del proprio destino, tanto per saggiare i limiti del disprezzo verso se stessa. Con lui, o senza di lui, tutto rimaneva uguale. Paolo era diventato l'ultimo dei suoi pensieri. Da quando aveva ottenuto la doppia firma sul conto corrente era diventata assidua di piccoli antiquari e di boutique riservate, ai primi piani dei palazzi delle vie pi esclusive del centro della citt. La sua gentile malinconia, e la sua puntualit nel regolarizzare i sospesi, le apriva crediti generosi. Aveva preso il comando del loro appartamento arredandolo a suo gusto, con mobili antichi che Paolo osservava senza riuscire a elaborare un'opinione, tanto gli erano estranei. Non riusciva pi a sentirsi a casa sua: quei divani dalla tappezzeria a fiori gialli, quella vetrinetta inglese che Anna riempiva di servizi di bicchieri dallo stelo alto che non sarebbero mai stati utilizzati I lampadari, di vetro di Murano o di cristallo, erano cos grandi da obbligarlo, ogni volta che ci doveva passare sotto, ad abbassare per precauzione la testa). Non fu per Paolo un periodo facile. La notizia della "metamorfosi" non raggiunse che molto tardi coloro che se lo avessero voluto avrebbero potuto fargliela pagare, e quindi il suo lavoro non ne risent. D'altra parte, peggio dello spoglio dei rotocalchi alla ricerca di "spunti divertenti" potevano capitargli giusto le maiuscole. In questo modo aveva tutto il tempo per starsene ore e ore immerso dentro astratti documenti politici del tutto incomprensibili, non tanto nelle analisi, quanto nelle proposte, negli indirizzi politici da affidare ai militanti. Si sentiva avvolto da una cortina di fumo cos spessa da non permettergli assolutamente di immaginarsi un operaio, o un contadino leggerli (qualora ne fossero stati capaci), e capirli. "Realizzare un'unit ideologica e politica attraverso una vivace vita democratica di base", era la sfida che attendeva milioni di comunisti italiani. Possibile che il militante comunista comprendesse e riuscisse a mettere in pratica un suggerimento come questo? Probabilmente s: si doveva trattare di un codice per iniziati, ed era solo lui a non capire. Il popolo andr al potere "sempre che vi sia qualcuno con la capacit di far venire alla luce movimenti vasti e profondi traducendoli in rivendicazioni e lotte concrete". In pratica? Erano proclami dettati da chi, non avendo alcuna dimestichezza con le difficolt della vita quotidiana, s'ingegnava a raffigurarsele e a dare loro una veste rivoluzionaria consona alla missione storica del Partito. Se si guardava attorno vedeva o gente soddisfatta di s, o esseri disgraziati ai quali n lui n il partito avrebbe mai potuto garantire alcuna possibilit di riscatto. Per qualcuno ci credeva e lui doveva fare almeno finta. "Dobbiamo trovare la via pi rapida per giungere al risultato di modificare gli indirizzi politici del paese nel senso richiesto dalla costituzione e dagli interessi del popolo." Ma quali erano gli interessi del popolo? Ma soprattutto quanto era grande il popolo in termini di voti? perch se gli interessi del popolo non si traducevano nella maggioranza dei voti come si poteva poi pretendere che il governo ne tenesse conto? Facendo la rivoluzione. No, questo era escluso. Naturalmente era costretto a tenersi per s tutti questi dubbi, convincendosi che non era lui il destinatario di quei proclami ideologici. Bastava guardare Fausta, Teresa, per capire che non era importante tanto il senso complessivo di quello che veniva detto. Non andavano pesate le singole parole, interpretate tutte le frasi; bisognava isolare le parole d'ordine distillate da quel coacervo di impenetrabili fumosit. "Interessi del popolo" lo capivano tutti e questo al popolo bastava. Con quali mezzi effettivamente gli interessi del popolo

andassero difesi non era un affare che li riguardava: "Ah, per quello c' il gruppo dirigente!" diceva Davide, quando lui osava chiedergli qualche chiarimento. Con il passare del tempo cominci a capire. Insomma, non bisognava sforzarsi di capire troppo. Bastava lasciare al gruppo dirigente la fatica di trovare un punto di equilibrio tra l'obiettivo finale (la conquista del potere da parte della classe operaia - cosa della quale non aveva senso dubitare), e il rispetto della forma democratica: questa era alta politica, compromessi, dialettica, filosofia Il popolo poteva permettersi di essere pi lapidario e inoffensivo, ostentare sicurezza e fiducia nell'avvenire. Il popolo non ha paura di dire le cose come stanno, e non ha il problema di aumentare il consenso. Il popolo ha sempre ragione. Il Partito anche. I comportamenti dei comunisti che cominci a conoscere erano cos diversi, cos lontani dalla prosa contorta che leggeva sulla stampa del Partito, che sembrava che ci fossero due partiti comunisti, o che comunque il vertice e la base si tollerassero in un rispetto reciproco delle differenti competenze che sfiorava l'indifferenza. Quei giornali ai suoi occhi erano bollettini scritti in arabo, e anche paranoici. Per tutti li andavano a leggere con apparente interesse: miracoloso. Tutti si sentivano pienamente rappresentati dal compagno segretario generale, lo stimavano e nessuno dubitava mai della possibilit di giungere un giorno alla vittoria finale. Non per questo si sentivano in obbligo di saperne riferire davvero il pensiero. Quello che contava era darsi da fare e convincere con poche, ma decisive parole d'ordine, il vicino di casa, l'amico sul posto di lavoro che il popolo deve governare, che tutto in mano alla Chiesa, che ora di finirla, a pagare sono sempre gli operai, la societ ingiusta. Stalin? Avr pure fatto qualche errore, ma era meglio prima, quando morivano di fame? Aveva insomma l'impressione che l'ossessione dei dirigenti del Partito fosse trovare un trucco qualsiasi per governare, mentre quella dei militanti quella di sostenere con passione questo progetto senza fare molto perch si realizzasse. Il loro compito si risolveva nell'essere se stessi. Agli occhi di Paolo la loro era un'attesa eccitante, commovente, piena di dolcezza e di speranza. Quegli uomini erano mani piene di calli, e innamorate. Divenne uno di loro. Non aveva scelta: quando varcava la porta della sezione Antonio Gramsci diventava il militante pi ottuso ed entusiasta. La cosa pi difficile era per doverci parlare con quegli uomini ruvidi e onesti, ombrosi e taglienti, leali, con quelle donne appassionate e combattive, dai quali venne trattato da subito, senza particolari entusiasmi, come un compagno di bevute. Erano semplici, qualcuno analfabeta, e si capiva subito che il fatto che gli uomini sono tutti uguali non lo avevano letto, n imparato da nessuna parte: per loro era una verit naturale. Paolo li ammirava, ma non quando era costretto a parlarci. Questo proprio non gli riusciva. Allora si rifugiava nella faticosa salita dei suoi privilegi, e amava sentirsene protetto. Lui, un giorno, era stato come loro: mangiava cavoli e patate, lavorava al porto o ai mercati generali. Ma questo non lo sapeva nessuno, e nessuno avrebbe mai dovuto saperlo. Frequent la sezione il minimo indispensabile a non suscitare in nessuno pericolosi sospetti. Per la stessa ragione dovette prendere almeno un paio di volte la parola nel corso degli "attivi", o delle riunioni precongressuali, ma non ne approfitt mai per esibirsi in involute analisi della situazione politica: il primo giorno gli era bastato. Impar a memoria due o tre frasi ad effetto estratte da vecchi numeri dell'Unit, o estrapolate da discorsi parlamentari di cui entrava facilmente in possesso, e per il resto si limitava a sorridere, a stringere mani, a informarsi minuziosamente sulla vita di ognuno senza farlo mai apparire. Delle volte, timidamente, avvicinava il segretario per avere chiarimenti su quegli interrogativi che non lo lasciavano tranquillo. Dal pulpito della manifestazione per il trentottesimo anniversario della fondazione del Partito aveva sentito parlare di "maggioranza di sinistra", e

tutti si erano alzati in piedi a sostenere con la loro calda approvazione la linea del gruppo dirigente. "Ma tu pensi per davvero che come dice Togliatti solo con una nuova maggioranza si pu fare un governo capace di affrontare i problemi gravi che assillano il paese?" "Perch , tu no?" gli replic Davide, sorridendo convinto. "Che scherziamo? Io pure. Lo sai che penso io? Che bisogna fare avanzare l'Italia sulla via del socialismo contro il monopolio politico clericale." Erano parole del segretario, su questo non poteva contraddirlo. "Parli bene te. Saresti molto utile in sezione se ci venissi un po' di pi." "Rispondi alla mia domanda. Non dico che non ha ragione. Dico: come si fa a fare un nuovo governo se quelli ci hanno il doppio di voti di noi? Con chi lo dobbiamo fare sto governo, con la monarchia?" "Non so di cosa parli. Il nuovo governo deve ispirarsi alle esigenze del paese." "Coi socialdemocratici? Li conosco, sai, io, quelli" "Ma lo sei stato a sentire o no? "Bisogna superare le divisioni a sinistra". E allora?" "E allora Fatti un conto: se quelli hanno il quarantadue per cento Noi stiamo al ventidue, i socialisti mi pare al quattordici, e fa? trentasei. Ci mettiamo pure i socialdemocratici e arriviamo a quaranta. I liberali no, i repubblicani forse, non si capisce mai quello che vogliono " "Caro mio, tu leggi troppi giornali borghesi. Io tutti sti numeri Tu non sei per la liberazione dei lavoratori dall'oppressione capitalista?" "S." "Non pensi che ora di sconfiggere i privilegi della grande borghesia industriale e agraria?" "S." "E allora di che ti stai a preoccupare? C' solo una forza che pu candidarsi oggi alla guida di questo paese: quella della classe operaia e delle masse lavoratrici." Riemp pagine e pagine di rapporti informativi che redigeva con affetto, senza cattiveria. Ne risultarono pi ritratti letterari che schede buone per gli archivi del servizio segreto militare. Ci perse la salute a lavorarci sopra, sigarette e vino a volont. Era soddisfatto. Riceveva ogni mese una busta con soldi contanti: quasi quanto lo stipendio da giornalista. Con quelli ci andava all'ippodromo, che aveva ripreso a frequentare perch era un buon posto dove incontrarsi con il maresciallo e consegnare la merce. Sperava di perderli tutti, ma la fortuna era alterna come al solito e non si curava da dove provenissero i soldi che ci si investiva. Fece qualche tentativo di invitare Fausta a mangiare fuori, ma ci fu la crisi di governo e quella aveva sempre qualcosa da fare (attaccare manifesti, presidiare gli ingressi all'Alfa di Arese, o a Sesto San Giovanni, dove lavorava come operaia in un piccolo stabilimento tessile), e non ci riusc mai. Fausta d'estate indossava vestitini corti (non per malizia ma perch ereditati da una sorella pi grande) che mostravano le gambe magre e nervose. Era tutta magra, con i capelli lisci. Su di lei non scrisse mai una riga. In redazione la schedatura dei colleghi pi o meno sovversivi era quasi terminata, non erano molti, e nessuno tra quelli che all'inizio lui aveva classificato tali: n quello che portava le pedule d'inverno e i sandali d'estate, n quello che si era fatto crescere la barba, e meno che mai quello che possedeva tre appartamenti nel centro di Milano e che aveva avuto voglia di votare socialista per qualche sua ragione, e che invece lasci il telegiornale per entrare nell'ufficio stampa dell'arcivescovado. In breve la sua attivit all'interno della redazione fu giudicata incompatibile con quella, pi redditizia, del "controllo territoriale", che voleva dire pedinamenti, raccolta di confidenze, travestimenti: si era troppo esposto. And al contatto con un superiore della Struttura all'ippodromo, dove gioc e perse una cifra che quello giudic severamente. "Il tempo cambiato", gli disse quello. "Come mi debbo vestire?" Ogni volta che era costretto a recitare la parte

dell'agente segreto Paolo si sentiva sommergere dalla malinconia. Il suo sguardo vagava alla ricerca della faccia di un bambino, o di una bella signora allegra. "Pi pesante." "E se si mette a piovere?" "Non piover. Dov' che vai non piove." Paolo guard in faccia il suo interlocutore, che lo precedette: "Perdi sempre tanti quattrini?" "No, spesso vinco. Perdere per mi piace. Vi mander una cartolina." "S, ma prima ti arriver un invito." "Naturalmente." "Auguri." Insomma doveva cambiare aria. "Non piover" voleva dire che dove gli avrebbero detto di andare non c'era pericolo di essere riconosciuto. Tanto meglio, pens, ma se ne dovette pentire. Cominci infatti a lavorare su soggetti che suscitavano il suo entusiasmo quanto un piatto di patate bollite. Impiegati del Comune o della Regione, funzionari di banca. Era sufficiente che qualcuno li avesse segnalati all'attenzione della Struttura, generalmente per mancanze di cos poco conto che puzzavano da un chilometro di vendetta personale. Per operazioni pi complesse fu messo in contatto con altri agenti (come il caso di due fratelli gemelli che lui e un altro si palleggiarono per settimane senza riuscire a venire a capo di nulla, mescolando gli orari, le mogli, le amanti dell'uno con quelli dell'altro). Conoscere le persone che come lui si trovavano implicate in questa attivit fu ancora pi deprimente: erano commercianti che ce l'avevano col fisco, ex militari che avevano perso un congiunto in Russia, ragionieri con l'hobby della collezione di modellini delle armi, prsidi con un passato a Sal. Lui era sicuramente il meno motivato, ma proprio per questo tra quei dilettanti del crimine aveva la sensazione di essere l'unico professionista. Comunque stava simpatico a tutti, perch quando si incontravano faceva il numero della bandiera, aggrappandosi a un palo della luce alzando i piedi in orizzontale, oppure perch sapeva sempre delle storielle piccanti su questo o quel ministro, orecchiate in redazione. Trov molto pi divertente l'incarico successivo, quello di scrivere false lettere di indignazione ai giornali su argomenti a sua scelta, nelle quali risultasse chiaro l'attaccamento del cittadino ai valori dell'ordine e della tradizione magnificamente incarnati dal governo. Ne scrisse a decine contro scioperi, pellicole cinematografiche o trasmissioni televisive troppo poco osservanti del comune senso del pudore, o per stigmatizzare la pericolosa diffusione di tutti i nuovi conturbanti balli o delle mode musicali che provenivano dagli Stati Uniti; o ancora dava sfogo alla fantasia, raccontando di episodi di vita vissuta in cui venivano esaltati momenti di eroismo di oscuri quanto valorosi esponenti delle forze dell'ordine. Leggerle sui pi importanti quotidiani della nazione era un motivo di soddisfazione che oltrepassava qualunque irraggiungibile gratificazione professionale, visto che per molti anni quelle lettere anonime, o firmate coi nomi pi stravaganti, furono le uniche occasioni di vedere pubblicato qualcosa scritto da lui. Non ricevette mai alcun complimento. Per forza: erano cosautentiche che era impossibile distinguerle da quelle vere. Purtroppo anche questo servizio non dur molto. Una sera incontr Roberto N. ad una festa di beneficenza organizzata dalla moglie del console americano, alla quale Roberto era stato invitato; per Paolo qualcuno si era mobilitato perch lo fosse. Il collega non cerc neanche di dissimulare la sua sorpresa nel vederlo l. Gli si fece incontro e lo salut piegando da un lato la testa, facendo ondeggiare i suoi morbidi capelli biondi. "Non pensavo di trovarti qui." "Mi dispiace deluderti!" "Evidentemente mi devo essere sbagliato sul tuo conto, o mi hanno male informato. Fumi?" Paolo aveva in mano un sigaro acceso. Glielo mostr. Roberto N. gli domand se c'era anche Anna, Paolo gli disse di s e in quel

momento Roberto la not fra altri invitati; era impossibile non accorgersi di lei: era la luna che sorge dietro una collina in una sera d'estate. Roberto si accomiat da Paolo quasi inchinandosi e and diritto a salutare Anna, in un modo cos plateale, sottraendola ad una conversazione avviata, che lasci Paolo sbalordito. Anna presto lo raggiunse. "Hai visto Roberto?" "Ho visto il modo in cui ti ha salutato." "Io al tuo posto sarei geloso." "Che cosa ti ha detto?" "Niente di particolare. Sembra che noi siamo le ultime due persone sulla faccia della terra che si immaginava di trovare qui. Maleducati come lui non ne ho visto mai. Tu al confronto sembri uscito da Oxford." Anna si serv di una coppa di champagne dal vassoio del cameriere che le stava passando accanto. Defin "principesco" il tutto, Paolo non seppe darle torto: non aveva mai visto tanti saloni uno di seguito all'altro in un appartamento. La padrona di casa aveva pensato a tutto: c'era un'orchestrina nel salone principale, e perfino un juke-box in un'altra ala, per i pi giovani. Un vecchio aristocratico russo in esilio prese la parola in quel momento. Paolo vide che Roberto si volt verso di lui sorridendogli per sottolineare chiss quale ironia del destino. Con quella sua aria insopportabile di superiorit sembrava sempre che avesse un conto da regolare con qualcuno che a suo modo di vedere poteva essergli di ostacolo nel raggiungimento dei suoi obiettivi. In ogni modo, approfittando della virata a destra del governo da un giorno all'altro in redazione si era ritrovato in testa alla classifiche di gradimento e veleggiava verso una sicura promozione. Non che ci fosse qualcosa da ridire: Roberto era bravo. Ma, agli occhi di Paolo, era il tipo che se pure fosse diventato ministro si sarebbe preoccupato pi di sentirsi il secondo del presidente del consiglio che il primo del suo dicastero. Se fosse diventato presidente della repubblica avrebbe favorito l'annessione del paese ad una nazione pi forte. Tutto intorno a lui la gente aveva cominciato a ridere per alcune battute di politica internazionale uscite dalla bocca del padrone di casa in risposta all'accorato appello dell'esule russo, che auspicava il rovesciamento del regime sovietico e il ritorno di una famiglia, Paolo non seppe riferire quale, al soglio di San Pietroburgo. Un tale che indossava una divisa appesantita da un firmamento di stellette e decorazioni gli domand accorato come mai se ne stesse cos in disparte: "Si unisca agli altri!" Paolo gli rispose serio: "Non sopporto la gente che ride." Pens alla lista misteriosa che aveva tanto terrorizzato Roberto. Da allora non ne aveva pi sentito parlare, tanto che era arrivato alla conclusione che doveva essersi trattato del parto della fantasia di colleghi che, temendo qualcosa per s, cercavano di creare scompiglio in modo da neutralizzare preventivamente le iniziative di chi avrebbe dovuto assumere decisioni. Il suo ragionamento era molto semplice: se ci fosse davvero questa lista lui non potrebbe non saperlo. Se qualcuno veramente desiderasse dividere la redazione in base a un qualunque principio, pensava, non solo lui ne sarebbe a conoscenza, ma probabilmente proprio a lui si rivolgerebbero! Lo convinceva la certezza, che non poteva provare ma che non per questo era in lui meno salda, che ad alti livelli nella redazione qualcuno sapeva della sua attivit, lo controllava e se era necessario lo proteggeva. Anna gli tocc una spalla, lui si volt di soprassalto, tirandosi su i pantaloni. "Ho finito le sigarette", gli disse. Paolo si guard attorno, e si ravvi i capelli. "Me lo faresti una favore?" Anna lo guard divertita: "Dipende." "Sai solo dire dipende. Tutte le volte che ti chiedo di farmi un favore: dipende!" "Tutte le volte saranno due o tre da quando ci conosciamo." Anna era troppo di buon umore per arrabbiarsi con lui quella sera. "Me lo devi fare. Vai da Roberto e parlaci." "E che devo dirgli a quello l?" "Niente. Voglio sapere cosa pensa di me. Tu gli dici che io ho tanta ammirazione

eccetera eccetera. E che se gli serve qualcosa io sono sempre pronto. Hai capito?" "Come se tu lo potessi aiutare in qualche cosa. Chi ci deve credere?" "Lui, Cristo santo, perch devi stare sempre a discutere tutto quello che ti dico? O lo fai o non lo fai!" Anna si mosse ancheggiando, ma non era un movimento intenzionale, era il suo modo di camminare. Si ferm, e si gir verso Paolo: "Le sigarette!" Paolo le si avvicin: "Chiedila a lui, attacca discorso." Era da quando era avvenuta lametamorfosi che Paolo non poteva pi sopportare Roberto N. Sarebbe diventato veramente comunista solo per fare la rivoluzione e metterlo al muro. Fortunatamente aveva l'aria di uno di cui ci si pu liberare facilmente: ma era il suo unico pregio. Un tale, un giovane con un impeccabile smoking lo avvicin e gli disse: "Giornalista, vero?" Paolo annu facendo un passo indietro. "Mi scusi, sa, si vede dal vestito", e rise. Paolo lo squadr dalla testa ai piedi. Che aveva il suo vestito? Un po' sgualcito, grigio, cravatta in tinta Paolo gli indic Roberto: "E quello l secondo lei?" "Quello per me, pi nella finanza. Lei cosa ne sa della borsa?" "Davvero lei ha indovinato che faccio il giornalista?" "Ho distribuito io gli inviti. Mi permetta: sono il segretario particolare del console degli Stati Uniti, qui in Milano." Sorrise in modo tirato. "Quindi mi conosce?" "No, non personalmente, ma so che ci dovevano essere dei giornalisti, e lei un giornalista!" "Voleva sapere?" "Sa, io, per lavoro, s'intende, leggo sempre quel tipo di stampa specializzata,Il Globo , il24 Ore , ha presente, lei sicuramente conoscer" "Sicuramente." Lo interruppe visibilmente infastidito: "Mi lasci finire: lei conosce il dottor Biondelli?" Paolo si mise le mani in tasca, cerc in giro per vedere se passava un cameriere, quindi lanci un'occhiata ad Anna, impegnata con Roberto N. Rispose: "Perch lo vuol sapere?" Quello divenne rosso: "Abbiamo fatto un modesto investimento. Ma corrono delle voci" "Biondelli L'ho incontrato una volta." "Tutti si son buttati a capofitto, e, se mi consentito" "Prego." "Niente, girano delle voci." Paolo era perfettamente al corrente. Questo Biondelli aveva comprato una specie di fattoria diroccata trasformandone la ragione sociale in societ finanziaria, e l'aveva quotata in borsa. Quindi aveva cominciato a diffondere negli ambienti giusti la voce che un "grosso gruppo" vi stava facendo affluire "ingenti cifre" e gli operatori avevano cominciato a crederci, cos che da un valore di poche lire la sua "finanziaria" ne aveva raggiunto uno di alcuni miliardi. Tutti i giornalisti sapevano che prima o poi sarebbe scoppiata come un palloncino, ma che gusto c'era ad andare a dirlo in giro? "Biondelli un galantuomo", disse Paolo serrando le palpebre. "Speriamo." "Lei pensava di ritirare l'investimento? A proposito, quanto" "Indiscreto!" Moriva dalla voglia di dirlo: "Cinquanta milioni." Paolo toss per mandare gi una tartina. "Il console o" "No, non il console Diciamo il consolato Cio, io" "Lei personalmente?" "Io, io personalmente." Gli era costato fatica riconoscerlo. "Mi raccomando! Non faccia l'errore di ritirarsi proprio ora!" "Lei dice?" Secondo lui cinquanta milioni uno come il Biondelli non ce li aveva mai avuti. "Gente come lei la spina dorsale di questo paese. Bisogna avere coraggio, fare circolare il denaro, fare investimenti" "Bravo: aumentare le disponibilit, le risorse Lei anche?" "Io non potrei mai!"

"Ma va l che anche voi fate i bei quattrini nei giornali!" "Non sono i soldi il problema. E' che ho idee diverse. E poi non lavoro in un giornale." Nel frattempo si era unito a loro due un terzo signore di mezza et, rubizzo, spiccio. Prese il giovane segretario particolare sottobraccio ostentando grande confidenza e si intromise nella loro conversazione: "A proposito di idee, lo sa che mi dice giorni fa un amico? Insomma, amico, una conoscenza Mi chiede un consiglio, e mi fa: che ne pensi delle Edison? e io gli faccio, "le Edison stanno a novemila, son destinate a scendere." Allora quello mi fa: "Hai ragione. Meglio le Montecatini: un mio amico ha fatto i fanghi laggi e mi ha detto che sono una cannonata!"" Il giovane segretario particolare guard Paolo con sufficienza. Paolo lo confort: "Questo significa non avere esperienza con la Borsa. Bisogna saperci fare", e annu ripetutamente con una certa gravit. Il segretario si sent molto rincuorato. Il terzetto stava gi quasi per sciogliersi, quando il segretario particolare del console ferm Paolo: "Lei per mi diceva di avere altre idee. Che intendeva dire?" "Parlavo delle mie idee politiche." Il terzo uomo disse girandosi mentre si dirigeva verso un gruppo di signore: "Non mi dir che vota per i socialisti?!" e soffoc a stento una risata. Paolo sorrise al segretario: "No, iosono comunista. Ho anche la tessera, la vuole vedere?", e mise mano al portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni. Il segretario particolare si scost da lui come se gli avesse rivelato di avere la lebbra. Accortosi della gaffe, lo preg cortesemente, ma con fermezza di lasciar perdere, che non c'era bisogno e scomparve fra gli ospiti. Anna reggeva una coppa di champagne, sola. Paolo la avvicin: "Stai bevendo troppo." "Mi hai lasciata sola." "E il nostro amico?" "E' soffocante. Unacamurria ." "Che hai scoperto?" "Che cosa dovevo scoprire? Mica mi avevi detto di scoprire qualcosa! Mi hai preso per Mata Hari?" Paolo la baci su una guancia. Cos, in pubblico, erano secoli che non lo faceva. Anna gli sorrise e disse: "Sei il peggio vestito. Se ti vedeva tua zia!" "Dimmi di Roberto, che vi siete detti?" "E' molto stupito che stai qua. Di me no! Di me ha detto che sono la pi bella, e la pi elegante." "Poi?" "Di te ha detto che evidentemente ti ha sottovalutato, o che forse ha giudicato male tutta la situazione Ti devo dire la verit, non ci ho capito niente." "Perch sei ubriaca." "Ma cornuta no!" rise sforzandosi di mantenersi padrona della forma. "Tu invece Se va avanti cos ti consiglio di stare molto attento" Si erano appartati in un salottino vuoto, e si erano seduti sul divano. Anna era illuminata dalla luce calda dell'abat-jour, il suo vestito rosso sembrava che si riflettesse sul pallore del viso. Paolo teneva le gambe accavallate e pensava a Roberto N. come ad un nemico. Anna aggiunse: "E poi ha detto che quelli come te si danno la zappa sui piedi da soli. Per un po' gli pu andare bene, ma alla lunga Vi volete bene! Due fratelli!" "Io gi ce l'ho un fratello." Anna smise di ridere. Antonio era la cosa pi triste che potesse venirgli in mente. Anna si accost al corpo di Paolo e gli disse: "Ho sonno." "Se viene qualcuno che deve pensare?" Paolo si alz di scatto. Anna lo imit, lentissima. A causa della posizione dalla scollatura del vestito si poteva sprofondare con lo sguardo in una penombra schiarita appena dal ricamo della sottoveste: nulla di pi, ma per Paolo fu abbastanza per sentire una voce lontana, un desiderio che non ricordava di aver mai provato: aveva sempre lasciato fare tutto a lei. Quando torn in s la vide in piedi, perfettamente padrona della situazione. Lo aveva preceduto nel salone, e accoglieva con un sorriso languido l'invito di un damerino a concedergli un giro di valzer. Ma giusto in quell'istante la piccola orchestra d'archi smise di suonare e i due si ritrovarono abbracciati al centro del salone, nel silenzio

imbarazzato di una festa non riuscita. Tornato anche lui fra gli invitati si accorse che l dentro Anna era l'unica persona con cui avesse voglia di parlare. Gi da qualche minuto aveva un pensiero in testa: aveva voglia di tornare in quella stanza della pensione dove trascorsero la loro prima notte. Ma poi cap meglio che non ne avevavoglia . "Ioero l", disse a Luisa, sforzandosi con una pausa di farglielo capire, in modo che lei proprio lo riuscisse a vedere. Qualche giorno dopo la repubblica aveva un nuovo governo, senza socialisti n socialdemocratici. Per Roberto le cose sembravano mettersi per il meglio. In sezione la notizia venne accolta con un generale disinteresse ma, parlandone con Davide, Paolo aveva intuito che il giudizio non era negativo. Aveva rinunciato a capire: se la caduta del governo era stata "una grande vittoria delle lotte popolari" (lo scriveva il giornale del Partito ed lo confermavano tutti i compagni) perch ora si ritrovavano con un governo peggiore di quello di prima? Ma ormai aveva capito che di questo non valeva la pena parlarne con nessuno, perch sicuramente Davide o Fausta gli avrebbero risposto che il nuovo governo non era peggiore, ma tutt'al pi uguale, e anzi forse pure migliore, perch un governo di destra pi utile alla causa di uno sbiadito governo con dentro i socialdemocratici e magari pure i socialisti. Avevano ragione loro: ci furono scioperi, e cortei nelle piazze, che si diffusero da Pisa, a Firenze, ad Ancona, ai cantieri navali, a Nocera Inferiore, dove la polizia caric i manifestanti: ma di tutto questo sui giornali non c'era quasi traccia. Nei telegiornali queste erano notizie che non potevano passare senza un commento che le inquadrasse nella "giusta prospettiva": non si poteva mai dimenticare l'"interesse generale". Sul giornale del partito invece le notizie sulle manifestazioni e sugli scontri con le forze dell'ordine occupavano sempre la prima pagina: si enfatizzava per galvanizzare i militanti, esattamente come gli altri minimizzavano per ottenere l'effetto contrario sul resto della popolazione. "Non pensi che forse esageriamo con queste notizie?" domand una sera a Fausta. "Sai che si dice al telegiornale? Che questi non sono fatti di cronaca. Che alla fin fine riguardano una parte piccolissima della popolazione e che se non venisse amplificata dalla stampa nessuno se ne accorgerebbe o quasi." "E tu sei d'accordo?" "No per, forse" "Non diresti cos se i motivi della protesta ti riguardassero in prima persona." "Mi riguardano in prima persona Cosa ti credi?" "Credo che per voi borghesi troppo facile essere comunisti." "Lo dici tu! Non sai a cosa ci tocca rinunciare!" "Non a cambiare idea quando vi pare." "Non ti fidi di me?" "Di te s, che c'entra? Facevo un discorso generale." "Discorsi generali! Non sappiamo fare altro!" Non l'aveva mai vista cos turbata. Sudava freddo: che venisse scoperto era nel conto, ma non da Fausta. Bisognava cambiare discorso, e recuperare la sua fiducia, e magari conoscerla meglio: ci teneva alla luce dei suoi occhi, e ai suoi capelli sporchi di fabbrica. "Forse non dovremmo stare qui fuori cos in tanti. Non l'hai letta la circolare Tambroni? Ci vogliono otto giorni di preavviso per le riunioni in luogo pubblico." "Per fortuna solo una proposta!" "Anch'io ce l'avrei una proposta: perch non ci andiamo a mangiare una cosa? Qui vicino conosco un ristorante" "Mi dispiace: pretendo otto giorni di preavviso!" "Ma il ristorante non un luogo pubblico. E poi due persone non sono una riunione!" "Perch due persone? E gli altri?" Si lasci scappare una risata liberatoria e definitiva: per lei la vita era un collettivo politico, uno sciopero generale, un'assemblea di lavoratori. Il concetto di coppia la sua visione del mondo lo riferiva a una borghese perdita

di tempo. Paolo, per parte sua, non poteva permettersi di forzare troppo la mano: la loro amicizia non poteva estendere i suoi confini fino a includervi lo scambio di indirizzi e di numeri di telefono. Gli dispiaceva non poterle dire niente di s, specialmente che suonava il piano. Quando tornava a casa cantava le sue canzoni preferite, sentendosi pi giovane. Pensare a lei era pensare a fare un viaggio, o a una promozione: cose possibili, ma per le quali, visto che si dimenticano presto senza rimpianti, non ha molto senso consumare energie sperando che si realizzino. La prima volta che gli capit di incrociare Roberto sulle scale, lo blocc, e quasi senza riflettere gli domand: "Per quella storia di Roma, poi?" Roberto lo fiss sorridente e vago: "Come ti venuto in mente? Non ne ho pi saputo nulla. Per quello che mi riguarda ho avuto rassicurazioni. Siete voi giovani a dovervi guardare le spalle!" "Voi giovani"! Avr avuto tre anni di pi, s e no! "Allora quegli elenchi" Roberto non gli diede il tempo di finire: "Ancora la lista!" "Non c'entrava con Roma?" "No, te l'ho detto. E poi non ne so niente. Veramente, mi dispiace." Roberto gli tocc la spalla benevolmente. Le porte dell'ascensore si aprirono e schizz fuori, regalandogli un sorriso distratto. Le porte si stavano gi richiudendo alle sue spalle quando Paolo gli disse: "Io l'ho vista!" Fece appena in tempo, attraverso una fessura, a vedere Roberto fermarsi e voltarsi come se lo avesse tirato per la giacca. Dovette aspettare un paio di giorni prima che quello si facesse vivo. Nel frattempo Paolo si premur di concimare il terreno, parlando della lista con colleghi scelti fra quelli pi vicini a Roberto. Le voci ricominciarono a girare, senza che nessuno fosse in grado di riferire a chi fossero attribuibili, e dunque ognuno dava loro il credito che riteneva opportuno. Roberto bussava di tanto in tanto alla porta della stanza di Paolo: "Ci prendiamo una cosa?" "Ho da fare." Lo bloccava alle uscite: "Ti dovrei parlare." "Abbi pazienza, sono molto impegnato." And avanti cos per circa due settimane. Roberto lo cercava quasi tutti i giorni, alla fine lo chiam a casa di domenica, con la scusa di un turno da scambiare. Lo invit a fare due passi al Duomo, e solo dopo essersi fatto molto pregare Paolo accett. "Ci ho pensato molto", esord Roberto N. "Su che cosa?" "Quando ci siamo visti, ti ricordi, a casa tua" "S, mi ricordo." "Sono cambiate diverse cose. Tu sei cambiato" "Io?" "No, non voglio dire cio, io non lo so se tu eri gi cos." "Cos come?" "E poi vederti l'altra sera Non so, mi verrebbe voglia di chiederti come hai fatto!" Roberto rifiut una sigaretta. Inal profondamente e senza volere si trov a scambiare un'occhiata prolungata con un bambino che veniva nella direzione opposta con un palloncino annodato al polso. "Come hai fatto a vederla?" Aggrott le sopracciglia in un modo che a Paolo parve buffo. Faceva sforzi tremendi per restare aggrappato alla sua posizione. "Vuoi sapere cosa c' scritto?" "No, mi interessa di pi sapere come mai uno come te possa esserci riuscito." "Non un bel complimento." "Allora non capisci! Uno come te voglio dire uno con le tue idee." "Perch , uno con le mie idee?" "Insomma, sono mesi che se ne parla" "Tu vuoi sapere che c' scritto." "Ma ce l'hai tu?" "No, sei pazzo?" "Voglio sapere come funziona l dentro. Insomma, tu capisci, uno nella mia

posizione, le mie conoscenze se devo essere sincero: io avrei potuto vederla. Non tu. Senza offesa." "Per anch'io sono stato invitato alla cena del console! Hai ragione: non hai capito niente della situazione." "Vedo." Era pi forte di lui: non riusciva a mascherare la delusione. Si sarebbe messo a piangere assistendo impotente allo svanire delle sue ambizioni. "Tu vuoi sapere quello che c' scritto!" "Me la puoi fare avere? Vedr di aiutarti poi in qualche modo, se ti serve qualcosa. Almeno dammi un indizio per capire da che parte viene, insomma, per regolarmi di conseguenza. La devo vedere!" "Se credi me la posso procurare." "Magari." "Benissimo", disse Paolo risolutivo. Roberto lo guard sorpreso, e implorante. Paolo gli tese la mano per salutarlo. "No, un momento" "S?" "Dimmi almeno di che si tratta." "Ti ho detto che te la faccio avere. Per, sai, sono un po' sorpreso. Con chiunque parlo sembra che tutti si aspettino da me di sapere cosa c' scritto, quando fino all'altroieri tutti dicevano di saperlo. Tu incluso, te ne ricordi? Ti avevo chiesto se era una lista di buoni e cattivi e mi hai detto di no, se era per chi doveva andare a Roma e mi hai detto di no, allora?" "Allora Si sapeva quello che si diceva in giro, ma nessuno diceva di averla vista." "Hai paura che ci sia dentro qualcosa che ti possa danneggiare? Di che hai paura?" "Di niente!" Lo disse allontanandosi da Paolo con un passo pi lungo del consueto, tanto che inciamp sul gradino del marciapiede, e per poco non travolse una signora che, spaventata, port la mano alla bocca, stringendo la borsa al petto. Quel giorno Paolo port Anna a mangiare fuori, e poi al cinema. Era cos bella che tutti la osservavano. Roberto N. non gli aveva neppure chiesto garanzie. Si fidava ciecamente di lui. Sembrava non sospettare neppure che potesse essere uno scherzo, o un imbroglio. A Paolo invece quella storia stava cominciando ad annoiarlo, e decise che era l'ora di farla finita. Prese carta e penna e cominci a buttare gi la lista, sapendo che qualunque cosa ci avesse scritto, Roberto N. l'avrebbe presa per vera. Divise la redazione in "affidabili", "poco affidabili", "non affidabili". Roberto lo mise fra i "poco affidabili". perch fosse credibile lui si mise fra i "non affidabili". Mise dei pallini accanto ad ogni nome, senza alcun criterio. Qualcuno lo sottoline in rosso, anche quello di Roberto, il suo no. Qualcun altro lo cancell con un segno, altri li fece precedere da una crocetta: era impossibile capirci qualcosa. Non era ancora contento: accanto ad alcuni nomi inclusi fra gli "affidabili" segn delle cifre: soldi che dovevano aver dato, o ricevuto. Quindi la mise nella casella della posta di Roberto. Nei giorni successivi questi fu nervoso e suscettibile e cercava di evitare Paolo se c'erano altre persone. Paolo cominci a dire in giro che aveva saputo da qualcuno che Roberto N. aveva la lista. Fu un pellegrinaggio, lui negava, ossessionato dall'idea che Paolo avesse qualcuno molto in alto che lo proteggeva. Questo l'aveva sempre pensato, ma ora sembrava davvero possibile. Fu l'unico a prendere sul serio la faccenda. Cercava risposte alla sua angoscia. Una volta Paolo vide aggirarsi per i corridoi della redazione perfino sua moglie, che certamente doveva aver avuto un ruolo nel ficcargli in testa quella ridicola ossessione. Avvicinava i colleghi e se li portava al bar, doveva avere speso una fortuna in cappuccini e caff. Da tutti voleva sapere cosa pensassero di lui, del suo modo di lavorare, e se per caso avevano notizie certe sulle prossime nomine. Passava al telefono con Roma un tempo spropositato; tormentava di biglietti e chiamate alle ore meno opportune la segretaria del direttore, e Paolo giurava che anche

sua moglie doveva fare lo stesso. Da tutti riceveva le stesse formali rassicurazioni che nulla era cambiato, era solo questione di tempo e la promozione sarebbe arrivata, non era solo lui ad aspettarla. "Non ci sar qualche problemapersonale "? chiedeva con quel suo sguardo gi spalancato sul vuoto di una delusione, con quel tono di voce supplichevole e dolce da adolescente ferito. La sua paura cominci a influenzare per davvero il suo rendimento professionale. Si dimenticava degli appuntamenti, e non riusciva a valutare con la serenit necessaria le notizie di agenzia che avrebbero meritato approfondimenti. La redazione economica ricevette in quei giorni una nota di biasimo per il modo con cui fu trattato il fallimento dell'avventura di Biondelli, che aveva fatto perdere un sacco di soldi a tanti bei nomi della finanza milanese. Ma era con Paolo che manifestava in pieno il suo bisogno di essere rassicurato. Introduceva il discorso con frasi come "con te posso parlare", "per fortuna che t'ho incontrato"; lo invit a casa a cena, sua moglie si diede da fare in cucina come se il futuro di suo marito si giocasse sul giudizio di Paolo a proposito del rag e dell'arrosto di maiale. Paolo e Anna si scambiarono tutta la sera occhiate che si prolungarono gioiosamente fino sul letto della loro camera, dove per l'occasione tornarono a dormire insieme. Sembrava sempre sul punto di confessare peccati innominabili che potevano essere la causa di quell'inatteso voltafaccia dei suoi superiori. Sparlava di tutti i suoi colleghi, specialmente di quelli che si erano "comprati la carriera". Aggiungeva, sperando che Paolo lo convincesse del contrario, che lui "a certe cose non si sarebbe mai abbassato". Ma Paolo non lo stava nemmeno a sentire. Non gli interessavano i suoi eventuali scheletri nell'armadio, non pensava a scrivere un rapporto su di lui, e si pentiva di aver cominciato quella storia: non immaginava che Roberto sarebbe stato cos ingenuo da dare credito a quella lista inverosimile. Roberto invece la lista ormai la conosceva a memoria, per tutte le volte che l'aveva letta e riletta. Aveva cercato di interpretarne tutti i pallini, tutte le crocette, i colori, le sottolineature, le cifre. "Sai Ribera," gli disse una volta, "mi dispiace sul serio che ti abbiano messo fra i "non affidabili". Ho visto che a te non te ne importa molto, e capisco il perch: mi riesce difficile, ma lo capisco. Per voi immagino sia una specie di prezzo da pagare, e per questo ti ammiro, davvero. Senti, che ne dici di renderla pubblica?" "Tu sei pazzo? Farebbero un'inchiesta, e ci andremmo di mezzo tutti." "Tutti chi?" "Tutti quelli che l'hanno vista: io, tu" "Hai ragione. Sai? Ti avevo mal giudicato. Ti sei comportato lealmente. Non l'immaginavo." "Dimmi tu una cosa: sei stato tu a parlarmi per primo della lista. perch lo hai fatto?" "Per parlarne con qualcuno. Siccome di te si parlava bene volevo conoscerti. Tu allora non eri" "Comunista" proprio non riusciva a dirlo. Sorrise per farsi perdonare, manifestandogli in questo modo una stima che andava oltre un'incolmabile diversit. "E non c'era nessun altro con cui parlarne?" " Capisco che ti pu sembrare strano." Infatti era molto strano, ma nulla di quanto gli diceva Roberto lo stupiva pi. Era la persona pi imprevedibile e nello stesso tempo pi noiosa che avesse mai incontrato. Roberto cambi discorso: "Insomma, tu che pensi di fare?" "Assolutamente niente." "Niente! Niente non possibile! Dobbiamo fare qualcosa!" "Io non voglio cacciarmi nei guai." "Ma tu lo capisci questo cosa significa? Che loro possono fare di noi quello che vogliono. Che noi non contiamo nulla Io pensavo che se tu facevi girare la lista fuori di qui, non so, al sindacato, al tuo partito" "No!" "Perch no? Ci dobbiamo difendere!" "Io cosa ci guadagno? Sono troppo esposto. La prima persona a cui penserebbero

sarei io. Scordatelo." "Sono stato dal medico: mi sta venendo l'ulcera." Paolo si mise a ridere: fu pi forte di lui. Roberto prov a sorridere per non metterlo in difficolt: aveva davvero bisogno di lui. Paolo continu: "E' escluso. E non pensare di farlo tu" "Ma se esce fuori lo scandalo, non capisci? a noi non ci pu succedere niente, anzi, se tutto va come io penso poi ti potr aiutare a farti fare un po' di carriera. O vuoi star l a spulciare agenzie per tutta la vita?" "Dimmi una cosa: chi ha avuto questa bella idea?" "Io! Cio veramente stata mia moglie ma io sono d'accordo." "Non provarci nemmeno, discorso chiuso. Curati, e non venire pi a farmi certi discorsi." "Non pensavo che ti arrendessi cos facilmente." "E io non pensavo che tu la prendessi cos." "Non ci dormo la notte: "poco affidabile"! perch ? Che ho fatto? Paolo, devi aiutarmi." Gli mise una mano sulla spalla e gliela strinse fino a fargli male. In breve: Roberto N., nel giro di qualche settimana, era veramente diventato un elemento "poco affidabile". Arrivava tardi alla riunione di redazione del mattino, cominci a vestirsi in modo trasandato (dormiva pochissimo e la mattina doveva scegliere fra la cura personale o un ennesimo inevitabile ritardo), tanto che qualcuno lo ferm un giorno nel corridoio domandandogli se per caso non fosse diventato pure lui comunista, "a forza di frequentare quello l". Venutolo a sapere, Paolo non fece nulla per ostacolare questo pettegolezzo, e anzi si adoperava in ogni modo per farsi notare in sua compagnia, ottenendo il duplice risultato di fare contento lui (che malgrado tutto continuava incautamente ad affidare nelle sue mani e alle sue "amicizie" le sorti del suo futuro), e tutti coloro che si compiacevano del fossato che si stava scavando intorno. Roberto N. dimagriva e si faceva sempre pi pallido e solitario, finch un giorno le condizioni di salute lo costrinsero a mettersi in malattia. Durante la sua assenza a Paolo venne in mente di fare quella che lui defin una semplice "prova". Scrisse il rapporto su Roberto N., non per infierire su di lui, che ormai non aveva pi alcuna possibilit di difendersi, ma per vedere se realmente quei pezzi di carta potevano determinare gli eventi, modificandoli nella direzione che lui desiderava. Calc un po' la mano sui sospetti, sulle voci che giravano sul suo conto, aggiungendovi di suo qualche presunta indiscrezione raccolta negli ambienti del Partito (fece cenno ad una sua probabile candidatura per quei cosiddetti viaggi di "aggiornamento professionale" che il Partito organizzava a Radio Praga per giornalisti iscritti o simpatizzanti) e non dimentic ovviamente di citare la celebre lista, che fu portata a prova della veridicit delle insinuazioni che si andavano facendo sul suo conto. Infine non si sent di scartare l'ipotesi che Roberto, sfruttando le sue conoscenze giornalistiche, aveva tratto illeciti vantaggi da informazioni riservate, speculando sul crollo in Borsa della finanziaria Biondelli. Tra tutte le schede che aveva scritto fu quella che gli richiese meno tempo: parlare male di Roberto gli riusciva facile. Si mise ad aspettare. Intanto Roberto, da casa, gli telefonava quasi tutti i giorni in ufficio, "sentirti mi fa stare meglio" gli diceva. Passato pi o meno un mese dalla consegna del rapporto al maresciallo, arriv la notizia che Roberto N. era stato trasferito a Roma, al giornale radio. Nella lettera era specificato, qualora non fosse stato chiaro, "a parit di mansioni e di trattamento economico". Roberto N. ricevette a casa la notizia. Telefon subito a Paolo. "E' andata cos. Mi dispiace", gli disse Paolo. "Non una punizione, vero?" Gli domand Roberto. "Una punizione? Sei scemo? Anzi Certi avrebbero fatto carte false!" capitolo quindici

Era una notte dei primi di gennaio del 1960. Antonio aveva appena spento la radio. Si stava infilando i guanti e il passamontagna per uscire fuori e mettersi alla ricerca del cane lupo, quello che gli portava i viveri e la posta, e che ormai da una settimana aveva fatto perdere le sue tracce fra i boschi del monte Penice. Era gi diventato un caso nazionale. Una vera maledizione: proprio adesso che il suo istruttore, un compassato signore tedesco che, pur avendo deciso dopo la guerra e un breve periodo di prigionia di fermarsi in Italia, non faceva nulla per minimizzare i suoi trascorsi nella Wehrmacht, era riuscito a convincere un dirigente della televisione a fargli un contratto di fornitura in esclusiva di "mezzi animali di supporto logistico". Scomparso, volatilizzato in una notte di tempesta, unitamente alla posta, al carico di provviste, ma soprattutto ai pezzi di ricambio, indispensabili ad Antonio per riparare un guasto che gi da due giorni impediva a migliaia di abbonati di ricevere il segnale, e quindi di assistere alla puntata del Musichiere, con un seguito di polemiche, di lettere di protesta che si erano diffuse veloci su per i rami delle gerarchie, fino a raggiungere le scrivanie del Direttore Generale, del Ministro, del Presidente del Consiglio, e infine del Presidente Gronchi in persona. Ci avevano fatto perfino un servizio al telegiornale su quel cane: l'idea era di farne un eroe popolare, come Lassie, o Francis il mulo parlante. Tutto questo baccano sugger al dirigente che si era fatto paladino della brillante iniziativa, di adeguarsi alle risorse della tecnologia e a far provvedere quindi all'acquisto di un mezzo meccanico, meno avventuroso ma pi affidabile; e al signore tedesco, tacitato dapprima con una valanga di insulti e successivamente con un generoso assegno che ne sboll l'intenzione di avviare una pericolosa e imbarazzante causa civile, di ripiegare su attivit con un minore grado di rischio, ma che risultarono ugualmente invise ai suoi compaesani (che, detto per inciso, lui accusava non tanto velatamente di essere responsabili della scomparsa del cane) quali l'allevamento di certi vermi superdotati per la pesca in acqua dolce, e successivamente l'importazione e lo smercio semiclandestino di speciali cartucce cecoslovacche per la caccia, grazie alle quali riusc ad ingraziarsi comunisti e cacciatori. Aveva spento la radio, infilato i guanti e il passamontagna (la giacca a vento la teneva sempre addosso) e ad aveva appena aperto la porta, quando vide due fari bucare l'oscurit, disegnando due coni di luce pieni di fiocchi di neve. Accese la torcia elettrica, si guard intorno: possibile che avessero fatto cos presto? Per radio gli avevano detto che non sarebbero arrivati con il materiale prima di due o tre ore, se riuscivano a trovare il mezzo. Si fece avanti: non era il caso di avere paura. Chi poteva arrivare fin lass? Che cosa si poteva pensare di trovare? Il gatto delle nevi si ferm a poca distanza. Ne scese un uomo intirizzito: indossava solo un cappotto, e non aveva n guanti n sciarpa. Solo un basco nero in testa. Teneva in mano uno scatolone piuttosto pesante, e a tracolla una piccola borsa da viaggio. "Vieni ad aiutarmi! Che fai l impalato?" Antonio riconobbe la voce: era Paolo. Gli si avvicin: "Sarai morto di freddo!" "Come fai a stare quass? Avanti, questa roba tua." "Che ci fai qui?" "Quel maledetto cane" "Sei qui per fare un servizio sul cane?!" "Mi vuoi aiutare o no? Prendi sta roba." Antonio allung le braccia e Paolo gli pass la scatola. Antonio vide che il "gatto" stava gi facendo manovra per ritornare indietro. "A quest'ora?" "A quest'ora, perch, tu sai quando ritorna?" "E sei venuto solo?"

"Solo, perch?" "L'altra volta erano un esercito." "Ma l'altra volta il canec'era !" "Vieni, entriamo." "Da quant' che non ci vediamo?" gli domand Paolo una volta che furono finalmente protetti dal calore di una stufa a gas. Antonio non gli rispose, neanche lo volle guardare in faccia. Stava preparando da mangiare. "Ti vanno due spaghetti?" "Potevi startene in un ufficio, in santa pace, al caldo, a casa tua. Mamma pure sarebbe pi contenta." "L'hai sentita di recente?" "S pi o meno." "A me mi dice che non la chiami mai." "Ci torni a Palermo qualche volta?" "Il mese passato, per Natale. Mamma e pap pensavano che scendevate." "Con tutto il lavoro che c'! L'anno prossimo. Forse. Gliel'ho detto." Mangiarono in silenzio. Dalla sera in cui Paolo gli aveva portato via Anna non si erano pi visti n sentiti. "Sei sempre lo stesso", disse Paolo. "Anche tu." Finito di mangiare Antonio gli offr una sigaretta. Si sentiva solo il ronzio della stufa. "C' un letto in pi?" chiese Paolo. Si guard intorno. Sfior con una mano le apparecchiature di controllo. "E' grande qui." "E' gi pronto per il Secondo Programma. Quanto pensi di restare?" "Dipende da questo scemo di cane. Domani mattina verranno gli operatori. Dipende" Antonio si mise al lavoro per riparare il guasto. Paolo gli chiese se poteva stare a guardare, e Antonio non ebbe nulla in contrario. Il giorno dopo continu a nevicare incessantemente. Si scambiarono poche parole. Ogni tanto Paolo diceva "faccio un giro", e scompariva per qualche minuto. Tornava subito: "C' troppo freddo", diceva. Non venne nessuno. Paolo attribu la colpa al cattivo tempo. "Strano che non chiamano", disse Antonio. Paolo non rispose. Fece buio presto. Guardarono la televisione, fumarono in silenzio. Paolo controllava l'orologio ogni momento: lo portava all'orecchio, lo puliva con un lembo del maglione. Dopo cena smise di nevicare e la temperatura si abbass. Paolo si accorse che Antonio da qualche minuto lo stava guardando come se volesse chiedergli qualcosa. "Ricordami poi di ridarti i guanti, altrimenti me li porto via", disse Paolo. "Senti, ma quando vai fuori per lavoro non telefoni mai a casa?" "Perch me lo domandi?" "Cos. perch , non te lo posso domandare?" "Qualche volta s, qualche volta no. Ma poi non mi muovo quasi mai. Questa un'eccezione. Vuoi sapere come sta Anna?" "No." "Sta bene. Ti volevo dire" "Lascia stare." "Non ti interessa sapere come vanno le cose?" "Sono passati pi di due anni." "A me sembra ieri. Ce l'hai sempre le gomme americane?" "No. Quass poi" "Che, non te le possono mandare col cane?" "S, certo." Uscirono. Il cielo era pieno di stelle, ma la luna era gi tramontata. Le gambe affondavano nella neve fino al ginocchio, costringendoli a muoversi come grossi pinguini. "Forse abbiamo fatto uno sbaglio." "Che ci sei venuto a fare, me lo vuoi dire?" "Te l'ho detto!" "Non tirare fuori questa minchiata del cane!"

"Volevo starmene un po' con mio fratello, che proibito?" "Sono due anni che non ti fai vivo." "Perch tu? una telefonata non la potevi fare? Eh? Che, ti cascava il braccio? Una telefonata: ad Anna, per sapere come stava." "Ad Anna!" "Chiamala. O ce l'hai ancora con lei? Le faresti un piacere." "No." Antonio fece qualche passo verso il bosco, che cominciava bruscamente, a qualche decina di metri dal traliccio. "Lo sai chi sei? Uno che pensa solo a se stesso, basta vedere dove sei venuto a stare." "Ti metti a fare la predica adesso?" "Per te tutto facile. E' sempre stato cos, no? Quando ti metti in testa di fare una cosa, pu cascare il mondo la fai. E chi ti dice di no? Nessuno. Lo sai che ti dico? Di Anna tu ti sei lavato le mani." "Torniamo dentro, c' freddo." "Ah, non ti piace questo discorso?" "Fammi la cortesia, stai zitto." "Zitto mi devo stare?" Si davano le spalle, erano costretti a parlare a voce alta, anche se non ne avevano voglia. Antonio disse: "Sembra che per quello che successo la colpa mia! Vieni qui, parli" "Che ti devo chiedere, scusa? A Milano chi ci venuto, io? Sei tu che mi devi chiedere scusa! " Paolo si volt: Antonio gli era alle spalle: incrociarono gli sguardi. "Perch non chiedi ad Anna come sono andate le cose?" Antonio fiss un gruppo di stelle nel cielo. "Adesso dai la colpa a lei!" Lo stupore di Paolo non sembrava sincero. "Non ho detto questo" "Ma che uomo sei?" "Io non le torcerei un capello." "Allora perch non te ne torni con lei? A Milano, come l'altra volta. Magari per ditemelo per evitare non so, di scoprirvi a letto Che , tiscanti ? hai paura? Preferisci farlo di nascosto?" Antonio si gett a corpo morto sul fratello, picchiandolo sulla schiena: i guanti attutivano i colpi, ma la spinta e la foga li fecero cadere in terra. Paolo reag come poteva, scalciando e agitando le braccia, colpendo senza mirare. Lui i guanti non ce li aveva: sentiva le guance di Antonio gelide e ruvide. Affondavano nella neve, rotolandosi abbracciati come non erano stati mai, separati dal pudore di un affetto sbilanciato dagli anni e da Anna. Il fiato condensato li avvolgeva in una nebbia istantanea, sbuffavano pi per la fatica di dare i colpi che per il dolore di riceverne. Presto per Antonio cominci a sanguinare da un labbro. Se ne accorsero perch la neve si tinse di rosso. Si separarono. Paolo cerc di applicargli delicatamente sulla ferita della neve pulita, ma Antonio lo allontan infastidito: si rialzarono a fatica. Tossivano entrambi. Antonio disse: "Ad aprile mi sposo. Gi aspettiamo un bambino: l'ho saputo tre giorni fa." Rientrarono nell'alloggio. Antonio nella lotta aveva perso il passamontagna. Si pass la mano in testa. Paolo lo ferm: "Lascia, faccio io." Usc. Antonio si mise a scaldare dell'acqua. "Che ti prendi?" Paolo gli disse che andava bene quello che prendeva lui. Antonio prese due bustine di t. "Perci ti sposi." "Voi perch non vi sposate? Metterebbe tutto quanto a posto." "Che bisogno c'?" "Cos fate un figlio. Magari Anna" "Anna non ci pensa proprio. E poi mica c' bisogno di sposarsi." Quella notte Antonio non riusc a chiudere occhio. Dovevano essere le tre, tre e mezza. Il tempo era ancora cambiato. Ora poteva sentire il vento infilarsi fra le strutture del traliccio dell'antenna, provocando quel sibilo acuto che i primi tempi scambiava per il verso di qualche strano animale.

Ma non poteva essere semplicemente il vento a fare il rumore che sentiva provenire dall'esterno. E nemmeno qualche strano animale. Si alz in piedi, si accost alla porta della stanza dove dormiva Paolo: era chiusa e non la apr. Si mise una coperta sulle spalle. Che cosa era tornato a fare il gatto delle nevi lass, a quell'ora? Adesso che si era alzato, il rumore era inconfondibile. Usc. Lo vide fermo, a una certa distanza dal recinto di protezione dell'impianto, con il motore spento. Due uomini con il passamontagna calato sul viso e le torce elettriche in mano facevano la spola fra il cingolato e il bosco. Ce n'era uno che dava ordini, sbracciandosi in modo che la luce della sua torcia finiva con illuminare pi spesso le cime degli alberi che il terreno intorno. Erano ordini semplici e secchi, "muovetevi", "fate presto", "che aspettate": Antonio non ebbe bisogno di avvicinarsi per capire che quell'uomo era Paolo. Vide delle casse rettangolari, piccole e strette, vide poi un quarto uomo che stava scavando una fossa. Paolo ora era con lui che se la stava prendendo: "Maria quanto sei lento." L'altro gli replic seccato: "Sei l'unico te a fare chiasso!" "Levati, faccio io. Solo una pala dovevate portare?!" Antonio rientr dentro perch si sent congelare. Continu a osservare la scena attraverso una fessura della porta. L'operazione dur quasi mezz'ora. Quando i tre se ne furono andati, Paolo diede un'ultima sistemata con i piedi alla buca che era stata ricoperta. Il mattino dopo salut il fratello con una stretta di mano. Vennero a riprenderlo verso mezzogiorno. Appena fatto buio Antonio and sul luogo dove erano state interrate le casse, e vi gir attorno a lungo senza trovare il coraggio di scavare. Afferr quindi il badile, e cominci a rimuovere la neve, con una certa cautela, come se qualcuno potesse vederlo. Poi con sempre maggior foga. Non aveva pi nevicato dal giorno prima, e la neve stava cominciando a ghiacciare. La terra oppose minor resistenza. Aveva preso un buon ritmo, respirava a fatica, ma non pativa lo sforzo. Quando si trov davanti la prima cassa si ferm per asciugarsi il sudore. Rimase immobile, a lungo. Non aveva alcuna voglia di guardarci dentro. Qualunque cosa fosse non erano affari che lo riguardassero, e sicuramente era qualcosa di poco pulito. Era sicuro che sarebbe stato meglio per tutti se avesse continuato ad ignorarne il contenuto. E infine era cos buio che probabilmente non avrebbe neppure capito di cosa si trattava. Mise una mano nella tasca dei pantaloni, rovistando fino in fondo. Dovette sfilarsi il guanto. Cacci fuori quel vecchio piccolo anello che non poteva appartenere pi a nessuno, e senza rimpianti lo gett nella buca. Fece un rumore sordo, cadendo su quella piccola bara: non rimbalz neanche. Fu pi facile di quanto avesse previsto. Sentiva che aveva fatto la cosa pi giusta e responsabile. Cominci a riempire la buca: delicatamente, come se qualcuno laggi in fondo potesse farsi male. Quando ebbe finito si sedette sulla neve, e vi rimase a lungo, fino a quando si rese conto che quelle che gli rigavano le guance erano senz'altro lacrime, e non gocce di sudore. Sent una fitta allo stomaco, una rabbia che non aveva pi motivo di controllare. Si rimise in piedi, e inizi a muoversi tutto intorno, andando su e gi, inquieto. Sent addosso il peso di tutto quel silenzio. Guard la cima dell'antenna, quasi a rintracciarvi un suggerimento, come sa la sua imponente solidit potesse essergli d'aiuto. Gett lontano il badile, perch altrimenti avrebbe ricominciato a scavare, furiosamente, fino a farsi male: non voleva che questo, era chiaro, scavare di nuovo e recuperare l'anello, e baciarlo, gridare con tutto il fiato quel nome, per disperderlo definitivamente nella notte, o possederlo. Si ferm, appoggiandosi alla corteccia di un albero. Cerc di concentrarsi sul volto di Luisa. Quando pensava a lei gli veniva in mente sempre l'immagine del loro primo incontro, su un vagone di terza classe del treno per Roma. Era rimasto colpito dal fatto che quella donna sconosciuta gli parlasse con la sicurezza e la tranquillit di una vecchia amica. Lui non aveva mai parlato cos a una donna. L'unica donna con cui avesse mai veramente parlato era stata Anna,

e con lei non era possibile parlare come fosse solo un'amica. Anna era una donna che si spogliava anche quando parlavano per strada del pi e del meno. Era prima di tutto un corpo, era il ricordo della pi recente intimit, e la promessa di quella successiva. Si era finalmente calmato. Stava tornando lentamente verso l'alloggio quando gli ritorn nelle orecchie quel rumore secco, triste, dell'anello caduto nella fossa. Gli tenne compagnia fin dentro casa, sotto le coperte, nei sogni. Forse era semplicemente la lancetta dei secondi della sveglia. Quel rumore se lo port dietro negli anni, nei treni che prendeva per andare a trovare Luisa a Roma; nel giorno del matrimonio, al quale Anna non volle venire; sulla spiaggia, quando i gemelli scavavano con la paletta buche profonde, per arrivare al mare, o per nascondervi le formine e il pallino delle bocce. Allora lanciava lo sguardo lontano, al riparo da qualunque domanda, aspettando che la marea dei pensieri onesti gli facesse riconoscere che aveva avuto fortuna, e che era un uomo felice. E quello fu davvero un anno felice: in aprile si spos; in giugno fu assegnato alla sede di Roma; in luglio nacquero i gemelli: fu come prendere un'astronave e trasferirsi in un altro pianeta. Considerato che l'affitto glielo pagava l'azienda, e che Luisa aveva vinto la cattedra in un liceo, davvero non poteva lamentarsi. Per Natale, malgrado i gemelli fossero ancora tanto piccoli e Luisa decisamente affaticata per il parto, stabilirono che era opportuno andare a Palermo, visto che sia il matrimonio che il battesimo si erano svolti a Roma, e della famiglia non avevano potuto partecipare che la mamma e la zia Agata. Sorprendendo tutti quell'anno, Paolo mantenne la sua promessa e, con Anna, and anche lui a Palermo per Natale: sempre il solito, se avesse avvisato per tempo si sarebbe potuto trovare una sistemazione; in questo modo invece Anna and a dormire a casa dei suoi genitori, e Paolo fu sistemato sul divano. Cos Antonio ed Anna si rividero. Per meglio dire, si intravidero, si ignorarono, in un modo cos esplicito che tutti coloro che erano presenti la sera in cui la svergognata si era alzata in quel modo, facendosi trascinare via da un fidanzamento onesto, se ne sentivano addolorati, comunicandosi, anche senza volere, la stessa preoccupazione: preservare Luisa e i bambini da un dolore che non si erano meritati. Luisa e Anna non scambiarono pi di venti parole di circostanza. Luisa non aveva motivo per dedicare ad Anna un'attenzione particolare, mentre Anna non fece altro che osservare quella donna, semplice e discreta, illuminata in un modo che a lei parve provocatorio e scostante dalla luce della maternit. Ne era cos infastidita da doversi rifugiare spesso lontano dal tavolo, dove le famiglie riunite si accanivano con i fagioli secchi della tombola e le modeste puntate al sette e mezzo. Anche Luisa conserva un ricordo molto lucido di quel Natale. Non era mai stata a Palermo, citt che le piacque immensamente: piena di sole e di una strana leggerezza: l'effetto della mancanza della solitudine che lei, sempre vissuta a Roma, era abituata a intercettare nella faccia della gente. Ricordava perfettamente il pomeriggio di quel giorno di Natale. Anna si era alzata dal tavolo con un mandarino fra le mani. Sua madre l'aveva guardata di traverso, ma non possedeva pi sguardi capaci di comunicare con lei. Paolo fece finta di non vederla e anzi attir volutamente su di s l'attenzione con una puntata eccessiva. Michele, dall'altra parte del salone, la chiam a s con un cenno della mano, la fece sedere accanto a lui e le chiese di chinarsi, per poterle parlare vicino all'orecchio, senza fare sforzi. Dal tavolo Concetta disse ad alta voce: "Ma lasciala stare, povera figlia!" Concetta non voleva bene ad Anna come ne voleva a Luisa, ma faceva di tutto per non farglielo notare. Fatica sprecata, perch Anna non aveva bisogno di notarle, le cose: le sapeva. Zia Agata disse: "Scommettiamo che gli fa il racconto della telefonata?" Michele parlava con un filo di voce, ma quando iniziava il racconto della telefonata gli si accendevano gli occhi come non gli era mai successo in tutta la vita.

"Senti qua: viene Concetta e dice: prendi il telefono, c' Antonio che ti vuole dire una cosa, e io che ho gi capito, ci dico: Antonio,nascu ? "Nascu, mi dice, ma non uno, due sono! Un maschio e una femmina!" E comeptte essere? ci dico io, se sono gemelli, maschio e maschio oppure femmina e femmina. "No, un maschio e una femmina sono!" e io non ci volevo credere, mi sembrava che mi voleva prendere in giro, come posso dire Allora io ci faccio: e che nome cimittisti ? E lui, Antonio, mi fa: "Ancora non lo sappiamo". E io ci faccio: come non lo sapete?Nascro o no stipicciutteddi ? "Come, non sono nati?" dice mio figlio. E che aspettate? Se nasceva maschio il nome di tuo padre ci dovevi mettere, no? E allora, a uno Michele e all'altra il nome di tua madre! Che, Michele e Concetta non tipiacro ? E lui si mise a ridere. E io allora: che fai ridi? obbedisci a tuo padre! Te lo immagini? Obbedire a questo povero vecchio" "E che nomi ci ha messo?" gli domand Anna, che gi sapeva quella storia come andava a finire. "Ha obbedito a suo padre." Arrivato a questo punto non riusciva ad andare avanti, perch le lacrime regolarmente gli finivano in gola. "Antonio un bravo figlio." Anna guard in terra. Teneva nel palmo della mano le bucce del mandarino che aveva finito di mangiare. Si scus con un sorriso e si avvi in cucina. Subito dopo, Antonio si alz dal tavolo. Disse: "Vado a dare un'occhiata ai bambini." Luisa annu circondata da un'aureola di approvazione di tutta la famiglia. Ma Antonio non and nella stanza dove riposavano i gemelli. Si ferm nell'ingresso. Rovist nell'attaccapanni, stracolmo di soprabiti e giacche e della pelliccia profumata di essenze orientali della mamma di Anna. Trov una busta di plastica, e con quella si diresse in cucina. Anna vi stava gi per uscire, lui la spinse dentro, afferrandole per un braccio. Anna lo interrog con uno sguardo stupito e severo. Antonio non lo vide neanche. "Il mio regalo di Natale." Lei non mut espressione. Antonio la invit a prendere in mano quella busta, con il nome Boscarino scritto sopra, perch veniva dalla merceria dei genitori di Anna, la prima che aveva trovato. Infil la mano senza smettere di guardare Antonio. Era un disco a 45 giri. Antonio le chiese: "Te la ricordi?" Lei lesse il titolo della canzone:Calypso Melody . Ripul velocemente la memoria della polvere degli anni e vide due ragazzi troppo diversi, nei gesti, nelle motivazioni e nelle speranze, che un pomeriggio di un sabato, in una sala da ballo della periferia di Milano, si stringono l'uno all'altra, per non perdersi, o per trovare il coraggio, o semplicemente per darsi una ragione. Avevano suonato quella canzone altre due volte, era il successo del momento, e loro avevano continuato a ballarla con quella speciale tristezza che prende chi si sente schiacciato dal proprio amore. Tornata a casa Anna chiese a Paolo di imparare a suonarla, perch quel pomeriggio, fra le braccia di Antonio, per la prima volta aveva sentito il bisogno di arrivare in un punto e fermarsi, e questo l'aveva fatta stare bene. Quando Paolo suonavaCalypso Melody Anna non pensava a fargli del male, ma solo a concentrarsi per riuscire a prendere una decisione. "Non posso accettare", gli disse. Antonio si guard alle spalle. Lei continu: "Non lo capisci da solo? " "Non stato facile trovarlo." Anna lo guard ed ebbe piet di lui: quella stupida canzone non significava pi nulla per lei. Antonio continu: "A Milano sono stati i giorni pi belli della mia vita." "Non ci credo. E i bambini?" "Che c'entrano loro? Ora tutto cambiato" "E allora, questo?" Alz il disco in un modo che ad Antonio non piacque: come fosse qualcosa che avrebbe potuto gettare nell'immondizia da un momento all'altro. "Era una cosa che volevo fare." "Perch ? Vuoi umiliarmi, farmi sentire un verme Vuoi che ti chiedo perdono?" "Tu perch non sei venuta al matrimonio?"

"Mi dispiace, ma non per il motivo che pensi tu. Non ho paura del passato." Antonio le si avvicin incautamente, come se dentro di s si stesse svolgendo tutt'altra conversazione. Sent il calore del suo corpo sul suo. Ma lei si tir rapidamente indietro. Era cambiata. Era cos bella che quasi sembrava volersene scusare: la sua bellezza non le apparteneva pi, era come se la portasse appresso come una cosa di cui non si sapeva sbarazzare, e vi restasse appoggiata, ottenendo cos solo il risultato di metterla ancora di pi in evidenza. "Ho parlato con Paolo", le disse lui. "Complimenti, a me non mi riesce da anni." " Io credevo che eri felice della scelta che avevi fatto." "Antonio, tu ora non puoi darmi niente. E soprattutto io non voglio niente da te. E da nessuno." "Solo perch non sei tu a deciderlo." "Che cambia? Tu non puoi amarmi." Cerc di baciarla, spingendola sul lavandino. Lei si ritrasse ancora. Appoggiandosi sullo sgocciolatoio fece cadere un bicchiere. Antonio si chin per rialzarlo. "Allora sposatevi", le disse. Anna incroci le braccia e gli diede le spalle. "Tra me e Paolo non c' pi niente", gli disse, ma Antonio cap che non gli stava dicendo la verit. Erano tre anni che non la vedeva. Giur a se stesso che non avrebbe dovuto rivederla mai pi. Torn nel salotto e guadagn il suo posto al tavolo. Luisa lo osserv senza chiedergli nulla. Concetta toss e richiam l'attenzione di sua sorella Agata perch l'aiutasse a iniziare una conversazione qualunque. La zia Agata chiese ad Antonio se pensava di tornare a Palermo, prima o poi. Antonio disse che non si poteva mai sapere; qualcuno gli sugger che con i risparmi tanto per cominciare poteva comprarsi una casa a Palermo, ma Antonio disse che non ci pensava proprio. Intanto Anna era rientrata nel salone ed era andata a sedersi nel divano. Antonio si preoccup che non avesse il disco con s. "Ci sidda nscere pccioli, chistu ", disse la zia Agata. "Ma non cos! perch devi dire una cosa per un'altra?" Come succede in simili occasioni, le sue obiezioni furono raccolte da un'indulgente incredulit, e tutti si sentirono autorizzati ad esprimere il proprio pensiero con autorevolezza e comprensione: "Giovani sono, figli miei" "Come si dice? Date tempo al tempo" "Hanno tutta la vita davanti" "Beati loro!" "Certo, qui casa tua. Non che perch ti sei sposato, e lavori a Roma devi pensare che qui non ci devi tornare" "E perci." Concluse fiera e risolutiva zia Agata, con una perentoriet che lasciava intendere che una parola in pi sarebbe stata di troppo. Antonio non resistette oltre: "E perci che cosa? Zia! Queste sono decisioni che devo prendere io, lo volete capire o no?" "Mizzica, pare a so' frate! Paolo! Lo sentisti? Da piccolo non era cos! L'aria di Romaappe a essere !" La zia Agata era stranamente ben disposta: era tale la sproporzione tra le ragioni assolute della famiglia e le sue deboli proteste che non si sent per niente offesa. Paolo osservava la scena con un'aria di totale indifferenza. Ma in realt si stava godendo il trionfo atteso da tutta una vita: era ora che Antonio capisse che cosa vuol dire avere una famiglia, accettarne il ricatto perpetuo degli affetti: una societ per azioni, la famiglia. Ma di azioni cattive! Se gli dai dieci ti chiedono cento, e non hanno bisogno degli avvocati, mandano le zie, le prozie, i cugini naturali, quelli acquisiti, di primo, secondo e terzo grado, i compari, le madrine e i padrini, i cognati, le suocere, tutti con un pezzo di vita da rivendicare, che se si dovesse dar conto a tutti si passerebbe met della propria esistenza a vivere, e l'altra met a risarcire quelli che sostengono di avertelo permesso. La famiglia: avvoltoi dalla memoria di elefanti.

Antonio cercava di far valere le sue ragioni: "Ma quale aria di Roma! Ho una famiglia, lo volete capire? Io casa a Palermo non ne posso e non voglio comprare, n ora e n mai! E' chiaro cos? Adesso basta, fatemi il favore, e giochiamo!" Tacquero tutti: un silenzio lungo e tragico. Nessuno poteva prendere sul serio quello sfogo illogico. Da Antonio, poi, nessuno se lo aspettava. Qualcuno in cuor suo lo giustificava, qualcun altro lo assimilava alla categoria perversa dei giovani, tutti uguali, non sanno cos' la riconoscenza. Luisa guardava fisso il tavolo da gioco, torturandosi una ciocca di capelli. Concetta sciolse la tensione facendo finta, come solo le mamme sanno fare, che non era successo niente: "Avanti, ha ragione Antonio, giochiamo. Siamo qui per divertirci." Antonio cerc Anna con lo sguardo, lontana, seduta sul divano con una sigaretta accesa. Aveva fatto a pezzi il regalo di Antonio, ma ora la melodia di quella vecchia canzone le era entrata in testa e non riusciva a farcela uscire. Paolo distribu le carte. Antonio pens all'anello. Se glielo avesse dato, quel giorno Se non fosse stato cos pieno di riguardo Dette uno sguardo svogliato alla sua carta: una buona carta. Punt. Desider Anna come forse mai l'aveva desiderata. Trov sotto il tavolo la mano di Luisa e le disse: "Ho una buona carta." "Non ti senti bene?" gli chiese lei. "Ora pure tu ti ci metti?" Si alz in piedi e abbandon il tavolo. Luisa lo segu con lo sguardo. In tutta la loro vita quella fu l'unica volta che Antonio alz la voce con lei. Anna osserv tutta la scena dal divano, disgustata. Dopo quello del 1960 non ci fu un altro Natale che la famiglia Ribera pass insieme, al completo. Veramente non ce n'era stato nessuno nemmeno prima. Quello fu l'unico. Non ci fu neppure nessun'altra occasione, perch l'anno successivo Michele Ribera mor, ma n Anna n Luisa vennero ai funerali. Qualche mese dopo mor anche la zia Agata: lei aveva una di quelle strane malattie covate per anni, ma di cui ci si accorge quando non c' pi niente da fare. Antonio mand un telegramma; Paolo neppure quello. Prima di lasciarsi, il giorno del funerale del padre, Antonio avvicin il fratello e gli chiese di Anna. Paolo alz le spalle. Antonio gli disse: "Sposatevi. Falla felice." Paolo lo guard a lungo negli occhi: "Non ci riesco", gli rispose.

terza parte capitolo sedici

Il giorno dopo il loro primo incontro fu Anna a telefonare a Luisa, proponendole

di vedersi di nuovo, "magari senza i bambini, stavolta." Luisa guard di traverso il pavimento, allontanando da s il maschio che le saltellava intorno per farsi dire chi era. "Ti faccio sapere", fu la sua risposta. Abbass delicatamente la cornetta e cerc di concentrarsi, ma i battiti del cuore, cos forti da finire in gola, non glielo consentivano. Senza risolversi n per il s n per il no, trov la forza di telefonare a sua madre per vedere di sistemare i gemelli per qualche ora. Poi ritelefon ad Anna, e le disse solo "va bene". Anna le disse dove e a che ora. Cos alle sei del pomeriggio del giorno dopo, indossato un vestito di lino blu, decorato con piccole roselline, si present, in ritardo, all'appuntamento che Anna le aveva fissato in piazza delle Muse, con la testa vuota e la fronte gi, troppo presto, imperlata di sudore. La trov seduta ad un tavolino del bar, con il panorama alle spalle, sospesa tra l'ombra dei pini e la luce del sole, indifferente al rigoglioso spettacolo lontano della natura. Era bellissima. Sembrava che nel giro di ventiquattro ore avesse acquisito un po' di colorito sulla pelle. Poteva permettersi un tailleur bianco con una sottile bordatura azzurra, e un filo di perle. Anche il livido sotto l'occhio destro, che continuava a proteggere con gli occhiali scuri, pareva essersi assorbito quasi del tutto. Si era tagliata i capelli. Luisa pens, mentre raggiungeva il tavolino, che al ritorno, se faceva in tempo, avrebbe dovuto comprare un regalo ai bambini, anche una sciocchezza, un volano poteva andare bene, oppure qualcosa per il mare. Anna osserv attentamente il percorso di Luisa fra i tavoli. Si scambiarono un'occhiata di reciproco riconoscimento e quando furono vicine si salutarono con un semplice cenno del capo. Anna per prima cosa mise in chiaro che aveva poco tempo. Luisa si sent in dovere di scusarsi: "Sai, i bambini" Anna disse: "Non ti preoccupare." Luisa non si era preparata nessuna domanda. Si sentiva stranamente a disagio, come se dovesse farsi perdonare chiss cosa. Anna la intimoriva. Non le restava che aspettare che fosse lei a parlare. In borsa si era portata il quaderno dove stava finendo di scrivere il racconto di Paolo, ma sapeva che non lo avrebbe certo tirato fuori in quella circostanza. Del resto aspettava solo l'occasione di disfarsene: di tutta quella storia assurda in fondo non gli rimaneva che una frase, piccola piccola, che Paolo aveva pronunciato con un sorriso tagliente e che lei oltretutto non aveva ancora trovato il coraggio di trascrivere: "Credo che si vedono ancora." Anna ordin un caff freddo. "Lo stesso per me", disse Luisa. Anna le chiese di Antonio. Tanto valeva entrare subito in argomento. Non le piaceva tutto questo. Fosse dipeso da lei, di affrontare Luisa avrebbe fatto a meno. Non aveva niente da confessare e tanto meno niente di cui pentirsi. Certo, era stata lei a chiamare. Per forza: quella specie di visita-avvertimento di due giorni prima, con tanto di figli al braccio, pronti a trasformarsi nella pi infallibile e piagnucolosa arma di un patetico ricatto sentimentale, non l'aveva mandata gi. Ci aveva pensato tutto il giorno, arrivando alla conclusione che la figura della stupida non l'aveva fatta di sicuro lei, anzi: si era comportata in modo dignitoso ed equilibrato. Non si era fatta sfuggire una parola di troppo. E dire che prima di uscire di casa aveva anche bevuto un sorso. E Luisa cosa aveva ottenuto? Di farle capire che sapeva. Ma allora perch non affrontare apertamente la faccenda? Si era comportata da vigliacca. E' di quelle che hanno paura della verit? che giocano a non aver mai niente da perdere? Bene, allora avrebbe preso lei l'iniziativa e se si fossero graffiate tanto peggio, almeno se la sarebbero sbrigata una volta per sempre. Aveva accompagnato queste riflessioni, che precedettero la telefonata del giorno prima, con abbondanti sorsate di brandy, alle quali recentemente ricorreva o per squilibrare allegramente il senso della sua solitudine o, come in questo caso, per prendere storiche decisioni. "Come sta Antonio?" "Sta bene, grazie." In attesa del caff proseguirono con qualche domanda oziosa sui bambini, e con qualche commento sul caldo. Paolo non venne invece mai nominato.

Poi Anna disse: "Allora tu sai di me e Antonio Storia vecchia, naturalmente, altrimenti non saremmo qui a parlarne, vero? Eravamo due ragazzini. Non sapevamo nemmeno quello che facevamo." "No, Antonio lo sapeva benissimo, sono sicura." "S, Antonio sa sempre tutto benissimo." Anna si sfil gli occhiali e strizz gli occhi, inondati dal riverbero del sole ancora alto del tardo pomeriggio. "Allora visto che cos c' poco da aggiungere, mi pare", disse Luisa. "Storia vecchia": voleva crederle, voleva alzarsi e andarsene. Paolo si era sbagliato: Antonio era innocente. "Evidentemente", conferm Anna, sorridendo al cameriere che portava i caff. Luisa cerc una via d'uscita alla sua inquietudine: doveva lasciare stare Antonio (i particolari che avrebbe potuto rivelarle ora Anna non le importavano affatto) e cercare di metterla in difficolt. "Il tuo problema", le disse, "non Antonio, o mi sbaglio?" Anna inforc nuovamente gli occhiali. "E quale sarebbe il mio problema?" Apr la borsa e si accese una sigaretta. Erano l per parlare di Antonio, di lei e Antonio, che c'entravano ora i suoi problemi? Visto che Luisa taceva decise di continuare di testa sua. "Glielo dirai ad Antonio che ci siamo viste?" Luisa spost lo sguardo da Anna al panorama della citt ai loro piedi, un manto verde, da Monte Mario alla valle del Tevere, avvolto nella foschia. Non riusciva a trovare un punto di stabilit, un perno al quale aggrapparsi saldamente e condurre la conversazione dove sarebbe stato meglio per lei. "Non lo so ancora", disse. "Come lo hai saputo?" "Non ti preoccupare di questo." "Te lo ha detto lui? Dimmi solo questo." Anna le sorrise per condividere una complicit. "No." "E allora?" "Non difficile. E' una storia con pochi personaggi." "Tua suocera!" "Mia suocera! E' anche la tua, in un certo modo" Anna alz le sopracciglia, divertita da questa osservazione. "Visto che hai poco tempo, dimmi" continu Luisa. "Se finita?" Si guardarono per qualche lunghissimo secondo negli occhi, Anna con la bocca semiaperta, languida, appoggiata a quel mezzo sorriso che faceva innamorare gli uomini. Prosegu: "S, per sempre." "Da come lo dici sembra che vi siate visti di recente." Fece uno sforzo tremendo per non ridursi con un filo di voce spezzata. Anna sorrise ancora: ""Visti" in che senso?" Luisa non era una donna abituata alla malizia: "Visti da quando sei venuta a stare a Roma." "S, ci siamovisti , se questo che vuoi sapere. Ma non puoi partire dalla fine. Come fai a capire?" "Posso provarci." "Senza credermi." "Questo dipende." "Da chi, da me?" "Da quello che mi dici. Mi hai cercata tu. Se sono venuta a sentire quello che avevi da dirmi perch voglio crederti. Se mi dici che finita ti credo." "Per non ti basta. Per esempio vuoi sapere se ci siamo visti." Aveva ragione. Anna fin il suo caff. "Cos non ne sapevi niente." "Lo so da pochissimo." Luisa non immaginava che Anna fosse cos sfrontata, e si trovava, anche contro la sua volont, a rispondere, inerte, alle sue domande. "Antonio non ti ha mai detto niente?" "Antonio troppo buono." Dicendo cos le parve di sferrare finalmente un attacco un po' pi deciso, ma era Anna ad avere preso il vento migliore, e sapeva parare i colpi: "Antonio non buono affatto. E' uno che pensa agli

affari suoi, tale e quale a suo fratello." Luisa non seppe approfittare della possibilit che Anna involontariamente le aveva concesso di spostare il tiro su Paolo, e rispose, invece, risentita: "Ti sbagli, non lo conosci per niente. Mi offri una sigaretta?" Non fumava da prima di rimanere incinta dei gemelli. Anna gliela porse, gliela accese e le avvicin il portacenere di plastica Punt e Mes. Disse: "E' una storia complicata." Guard altrove. Luisa disse: "Non voglio mica che me la racconti." Fu un altro passo falso. Anna la incalz: "Allora si pu sapere perch mi hai cercata? Per vedere da vicino come sono fatta? Volevi sentire che profumo mi metto? Acqua di rose, come mia madre! Ora sei contenta? Puoi tornare a casa pi tranquilla? Se voglio ti dico tutto, e non lo so se meglio o peggio." Con la voce schiacciata dal cuore, tanto per non darle l'idea di essere stata sopraffatta, Luisa le chiese: "Per chi?" Era una domanda a cui avrebbe potuto anche non rispondere. Invece Anna disse, implacabile: "Per chi? Per me? Io non ho debiti con nessuno. E nemmeno avanzo niente." "Io nemmeno." "Perch mi hai cercata allora? Avevi qualche cosa da dirmi? Mi volevi fare una scenata? Liberissima. Io qua sto." "Non lo so. Nessuna scenata." "Antonio scommetto che non mi ha nemmeno mai nominata. Che sforzo inutile! Tanto dice e tanto fa che alla fine tutto succede al contrario di come l'aveva pensata lui." "In genere molto previdente. Solo che come tutti da solo non ottiene niente. Tutto qua." "Tu sai troppo poco di tuo marito!" Anna rise, senza cattiveria, sollevata da una tensione che solo in quell'istante si accorse essere eccessiva, e che per la faceva stare eccezionalmente a suo agio. Tutto quello che si svolgeva attorno a lei (altri clienti, camerieri, panorama, luce del sole, Luisa) riacquistava ora consistenza dopo aver perso per tutti quei minuti tono e colore. Non era esistita che lei soltanto. Ora tornava a respirare in modo regolare, e trov una posizione comoda sulla sedia. Le era piaciuto dire "tuo marito" invece di "Antonio". Si sentiva davvero in pace con se stessa. Luisa cap che se avessero continuato ancora a lungo ne sarebbe uscita distrutta. Fiss Anna impietrita. Aveva fumato ben poco di quella sigaretta dal gusto troppo amaro quando la accartocci nel posacenere. Comprese che il racconto di Paolo l'aveva messa di fronte a un quadro troppo parziale, privo di quella coerenza che a prima vista aveva accettato di attribuirgli per un inganno del cuore. Cosa sapeva lei di Antonio? Sapeva che un giorno salut Anna nel salotto di casa di lei, stropicciando fra le mani una telegramma e una falsa promessa. Sapeva che approfittando di un corso di aggiornamento a Milano ebbe l'occasione di rivederla e di frequentarla, tanto che decisero di tornare insieme a Palermo. Poi nulla, fino al giorno in cui Paolo fece irruzione in un bar dove guardavano la televisione e gliela port via, lasciandolo solo, fino all'appuntamento col destino, sul treno Roma-Firenze, in un giorno freddo, e la fretta di rincontrarsi, la fiducia incondizionata, le fughe dal trasmettitore, il matrimonio, i gemelli, e un Natale a casa dei vecchi genitori, vederlo stranamente appartarsi con la cognata, e ritornare con il nodo della cravatta allentato, nervoso come non lo aveva mai visto e lei, Anna, la bellissima, la malinconica Anna, nella penombra di quel salotto, lontana da tutti come una principessa in esilio, sfiorire nel pallore delle luci intermittenti dell'albero di Natale. "Se vuoi, se ti va, una volta ci possiamo vedere con pi calma." Anna non riusc a reprimere un sorrisetto: " perch credi che potrei fare una cosa simile?" "Non lo so. Io al tuo posto non lo farei." "Per pensavi chiss io cosa sarei in grado di dirti! Mi credi cos perfida?" "Io volevo solo sapere come stavano le cose ora, mi pare un mio diritto."

"Mi credi capace di dire cose del tipo che Antonio ha amato solo me? Mi ritieni capace di dire cose del genere? Oppure che ti ho cercata per liberarmi la coscienza? C' il prete per quello, e io manco da lui vado." "Io non pensavo niente. Hai un bel modo di rovesciare le cose." "Parla con lui. Vediamo cosa ha lui il coraggio di dirti." "Sono affari nostri." "Vuoi sapere quando finita? Un mese fa. Il due di giugno, sotto il diluvio. Degno di lui. Non so proprio perch sto qui a parlare con te di questo." "Hai ragione, sono fatti che non mi riguardano." Questo sforzo tardivo di ricorrere alla ragionevole amarezza dell'ironia non le imped di dichiarare la sua sconfitta. L'estrema rivelazione di Anna l'aveva distrutta. "Scusami", disse alla fine, esausta. Aveva ascoltato abbastanza. Anna si comport con signorilit: "Figurati. Ho pensato fosse mio dovere." Da quanto tempo non si sentiva cos bene? capitolo diciassette

Paolo misur allungando il passo l'ampiezza della sua nuova stanza, negli uffici di via Teulada. Tre metri di profondit, quattro di lunghezza. Due scrivanie, poste l'una di fronte all'altra, e una lavagna, come a scuola. Dava sul cortile interno, ma era abbastanza luminosa, almeno il pomeriggio. Sembrava che finalmente gli avessero trovato una collocazione definitiva. Era a Roma da circa un mese e tutti i contatti con i superiori si risolvevano in consigli come "Finisciti le ferie arretrate" "Trovati intanto una buona sistemazione". Attese circa un'ora, dopo di che fece irruzione nella stanza un manipolo di scalmanati furibondi per chiss quale grave scorrettezza commessa ai danni della loro squadra da parte dell'arbitro, l'ultima domenica di campionato. Uno di questi era il suo caposervizio, un uomo di una certa et, con pochi capelli, vestito con un'elegante giacca inglese a quadretti. Una faccia gi vista in televisione. Gli chiese chi era e a quale servizio era stato assegnato. "Nessuno m'ha detto ancora niente." "A Milano di cosa ti occupavi?" Paolo e il caposervizio d'improvviso rimasero soli: la discussione prosegu in corridoio. Paolo gli rispose cercando di usare il minor numero di parole possibile, per non annoiarlo. Si rendeva conto, mentre lo diceva, dello squallore della sua vita professionale. "Questo da quando?" gli domand il caposervizio. "Da sempre, praticamente." "Hai letto sempre agenzie e rotocalchi?" "S." "Servizi?" "Uno, all'inizio." "L'intervista alla mucca" Paolo sorrise compiaciuto. Ma non era il caso. Il caposervizio fece per allontanarsi. "Comunista" "No, insomma non pi." "Sei proprio il tipo per la D.I.D.R. Mah, speriamo bene." Se ne and, lasciandolo sospeso sulle domande che avrebbe voluto fargli. Dopo pochi minuti squill il telefono. Cercavano proprio lui. Gli dissero un indirizzo, e la strada pi semplice per arrivarvi. Paolo da molto tempo non si stupiva pi di nulla. Quando, nel marzo di quell'anno, il 1964, aveva ricevuto la lettera di trasferimento, si era chiesto se doveva considerarla una punizione, un premio, o un modo qualunque per essere levato di torno, data la scarsa simpatia che suscitava in almeno tre quarti della redazione a causa dell'inattesa recente

promozione a inviato ottenuta nonostante le continue assenze a cui lo costringeva la sua attivit nella Struttura (viaggi di addestramento in posti isolati e battuti da venti poderosi dove arrivava a bordo di aerei con i finestrini oscurati; presa di contatto con strutture periferiche; incontri di reclutamento; piccole operazioni di sabotaggio di manifestazioni sindacali); ma soprattutto a causa della mai sconfessata militanza nel partito comunista. In realt le disposizioni che gli erano state date al riguardo, e alle quali si era scrupolosamente attenuto, erano di sganciarsi progressivamente dall'impegno politico: doveva frequentare meno la sezione, avviare meno discussioni con i colleghi, poteva vestirsi come meglio credeva. Insomma, doveva esprimere disagio e disillusione, manifestando un crescente interesse per l'evoluzione "democratica" del partito socialista, che dopo innumerevoli tentativi e abboccamenti e crisi di governo alla fine dell'anno precedente era finalmente entrato a far parte della maggioranza. Ma per gli invidiosi questi erano distinguo puramente accademici, che non cambiavano la sostanza delle cose. Lasciare la sezione Gramsci non fu cos facile. Le discussioni con Davide e con Fausta ormai erano diventate qualcosa che andava molto al di l della sua attivit di spionaggio, e della politica in senso stretto. Lo chiamavano "bastian contrario", perch insisteva nel non condividere lo sforzo che il partito faceva per cambiare maggioranza senza prima, diceva Paolo, "cambiare la testa alla gente". Che importava se alle ultime elezioni loro avevano preso un milione di voti in pi? Intanto i socialisti erano andati al governo. "Lo dici come se fosse un premio", gli disse Fausta, "a me piange il cuore!" Davide aveva una sua teoria: "Bisogna saper aspettare: per ora votano loro perch non possono votare noi. E' chiaro, no?" Il suo progressivo distacco dal partito per fortuna non provoc nei suoi compagni nessun sospetto e nessuna ostilit, ma solo un sincero dispiacere. Paolo aveva scoperto che quella gente lo rispettava e aveva stima di lui. Anche se erano ormai alcuni mesi che non la frequentava pi pens che fosse giusto andare in sezione a dare la notizia del trasferimento: Fausta lo abbracci fraternamente. Davide gli strinse vigorosamente la mano dicendogli "mi raccomando, renditi utile anche laggi. Ce n' lavoro da fare." Vennero a salutarlo anche quelli con cui in quattro anni non aveva scambiato mai una parola, o un semplice saluto. Questa formidabile rapidit nel convocarlo per consegnargli le istruzioni serv a eliminare ogni dubbio. Il suo lavoro di giornalista, le esigenze della redazione romana del telegiornale, la promozione o le antipatie non c'entravano. Lasci la macchina in piazza Fiume e si avvi a piedi in via XX settembre. Trov il numero civico. Ai vetri di una finestra del piano rialzato era applicata una scritta di plastica: "Contabilit". Le tende erano appena accostate, si intravedeva un ufficio spoglio, illuminato da una luce molto chiara e bassa. Sal la breve rampa di scale che portava al mezzanino e buss. Venne ad aprirgli una giovane segretaria bionda, con un tailleur scuro e una penna in mano. Percorsero in silenzio un corridoio buio. Nell'ultima stanza lo aspettava un uomo molto alto, con i capelli tagliati senza tanti sofismi estetici tanto da far rilucere la peluria sottile del collo fino all'attaccatura delle orecchie. Si strinsero la mano. Fu tutto cos rapido che non lo fece neanche accomodare. "Ti devi procurare una cartina dettagliata delle sedi della RAI: direzione generale, radio, e televisione. Capito bene?" "E come faccio?" "Arrangiati." L'uomo si accese una pipa che custodiva in un cassetto del tavolo. "Non conosco ancora nessuno." "Non vero." "Ma le assicuro" "Me l'avevano detto che sei testardo!" "Ci sarebbe mio fratello" "Appunto." "Lui lo vorrei lasciare fuori." "Fa' un po' come ti pare: ci sar un ufficio degli Affari Generali, o una cosa simile. Vedi tu. Se serve vai pure al catasto, per ci serve sapere ogni

dettaglio." "E dopo che le ho trovate?" "Non ti preoccupare di questo. Hai due settimane. Saremo noi a cercarti. Il tuo compito poi sar di mantenere i rapporti con quelli di Milano. Mi sono spiegato bene?" Pens a quello che sarebbe successo se avesse risposto di no. Trovare le mappe fu abbastanza facile. Non fu nemmeno necessario coinvolgere Antonio. Si presentava annunciando temerariamente "sono della D.I.D.R.", quando ancora non sapeva nemmeno cosa fosse. Diceva di dover realizzare un servizio su come funziona l'azienda. N agli studi di via Teulada n alla Direzione Generale in via del Babuino ebbe problemi: trovarono sensata la richiesta; e anche se una cosa del genere era gi stata mandata in onda qualche tempo prima, a nessuno venne in mente di contraddirlo. Si stavano avvicinando le elezioni delle rappresentanze sindacali e Paolo, che per informarsi sugli orientamenti politici dei colleghi non era davvero secondo a nessuno, per sdebitarsi del fastidio prometteva a tutti il suo voto e un po' di propaganda. Le uniche difficolt le trov in via Asiago, al palazzo della radio: il dirigente cui fu indirizzato era una vecchia conoscenza di Milano, che per nessuna ragione al mondo gli avrebbe fatto un favore. Fu allora che gli venne in mente Roberto N. Almeno lui non gli avrebbe dovuto portare rancore. Sempre che non fosse venuto a conoscenza che quella storia della lista nera era tutta una balla. Erano pi di quattro anni che non si vedevano. All'inizio s'erano scambiata qualche telefonata, poi era calato il gelo della reciproca indifferenza. Roberto aveva finalmente fatto la carriera che aveva sempre sognato. Attualmente era caposervizio. La sua ambizione, gli confess, era quella di leggere le notizie di politica interna ed estera nel telegiornale della sera. Il fatto di lavorare al Giornale Radio non era un problema, disse, minimizzando le perplessit di Paolo, "perch quello che conta sono altre cose". Aveva anche partecipato a un corso di dizione (insieme alle annunciatrici Orsomando ed Emma Danieli, disse facendosi rosso). Ma soprattutto si era iscritto al partito socialdemocratico. Gli era costato molto, perch si poteva dire quello che si voleva "ma se non vuoi avere problemi, ad andare con la DC non sbagli sicuro. C'era un problema di quote", gli spieg con quella sua immutata aria di dolce sussiego trasognato, "dove lavoro io i posti democristiani erano tutti coperti: non avrei avuto scampo." "Cos sei diventato di sinistra?!" "No! Te sei uno che l'ha presa troppo sul serio la politica. E poi che hai capito? Ho detto socialdemocratico." "Come finir col governo?" "Siete solo voi a fare baccano. Tutti questi scioperi non servono a niente. Scioperare non mai servito a niente. Le cose vanno magnificamente. Almeno speriamo." ""Voi" chi, scusa?" "Come chi? Voi i comunisti!" "Ti devi aggiornare: non sono pi iscritto al PCI." "Ma" "E la penso proprio come te." "Questa non me l'aspettavo." "Ho votato socialista. Sono per il centrosinistra." "Quindi siamo alleati!" Sorrise, ma un velo oscur quella euforia passeggera. "Per dovresti andare un po' a dirlo in giro. Sai che si sente dire? E' arrivato il comunista di Milano." "Si dice cos?" Strano: sent che gli faceva piacere. "Ma vero che qui a Roma i comunisti contano qualcosa al telegiornale?". "Per quanto ne so al massimo si accontentano di piazzare qualcuno dei loro tra gli uscieri, o tra i cineoperatori, o fra i montatori. Hai mai visto una brutta inquadratura di Togliatti? Lo hai mai visto preso di spalle quando parla? Questo tutto il comunismo del telegiornale. Ma i testi dei servizi? In sincronizzazione non arriva virgola che non sia stata approvata dal caporedattore centrale, indovina di quale partito Qui alla radio uguale.

Quelli abbaiano perch vorrebbero un pezzo della torta." "Ma Montanelli sul Corriere" "Puoi stare tranquillo: eroi, qui dentro, non ne conosco. A parte te, ovviamente!" "Ma vero che alcuni qui a Roma girano stipendi da favola?" "Non lo devi chiedere a me! Io cerco di farmi i fatti miei." "Mezzo milione al mese" "Anche di pi, dicono, ma non proprio di stipendio. E non tutti. Se fai la cronaca difficile, quasi impossibile. Stando al politico se guadagni tanto sono mazzette, pericoloso. Ad arricchirsi in modo pulito sono quelli dell'economia, almeno questo quello che si sente in giro" "E come fanno?" "Io ti dico quello che mi hanno riferito se devi fare un servizio su un certo prodotto ne nomini uno al posto di un altro e cos via. Poi ti invitano a pranzo, poi a una festa, poi ti fanno un'offerta, che tu accetti con molta riluttanza, e la volta dopo dirai tutto il contrario Ma acqua in bocca Non mettermi nei guai!" "Ci mancherebbe!" Paolo sorrise senza riflettere a quello che gli aveva detto. Non gli importava niente, in verit. Se l'era sempre immaginato. Gli chiese notizie della moglie. Si era licenziata. Avevano avuto altri due bambini, cos erano arrivati a quattro. "E tu?" gli domand. "No, niente bambini. Ti posso chiedere un favore? Vorrei proporre un servizio sulla televisione e sulla radio: come funziona eccetera." "Interessante." "Mi serve una mappa degli studi radiofonici, cos da potermi orientare. Aggiornata, per." Roberto N. non ebbe nulla in contrario. "Ma non devi andare da Galeotti, e soprattutto non devi fare il mio nome. D che serve a quelli della D.I.D.R. A proposito: che cos' la D.I.D.R.?" "Come, ci stai dentro e non lo sai? Dibattiti Inchieste Documentari Rubriche. Deluso? Che t'aspettavi, il Telegiornale della Sera?" Rise di gusto, con quel suo modo rarefatto di esserci che sconfinava nel non esserci. "Per lo meno il Secondo Programma" disse Paolo, e aggiunse: "Ma che ha che non va la D.I.D.R.?" "Servizi Speciali: puoi star l dieci anni senza che ti facciano fare assolutamente niente." Paolo si illumin: "Sembra che l'hanno inventata apposta per me!" Una settimana dopo aveva in mano tutto quello che gli serviva. Per Roberto N. fu l'occasione per invitarlo a cena. Ad uscirne a pezzi fu Anna: quei due proprio non li reggeva. Ora poi che avevano quattro figli sembrava che provassero un piacere particolare e perverso nell'ostentare la loro pretesa di ritenersi la migliore, la pi assortita, divertente, ineguagliabile famiglia del mondo. La conversazione fu generica e noiosa. "Avete trovato un bell'appartamento?" "Discreto." "Dove?" "Ai Parioli." "Di propriet?" "In affitto." "Anche noi, i primi tempi, ma ci siamo trovati malissimo col padrone di casa. Allora ci siamo decisi a comprare." "Complimenti." "Le piace Roma?" Anna rifer la sua impressione, che a Roma le principali occupazioni fossero distribuire nelle case damigiane di vino e cassette di acqua minerale, oppure stare a casa a riceverle. Poi ci sono anche quelli che si spostano da un negozio all'altro con un pezzo di pizza bianca in mano: "Ma che lavoro fanno?". La moglie di Roberto N. non capiva quel genere di amarezza, di incompatibilit fra una persona e una citt che Anna viveva con la stessa ansia fastidiosa e inconcludente provocata ad esempio da una smagliatura sulla pelle. L'otto maggio, allo scadere delle due settimane che gli erano state concesse, Paolo and all'appuntamento che gli era stato fissato da Rosati, in piazza del Popolo, alle cinque del pomeriggio: a pochi passi dalla Direzione Generale dell'Azienda. Gli parve una leggerezza imperdonabile: qualcuno avrebbe potuto riconoscerlo. Si sedette al tavolino, ostentando, secondo l'accordo, una copia della Notte di Milano del giorno precedente, dentro la quale aveva infilato la busta con le

piantine. Il cielo, velato e tiepido fin dalla mattina, si stava ispessendo di nuvole grigie. Aveva freddo, e ordin un t. Puntuale all'ora concordata una giovane donna dagli occhi verdi e i capelli biondi gli si sedette al fianco. Profumava dei fiori di quell'inizio di primavera. Indossava un impermeabile bianco, annodato in vita alla Humphrey Bogart. Si lev gli occhiali scuri e gli sorrise. Lui trov naturale baciarla su una guancia. Lei non si sottrasse, e avvi una brillante conversazione: una vera professionista. Depose sul tavolino una grande busta bianca, anonima, che teneva disinvoltamente in mano: non portava la borsa. Rimasero ancora un po' a parlare del pi e del meno: la trov bellissima. Giunse il cameriere, lei non volle niente. Pochi istanti dopo, come aveva temuto, da via del Babuino Paolo vide arrivare una faccia conosciuta, l'ultima fra quelle che avrebbe voluto vedersi passare davanti. Riusc a dire, senza scomporsi: "Stia zitta, non dica una parola." Era Antonio, che con qualche imbarazzata cautela gli si stava avvicinando. Paolo spacci la donna per un'attrice austriaca: "Sto facendo un'intervista." Antonio rimase immobile, senza dire niente. Azzard un baciamano. Disse, senza assolutamente manifestare la maliziosa intenzione di smentire il fratello: "Piacere, contessa." Paolo lo guard sbalordito, ma Antonio, rientrando in se stesso, reduce da un breve esilio, non gli lasci il tempo di organizzare una domanda. "Quando vieni a trovarci? Luisa e i bambini sarebbero contenti." "Appena possibile. Mi sto ambientando." "Anna?" Paolo scambi un'occhiata con la donna. "Sta bene, grazie. Le porter i tuoi saluti." Antonio guard l'orologio, poi il cielo. "Mi dovete scusare. Ho un impegno. Non vorrei fare tardi. Di nuovo i miei rispetti." Quando se ne fu andato, Paolo assal la donna: "Vi conoscete?" "Mai visto prima." "Perch l'ha chiamata "contessa"?" "Mi avr vista alla televisione, o su qualche rotocalco, sa" " Lei veramente una contessa?" "Ho sposato un conte." Abbass lo sguardo, come per coprire una colpa. Paolo lasci le monete della mancia sul tavolino e si diressero verso il parcheggio intorno all'obelisco. Era furioso. La contessa aveva preso il giornale di Paolo e se lo era messo sottobraccio infilando le mani nelle tasche dell'impermeabile: ci mancava solo che fumasse una sigaretta sensualmente infilata in un lungo bocchino e indossasse un cappello da uomo. Paolo mise la busta bianca dentro la sua cartella di cuoio. "Questa a Roma la chiamate professionalit? Che avr pensato?" "E a lei che le salta in mente di dirgli che ero un'attrice austriaca? Che deve aver pensato? Che sono la sua amante." "Lei non sa quello che dice." "Credo che le ci vorr un po' per convincerlo che si sbaglia." "Le chiamo un taxi." "Ho la macchina." Senza salutarlo si diresse verso una Jaguar parcheggiata non lontano dalla Giulietta nera di Paolo. Quando fu sul treno, finalmente rilassato, apr la busta: all'interno ce n'erano altre due, di cui una, delle stesse dimensioni della prima, era chiusa con la ceralacca; l'altra, pi piccola, l'aveva aperta in macchina: conteneva le istruzioni. Veramente non c'era scritto molto, solo il nome di un albergo di Milano e il biglietto ferroviario di andata e ritorno. Nient'altro. In quel momento entr un passeggero, e sebbene lo scompartimento fosse vuoto gli si accomod proprio accanto. Paolo ripose la busta e fece per abbassare il finestrino. Il suo compagno di viaggio si oppose con una certa durezza. Allora Paolo si accese una sigaretta, e serr le palpebre cos forte da augurarsi che l'effetto si trasmettesse anche alle orecchie. Desiderava restare solo, e in silenzio. Quell'albergo gli dava la sensazione di trovarsi in una citt sconosciuta: e non

erano neppure due mesi che mancava da Milano. Non aveva voglia di uscire, nemmeno di mangiare. Si fece portare in camera dei panini e una bottiglia di un "vino qualunque". Dorm pesantemente senza sognare. A sera scese nell'atrio: s'era formato un piccolo capannello di gente attenta davanti al televisore a guardare "Milano cantata", con Giorgio Gaber. Sentiva mugolii di assenso e di compiacimento. Dopo avrebbe dovuto seguire un'inchiesta sulle campagne spopolate da contadini alla ricerca di un'occupazione sicura al nord. Ma l'annunciatrice, scusandosi per l'imprevisto, ne annunci la sostituzione con un documentario sulla vita dei leoni della foresta. Deluso e con qualche sospetto risal in stanza: pens che dovevano entrarci qualcosa le elezioni del giorno dopo in Friuli. La domenica rimase sdraiato sul letto per delle ore, fumando e ascoltando le partite alla radio. Cominciava a preoccuparsi: l'indomani doveva essere in redazione, cosa si credevano? Non era il modo migliore per farsi conoscere. Le elezioni occuparono il primo posto nel telegiornale della sera: si videro sfilare alle urne il vescovo, il sindaco, un campione sportivo, una ottuagenaria e per finire un poliziotto. Paolo storse la bocca, sbuffando. Si guard intorno in cerca di complicit, ma si rese conto che la gente non aveva alcun motivo per mettere in discussione quanto veniva trasmesso dalla scatola prodigiosa. Verso le dieci qualcuno al telefono gli disse che per il lavoro non doveva preoccuparsi, c'era chi avrebbe pensato a tutto. Per il momento non c'era altro. Il luned si svegli tardi. Si affacci sul corridoio: c'era odore di cappuccino e di letti sfatti. Sent della musica da una radio. Rientr nella camera e stette a lungo sotto la doccia. Sent le voci e i tamburi di una manifestazione sindacale: parlandogli attraverso la porta, la cameriera venuta a rifare la camera si scus dicendo che ce n'era una alla settimana. Quando usc dalla doccia rimase a lungo fermo davanti allo specchio, cercando di decifrare la propria immagine al di l del vetro appannato. Tracci con un dito il contorno del suo volto, quindi con un lembo dell'accappatoio ripul accuratamente la parte interna dell'ovale. Si stup nel notare che l'immagine riflessa non si riproduce affatto mantenendo le dimensioni naturali, ma quasi dimezzata. Ancora nudo torn a sdraiarsi sul letto. Osserv i vapori che fuoriuscivano dalla porta del bagno dirigersi spediti verso una precisa direzione, come un corteo di turisti di passaggio in una stanza poco interessante di un museo. Quando guard l'orologio erano quasi le undici. Decise di uscire. Era ancora intorpidito dal lungo sonno intermittente. I suoi passi lo condussero lontano dalla sua volont: quando prese coscienza di dove si trovava era gi a piazza Cavour, davanti la sede del suo vecchio giornale, al cui ingresso stette immobile per alcuni minuti in attesa di vedere uscire qualche faccia conosciuta. Alla fine si decise a entrare. In portineria non si ricordarono di lui, tuttavia riusc a raccogliere alcune informazioni: venne a sapere che la Dueminuti si era sposata con Righi, diventato nel frattempo inviato speciale, anche se non andava mai da nessuna parte; che il Capocronista era morto da un paio d'anni, o poco pi, e che il suo posto era stato preso da Ferrante. Sal su un tram, direzione Porta Ticinese, e quasi senza accorgersene si ritrov in via Torricelli, dove non era pi stato da quando una sera di qualche secolo prima aveva trovato il cadavere di una prostituta annegato nel sangue di un suicidio nel quale anche lui aveva avuto una parte, non essendo riuscito a fare niente per impedirlo. Entr nel cortile, e alzando lo sguardo verso il ballatoio al secondo piano, dalla finestra dell'appartamento di Rosa vide uscire un uomo, sospettoso e troppo elegante per esserne l'inquilino. Chiuse gli occhi, perch vide anche un fiore di carta legato alla ringhiera con un fil di ferro. Non poteva pi fermarsi. Non si accorse nemmeno di aver chiamato un taxi e avergli dato un indirizzo che era un soffio al cuore, un'aritmia congenita che saltuariamente torna a far sentire la sua presenza. Viale Zara: e fu subito notte, su una vettura del tram, un ritorno a casa, fischiare tre volte, ma non sent la propria voce. Era buio, in una sera di prima estate, sotto i tigli, Anna con un vestito stretto e le braccia pallide, le scarpe basse, sta fumando una sigaretta aspettando che arrivi il sonno, parlando di progetti, forse di

bambini. Si pu davvero essere uno straniero in una citt: non nello spazio, ma nel tempo. A pomeriggio inoltrato fece ritorno in albergo. Dovette dormire qualche ora. Era di nuovo buio. Prese dal tavolino che aveva di fronte la busta bianca grande, quella sigillata con la ceralacca. La orient contro la luce della lampada, cercando di vederne il contenuto. Alz il telefono e ordin una bottiglia di vino. Due ore pi tardi aveva finito la bottiglia e aperto la busta. Barcoll verso lo specchio del bagno, inscrivendo il proprio volto nella traccia del segno che era rimasto sul vetro. Mostr a se stesso quello che stava facendo: estrasse dalla busta una fascicolo dalla copertina azzurra. Lo apr. C'era un elenco di nomi, che scorse rapidamente: cinquantasette nominativi, quasi tutti esponenti del partito comunista. A parte qualche dirigente nazionale ne conosceva tre: due erano vecchi eroi della guerra di Spagna, che a quanto ne sapeva lui dovevano essere gi morti. Il terzo era Davide. In testa alla lista lesse: "enucleandi". Torn a letto e si mise a pensare, ma non troppo a lungo, perch presto si addorment. Verso le undici di sera fu svegliato da una telefonata: "Domattina alle otto alla villa comunale". Vi arriv con un'ora di ritardo. Ad aspettarlo c'erano due tipi con l'aria da generali in pensione. Uno dei due era quel tale che l'aveva convinto a infiltrarsi tra i comunisti. L'altro aveva il naso schiacciato, da pugile, ed era molto pi basso. Gi innervosito per l'attesa, quando si rese conto che la busta era stata aperta quello pi basso tramut l'ira in un sentimento che Paolo non seppe definire: gli sembr che il corpo gli si svuotasse, dapprima raccogliendosi su se stesso per poi defluire da qualche parte, rigenerandosi immediatamente dopo, perfettamente ricostituito in seguito ad un'immersione in una vasca di acque miracolose. "Sei stato tu?" Gli domand. "Per fortuna." "Ma questo qui chi ?" chiese al tipo pi alto. "E' il corriere." Paolo ci rimase male: a questo si riduceva il suo coraggio? I due si fecero da parte. Quello basso volle delle spiegazioni, l'altro cercava di rassicurarlo. A un certo punto, Paolo non ebbe dubbi, dovette fare il nome del cugino della zia Agata, che dopo un periodo di oscuramento era tornato alla ribalta come sottosegretario al Ministero degli Interni. Paolo intanto era andato a sedersi su una panchina, con la busta in mano. Ritornarono da lui. Quello alto coi baffi era chiaramente in difficolt, evidentemente era responsabile del suo operato. Paolo fece come se la conversazione non fosse stata interrotta: "Guardi qua." Apr il fascicolo. L'uomo con i baffi glielo strapp di mano, inorridito. Paolo lo lasci fare e disse: "L dentro ci sono i nomi di gente morta da anni, che volete fare, il giudizio universale?" "Fai poco lo spiritoso, giovanotto. L'enteche le ha fatte sa il fatto suo", disse quello tarchiato. "Forse poteva informarsi meglio." "Non dire idiozie. Ti dovrei denunciare per quello che hai fatto", disse quello alto. "Non ho paura." "Non sai quello che dici." Le voci si accavallavano. "So quello che faccio." L'uomo basso mut all'improvviso atteggiamento e gli chiese quali fossero i nomi che a suo dire non costituivano pi un "pericolo oggettivo". Paolo glieli indic, quello borbott qualcosa, ma non pareva molto convinto. Quando arriv a Davide entrambi lo fissarono con una severit da domatori di leoni: "E questo?" Fece quello pi alto. "Questo cosa?" "E' il segretario della tua sezione: lo conosciamo bene." "E' un tipo inoffensivo." "Su di lui abbiamo quintali di roba", continu. L'altro lo guard incuriosito.

"E' impossibile!" si lament Paolo. "Perch lo difendi?" Domand quello basso. "Non lo sto difendendo! E' solo che" "E' un comunista o no?" "S, ma non farebbe male a una mosca. A che servono tutte quelle schede se tanto poi nemmeno le leggete?" Paolo non osava pi guardarli negli occhi. Il tipo basso gli spieg in un tono che poteva anche essere scambiato per conciliante: "Proprio perch le abbiamo lette. Mi dispiace: evidentemente ti ha fatto fesso. E' vero: io questo tipo qua non l'ho mai sentito nominare. Ma se sta in quell'elenco una ragione ci deve essere. Ma sicuramente non la troveremo nelle schede che hai preparato tu: sono due anni che a Roma le hanno classificate come inattendibili. Qualcun altro ci ha pensato. Qualcuno che forse si fatto coinvolgere meno." "Inattendibili? Che vuol dire? Che intenzioni avete?" L'uomo coi baffi rispose: "E' a te che lo chiediamo. Ribera, di te ci possiamo fidare o no?" "Fidare, certo." Gi il solo fatto che glielo stava domandando e che lui aveva dovuto rispondere accentuava la gravit della sua posizione. L'uomo mise la mano nella tasca interna della giacca e gli consegn un pacchetto di sigarette: "Questi sono gli ordini. Per ora puoi tornare a Roma, ma credo che ci vedremo presto." "Non finir qui", concluse l'altro, quando gi Paolo gli aveva girato le spalle. Nelle settimane successive venne mandato a Milano altre due volte, e in entrambe le occasioni svolse il suo compito senza dare modo a nessuno di avere qualcosa da ridire sul suo conto. Anzi, nel corso della seconda e pi delicata operazione ricevette i complimenti di un pezzo grosso della Struttura, che rilev in lui "attitudini e disciplina al di sopra della media". Ma poi aveva aggiunto: "Strano, non sembri proprio lo stesso Paolo Ribera di cui mi avevano detto". Paolo non era tranquillo. La situazione non era tranquilla. Il partito stava forzando un po' troppo la mano, a suo giudizio. Gli sarebbe piaciuto parlarne con Davide, o con Fausta, ma ragionare con quelli era impossibile. Sul giornale un giorno s e uno no si leggevano appelli per la formazione di una "nuova maggioranza" per andare "oltre il centro-sinistra". Appena leggeva "nuova maggioranza" a Paolo veniva letteralmente il mal di pancia. Erano cinque anni che i comunisti parlavano di "nuova maggioranza", e ancora lui non aveva capito esattamentecon chi volevano farla, e in base a quale principio. Volevano fare la rivoluzione? E poi Anna. Possibile che avesse ripreso a vedersi con Antonio? Durante l'ultima litigata l'aveva accusato di vedersi con un'altra, "una certa contessa". Che cosa poteva risponderle? Sei pazza, hai le allucinazioni, chi ti ha detto una simile idiozia? O doveva impelagarsi in un pasticcio di balle sull'attrice austriaca? Non ci mancava altro. E chi avrebbe potuto dirle di quell'incontro se non Antonio? Dunque si erano visti. Se non gliene aveva parlato significava che aveva buoni motivi. Per qualche giorno si guardarono strano, come due che fingono di non avere segreti ma che per reciproco interesse decidono di riservarsi di giocarsi in una occasione futura la loro carta vincente. Non era tranquillo. Si sentiva sotto osservazione. Si sentiva spiato. Pi di una volta si trov a dover seminare un'automobile che gli era stata alle costole per troppo tempo per essere un caso. Andare a trovare Davide e Fausta sarebbe stato imprudente prima ancora che inutile. Gli operai occupavano le fabbriche e il governo proponeva il blocco dei salari. A leggere i giornali governativi i licenziamenti avrebbero dovuto essere accolti "con allegria e spensieratezza". capitolo diciotto

Il due di giugno fu una giornata di sole e il vento fresco si infilava nelle strade vuote seguendo la traccia di un itinerario preciso. Alle nove e mezza alla televisione cominci la cronaca della parata militare. Per i gemelli, che non ne avevano mai vista una, fu una festa. Alle dieci arriv in tribuna il presidente, e inizi a sfilare la banda dell'esercito: era la prima volta, e forse per l'emozione il direttore sbagli il lancio in aria del bastone sfiorando il clarinettista della prima fila facendogli cadere in terra il cappello: le telecamere faticarono a evitargli l'umiliazione di un'inquadratura. Al passaggio dei bersaglieri i gemelli si misero a imitarli, correndo in giro per casa. Dopo pranzo Antonio disse a Luisa: "Portiamo i bambini al Pincio a vedere i burattini?" "Che bella idea! Solo che" "Non puoi." "Come facevi a saperlo?" "Non lo sapevo infatti. Dalla tua faccia." "Aspetto il figlio dei vicini. Per una ripetizione." "Digli che hai un impegno." "Gliel'ho promesso Andate voi, eh bambini?" I bambini dissero di s. Arrivati a Villa Borghese, spinti dal padre i gemelli si mescolarono, intimiditi ma eccitati, agli altri bambini gi ammassati sotto il teatrino. Antonio, rassicurandoli con un sorriso, si sistem dietro di loro, a una certa distanza, mettendosi a guardare lo spettacolo protetto dalla sua caratteristica paura di farsi coinvolgere. Si volt verso la parte del cielo dove si stavano addensando nuvole violacee di un probabile temporale. Sent la voce alle sue spalle, la voce opaca e matura che aspettava. Anna si avvicinava, ancheggiando, come faceva sempre. Antonio pens, vedendola: "Ora basta, cos non pu pi andare avanti." Era la frase che aveva pensato nel momento in cui le aveva concesso questo appuntamento, la stessa che aveva in mente uscendo di casa; era quello che aveva pensato in macchina, mentre i bambini giocavano per conto loro nel sedile posteriore. Indossava lo stesso vestito blu senza maniche del loro incontro di un mese prima, alla stazione Termini. Stavolta portava anche i guanti bianchi. "Quando sorridi sei bellissima", le aveva detto un pomeriggio di maggio. La donna che gli stava davanti era come non l'avesse mai conosciuta. Forse non si dovrebbe mai giurare a se stessi di cancellare per sempre l'immagine della donna dalla quale si stati respinti, ma coltivarla intatta senza mentirsi. Antonio di fronte ad Anna prov un'attrazione inconcepibile e nuova che gli concedeva di cancellare e riscrivere la storia. Anna non lo aveva mai rifiutato, lui forse non l'aveva mai amata. Sentiva solo un richiamo istintivo, qualcosa che normalmente appartiene al proprio codice morale, un appello all'ordine, a quello che giusto. "Sei abbronzata." "Sono stata in montagna. Un mese fa." "Dove?" "Cortina d'Ampezzo." "Ah!" "Ci sei stato?" "Abbiamo un impianto, l vicino. Con Paolo?" "No, con delle mie amiche di Milano." "Ti sei divertita?" "Divertita!" Qui Anna sorrise per la prima volta. Antonio non pot fare a meno di notare come la pelle che gli era sembrata intatta, soffrisse in realt di sottili smagliature, quando tornava a distendersi dopo un sorriso, attardandosi a ritrovare la sua naturale lucidit, come una lampada al neon quando s'accende. "Torni ora?" "No!" Non aveva bagagli. Furono sfiorati da facchini col cappellino azzurro

scivolato sulla nuca. Si dirigevano molto lentamente verso l'uscita su Piazza dei Cinquecento. Spieg: "Ho accompagnato Paolo. E' andato a Milano per lavoro. Tu?" "Arrivo ora." Non era vero: aveva accompagnato Luisa e i bambini, ma l'aveva fatto con la macchina di servizio e si vergognava di ammetterlo. Era la ragione per la quale era fuggito dal cospetto di suo fratello, poche ore prima, da Rosati in piazza del popolo. Ripens alla contessa e gli venne da ridere, Anna se ne accorse e gliene chiese il motivo. "L'ho incontrato un paio d'ore fa, nemmeno Stava intervistando una persona." Anna non mostr nessun interesse. "Viaggi sempre?" "Ogni tanto." "Qualche volta ci dobbiamo incontrare. I bambini saranno cresciuti." "S." Qui Anna sorrise per la seconda volta, un sorriso profondo come un sospiro. "Quanti anni hanno?" domand. "Quasi quattro." "Non ci siamo pi visti" "Abitiamo lontano. Roma ti piace?" "No. Incontriamoci." "Luisa fuori, con i bambini." "Cosa fa? insegna, mi pare" "Insegna, s. E' molto impegnata. Paolo come sta?" "Bene." "Non lo vediamo mai alla televisione." "La sai una cosa? Noi non ce l'abbiamo neanche la televisione." Sorrise ancora, per la terza volta. "Quando sorridi sei bellissima." Antonio non disse seiancora , non disse seisempre bellissima. Us una sfrontatezza per lui inconsueta, riconoscendosi, proprio mentre lo diceva, la stessa pazzia da cui sarebbe stato ispirato se Anna fosse stata davvero una donna sconosciuta. Prov la stessa repulsione verso se stesso, seguita dalla stessa stupefatta marcia indietro, un uguale rimorso. Il pensiero corse veloce ad ancorarsi sul molo di Luisa e dei gemelli, al sicuro, con le vele strappate, e il ricordo recente della burrasca. Anna abbass la testa. Antonio avrebbe voluto scusarsi, ma prefer che fosse il silenzio a ricucire la ferita. "Hai la macchina?" le domand. "S, ti accompagno." "Non lo dicevo per questo. Veramente. Prendo l'autobus, o il taxi" "Cos vedo dove abiti." "Come vuoi." Attraversarono la citt lentamente. Durante il tragitto Antonio non la guard mai, e se ne compiacque. Parl, poco, con lo sguardo fisso sulle luci posteriori delle macchine che si alternavano davanti a loro, o sui cartelloni delle pubblicit. Sul Muro Torto c'era una coda snervante, per via di un piccolo incidente: uno che andava in bicicletta era stato urtato da una macchina ed era caduto, ma ora stava gi in piedi, e delle ferite sui palmi delle mani e dei pantaloni lacerati sembrava pi vergognarsi che soffrire. Anna procedeva con scioltezza; Antonio detestava stare in automobile senza guidare, gli dava subito allo stomaco. Antonio approfitt del rallentamento per raccontarle della "contessa". "Me lo dici per ingelosirmi?" "No! E poi potrei essermi sbagliato io. Magari era davvero un'attrice austriaca." Anna gli chiese se era bella: "Non la conosci? Sta su tutti i giornali, almeno su quelli che leggete voi donne!" "Hai detto che poteva non essere lei" "E' molto bella." sottoline lui. Via Cola di Rienzo era piena di gente quieta, le luci dei negozi si riflettevano sulle superfici lucide degli ombrelli. Era uno di quegli struggenti venerd pomeriggio di pioggia primaverile che solo a chi vissuto ancora troppo poco a Roma, come Anna, possono passare inosservati. Antonio gi avvertiva, senza comprenderla, la leggerezza e la malinconia della vigilia di un giorno di festa. Sembrava che Anna conoscesse bene le strade. "E' facile orientarsi", spieg.

Arrivarono in albergo verso le sette e mezza, non ci fu bisogno di concordare nessun dettaglio, nemmeno che la stanza l'avrebbe pagata lei. Era un albergo pulito per turisti, in Prati: lui non avrebbe potuto permetterselo senza poi dover giustificare quella spesa a Luisa. Non si dissero nulla, dopo. Era chiaro che tutti e due stavano cercando qualcosa senza trovarla. Ebbero entrambi l'impressione di averlo fatto per compiacere l'altro. In quelle sere di maggio tuttavia Antonio non riusc a distogliere il pensiero da lei. Non aveva mai tradito Luisa: quella era stata la prima volta. La guard, alzando un sopracciglio. I suoi capelli avevano un'acconciatura nuova, arrotolati su se stessi in uno chignon, come andava di moda. Cos era pi alta. Le osserv il collo, la sua leggera peluria scura, profumata. Sprofond in un ricordo: il suo desiderio non era che questo, la memoria che nega la storia, che cancella anni di felicit con Luisa, i bambini, l'onesto lavoro, le soddisfazioni. "Come stai?" le domand. Non si vedevano da una settimana. Antonio pensava che se quel giorno non si fossero incontrati alla stazione non avrebbe mai pensato che potesse ricaderci un'altra volta. Lui non l'amava pi. Ma allora perch sentirsi come se facesse l'amore per la prima volta? Lo stesso imbarazzo infantile, la stessa scoperta del corpo della donna, come sorgente di invenzioni inimmaginabili. La consistenza del seno: molto pi morbido di tutti i sogni; la solidit della carne delle gambe, l'esilit della vita modellata dalle sue mani, forti di un'esperienza immaginata cos a lungo da diventare il suggerimento di una tenerezza che nel momento stesso in cui si va concretizzando si rivela come un tesoro di cui s'ignorava il possesso. Era ancora una ragazza. E cos aveva accettato di rivederla. Motiv a se stesso questa ostinazione nel peccato come un favore che le stava facendo. Fingeva di non ricordare che tutte le sere di quella primavera usciva sul balcone e si metteva a pensare a lei, fumando una Macedonia, la marca che fumavano insieme a Milano un'infinit di anni prima. Anna era diventata cossignorile , cos piena diclasse . Si era unita ai bambini nell'applauso alle bastonate sulla testa di Pulcinella. Lui ferm con uno scatto rapido e violento il movimento delle sue mani e le strinse a s. Lei non oppose alcuna resistenza, docile come un malato. All'anulare destro portava un anello che lui conosceva bene. "Chi te lo ha dato?" Aspett la risposta frugandole negli occhi. "Paolo." "C' scritto il tuo nome dentro?" "L'iniziale." Anna pens che Antonio era geloso e sorrise. Quando lo aveva trovato nella tasca della giacca da mandare in tintoria era stata lei a fare una scenata di gelosia a Paolo, che per aveva avuto gioco facile dicendole: "guarda dentro", e dentro c'era una "A", e lei aveva pianto, aveva abbracciato Paolo anche se quello stesso pomeriggio s'era vista con Antonio per la terza volta, e gli aveva detto piano, in un orecchio "ti amo", ma era solo per vedere che effetto faceva, per eccitarsi, ma Antonio si era tirato indietro come se lo avesse morsicato, dicendole: "non scherzare". Fecero qualche passo indietro per parlare pi liberamente. Antonio guardava fisso in terra, per potersi concentrare meglio. Osservava quell'anello e si sentiva un altro. Non era possibile che l'avesse comprato lui, otto anni prima, vi avesse fatto incidere una "A", Anna, Antonio, Amore Addio; che se lo fosse portato in giro per l'Italia; e infine seppellito di notte sotto tre metri di neve, dopo essersi picchiato con il fratello. In quel momento la cosa che gli appariva pi straordinaria era la pazzia di Paolo: cosa era tornato a fare lass, e perch fare un gesto cos stupido come regalare a lei l'anello di un altro? E chiss cosa doveva aver pensato quando se lo era trovato fra le mani! Che umiliazione Lui gli aveva giurato di averla dimenticata per sempre, lo aveva scongiurato di sposarla. Sembrava che con quel gesto suo fratello avesse voluto dirgli qualcosa, forse mostrargli spudoratamente la sua amarezza. O era una sfida? Oppure una vendetta? Cos'erano

quelle casse (che lui aveva in quegli anni del tutto dimenticato)? In che guai si era cacciato? Quello stesso giorno Paolo era arrivato a Roma da Milano con un aereo che lo aveva sbarcato a Fiumicino poco dopo le undici del mattino. La pista era battuta da un vento umido che si appiccicava alla pelle come una ragnatela. Si sent solo, mentre in taxi percorreva l'autostrada verso Roma, ad una andatura lenta oltre ogni legittima prudenza. Sulla via Cristoforo Colombo, nella corsia opposta, si andava esaurendo, alimentata dagli ultimi ritardatari, la coda delle macchine dirette al mare. La citt si era svuotata e lo sorprese l'assenza di ogni segno di vita: vedeva il colore dei semafori quattro incroci pi in l, e quando vi arrivava aveva la sensazione che qualcosa fosse gi cambiato. Quel vuoto ostinato pareva volesse esprimere un sentimento, ma Paolo non arrivava a chiarire a se stesso quale. Not una donna con il fazzoletto annodato sotto il mento e un paio di occhiali neri alla fermata dell'autobus di piazza dei Navigatori. Normalmente non se ne vedevano di donne cos in giro, pens. Sporgendosi dal finestrino vide grossi aerei sfilare verso via dei Fori Imperiali, con un rombo cupo, per poi proseguire verso la caligine dell'orizzonte, come elefanti dopo il numero al circo. Dopo qualche minuto fu la volta degli elicotteri pesanti, e poi di un altro stormo di aerei marroni e grigi, goffi, cos bassi che quasi si potevano scorgere i piloti scambiarsi le ultime impressioni un attimo prima dell'uscita in scena. Agli incroci i venditori di palloncini si univano ai bambini nel guardare incantati quel passaggio che voleva simulare con quell'andatura marziale un qualcosa di eroico, il ricordo vivo di una vittoria recente. Antonio, Luisa e i bambini in quei momenti, condividendo la stessa eccitazione, facevano la spola fra il televisore, nel salotto, e il balcone, da dove potevano intravedere gli aerei, un attimo prima inquadrati dalle telecamere, guadagnare soddisfatti la via della pista dell'aeroporto. Comparivano all'improvviso fra i tetti dei palazzi come una magia, bassissimi, per poi subito scomparire lontani. Quella staffetta continua fra la televisione e il cielo, che permetteva di valutare facilmente la differenza fra i modellini che apparivano nello schermo e le reali impressionanti dimensioni degli aereoplani, era davvero uno spettacolo: come se la porta che mette in comunicazione il mondo reale con quello della fantasia fosse stata dimenticata aperta. Il telecronista spiegava con sussiego e competenza il passaggio dei vari battaglioni, infervorandosi in particolare al passaggio dei gruppi sportivi e, alla fine, della nuova Brigata Meccanizzata dei Carabinieri, sottolineando a pi riprese l'"eccezionale concorso di pubblico", "l'entusiasmo genuino", i "sentimenti di affetto e di riconoscenza che la gente prova per chi preposto, al prezzo di duri sacrifici personali, alla difesa della nostra sicurezza, della patria" L'appuntamento era in piazza Mastai, in Trastevere, alle due. A quell'ora i varchi di accesso al centro della citt, chiusi e presidiati dai Carabinieri per motivi di sicurezza, avrebbero dovuto essere gi aperti, ma cos stranamente non era. Per passare, Paolo dovette mostrare il tesserino di giornalista, ma la cosa non gli piacque. Si fece lasciare per precauzione dall'altra parte del lungotevere, in via Arenula, di fronte al ministero di Grazia e Giustizia, dove finse di dirigersi, sotto lo sguardo spento, ma allenato a farsi un'opinione, del tassista. Quando questi fu abbastanza lontano attravers il ponte e arriv con un buon passo nel luogo dell'appuntamento. Era in anticipo comunque, e si infil in un bar. Prese un caff freddo, troppo annacquato, e tiepido. Quando usc, l'uomo con il quale doveva incontrarsi era gi fermo nel centro della piazza, sotto il sole. Gli si avvicin. Non si salutarono. Era un uomo di poche parole. Paolo infil le mani nelle tasche della giacca, l'altro continu a fumare. Si sentivano nell'aria profumi di lasagne e di arrosti, rumori di stoviglie. Arriv una camionetta leggera, simile a quelle utilizzate dai Carabinieri in occasione di manifestazioni per garantire l'ordine pubblico. Aveva per una targa civile, e nessun altro segno di riconoscimento sulla carrozzeria.

Presero posto nel vano posteriore e assicurarono il telo con delle fibbie, perch camminando il vento non lo scoperchiasse. Fecero poche decine di metri a bassa velocit, tra i vicoli di Trastevere, illuminati cos nettamente dal sole limpido che le ombre dei palazzi sembravano macchie di inchiostro. Paolo tir fuori dalla tasca della giacca la mappa di Roma del Touring Club, che gli era stata consegnata qualche giorno prima: i nomi delle vie erano scritti cos piccoli che faceva fatica a interpretarli. Erano state tracciate a matita delle linee ortogonali che dividevano la citt in quattro zone pi o meno della stessa estensione. Loro avevano assegnata la zona "C". Si fermarono in via della Paglia. Le indicazioni che gli erano state date non erano precise: di fronte al fioraio non c'era nessuna pasticceria. Quello che guidava si volt, attendendo chiarimenti. Paolo diede un'inutile occhiata alla cartina e gli fece cenno di andare ancora avanti. Da una bottega usc un falegname, con il camice grigio aperto sulla canottiera, chinandosi sotto la saracinesca alzata a met. "Non fermarti!" disse Paolo a mezza voce. Il falegname guard in strada senza interesse, e subito dopo rientr nella penombra della bottega. Paolo disse all'altro uomo: "Mi ha visto!" Quello lo fiss senza rispondergli. Oltrepassarono piazza Santa Maria in Trastevere: dei ragazzini giocavano a pallone davanti alla chiesa e questo contrari Paolo e l'altro uomo, che solidarizzarono con un'occhiata in vista di problemi inattesi. Rifecero il giro dell'isolato, ma stavolta da via della Paglia girarono a sinistra, verso piazza Sant'Egidio: videro la pasticceria. Non c'era traccia del fioraio. L'uomo alla guida si ferm davanti alla pasticceria senza attendere l'ordine di farlo. Paolo apr la cassetta di legno che aveva fra i piedi. Ne tir fuori due mitragliette leggere. Sapevano di olio. Le aveva ingrassate lui stesso, qualche giorno prima, quando era andato a riprenderle vicino al trasmettitore dove erano state seppellite una notte di quattro anni prima. Gli torn in mente il piccolo anello in cui si era imbattuto scavando: decine di pensieri si erano accavallati l'uno sull'altro. Era opera di Antonio, ovvio. Osservandole attentamente aveva stabilito che nessuna cassa era stata manomessa, e questo era l'importante. Gli era sembrata una cosa bizzarra e patetica. Aveva messo l'anello in tasca e non ci aveva pensato pi. Il giorno del suo ultimo viaggio a Milano, Anna l'aveva trovato nella tasca di una giacca da mandare in lavanderia, e per poco, a causa della scenata che ne era seguita, non gli faceva perdere il treno. Un uomo tutto vestito di bianco usc dalla pasticceria e si affacci all'interno della camionetta. Tir lontano la cicca accesa e prese le due mitragliette, una per mano. Paolo pens che si sarebbe potuto sporcare: imprudente. Si guard intorno. Un altro uomo gli si avvicin: indossava una tuta da lavoro (ma non aveva cambiato le scarpe di vernice nera). L'altro uomo gli consegn quattro mitragliette, disponendogliele sugli avambracci. La camionetta si rimise in movimento. Non aveva nemmeno fermato il motore. Ritorn indietro verso piazza San Cosimato, e quindi risal su per il Gianicolo, senza mai forzare l'andatura. Terminarono la consegna all'angolo tra via Garibaldi e Porta San Pancrazio, non lontano dall'ingresso dell'ambasciata sovietica. Scesero, finalmente alleggeriti di quel carico ingombrante, per via dei Quattro Venti, passarono vicino casa di Antonio, in viale Marconi, e raggiunsero via Cristoforo Colombo, in direzione dell'EUR. Il pi era fatto. Ora non gli rimaneva che verificare se nella zona che gli era stata assegnata tutto procedesse nel modo concordato. Giunsero rapidamente al Palazzo dello Sport, lo aggirarono, proseguendo fino all'incrocio con viale dell'Oceano Pacifico, presidiato da una camionetta dei Carabinieri. Risalirono il viale fino al velodromo e poi oltre fino quasi alla via del Mare. Le jeep, discrete come elementi del paesaggio, rassicuranti come motivi ornamentali della festa della repubblica, stazionavano ognuna all'incrocio loro assegnato.

Tutto era in ordine. Tutto procedeva secondo piani di cui Paolo, al di l di questo controllo preventivo dei punti strategici della citt, conosceva solo le linee generali, ma non i dettagli: disarticolare l'organizzazione sovversiva, c'era scritto nell'opuscolo che gli era stato consegnato insieme alla mappa di Roma. Obiettivi da colpire: le sedi del partito comunista e dei giornali di estrema sinistra (di cui sarebbero state distrutte le tipografie), delle associazioni partigiane e dei sindacati. Occupazione di palazzo Chigi (cento uomini) e della Direzione Generale della RAI (cinquanta). E dopo? L'opuscolo questo non lo diceva. Si fece lasciare in piazza Venezia. I blocchi erano stati rimossi; si riattivava lentamente il ritmo della giornata di festa: vide bambini in bicicletta, e giovani sulle lambrette andare all'appuntamento con le fidanzate. Si diresse per via IV novembre, verso il Quirinale. Quando ormai non ci sperava pi si era visto assegnare il servizio sul tradizionale ricevimento annuale offerto dal presidente. Non che si fidassero molto: aveva ricevuto pi consigli di una vergine alla vigilia delle nozze. Non doveva strafare (l'episodio della mucca forse non era stato ancora dimenticato). Doveva limitarsi a prendere delle immagini "significative" per un pezzo di colore da mandare nel telegiornale del Secondo Programma. E soprattutto: niente interviste. Se non se ne era scordata, Anna avrebbe dovuto lasciargli la macchina parcheggiata vicino Piazza Santi Apostoli, con un vestito scuro. Il sole scioglieva l'asfalto sotto le scarpe. Trov la macchina. S'indispett perch Anna l'aveva lasciata aperta. Trov una fontanella e si sciacqu il viso. La festa inizi alle cinque in punto. Il presidente e la sua signora aprirono il corteo che dai saloni del palazzo si trasfer con una certa solennit religiosa nel giardino. Lo percorsero fino al casino di caccia, dal quale, rispettando una geometrica e cavalleresca coreografia, uscirono gli staffieri con i rinfreschi. Paolo dovette constatare che, rispetto alla cena offerta qualche sera prima al corpo diplomatico, erano notevolmente diminuite le bevande alcoliche, a vantaggio di colorati succhi di frutta, e vermut. Tutto considerato era stata una fortuna, pensava Antonio. Quell'anello al dito di Anna era l'ultimo di una catena da cui Antonio si poteva dire finalmente liberato. Gli rendeva tutto pi facile. Non si era realizzato quello che aveva sempre desiderato? In questo modo si chiudeva un capitolo. Nessun conto in sospeso. Con quel gesto assurdo Paolo aveva attratto a s un pezzo della sua vita, come una massa fluida, sciogliendolo per sempre da ogni legame, da ogni responsabilit, da un pronostico sbagliato. "Ci ho pensato", le disse. "Ah s?" Anna non si aspettava pi niente da nessuno. Come al solito era stata lei a decidere per tutti e due, ma non sapeva pi perch l'avesse fatto. Ne aveva abbastanza di Antonio. Forse era solo nostalgia della sua pulizia, del suo ordine. Forse c'entrava la "contessa" ma chiss se era poi vero. Si accese una sigaretta. Certo, che se lui le avesse detto: "lascio la famiglia e vengo con te" Ci aveva anche sperato. Non sarebbe stato pi o meno assurdo di tutto il resto. Antonio continuava a fissare il teatro dei burattini e a tenere sotto controllo l'avanzata del temporale. S'era fatto buio all'improvviso. Cominciarono i tuoni. Il caldo aument. Anna non distolse mai lo sguardo dal teatrino. "Ci vorrebbe proprio, un po' di pioggia", disse lei. "Vedrai che non ce la fa." "Allora?" lo incalz Anna. "Cos non pu andare avanti." "Mi hai pensato in questi giorni?" "Certo che ti ho pensato. Ma non sei pi una bambina. E io nemmeno." Ad Anna parve all'improvviso impossibile che fra tre o quattro ore la vita sarebbe stata come se questa conversazione non fosse mai avvenuta. Caddero le prime gocce, grosse. Tutti i genitori avevano gi cominciato a mettersi in allarme per porre al riparo i propri figli. Un fulmine dovette cadere non molto lontano. Si alz il vento. Il teatrino ondeggi

pericolosamente. I burattinai emersero dal loro mistero del tutto indifferenti alle sorti del loro piccolo pubblico. Gli unici a non muoversi erano Anna e Antonio. "Non hai molto da dirmi, vedo", disse lei. "No, non cos. Lo faccio per te." "Ma per favore!" Antonio aveva proprio perso di vista i gemelli. "I bambini" disse. Si volt verso Anna. Non era molto educato interrompere cos, eppure si sentiva cos sollevato! Lei continuava a restare dov'era, delusa. Si allontan da lei, cercando di farlo delicatamente, eppure era Anna, rimpicciolendosi, a sembrare una nave che prende il largo: una nave straniera, solo di passaggio. "Sta piovendo, va'", la incoraggi. Lei aspir la sigaretta, svogliata, mentre lui continuava a cercare i bambini con lo sguardo. Li vide: al riparo sotto un pino, e corse verso di loro, coprendosi la testa con la giacca. L'acqua ora veniva gi a scrosci irregolari, senza attenuare il caldo. Faceva pi impressione il buio. "No! Non qui!" url Antonio, " pericoloso: pu cadere un fulmine!" I bambini lanciavano gridolini isterici. Li prese per mano e cominciarono a correre, facendo attenzione alle prime pozzanghere che si stavano formando. "Veloci, pi veloci!" e i bambini correvano, docili e reattivi. Antonio sentiva che sarebbe stato bello il ritorno a casa. Anna invece rimase l, immobile, fiera con il suo toupet elegante, alta come una statua, indifferente, sotto la pioggia calda. Forse Antonio si volt un'ultima volta, prima di scomparire dentro la pioggia. Ma di questo non era tanto sicura, per via della distanza. Invoc per s un soffio di vento, una minaccia meno episodica, un tramonto, una mano, un bicchiere di vino, una fine. Un anziano signore le offr un passaggio sotto l'ombrello. "Non si sente bene?" le domand. "No, mi sento benissimo." L'uomo le guard la mano: "Non sposata, vedo" "E' una proposta?" "Non ho pi l'et!" "Non ho l'et" cant Anna. "Venga, si ripari." Al Quirinale gli invitati girovagavano leggiadri fra le siepi di bosso, muovendosi con grazia naturale fra i tavoli e le sedie di vimini, sotto gli ombrelloni, quasi al ritmo dell'orchestra, non sottraendosi alle riprese della cinepresa guidata da Paolo con discrezione: tutti sorridevano distesi, brindando a champagne atteggiandosi in pose galanti. "C' la crisi, ma qui non si avverte", li provocava Paolo in cerca di risposte gustose o polemiche. "No, quale crisi?" "Vogliono fare le riforme" "Ce la far Moro a salvare il governo?" "Lo vada a domandare a Nenni!" "Ma Nenni c'? Non l'abbiamo visto." "Ha provato allaCoffee House ?" "Fra la servit?" "Forse non sar stato invitato", disse uno. "Si vede che non un ospite bene accetto!" sugger un altro. "Come nel governo!" disse Paolo, ma ci furono solo alzate di spalle e sorrisi eloquenti. Uno lo avvicin e gli disse: "La prego, non disturbi questo meraviglioso clima di benevolenza e di concordia." "Scrocca un po' direpertorio ", disse infine Paolo all'operatore, e si allontan da solo, con un bicchiere in mano, ravviandosi con l'altra il ciuffo di capelli. Voleva farsi un'idea, senza la compagnia fastidiosa dei tecnici, della geografia del potere, e interpretare per quanto era possibile gli sviluppi di quella giornata che, a meno di sorprese notturne, sembrava si stesse vigliaccamente sgonfiando. Il presidente non si separ un solo istante da soporifere conversazioni con signore in abiti di pizzo e di chiffon. Dalla sua postazione il comandante dei Carabinieri orientava il suo infallibile monocolo ora verso i suoi attendenti, ora verso i principali uomini politici l convenuti (Paolo ne annot sul taccuino nomi e frequentazioni), con un sorriso

paternalistico e investigativo, sospeso in un'impaziente attesa di sviluppi che non si capiva da chi dovessero dipendere. Generali e candidi ammiragli in alta uniforme, dalle vistose fasce azzurre, si avvicendavano al suo cospetto, sornioni e ineffabili, con la cautela e la destrezza di insetti impegnati in un rituale amoroso. Il presidente invece chiaramente lo evitava. Un ministro e il Governatore della Banca d'Italia, sui quali la stampa sovversiva aveva di recente imbastito una furibonda campagna diffamatoria a proposito di una certa lettera riservata sul blocco salariale (di cui Paolo avrebbe potuto senza difficolt dimostrare l'autenticit essendone entrato in possesso), parlarono a lungo, in un conciliabolo fitto e riservato. Quando all'improvviso il verde degli oleandri e dei salici perse il suo smalto. Il primo fulmine scaric a poca distanza il suo potenziale elettrico, e le cornacchie, o qualcosa di simile, gracchiarono impaurite. Si dovette attendere qualche minuto (durante i quali l'orchestra diede prova di coraggio non smettendo mai di suonare arie dalla Traviata o ardite modulazioni da Tristano e Isotta) prima che il vento sollevasse maliziosamente molte delle gonne delle signore, sottane di cardinali, e facesse volare lontano cappelli e foulard. Gli agenti della sicurezza si misero in allarme, non si poteva mai dire. Il Generale fu circondato da un manipolo di uomini scelti. Uno di loro gli porse il mantello bianco e furono i primi a scomparire, rapiti da un elegante mistero. Paolo fece riprendere parte della scena attraverso il riflesso sugli elmi tirati a lucido dei corazzieri che, immobili, non si lasciarono travolgere dagli eventi. Un vecchio cadde su una pozzanghera, e una dama, che per l'et e l'acconciatura poteva aver fatto benissimo parte di casa Savoia, perse una scarpa, e quando poi la ritrov, l'acqua e la terra bagnata l'avevano ridotta in tali condizioni che non ritenne dignitoso, o forse semplicemente igienico calzarla e perci la tenne in mano, proprio sul palmo, e la osservava, attratta e respinta. Il presidente si voltava a destra e sinistra, premuroso e inconcludente, e Paolo lo sent chiaramente domandare: "Avete visto dov' andato quello l?" e il segretario rispondere: "Stia tranquillo, non solo." Dunque il presidente non era uno stupido, consider Paolo. Qualcuno d'altra parte gli doveva aver riferito delle camionette piazzate a tutti gli ingressi della citt, in ogni angolo nelle vie principali, e che in questa Brigata Meccanizzata c'era un numero di uomini assolutamente sproporzionato rispetto alle altre brigate addestrate al mantenimento dell'ordine pubblico: venti cingolati, cinquanta autoblindo, trentadue mezzi corazzati. Era l'orgoglio del generale l'XI Brigata Meccanizzata, e alla sfilata non ne fece mostrare che un piccolo assaggio. Il grosso se lo era riservato per il giorno quattordici, 150 anniversario dell'Arma. Quella s che sarebbe stata una vera parata militare. Gi erano affluiti a Roma da tutta l'Italia i reparti che vi avrebbero partecipato. Migliaia di uomini e di mezzi: un esercito. Per la prima volta Paolo pens a quanto fosse irreale tutto quello che aveva fatto quel giorno. Tutto lecito in una citt vuota: tanto l'indomani nessuno ti prender sul serio. capitolo diciannove

A causa del temporale e del traffico, quella sera Paolo arriv in via Teulada soltanto verso le sette e mezza, a ridosso della messa in onda. Gli operatori si precipitarono al seminterrato a sviluppare la pellicola. Lui si diresse su per le scale nel suo ufficio, al terzo piano, a scrivere il testo. Si sedette sulla sedia e si lev la giacca. Si accese una Astor. Si alz per aprire i vetri della

finestra. Non gli veniva l'attacco. Non poteva permettersi di sbagliare. Ma pi cercava di concentrarsi, pi una folla di visi, parole, suoni, ricordi, paure gli annebbiava le idee. L'odore caldo della pioggia evaporata entr nella stanza. Dagli altri uffici giungevano grida, avvisi, minacce, che gli impedivano di concentrarsi. Si sedette di nuovo, guard l'orologio. Alz il telefono: "Mi passi il laboratorio di sviluppo e stampa." "Chi con precisione?" "Non lo so qualcuno." "Che cosa le serve?" "Per il telegiornale del Secondo!" "Allora c' ancora tempo." "Tempo? Sono quasi le otto! Comincia alle nove! Pronto Pronto!" Butt gi di getto una prima bozza. Entr, serafico come un testimone di nozze, il suo caposervizio. "Ribera!" Paolo lo salut con qualche impaccio. "Che stai facendo?" Paolo gli mostr i fogli: "Il testo." "Di cosa?" "La festa al Quirinale!" "Ti ci hanno mandato a te?!" "A quanto pare" "Ma te sei nella D.I.D.R. oppure no?" "Me l'hanno detto, io ci sono andato." "Scrivi, scrivi" Il caposervizio usc grattandosi la testa pelata. Le otto e un quarto. Paolo rilesse il pezzo: scialbo, senza nerbo. Come facevano gli altri a scrivere senza vedere le immagini che avrebbero accompagnato le parole? Era impossibile. A meno di non fare una cosa squallida, come quelle che sentiva abitualmente nei telegiornali. Telefon alla saletta di montaggio. Chiese se per caso non fosse arrivato il materiale sulla festa del Quirinale. Nessuno ne sapeva niente. Erano sommersi dal lavoro per l'edizione delle otto e mezza, e che non si azzardasse a richiamare. Mise il foglio in tasca e scese nel seminterrato. Apr diverse porte in cerca della sua pellicola. Fu cacciato prima dalla sala sviluppo, quindi dalla camera oscura, infine dalla sala di essiccazione. Erano le otto e venti. I tecnici avevano appena finito di mandare al controllo video l'ultima stampa e si stavano fumando una sigaretta. "Il mio servizio che fine ha fatto?" Lo guardarono privi di interesse. "Adesso tocca a lui", gli fu detto. Le otto e venticinque. Si apr una porta. Ne usc un uomo con un grembiule nero che spingeva un carrello con delle pizze sopra. "C' anche il Quirinale?" domand Paolo. Quello guard e disse di s. "L'accompagno." Quello alz le spalle. "Dove andiamo?" gli chiese Paolo. "Dove secondo te? A fargli prendere una boccata d'aria!" Presero l'ascensore. Quinto piano, l'ultimo. Il viaggio fu interminabile. L'ascensore si ferm ad ogni piano per caricare tecnici, giornalisti, ballerine, truccatrici, sarte, scenografi, falegnami, musicisti. Quando arrivarono alle moviole erano le otto e trentacinque. Paolo scost l'uomo con il grembiule nero e pilot il carrello verso la prima stanza. Il montatore se ne stava giusto andando: "Io stacco. Vai alla due." La moviola due era l'ultima, dovettero percorrere l'intero corridoio. Il montatore vision per prima cosa tutto il materiale. "Le dico io come fare", gli disse Paolo. "Faccia pure." Il corteo iniziale, il benvenuto di Segni, gli inchini, i baciamano Paolo controllava sul suo foglio l'esattezza dell'ordine logico delle sequenze. Arriv al temporale. Le immagini erano venute un po' scure. Alcune erano state scartate al controllo. Paolo disse: "Ma qui ne mancano!" "Queste ci stanno e queste dobbiamo montare." I minuti correvano: le otto e quarantacinque. "Si sbrighi", gli disse il montatore, "va bene che eravamo in anticipo" "Lei lo chiama "anticipo"? Mi dica lei se questo modo di lavorare. La scena del cappello e l ci attacca quella della scarpa." "Sta scherzando o dice sul serio?" "Chi che decide, lei o io?" "Lo dicevo per lei A me che m'importa?" Tre minuti e il montaggio era terminato: otto e quarantotto. Ad attenderli, fuori della porta, c'era il tipo col camice nero. "Presto!" ordin Paolo, concitato, "dove si va?" "Sincronizzazione", rispose l'uomo col camice. "E' lontana?" "Qui dietro." Nella sala di sincronizzazione l'orologio appeso alla parete segnava le otto e cinquanta. Da una stanzetta sul retro uscirono un tecnico e uno speaker. Paolo si present: "Ribera, piacere." "Piacere", rispose con educato disinteresse lo speaker, asciugandosi le labbra con il fazzoletto estratto dal taschino della

giacca. "E' il pezzo sulla festa al Quirinale." "Il redattore capo? Glielo hai dato il testo?" "Il testo? No." "E come si fa a passarlo?" "E dov' questa minchia di redattore capo?" "Qui, in genere. O se no nel suo ufficio. Ma se tu non gli fai vedere il testo" "Che succede?" Rispose lo speaker: "Io non lo posso mica leggere." "Perch non lo leggi?" "Fossi matto!" "A che piano?" "Qui gi, al quarto." Le otto e cinquantadue. Paolo corse gi per le scale. Si trov davanti quattro corridoi di uffici. Si sent mancare il respiro. Si affacci nelle prime due stanze che gli capitarono a tiro. Vuote. Quindi pass ad un sistema pi rapido. Url a pieni polmoni: "Cerco il redattore capo!" Il redattore capo usc da una stanza. "Adesso ti fai vedere? Ma lo sai che ora ?" "Lo so. A che punto in scaletta?" "Al terzo, alle nove e cinque." "E ce la facciamo?" "Dammi il pezzo." "Ma, veramente" "Dammi il pezzo!" Lo incoraggi. "Io pensavo di modificarlo vedendo il montato definitivo sa, per combinare le parole con, appunto" "Stai scherzando!" Paolo si sentiva spalleggiato dal tono sommesso del redattore capo, che lo incalzava con fiducia. Erano ritornati intanto al quinto piano. Entrarono in sincronizzazione. "Vediamo le immagini." L'addetto alla proiezione disse: "Mancano cinque minuti." "Ma quanto lungo?" "Tre minuti", disse Paolo. "Ti avevo detto due minuti. Due minuti non lo stesso di tre minuti!" Fece il redattore capo. Sembrava compiacersi del suo autocontrollo. "Ecco il testo." Sospirando Paolo cacci dalla tasca il foglio spiegazzato e lo consegn allo speaker. Il redattore capo lo intercett. Gli diede una letta. Paolo era a un passo da una crisi isterica: "Ma non completo!" Il redattore capo corresse qualche frase: "Perch? mi pare che vada bene." "Fa schifo." "No, va bene. Ma non sono tre minuti di filmato. Sono di meno. Va bene." In quel momento sullo schermo cominciarono a passare le immagini. "Si tenga pronto", disse il redattore capo allo speaker. Le otto e cinquantasei. Il servizio cominciava con l'entrata degli ospiti, baciamano eccetera. "Manca la musica." "Pure la musica!" Quando arrivarono le interviste il redattore capo guard Paolo e disse: "Ti avevo detto niente interviste! E tu ci hai messo le interviste!" Il temporale: la fuga del comandante dei Carabinieri, seguita da un sorriso del presidente, le tonache dei cardinali al vento, la nobildonna con la scarpa in mano, il finale preso riflesso nell'elmo di un corazziere. "E questa che roba sarebbe?" Le nove meno uno. Lo speaker si asciug di nuovo nervosamente le labbra. "Manca il testo glielo dicevo" "Tu vuoi mettere in mutande il presidente della repubblica! " Stupito, lo ripet due volte. "Ho solo fatto il mio dovere di cronista." "Questa roba qui non va in onda." Si avvi verso l'uscita. Lanci uno sguardo circolare, deciso e coinvolgente. "Ho solo fatto il mio lavoro!" "Certo, il tuo lavoro! Ma non Botteghe Oscure che devi prendere ordini! Qui sono io che d gli ordini." "Sta andando la sigla", disse a bassa voce il proiezionista. "Diamo solo la notizia. Niente immagini. Con te facciamo i conti domattina." Diede allo speaker il foglietto spiegazzato e usc dalla sala. Paolo lo segu, ma appena fuori gi lo aveva perso di vista. Entr allora nello studio del telegiornale. Un cameraman lo ferm appena in tempo. "Esca. Lei non pu stare qui!" L'assistente di studio si sfil la cuffia e lo prese per un braccio: "Si pu sapere chi ?" "Un giornalista." "Comunque qua non ci pu stare." Si lasci spintonare nel corridoio, come un ubriaco. All'improvviso si gir.

Raggiunse l'assistente sulla soglia dello studio. "Ehi, tu!" Quello non ebbe il tempo di voltarsi che Paolo l'aveva colpito con un pugno. Non gli fece molto male, perch lo prese solo di striscio, ma gli fece cadere in terra gli occhiali. Fu questo che lo fece andare su tutte le furie. Non era abituato a menar le mani, ma era forte abbastanza da buttare un uomo leggero come Paolo steso per terra. Per fortuna part la sigla del telegiornale e i due si separarono senza dirsi una parola. Al ritorno a casa trov Anna ubriaca. Gli disse: "Non sai chi sono, non sai nemmeno come mi chiamo." Paolo la guardava dal fondo del salone, immersa in una zona d'ombra. Si accese una sigaretta. Le rispose: "Che ti prende?" Anna non disse niente. "Ce l'hai con me?" la incalz. "No, per carit." Non era la prima volta che la trovava ubriaca, ma come stavolta mai. "Ho fame", le comunic. "Oggi festa." "E quindi non si mangia?" "Gina non c'." "Come non c'? L'ho vista di l" "Ma come se non ci fosse." Paolo le si avvicin. La vide distesa sul divano, una gamba rannicchiata e l'altra sospesa a mezz'aria. "I capelli?" "La pioggia." "Sei uscita con la pioggia?" "Mi annoiavo." "E dove sei andata?" "Qui in giro." "Qui in giro. Da sola?" "E con chi? Non conosco nessuno! Che mi fai, l'interrogatorio? Non ci sei mai. E' come se non esistessi." "Ti ho dato sempre il tempo che potevo." Anna disse: "Che bella risposta." "Se non era per me a quest'ora ti volevo vedere! Lo sai dove stavi? Dietro un bancone, a vendere reggipetti e bottoni." "Meglio che stare vicino a uno come te." "Uno come me! Ti ho sempre dato quello che hai voluto. E te lo sei preso senza fare troppe storie. Sei sempre stata libera." "E io ti dico grazie." "Che dovevo fare di pi?" "Niente. Sono una donna libera, perch dovrei lamentarmi?" "Infatti, liberissima: di dire, di fare, di comprarti quello che vuoi, di scegliere di andartene. L'hai gi fatto, no?" "Ho sbagliato una volta, mi vuoi punire per tutta la vita" " di bere come un marinaio." Anna rise. Paolo si avvicin ancora. Scans con un calcio uno scatolone che conteneva dei soprammobili ancora imballati. Ce n'erano ancora in ogni stanza. Vide una bottiglia poggiata in terra. Anna ne sfiorava il collo con un una mano. "Questo trasloco non finisce mai", disse Paolo. "Solo io ci devo pensare?" "E chi, io?" "Non sei stato capace nemmeno di attaccare i quadri." "Tu nemmeno di tenere in ordine la casa. Che la paghiamo a fare la cameriera?" "Te lo chiedo io a te. E' carina" "Stai zitta che meglio.." Anna sentiva montare dentro una marea livida, come un magma spento, una piena di fango che travolge gli argini modificando al suo passaggio il ricordo di quello che c'era prima, una frana di detriti, una caduta libera di parole e di sentimenti accumulati in tutti quel tempo, che tuttavia non avevano la forza di

perforare l'ultima barriera, e si ammassavano perci inerti, privi di spinta, a un passo dal venire pronunciati. Per Paolo era lo stesso. Provava un imbarazzo non pi riconducibile alle dimensioni inoffensive di un ostacolo che si pu pensare di oltrepassare con uno sforzo di volont. Era diventata una fede blasfema, una pretesa assurda, tutta da ridere: parlare d'amore. Non lo aveva mai fatto. Non poteva cominciare ora. Eppure era proprio di questo che stavano parlando: non ti amo, non mi ami, ti ho sempre amato, non ho mai smesso di amarti, non mi hai mai capito Come si faceva a dirle, cose cos spudorate? Anna cerc di versarsi ancora da bere, ma Paolo le blocc il braccio impossessandosi della bottiglia, e cominci a percorrere il salone lungo tutto il perimetro. Prese in mano il bicchiere di Anna e lo riemp. Bevve tutto d'un sorso. Il brandy gli scivol gi rapidamente, e altrettanto rapidamente risal l'esofago, acido e amaro, gli bruci la gola e gli occhi, che gli si gonfiarono di lacrime secche. Si liber della saliva che gli impastava la lingua sputando faticosamente dentro il bicchiere. Anna, senza fare commenti, scalza, and verso la vetrinetta e ne prese un altro. Uno di quelli con lo stelo lungo che Paolo pensava non sarebbero stati usati mai. Prese la bottiglia a Paolo senza che questi provasse a resisterle. Vers. Paolo si volt per non guardarla. Fece qualche passo in direzione della porta che dava in cucina. Chiam a voce alta la Gina, ma non si sent nessuna risposta. "Fai schifo", le disse. Anna mand gi lentamente, con gli occhi spalancati sul soffitto. Aggir Paolo, fissandolo negli occhi. Aveva in mente qualcosa. Paolo riusc a strapparle dalle mani la bottiglia, sibilando: "Ora basta." Barcollando lei lo fiss con un banale ghigno da ubriaca, e Paolo si sent galleggiare nella tristezza, vedendola cos sola, abbandonata dalla sua stessa identit. Le vide nella mano l'anello di Antonio e prov un disgusto che se l'avesse misurato avrebbe compreso tutta la sua famiglia, sua madre, suo padre, i figli di Antonio. Che razza di idea, chiamarli con quei nomi! Considerato che i nomi hanno tutti un significato, pensava Paolo, per ogni nome dovrebbe esistere il suo contrario; ecco lui avrebbe scelto per i suoi figli i contrari di Michele e Concetta! Bevette dalla bottiglia, di nuovo si sent la gola raschiata dai succhi gastrici e dall'alcool. Anna si doveva sostenere allo schienale di una sedia per stare in piedi. Questa sfida silenziosa l'aiutava a vederci chiaro. Quello che stava cercando di annegare era una verit assurda, da cui si sentiva travolta, sottraendola alla possibilit di combatterla, di negarla con l'autorit della ragionevolezza. Non era pi tempo di ragionare sulle cose, ma quello di accettarle, o combatterle. Quelle comunque erano l, scolpite e inequivocabili. Paolo ora la fissava come uno che ha perso la memoria. Anche lui avrebbe avuto mille domande da farle, ma come sempre non gliene veniva neppure una. Possibile che Anna non capisse? Era necessario dirle queste cose? Non poteva fare lo sforzo di venirgli incontro? Bastava pensare a tutti quegli anni: lasciamo stare Rosa, esclusa lei, che era una puttana, le era sempre stato fedele. Lui era un uomo fedele. Ci sar stata una ragione. Non riusciva a dirla, neppure a se stesso. Era stato generoso. Non aveva mai nemmeno saputo immaginare la sua vita divisa da quella di Anna. Le aveva concesso di dormire in letti diversi, Dio solo sapeva quanto ci soffriva. E poi in che modo avrebbe potuto spiegarle le sue assenze, i suoi viaggi improvvisi, i "turni di notte"? Non poteva. Era un soldato vincolato al segreto, impegnato nella difesa della patria. Anna finalmente si sottrasse al silenzio dicendogli: "Ora non mi imbrogli pi." Paolo la afferr per un braccio. Lei disse: "Bravo, adesso ammazzami, falla finita." Possibile che a Paolo riuscisse tanto difficile afferrare la verit pi elementare, e Cio che lei malgrado tutto ancora lo amava? Assurdo, no? Uno scherzo. Bisognava per forza spiegarglielo? Non bastavano tutti quegli anni passati insieme, ad accettare tutto da lui, tutto quel silenzio, la sua esasperante freddezza, le umiliazioni. Lei lo aveva scelto, questo non significava niente per lui?

Paolo lasci la presa e le diede uno schiaffo, ma leggero, solo per farla smettere. Anna lanci un urlo. Lui copr la sua voce: "Stai zitta!" Lei afferr un vaso e glielo tir addosso. Chiuse gli occhi, non cap nemmeno se lo aveva colpito. Quando li riapr il vaso se ne stava l, intatto, ondeggiante ai piedi di Paolo, che aveva cominciato a insultarla, incredulo: "Puttana! Sei una puttana!" Anna cominci a piangere. Paolo le url addosso: "Basta! Ti vedi con Antonio, eh? Ammettilo, puttana!" "Sei pazzo, Antonio non esiste! Non mai esistito!" Paolo afferr una sedia, e la fece roteare minaccioso sopra la testa, fino a quando, facendo un passo in avanti, intercett l'orrendo lampadario: una goccia di cristallo si stacc dal suo gancio e si frantum a terra, spargendo mille frammenti lungo tutto il pavimento. Lasci cadere la sedia, che rest rovesciata, gambe all'aria. Anna gli si gett allora contro, urlando con quanto pi voce aveva: "Mi volevi ammazzare!" Lui le strinse i polsi e la sollev in aria, per poi lasciarla cadere fra i vetri rotti. "Alzati, cretina! Alzati!" Cerc di tirarla su, strappandole il vestito. Bisognava proprio dirlo il suo bisogno di lei? Se n'era sempre preso cura, aveva rispettato ogni suo desiderio senza obiettare mai, facendosi da parte, se necessario. Le tir con forza la sottoveste. Anna era ormai un peso morto, rassegnata a qualcosa di molto pi grande del dolore. Paolo si ferm per bere. Sapeva come sarebbe andata a finire, e questo lo inorridiva. La guard: era come rispondesse a un suggerimento, o se vedesse in anticipo quello che avrebbe fatto, senza poter sottrarsi all'obbligo di questa suggestione. La chiam a voce alta, intimandole ancora di alzarsi. Si vide trascinarla fino alla camera da letto. La trascin. Sapeva come doveva finire. Fin di spogliarla, velocemente, ma non in modo rabbioso. Ritorn nel salone per riprendere la bottiglia. Era vuota. La scagli contro una parete, ma sbagli la mira e centr il pianoforte. Ritorn nella stanza da letto. Anna era distesa senza pi niente addosso, appoggiata su un fianco, rannicchiata con le braccia strette attorno alle ginocchia raccolte sul ventre. Paolo non seppe riferire con esattezza a Luisa quanto tempo stette fermo, l sulla porta, a guardarla in tutto quel silenzio. Quindi le si avvicin, sentendone il respiro profondo, e le ravvi i capelli. Sapendo quanto avesse il sonno leggero si coric accanto a lei cercando di fare meno rumore possibile, per non svegliarla. capitolo venti

Quelli successivi furono giorni di relativa tranquillit. Per bastava leggere i giornali, raccogliere le confidenze di qualche cronista parlamentare per capire che si trattava di una calma solo apparente. Prov a mettersi in contatto con i suoi superiori della Struttura, ma non gli riusc. Il quattordici giugno, all'aeroporto dell'Urbe, si svolse la sfilata per il 150 anniversario dell'Arma. Paolo propose un servizio "tra cronaca e storia", ma gli fu detto che la telecronaca diretta e i servizi che avrebbero mandato nei vari telegiornali erano sufficienti. Patrioti s, militaristi no. Lo stesso giorno furono festeggiati i 25 anni della C.G.I.L. Quale migliore occasione per tastare il polso alla base operaia, sentire le loro ragioni? Contrapponendo le loro opinioni con quelle del governo, naturalmente, intervistando magari il ministro Colombo, quello del blocco ai salari. Ricevette risposte tipo "se era una battuta non faceva nemmeno ridere", "alla gente queste

cose non interessano", "noi dobbiamo raccontare fatti concreti". Il giorno dopo, sull'Unit lesse un corsivo di protesta per lo scarso spazio dato nei telegiornali alla manifestazione del sindacato. La sfilata dei Carabinieri era ridotta a poche righe di un trafiletto anonimo: " Per l'occasione sono giunti a Roma pi di 10.000 carabinieri in congedo" In congedo s, ma armati! Paolo sprofond in quelle poche parole come richiamato da una voce profonda e saggia. Sentiva che era suo dovere fare qualcosa. Partecipava stabilmente alle riunioni di redazione della D.I.D.R., ma non c'era suggerimento o iniziativa avanzata da lui che non venisse bocciata, se non sbeffeggiata pubblicamente. Quando non avevano pi argomenti, si riparavano dietro un inspiegabile sussiego e dicevano: "No, questo per TV 7 non adatto". Tutto quello che proponeva lui per TV 7 non era adatto. Finch di fronte all'ennesima idea scartata esplose: "TV 7! Mi parlate di TV 7 come se ci lavorassero John Ford, De Sica e Fellini messi insieme. Ma andatevi a leggere i giornali dell'ultimo mese: ci sono almeno venti storie pi interessanti di quelle che abbiamo mandato in onda noi. Volete un esempio? L'autista che si sparato in tribunale proprio davanti ai giudici che non gli volevano dare la pensione di guerra noi ne abbiamo parlato? A Crotone la Montecatini ha licenziato gli ammalati: ci sar qualcuno a cui interessa? Sciopero dei porti, dei treni, degli edili, dei chimici: niente! Sciopero dei negozi e dei grandi magazzini, niente, ormai scioperano tutti, non so dove il padrone spara a quelli che fanno sciopero, ma per noi non successo niente! Lasciamo stare gli scioperi, che politica, passiamo ai "fatti concreti". Gli amanti che si sono buttati da Ponte Milvio? I cugini di Sciacca. Al giornale ci avrebbero fatto la prima pagina per tre giorni di seguito: lui arriva da Sciacca con moglie e due bambine e si innamora della cugina, sposata pure lei Voi non sapete nemmeno dov' Sciacca E' aumentato il biglietto dell'autobus: avete idea che significa per la gente? Provateci voi a vivere con 50.000 lire di pensione! E i senza casa che hanno occupato gli appartamenti al Tufello? Non era una storia interessante? Per la polizia s, visto che ci sono andati in quattromila, coi mezzi corazzati. Quattromila poliziotti contro venti famiglie: noi nemmeno una cinepresa, niente! Lo sapete cosa abbiamo trasmesso noi nell'ultimo mese? Santa Rita, la canzone napoletana, i trulli, e la fiera dell'industria giapponese!" Si ravvi i capelli tre, quattro volte. Le mani gli rimasero umide perch stava sudando. Il redattore capo lo fiss con una specie di smorfia che non sapeva decidersi a trasformarsi in un insulto o in un sorriso di piet. Gli altri scarabocchiavano ognuno il pezzo di carta che aveva davanti, o si grattavano la testa con le matite. Uno fischiettUna lacrima sul viso . Un altro comment a bassa voce: "Il caldo gli ha dilatato il cervello." Il redattore capo, soave disse: "Ma tutte queste cose, senza dubbio interessanti, riempono le pagine dei giornali della sinistra, che le utilizzano per i loro scopi politici. Oppure pensi che davvero gliene importi qualcosa? Servono a dare un quadro sbagliato dell'Italia: sempre e solo negativo. Se noi facessimo questo lo sai che cosa ci direbbero? Da sinistra che siamo clericali, da destra che facciamo il gioco dei comunisti. Noi non possiamo fare il gioco di nessuno! E' per questo che ce ne stiamo al centro. Chiaro questo?" "Chi ha parlato di politica? Io non ho parlato di politica!" "E di che cosa stavi parlando?" "Di come si fa un giornale." "Ci volevi dare una lezione su come si fa un giornale?" "No, le mie erano semplici osservazioni." "Non solo sei comunista, ma sei anche presuntuoso. Ho capito perch ce l'hanno mandato a noi! Ci hai fatto perdere abbastanza tempo. Noi dobbiamo lavorare. Se ce lo consenti. O ci vuoi dire come si fa?" "Io non sono comunista." "E sei pure vigliacco. Abbi almeno il coraggio delle tue idee, Ribera." Paolo si fece scuro come per il manifestarsi di un'eclissi. Raggiunse lentamente la porta, poi lanci un avvertimento, tragico come un anatema: "Voi non sapete

quello che dite. Dovete stare molto attenti." Ci fu chi si guard alle spalle, chi fece scongiuri. Nessuno lo prese sul serio. capitolo ventuno

Erano gi diversi giorni che ci pensava. Il primo nome che gli era venuto in mente era stato quello di Antonio, ma poi l'aveva scartato per paura che ne venisse coinvolta anche Anna. La seconda persona fu inevitabilmente Roberto N. Questo significava spiegare una volta per tutte la storia della lista nera, perch anche questa volta si trattava di liste, ma la cosa era seria. L'idea aveva cominciato a girargli per la mente appena letto il contenuto della busta con la ceralacca. Poi gli era tornata quando quel tipo l'aveva chiamatocorriere ; la terza volta la sera del due giugno, quando il redattore capo aveva bloccato la messa in onda del servizio dal Quirinale. Negli ultimi giorni era stata la sua ossessione. Doveva assolutamente confidarsi con qualcuno. Sui giornali non si parlava che di una crisi di governo inevitabile, che il centrosinistra era fallito, che le riforme proposte dai socialisti sarebbero state una sciagura per il paese, e avrebbero minacciatoseriamente quel po' di benessere faticosamente raggiunto. "Dobbiamo assolutamente vederci." Paolo fu cos risoluto che Roberto N. non pot dire di no. Stabilirono di incontrarsi in viale Mazzini, davanti al nuovo palazzo della RAI in costruzione. Si sedettero su una panchina di marmo dei giardinetti al centro della strada, proprio di fronte al cantiere, entrambi incuriositi dal viavai di camion e dall'imponenza della gru. Roberto disse che non vedeva l'ora che fosse completato. Paolo non ne riusc a condividere n a capire la ragione. Entr subito in argomento. Appena pronunci la parola "lista" Roberto lo interruppe: "Sai? appena ti ho visto, un mese fa, ho pensato: ora Ribera ritira fuori la storia della lista." "Mi devi stare a sentire: si tratta ancora di liste, ma la faccenda grave." "Perch , prima non lo era?" "No era grave, solo che stavolta diverso." "Diverso o uguale questa volta non voglio saperne niente. Tu mi capisci." "L'altra volta insomma s' trattato di una specie di scherzo." "Cio la lista era un'invenzione?" "Ne parlavano tutti, non l'ho inventata io, anzi sei stato tu, ti ricordi? doveva essere stato qualcuno che aveva interesse" "Ma poi sei stato tu a farmela vedere" "Ma non volevo danneggiarti." "Beh, un po' l'avevo capito" Era chiarissimo invece che non lo aveva capito per niente. "In fondo mi hai fatto un favore." "Era al di l delle mie intenzioni." "Venire a Roma stata la cosa pi utile per la carriera. A Milano sarei ammuffito. Insomma ti sono debitore!" "Stavolta per si tratta di una cosa importante, molto importante. Forse troppo." Gli spieg in poche parole di cosa si trattava. Non gli rivel i dettagli di tutta l'operazione, e non gli disse granch sulla Struttura. Si limit agli elenchi degli enucleandi e alle schede informative. Roberto evit accuratamente di guardarlo, come se solo cos potesse restare immune alla tentazione di credere a quelle assurdit. "Non ci credo. Non credo a questi, come li hai chiamati?" "Enucleandi." "N ai dossier, n a niente" "Li ho scritti io per anni." "Vuoi dirmi che saremmo tutti schedati?"

"Tutti no. Tu s. Sicuramente anch'io." "Sa di romanzo. Non ci credo." "Quello che so che le cose stanno proprio cos, che ti piaccia o no." "Perch lo vieni a dire a me?" "Perch pi siamo a saperlo meno rischi corriamo. Secondo me la lista, a Milano, esisteva davvero, quando me ne parlasti tu la prima volta. Ma appena diventata di dominio pubblico aveva perso qualunque valore, era carta straccia: nessuno si pi sognato di usarla davvero. E' quello che mi dicesti tu, non ti ricordi? "Tiriamola fuori, sputtaniamoli"" "Ci devo pensare." "Ci si pu fare un servizio. Non c' bisogno di tirare fuori tutta la storia, ma almeno far capire che c' qualcuno che sa." "Ma tu non eri comunista?" "Mai stato comunista. Io non li posso vedere i comunisti." "Vuoi che ti creda sulla parola" Per la prima volta Roberto prendeva nettamente le distanze da Paolo: il peso ingombrante del sospetto li separ cos visibilmente da lasciar supporre che da quel momento in poi i due non avrebbero mai pi potuto salutarsi, parlarsi, sedersi a uno stesso tavolo o condividere una risata come se nulla fosse successo: per Roberto N. Paolo era diventato un uomo a cuinon si pu credere sulla parola. "Me le posso procurare." "No, stavolta non ci casco." Questo colloquio avvenne il quindici giugno. Il giorno dopo Paolo, sventolando un falso permesso di ingresso su carta intestata del Ministero dell'Interno a firma dello zio sottosegretario entrava in un'anonima palazzina all'Esquilino. Domand dell'archivio. Lo indirizzarono nel sotterraneo. C'erano schedari metallici sia lungo le pareti che nel centro di un grande stanzone senza finestre. Si diresse senza esitazione alla lettera "R". Tir il cassetto: chiuso a chiave. Si guard intorno. Non c'era nessuno. Il caldo faceva impressione come se stesse l a guardarlo. Usc dalla stanza. In corridoio si imbatt in un soldato che stava venendogli incontro. Aveva troppo caldo per pensare, o per temere qualcosa. Quello teneva in mano un registro e una innocua cassettina di legno. Gliela consegn e vi appoggi sopra la cartellina: "Deve mettere una firma qua." Paolo la apr. "Leggibile", si raccomand quello. Not che nessuna delle firme di chi l'aveva preceduto lo era. Si regol di conseguenza. Il militare diede un'occhiata senza fare commenti. Era la prassi. Tanto, se avessero voluto, il suo nome era registrato in portineria, dunque era la solita inutile formalit. Ora che aveva le chiavi in mano non ebbe il coraggio di iniziare la ricerca dal suo fascicolo, e cominci a spulciare qua e l. Ritrovarsi fra le mani schede che lui stesso aveva scritto tre, quattro anni prima, gli diede quella pallida emozione, stiracchiata fra l'indifferenza e un volenteroso interesse che si prova guardando l'album delle fotografie del matrimonio di un amico o di un parente. Non se ne sentiva per nulla responsabile, non ne aveva n colpa n merito. Finalmente arriv alla lettera "R". Part dal fondo: Rossi, Ricci, Ribera. Ribera Paolo. Prima di capirne il senso dovette leggerla almeno tre volte: le parole gli sfuggivano come viscide macchie di colore. Chi l'aveva scritta doveva conoscerlo bene. Non mancava niente: c'era Anna, c'era Rosa, il suo tentativo di accusare il capocronista dell'assassinio dello strozzino (e da quello che si capiva le cose erano andate esattamente cos), Rosati, la lista nera, Roberto n Veniva descritto come un soggetto "facilmente condizionabile e ricattabile" in quanto la sua permanenza al lavoro dipendeva esclusivamente dall'"autorevole interessamento" dell'onorevole (seguivano le iniziali), suo prozio (anche sul conto del quale Paolo verific esistere un voluminoso dossier). In una nota redatta in tempi pi recenti si raccomandava "chi di dovere" di rafforzare la vigilanza sul soggetto perch sebbene con l'aumentare degli

incarichi e delle responsabilit operative all'interno della Struttura del suo impegno e della sua lealt non era possibile dubitare, era stata tuttavia segnalata una "eccessiva, pericolosa immedesimazione nel ruolo di comunista che gli era stato ordinato di interpretare". E che per tale ragione si riteneva che le sue segnalazioni inerenti iscritti e simpatizzanti del partito comunista non fossero a partire da quella data da ritenere "attendibili". Nel rimettere la scheda al suo posto mosse inavvertitamente quella che la precedeva. Rimase di stucco: era intestata a "Ribera Antonio". Che cosa poteva esserci di interessante in uno come Antonio da meritare l'attenzione della Struttura? Lesse velocemente, e come era da prevedersi non avevano trovato nulla di sospetto. La sua fedelt alle istituzioni era garantita. Il motivo per cui era stato messo sotto osservazione era che si trattava di suo fratello. Semplice precauzione. And a verificare se ce ne fosse una anche per sua madre, o per la zia Agata, ma non ne trov. Ce n'era una, molto breve, su Anna, poche righe per ipotizzare che la sua relazione extraconiugale con lui fosse da "ascriversi ad una pi generale indifferenza per la morale e l'ordine costituito", tale da far ritenere che "si trattava di un soggetto socialmente pericoloso, di scarsa affidabilit in caso di pericolo". Quando usc all'aria aperta era quasi buio: sentire il rumore del traffico che saliva verso Santa Maria Maggiore fu come ritrovarsi fra le mani un giocattolo che si credeva perduto. Il giorno dopo, il diciassette giugno, all'appuntamento con Roberto ci and a mani vuote. Non aveva potuto fare alcuna copia dei dossier, ma si disse disposto a mostrarglieli "di persona". "E' cos facile entrare nella sede dei servizi?" Gli spieg come aveva fatto. "Immagino che se questo tuo zio lo venisse a sapere non sarebbe molto contento." "Immagino che nessuno glielo andr a dire." "Comunque, ti ripeto, io non ho alcuna voglia di mettermi nei guai. E, secondo, trovo che sia giusto che lo stato ci difenda. Ha paura solo chi ha qualcosa da nascondere, e io non ho niente da" "Non lo vuoi capire che in gioco la libert di tutti?!" "Hai troppa immaginazione. E' sempre stato il tuo difetto." Torn in via Teulada e si chiuse nella sua stanza. L si addorment con la testa fra le braccia, appoggiata alla scrivania. Verso le sei lo svegli una telefonata: c'era qualcuno che voleva vederlo. "Lo faccia salire", disse al portiere. "No, ha detto che va di fretta, e che deve scendere lei." In portineria, salvo l'usciere di servizio non trov nessuno. "Ho parlato con lei?" gli chiese. "Quando?" "Chi mi ha chiamato un secondo fa?" "Ho visto uno che andava verso la mensa. Provi un po'." La grande sala della mensa era vuota. Le lunghe file di tavolini quadrati erano lugubri quanto un plotone militare in addestramento formale. Sent cigolare una porta. And a vedere. Nessuno. Nessuno anche in corridoio. Diede un'occhiata al trucco e nei camerini. Fin di percorrere il corridoio e si ritrov nella cappella. Una donna delle pulizie, inginocchiata al primo banco, stava pregando. Quando sent arrivare Paolo si volt e gli chiese: "Secondo lei consacrata?" "Non lo so." C'erano gi i riflettori e le telecamere pronte per la ripresa della funzione. Se come prete avessero preso un attore non ci sarebbe stato nulla da ridire. Si affacci per scrupolo nello studio due, che si trovava l accanto. I falegnami stavano dando le ultime martellate alla scenografia di uno sceneggiato in preparazione. Non c'era nessun altro. E cos pure allo studio uno. Ovunque c'era aria di ferie. Guard l'ora: quasi le sette, poteva anche tornarsene a casa. Sal nel suo ufficio a riprendersi la giacca. Sul tavolo c'era un biglietto: "Ti aspetto al laboratorio di scenografia del quarto piano." Era firmato con una sigla: "R." Pens a Roberto e la cosa gli fece piacere. Il terzo piano della palazzina dove si trovava la redazione della D.I.D.R. non comunicava

con quello dove si trovava il laboratorio. Per raggiungerlo aveva tre possibilit: o salire al piano superiore, che invece vi era collegato, ma in questo modo avrebbe dovuto oltrepassare i teatri di posa 3 e 4, con il rischio, se fossero in corso delle registrazioni, di dover aspettare a lungo il via libera; o uscire, passando dal cortile esterno; o, infine, scendere nel seminterrato. Entr in ascensore e senza pensarci scelse l'ultima soluzione. Pass davanti ai laboratori di sviluppo e stampa; al termine di un lungo corridoio gir a destra, convinto che si sarebbe trovato in un magazzino di scene e mobili. Si trov davanti invece una porta blindata che immetteva nella centrale termica. Si sentiva un rumore cupo, alternato ad un soffio emesso da un tubo che doveva avere una bocca enorme. All'improvviso il sibilo tacque e ci fu come un riflusso faticoso. Alla parete, indicatori di pressione e di temperatura collegati a piccole condotte che si ramificavano lungo il muro infondevano fiducia e tranquillit come sentinelle perfettamente equipaggiate. Ritorn sui suoi passi. Ripercorse il lungo corridoio, voltando a sinistra. Super i magazzini dei mobili e finalmente arriv all'ascensore, incastrato tra la centrale termica e la cabina dell'alta tensione: "pericolo di morte". Seguendo un sesto senso non schiacci il pulsante del quarto, ma quello del piano superiore. Quindi scese le scale, con una ingiustificata cautela, ed entr nel grande laboratorio di scenografia. Alle pareti erano appoggiati, accatastati l'una sull'altra, elementi di scene ancora grezze, e poi tendaggi, tavole di compensato, porte e finestre. Si accost al centro del salone fra i banchi di lavoro dei falegnami e i tavoli da disegno. In un angolo, ormai ultimata, not la ricostruzione in cartapesta di una cucina contadina, completa di caminetto e paiolo. perch Roberto aveva voluto vederlo proprio l? Si affacci sul piccolo corridoio. Finalmente vide l'ombra di qualcuno che lo stava aspettando davanti all'ascensore. Si nascose dietro una porta e disse, piano: "Roberto?" L'ombra si defin nitidamente sulla parete opposta: era quella di un uomo che teneva in mano una pistola. Torn in fretta nel laboratorio. Non sapeva se in fondo alla sala avrebbe trovato un'altra rampa di scale, tuttavia non aveva scelta. Chi l'aveva fatto venire fin l conosceva bene quei posti. Cercando di farsi il pi leggero possibile, scivol lungo le pareti. Non sentiva i passi del suo inseguitore. Non poteva fermarsi, e neppure guardarsi alle spalle. Non aveva paura. Si trov proprio in mezzo alla cucina. Sul tavolo, mezzo nascosto da un tozzo di pane che non seppe giudicare se fosse raffermo o di cartone, not la lama di un coltello. Si affid a una preghiera e lo afferr: era vero. Seminascoste da una tenda vide le scale. Accanto, l'ascensore: occupato. Si precipit gi a piedi, fermandosi per rifiatare al secondo piano. Si mise in ascolto: continuava a non sentire rumori di passi. Entr nel laboratorio dei costumi. Ebbe la tentazione di indossarne uno e scappare travestito da torero, o da moschettiere. Usc invece dal laboratorio, sperando che almeno in sartoria ci fosse qualcuno. Ma anche la sartoria era deserta. Di fronte c'erano altre scale e un altro ascensore. Si ferm di nuovo, per studiare la situazione: se fosse salito al terzo piano, avrebbe potuto intanto disorientare l'aggressore, e poi attraverso la sala prove raggiungere le scale che conducevano direttamente nel garage. Se continuava la discesa per quella rampa si sarebbe trovato invece nel cortile. Diede un'occhiata all'ascensore: cap che si stava fermando. Non aveva tempo per pensare, invece pens ad Anna: se ne fosse uscito vivo l'avrebbe sposata. Pens che tremendo morire lasciando qualcosa in sospeso. Cosa aveva fatto per meritarsi questo? Aveva falsificato la firma di un sottosegretario frugato dentro un archivio che per lui non avrebbe dovuto neppure essere segreto Avrebbero potuto arrestarlo, metterlo sotto processo, sarebbe stata una soluzione giusta, l'avrebbe accettata. Dovrebbe essere dato a tutti di morire serenamente nel proprio letto: se si nasce tutti allo stesso modo questo dovrebbe valere anche per il modo con cui si muore: dov' la giustizia, dov'

l'ordine naturaledelle cose se uno dei due momenti fondamentali della vita non ne soggetto? Pens ad Antonio: magari stava l, da qualche parte, sarebbe comparso all'improvviso, l'avrebbe preso con s e portato a casa. Quando ritorn in s le porte dell'ascensore si stavano aprendo davanti a lui. Con la mano sudata strinse forte il manico del coltello. Ebbe un riflesso piuttosto lento, tanto che riusc addirittura a vedere in faccia l'uomo con la pistola. Fu tale la sorpresa per entrambi che anche quello non seppe approfittare dell'occasione, o ebbe paura, o piet, oppure il suo compito era solo quello di spaventarlo. Cos Paolo ebbe modo di rituffarsi gi per le scale, fermandosi solo quando fu all'aria aperta, accolto dal crepuscolo tiepido della sera di giugno. Raggiunta la macchina, mise in moto, augurandosi che se proprio doveva morire almeno fosse una cosa improvvisa, ad esempio girando la chiave dell'accensione, come nei film dell'agente 007. Si mise in marcia dolcemente, abbassando il finestrino per respirare il vento. Si ferm solamente per gettare il coltello in un tombino. Aveva paura a ritornare a casa: doveva sparire. Ma prima doveva liberarsi di quella storia assurda, e l'unica persona di cui sapeva di potersi fidare era suo fratello. Arriv in viale Marconi senza mai guardare nello specchietto retrovisore. Sal le scale con le gambe appesantite. Si slacci il nodo della cravatta. Buss alla porta. Venne Luisa ad aprirgli. Fu subito avvolto dall'odore del brodo vegetale dei gemelli. "Antonio c'?" "Entra, prego No non c', torna domani", gli rispose Luisa, e lo fece accomodare in salotto. Gli domand di Anna, lui le fece capire che non aveva voglia di parlarne. Insistette per farlo rimanere a cena. "Avete litigato?" In quel momento irruppero i gemelli e lui si mise a giocare con loro. ("squadriglia in marcia! Passi lunghi ben distesi e seguire la curve!") "Allora, mi fai compagnia?" Non aveva motivi per non accettare. Finita la cena, dopo che i bambini furono messi faticosamente a letto, Paolo e Luisa si sedettero in salotto, l'uno di fronte all'altra. Luisa non aveva molto da offrirgli: non c'era che dello Stock, in casa, a parte il Fernet. Paolo, a testa bassa e senza mai guardarla negli occhi, cominci a raccontare. capitolo ventidue

Il venticinque giugno, con le dimissioni di Moro, finalmente si concluse l'agonia del governo. Quando il telegiornale diede la notizia, a Luisa scapp uno "speriamo bene" che fece sorridere Antonio. "Da quando ti interessi di politica?" Lei gli rispose con un'alzata di spalle. Domand ad Antonio se avesse notizie di Paolo, se si erano visti, al lavoro, ma non ne sapeva nulla: "forse fuori per servizio". Di Paolo, in effetti, non c'erano pi tracce, se si escludono le telefonate che effettuava ad Anna tutte le sere da posti che non voleva nominare. Sapeva che con tutta probabilit il suo telefono era stato posto sotto controllo. Per questo aveva trovato il coraggio di rivolgersi a Davide, perch lo mettesse in contatto con qualche compagno fidato dell'azienda dei telefoni. Lo supplic di fargli questa cortesia, e di farla in fretta, e gli disse anche

che, se poteva, era meglio che andasse fuori Milano per qualche giorno, ma non gli spieg il perch e quello gli rispose: "Certo che vado fuori Milano: il primo agosto!". Paolo sapeva che squadre di operai della compagnia dei telefoni formate da militanti comunisti addetti alla manutenzione delle centraline esterne tenevano facilmente sotto controllo gli apparecchi dei principali avversari politici, o degli esponenti del loro stesso partito su cui si erano addensati dei sospetti. A Paolo, durante uno dei suoi viaggi di addestramento, era stato raccontato di scontri ed equivoci paradossali occorsi fra "squadre" (fasulle) della Struttura e squadre di operai comunisti, per il controllo territoriale delle centraline del centro di Roma, alla vigilia delle elezioni, o nelle fasi pi calde delle crisi di governo. Generalmente a sloggiare, con la coda fra le gambe, alla fine erano proprio quelli della Struttura, facilmente smascherabili come impostori da quelli che in definitiva erano autentici operai. Dopo tre giorni Davide gli fece il nome di un certo Raimondo, un compagno che nel giro di poche ore, mediante una semplice derivazione dei cavi, fece in modo che le telefonate ricevute dall'utenza telefonica di Paolo fossero smistate su un numero di transito che non era possibile controllare dall'esterno. In questo modo Paolo tutte le sere rassicurava Anna sulle sue condizioni di salute, e le parlava di una nostalgia nuova, di un desiderio di essere in pace col mondo, e che prima di ogni altra cosa il suo mondo era lei. Non lo aveva mai sentito parlare in questo modo. Paolo il marinaio Cosa si credeva, che bastava fare la voce dolce e mortificata per ricominciare il balletto delle promesse dell'ultimo viaggio? Non voleva lasciarsi intrappolare un'altra volta. Di aria pulita aveva bisogno, di tornare a sentirsi bella, e padrona di un amore nuovo. Eppure quelle parole la consegnavano ad un'eccitazione mai provata: dopo la seconda di quelle incredibili telefonate cominci a sentir crescere dentro di lei, e ramificarsi, quei sentimenti che quando cristallizzano cambiano le persone: la pazienza, il riposo della passione sublimata non pi nella necessit, ma nella costruzione di qualcosa di duraturo. Quelle parole l'accompagnavano in un sonno pi dolce di quello a cui era abituata negli ultimi tempi, quando non riusciva pi a fare a meno di bere fino a scomparire in un delirio inaccessibile e dignitoso, che dilagava tutto all'interno, come un parassita che attaccasse solamente le radici della pianta (l'unica conseguenza visibile del suo vizio segreto fu in quei giorni un ematoma lucido e doloroso, che dovette coprire a lungo con un paio di occhiali scuri, che si provoc cadendo e sbattendo lo zigomo contro la vasca da bagno). Il tre luglio Paolo torn a Roma. Era stato ricontattato dai superiori della Struttura, per affidargli l'incarico di esplodere alcuni petardi durante il comizio che Togliatti avrebbe tenuto quel pomeriggio in piazza San Giovanni. Temendo che potesse trattarsi di una trappola, Paolo si limit a utilizzare meno della met del materiale che aveva in consegna, per poi dileguarsi immediatamente, contento che la folla, ipnotizzata da un gesto del segretario che invitava alla calma, non fosse caduta nella provocazione. Nel resoconto dell'indomani, L'Unit, al contrario di altri giornali, dell'episodio non fece alcun cenno. Quella sera stessa il presidente diede nuovamente a Moro l'incarico di formare il governo: un nuovo centrosinistra, a costo di farsi ridere dietro. Ma con un programma diverso e diversi ministri, naturalmente. Non si capiva allora perch Nenni avrebbe dovuto accettare! Che cosa ne avrebbe detto Fausta? Torn a farsi vedere in ufficio, ma evitava di partecipare alle riunioni di redazione, e di andare a dormire a casa. Trov una sistemazione in una pensione per universitari a Castro Pretorio, ormai quasi deserta per l'arrivo imminente delle vacanze. La sera, quando telefonava ad Anna, inventava itinerari avventurosi fra il delta del Po e la laguna di Venezia alla ricerca di storie e personaggi per un'inchiesta. Dimagriva e non vedeva vie d'uscita. Fece qualche altro tentativo con Roberto N., ma questi ormai si negava al telefono, sia in ufficio che a casa. La mattina del tredici luglio ricevette una telefonata, in redazione.

"Mi riconosci?" disse la voce al di l del filo. La voce era gioviale e limpida: quella di un amico onesto. "Maresciallo!" "Ascolta, sono di passaggio a Roma, cos ho pensato di darti un saluto." "Benissimo, allora vediamoci, anche subito." "Oggi non mi possibile. Meglio domattina. Conosci viale Romania, immagino." "Al Comando" "Al tabaccaio all'angolo con via Salvini Alle nove va bene?" Non gli aveva fatto domande personali. Non gli aveva domandato nemmeno come stava e non gli aveva chiesto di Anna: non gli piaceva. Quella sera dalla finestra la brezza port nella sua stanza il suono di una fisarmonica. Rest a lungo affacciato, prima di addormentarsi, senza pensare a niente. La mattina del quattordici luglio Paolo arriv puntuale all'appuntamento, anzi, con qualche minuto di anticipo. Era riposato, e aveva fatto un'abbondante colazione. Cerc un riparo sotto gli alberi dal sole abbagliante. Non aveva voglia di fumare, anche se era nervoso. Aveva fumato troppo la sera prima: non faceva altro, la sera, nella sua squallida stanza attraversata dalle risate delle prostitute o dei militari della caserma vicina. Era divorato dalla voglia di rivedere Anna. Da viale Romania, se l'avesse voluto, poteva arrivarci a piedi in pochi minuti. L'avrebbe portata al mare, a Capri, a Sorrento, a Viareggio, dove voleva lei. Quando tutto sarebbe finito. Con la coda dell'occhio vide un taxi fermarsi davanti l'ingresso del palazzo del Comando Generale. Ne scese un generale che a testa bassa s'infil nel portone senza rispondere al saluto. Ne arrivarono altri, a brevi intervalli: in taxi, o dentro macchine blu guidate da giovani militari di leva. Una dozzina. Alle nove in punto arriv il maresciallo. Trovarono naturale abbracciarsi. Era invecchiato dall'ultima volta che s'erano visti. Paolo ebbe subito la sensazione che il sorriso paterno nascondeva la fatica di un rimprovero che gli costava molto fare. "Puntuale come sempre, maresciallo." "Abitudini militari. Dimmi un po', Paolo, va tutto bene?" Paolo lo squadr attentamente: "Certo, tutto bene. Piuttosto: come si mette la situazione?" "Che ti devo dire? Stiamo a guardare. Tu ti senti pronto?" "Prontissimo." Si rendeva conto da solo che non avrebbe convinto neanche un imbecille, figurarsi il maresciallo, che lo conosceva meglio di chiunque. Esclusa Anna, naturalmente. "Dobbiamo fare molta attenzione, Paolo. Non ti senti bene? Ti vedo sciupato." "Io sto benissimo." "Hai dato molto alla causa, eh, Paolo?" "Penso di s, ma questo non vuol dire" "E' un lavoro duro, richiede concentrazione costante. Nessun cedimento." "Certo." "Trasparenza, lealt Fiducia reciproca." "Lo so!" "Ho sempre parlato bene di te nelle "alte sfere"" "Grazie" "E' terribile vivere con dei sospetti", concluse il maresciallo sfiorandogli amichevolmente un braccio. E prosegu: "Ascolta, io devo andare l dentro" Guard l'orologio. "a portare una certa cosa. Tu aspettami qui fuori, non ci metter molto. Andiamo a un bar. Mi offri qualcosa, eh? Qui fuori Non ti muovere mi raccomando" Paolo gli sorrise per accontentarlo. Il maresciallo si allontan con il suo caratteristico passo slanciato in avanti: ecco uno per il quale ogni travestimento sarebbe inutile. Certo anche lui in quanto a carriera Era rimasto un maresciallo. Cosa viene dopo maresciallo? Dovrei saperlo, pens Paolo, all'ultimo corso gli era stato insegnato. Lanci distrattamente lo sguardo verso il portone. Vide arrivare l'ennesimo taxi. Questa volta non ne scese un militare, o almeno non indossava la divisa.

Era biondo, diafano, vestito tutto di bianco, anche le scarpe, teneva una cartellina sotto il braccio. Si diresse spedito e tranquillo verso l'ingresso, con la distratta dimestichezza di un impiegato che si reca al lavoro: era Roberto N. Paolo si sent rovesciare l'intestino. Stava avvenendo tutto cos in fretta che non riusciva pi nemmeno a stabilire con precisione cos'era che pi lo feriva. Sarebbe bastato sedersi a un tavolo, fu la prima cosa che pens, e chiarirsi, con franchezza, senza inutili rancori. Non gliene voleva. Fu grato al maresciallo che lo aveva voluto avvertire. Quello che desiderava era solo dimenticare. Chiudere il capitolo e mettersi a lavorare. Sposare Anna. Era la stessa sensazione che aveva provato quando era stato licenziato dal giornale: sentirsiultimo . Ma non sognava inutili vendette. Non si augurava il male di nessuno. Il maresciallo bussava in quel momento alla porta del generale. Portava una busta sigillata. L'attendente gli apr la porta, lo fece accomodare in anticamera e lo annunci. Dalla porta socchiusa l'anziano maresciallo intravide uno spicchio della riunione che si stava svolgendo all'interno: sembrava che fossero tutti in piedi, intorno al tavolo. C'era un buon profumo di sigaro. Sent distintamente la voce stentorea del comandante: "Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la pi alta autorit, ci chiama e ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati." Usc dopo qualche minuto, sicuro che Paolo non lo avrebbe aspettato. Secondo i giornali quella del quattordici luglio fu la giornata pi calda dell'estate. Paolo la trascorse chiuso nella stanza della pensione. Nel tardo pomeriggio gli venne voglia di andare al cinema. Per raggiungere il centro prese il tram. Sapeva che avrebbe potuto essere rischioso; per esempio poteva esser visto da Anna, ma a quel punto quello sarebbe stato il male minore. Se si escludeva lei e la famiglia di Antonio, a Roma conosceva solo persone che in qualche modo avrebbero potuto fargli del male. Forse ucciderlo. And a vedere un film francese di spionaggio, la storia di un tale a cui viene dato l'incarico di consegnare a una banda di spie internazionali una borsa di documenti segreti. Dopo aver girato per mezza Europa si rende conto che a consegna avvenuta, la banda l'avrebbe senz'altro fatto fuori per liberarsi di uno scomodo testimone. Cos continua la fuga per conto suo, inseguito dalle spie che nel frattempo gli hanno rapito la fidanzata. Alla fine c' la sparatoria e muoiono tutti: magra consolazione. La valigia scoppia e nessuno sa che cosa ci stava dentro. Documenti davvero esplosivi. Quella sera il telegiornale, senza dilungarsi in particolari, diede la notizia che si era svolto un incontro fra il presidente della repubblica e il comandante dei Carabinieri. Pi tardi telefon ad Anna: sent che aveva la voce impastata, ma anche lui aveva bevuto. Era di se stesso che ebbe compassione: si sentiva lui responsabile di tutto questo. Io sto bene, speriamo di vederci presto Cosa mangi? Non ti preoccupare "Hai bevuto?" le domand infine, con le lacrime agli occhi. "Anche tu!" Anna rise forte e sprezzante, incapace di controllarsi, e Paolo, che non cap, se ne sent sollevato. Voleva dividere con lei tutto. La mattina dopo scese solamente per comprare i giornali, che torn poi a leggere in camera. Quasi tutti esprimevano l'augurio che in nome "dell'interesse generale" i socialisti, additati quali unici responsabili di quella situazione di stallo, recedessero dalle loro posizioni di principio e facessero "anche loro" qualche concessione. Finalmente L'Unit, sotto il titolo cubitale "I quattro sull'orlo della rottura", avvertiva il pericolo che il presidente, di fronte a un fallimento di Moro, avrebbe potuto assegnare l'incarico a qualcuno "abbastanza autorevole da formare un governo di tecnici e militari che sappia fronteggiare anche l'ipotesi di un voto sfavorevole alla Camera". Era ora che si svegliassero. Chiam in redazione per comunicare che non si sentiva bene e che sarebbe stato a casa fino alla fine della settimana. Chiese se c'erano messaggi. La segretaria disse che l'aveva cercato un certo maresciallo che lo voleva incontrare il giorno sedici a Tor di Valle. Cosa volevano ancora da lui? Cosa avevano ancora

da verificare? Aveva speso tutta la sua vita per loro, sacrificando la carriera e gli affetti. Sent con chiarezza che se le cose non si fossero aggiustate, se, insomma, non si fossero sbrigati a fare questo maledetto governo, in qualche modo gliel'avrebbero fatta pagare. Ma la soluzione della crisi era ancora lontana. I giornali riferivano di riunioni ininterrotte, di reciproche assicurazioni, di estenuanti mediazioni A Villa Madama gli incontri "al vertice" proseguivano oramai a oltranza. Filtravano pochissime notizie. Un reporter riusc a fotografare Nenni che, approfittando di una pausa, si era coricato sulla panchina fresca di marmo, nel giardino, aveva tirato su le gambe e si era addormentato con la giacca arrotolata come cuscino. Verso la mezzanotte, tra il quindici e il sedici luglio Paolo decise di fare ritorno a casa. Anna dormiva con le finestre aperte. Indossava una camicia da notte rosa, ed era coperta dalla luce vellutata della luna. Paolo fece il giro dal giardinetto: scavalcando sarebbe potuto entrare, ma cos certo l'avrebbe spaventata. Stette un po' a guardarla, quindi prefer entrare dalla porta. Anna si svegli solo quando lo ebbe accanto. Lo abbracci tenendolo stretto, e lo baci, convulsa. Lui le disse: "Non bere, ti fa male." "Stai sempre a rimproverarmi." "Ho pensato una cosa: torniamo a Milano. Questa citt porta sfortuna. Ci si perde." "Sarebbe il regalo pi bello che mi potresti fare." Intanto continuavano a baciarsi e a toccarsi, dolcemente. "Domani devo vedermi con uno che ho conosciuto a Milano. Appena mi libero di questo impiccio faccio domanda di trasferimento." "E ci sposiamo?" "Se vuoi." "E tu vuoi?" "S." "Ci credi se dico che sei bellissimo?" "Dillo." "E se dico che ti amo?" "Anna, abbiamo perso un sacco di tempo." "Hai ragione." "La tua bocca" "Chiudi la finestra." "No, pi bello cos." "Paolo, La sai una cosa? Da soli non ci si salva." La mattina dopo Paolo and all'appuntamento all'ippodromo, anche se era chiaro che sarebbe stato meglio non farlo. Sarebbe stato sufficiente scomparire un'altra volta; pochi giorni sarebbero bastati. Le acque si sarebbero calmate, tutto avrebbe ripreso il suo corso regolare: il naturale ordine delle cose. La nostalgia sarebbe tornata ad essere proclamata come un richiamo di due anime che si rincorrono nelle ore di intense giornate Il pranzo, la cena, gli affetti nulla di cos esageratamente drammatico. Sarebbe stato come quando finisce la guerra, e i soldati tornano nelle loro case. La riunione iniziava alle cinque, e le tribune erano gi stracolme di sfaccendati in cerca di facili emozioni. Si era scordato di quell'ansia posticcia che opprime quei pomeriggi passati a scommettere sulle corse dei cavalli. Vide di lontano il maresciallo, in compagnia di un uomo in borghese, forse lo stesso che aveva cercato di farlo fuori pochi giorni prima in RAI. I due parlottarono un po', quindi si divisero. Paolo and a giocare tutto quello che aveva su un cavallo scelto a caso. La macchina dello starter era gi in pista con le sue ali di metallo spiegate. Ripens a quella strana frase di Anna: "da soli non ci si salva". Erano due giorni che non mangiava, sent la debolezza sciogliersi nelle vene,

nei tessuti Raggiunse un telefono e form con la mano tremante il numero di Antonio. Nemmeno lui seppe darsene una spiegazione. Probabilmente non l'avrebbe neanche trovato, poco male, avrebbe fatto due chiacchiere con Luisa. Invece fu proprio il fratello a rispondergli. "Come stai? E' un po' che non ci si vede" Antonio andava di fretta, e rispondeva a monosillabi: "Infatti. Dove sei? La linea molto disturbata." "Potremmo incontrarci. Dobbiamo parlare di molte cose. Ci sono grosse novit." "Vado di fretta: domani partiamo per il mare." Davanti a lui Michele e Concetta gi indossavano per gioco le pinne e le maschere. "Pensavo che si poteva andare al cinema. Anche con tua moglie." "Non oggi. Oggi non possibile." "Ti ricordi quando ti portavo al cinema? E tu ti mettevi a piangere" "Ancora te ne ricordi!" Paolo vide avvicinarsi l'uomo con la pistola. Non era pi da solo. Stava confabulando con un altro tizio in borghese. La corsa era partita. "Eri buffo!" "Non me ne ricordo quasi" "Io s Ho trovato l'anello" "Cosa?" L'uomo con la pistola stava venendo verso di lui, ma Paolo non aveva alcuna voglia di scappare. Non era un atto di eroismo, non era niente. C'entrava con il fatto di trovarsi in una citt enorme e vuota, dove non conosceva nessuno, che non dava speranze. "Antonio, che significa che "da soli non ci si salva"?" "Non so ma ti senti bene?" "Ci sar un colpo di stato, occuperanno la televisione" "Paolo!" "A te che te ne importa: domani vai in vacanza!" "Un colpo di stato?" Paolo si volt: alle sue spalle l'uomo con la pistola lo stava semplicemente aspettando. "Abbiamo deciso di sposarci. E' quello che volevi anche tu, no?" "Come? Con Anna?" "Ora ti debbo lasciare. Un bacio ai bambini." Appese la cornetta e cominci a correre, mescolandosi alla folla. Raggiunse il parterre. L'uomo con la pistola gli stava dietro, ma con discrezione: gli bastava non perderlo di vista. Prima o poi l'avrebbe raggiunto. Le uscite erano tutte sotto controllo. Paolo risal i gradoni della tribuna. I cavalli erano all'ultima curva. Non sapeva dove andare. Scese di nuovo in basso, oltrepass la staccionata con un salto. Gli spettatori, tutti in piedi per seguire la conclusione della gara, erano diventati un oceano burrascoso invalicabile. Volavano fogli di giornali e fazzoletti. Sent un dolore fulmineo alla schiena, come un pugno, poi un bruciore che divamp istantaneamente in tutto il corpo, soprattutto negli occhi e in gola, poi deflu nelle braccia e nelle gambe. Si form un capannello attorno a lui. "Chi ha vinto?" Domand. "Eisenhower." Tir fuori dalla tasca lo scontrino della scommessa: "Ho vinto. Prendete i soldi e portateli ad Anna." L'uomo con la pistola si avvicin per sincerarsi che morisse in silenzio. Nel dare la notizia il telegiornale ipotizz che l'omicidio fosse da attribuirsi a una vendetta maturata negli ambienti delle scommesse clandestine, in seguito ad un'inchiesta che il collega stava preparando "con il consueto scrupolo". La direzione, sottolineando che si trattava di "una perdita grave", si associava al cordoglio dei familiari. Quella stessa notte, poco dopo le tre, l'onorevole Moro telefon al Quirinale per annunciare che i socialisti avevano sciolto la riserva e che accettavano di

entrare nella nuova maggioranza di governo. Gi dal mattino successivo alcuni reparti speciali dei Carabinieri affluiti a Roma nelle settimane precedenti, cominciarono a fare ritorno ai rispettivi comandi di appartenenza. Al ritorno a casa dal funerale, Luisa stette a lungo abbracciata ad Antonio. I gemelli giocavano, tristi, con un giornalino di fumetti di cui apprezzavano solo le figure. Antonio era attraversato da ondate di pensieri indecifrabili, come al solito. Lei non gli domand nulla. Avevano entrambi ancora negli occhi la figura di Anna, sciolta nelle lacrime come un fusto di un giovane albero da frutto offeso dalla grandine, inginocchiarsi muta sul bordo della fossa, e lasciare cadere sulla bara di legno un piccolo anello. Cadendo aveva fatto un rumore sordo, non rimbalz neanche. Appena rimase sola Luisa prese fra le mani il quaderno dove da pochi giorni aveva ultimato di trascrivere il racconto di Paolo. Se avesse potuto, l'avrebbe gettato nella fossa insieme a quel piccolo, stupido anello. Non ne voleva sapere pi nulla. Anna sarebbe ritornata a Palermo. Antonio, prima o poi, l'avrebbe dimenticata, anche se lasciarla in quel modo, sotto la pioggia, non il modo migliore per poter dimenticare una donna come Anna. Al cimitero le due donne avevano fatto di tutto per non incrociare i loro sguardi. Antonio invece non si era potuto sottrarre ad un abbraccio che gli lasci addosso il suo profumo. Aveva i capelli sciolti, e un vestito nero con l'orlo scucito. Era venuto perfino il cugino della zia Agata, il sottosegretario. Fu per tutti la prima occasione che avevano di incontrarlo. Era un uomo alto, magro, con le occhiaie profonde e guance scavate da una durezza che incuteva soggezione. Fu il primo ad andarsene. Baci solamente Concetta, limitandosi a stringere la mano ad Antonio. Aveva mani grandi e scure. La macchina lo aspettava all'uscita con il motore acceso. La cosa migliore che potesse fare del quaderno era quella di liberarsene, magari bruciandolo. Non aveva alcuna ragione per rendere pubblica la loro storia, la storia privata di una famiglia, dei loro sentimenti, delle loro debolezze, dei loro errori. A chi avrebbe dovuto consegnarlo, ora che Paolo non c'era pi? Ai Carabinieri? A un giudice? Alle ultime righe ha affidato la sua decisione. "Stasera abbiamo lasciato i bambini a giocare in albergo con la nonna, e siamo andati a ballare. Non stato facile convincere Antonio, e lo capisco, ma giusto aiutarlo a dimenticare. L'abbronzatura gli dona E' bello sentire la vita scorrere nelle canzoni della radio, nelle spiagge affollate, nei desideri dei bambini, tra le braccia di Antonio, tra le note dell'orchestra che suona una canzone di qualche anno fa,Senza fine Sentirla fra queste coppie innamorate che ballano attorno a noi C' serenit e giustizia Ho deciso che getter via questo quaderno. Tanto, non credo a una parola di quello che Paolo mi ha raccontato."

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