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Wellington

26 Febbraio 2014

NOSTOS 2
un viaggio sentimentale

DOPPIO DIARIO 1982/2014


26 FEBBRAIO 2014
Wellington non una citt propriamente bella. Non lo neanche impropriamente, a dire il vero. Lo era negli anni 80, quando ancora sopravvivevano gli edifici di inizio secolo per tutta la lunghezza di Lambton Quay, e le villette coloniali in legno sparse un po per tutta la citt. A passare ora per gli stessi posti si trovano solo grattacieli e case nuove, neanche tanto ben fatte. La scuola neozelandese di architettura molto considerata nel mondo, ma forse qui non si sono applicati abbastanza. I grattacieli sono tozzi e pesanti, e le abitazioni che hanno rimpiazzato le vecchie villette, anche se

APRILE 1982
Anche se tutti non vanno scalzi come tanti dei giovani universitari che sciamano lungo Kelburn parade alla fine delle lezioni pomeridiane, i Kiwi sono comunque gente molto informale, rustica, quasi, abituata a fare da sola solo quello che serve, senza troppi fronzoli, ma spesso anche con poca raffinatezza. Gli europei come me erano guardati con un certo timore reverenziale: avete stile in tutto quello che fate! mi disse una sera un compagno di corso, mentre buttavamo gi il caff chiaro della mia mo-

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ancora di legno, si uniformano tutte ad un design standard e molto pratico, dallaspetto gelido e minimale. Niente fronzoli, niente decori, niente di niente. Ledificio pi antico della citt risale al 1857, ed il modesto cottage del beccamorto del vecchio cimitero, una casina piccina piccina che stata spostata di peso cento metri pi in l, come le statue di Abu Simbel, quando lautostrada ha tranciato in due la collina dei morti. Visto da Oriental Parade, il lungomare che si spinge fuori dalla citt, il profilo del porto e degli edifici del centro appare un poco pasticciato, con alcune belle soluzioni moderne (Te Papa, il nuovo museo, Te Whare Waka, dove sono in mostra le vecchie canoe maori), ma complessivamente anonimo. Anche Oriental Parade, che in passato aveva un andamento dolce e colorato, orlato da villette detached tutte torrette, patii e bovindi, ora soffocata da condomini piuttosto rozzi, le pareti crude di cemento ravvivate da una mano di smalto opaco multicolore, che tenta inutilmente di compensare la malagrazia degli edifici. La passeggiata ancora gradevole, con la sfilata regolare ed elegante degli alberi nativi, e le panchine celesti con la targa dottone in ricordo di un qualche cittadino scomparso, che sulla Parade trovava pace e serenit australe (al caro Henry Detail, uomo di spirito e di cuore, che qui passeggiava nei momenti felici). Affacciati al muretto pochi pescatori dilettanti, maori per lo pi. Dai grossi secchi bianchi di plastica che tengono accanto si vedono spuntare le pinne di coda dei pesci enormi che hanno tirato su. C vento, come sempre a Wellington, che attraversata dalle correnti daria che si formano sullo stretto, ma in estate solo una benedizione, anche se la temperatura non sale mai di molto. Il vento pulisce il cielo dalle nuvole, e chi vuole pu stendersi al sole, sulla sabbia dorata di Oriental Bay, lunica spiaggia di Wellington, che non e pi lunga di cinquecento metri, e basta mezzora per uscirne cotto. La teleferica invece rimasta uguale a comera allinizio del 900, anche se ora la tecnologia unaltra, e le carrozze sono state rifatte del tutto sul vecchio modello. E il simbolo di Wellington, di fatto, e alme-

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ka in uno dei lunghi dopo cena alla Weir House, affacciati alla finestra del mio cubicolo. Ma era solo nostalgia: nostalgia di sradicati per la terra dei padri, la brumosa, contaminata regione di l dal mondo, satura di monumenti e di civilt, dove tutti erano stati almeno una volta, per ritornarne in tutta fretta, abbagliati da tanto incomprensibile splendore e disgustati dallo stile di vita decadente e malato. Cera una vena di malinconia in quel mondo cos salutare, un senso di spaesamento e di perdita che non si riusciva a spiegare, Quelle tristi domeniche, quando le cornamuse scozzesi gonfiavano con il loro frinire laria tiepida del pomeriggio, come nei tetri tattoo di Edimburgo, i riti compulsivi della tradizione inglese, il th, la cena presto, la moquette pelosa del salotto, il ritratto della regina sul caminetto, i party pomeridiani a cui venivi invitato per iscritto: Mrs. Wheatcroft, segretaria del rettore, sarebbe onorata, ecc. Bigliettini color crema, vergati in belle calligrafie tutte uguali, che davano accesso a serate lugubri, imbandite di chiacchiere futili e di insipidi crostini: un muro di bigliettini, chiacchiere, crostini, moquette, ritratti di sovrani, patatine fritte e blank mange eretto come un baluardo a difesa delle attitudini anglosassoni, in mezzo a questo oceano indifferente di felci e di uccelli strambi. Ma qui senza larroganza dei coloni, piuttosto con una certa salubre rassegnazione, una quieta provincialit. E insieme lorgoglio tipico di chi ha saputo resistere. con noi non fosse davvero lo stesso mondo nostro, quello che noi vedevamo e sperimentavamo. Non era come con i francesi, o i tedeschi, o gli orridi americani. Quelli potevi capirli, stavano nel tuo orizzonte. Potevi odiarli, anche, ma sapevi che cera sempre qualcosa che avevi in comune con loro, che per quanto potesse dispiacerti,. anche loro facevano parte della tua fami-

no quello lhanno lasciato stare comera. Per salire su ci vogliono 4 dollari neozelandesi (due euro e mezzo, pi o meno), e due soli se sei uno studente (ai miei tempi ne bastava mezzo). Dal belvedere della teleferica si ha una vista panoramica di tutto quello che vale la pena di vedere qui: tutto il golfo, il porto, il cuore della citt. Solo che, di nuovo, le cupole liberty del centro sono sparite quasi tutte, e i grattacieli ingombrano la visuale del mare. Da l si pu scendere in direzione delluniversit, sulla destra, o attraversare il giardino botanico, sulla sinistra. Il giardino unestensione collinare piuttosto vasta, mantenuta con molta cura, fatta di boschetti e prati verdissimi. Sembra di essere in un parco inglese, ma se guardi le piante una per una sono tutte diverse da quelle che conosci, strane. A cominciare dalle felci, che qui arrivano alla altezza di cinque metri, e sembrano piuttosto delle palme polinesiane, un poco pi sobrie, per. Non c leccesso artificiale di fiori che trovi nei giardini anglosassoni, e il verde prevale su tutto. Un verde forestale, addolcito da brevi radure derba brillante, senza forzature alla Capability Brown. I pochi fiori sono tutti bellissimi e curati alla perfezione: la sfilata dei rododendri, in tutte le gradazioni di rosso, le rose del giardino di Lady Norwood, dal profumo intenso, la serra con le grandi begonie, carnose e delicate, e la grande vasca delle ninfee. La domenica, con il sole, nellarea del Centenario dove ci sono le uniche aiuole, si possono ascoltare le bande di ottoni che si sfidano in competizione sotto la conchiglia dellauditorio allaperto: dilettanti giovani e anziani, tutti rigorosamente con la divisa colorata delle rispettive societ, oppure con le cornamuse e il kilt. Il vento soffia forte, e i suonatori tengono a bada il gonnellino, che non svolazzi impudicamente. Sul lato est dei giardini scorre il traffico calmo di Glenmore street, dove sono sopravvissute molte delle vilette coloniali, quelle pi ricche, che salgono su lungo il fianco ripido della collina, sempre pi in alto, come masi alpini, sprofondate nel verde rigoglioso delle felci e dei podocarpi. Wellington una citt estremamente civile e accogliente, che compensa con lordine e la gentilezza quello che gli manca in armonia e sofisticatezza. Tutto funziona in maniera eccellente e semplice: gli orari, il trasporto pubblico, gli uffici e le banche, senza i biza-

glia. I maori no. I maori erano unaltra cosa. Non erano simpatici. Diciamolo subito, per quanto questo ripugni alla mia etica egalitarista, e tanto pi ripugnasse allora, che ero assai pi etico ed ingenuo di quanto non sia diventato poi nellinfuriare della battaglia. La fratellanza una cosa che funziona tra fratelli, qualche volta. Ma quando persone cos diverse tra loro sono costrette a dividere lo stesso spazio, la cosa pi logica che prima o poi si accapiglieranno. Questo era successo con i maori. Questa terra era la loro, una volta, ma ora non pi. Inutile piangere sul latte versato: ora questa terra era degli inglesi, con le loro moquette pelose, i loro stucchevoli th delle cinque, il blank mange ed i billet doux, le chiacchiere insipide allora dellaperitivo, le attitudini anglosassoni. Era degli inglesi perch loro se lerano presa. Perch quando era venuto il momento gli inglesi avevano messo sul piatto della bilancia le loro navi, i loro chiodi di metallo, il loro grasso di maiale, le loro pecore flatulente e i loro fucili, il tabacco, il gin ed un esercito sterminato di germi e bacilli, e i maori non avevano avuto di meglio da opporre che asce di pietra levigata, e mantelli intrecciati di pelo di cane. Cera poco da fare, e i maori fecero quel poco, come era loro dovere, uscendone ovviamente a pezzi, sopraffatti, schiacciati, disintegrati, annichiliti, frullati irreparabilmente nel vortice della inarrestabile civilt occidentale. Il risultato era quel curioso mondo straniato e provinciale, ma sicuramente anglosassone, in cui paesi e villaggi dallaspetto assolutamente europeo recavano nomi esotici che gli abitanti stentavano a pronunciare. Un mondo nel quale tutto andava cos alla rovescia che - salvo poche eccezioni - i maori sapevano esprimersi soltanto in inglese, e se volevano imparare la loro lingua dovevano farsela insegnare dai professori bianchi delluniversit. Il mio cuore di sinistra sanguinava, ma non si ha idea di quanto sangue possa perdere il cuore senza reca-

ntinismi e la burocrazia che conosciamo da noi. Le strade sono pulite dappertutto, non una cartaccia abbandonata o una lattina schiacciata, una gomma americana incrostata al marciapiede, e ho dovuto percorrere tutta Glenmore street per scoprire una sola cicca di sigaretta buttata l da qualche antisociale (o un turista, pi probabilmente). Non esistono praticamene graffiti, neanche le odiose, minimali calligrafie tutte uguali che impestano le sciatte strade dellemisfero boreale. Assenti quasi del tutto i mendicanti e i poveracci: in Lambton Quay in cinque giorni ne ho contati non pi di quattro. Uno sta seduto accanto al suo cartello: can you please help me to walk with god?. Un altro un vecchietto cinese virtuoso di uno strano strumento piangevole con una sola corda. La gente sa farsi gli affari propri con estrema competenza: tutti sono gentili, ma non necessariamente affabili, non vogliono disturbare e si aspettano di non essere disturbati. Vestono in maniera orribile, per i nostri standard, ma solo perch non gliene importa niente. Al teatro St. James, un edificio inizio novecento elegante, funzionale, ma sovraccarico di decori un po cos, qualcuno va alla prima con il vestito da sera, i guanti, persino, altri con i pantaloncini ed i sandali, e nessuno fa una piega. Hanno il culto civile dellarte e della cultura, anche con un po di ingenuit, e risentono di un certo senso di inferiorit verso i cugini dellaltro emisfero, che considerano estremamente pi sofisticati di loro, senza necessariamente invidiarli. Ora che estate tutti vanno in giro con addosso quello che capita (ma in inverno non diverso, a quanto ricordo), senza preoccuparsi troppo del risultato. Prevale per tutti (uomini e donne) il compound maglietta, pantaloncini, sandali, anche se non mancano soluzioni pi stravaganti e improvvisate, orride, per lo pi. Nessuno, proprio nessuno veste formalmente, pochissime le giacche scure (le portano gli indiani soprattutto), assenti le cravatte. Lunico abbigliamento veramente formale quello degli studenti delle medie e delle superiori, che circolano nelle divise colorate della propria scuola: giacche (o magliette) verdi, gialle, rosse, tutte uguali. Pantaloni corti e gonne scozzesi, calzini bianchi. Pi ancora che in Inghilterra.

re danno alle altre funzioni vitali. Non dovete pensare ai maori come agli indigeni col tut che avete visto per la prima volta nel vostro sussidiario delle elementari. Nessuno di loro viveva pi nei villaggi tradizionali da quasi un secolo, a parte qualche bizzarro anticonformista. Loro si erano perfettamente integrati, tutti. Parlavano inglese, spesso meglio dei bianchi, e vestivano pi o meno bene, come noi tutti. Facevano la nostra vita, n pi n meno. Eppure si sentiva che cera qualcosa che non funzionava del tutto, qualcosa fuori registro, come se per camminare in quel mondo che non era il loro fossero stati costretti a mettere delle scarpe troppo strette, come le concubine dellimperatore cinese, e i loro piedi (e forse anche la loro testa) avessero dovuto assumere una forma che non gli apparteneva, e in cui faticavano a riconoscersi. Ma si fa prima a parlare dei singoli maori, piuttosto che pretendere di riassumere i tratti di una razza in un breve compendio, con tutti i rischi del caso. Il singolo cavallo, o il concetto di cavallo, la cavallinit, come ammonisce Aristotele nei manuali del liceo? Anche senza aver letto gli Analitici primi (o anche i secondi, se volete), i maori hanno da sempre coltivato una passione genuina per le categorie aristoteliche, bench, ancora una volta, interpretandole allincontrario: per loro lindividuo singolo come se non esistesse. La trib, la trib quella che conta: il maaoritanga, che come dire la cavallinit degli uomini. Senza di quello non c vita individuale, non c senso nel mondo, luomo non conta niente. Ma nel mio mondo privato invece erano proprio le persone a contare, gli uomini presi da soli, per quello che valevano. Himaera Rapiti. Lui s che era un vero maori. Un ragazzone alto quasi due metri, la barba curata, tagliata secondo un disegno sottile, un tatuaggio discreto sotto il labbro inferiore, e la voce profonda. Stivali alti da motociclista, neri, lucidi. Il mio tutore di lingua. Era improbabile che fosse un indigeno integrale, di san-

Gli hot pants delle ragazze sono in genere molto ridotti, ma solo per comodit, senza esibizionismi pruriginosi. Peraltro non c davvero gran che che valga la pena di esibire. Eh si: la bellezza, soprattutto femminile, il punto dolente. Le dinamiche immigratorie e la dura legge mendeliana hanno prodotto qui una specie umana resistente e civile, ma distratta e poco duttile in fatto di estetica. Prevalgono tristemente i bacini abbondanti e le gambe ad X, anche nelle pi belle, e caviglie robuste e polsi massicci, coloriti rubizzi o Eccessivamente pallidi. Degli immigrati (cinesi, coreani, polinesiani) non ne parliamo. I maori appena si vedono. Bench la toponomastica qui sia pi rispettosamente etnica che a Barcellona, ne incontri pochissimi in giro, ed difficile dire se siano davvero maori, o samoani immigrati della seconda generazione. Ma questo un discorso lungo. Sar per la prossima volta.

Glenmore street

gue puro. Troppo alto, ed i lineamenti troppo regolari. Ma il suo maori era ineccepibile: un fluente intreccio sillabico, ricco di chiaroscuri, privo degli accidenti e delle aspirazioni che corrompevano la pronuncia dei suoi concittadini anglosassoni. Le vocali suonavano chiare e rotonde, e cos pure le impossibili nasali Ngati Porou, il suo dialetto. Per questo faceva quel mestiere: insegnare a noi principianti la vera lingua maori, te reo rangatira, la lingua regina. Himaera, Isamel, Ismaele. I suoi antenati (non pi di quattro o cinque generazioni prima) avevano cercato di riprodurre nella ridotta gamma dei suoni a loro disposizione i patronimici biblici e i neologismi inglesi, ottenendo quelle curiose assonanze. Himaera Rapiti, Ismael Rabbit, Ismaele il Coniglio, come lo si sarebbe tradotto in Italiano, era il nostro tutore di maori. - Ka haere Pita i te riri, - ripete pazientemente a me ed alla pallida Philippa, la mia compagna di banco dalle guance rubizze e i seni protrusi - Kei te marama, Philippa? - capisci Philippa? No, Philippa non capiva. Lo guardava con quei suoi occhioni acquosi, interrogativi, e non rispondeva - Kei te marama? E io guardavo lei, di sottecchi, sbirciando nella sua scollatura, mentre cercava di far suonare nel modo giusto quelle vocali cos difficili per uninglese. Torceva la bocca in ogni possibile posizione, ma quella lingua era al di sopra delle sue possibilit. Qualche volta Himaera perdeva la pazienza, e si metteva a urlare: - he tama te uaua, he tama te maroro, kai taku ringa e mau ana taau upoko A quel punto nessuno ci capiva pi niente e tanto valeva tornarsene a casa a ripassare la lezione precedente. Quelle lezioni erano uno degli impegni principali dei miei primi giorni alla Victoria, durante i quali cominciavo a sperimentare la vita dorata del sofisticato studente europeo nel mondo elementare e curioso dei coloni doltremare. Un

mondo senza artifici e affettazioni, cordiale ma discreto, cos diverso da quello sfibrato e bizantino da cui provenivo. A volte provavo simpatia per questa vita cos semplice. A volte invidia. Qualche volta, pi tardi, quando anche il senso di libert che avevo sperimentato quella prima notte cominciava ad affievolirsi, mi lasciavo prendere dalla tristezza, un senso di abbandono e di insensatezza che forse era soprattutto mio, soltanto mio. Ma almeno per questo cera un antidoto, come sanno tutti gli emigrati, o - per dirla meglio -, un contravveleno, da assumere con tutte le precauzioni del caso, perch altrettanto tossico: la frequentazione dei propri simili, quegli stessi detestati italiani che troppo precipitosamente mi ero illuso di essermi lasciato alle spalle dallaltra parte del mondo. Wellington una capitale piuttosto rustica, un luogo semplice per persone semplici. E piccolo. Bench non si tratti di gente particolarmente socievole, finisce prima o poi che li incontri tutti, quelli come te. Frequentano gli stessi posti, fanno le stesse cose, vedono gli stessi film. E facile conoscersi, per la gente di un certo tipo, e soprattutto era facile, allora, per gli italiani, che costituivano una colonia piccola piccola, un gruppo ristretto di persone che quasi sarebbero potute entrare tutte in un condominio, e che vivevano l come se fossero in una prigione tutta speciale. LAustralia piena di italiani, lo sanno tutti: gente con un passato da poveracci e analfabeti, per lo pi, che hanno fatto fortuna nei modi pi strani. Comunit integrate e talvolta potenti, dai cognomi curiosi: Malcorrego, Asterullo, Grossatesta, appunto. In Nuova Zelanda no, la storia era andata diversamente. Pochi italiani si erano arrischiati a spingersi fino l, e daltra parte non cerano molte ragioni per farlo. Quando sei arrivato a Canberra hai fatto gi abbastanza; dopo c solo una distesa ragguardevole di acqua salata, e l dentro la Nuova Zelanda, per quanto grande, non sembra granch diversa da Pitcairn, o dalle Galapagos.

Quasi tutta la comunit italiana pi anziana aveva buone ragioni per trovarsi l, anche se a me non sembravano cos buone: mi accorsi presto che parecchi di loro avevano un conto da regolare, una cointeressenza personale nella guerra civile, e debiti di tipo molto particolare, che attendevano di essere pagati nella madre patria. Gente che si era compromessa con il regime, che forse aveva fatto qualcosa di imperdonabile ed aveva pensato bene di cambiare aria subito dopo la guerra. Vecchi fascisti, per chiamarli con il loro nome. Gli altri erano funzionari e impiegati dellambasciata, oppure insegnavano italiano alla Victoria, un lusso esotico che luniversit si sarebbe permesso per pochi anni ancora. E poi i pescatori, naturalmente: pescatori veri, o che almeno lo erano stati una trentina di anni prima, a Gisborne, a Napier, o a Kaikoura, avanguardia di un flusso migratorio che non era mai incominciato. Cinquanta, sessanta, forse; non pi di cento, comunque, compresi i diplomatici e i professori, e un gruppo ridotto di individui meno facilmente classificabili, che erano arrivati su quelle sponde alla fine di percorsi personali incongrui e alquanto accidentati. Ognuno aveva la sua storia da raccontare, ammesso che ne avesse voglia. Storie di sradicamento e di solitudine, come tutte le storie di emigranti, ma con in pi una sensazione tutta antipodale di straniamento, quellimpressione di essere approdati nel nulla, in un nulla stupefacente e ospitale. A casa del diavolo mi disse una volta, con una punta inaspettata di amarezza, una signora pistoiese che viveva a Paraparaumu, ma tutti sapevamo che non cera niente di meno demoniaco sulla faccia della terra, e che la sorte che li aveva condotti fin l, volenti o nolenti, tra tanti posti che cerano al mondo, era stata bizzarra, forse, ma certo tuttaltro che crudele. Te herenga waka, come dicevano i maori, che avevano fatto la stessa esperienza qualche centinaio di

anni prima: un posto dove tirare in secco la canoa. Gli italiani di Wellington si ritrovavano il venerd in due club blandamente antagonisti: il Dante Alighieri, piuttosto conservatore e reazionario, e il Giuseppe Garibaldi, ancora pi conservatore e reazionario. Col tempo mi decisi a frequentare equamente le loro radunate sociali, soprattutto perch vi si mangiava un cibo assolutamente migliore della razione indigesta che passava il convento della Weir House. Non che la compagnia fosse particolarmente stimolante: a parte le loro detestabili opinioni politiche sembrava tutta gente che avesse vissuto quegli anni in una bolla nel tempo che li aveva preservati cos comerano quando avevano lasciato lItalia, qualche decennio prima. - Voi siete toscano? ancora ci si dava del voi, nella comunit Ci sono stato una volta, a Terni, trenta anni fa, forse quaranta Il vecchio presidente del club aveva unaria sospettosa, e unespressione guardinga negli occhi porcini, mentre mi interrogava con il suo bicchiere di aperitivo nella mano durante una delle solite festicciole del venerd, nel salone dei rinfreschi affittato al secondo piano di Haymarket Building, su Cuba Street. - no, signore, Terni non in Toscana. S, io sono toscano. Una piccola citt, a sud, vicino a Firenze (non era vicino a Firenze, ma almeno cos ci si capiva meglio). Lorchestrina in sottofondo suonava vitti na crozza, ma il cantante era samoano, e sbagliava tutte le parole. Sembrava per che nessuno ci facesse caso. Parlavo lentamente, per farmi capire meglio, perch l parecchi erano siciliani e non intendevano altro che quella lingua, o almeno la lingua che i siciliani avevano parlato quaranta anni prima a Enna, a Trapani, a Palermo. Per loro la Toscana era un posto pi esotico ancora di Samarcanda. Buttai gi in fretta la tartina al cetriolo, non volevo parlare con la bocca piena. Il vecchio mi intimoriva, lo ammetto: tutto incartato nel suo doppiopetto gessato, il nodo della cravatta minacciosamente

sporgente, aveva quellespressione da padrino che avevo visto solo nei film americani, prima di allora. Ammicc con una espressione di complicit, scoprendo una fila di dentoni da pescatore. Il suo anello con brillante era grosso come una patata. - come fate laggi, con tutti quei comunisti? Ecco! Mi dovetti mordere la lingua, ancora una volta. Ero un ospite, dopotutto, e quelle tartine non erano niente male. Mi dissi che gli avrei consentito solo unaltra di quelle sortite odiose, due al massimo, ma niente di pi. Il tempo di buttar gi un altro paio di bocconi saporiti, e un bicchiere di vino decente. Replicai con un dignitoso silenzio, scrollando le spalle, un gesto che poteva significare tutto e il contrario di tutto. Ero arrivato da un paio di settimane soltanto, e non volevo cominciare cos presto a mettermi contro la comunit: certo non mi sarebbero mancate le occasioni. Mi sogguard sornione: un vecchio settantenne pieno di veleno. Anni di fatica a tirar su le reti nelloceano, anni di pesce insipido e di stenti crostacei, passati in mezzo a gente incomprensibile: vivere in ghetto per secoli, e la prima cosa che ti viene in mente di chiedere ad uno che arriva dal tuo paese se per caso non faccia parte anche lui della detestabile razza comunista. Queste erano le pie serate sociali che si officiavano al secondo piano di Haymarket building. Conferenze letterarie spaventosamente noiose, qualche vecchio film in lingua: Tuppe tuppe marisci, Marcellino pane e vino, laudace Giardino dei Finzi Contini. Mancava solo di giocare a tombola. Eppure questo microclima provinciale fin per non dispiacermi del tutto. Nella sua feroce banalit nascondeva qualcosa di incomprensibile e quasi arcano: una specie di malinconico esorcismo di italiani contro un mondo alieno troppo sottilmente diverso dal loro. Un mondo in cui anche i padroni di casa avevano problemi di identit, ed erano anche loro, a tutti gli effetti, degli emigrati.

Non che in quelle serate parrocchiali si avvertisse un senso reale di comunit, il sentimento fraterno di solidariet che si immagina alberghi nel cuore degli sradicati, eppure vi aleggiava un gradevole calore che non avrei saputo dire da dove provenisse, e del quale, col tempo, non riuscii a fare a meno. Qualcosa che promanava dai riti semplici di quella societ primitiva, dalle tartine disposte ordinatamente sui vassoi, dai tovaglioli bianchi annodati al collo delle bottiglie di chianti, dalla compunzione delle signore nel trattenere gli sbadigli, dai completi gessati tutti uguali dei loro mariti. La ricerca di una decenza, di un decoro elementare in quel mondo circondato da un deserto vuoto di acqua, lontano da qualsiasi posto. Tutto questo mi rendeva pi indulgente verso le stranezze e lottusit di quei vecchi reazionari. Haymarket building sembrava il posto dove ognuno poteva portare con sobriet la propria malinconia, sconosciuti che si incontrano per caso sotto un portone per ripararsi dalla pioggia.

Glenmore street

Oriental bay

vecchio e nuovo a Oriental Parade

Oriental Parade

Cable car vantage point

Salamanca road

Cable car a Kelburn

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