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IL RUMORE DELLE COPPOLE,

IL SILENZIO DEI COLLETTI


L’impegno antimafia e la sfida della mafiosizzazione
(Savignano sul Panaro (MO), 3-5 luglio 2009)

Introduzione
di Marcello Cozzi

Il tema che ci siamo dati quest’anno è un tema tutto sommato in continuazione con quello
dell’anno scorso, ma anche in continuazione con il percorso formativo che ci siamo dati quest’anno
negli incontri di Rocca Di Papa: “Il rumore delle coppole, il silenzio dei colletti”.
Nello stesso tempo vogliamo rispondere anche a quell’altra sfida che ci lanciava Luigi l’anno scorso
alla fine del nostro Seminario sempre qui a Savignano: rispondere cioè a queste sfide andando in
profondità. Questo per noi è diventato un imperativo, abbiamo bisogno di capire.
È sempre più chiaro a tutti che la mafia non è più soltanto mafia, che non è più soltanto
riconoscibile nei volti dei soliti noti, ma che invece ci sono anche altri volti e che la mafia è anche
tanto altro; e che la storia di mafia è anche storia di tanto altro. Tutto questo potrebbe essere
sintetizzato appunto in questo slogan di quest’anno, “le coppole e i colletti”, nel senso che non è
detto che i colletti bianchi e la loro criminalità sia meno assassina di quella delle coppole; è una
criminalità assassina come quella delle coppole, ma è sicuramente una criminalità impunita ed è una
criminalità camuffata. Quando parliamo di “colletti” non possiamo non ricordare una data all’inizio
di questo nostro seminario: tra pochi giorni, il prossimo 11 luglio, sono 30 anni dall’omicidio di
Giorgio Ambrosoli (l’11 luglio 1979). E come facciamo a non dire davanti a questo e a tanti altri
avvenimenti del nostro Paese che la criminalità dei colletti non è una criminalità meno assassina di
quella delle coppole!
Ci poniamo dunque una serie di domande e per questo abbiamo chiamato qui alcuni nostri amici,
compagni di viaggio, ma anche persone autorevoli, voci che ci possano aiutare a capire e a
rispondere a quelle domande. Vogliamo chiedere a Franco Cazzola, che è docente universitario a
Firenze, a Nando Dalla Chiesa, nostro Presidente onorario, a Giancarlo Caselli, altro nostro
compagno di strada e Procuratore generale della Repubblica a Torino, a Vincenzo Macrì, sostituto
procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, e a Leopoldo Grosso, uno di noi e che tanto si
spende nel Gruppo Abele come vicepresidente, vogliamo chiedere, dunque, a questi nostri amici che
cosa fanno oggi le coppole, in che modo si stanno organizzando, quali sono i loro affari, ma
vogliamo anche chiederci di cosa ci parla il silenzio dei colletti, se è davvero così silenzioso questo
silenzio e se esso, invece, non è molto più assordante di quanto immaginiamo. Tutto sommato ci
sembra di poter dire, se facciamo un’analisi di quello che accade nel nostro Paese, che questo
silenzio non è poi così silenzioso e che forse è una modalità di presenza e di operatività che
dobbiamo imparare a interpretare.
Su tutto questo vogliamo riflettere in queste giornate.
Luigi ci ricordava ieri che non è mai scontato quello che facciamo, dobbiamo sempre motivare il
nostro impegno e il nostro lavoro. Ed allora eccoci qua!
Io ringrazio i nostri amici e auguro a tutti un buon lavoro.
“Corrotti, corruttori e corruttibili”
di Franco Cazzola, Docente Università di Firenze

Un brevissimo chiarimento per capire con chi avete a che fare. Ieri sera arrivando è stato
pronunciato il mio nome, al ristorante, e una persona con l’aria un po’ stupita mi ha chiesto se fossi
stato candidato sindaco a Bologna e io ho chiarito subito una cosa: non ho nulla a che fare, né come
parentela, né come conoscenza, (non ho neanche i soldi che ha lui, ma questo non mi dispiace), né
col candidato sindaco di Bologna, né con un altro personaggio pubblico molto noto, sindacalista e
senatore della Repubblica, che si chiama Giuliano Cazzola, e non ho nemmeno a che fare con un
altro personaggio che si chiama Franco Cazzola come me, che è uno storico di Reggio Emilia che
insegna a Bologna.
Corruzione è una parola semplice. Cosa vuol dire una cosa “corrotta”, un corpo “corrotto”,
un oggetto “corrotto”? Vuol dire semplicemente che sta andando in decomposizione, che si sta
trasformando, generalmente in qualcosa di brutto. È una parola che ci portiamo dietro nei secoli,
una parola molto conosciuta in tutti i regimi, in tutti i sistemi sociali e in tutte le epoche; poi ci sono
le epoche e i sistemi sociali che ne sono più intrisi, o intrisi periodicamente, oppure intrisi ma di cui
periodicamente se ne sa qualcosa. È un fenomeno sommerso - e il caso italiano in questo caso è
illuminante – e periodicamente ci accorgiamo che c’è una parte del nostro corpo sociale che non
funziona tanto bene, che si sta decomponendo.
Noi abbiamo una scadenza di questa comprensione e visibilità del fenomeno, di coscienza collettiva
del fenomeno, più o meno ogni 10 anni.
Però attenzione: corruzione di un corpo, corruzione di un oggetto, corruzione di un qualcosa può
avere tanti significati. Noi siamo abituati a ragionare in termini di corruzione perché è “rottura di
regole scritte”, di leggi; c’è un corrotto, c’è un corruttore, c’è qualcosa che viene scambiato, che
viene venduto e che viene comprato, chi vuole avere certe risorse e chi ne vuole avere altre. C’è
un’altra forma di corruzione, che è la corruzione di un “regime sociale”, che avviene non tanto
perché si va contro una legge, ma perché si stanno corrompendo, si stanno cioè decomponendo,
quelle che sono le regole fondamentali, leggi non scritte che qualcuno può chiamare “etica” o
“morale”, che tengono insieme una società.
È inutile fare esempi concreti, vicini o lontani a noi, ma se io ho una posizione pubblica e
devo giudicare qualcun altro, sarebbe opportuno “eticamente” che io con questo qualcun altro che
devo giudicare non avessi rapporti troppo stretti. Opportuno: c’è una legge che lo impedisce, c’è
una morale che lo impedisce; però questa è materia di altri, di filosofi, io sono abituato a mettere in
fila i numeri. I numeri che appaiono ai nostri occhi, cioè qual è l’incidenza di un fenomeno
sommerso qual è la rottura di regole scritte (cioè andare contro le leggi scritte), quando si
verificano, come si verificano questi fenomeni, che entità hanno e chi riguardano; e qui il titolo
dell’incontro di oggi, che non ho inventato io ma che è molto bello, “corrotti, corruttori e
corruttibili”.
Corrotti: parecchi.
Corruttori: non pochi.
Corruttibili: tutti.
Potremmo anche finirla così, ma non è così semplice. Corruzione delle regole scritte vuol
dire che il reato o il non-reato di corruzione dipende da ciò che viene scritto.
Nell’antica Firenze di cinque o sei secoli fa le cariche pubbliche si compravano tranquillamente, e
così succedeva nelle signorie, nei principati ecc.. C’era una compravendita delle cariche pubbliche:
uno voleva diventare senatore (non c’era la carica di senatore all’epoca, c’era qualcos’altro), si
comprava la carica da senatore; uno voleva diventare giudice, si comprava la carica di giudice; era
una cosa visibile, perché non c’erano regole che vietassero la compravendita delle cariche
pubbliche. Con l’avvento dello stato moderno e della democrazia vera le cariche pubbliche non si
possono comprare, ma si acquisiscono o per merito o per elezione e così via. Si possono però
cambiare le regole di quello che è reato di corruzione o simile al reato di corruzione. In Italia
abbiamo visto parecchie modifiche del codice penale, io vorrei soltanto dire che negli ultimi 20 anni
sempre di più si è tesi ad annullare alcuni reati che prima erano estremamente vicini o “inglobanti”
il fenomeno della corruzione: non sono più reati e quindi non sono più corruzione, chiamatelo come
volete, ciascuno usi la fantasia che ha per definire l’ex falso in bilancio, che non è più reato, in un
altro modo.
È un fenomeno sommerso, difficile quindi da quantificare; ci sono i sondaggi, le indagini, le
ricerche, quantificazioni basate su atti più o meno “puri”, su atti giudiziari per esempio, sui processi
e le denunce. Sappiamo che in Italia abbiamo una curva discendente nel caso delle denunce, si può
guardare all’opinione pubblica sul problema della corruzione e della concussione e quindi andare a
guardare per esempio come i mezzi di informazione ci raccontano eventuali casi di corruzione, ma è
sempre e soltanto una parte del fenomeno.
C’è un organismo internazionale che ogni anno fa una graduatoria basata sull’impressione di
operatori economici; io non so chi sono questi operatori economici che intervistano, ad ogni modo
in questa classifica internazionale l’Italia non ha mai raggiunto la sufficienza, nel senso che quando
è andata bene eravamo al 5,8 su un valore massimo di 10 e con un minimo di 0.
10 vuol dire che è un paese meraviglioso, senza o con pochissima corruzione (ad es. Svezia o
Danimarca), 0 sono paesi come lo Zimbabwe ecc.; noi siamo nella parte bassa della classifica di
Transparency International, siamo sempre stati nella parte bassa, e siamo recentemente sotto la
Namibia (Paese africano non particolarmente famoso e non particolarmente democratico e non
particolarmente sviluppato in termini di diritti civili e di rispetto dello stato di diritto), cioè come
impressione degli operatori economici noi siamo più corrotti della Namibia. Credo che l’ultima
statistica ci metta più o meno alla pari della Grecia o della Turchia. Siamo sicuramente gli ultimi in
Europa.
Ci sono dei bellissimi libri di storia della corruzione in Italia e fanno risalire il caso della corruzione
più o meno al momento della nascita dello stato italiano. Il primissimo grande scandalo scoppia alla
fine del XIX° secolo ed è lo scandalo delle Ferrovie, della Banca Romana ecc. ecc.; lasciamo però
perdere l’archeologia, non c’è bisogno di andare a scavare tanto nel passato per trovare esempi,
quando ce ne sono di più vicini a noi.
Nel 1946 nasce la Repubblica e nello stesso anno scoppia il primo scandalo di corruzione, in
una materia estremamente delicata. Nel 1945 era arrivata anche in Italia con le truppe alleate la
penicillina e c’è un accordo tra Italia e Stati Uniti per la vendita a prezzo “politico”: importavamo la
penicillina ad un prezzo estremamente basso e il Governo italiano poteva venderlo con una piccola
aggiunta al prezzo, che doveva comunque essere estremamente basso. Che cosa succede? Succede
che l’allora Alto Commissario per la Salute (il nostro Ministero della Sanità) sulla vendita della
penicillina mise una piccola – chiamiamola così – “tangente”, che nel 1947-48 ha permesso una
serie di ville e villine, più o meno meravigliose, in posti più o meno stupendi per coloro che erano
responsabili dell’importazione e della vendita della penicillina in Italia. Il processo è andato avanti
20 anni e non si è mai concluso con una sentenza di colpevolezza.
Nel 1954-55 scoppia lo scandalo nell’ufficio delle imposte, coinvolge Liguria, Toscana e poi tutta
Italia: tangenti per non far pagare le tasse o tangenti per utilizzare in modo diverso le entrate fiscali;
burocrati, politici, cittadini che non volevano pagare le tasse.
Nel 1962-64 costruivamo gli aeroporti dove c’è nebbia, palude e dove il terreno frana. Importiamo
banane sulle quali mettiamo tangenti.
Nel 1973-74 grandissimi scandali nel campo bancario: casse di risparmio, associazioni delle casse
di risparmio, grandi banche; viene coinvolta mezza classe politica mai processata (piccola parentesi:
per processare una classe politica ci voleva il benestare del Parlamento e Nando Dalla Chiesa lo sa
bene che cosa vuol dire chiedere l’autorizzazione per processare un parlamentare, una procedura
lunghissima e in genere non si arrivava ad avere il benestare per processare un parlamentare). Sono
andato a rileggere i giornali a proposito e si è parlato per la prima volta di “questione morale”, ma
sono pochi quelli che ne parlano in questi termini; perlopiù si parla di “mele marce”, non di un
sistema della corruzione; pochi però grossi, perché certo costruire l’aeroporto di Fiumicino pagando
sostanzialmente 10 volte quello che doveva costare, su un terreno paludoso in una zona piena di
nebbia, certo non sembra una operazione delle più sensate.
Nel 1982-84 scoppia una serie di scandali in tutta Italia a livello di amministrazioni locali: si
comincia con il Mezzogiorno ma si arriva anche al Nord; si parte dalla Puglia, si arriva alla
Calabria, fino al livello nazionale. C’è poi lo scandalo delle cosiddette “lenzuola d’oro” alle
Ferrovie: lenzuola che oggi dovrebbero costare all’incirca 50 centesimi di euro, che invece
venivano pagate sostanzialmente 50/60 volte di più. Vennero coinvolti moltissimi personaggi,
politici, burocrati, oltre naturalmente a quelli che fornivano le lenzuola d’oro alle Ferrovie.
Ciò che accadde nel 1992-93 è inutile che lo ricordi perché è ieri, lo sappiamo molto bene.
Abbiamo forse saltato un passaggio, perché nel 2002-2003 c’è poca roba, i casi di quegli anni di cui
si parla negli organi di informazione sono in media 30-35 l’anno; tenete presente che negli anni ’70
eravamo anche lì a 30-32 casi l’anno, nei primi anni ’80 siamo a 105 casi l’anno, si scende a 67-70
a metà degli anni Ottanta, si risale a 106 casi l’anno alla fine degli anni ’80, si va a 260 casi negli
anni di Mani Pulite, si scende a meno di 90 negli anni successivi a Tangentopoli e poi diventiamo
un paese “miracolato”, nel senso che non c’è quasi più corruzione (una quarantina di casi).
Negli ultimi tre anni siamo ad una media di 90 casi l’anno. Che cosa e chi riguardano questi
casi? Quando si studia un fenomeno si fanno sempre le cinque banali domande: chi c’è di mezzo?
Come avviene il fatto? Quando? Dove? Perché?
Allora, dove avvengono questi fatti? C’è sempre una primogenitura del Mezzogiorno. La
maggior parte dei casi avviene al sud di Roma, ma la Lombardia è un’altra zona del nostro Paese
particolarmente “sensibile”. Ripeto, è un fenomeno sommerso, quindi “sensibile” significa che di
questi casi ne viene data notizia, perché c’è qualcuno che denuncia il fenomeno e c’è qualcun altro
che lo prende in carico e cerca di capire che cosa è successo. Qualcuno denuncia il fatto e qualcuno
pensa che rappresenti una notizia e che quindi se ne debba scrivere. Se voi andate a guardare in
internet gli archivi dei maggiori giornali italiani (Repubblica, Corriere) cercate la parola chiave e
trovate gli articoli; il problema è che questi giornali hanno delle redazioni locali che però non sono
in tutte le regioni e in tutte le province, allora se per esempio voi guardate cosa è successo in
Trentino Alto Adige (dove non c’è una redazione locale né di Repubblica né del Corriere), in
Trentino non succede nulla. Dovete andare a vedere i giornali locali per scoprire che anche in
Trentino la corruzione periodicamente rispunta fuori e per quanto riguarda il “chi” e il “perché”,
anche in Trentino siamo più o meno come nelle altre regioni italiane.
Faccio un altro esempio che conosco meglio del Trentino: in Sicilia Il Corriere della Sera e
Repubblica hanno una redazione palermitana; se voi cercate notizie su Catania nelle cronache locali
di Repubblica e Corriere non troverete assolutamente nulla, non c’è niente, non soltanto la
corruzione, ma nemmeno i morti ammazzati, gli incidenti ecc.; Catania non esiste. E allora anche lì
forse potreste andare a guardare i giornali locali. Ciancio cerca di non dire nulla sul suo
“principato”, sul suo “reame”. Dico questo perché l’emersione di un fenomeno è molto parziale, i
dati che si possono estrapolare sono dei dati che bisogna prendere molto con le pinze, però qualcosa
ci dicono, non in termini quantitativi ma in termini di fenomenologia.
Come avvengono questi casi di corruzione e con quali effetti? Ieri sera raccontavo di un
episodio che mi è accaduto, di piccolissima corruzione, ma estremamente sintomatico; una città
italiana, un ufficio anagrafico, qualcuno ha bisogno di una carta d’identità, l’ufficio non brilla per
efficienza e perciò se uno va in questa cittadina si può sentire rispondere di tornare dopo 20 giorni.
“Ma a me serve domani”, e allora ti rispondono “beh, si può aggiustare la cosa”. Tanti anni fa
l’“aggiustamento” della cosa significava 5.000 lire; a due anni da questa prima valutazione della
prestazione il costo di questo aggiustamento era salito a 10.000 lire. Come mai? È aumentata la
domanda di documenti in tempo breve e parallelamente aumenta il costo. È un caso di piccolissima
corruzione, ma in tanti casi non si tratta nemmeno di corruzione perché il fenomeno avviene così
tanto alla luce. Faccio un esempio della mia città natale, Torino: quando ero ragazzino io, davanti
all'ufficio anagrafico del Comune di Torino c'era un bellissimo ufficio di un privato che forniva
soluzioni in tempi rapidi per lo svolgimento di pratiche anagrafiche; c'era l'insegna (c'è ancora) ed è
tutto legale, tutto alla luce del sole, basta andare lì e pagare e loro forniscono i documenti che
l'ufficio anagrafe vi fornirebbe in tempi più lunghi. Tutto perfetto, tutto regolare, ma qual è la
differenza con il caso che facevo prima? Da un lato reato, dall'altro no? In realtà bastava scavare un
po' per scoprire che quella società che vi forniva i documenti in tempo quasi reale faceva fare il
lavoro in nero ai funzionari del comune dell'anagrafe di Torino.
Perché si corrompe e perché ci si fa corrompere? E perché tra i corruttibili potremmo esserci
tutti noi, sostanzialmente? Vi racconto un episodio: io ho fatto l'Assessore alla Cultura al Comune di
Catania nel 1988-89 per 14 mesi. Mi ero insediato da poco nel mio ufficio, quando tra le persone
che prendono appuntamento venne un signore che possiamo chiamare press-agent, organizzatore di
concerti, che aveva la sua lista di assistiti, con a fianco il costo dei concerti, delle manifestazioni
ecc. Questo signore si siede, si congratula per la nuova carica, poi dice “io ho portato, come ho
sempre fatto con i suoi predecessori, una lista di proposte di concerti ecc., decida Lei quello che
preferisce” e mi mette davanti due fogli; io credo che siano due fogli di iniziative diverse, ma in
realtà i nomi sono gli stessi, le iniziative sono le stesse, solo che in una lista le iniziative costano X,
nell'altra costano X+5% . Ho chiesto che cosa volesse dire e lui mi rispose: “decida Lei quale costo
vuole addebitare all'Amministrazione, se vuole quello che costa meno o se vuole quello che costa
5% in più, che ovviamente non va a me”. Corruttibili siamo tutti. Qualcuno si domanderà che cosa
ho fatto in quel momento: ho chiesto a quel signore di stare fermo lì e ho chiamato qualcuno della
mia segreteria, dopodiché ho chiesto a quel signore di ripetere quello che aveva detto a me fino a
quel momento; ebbene il signore si alza molto incavolato e dice “ho capito che con Lei non si può
trattare”. Quel giorno sono uscito dal mio ufficio che mi sembrava di essere più alto di 15 cm da
quanto ero felice di quella affermazione!
Perché si corrompe? In queste fotocopie che ho fra le mani ho elencato tutti i tipi di
corruzione degli ultimi tre anni che sono diventati visibili, di cui abbiamo avuto conoscenza
attraverso i giornali; in 3 anni sono 25 tipi diversi, tra cui: si corrompe per avere la pavimentazione
del manto stradale; per avere un appalto per la ricostruzione post-alluvione o post-terremoto;
appalto per il consolidamento di una collinetta sopra il cimitero; appalto per la costruzione del
palazzo di una Regione; appalto per la ricostruzione di un lido lacustre; ve ne leggo alcuni che sono
divertenti: uno vince un appalto regolare per forniture, si fornisce, passano i mesi e alla fine si
corrompe un funzionario per essere pagati per il lavoro che si è fatto!; avere la certificazione
antincendio; snellire (non infrangere) le procedure per autorizzazioni paesaggistiche; ristrutturare il
proprio villino a spese del pubblico senza farsene accorgere; costruire e poi usare una tomba nel
cimitero monumentale; costruire un parcheggio, avere una variante urbanistica, avere un condono
edilizio in maniera illegale (che sembra un paradosso), ottenere finanziamenti dall'Unione Europea,
avere il monopolio dei funerali.
Quindici anni fa ho scritto un libro, che vi posso mostrare perché non è più in commercio,
intitolato “L'Italia del pizzo”, che sostanzialmente elencava tutti i casi di corruzione che possiamo
incontrare in tutta la nostra vita. I miei colleghi dell'università mi dicevano che scrivevo quelle cose
perché avevo una visione distorta dal fatto di vivere al sud; il primo capitolo tratta la questione di
come avere un certificato di nascita, mentre l'ultimo tratta di come avere un funerale. Sono circa 15
i casi di corruzione in ambito “funerali” negli ultimi 10 anni. Cosa vuol dire corrompere qualcuno
per avere il monopolio dei funerali? È molto semplice: basta avere qualcuno in una clinica, in
ospedale, ecc., che avverte quando qualcuno sta morendo. Il “come” è di una semplicità assoluta,
non c'è di mezzo la politica ma da una parte imprenditori di pompe funebri e dall'altra parte un
funzionario pubblico, un infermiere, un medico.
Andiamo avanti: cosa è successo negli ultimi anni? Si corrompe per continuare a spacciare
stupefacenti in grande o in piccola quantità; qui i soggetti sono l'imprenditore-spacciatore e qualche
esponente delle Forze dell'Ordine; i casi sono tanti e in ogni luogo, non c'è una zona d'Italia in cui
questo avviene e una zona in cui non avviene. Rimanendo sempre in questo ambito: corrompere o
mettersi d'accordo per cancellare le multe ai TIR che superano tutta una serie di limiti (di velocità,
di ore di guida, ecc.); anche questo è semplicissimo: basta mettersi d'accordo con alcuni soggetti
predisposti al controllo; corruzione quindi non per “far fare” qualcosa, ma per “evitare” che venga
fatto qualcosa.
Siamo ancora nel classico: evitare le multe della Stradale, chiedere una consulenza fiscale.
In alcune zone del Paese si è invece raggiunto un livello alto di raffinatezza: nel 2009 non si
corrompe più solo per un posto o per una promozione, ma per farsi assumere come precario; si
corrompe per avere un posto da maestro, che dalle cronache risulta costare “una collanina” (non so
se con o senza braccialetto); siamo anche a livello di contropartite abbastanza banali quindi.
Una delle attività di corruzione che è estesa a tutto il Paese è quella finalizzata ad evitare i controlli
sulla manodopera clandestina o sulla manodopera che lavora in nero. Si sa? Sì. Si fa qualcosa?
Poco.
C'è poi tutto un settore che è diventato particolarmente ricco e diffuso, che è quello dei rifiuti, che
vuol dire tante cose: ottenere la certificazione per utilizzare una discarica, per averla, per gestirla,
per prorogare i termini, per non avere problemi coi materiali che si vuole riciclare. Si va da casi
molto piccoli, in cui bastano tre persone, a casi molto più grandi, che comportano giri di denaro
ingenti e maggiori difficoltà nell'affrontarli.
Altri casi: di recente, come sapete, è stata introdotta la novità di fare dei test di ingresso per le
università, quindi per entrare bisogna superare i test di ammissione. Sabino Cassese alcuni anni fa
scrisse che tante più occasioni si creano di contatto tra pubblico e privato, quante più occasioni di
corruzione si creeranno. Ci sono i test? Basta saperli prima. E come si sanno prima? Facilissimo,
perché di solito i test li sanno non soltanto i docenti, ma anche gli uscieri, gli impiegati, ecc, e
questo rende, perché i test di ammissione riguardano tantissimi soggetti. Una volta che uno è entrato
all'Università poi vorrebbe anche laurearsi, e questo potrebbe essere faticoso, visto che si dovrebbe
fare gli esami, superarli, scrivere una tesi di laurea, fare una cosa decente e sapere di cosa si è
parlato. Poi magari, dopo che uno si è laureato vorrebbe anche rimanere in Università e fare
carriera, e sono le famose “concorsopoli” o “parentopoli”.
Un mio amico, Alberto Vannucci, ha scritto dei bellissimi libri sulla corruzione basandosi
solo sugli atti giudiziari, ma che risulta abbastanza parziale; io da anni, dal 1988, uso un altro
metodo altrettanto parziale, che è basato sui giornali, ma sui giornali vanno comunque solo i casi
più eclatanti.
Un altro settore in cui la corruzione è estremamente estesa è quello della sanità. Non voglio dare
un'immagine disastrosa del nostro meraviglioso Paese, anche in altri Paesi succedono all'incirca le
stesse cose. I tipi di corruzione sono più o meno gli stessi da tutte le parti, ma quello che cambia è la
quantità, l'intensità e la continuità, e il fatto che da noi invece di fare qualcosa contro questo
fenomeno, si arretra ma nello stesso tempo urlando che bisogna fare qualcosa.
I fenomeni più ricorrenti sono nella sanità: corrompere qualcuno per avere l'accreditamento
pubblico di una clinica privata; casi molto frequenti riguardano l'accreditamento di farmaci che non
farebbero nulla nemmeno al mio gatto; corrompere qualcuno per far falsificare i dati relativi alla
sperimentazione di un farmaco. Il caso che è successo alcuni anni fa in Toscana è particolarmente
emblematico: una grande impresa farmaceutica multinazionale che, dopo aver tentato ed essendo
parzialmente riuscita a corrompere alcuni funzionari pubblici e parapubblici, si era inventata un
modo molto divertente: falsificare un sondaggio. O meglio, costringere il sondaggista a dire l'esatto
contrario di quello che veniva fuori dal sondaggio. L'impresa in questione fece fare un sondaggio
sulla soddisfazione dei toscani per la sanità pubblica e venne fuori che la maggior parte dei toscani
era abbastanza soddisfatta del servizio sanitario regionale. Sempre la stessa impresa convinse allora
il sondaggista a scrivere una relazione per una conferenza stampa in cui sostanzialmente quelli
abbastanza soddisfatti diventavano abbastanza insoddisfatti. Un piccolo errore di battitura, ma che
comportava che dal rapporto emergesse che la maggior parte dei toscani non era soddisfatta del
servizio sanitario pubblico regionale, per cui l'azienda poteva dire “quand'è che allora vi decidete a
comprare i miei?”.
Vorrei concludere ricordando altri due settori in cui siamo maestri in Italia, nei quali in molti
casi siamo più disposti a corrompere che ad essere corrotti: tutto il settore delle tasse (farsi
revisionare la cartella fiscale, farsi cancellare debiti nei confronti dell'INPS); e l'altro, caratteristico
prevalentemente della Toscana, che riguarda l'aggiustamento delle vendite fallimentari (basta avere
un cancelliere disponibile, un giudice fallimentare).
Chiudo ricordando come ci siano due comportamenti pubblici completamente diversi
rispetto a questo fenomeno: siamo in Svezia e il Ministro delle Finanze viene invitato una sera a
cena a casa di amici; durante la cena questo Ministro viene a sapere che durante la notte il valore di
una serie di azioni sarebbe andato alle stelle. Il Ministro appena torna a casa compra una grande
quantità di azioni di quelle società che aveva saputo a cena che sarebbero cresciute di valore. Tre
giorni dopo la cosa si viene a sapere, perché il Ministro diventa ancora più ricco di quello che già
era; viene fuori un articolo sui giornali sull'andamento prevedibile delle azioni e si dice che
qualcuno, forse, ci ha speculato sopra. A tre ore dall'uscita di questo articolo il Ministro si dimette.
Ha commesso qualche reato? No. Ha corrotto o si è fatto corrompere? No. Cosa è successo? È
successo che, avendo lui una doppia veste di privato cittadino ma anche di uomo pubblico, si era
creata ambiguità, non c'era una netta separazione tra pubblico e privato nel suo comportamento e lui
si è dimesso. All'incirca negli stessi anni in Italia avevamo un Ministro italiano che venne
incriminato per rapporti più o meno stretti con la camorra napoletana (veniva soprannominato o'
ministro); questo Ministro andò sotto il controllo del Gran Giurì del Parlamento italiano, il quale
disse che il suo comportamento non era stato meraviglioso, nel senso che lui aveva avuto
sottocosto, quasi regalato, un appartamento che valeva miliardi di Lire “casualmente” da un uomo
molto legato alla camorra napoletana. Inoltre aveva avuto quasi in regalo una barca da 9,40 m.
Questo Ministro non solo non si dimise assolutamente (nonostante quello che aveva detto il Gran
Giurì), ma addirittura si è ripresentato alle elezioni. La differenza di comportamento mi sembra
chiara.
Ultima perla: uscì il mio libro “L'Italia del pizzo” e la domenica che non era ancora uscito in libreria
venne fatta una pagina centrale di Repubblica in cui si anticipavano alcuni contenuti; alle ore 11.30
di quella domenica suona il mio telefono a Catania (a quel tempo ero a Catania) e un signore (con
uno spiccato accento partenopeo), dopo essersi assicurato che fossi io mi dice “attenda in linea, Le
passo O' ministro”; pensavo che fosse uno scherzo, ma era veramente O' ministro che si voleva
complimentare con me per il lavoro che avevo fatto, perché il Paese andava ripulito da coloro che
corrompono e mi diceva che lui era diverso dai suoi colleghi di partito; inoltre mi disse che se
avessi fatto una seconda edizione del libro ci sarebbe stata una correzione da fare: la barca che gli
avevano regalato non era da 9, 40 m. ma da 8, 90 m.

“Mafie, cultura mafiosa, mafiosizzazione”


di Nando Dalla Chiesa, Presidente onorario di Libera

Il titolo che mi è stato affidato è nato da una conversazione che avemmo un paio di mesi fa
in Ufficio di presidenza circa un’affermazione che a me sembrava condivisibile e di grande
interesse fatta da Antonio Ingroia: la mafia è meno forte di una volta, ma la società è più mafiosa di
una volta. Questo pone la questione in termini diversi, ci chiede di cercare di affinare sempre di più
gli strumenti di lettura di quello che accade, ed è quello che cercherò di fare oggi utilizzando uno
strumento che ho già utilizzato con qualcuno dei presenti e che da un po’ di tempo uso come mappa
per capire quali possano essere i nuovi punti di forza della mafia o delle mafie, e soprattutto che
cosa possiamo fare noi, che cosa accade e cosa noi possiamo fare accadere.
Prenderei un punto di riferimento: spiegare quali sono i punti di forza della mafia. In genere usiamo
tanti modi per descrivere la forza della mafia. Certe volte semplifichiamo: la mafia è forte perché ha
i soldi per comprare, le armi per intimidire, i voti per prendersi decisioni politiche. È un modo
corretto. Ce ne sono un po’ più affinati e altrettanto corretti. Io ne ho scelto uno che aiuta a mettere
in collegamento le dinamiche interne della mafia con le dinamiche della società. Indico cinque
requisiti di forza della mafia, che chiamo il “sistema delle influenze”, perché in collegamento con
quello che accade nei vari campi della società: campo economico, sociale, politico, istituzionale e
culturale/morale. Ognuna di questa definizioni è in realtà un’approssimazione (è difficile stabilire
quando una cosa è politica o istituzionale – a volte ci si riesce molto bene, altre volte i confini sono
più incerti; lo stesso vale per quello culturale/morale, quello economico e quello sociale). Serve
però per capirsi qual è la dimensione fondamentale che definisce alcuni fenomeni che accadono
nella nostra società. In ciascuno di questi campi si sviluppano i prerequisiti della forza della mafia,
la quale viene letta in termini di legittimità (la mafia è forte quando è molto legittima), quando è
invisibile (cioè quando non la si vede), quando è invisibile in un altro senso (ossia quando non si sa
fare differenze tra fenomeni diversi, che ci disturbano o che toccano l’attenzione dell’opinione
pubblica: ad esempio la corruzione, il clientelismo non sono mafia, ma sono utili alla mafia e sono
praticati dalla mafia), quando ha una forte capacità espansiva e quando ha un alto livello di
impunità.
Una mafia legittimata ed una mafia invisibile non sono in contrasto; ma come fa ad essere legittima
e allo stesso tempo invisibile? La mafia della Sicilia degli anni Settanta e Ottanta era allo stesso
tempo fortemente legittimata e invisibile; nessuno la dichiarava: non esisteva ma era legittima.
Percorreva questo binario apparentemente schizofrenico, ma totalmente interno alla cultura mafiosa,
che non si dichiara ma pretende di sapere che esiste. Se c’è molta confusione teorica, come ad
esempio capita di sentir dire nelle scuole, “professore, ma anche qui c’è la mafia perché gli
insegnanti fumano durante le lezioni”, questa è invisibilità del secondo tipo; oppure se ha una sua
capacità espansiva e continua ad allargare i suoi affari, la sua capacità di interlocuzione, la sua
presenza sul territorio, questa è impunità. Che cos’è accaduto nel tempo? Se prendiamo in
considerazione in particolare quella che è stata per molti decenni la mafia più forte, cioè
l’esperienza siciliana, Cosa Nostra, sapendo che noi usiamo ormai impropriamente dal punto di
vista scientifico, ma necessariamente dal punto di vista del dialogo, il termine “mafie” al plurale, e
che quindi ci sono altre organizzazioni di stampo mafioso quali la ‘Ndrangheta e la Camorra, che
invece hanno dimostrato di essere più forti di prima (e possiamo dire che la mafia che è stata più
combattuta negli corso di questi decenni per le ragioni note, per la natura eclatante dei delitti
compiuti, per l’aggressività dimostrata nei confronti dello Stato, per aver colpito simboli molto
conosciuti dello Stato, per le reazioni della società civile, ecc.), è caduta in legittimità – tanto che
anche Cuffaro potrebbe dire “la mafia fa schifo” –, è caduta in invisibilità del primo tipo; esiste!
Tanto che nessuna personalità istituzionale di buon senso potrebbe sostenere che “la mafia non c’è”;
è anche più leggibile, c’è un po’ più di cultura sulla materia, non c’è questa superficialità nel
confondere la mafia con tutto ciò che è illegale. Ormai c’è una certa capacità di distinguere la
partecipazione organica alla mafia dal fiancheggiamento; l’opinione pubblica si è formata sulla
materia.
Ha ridotto la sua espansività rispetto a quel periodo, quindi l’organizzazione che aveva quasi il
monopolio dei traffici di droga a livello mondiale insieme alle organizzazioni colombiane è
un’organizzazione fra le tante e, anzi, fa i conti con l’egemonia di altre organizzazioni mafiose. È
stata molto colpita nella sua presunzione di impunità, e non soltanto perché per la prima volta dopo
centotrenta anni di Unità d’Italia sono stati inflitti degli ergastoli in via definitiva agli appartenenti
ad organizzazioni mafiose, ne vengono inflitti sempre di più, i latitanti vengono presi, sono state
individuate anche tipologie di reato in grado di colpire con una certa efficienza l’organizzazione
mafiosa. Quindi, se quelli sono requisiti di forza, tutti quei requisiti hanno un valore più basso di
prima. Questo è stato possibile perché in ciascuno di quei campi si sono sviluppati dei fenomeni, dei
cambiamenti, delle dinamiche che hanno concorso a colpire in modo diverso ciascuno di quei
requisiti di forza. Si sono cioè sviluppati dei prerequisiti positivi in ognuno di quei livelli,
sicuramente nelle istituzioni giudiziarie, in alcuni momenti persino nella politica (pensiamo a
quando venne abolita – nonostante la presunta impossibilità di farlo – l’immunità parlamentare,
rimasta soltanto per i reati d’opinione e per gli arresti). È cambiato molto grazie al movimento degli
studenti e degli insegnanti e ad un’opinione pubblica più attenta, l’insieme degli atteggiamenti
sociali, culturali e morali. Faticosamente si sono affermate anche delle maggiori attenzioni dentro il
sottosistema economico, anche se è stato probabilmente il più resistente. Progressivamente,
pensiamo solamente alle prese di posizione degli industriali e dei commercianti. Anche in quel
sottosistema sono nate delle spinte nuove; con tempi diversi ciascuno di questi livelli di analisi della
società ha visto svilupparsi al proprio interno delle dinamiche positive, produrre dei prerequisiti
positivi. Naturalmente questa mappa va letta anche al rovescio e, quindi, dove è un maggiore livello
di corruzione la mafia sarà più forte, dove c’è una minore capacità di formulare giudizi di ordine
morale la mafia sarà più forte, dove la politica delega molto alla magistratura la mafia sarà più forte.
Possiamo quindi leggere questa mappa, come una mappa dei punti di forza e di debolezza, cercando
ogni volta, attraverso questa, di capire che cosa accade, su cosa vale la pena di impegnarsi e su cosa
si sono ottenuti dei risultati importanti.
Proviamo per esempio a leggerla in termini dell’antimafia. Ho riempito alcune caselle che
indicano delle esperienze importanti di antimafia che si collocano nel punto di incrocio dei
prerequisiti e dei requisiti di forza. Per esempio: sottosistema economico; ognuna di queste
esperienze potrebbe essere collocata in più quadranti. Nel punto di incrocio sottosistema
economico-legittimità è chiaro che movimenti come “Addiopizzo”, le cooperative sui beni confiscati
alla mafia, campagne di boicottaggio o di consumo selettivo condotti nei confronti di certe imprese
aiutano ad abbassare la legittimità e si muovono su un versante prevalentemente economico, così
come la capacità espansiva può essere limitata dallo sviluppo di una maggiore etica d’impresa nel
momento in cui c’è una capacità di risposta degli imprenditori, dal punto di vista della
legittimazione interna delle organizzazioni imprenditoriali di chi paga il pizzo, dal momento in cui
c’è una maggiore capacità d’intervento anche delle organizzazioni sindacali. Le associazioni
antiracket lavorano, a mio avviso, sempre all’interno del sottosistema economico, ma molto sul
versante dell’impunità nel momento in cui aiutano a fare denuncia nei confronti di coloro che
esercitano il racket. Il movimento degli studenti l’ho collocato nel punto di incrocio legittimità-
livello sociale (avrei potuto metterlo in quello culturale – trattandosi di studenti – ma l’azione degli
studenti è andata molto oltre la scuola, rappresentando la spina dorsale della reazione alla mafia per
molti anni e a più riprese). Possiamo capire dove sta “Libera”: io l’ho messa soprattutto nel punto
d’incrocio tra la invisibilità della mafia, perché denuncia sempre la presenza delle mafie, e il livello
morale (potremmo naturalmente ricondurlo alle cooperative), anche se Libera assume una funzione
di denuncia della presenza della mafia che ha una tensione morale fortissima, a partire da quel
lungo elenco fatto il 21 marzo di tutte le vittime della mafia. È un messaggio che comunica un
bisogno di memoria, di giustizia e di onorare le persone che sono cadute e di stare accanto ai
familiari (una dimensione morale, evidentemente, molto elevata). Tornando a Peppino Impastato,
potremmo mettere Radio Aut al punto di incrocio tra cultura e invisibilità; laddove la mafia non
esiste a Cinisi (anche se tutti sanno che esiste e che Tano Badalamenti non si può nominare) la radio
di Peppino Impastato, nel silenzio dei movimenti di contestazione di quegli anni che parlano di
altro, parla di mafia e denuncia la presenza della mafia, e lo stesso fanno I Siciliani di Catania. Si
può andare a vedere casella per casella dove le singole esperienze hanno contribuito a rafforzare la
capacità del sistema di rispondere alla mafia; stanno dentro a questo sistema influente, dove ogni
sottosistema ha prodotto delle sue capacità di reazione. È ovvio però, che se colpisci la legittimità
colpisci anche l’impunità – per questo è un sistema d’influenze – e non puoi colpirne uno senza che
abbia effetto sulla forza degli altri requisiti.
Se tu colpisci l’invisibilità colpisci anche l’espansività; un’amministrazione pubblica alla quale si
continua a dire “la mafia esiste”, se costretta a intervenire diminuirà anche la capacità espansiva sul
proprio territorio della mafia, che magari fino a quel momento è apparsa del tutto indisturbata
facendo affari senza che nessuno la toccasse. Inviterei a considerare questa mappa come sistema
dove i requisiti e i prerequisiti si condizionano tra di loro, e i prerequisiti condizionano a loro volta i
requisiti. Qui, però, stiamo dando un’immagine positiva (stiamo dicendo cos’è accaduto), ma
dobbiamo anche capire che noi possiamo farcela, che tutta questa roba è prodotto dell’attività degli
uomini, che nessuno l’ha regalata; tutte queste cose sono frutto di lotte, di impegni, di denunce, di
manifestazioni, di persone che hanno parlato, di insegnanti che hanno portato a scuola certi temi, di
studenti che hanno manifestato quando chiedevano di portare la giustificazione se andavi a
manifestare in solidarietà col compagno di classe a cui avevano ucciso il padre (negli anni Ottanta è
capitato – Tutte queste cose le ho viste!). È il frutto di un impegno plurale distribuito su più
generazioni, distribuito su più aree territoriali.
Però la società non sta ferma, e mentre noi facciamo delle cose ne succedono delle altre. Mentre noi
cerchiamo di combattere i prerequisiti di forza della mafia mettendocela tutta, la società, e non solo
la mafia, non sta ferma; e non solo Camorra e ‘Ndrangheta, magari anche approfittando del fatto
che sono entrate in un cono d’ombra perché i media hanno concentrato la loro attenzione su Cosa
Nostra, diventano più forti e aumentano la loro capacità espansiva (forse non l’impunità rispetto a
prima). Mentre accade questo, che le associazioni mafiose si ristrutturano, rispondono, trovano
nuove strategie e i punti di debolezza del sistema, anche la società e quindi quei livelli sul quale
abbiamo ottenuto dei successi, producono anche dei fenomeni che ci sono contrari, sui quali credo
che si debba riflettere.
Ne ho presi alcuni per esempio (non sono esaustivi): un primo gruppo riguarda il
sottosistema politico ed economico, un secondo gruppo il sottosistema culturale e morale. Vediamo
cos’è accaduto nel sottosistema economico: sicuramente vi è una minore trasparenza dei mercati. Il
falso in bilancio, ad esempio, certifica un orientamento a rendere l’economia meno trasparente di
quanto dovrebbe essere. A trent’anni dall’omicidio di Ambrosoli si ricorda che dopo un sistema
finanziario molto oscuro negli anni Settanta, con i casi di Sindona e di Calvi, dei passi in avanti
erano stati compiuti. Il sottosistema economico ha subito delle spinte verso una maggiore opacità,
verso l’accettazione di certi comportamenti. Non stiamo parlando dell’evasione fiscale, che c’è
sempre stata, però parliamo anche dello scudo fiscale – questo sì – della possibilità di rientro di
capitali, anche sporchi, in Italia. Vi sono state delle misure che hanno reso il sistema dei mercati
poco trasparente, e questa minore trasparenza si accompagna a una minore capacità di punire coloro
che violano le regole esistenti nel sottosistema economico (pensiamo soltanto ai casi Parmalat e
Cirio e agli atteggiamenti opposti che si verificano negli Stati Uniti quando si verificano fenomeni
analoghi). C’è oggi una carenza di liquidità e di occupazione: non è una descrizione qualitativa,
come nell’altro caso, ma si tratta di un pre-prerequisito, nel senso che tale carenza induce a
comportamenti più funzionali alla mafia – aumentano cioè il “bisogno di mafia”; il fatto di poter
avere capitali nel momento in cui non ve ne sono e di poter accedere anche a piccole cifre (perché le
banche non concedono piccole cifre). La crisi induce ad atteggiamenti più tolleranti, così come la
perdita di posti di lavoro illude che ci siano comunque delle organizzazioni che questi posti li da.
Gli atteggiamenti, prodotti da questa situazione nuova, confliggono con quelli che noi cerchiamo di
introdurre, spiegando che in realtà la mafia toglie posti di lavoro, che la mafia strangola gli
imprenditori, che la mafia ha delle controindicazioni micidiali per il mercato e lo sviluppo
economico.
Con lo sviluppo di tendenze anarcoidi civili, la perdita del senso dell’autorità, dove non esiste
un’autorità riconosciuta, dove non vi è uno stato riconosciuto, dove non ci sono regole riconosciute,
dove esiste un sovversivismo neanche strisciante, è chiaro che si perde la nozione di cosa sia uno
Stato e di cosa sia la mafia. Vi è una grande zona grigia, che si stabilisce spontaneamente, che è
fatta dei comportamenti anarcoidi, tanto più rilevanti quanto più non si hanno soltanto nei bassi di
Napoli o in alcuni quartieri di Palermo, ma si hanno a tutti i livelli della società, compresi i più
ampi. Lo stato comunica il senso dell’antistato (una dinamica micidiale per chi voglia combattere la
mafia). Non si deve pensare che la mafia è forte solo perché ha soldi armi e voti, ma per chi cerca di
leggere la mafia dentro la società concreta, le sue culture, abbiamo un declino del senso delle
Istituzioni che si accoppia bene con lo sviluppo di tendenze anarcoidi nella società civile. Abbiamo
una delegittimazione di istituzioni fondamentali, come la Magistratura e il Parlamento, della
democrazia e dell’idea di Stato al quale ci siamo affezionati (almeno noi): Magistratura
indipendente e Parlamento come capacità di esprimere la libera partecipazione dei cittadini alla
politica. È una delegittimazione, che è un po’ il cuore del declino del senso delle istituzioni, ma non
esaurisce il declino del senso delle istituzioni. Guai se non avvertissimo che il declino è più grande
rispetto agli effetti delle campagne contro Magistratura e Parlamento. Io non sono andato dentro a
certi particolari, ma è ovvio che anche il sistema elettorale, chiuso e mortificante la rappresentanza,
sta dentro quella logica di declino del senso dello Stato e di delegittimazione del Parlamento, che
tanto più può essere delegittimato quanto più viene vissuto come l’espressione di segreterie di
partito. Cerchiamo di cogliere tutto questo. Di capire che ogni cosa ne porta un’altra, che ogni cosa
si collega a un’altra e i modelli di rappresentanza operano sulla politica ma stanno dentro quel
processo che riguarda una larga zona a cavallo tra le istituzioni e la politica.
L’invisibilità materiale della mafia non riguarda più, ad esempio, la Sicilia, ma riguarda ad
esempio regioni come la Lombardia, nella quale tutte le organizzazioni e le istituzioni che hanno
responsabilità su questo tema (dalla Procura Nazionale Antimafia alla Commissione Parlamentare
Antimafia) spiegano che la Lombardia è il campo di scorreria nuovo della ‘Ndrangheta, che sta
ponendo lì le basi della sua egemonia europea, ma quando si chiede di istituire una commissione
antimafia nel consiglio comunale di Milano – dopo molti sforzi per costituirla – dopo un mese viene
abrogata. La Lombardia è una regione che decide politicamente che la mafia non esiste ed ha un
precedente soltanto nella Sicilia degli anni Sessanta e Settanta. Non si riesce misurare la gravità di
questo comportamento; non si tratta dell’invisibilità del secondo tipo (della quale non ne capisco
molto): è una decisione. Non si tratta della cultura mafiosa, ma di cultura complice nei confronti
della mafia, è il quieto vivere. Questa regione non si tocca perché è ormai da tempo la roccaforte del
sistema di governo del paese; è la stessa ragione per cui la Commissione Antimafia dal 2001 al
2006 non riuscì ad andare a Milano: andava nelle Marche, andava a Rimini, andava in Val d’Aosta,
andava in Veneto: in Lombardia no! E siccome non stiamo parlando di una piccola regione questa
invisibilità materiale pesa.
Veniamo al secondo gruppo. Mentre le prime – e per questo le ho messe assieme – sono più
evidenti, le seconde ci chiedono un po’ più di finezza mentale e sensibilità culturale. La riduzione
del pluralismo e il controllo politico sull’informazione (questo è pienamente il sottosistema
culturale): sappiamo quanto vi sia bisogno di informazione. Quando facciamo l’elenco dei
giornalisti uccisi in Russia sappiamo che in Sicilia ne sono stati uccisi nove. Sappiamo di avere non
soltanto un controllo politico dell’informazione, ma che un controllo politico dell’informazione
riporta culturalmente agli stessi centri culturali che producono una delegittimazione della
Magistratura e del Parlamento. Abbiamo dunque non soltanto una concentrazione
dell’informazione, ma il fatto che tale concentrazione è funzionalizzata a realizzare dei disegni che
colpiscono sui sottosistemi precedenti (quello del senso dello stato, delle istituzioni e della politica):
i modelli di concezione della vita (mi sembra il più insidioso tra quelli che abbiamo elencato)
fondati sull’apparire e sull’avere piuttosto che sull’essere. Questo rivoluziona tutti i progetti di vita,
rivoluzione l’idea di come un giovane possa condurre una vita che lo soddisfi e lo gratifichi; cambia
la risposta alla domanda che ci facciamo a diciotto o venti anni: “ma qual è la vita dotata di
senso?”. Come rispondono i giovani a questa domanda? O come rispondono i giovani meno
provveduti, quelli più deboli? La vita dotata di senso è quella in cui c’è molto avere e molto
apparire (o l’uno o l’altro o, meglio ancora, tutte e due insieme). Questo assolutizza determinati fini
e riduce la nostra capacità di essere critici sui mezzi per raggiungere quei fini; se devo avere certi
beni, tutto sommato, anche se spaccio della droga cosa faccio in fin dei conti? Se faccio la
sentinella, senza neanche avere tra le mani questa sostanza, cosa faccio in fin dei conti? Viene
saltata la dimensione della fatica, che non è più una dimensione onorevole o onorifica, ma vi è un
rapporto diretto con i soldi e con il successo; più in fretta possibile! Solo questo da senso alla vita!
Questo colpisce alle radici molti istituti, anche di ordine morale, come cercavo di dire prima.
Modelli di concezione della vita vanno visti anche per la domanda dei beni che producono, beni
funzionali alla mafia.
È vero che la ‘Ndrangheta ha preso il monopolio, o l’oligopolio, del traffico di cocaina in Italia. Ma
chi consuma la cocaina? Non sono più i marginali; la cocaina è un bene che è entrato dentro un
paniere di desideri di cittadini normali in apparenza, che però hanno subito l’effetto di questa
concezione della vita per cui bisogna eccedere. Non ci si accontenta più di quello che si è, ma
bisogna essere di più o illudersi di essere qualcosa di più. La cocaina è un tributo al modello
antropologico trasmessoci complessivamente. È impossibile per tanti, siano essi studenti o dirigenti
d’azienda, vivere senza la cocaina: divertirsi, viaggiare, lavorare fino a sera, far l’amore, avere
relazioni. È la cocaina che ti tira su. La vita è bella, divertente, imprevedibile e piena di avventure
solo con quello. Io mi sono stufato di parlare dei trafficanti di cocaina (ne ho parlato anche con i
miei studenti ricevendo un’ovazione): io vorrei parlare di chi la compra, vorrei parlare del modello
di società che ha diffuso in questo modo un’usanza, che non è propria dei disperati, ma che è
propria delle persone che vogliono una vita “di più” e che abdicano quindi alla loro capacità di
vivere bene; hanno bisogno di un artificio. Questa cosa non è secondaria. E poi la domanda
dell’altro grande bene: il mercato del sesso, che non riguarda la mafia in senso stretto ma nuove
organizzazioni di tipo mafioso che si stanno strutturando in tutto il paese: più si parla dei diritti
delle donne, più cresce il mercato del sesso. Un mercato immenso, segmentato, con un’offerta da
supermercato: le cinesi, le nigeriane, le albanesi, le italiane, livello A, livello B, livello C. Questo ci
fa capire che la nostra vita sta sprigionando una “domanda di mafia e organizzazioni mafiose”
attraverso i beni che noi autonomamente chiediamo.
Ci metterei anche l’involgarimento del linguaggio del senso comune: ma perché non si può
dire una parolaccia?! Il problema non è la parolaccia. Ci sono dei segnali che, secondo me, un
semiologo o un sociologo non può non cogliere: quando si parla in un certo modo è perché si pensa
in un certo modo, come direbbe Nanni Moretti. Si parla così perché si pensa così: quando il
linguaggio si appiattisce, si appiattisce anche il cervello. Questo esalta l’invisibilità di secondo tipo,
quella che non si è più in grado di distinguere; ma anche il confine tra lo Stato e la Mafia non è poi
così chiaro quando il linguaggio si appiattisce, perché il linguaggio raffinato è un linguaggio che sa
indicare con precisione le linee di confine, le rotte, sa dare a ogni cosa il suo nome; quando il
vocabolario è fatto di cento parole non si è più in grado di descrivere nulla. Non abbiamo una parola
per saper descrivere la realtà che guardiamo. E lo svuotamento ci porta anche dissenso dei confini.
Mi ricordo che negli anni Ottanta, quando dovevo far capire in una scuola cosa fosse la mafia,
arrivando con il mio cognome addosso non potevo non parlare di vita e di morte, non potevo non
dire che la mafia era cattiva perché uccide (perché poi alla fine questo si capisce – soprattutto
quando hai a che fare con dei contesti poco strutturati dal punto di vista culturale devi mettere giù le
tue carte nel modo più duro e convincente e la possibilità di capire qual è il confine tra la vita e la
morte diventa molto importante: la vita è bella e la morte è una roba terribile). Chiediamoci allora
se per il fruitore delle trasmissioni televisive la morte è sempre una cosa terribile: abbiamo
inventato i giochi di società sulla morte – dove una compagnia di giro parla di tutti i delitti con
ammiccamenti o urlando, come se fosse merce comune, spiegando come forse il delitto è avvenuto.
Tutto ci entra nelle case come se fosse una dimensione quotidiana: quello che avveniva per i poveri
ragazzi dei quartieri di Palermo che vedevano il sangue per le strade e crescevano con il sangue
davanti come loro dimensione normale sta accadendo a noi attraverso la televisione (perché il
sangue è normale), diventa materia da talk-show: è un gioco! Il confine non esiste più. Metteteci
insieme questo e la spettacolarizzazione e ditemi se il confine regge, soprattutto con tutti gli altri
elementi di contesto a cui ho cercato di fare riferimento. Ma anche i confini tra giusto e ingiusto non
esistono più. Vi è un appiattimento delle parole.
Perché si appannano i confini tra stato e mafia? Perché non sappiamo più che cosa è giusto e cosa
ingiusto. Perché è caduta (e questa è una grave sconfitta) la grande e sacra ipocrisia che comunque
rendeva, come si dice, omaggio alla virtù; la gente dice quello che prima non osava dire e sostiene
che è giusto quello che prima pensava, dentro di sé, che fosse giusto ma che in pubblico era
obbligata a condannare. E questo produce nel senso comune la convinzione che se quelle cose le
posso dire sono giuste: io dico le cose che ritengo giuste e questo sistema mi consente di ritenere
giuste molte più cose di prima. Il confine tra giusto e ingiusto non c’è più: lo decido io! Anche se lo
decido in base ai miei interessi politici, cosa è giusto e cosa è ingiusto, e tanto più questa incertezza
grava quanto più i reati si possono abolire e disfare a proprio piacimento perché non sono
convenienti. È un minestrone dove tutto viene messo di tutto! Questo è accaduto recentemente,
lentamente, senza che ce ne accorgessimo poi tanto. Mentre noi combattiamo la mafia e produciamo
quegli effetti positivi che ho cercato di valorizzare prima, la società, e non la mafia, produce certe
cose che rafforzano la mafia. La moltiplicazione di logiche di scambio sui valori per esempio; prima
c’era lo scambio sui valori, eccome se c’era! La grande frattura comunismo/anticomunismo era la
chiave di volta per spiegare e legittimare tutto: se è contro il comunismo è moralmente giusto.
Uccidono quaranta sindacalisti in Sicilia nel dopoguerra: chi se ne frega! Tanto erano la testa
d’ariete dei comunisti. La mafia è col sistema occidentale e quindi con la democrazia, questo ha
tenuto per molto tempo; tutti i complici della mafia dentro la politica erano perdonati perché
comunque facevano parte di una grande strategia di difesa dell’Occidente dal comunismo: questo
era un forte scambio di valori! Accetto queste cose in nome dell’anticomunismo! Un valore
superiore alla vita umana e alla libertà. Adesso ne stanno arrivando altre meno visibili perché non vi
è più l’unica grande distinzione, e quello che è terribile è che lo scambio lo fanno le agenzie che
dovrebbero produrre valori. Pensiamo soltanto a due esempi: la Chiesa, che deve condurre valori, in
cambio di poche cose (in genere di cose materiali oppure di cose morali soltanto perché
simbolicamente utili a confermare la propria potenza terrena) accetta tranquillamente messaggi,
comportamenti che sono i più pagani e immorali che si possono riscontrare nella storia della
Repubblica: è uno scambio, fatto da un’agenzia che produce valori e che facendo questo scambio ci
priva di valori credibili. Che valori mi consegni quando vedo che li puoi scambiare? E la famiglia?
Che valori mi consegni quando vedo i padri e le madri che vendono le figlie? Per un successo, una
candidatura, un film, qual è il valore? Noi abbiamo le agenzie che producono valori che praticano lo
scambiano dei valori.
Ho voluto metterci un tema che sto toccando da tempo con gli amici di Libera: le mitologie
di mafia e di antimafia. Le mitologie di mafia ci sono ancora, basta niente a produrle: “Il Capo dei
Capi” non era fatto male, ma quel titolo è terribile, è di una irresponsabilità etica. Che cosa può
pensare un bambino, o un ragazzino, dei quartieri palermitani sentendo definire Totò Riina “il Capo
dei Capi”? E che orgoglio potrà mai provare Totò Riina (certamente infinito!) nel sapere che gli
dedicano una fiction televisiva intitolata “Il Capo dei Capi” invece che “Il Grande Assassino”? Non
lo avrei messo come titolo, ma neanche “Il Capo dei Capi” avrei messo! Si costruisce una
mitologia, come quando chiamavano Luciano Liggio la “Primula Rossa”. Questo modo di costruire
le immagini che è totalmente insensibile al fatto di combattere la mitologia. Ma la mitologia non va
bene neanche sul versante dell’antimafia: produce guasti. È un tema delicato, ma proprio perché
delicato (le cose non si affrontano quando i buoi sono scappati, ma prima) dobbiamo sapere che la
lotta contro la mafia è una cosa seria e chi la fa va stimato, dopodiché c’è stima ma non c’è la
mitologia. La mitologia produce altre pulsioni, da parte di altri, a voler raggiungere lo stesso livello
mitologico. Io ho avuto esperienze nel movimento politico della Rete, dove queste cose le vedevo
tutti i giorni. C’erano gli “idoli” e gli incapaci che volevano trasformarsi in idoli; quelli che
rischiavano la pelle veramente e quelli che si mandavano il bossolo a casa dicendo di essere stati
minacciati. Laddove la qualità dell’azione antimafia che viene svolta dipende dal numero delle
persone di scorta che ti vengono assegnate a ragione o a sragione, dove saltano fuori personaggi
improbabili che rappresentano il movimento dell’antimafia. Questo nuoce esattamente come nuoce
a un partito un leader non credibile. Teniamone conto. Nuoce perché se gli antimafiosi sono degli
eroi si pensa che la lotta contro la mafia non si può fare perché “io non sono un eroe”. Io ho visto i
veri eroi andare e televisione e professare di condurre una vita normale (da Falcone a Borsellino a
Caselli); non hanno mai detto che fanno una vita impossibile. Ci sarà una ragione se si sono caricati
di questo senso di responsabilità!
Vediamo allora l’ultimo schema. Io ho fatto gli esempi più difficili, anche quelli più scabrosi,
perché ci rendiamo conto che tante cose noi le vediamo soltanto quando ci consegnano e ci sbattono
in faccia il risultato cumulativo del loro dispiegarsi. Occorrono degli elementi di riflessione allora:
espansività del modello mafioso (non Cosa Nostra, ma il modello mafioso, quello colpito
dall’organizzazione di stampo mafioso del 416 bis); ha una forza espansiva sul piano del territorio e
sul piano dei settori in cui entra, e questo da una possibilità di allargare le zone di contaminazione e
di scambio (pensate soltanto al sistema della sanità). Ipotizziamo (ma il giudice Di Maggio lo
diceva già nel 1984 a Milano) che qualcuno voglia investire molti capitali nella Sanità e faccia una
clinica privata, e che quella stessa clinica privata dia lavoro a dei bravi professionisti e a qualche
cialtrone che si occupa delle cose sporche e a centinaia di dipendenti; che in quella clinica vengano
curati gli esponenti delle élites della classe dirigente di una grande città e contemporaneamente vi
vengono ospitati, per caso, dei latitanti. Ci rendiamo conto di qual è il livello di contaminazione
(noi parliamo sempre dell’economia, ma questa è contaminazione dentro le professioni). Perché il
professionista che ha rapporti con il mafioso sarà sempre portato a dire che è il magistrato che
sbaglia (“era così una brava persona!”); ognuno di fronte allo specchio cerca di guardarsi nel modo
per lui più conveniente. Questa zona di contaminazione è molto ampia. Quindi sconfitte per Cosa
Nostra, non per il modello mafioso, capacità del modello mafioso, mentre noi abbiamo prodotto
tanti elementi positivi, di produrne a sua volta. C’è una fisiologia della contraddizione che è un po’
il campo in cui operiamo: diritti delle donne e il grandioso mercato del sesso sul piano
internazionale. Potremmo dire: ma come mai la mafia va all’assalto dello Stato negli anni Settanta e
Ottanta? Come mai mentre nascono tanti diritti sociali e civili riconosciuti in tutti i modi, lo stato di
diritto viene colpito al cuore? Coma mai? Come mai i diritti umani vengono proposti, propugnati,
affermati in dichiarazioni di tutti gli organismi universale o internazionali (dalle Nazioni Unite
all’Unione Europea), e mentre si affermano tali diritti e si fanno giornate mondiali di questo o
quello ritorna la condizione di schiavitù? Noi rifacciamo i conti con le persone schiave. C’è questa
contraddizione che opera dentro il nostro sistema e noi dobbiamo sapere che non c’è mai una cosa
che va in una direzione sola. A volte, se guardiamo la società nel momento x e la misuriamo da quel
momento x ci sembra che vada in una direzione sola, ma nel frattempo poi c’è x + 1 e x + 2 dove
nascono altre cose che noi non vediamo. E poi ci sono, sempre per questa ragione, sempre nuove
generazioni di porte di accesso. Se il problema è: ma questi da che parte entrano? Dentro lo Stato,
dentro la politica, dentro il nostro modo di pensare. Quali sono le porte di accesso? Dobbiamo
sapere che ci sono sempre nuove generazioni di porte di accesso e bisogna saperle individuare, per
chiuderle per tempo, per mettersi di traverso e contemporaneamente per operare dentro quella
mappa che vi ho fatto vedere prima perché riusciamo a dare i risultati positivi più forti in ciascuna
di quelle presenze.
“La nostra antimafia. Alle radici dell’impegno”
di Leopoldo Grosso, Vice-Presidente del gruppo Abele

Alle radici ci sono le motivazioni. Si potrebbe cercare di rispondere chiedendoci perché


siamo qui alle 19 di sabato 4 luglio o del perché due settimane fa eravamo al seggio a votare per un
referendum neanche troppo entusiasmante; perché lì stanno le altre motivazioni, soprattutto sociali,
che alimentano il nostro impegno. Motivazioni che, da una parte, contribuiscono a dare un senso
alla nostra vita e che fanno parte ormai della nostra identità.
La sala è piena, ma sotto questo profilo non siamo in tanti, non qui, dove siamo persone comunque
che sono disponibili a mettersi in gioco su questi piani, su questi problemi.
La letteratura psicosociale dà una percentuale, rispetto alle cosiddette “minoranze attive” (quelle
che si mettono in gioco per cambiare le cose e non solo per i propri interessi personali)
corrispondente, in una scala da 0 a 100, al 2,5%.
In questi anni abbiamo acquisito due consapevolezze; la prima, come diceva anche Luigi Ciotti, è
che le motivazioni non sono per sempre e si intrecciano quindi con le fasi e con le stagioni della
nostra vita, con la relativa solidità delle scelte che facciamo, e soprattutto sulle capacità e sulle
condizioni che consentono di dare continuità a queste motivazioni. Se vogliamo individuare una
problematicità rispetto alle motivazioni è sicuramente relativa alla loro continuità. Per orientarci
possiamo dividere le motivazioni in “motivazioni d’ingresso” e “motivazioni mature”; ovviamente
c’è un’eccezione di non poco conto, e l’eccezione è data dai famigliari di vittima di mafia: coloro
cioè che sono stati offesi direttamente, hanno subito danni, sono stati vittime o hanno avuto vittime,
e nelle cui dimensioni di vita personale, famigliare o lavorativa la mafia è entrata con violenza.
Queste persone costituiscono una presenza preziosa per l’Associazione anche sotto il profilo
motivazionale, anche perché le loro motivazioni sono più permanenti, perché la ferita è permanente
e la loro capacità di trasformarla in risorsa è permanente.
Torniamo ai giovani; i giovani vedono nell’antimafia un’opportunità concreta di impegno e di
cambiamento sociale e con alcune caratteristiche: senza troppe mediazioni, quindi non solo riunioni
o manifestazioni, ma occasioni di impegno diretto, concreto e ampiamente verificabile, possibilità
di abbinare il proprio impegno alla voglia di cambiare il mondo con le proprie capacità, i propri
interessi, le proprie “vocazioni”, e quindi non solo la loro voglia di impegnarsi incanalata in una
logica “oblativa” in cui il servizio è questo e basta, ma in una logica dove vi sia più creatività, più
opportunità, più arricchimento di espressione. E poi magari per qualcuno può significare anche
un’occasione di lavoro, magari nelle cooperative sui beni confiscati, e quindi anche un’occasione di
reddito.
I giovani, tuttavia, corrono uno specifico rischio motivazionale, che è il sovrainvestimento iniziale e
quindi la totalizzazione del motivo per cui aderiscono, che porta alla dinamica illusione/delusione e
quindi quando la pratica non è più conforme agli ideali immaginati e quindi si riscontra un gap tra
quello che il giovane sperava o si illudeva di poter essere e l’insoddisfazione di ciò che è o non è
riuscito a diventare. Quindi nella dinamica delle aspettative e del circolo illusione/delusione,
anziché di speranza riposta e realizzazione graduale, è di questa differenza che bisogna tenere
conto, perché la giochiamo tutta sui tempi, nel senso che da una parte ci sono i tempi della
soggettività giovanile, dove la costanza è ancora in costruzione e ancora non definita, mentre
dall’altra parte ci sono le difficoltà oggettive, dalla capacità di ritagliare da parte
dell’organizzazione, dei ruoli progressivi rispetto al contributo che possono dare i giovani nelle
varie aree territoriali. Diciamo però che Libera ha presentato una sorpresa giovanile; porto proprio
l’esperienza di Libera, che ha visto e che vede tanti giovani sfatare alcuni pregiudizi sui giovani:
intanto quello del turismo dell’antimafia oppure che i giovani oggi sono sì competenti su quello che
hanno studiato, però sono meno motivati e quindi più sensibili alle ricompense estrinseche.
Per chi invece ha accumulato più lustri di impegno antimafia il problema è un altro, ed è
quello della buona manutenzione delle proprie motivazioni; inizialmente quando uno si avvicina ad
un progetto, a realizzare un’idea, la motivazione è sicuramente un fiore di campo, che nasce dentro
di noi con un incontro, una conoscenza, ma come un fiore di campo col tempo rischia di appassire e
allora deve diventare necessariamente un fiore di serra a cui va fatta manutenzione, va innaffiato e
va coltivato. Tenere alta la motivazione significa innanzitutto abbinare la disponibilità alle proprie
capacità e al proprio ruolo, quindi la persona che all’inizio si avvicina (giovane o adulto che sia)
mette a disposizione tendenzialmente una capacità, una propria risorsa personale, a volte la sua
professione; la classica frase d’ingresso è “io so fare questo, può servire?” e allora c’è la volontà di
esercitarla in un contesto diverso da quello precedente e la voglia di metterla a disposizione in un
contesto dove può essere riconosciuta e più libera; quindi il fare qualcosa che sappiamo fare ci dà
soddisfazione e riflette inevitabilmente una buona immagine di noi stessi, ci rifornisce di sicurezza
personale e si ha voglia di socializzare queste competenze.
“Io so fare questo, posso essere utile?”: da una parte è un punto di arrivo per la persona che si pone
con queste modalità, mentre dall’altra parte, per l’organizzazione, è un punto di partenza, perché un
ruolo è costituito da obiettivi, da attività e da relazioni. Quindi come si raccorda questo passaggio
tra una disponibilità offerta e l’organizzazione per poterla utilizzare? Questo è il punto nodale della
questione ed è qua che si vince la scommessa sul modo e sull’attenzione per gli altri, che in qualche
modo deve precedere l’interesse rispetto all’attività che viene proposta. E qui incontriamo subito un
rischio, che possiamo chiamare la “cecità delle nostre capacità”: se io che so fare delle cose metto a
disposizione le mie capacità, però in realtà tengo di più a quello che faccio di quanto tenga a coloro
che devono apprendere, che collaborano con me, che magari non hanno le competenze specifiche,
se c’è questo presupposto di partenza, questo è il presupposto per un deragliamento. E perché?
Perché tenderò a difendere la mia attività, cui sono legato, sono affezionato, e allora il rischio
ulteriore è che tenderò a voler lavorare di più da solo, a socializzare sempre meno e quindi a
condividerla sempre meno questa attività, col rischio ulteriore che poi quando si lavora da soli si
tende a darsi sempre ragione e quindi diventa sempre più un’attività autoreferenziale. Quindi la vera
nuova ricerca è “come le comunichiamo queste competenze e questa passione per queste
competenze che si vuole continuare a mettere in gioco?”, quindi l’attenzione agli altri in questo caso
prende il sopravvento sullo stesso interesse per quello che facciamo.
La seconda consapevolezza acquisita è che le consapevolezze si misurano coi comportamenti: la
motivazione che non si traduce in comportamento rimane improduttiva e incomunicabile. Una
persona può “ruminare” molto sulle motivazioni, ma dentro sé stesso e quindi finisce lì; la
motivazione invece “riflessa” è percepibile all’altro solo dal comportamento e il comportamento in
qualche modo ne è la sua traduzione, quindi la motivazione si traduce in quello che faccio, in come
lo faccio e per quanto tempo lo faccio, e a sua volta la misura del comportamento che traduce la
motivazione è la coerenza. Essere coerenti significa essere credibili, ed essere credibili significa
porsi ed essere un punto di riferimento per gli altri, per poi coltivare anche gli altri e quando c’è
questo, questo va al di là dei nostri difetti personali più o meno perdonabili e ognuno ha i propri e
ciascuno ha le sue caratteristiche.
Anche per questo scopo le motivazioni devono essere oggetto di buona manutenzione. Il che
significa monitorarle perché si mantengano, pur nella trasformazione e nel cambiamento, perché noi
non viviamo di medaglie (tantomeno di quelle che si sono autoappese). È quindi importante che vi
sia questo monitoraggio continuo. Ad esempio, uno strumento importante, come dicevamo prima, è
questo della memoria incarnata dai familiari, il quale è potentissimo alimentatore di motivazione e
di responsabilità. E poi perché non deraglino; ne abbiamo già visto uno di deragliamenti e ce ne
sono altri possibili. Un altro possibile deragliamento delle nostre motivazioni è l’innamoramento,
totalizzante e protratto, rispetto a certe nostre idealità (già Freud ha dato una definizione famosa di
“innamoramento” delle persone, definito un po’ cinicamente come la “perdita della dimensione
critica”); quando ci innamoriamo delle idee, e spesso ci si innamora di un’ideale o di una buona
causa, si può rimanere fedeli a questa anche tutta la vita. Spesso, in molte biografie, è più probabile
che si possa rimanere fedeli ad una propria idealità che non ad una moglie o a un marito.
L’attaccamento all’idea riguarda i processi di identità (quindi va abbastanza nel profondo).
Rimanere fedeli a un’idea è sicuramente esempio di coerenza, ma quando questo è senza flessibilità
può essere esempio anche di scarsa lucidità intellettuale. Le idee ci forniscono senso, per cui ci si
lega alle idee e ci si affeziona ad esse e diventano anch’esse oggetto del nostro amore. Svolgono
una funzione indispensabile, di bussola, per la nostra vita, sono ideologie intorno a cui ci si
riconosce e contribuiscono in questo modo, con modalità decisiva, a fare comunità. Quello che si
chiede, però, è la capacità di metterle al passo coi tempi, di rivisitarle tramite lo stesso sistema
valoriale che in qualche modo le informa e intorno al quale prendono al loro forma storica
contingente. Altrimenti, le idealità rigide, in quanto idee o ideologie, si trasformano in idoli,
diventando dei nuovi padroni del nostro agire, proprio in virtù del rapporto di affetto che ci lega a
loro. Per cui anche l’attaccamento alle nostre idee va attentamente monitorato, perché c’è il rischio
che riescano ad incartapecorire i valori che invece le animano. I valori sono permanenti, ma le
modalità con cui storicamente si applicano possono cambiare e noi possiamo rimanere,
affettivamente, un po’ indietro.
L’altro aspetto è che le identificazioni non sono libere da conflitti. Diciamo che la mission di
un’associazione è il principale rastrellatore e raccoglitore di identificazioni delle persone che hanno
delle idealità. L’ideale della mission di “Libera” è alto e ben articolato; è difficile non riconoscersi o
non trovare spazio in questa articolazione delle varie attività. Identificazione nella mission è quindi
lotta alla mafia e alla cultura della mafiosità e trascende l’organizzazione appartenente. Come dire:
la mission è il fine, l’organizzazione è il mezzo (vi è dunque un rapporto gerarchico tra la prima e la
seconda). Il problema è che, a volte, l’organizzazione non riesce a stare dietro alla mission e quindi
non vi è più sovrapposizione tra missione e realtà organizzativa; vi è quindi scollamento e, se vi è
scollamento, vi è conflitto. Basta guardare la storia, passata e recente, di tante scissioni nei partiti
che ne è la dimostrazione (quando poi non è mero conflitto di potere – tendenzialmente però
avvengono quando alcuni aderenti sentono che la mission sia rappresentata dal fare di quella
organizzazione). E qui si possono invocare tendenzialmente tre strade. La prima è, ovviamente,
portare la differenza, agire in conflitto, aprirlo, fare critica, dare battaglia. Qui la diversità la fa la
modalità: se il conflitto è costruttivo e deroga da certe regole, allora è un conflitto produttivo. Se
invece c’è subito denigrazione allora si imbocca la via distruttiva. La terza strada invece è quella
dell’adeguamento al ribasso: si lascia perdere la propria individualità, si mette da parte la propria
differenza, si indossa la divisa o l’uniforme e ci si adagia sui vantaggi secondari dell’appartenenza
aconflittuata. Motivazione appartenente a un nodo importante, perché creare appartenenza è
fondamentale per tenere e irrobustire la motivazione. Un ritornello di Luigi Ciotti, lo abbiamo
sentito spesso, è :“in queste imprese nessuno è navigatore solitario”. Se si imbocca la via da soli ci
si demotiva e si fallisce molto presto (o è lavoro insieme o non è). Lavorare insieme, sappiamo, non
è facile, ma sappiamo anche che il gruppo è molto di più della somma dei singoli (quindi è
indispensabile) ed è anche – ce lo hanno insegnato – la ricchezza delle differenze, della diversità
dei punti di vista, del pluralismo della diversità e anche – se vogliamo – della stessa diversità di
carattere e personalità. Queste differenze dovrebbero fare il valore aggiunto. Il problema che le
differenze siano una ricchezza, di nuovo, non è un punto di partenza ma un punto di arrivo (bisogna
lavorarci sopra); vanno armonizzate e quindi vanno conosciute, per cui bisogna raccontarsi, bisogna
frequentarsi e soprattutto bisogna fidarsi. Diciamo che il livello di fiducia o sfiducia 0-10 è il vero
termometro delle nostre relazioni. Se dovessi fare un sociogramma dell’organizzazione direi:
misurate il livello di fiducia nei vostri rapporti e vedrete come stiamo andando. È importante quindi
la parte di chi ha più responsabilità nell’organizzazione di gestire bene il clima; che sia un clima di
rispetto, che ci sia una radicata abitudine al confronto e, soprattutto, che vi sia un clima di
rassicurazione e di protezione per le minoranze. A livello personale vengono richieste due capacità.
Una è di non essere troppo permalosi, perché se uno è permaloso non regge le critiche, e l’altra di
non essere narcisisti – ma forse dovrei dire troppo narcisisti. Tra l’altro tra permalosità e narcisismo
la relazione chimica è molto stretta (si dice che la prima sia, tendenzialmente, sintomatologica del
secondo).
Le nostre organizzazioni fruiscono di poche retribuzioni (economiche innanzitutto, ma
anche di altro tipo), sia per coloro che sono in prima fila, più in vista, sia per le cosiddette seconde
file. Questa può essere la differenza tra le prime file e le seconde file, tra i dirigenti e gli operatori,
tra chi è sotto i riflettori e chi invece fa un indispensabile lavoro di retrobottega. Ci può essere una
contraddizione che incide sulla motivazione, e le remunerazioni, sappiamo, sono molto diverse a
seconda del ruolo in cui si è collocati. Ma l’associazione e, soprattutto, la sua articolazione sui
territorio è una. L’importante è che ci sia la consapevolezza delle indispensabilità reciproche, dei
rapporti di interdipendenza che ci legano, per cui tutti vanno riconosciuti con pari valorizzazione e
pari riconoscimento. Non dobbiamo mai, come organizzazione, dimenticarci dell’importanza
fondamentale delle seconde file, e delle terze e delle quarte, che a volte ci sono. Bisogna far
convogliare la luce dei riflettori, laddove si accendano, a tutti gli altri, su tutta la organizzazione di
un percorso, solo apparentemente, a ritroso. Per fare buona manutenzione delle motivazioni, che
sono alla radice del nostro impegno, dobbiamo avere un buon sistema motivazionale. La
motivazione appare come forza individuale. In realtà, come spesso avviene, è il risultato di
contaminazioni di sistema (la riassumo dentro di me come livello motivazionale, ma le motivazioni,
invece, fanno gruppo). La mia motivazione è il risultato di diversi alimentatori del sistema, la cui
maggior parte degli alimentatori ha a che fare con l’organizzazione e, ovviamente, con la buona
organizzazione se il compito ci riesce. Rispetto alla manutenzione del sistema cito cinque
alimentatori: 1) l’identificazione con la mission, in quanto la mia organizzazione sa, in qualche
modo, raccogliere, tradurre e interpretare la mission in quel momento; 2) la soddisfazione del mio
operare e quindi del mio ruolo; 3) un certo orgoglio dei risultati e, quindi, la necessità di avere dei
riconoscimenti; 4) conservare la memoria, aver cura della storia dell’antimafia (quando si è in crisi
di motivazione questo certamente aiuta); 5) (banale ma fondamentale) il benessere che deriva dalle
relazioni che sappiamo intrattenere tra di noi. Queste indispensabili fonti di gratificazione non sono
né date né garantite, non emergono spontaneamente e non sono automatiche; bisogna invece che
siano presidiate da un pensiero e, quindi, da un’organizzazione che sappia tradurlo (una
minifunzione e non una maxifunzione – non possiamo andare a investire molte energie qui sopra,
ma è importante il pensiero, distribuito oppure gestito da una o due persone). Le buone relazioni tra
noi non sono scontate (il conflitto, costruttivo o distruttivo, è la regola), ma nelle tante
contraddizioni che ogni forza incontra nel suo opposto (nelle tante contraddizioni ogni forza finisce
per incontrare il suo opposto) è anche vero che le motivazioni nascono, crescono e si rinnovano
nell’incontro con gli altri, con quelli che noi motiviamo e con quelli che ci motivano (è questo,
forse, il fondamentale alimentatore del nostro impegno – è uno scambio tacito). Essere “noi” vuol
dire cominciare a vedere la fatica dell’altro e non solo la propria e vedere la fatica dell’altro, quando
l’altro non sta crollando sotto i sacchi di cemento che deve portare in spalla, ma è una fatica un po’
più difficile da cogliere – e che magari l’altro ha la stessa reticenza a manifestare – vuol dire che la
nostra attenzione deve essere un po’ più raffinata. Poi dopo che ce ne siamo accorti, dopo che
sappiamo vederla la fatica dell’altro, bisogna sapergli andare incontro. Come? Forse essere capaci
di un gesto, di un’attenzione, di una fuoriuscita dall’ordinario, di fare un piccolo passo avanti.
Come? Quando, da ragazzi, in una qualche famiglia tradizionale, in cui è la madre casalinga che è
abituata a rassettare dopo pranzo e cena (e sembra essere lei stessa a chiedervi di non uscire dai
ruoli), una sera la si vede stanca, essere capaci ad anticiparla, alzarsi e dire “lascia stare faccio io” –
questo è un gesto che molto spesso fa la differenza. Allora, cominciamo o continuiamo con queste
attenzioni.
Concludo dicendo che, per la maggior parte di voi e di noi, è un lavoro di volontariato e non è un
lavoro retribuito, come si conviene ad un’associazione come questa. Per coloro che ci lavorano è
comunque un lavoro modestamente retribuito – ma non è dal reddito che deriva la nostra
motivazione (lo do per scontato). Inoltre questo è un lavoro spesso considerato perdente, perché
oggi sono premiati altri comportamenti sociali, altre scelte, altre professioni (come quelle che
venivano descritte stamattina). Dobbiamo essere noi, quindi, a crearci una nostra opinione pubblica
a favore, ma non abbiamo sbagliato strada.

“Lo stato della giustizia in Italia”


di Giancarlo Caselli, Procuratore Capo della Repubblica di Torino

Parlare “dello stato della Giustizia oggi” significa – ed è perfino banale – parlare di crisi:
crisi culturale e di funzionalità. Vorrei cominciare con il primo profilo, quello della crisi culturale
della Giustizia oggi. Crisi culturale perché: perché sempre più la Giustizia oggi è sinonimo di
“convenienza”; giusto non è più soltanto quello che rispetta le regole, ma piuttosto quello che
conviene; e, se ci pensiamo un attimo, questa è stata la chiave di lettura delle vicende giudiziarie
degli ultimi 15 anni. La lettura delle vicende giudiziarie degli ultimi 15 anni è impregnata di questo
elemento della “convenienza”; comincia nei primi anni ’90, coi processi della corruzione cosiddetta
“sistemica”, coi processi che forse per la prima volta con questa intensità toccano il versante dei
rapporti tra mafia e imputati eccellenti di varia collocazione. Questi processi richiedono innanzitutto
un forte, fortissimo sostegno, molte volte addirittura eccessivo, un “tifo da stadio” a volte nemmeno
troppo disinteressato: molte volte l’intervento giudiziario veniva sostenuto in quanto serviva, in
quanto valutato come utile alla riduzione (se non addirittura all’eliminazione) di un ceto politico
avversario. Usare però l’utilità come metro per valutare l’intervento della giustizia, invece della
correttezza e del rigore, significa mettere in moto un meccanismo davvero devastante, perché la
chiave di lettura della serietà e della professionalità dei magistrati non è più il metodo di lavoro, non
è più la direzione verso cui l’intervento giudiziario viene indirizzato, ma appunto l’utilità.
Quando poi il sostegno iniziale, dopo circa un biennio, si spegne (e si spegne fisiologicamente), nel
momento in cui le indagini cominciano a toccare i nuovi potenti, ecco il sostegno non solo cessa,
ma si rovescia. E questi nuovi potenti, anche nella storia di oggi, ingaggiano una battaglia anche
personale, ossessiva, contro la giustizia, contro questo o quel magistrato, perché l’obiettivo è
variabile, può toccare a tutti di essere nel mirino; ed ecco allora questa battaglia di leggi ad hoc, la
quotidiana aggressione mirata a delegittimare la funzione giudiziaria, le accuse che oramai sono
state ripetute con tale ossessività da entrare nel bagaglio corrente, la teoria/tesi del golpe strisciante
che i magistrati hanno in questi anni. Questa è una delle maggiori anomalie italiane degli ultimi
dieci anni: il rifiuto dei processi, la gestione del processo come momento di scontro, soprattutto da
parte di inquisiti eccellenti, imputati forti, in sostanza una riedizione di quel processo di rottura non
“nel”, ma “dal” processo, che paradossalmente era stata caratteristica di un mondo di stampo
diverso, quello dei brigatisti. Tutto ciò significa negazione del sistema di stretta legalità, tutto ciò
significa una strada che porta all’affermazione di un neo-garantismo strumentale (“altro”
garantismo, quindi) dove pezzi del potere economico e pezzi del potere politico cercano di sfuggire
ad un controllo di legalità, anche mediante il depotenziamento dei magistrati e della magistratura;
neo-garantismo strumentale, quindi, che è strettamente intrecciato con un garantismo che potremmo
chiamare “selettivo”. Un garantismo selettivo che gradua le regole in base allo status dell’imputato
e se sei diverso dalla generalità dei consociati, ecco che le regole non solo vengono graduate verso
il basso, ma addirittura possono essere azzerate. Ma questo garantismo strumentale e questo
garantismo selettivo sono la negazione in re ipsa del vero garantismo. Il vero garantismo è quello
che è veicolo di uguaglianza; quando il supposto garantismo è invece veicolo di sopraffazione e di
violenza, non si tratta di garantismo ma di qualcos’altro.
C’è poi un profilo specifico, una specificità vergognosa, che sono le aggressioni volgari, pesanti,
sistematiche contro la magistratura. Ripetiamolo ancora una volta, visto che a forza di sentirle, le
cose, non ci facciamo più caso, ma definire i magistrati “da estirpare”, “antropologicamente
diversi”, “delinquenti”, “grumi eversivi”, si può sintetizzare come una tendenza a macchiare,
etichettare, chiunque, facendo il proprio lavoro, incroci determinati interessi che non vogliono
essere incrociati/controllati. Quando si tratta di imputati eccellenti, inquisiti e processati per fatti
specifici (non certamente per il loro status) giustizia “giusta” sembra essere diventata solo quella
che assolve: chi osa inquisire, processare e perfino condannare viene accusato di giustizia
“ingiusta”; ma così sono sovvertite le regole fondamentali della giustizia, così è superata (o si fa
estremamente flebile) la linea di confine, di demarcazione tra attacco e intimidazione. La
magistratura che, direttamente o indirettamente, si cerca di intimidire non è magistratura libera.
Questi attacchi continui che rasentano, sfiorano, si impregnano di forza intimidatoria non sono
certamente un segnale di buona salute di questo sistema. Tutto questo si traduce in slogan che sono
ormai entrati nel sentire comune. Questa delegittimazione non è cosa nuova, si comincia con
Giovanni Falcone e si arriva ad oggi (chissà se è finita, ma non credo) a Nicoletta Gandus, mentre
l’investitura popolare (io ne sono convinto, ma tutti quanti ne dovrebbero essere convinti) non dà a
nessuno, nemmeno al Presidente del Consiglio, il diritto di insultare e offendere.
Una certa dose di impopolarità per un personaggio pubblico, per un magistrato che faccia il suo
dovere, è fisiologica quando si tratta di stanze del potere. Noi siamo alla patologia: e attenzione, c’è
patologia anche quando l’impopolarità nelle stanze del potere si diffonde in tutto il Paese; perché il
cittadino comune non può non pensare (e pensa) che se lo dice “lui” – che è perseguitato, che la
Giustizia non funziona, che la Giustizia è politicizzata – allora vale anche per me, che ho un
processo civile o penale che devo affrontare. Non crisi della Giustizia, quindi, ma collasso della
credibilità della Giustizia.
Parlando di crisi culturale della giustizia va fatto un accenno anche alla cultura dei giudici. La
cultura dei giudici, ne siano più o meno consapevoli (sia pur con notevolissime eccezioni), può
essere – e molte volte lo è – condizionata dagli umori e dalla cultura della società in cui i magistrati
sono immersi. E così il modello del “diritto penale mite”, di cui tanto abbiamo detto e di cui tanto
abbiamo sentito parlare, se vale, vale soltanto per i rami alti del sistema; ciò che si chiede ai giudici
quando si scende ai rami inferiori del sistema è ordine e sicurezza, anche a scapito di alcuni diritti e
alcune garanzie, quando si tratta di soggetti non protetti. Se continuamente si predica, si chiede, si
pretende tolleranza zero e si attaccano e aggrediscono i magistrati che non vogliono
omogeneizzarsi, il garantismo muore; e poi, siccome i magistrati non vivono in compartimenti
stagni, ma sono immersi nella società di cui sono espressione, ecco che questa crisi culturale che la
Giustizia vive, questa aggressione, questi condizionamenti inconsapevoli determinano una stagione
nella quale ai magistrati si chiede qualcosa di più di ciò che normalmente al magistrato si chiede.
Ecco quindi un’altra anomalia: al magistrato si chiede coraggio. Cito una frase, a me molto cara, di
Alessandro Galante Garrone, scritta qualche anno fa ma ancora attualissima: “a volte non basta per
un giudice essere onesto e professionalmente preparato, ma in certe situazioni storiche, per poter
ricercare e affermare la verità e l’onestà intellettuale bisogna essere combattivi e coraggiosi”.
Normalmente i giudici non dovrebbero essere né l’una né l’altra cosa; se ai giudici Alessandro
Galante Garrone richiede combattività e coraggio lo chiede in una situazione che non è delle più
felici.
Dopo aver parlato della crisi culturale della Giustizia parliamo ora della crisi di funzionalità
della Giustizia. Due dati di diritto comparato per introdurre il tema; l’Istat ha calcolato che la durata
media del processo civile nel Regno Unito è di 5 mesi, in Francia e Germania di 9 mesi, in Spagna
di 10 mesi; per quanto riguarda il processo penale, nel Regno Unito per arrivare a sentenza
definitiva servono pochi mesi, in Spagna un anno, in Francia due anni (esclusi i processi d’Assise
che sono più lunghi). Da noi, lo sapete, servono anni sia per il civile che per il penale. E questo ci
porta a dire una cosa indiscutibile: che nel nostro sistema la crisi della Giustizia è legata alla sua
funzionalità e i tempi vergognosamente lunghi dei processi hanno qualcosa di patologico. Le cause
di questa patologia le conosciamo tutti, l’elenco è facilissimo e trova tutti d’accordo: si spende poco
(io da anni vedo che il Ministero della Giustizia è la “Cenerentola” tra tutti i Ministeri, per quanto
riguarda il bilancio); le poche risorse sono mal distribuite sul territorio; i sistemi processuali sono
inadeguati (percorsi ad ostacoli, garanzie apparenti che in realtà sono formalismi, eccezioni di tutti i
tipi), la disorganizzazione degli uffici, ecc. Il tutto congiura affinché i tempi si allunghino
all’infinito e a sentenza non si arrivi mai. Queste sono le cause principali; è possibile agire,
intervenire su ciascuno dei versanti che ho indicato, tanto più che la crisi di funzionalità non ha
bisogno di essere dimostrata, è di tutta evidenza ed è sufficiente entrare in un Palazzo di Giustizia
per rendersi conto che è una macchina che gira a vuoto, che subisce interminabili perdite di tempo.
Ci sono anche “isole felici”, ma si tratta davvero “isole” rispetto ad un territorio dove la Giustizia
più che un servizio è un disservizio.
Bisogna smettere di diffondere polemiche pretestuose secondo la quale la giustizia è un terno al
lotto, si vince o si perde a seconda dell’ufficio, basta con questi giudici che interpretano la legge, se
la legge è uguale per tutti perché uno è condannato in primo grado e assolto in appello o viceversa.
Diffondendo queste stupidaggini si fa il peggiore dei danni alla giustizia, perché il giudice che non
interpreta la legge è un giudice che non fa il suo mestiere – e qui apriremmo un capitolo infinito
parlando del ruolo del giudice e della giurisdizione come sinonimo di interpretazione. Faccio un
esempio che avete sentito fare più volte da me o dai miei colleghi: se noi prendiamo l’art. 575 del
codice penale, quello che punisce l’omicidio doloso, troviamo scritto “chiunque cagiona la morte
di un uomo è punito ecc.”; se poi andiamo a prendere qualche articolo un po’ più avanti il 589, che
punisce l’omicidio colposo, troviamo scritto “chiunque, per imprudenza, negligenza o imperizia,
causa la morte di una persona, è punito ecc.”. Dunque nell’omicidio doloso “uomo” e
nell’omicidio colposo “persona”: se i giudici non interpretassero la legge, l’omicidio volontario
della donna sarebbe impunito, perché l’articolo parla di “uomo” e qualche articolo dopo parla di
“persona”.
Allora la giustizia non funziona per un impasto tra una serie di fattori reali, che hanno un
fondamento obiettivo, e di luoghi comuni e propaganda che si intrecciano creando un panorama di
grande incertezza e di grande confusione che sicuramente non facilita. L’unica certezza è che le
riforme sono assolutamente necessarie e qui ritorna quel discorso che mi avrete sentito fare non una
ma dieci volte, riguardo ai segretari e ai cancellieri; gli uffici giudiziari si compongono non solo di
magistrati, ma anche e soprattutto di segretari e cancellieri, senza i quali gli uffici giudiziari non
possono andare avanti. Ebbene, è dal 1991 che non vengono più banditi concorsi per reclutare
segretari e cancellieri, mentre il pensionamento va avanti fisiologicamente e il pre-pensionamento si
fa sempre più massiccio. Il risultato è che mancano segretari e cancellieri, circa il 15% in meno
rispetto all’organico: così non si può andare avanti, così i processi non finiscono mai. Il rimedio
sarebbe assumere nuovi segretari e cancellieri, ma invece no: non sto scherzando, è un’ipotesi che
sta circolando con grande forza, ma il rimedio governativo sarebbe quello di ridurre gli organici.
L’organico è di 100 cancellieri e ce ne sono solo 75? Riduciamo l’organico del 25%, così non ne
manca più neanche uno. Magari non succederà, perché c’è un limite alla decenza, ma questo
esempio ai limiti del paradossale ci dice come manchi tuttora un progetto organico di riforma della
giustizia, tanto da farmi temere che ci sia un disegno – più o meno consapevole - di “inefficienza
efficiente”. Inefficienza nell’apparato funzionale della giustizia, ma questo non-funzionamento deve
essere efficiente, cioè funzionale, a determinati obiettivi: l’obiettivo è l’indebolimento
dell’indipendenza della magistratura.
Tutte le riforme in cantiere non riguardano la giustizia, ma i giudici (CSM, il principio
dell'obbligatorietà dell'azione penale, separazione delle carriere, dipendenza della polizia giudiziaria
non più dal PM ma dal Ministro dell'Interno e della Difesa,...): ecco, tutte queste riforme non
ridurrebbero nemmeno di mezz'ora i tempi processuali, semmai li appesantirebbero e in ogni caso,
direttamente o indirettamente, porterebbero al risultato di una riduzione dell'indipendenza della
magistratura. Obiezione: voi magistrati avete così tanto a cuore la vostra indipendenza perché è un
privilegio della vostra casta. Per favore, l'indipendenza è un patrimonio del cittadino. Se dovesse
passare una legge che diminuisce la mia indipendenza, io magistrato che ho giurato fedeltà alla
Costituzione dovrei applicarla, così come dovrei applicare una legge che mi dice “tratta bene
questo, tratta male quell'altro”.
Dopo l'altissimo livello di stamattina voglio fare anche io una citazione dotta; il celebre
costituzionalista americano Alexander Hamilton diceva che “il giudiziario è senz'altro il più debole
dei tre rami del potere e non può insidiare con successo alcuno degli altri due. Per questo ogni
possibile precauzione deve essere adottata per difenderlo dagli attacchi degli altri due rami del
potere. Sebbene l'oppressione dell'individuo possa essere il risultato di decisioni della Corte di
Giustizia, le libertà fondamentali del popolo non possono mai essere messere in pericolo da questa
branca del potere, ciò fin quando il giudiziario rimanga indipendente e separato dall'esecutivo e
dal legislativo”.
La riduzione dell'indipendenza della magistratura e quindi la diseguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge ha delle evidenti ricadute sulla qualità della nostra democrazia.
In questo momento di crisi della giustizia, il paradosso, l'anomalia è che non abbiamo una sola
giustizia, ma diverse giustizie: l'obiettivo è una sola giustizia; quando la nostra Costituzione all'art.3
ci dice che dobbiamo impegnarci al fine di eliminare ogni diseguaglianza ci dice che la giustizia
non c'è ancora, ma al di là di quello che anche la Costituzione ci dice essere lo stato degli atti, qui si
siamo di nuovo nella patologia, perché il nostro sistema prevede una giustizia modellata per persone
“perbene”, considerate galantuomini a prescindere (in base al censo, alla ricchezza, all'estrazione
sociale...) e una giustizia che riguarda invece tutti gli altri, i cittadini comuni, quelli “normali”. Per
la categoria dei “galantuomini a prescindere” la giustizia non funziona, ma non funzionando serve a
far scorrere il tempo, con la prescrizione che tutto cancella. Per i secondi la giustizia non funziona,
ma non funzionando incide comunque pesantemente sui beni (a partire dalla libertà personale), sugli
interessi, sulla vita delle persone.
In queste ore, leggendo i giornali vediamo che la situazione si è ulteriormente appesantita: se fino a
ieri di giustizie ne avevamo due (quella dei galantuomini e quella degli altri), oggi ne abbiamo tre,
perché c'è una nuova giustizia per i “diversi”. La normativa contro i migranti appena inserita nel
nostro ordinamento, si inserisce in un percorso di progressivo proibizionismo (che comunque era
proibizionismo principalmente amministrativo) che si avvale anche dello strumento penale. Il diritto
penale contro il migrante perché migrante, contro il migrante non perché delinque, ma perché
migra. E questo è il nuovo reato di clandestinità previsto per lo straniero che entra, ovvero si
trattiene, nel nostro Paese. Comunque sia oggi il migrante è colpevole del fatto di essere migrante.
L'ammenda prevista per questo reato è poca cosa: da 5mila a 10mila euro. Il problema non è quello
della sanzione; il problema è che il procedimento penale si intreccia con la possibilità di espellere in
via amministrativa lo straniero irregolare, quindi l'ammenda è un passaggio per arrivare
all'espulsione. Ma quello che interessa sottolineare è che per la celebrazione del procedimento
penale relativo al reato di clandestinità la legge prevede un nuovo tipo di processo con
presentazione immediata davanti al Giudice di Pace oppure una sorta di direttissimo davanti al
Giudice di Pace. È evidente che ci troviamo di fronte ad un nuovo processo per soggetti “diversi”e
con procedure “diverse” per questo nuovo processo. Questa criminalizzazione dello status di
migrante irregolare può avere delle conseguenze gravissime, perché preclude di fatto – quantomeno
per la paura che si avrà ad avvicinare determinate strutture – l'accesso a determinati servizi pubblici
quali, prima di tutto, quello scolastico e quello sanitario. Sia chiaro, questa è legge dello Stato, io
sono magistrato e quindi ho il dovere di applicarla.
Ma l'inadeguatezza dello strumento penale non dipende solo dalle sue carenze organizzative,
l'inadeguatezza riguardo al tema della clandestinità è ontologico; la migrazione è un fiume in piena,
ci sono migliaia di persone che vengono da altri paesi e investono tutto (a volte hanno solo il loro
corpo da investire) per venire nel nostro Paese, e come ogni fiume in piena trasporta anche detriti.
Ed è proprio sui detriti che ci dovremmo concentrare, perché se lo strumento penale viene utilizzato
per il fiume in piena assume dei compiti che non gli appartengono e la Giustizia subisce una
torsione, avendo sullo sfondo questo concetto di “tolleranza zero” (l'Esercito per le strade, le flotte
per respingere i migranti verso la Libia, adesso le ronde per le strade, prima ancora gli accattoni che
devono sparire dalle strade e le impronte digitali dei rom...). Il sospetto è che queste misure possano
servire molto meno rispetto alle speranze che vi ripone l'opinione pubblica, che non diano tutta
quella sicurezza che si dice essere a portata di mano, mentre l'autentica vera sensibilità in tema di
sicurezza oggi si misura quando si parla di intercettazioni. Invece dei “gravi indizi di reato” (tranne
per reati di mafia e terrorismo) la nuova legge (che sarà votata intorno al 15 di luglio) prevede
“evidenti indizi di colpevolezza”: non bisogna essere giuristi per capire che “evidenti” è più forte di
“gravi” e che “reato” è una cosa e “colpevolezza” è un'altra cosa, molto di più. Oggi le
intercettazioni sono il vero bastione della sicurezza dei cittadini, l'unica difesa per i cittadini per
scoprire fior di delinquenti e di criminali. Se questo bastione viene sbrecciato – e con la nuova legge
sarà picconato – ne risentirà la sicurezza dei cittadini. Sfido chiunque a contraddirmi se dico che, se
questa legge sarà approvata, se uno non sarà mafioso o terrorista ma “soltanto” assassino,
rapinatore, stupratore, estortore, sequestratore di persona, trafficante di droga, sfruttatore di
prostitute, corruttore, concussore, usuraio, bancarottiero, avrà un mucchio di probabilità in più di
farla franca.
Abbiamo calcolato che avremo almeno un cinquanta per cento in meno di intercettazioni fuori
dell’ambito di mafia e terrorismo. Vuol dire almeno cinquanta per cento in meno di assassini,
stupratori, rapinatori, ecc. che saranno oggetto di accertamento giudiziario-politico; e la sicurezza
dei cittadini sparisce! E se non sparisce viene gravissimamente compromessa. Questa nuova legge
sulle intercettazioni produce in-si-cu-rez-za! Si grida “sicurezza” “sicurezza” “sicurezza” quando si
tratta di esercito, di flotta e di ronde: e poi quando si tratta di intercettazioni “basta”! La sicurezza
non è più un problema, perché? Perché quando è stata approvata la legge alla Camera ci sono stati
venti franchi tiratori tra l’opposizione, e non sono pochi. Vuol dire che c’è una certa politica che,
trasversalmente, per coprire i suoi vizi, pubblici o privati poco importa, mette a repentaglio
legalmente, con scarsa responsabilità, la sicurezza di tutti i cittadini italiani. Questa è un’anomalia
enorme. Vincono le elezioni; attenzione la sicurezza è un bene primario, mettere in campo tutto il
possibile in termini di intelligenza, di sforzi, di risorse è giusto. Ma è sbagliato sacrificare diritti e
garanzie senza creare un diritto penale diverso, senza puntare esclusivamente sulla repressione, che
è necessaria, per i detriti e per le frange, ma non può essere generalizzata. Se io parlo di sicurezza
tutte queste premesse me le dimentico quando ho a che fare con ciò che veramente la sicurezza me
la garantisce – le intercettazioni – allora c’è qualcosa che non quadra in termini di coerenza, in
termini di logica, in termini che appunto mi consentono di parlare di anomalia.
Altre piccole anomalie, e con queste davvero chiudo. Si parla tanto di lotta antimafia. Ci
sono misure sul versante del crimine organizzato ma, sullo sfondo c’è un clima politico –
chiamiamolo così – caratterizzato da certe uscite di autorevolissimi esponenti istituzionali del nostro
paese secondo cui Mangano è un eroe e invece i Pm sono equiparabili a delinquenti. Che davvero ci
sia, in questo clima, una lotta antimafia è un’anomalia, una certa contraddizione. Un’altra anomalia
che chi ha il monopolio dell’informazione, il sostanziale monopolio dell’informazione: da un lato
attacca alcuni giornali arrivando a chiedere che non gli si dia pubblicità, che siano “strangolati”
sostanzialmente, ma nello stesso tempo l’altra faccia della legge sulle intercettazioni, ecco che porta
avanti e sostiene il bavaglio dell’informazione che non monopolizza. Questo non solo è anomalo,
questo forse è qualcosa di più. Finalmente si sono visti a cena: due giudici costituzionali
autorevolissimi con il presidente del Consiglio, il suo gran consigliere Letta, il ministro Alfano, due
presidenti della Commissione Giustizia. Mi fermo qua; ma attenzione che chi partecipa a questa
cena e non vuole che se ne parli molte volte appartiene alla categoria di coloro che insultano i
magistrati che partecipano al dibattito politico-culturale alla luce del sole, come sto facendo io in
questo momento. Con Livio Pepino abbiamo scritto tempo fa un libro su questo attaccare i
magistrati che prendono posizione nel dibattito sulla giustizia pubblicamente, firmano documenti e
partecipano ai dibattiti come sto facendo io: vuol dire che così non sono più imparziali e non
possono giudicare. Attenzione! Passione civile e imparzialità del giudizio non sono concetti
antitetici o incompatibili. L’imparzialità è disinteresse personale, estraneità agli interessi in
conflitto, distacco dalle parti, nonanche indifferenza alle idee e ai valori, indifferenza che sarebbe
assai pericolosa in chi deve giudicare. Nuocciono all’imparzialità la partecipazione alla gestione del
potere, i legami affaristici, il coinvolgimento in conflitti personali di diritto, nonanche la
partecipazione al dibattito e al confronto culturale. Sono cose che dovrebbero essere ovvie. Non
sono più ovvie, anzi molte volte è difficile farle passare in una propaganda che è tutta quanta a
senso unico. Chiudo dicendo che troppe anomalie – piccole, medie o grandi – sommandosi e
intrecciandosi tra loro – quando riguardano la giustizia, l’informazione, la sicurezza, il rispetto dei
diritti – incidono sulla qualità della democrazia. Questa è la posta in gioco! Con una partita ancora
aperta, una partita che Libera sta giocando, voi di Libera state giocando e non è niente affatto
perduta. Si può vincere! Come voi sapete, anzi come voi fate, a patto di conoscere le cose, di
studiare le cose e impegnarsi perché le cose, una volta conosciute, vadano nel senso dello studio,
della consapevolezza e di ciò che la conoscenza consiglia come più conveniente per gli interessi
generali. Grazie per la vostra pazienza.

“Le mafie al nord”


di Vincenzo Macrì, Sostituto Procuratore DNA

Questo discorso delle Mafie al Nord è stato in parte imposto all'attenzione dell'opinione
pubblica proprio da chi vi parla e da pochissime altre persone, tra cui inserisco Enzo Ciconte, lo
storico che tutti conoscete, e anche un piccolo quotidiano calabrese molto coraggioso, come
Calabria Ora, che su questo argomento ha condotto una ricerca continua, analitica e molto attenta.
Nel luglio dello scorso anno, presentando il libro di Francesco Forgione, che poi è la relazione della
Commissione Parlamentare Antimafia, ebbi a dire che Milano è la vera capitale della 'ndrangheta;
era una formula semplificata, con la quale, però, non intendevo assolutamente fare uno scoop, ma
pensavo di dire una cosa scontata e abbastanza banale; le reazioni che invece ha suscitato mi hanno
fatto capire che avevo colto nel segno. Quando le reazioni sono eccessive, si capisce che sono stati
toccati punti nevralgici e che non dovevano essere toccati, non solo per gli ambienti direttamente
interessati, come quelli politici e amministrativi di Milano e della Lombardia, ma anche per gli
ambienti giudiziari meridionali. Qualcuno anzi mi disse che avevo dato una immagine devastante
per la Dda di Reggio Calabria perché l'avevo delegittimata: dicendo, insomma, che la 'ndrangheta è
al Nord è come se le avessi fatto perdere tutta la sua importanza.
Parliamo dunque di mafia al Nord ma ad una condizione: di non pensare che si tratti di una novità,
né che si tratti di quello che i politici amano definire “il salto di qualità”, perché a me
quest'immagine della mafia e della 'ndrangheta che procedono per salti come i canguri non è mai
piaciuta. Le mafie non procedono saltellando ma procedono in linea retta secondo un percorso che
parte da lontano ed è destinato ad arrivare lontano. Le mafie al Nord esistono da almeno trent'anni,
la loro pericolosità è nota, e devo dire che non hanno fatto nulla per passare inosservate, anzi si
sono impegnate parecchio per rendersi evidenti. La 'ndrangheta calabrese negli Anni Settanta faceva
i sequestri di persona in Lombardia, non si accontentava di piccole estorsioni; il più alto numero di
sequestrati in Italia è in Lombardia: in questa regione sono circa centocinquantotto, solo dopo
vengono la Calabria, la Sardegna, Lazio, Piemonte e così via.
I sequestri di persona avvengono negli Anni Settanta e non si tratta di atti di pirateria, cioè di attività
di chi si porta in una regione, cattura gli ostaggi e rientra nel territorio di appartenenza; al contrario
il sequestro di persona presuppone una struttura logistica di base: persone che sono sul posto,
individuano gli obiettivi, realizzano il tutto, trasportano poi i sequestrati nella loro regione d'origine,
cioè in Aspromonte e gestiscono le trattative che durano anni. Vi ricorderete di sequestri durati
anche oltre due anni e conclusi a volte con la morte degli ostaggi, i cui cadaveri spesso non sono
stati mai consegnati o ritrovati, o con pagamento di riscatti miliardari per l'epoca; e spesso anche
con la complicità locale di alto livello tra le strutture investigative. Quei sequestri di persona,
mentre in Calabria ebbero l'effetto di distruggere una borghesia imprenditoriale già pingue e
nascente, in Lombardia servirono soprattutto all'accumulazione violenta di capitale, che servì poi
alla 'ndrangheta per entrare nel mercato degli stupefacenti.
Al di là di questo, in quegli anni c'erano già stati tanti segnali di presenze autorevoli: Luciano
Liggio viene arrestato a Milano in Via Ripamonti; Stefano Bontade andava e veniva fra Sicilia e
Lombardia, Vittorio Mangano abitava addirittura ad Arcore, Gerardo Alberti e Gaetano Fidanzati
trafficavano in droga, Epaminonda e Turatello gestivano le bische clandestine; Turatello era poi il
collegamento con grossi esponenti politici del Partito Socialista, tanto da far dire a Norberto Bobbio
che il Partito Socialista era passato da Turati a Turatello.
La Banca Rachini aveva tra i suoi clienti Pippo Calò, Totò Riina e Bernando Provenzano. Calvi e
Sindona avevano le loro banche non a Corleone, le avevano a Milano, e gestivano i grandi affari dei
capitali mafiosi da Milano; Giorgio Ambrosoli, curatore fallimentare del fallimento Sindona, fu
ucciso a Milano; nel 1983, mi pare nel mese di giugno, il procuratore della Repubblica di una città
molto importante, Bruno Caccia, viene ucciso a Torino non dai terroristi, non da Cosa Nostra, ma
dalla 'ndrangheta e dai Belfiore di Gioiosa Jonica stanziati a Torino, i quali gli rimproveravano che
con lui non si poteva parlare. Evidentemente con altri si parlava.
Nel 1994 ci fu una relazione della Commissione Parlamentare Antimafia tutta dedicata alle mafie
nel Nord, e il comitato era diretto da Carlo Smuraglia; quella relazione resta un punto fermo che
non si può ignorare.
Questa cosa, però, ha creato turbolenze e reazioni, che passano, o dal fatto che in Lombardia e
anche in altre regioni come Liguria ed Emilia le mafie non esistono, oppure che non bisogna parlare
di queste cose perché se se ne parla si criminalizza la città, e non bisogna criminalizzare città sane,
laboriose come Milano, come Brescia. Se si va a guardare la letteratura che su queste cose c'è già
stata nel Mezzogiorno, si vedrà che le reazioni sono identiche: la parolina della criminalizzazione è
quella più usata; se si parla di mafia allora si criminalizza la città e si dimostra di non amare la città.
Chi la pensa in questo modo, lavora in realtà per distruggere la città in modo irreversibile e
definitiva, perché nascondere quello che c'è significa non voler risolvere. Mi ricordo anche quelle
frasi di alcuni sindaci e imprenditori calabresi o siciliani che nei processi dicevano: “La mafia? Io
non so cos'è. È una cosa che si mangia? Non esiste, non se ne parla” . Ultimamente, in un processo
svoltosi pochi giorni fa a Reggio Calabria, un imprenditore che risultava pressato dalle
organizzazioni criminali, interrogato dal Presidente del tribunale disse di non aver mai avuto
problemi con la 'ndrangheta, allora il Presidente disse: “Non mi venga a dire che Lei non sa cos'è la
'ndrangheta.” “No, no, Signor Presidente, io lo so benissimo cos'è la 'ndrangheta, perché l'ho letto
su Wikipedia, per il resto non mi risulta personalmente.”
Questo è l'atteggiamento di fronte al quale ci troviamo anche al Nord, perché l'onestà non è
congenita a questa o quella popolazione, ma è quello che si acquisisce in relazione alle proprie
convenienze, ai propri interessi: se conviene dire che non esiste, bisogna dire che non esiste
altrimenti si può anche ammettere. D'altra parte al Sud siamo molto più abituati a queste presenze e
quindi abbiamo anche una capacità di reagire, mentre probabilmente altrove manca questa capacità
e c'è una sensazione di timore diffuso che impedisce anche di reagire di fronte a queste cose.
Insomma, l'atteggiamento sembra essere quello della negazione più totale, rispetto al quale bisogna
invece documentarsi per svelarne la totale falsità.
Già nel 1993, un giudice per le indagini preliminari di Milano, Guido Piffer, diceva, parlando di
Corsica e di Buccinasco, che si trattava di terra straniera, sottratta al controllo delle autorità locali,
perché appartenente ormai decisamente alla mafia, in particolare di 'ndrangheta. Rispetto ad una
presenza di Cosa Nostra nella Lombardia degli Anni Settanta e Ottanta, successivamente,
probabilmente per una serie di decisioni di vertice, è stata la 'ndrangheta che ha gestito la
Lombardia in maniera totale e definitiva; così come accade in Piemonte, peraltro, dove Cosa Nostra
è praticamente assente, e così come accade in altre regioni di Italia. Proprio per smentire quelli che
asseriscono che la mafia in Lombardia non esiste, riprendo le dichiarazioni del procuratore aggiunto
della Dda di Milano, il dott. Armando Spataro, il quale dieci anni fa dichiarava che su trentasette
operazioni della Dda di Milano, ben ventiquattro riguardavano la 'ndrangheta, mentre le altre
riguardavano Cosa Nostra e Camorra distribuite equamente.
Ma non è soltanto Armando Spataro che si esprime in questi termini; il giudice delle indagini
preliminari Guido Salvini, esperto anche in terrorismo, dichiara che le inchieste di questi anni
dimostrano che il riciclaggio di denaro sporco accumulato dai calabresi con il narcotraffico è
avvenuto principalmente nel centro di Milano, dove tra le attività dei calabresi ci sono bar, centri
commerciali, e soprattutto imprese edili e di movimento terra; insomma, è partita la grande corsa
alla costruzione in vista dell'Expo.
Pensare che non ci siano le loro attenzioni e le loro infiltrazioni negli appalti dell'esposizione
universale sarebbe pericolosamente sciocco.
Ancora, è il procuratore Vilane, procuratore della Repubblica di Milano, il quale dice, proprio con
riferimento alla recente Operazione Isola, riguardante infiltrazioni della 'ndrangheta nella Tav in
Lombardia, che siamo alla terza generazione. La prima generazione si occupava di attività estorsive
e di traffico di stupefacenti, la seconda partecipava agli utili delle aziende come soci occulti,
adesso, invece, ha un ruolo di imprenditorialità attiva anche se con metodi mafiosi, utilizzanso la
forza e l'intimidazione e la collaborazione con la casa madre in Calabria.
Il collega Pomarici parla di occupazione criminosa di interi settori economici, caratterizzati da
difficoltà finanziarie, e a proposito della droga dice che questa città per la 'ndrangheta rappresenta
un pozzo senza fondo; qui i mafiosi non solo riciclano denaro, trafficando quintali di coca, ma
fanno anche estorsioni e controllano il territorio. I campi del riciclaggio sono edilizia, movimento
terra, usura, discoteche, ristoranti, cooperative di servizi.
Ma la 'ndrangheta non opera da sola, infatti recentemente sono stati individuati legami con la
Camorra; negli Anni Novanta c'era la coppia Trovato-Specchiuni.
Uno scenario preoccupante? Sicuramente si. Manca una mappatura aggiornata dei clan, e questo è
dovuto al fatto che non ci sono pentiti, e senza contare la povertà di organico di chi fa le indagini.
Esiste una volontà politica che mette il silenziatore? In passato sì, oggi direi di no, ma abbiamo fatto
dei passi indietro a partire da una legge troppo restrittiva sui pentiti.
Proprio citando la recente Operazione Isola, il giudice che ha emesso le ordinanze di custodie
cautelari, Caterina Interlandi, scrive che nei contratti, nei progetti esecutivi dell'opera, nei cantieri e
nella suddetta filiera del cemento, poco o nulla si documenta o si regolamenta, quanto
all'esecuzione dei lavori di movimento terra; come se si trattasse di opere che per la loro relativa
semplicità non richiederebbero specifiche competenze tecniche, e conseguentemente non
meriterebbero rilievo nei piani dell'opera da realizzare. Si crea, così, una sorta di zona d'ombra nella
quale si inserisce il cancro della criminalità organizzata, che finisce per dettare regole ferree, a
cominciare da quelle sulla distribuzione del lavoro; la conseguenza dell'ingerenza e dell'infiltrazione
della 'ndrangheta è la distorsione delle regole del libero mercato e della libera concorrenza. In
questo “sistema 'ndrangheta” i lavori sono assegnati per mezzo di una chiamata diretta, nel più
rigoroso rispetto delle loro logiche di potere.
Continua dicendo che, di fatto, la gestione centralizzata degli appalti fornisce la chiave di lettura dei
rapporti tra 'ndrangheta e mondo imprenditoriale: è evidente infatti che dal momento in cui l'attività
delle cosche diventa sistema, qualsiasi inadempimento degli accordi e delle logiche delle spartizioni
degli affari diventa violazione del “sistema 'ndrangheta”, che nessuno può pensare di violare
impunemente.
Certo si dirà che mancano episodi clamorosi, che non ci sono emergenze criminali vere e proprie,
che non ci sono molti omicidi; lo diceva anche Nando Dalla Chiesa, le mafie tendenzialmente non
fanno più vittime, ma creano clienti. Si avvalgono di clienti e di soci: ai clienti vengono prestati
servizi come la fornitura di droga e di tutte le merci vietate (quindi anche prostitute, esseri umani,
lavoro nero, armi e quant'altro), e poi creano soci per le loro attività imprenditoriali. Non creano
un'emergenza di violenza criminale, ma adesione; il mercato della cocaina genera prestazioni
mafiose, così come gli affari generano delle cointeressenze tra le imprese mafiose e le imprese
cosiddette sane, tradizionali, che trovano conveniente l'alleanza per l'affidamento di buona parte dei
lavori e poter condurre i loro affari senza problemi e incidenti di alcun genere.
Quindi, gli Anni Settanta sono caratterizzati dai sequestri di persona e dall'accumulazione di
capitale; negli Anni Ottanta c'è l'ingresso nel mercato dell'eroina, e Milano diventa il crocevia del
traffico dell'eroina che giunge dalla Turchia; molti trafficanti siciliani e calabresi, infatti, si
posizionano su Milano, dove arrivano i grossi carichi che poi vengono smistati in tutta Italia. Negli
Anni Novanta si inizia a trattare la cocaina, e non è certo un caso che nei primi anni del decennio
vengono sequestrate a Genova cinque tonnellate di cocaina, uno dei più grossi sequestri mai
effettuati in una volta sola, destinati a cosche di 'ndrangheta di Torino, che si erano consorziate tra
di loro per poter sostenere finanziariamente una operazione di acquisto impegnativa come questa,
che sarebbe poi stata distribuita nel mercato italiano ed europeo. I profitti tratti dal ventennio di
affari eroina-cocaina sono enormi, tanto che questo ha determinato, insieme ai processi che si sono
fatti negli Anni Novanta, l'assegnazione dello spazio su strada a organizzazioni minori (albanesi,
magrebini) e la gestione delle grandi transazioni di partite di droga (nell'ordine di centinaia di chili
o tonnellate) da parte dei grandi narcotrafficanti calabresi, in diretto contatto con quelli colombiani.
I proventi tratti da questi enormi traffici sono destinati ad essere inseriti nell'economia
imprenditoriale, nell'acquisto di negozi, alberghi, ristoranti, centri commerciali, e imprese di
qualsiasi genere.
La penetrazione economica è radicale e molto diffusa, e non è limitata a Milano: i luoghi sacri della
dolce vita romana, per esempio, sono interessati dagli inserimenti delle cosche di 'ndrangheta, così
come la stessa Galleria di Milano; sull'ortomercato di Milano spadroneggiavano i Morabito, che
avevano addirittura creato una sorta di night club dentro quelle strutture comunali, e attualmente
hanno anche la gestione della notte di Milano, con tutto quello che comporta: discoteche, locali di
scambio, locali notturni, nei quali come è noto circola la cocaina. Negli stessi luoghi, ovviamente,
vi sono anche le ragazze venute dall'est, utilizzate come prostitute e gestite in maniera sinergica da
mafie italiane ma anche straniere; soprattutto nel bresciano è presente la mafia russa nell'acquisto di
immobili e nell'investimento in discoteche e locali situati intorno al Lago di Garda.
Ma il quadro non è soltanto limitato alla Lombardia.
Per esperienza diretta so che la Dda di Torino realizza le sue operazioni maggiormente sulla
'ndrangheta calabrese, e solo in parte sulla mafia siciliana (non Cosa Nostra, ma quella catanese
che da sempre ha avuto una base privilegiata a Torino).
Non parlo naturalmente delle mafie straniere; infatti quando si parla di mafie al Nord bisogna
considerare la mafia cinese, russa, colombiana, albanese, magrebina, nigeriana; mi limito dunque
solo alle infiltrazioni delle mafie italiane.
Il tentativo poi di negare l'evidenza, anche al di là di ogni ragionevolezza, arriva perfino quando è lo
stesso esponente delle istituzioni locali a denunciare la presenza di questi pericoli. È avvenuto a
Genova, dove il Sindaco ha denunciato pubblicamente, in maniera molto preoccupata, la presenza
di fenomeni mafiosi nella sua città, e lo hanno denunciato anche i sindaci di Cesano Boscone e
Trezzano sul Naviglio.
Quando sull'Espresso apparve un articolo circa la presenza della Camorra a Parma, ci fu
un'insurrezione del Prefetto, che disse che non ne sapeva nulla e che non esisteva nulla, nonostante
lì a Parma operi tutto il clan dei Casalesi di Michele Zagaria, imparentato con grossi costruttori
locali; è una presenza che tutti conoscono, ma che evidentemente è sfuggita al responsabile della
sicurezza locale. Sull'ultimo numero di Narcomafie appare un'inchiesta molto interessante sul
Modenese e sulle infiltrazioni in quella provincia, oltre a quelle già note in provincia di Reggio
Emilia da parte dei calabresi di Cirò e di Isola Capo Rizzuto, che hanno dato luogo anche ad una
guerra in Emilia Romagna tra loro per interessi contrapposti.
Cosa c'è di nuovo, oggi, in Lombardia? È in corso una riorganizzazione della 'ndrangheta che
tende ad assumere una struttura federale, cioè autonoma rispetto alla casa madre. Voi sapete che la
'ndrangheta è organizzata in una maniera piuttosto strana: ha un'organizzazione reticolare non solo
in Italia, ma anche nel mondo (Australia, Canada, Europa, Germania, Francia) formata da locali di
'ndrangheta, insediati nelle singole località. Questi “locali”, che sono le organizzazioni base e che
vengono formate sui territori, nei quali ci sono uomini d'onore di 'ndrangheta, rispondono però tutti
alla casa madre, alla “mamma” detta nel linguaggio di 'ndrangheta, che si trova a San Luca, che è la
mamma di tutti i locali di 'ndrangheta del mondo. Questa logica orizzontale ha questo forte
richiamo unitario, che oggi viene messo in discussione perché si vorrebbe creare una struttura
autonoma rispetto a questa casa madre, una struttura regionale. È un processo che si sta tentando di
avviare non senza resistenze, e parlo di omicidi già avvenuti, perché naturalmente i grossi gruppi di
potere di 'ndrangheta non vogliono assolutamente perdere il controllo degli affari della Lombardia e
quindi richiamano al centralismo 'ndranghetista, contro il federalismo di alcune frange. È un
processo in corso di cui non si conosce l'esito, ma certamente si capisce che risponde ad una logica
di gestione degli affari in Lombardia in maniera autonoma, senza spartire niente con nessuno,
utilizzando una presenza sul territorio che sta diventando progressivamente un controllo del
territorio alla maniera calabrese. Nello stesso tempo c'è una “calabresizzazione” della Lombardia,
nel senso che il reticolo dei locali di 'ndrangheta conta ormai trenta, quaranta centri che realizzano
un controllo del territorio.
D'altra parte, le vicende di un comune come Buccinasco sono molto evidenti: il sindaco Cardonera
che aveva tentato di dare una svolta all'amministrazione, non è stato poi rieletto e ha avuto dei
segnali intimidatori molto forti. Durante il suo mandato aveva proceduto al sequestro di un bar-
discoteca Trevi, di proprietà Papadia, confiscato e destinato a sede per la Croce Rossa. Il nuovo
sindaco, Cereda, invece, non ha inteso dare questa nuova destinazione, rivendicando una sua
autonomia gestionale su queste cose. Recentemente, poi, la superficie edificabile del comune di
Buccinasco è triplicata rispetto alla precedente amministrazione, per dare possibilità alle
speculazioni edilizie programmate di potersi realizzare pienamente. Pomarici dice: “La presenza
delle famiglie è simile a quella che ritroviamo a Sud; a Buccinasco non si spara solo perché il
controllo mafioso è totale.”
Se è così allora bisogna preoccuparsi, e naturalmente la Dda di Milano, in questi anni, come quella
di Torino, sta facendo un ottimo lavoro, anzi proprio tutto questo che io vi sto dicendo è frutto dei
risultati dell'attività investigativa di queste due direzioni distrettuali, che hanno lavorato moltissimo.
Soltanto che di questo si parla molto poco.
Si può a questo punto dire come cioè sia in contraddizione con la linea di tendenza di questo
periodo, nel quale ci sono stati degli interventi che hanno inasprito la legislazione antimafia, con
una logica di repressione delle attività mafiose.
In parte è vero, ma le cose vanno lette nella loro complessità, e va capito lo spirito di quello che sta
accadendo; io penso che si sta realizzando in Italia (parlo della Sicilia, della Calabria, della
Campania, ma anche del Nord) una sorta di svolta, nel senso di chiusura con la vecchia Mafia,
quella dei vecchi padrini, dei latitanti catturati, attraverso quella che definisco la potatura periodica
dei rami militari delle mafie, che deve avvenire ogni venti-trent'anni. Anche le norme recentemente
approvate sembrano andare in questa direzione, che chiude con il passato, senza sconti per chi è già
dentro, anzi con l'inasprimento delle pene del 416bis e l'inasprimento del 41bis del regime
detentivo. Nello stesso tempo, però, c'è un contrappeso a tutto questo, che viene realizzandosi
attraverso le norme sulle intercettazioni e le norme contenute nel disegno di legge sulla riforma del
codice di procedura penale, che vanno in direzione completamente opposta: tendono ad assicurare
proprio a questo tipo di mafia imprenditrice la sicurezza di poter lavorare in una situazione di
relativa tranquillità per il futuro. Perché questa mafia è stata definita in qualche libro come una
mafia invisibile, anche se è difficile che non scappi qualche omicidio a queste organizzazioni
criminali, e di essa si può accertare la presenza solo attraverso alcuni reati sintomo: illecita
concorrenza, bancarotta fraudolenta, mega truffe, falso ideologico, frode in pubbliche forniture. Se
questo tipo di reati ordinari non potrà più avvalersi dello strumento investigativo delle
intercettazioni telefoniche, sarà difficilissimo accertarli, ed è quindi molto probabile che queste
attività di inserimento anche nelle pubbliche amministrazioni locali attraverso fenomeni corruttivi
sfuggano all'attenzione degli investigatori. Se poi si aggiunge il ribaltamento dei rapporti tra
pubblico ministero e polizia giudiziaria, nel senso che il primo dovrà attendere passivamente che la
polizia fornisca le notizie di reato soltanto a distanza di tempo e dopo averle lavorate per il tempo
ritenuto necessario senza l'informazione immediata e senza che il pm possa intervenire a dirigere, a
guidare, a correggere, a integrare le indagini stesse, allora vi renderete conto di come questo nuovo
ceto imprenditoriale mafioso, paramafioso, o anche solo di cerniera, abbia molte più possibilità di
sfuggire all'attenzione pubblica. Se in alcuni contesti ambientali gli organi investigativi sono
abbastanza distratti rispetto a questo quadro di presenze mafiose, vi renderete conto di quale potrà
essere il quadro futuro di questa situazione.
Crea dei problemi anche l'ingresso continuo e costante di capitali mafiosi di origine illecita in
questo mercato imprenditoriale, perché la fonte è sempre quella del traffico di droga. A Milano c'è
la borsa del mercato della cocaina, si decide il prezzo della cocaina, è il centro di massima
distribuzione sul mercato, e c'è un paradosso: la produzione aumenta, aumenta la domanda,
aumenta l'offerta, e diminuiscono i prezzi. Oggi la cocaina ha i prezzi più bassi degli ultimi
vent'anni, diventando accessibile a chiunque; basti pensare che con venti euro è possibile
acquistarne una dose. Questo vuol dire che il mercato sta crescendo a dismisura, così come sta
crescendo la quantità offerta.
Continuo a pensare che il proibizionismo in materia di droga sia il più grave errore, e il più grande
regalo che sia mai stato dato alle mafie; oggi sembra che anche Obama abbia un ripensamento su
queste politiche proibizioniste; non lo so che cosa succederà, ma è chiaro che diventa un nodo
ineludibile del problema mafie. È un problema che va posto, perché attualmente il sistema genera
solo arricchimento enorme e indiscriminato.
Va trovato un sistema anche contro il reato di riciclaggio: non è possibile che in Italia, forse l'unico
Paese nell'Occidente, non sia punito l'autoriciclaggio, per cui il mafioso che ricicla i beni ottenuti
dalle sue stesse attività illecite non può essere punito per riciclaggio. Si rischia, così, nel giro di
pochi anni, di rendere impossibile qualsiasi attività di ricerca dei proventi di attività illecite perché
sarà impossibile dimostrarne la matrice illecita originaria.
Un filosofo del diritto, Jeming, giurista tedesco borghese, fondatore del diritto commerciale
scriveva in un libro del 1884, “Lo scopo del diritto”: “Saranno necessarie nuove ed amare
esperienze perché ci si avveda dei pericoli sociali insiti nell'incontrollato egoismo individuale, e si
comprenda perché in passato sembrò necessario porvi dei limiti. Una illimitata libertà di traffici è
una patente franchigia per il ricatto, un permesso di caccia per briganti e pirati, con diritto di
libera cattura su tutti quelli che cadono nelle loro mani. Guai ai vinti: che siano i lupi a chiedere
libertà a gran voce è comprensibile, ma le pecore che si uniscono al coro, e in questi problemi è
avvenuto molto spesso, dimostrano soltanto di essere null'altro che pecore.”

Conclusioni
di Luigi Ciotti

Signor Presidente del Consiglio, come lei ben sa, chi sta più in alto ha responsabilità
pubbliche, è un grande esempio, dovrebbe dimostrarsi al di sopra di ogni sospetto. Signor
Presidente, chi sta più in alto deve dare il buon esempio. Non si può parlare di legalità, di rispetto,
di educazione, quando non si praticano queste virtù, anzi le si disprezzano pubblicamente
banalizzandole. E quindi questa nostra Assemblea, signor Presidente, dice con molta chiarezza che
noi vogliamo e sentiamo profondamente il bisogno di verità. Risponda ai quindici punti, per
piacere, che ogni giorno vengono pubblicati per chiedere verità; e siccome lei è un esempio di verità
ci dia proprio questo segno concreto di cui quest’Assemblea ha bisogno.
Devo dire che c’è molta amarezza dentro di noi, per quella ricchezza di immunità e tutto quel segno
di leggi e leggine che sono volute per tutelare i giochi d’interessi solo di qualcuno (deboli con i
potenti e forti con i deboli – non è solo una battuta che abbiamo fatto in questi anni ma è purtroppo
una realtà). Vi prego amici, nessuno di noi vuole mettere facili etichette, non ci appartengono; l’ho
detto il primo giorno e lo ripeto: Libera costruisce, collabora e lavora nella chiarezza, nella
trasparenza e nella ricerca della verità con tutti. Questa dimensione del pluralismo, sottolineata con
forza in apertura di queste giornate è dimostrata dalla presenza, all’interno delle nostre realtà, di
forze e di espressioni che veramente danno valore a questo nostro modo di essere e di lavorare a
questi nostri percorsi. Ma rivolti a chiunque deride la legalità, non la pratica, la disprezza,
pubblicamente la banalizza, il nostro dovere è quell’atto di chiarezza e di denuncia, di quella
coscienza critica che deve veramente appartenerci. Grazie al nostro Presidente onorario per quello
che stai facendo e per la grande presenza in mezzo a noi. Grazie di aver accettato questa grande
scommessa. Non sono conclusioni, sono ancora una volta dei momenti di riflessione, in base anche
ai lavori che abbiamo fatto insieme, alcune considerazioni.
Chi di voi, da più anni, viene a questi appuntamenti, ha una storia che viene da lontano con
Libera; ebbene noi siamo lo spessore, la partecipazione, il metodo, la ricchezza dei contenuti, che si
vedono nel modo con cui sono state costruite queste giornate. Ma credo che, onestamente, dentro la
coscienza di ognuno di noi, c’è il toccare concretamente con mano la positività – che è fatta anche
di fragilità – del grande lavoro di questi anni sempre in crescita, questo moltiplicare presenze,
questo penetrare nelle fessure dei vari contesti della società italiana ed anche europea con “Flare” (e
non solo). Coi piedi per terra, vi prego, con molta umiltà ma anche con grande gioia e orgoglio: è il
frutto del lavoro di ciascuno di noi, di tutti voi e di quanti, con voi, nei vari territori, in forme e
modi diversi, si sta portando avanti. Ma teniamo i piedi per terra! L’umiltà, la gioia delle cose
positive, ma anche la consapevolezza dei nostri limiti, che sempre ci sono, e di quel di più che deve
essere fatto non ci lasci mai tranquilli. Ci sia quella sana inquietudine dentro ciascuno di noi per
fare meglio e fare di più, per allargare i nostri orizzonti e per assumerci di più la nostra parte di
responsabilità, o meglio di corresponsabilità. Perché dico questo? Dico questo perché di fronte a noi
c’è questa deriva etica, c’è questa deriva legislativa, c’è questa deriva culturale e c’è questa caduta
sociale, c’è questa grande crisi economico-finanziaria. È un momento certamente difficile e, in tutto
questo, i giochi criminali (e quando dico criminali ci mettiamo dentro tutto – in quelle espressioni
che qui sono state in questi giorni, in modo così attento e così puntuale, ricordate e sottolineate)
vanno a nozze, vanno alla grande! È un terreno fertile che moltiplica quei giochi, quelle manovre,
quegli interessi, quegli egoismi, quegli individualismi. È questo substrato che, certamente, diventa il
viatico di altri giochi e di altri crimini. Lo dico proprio in base alle relazioni, così attente e così
puntuali, alcune anche così scomode che ci sono state portate e alle quali siamo grati di questo
contributo e dello spessore che avete avvertito tutti. E allora c’è una distanza in questo momento e,
quindi, al fianco del nostro impegno e delle cose che facciamo c’è una distanza! Quello che accade
intorno a noi non può lasciarci tranquilli e accontentarci di quello che noi stiamo facendo; ma io
credo nonostante tutto questo che abbiamo una responsabilità, di voler conoscere e approfondire,
metterci di più in gioco e non essere attenti solo ai nostri specifici; non chiuderci solo nei nostri
recinti, non accontentarci solo dei nostri piccoli e grandi impegni nei nostri territori (quella
dimensione del quotidiano certo è importante e fondamentale, ma la nostra testa, la nostra analisi, il
nostro studio deve leggere quel micro, ma anche quel macro che ci circonda). Dobbiamo sentire in
ogni nostra realtà la corresponsabilità di quello che succede nelle altre realtà di Libera, e non solo,
negli altri territori; dobbiamo cercare di costruire maggiore relazione, maggiore ascolto, maggiore
compartecipazione, maggiore attenzione proprio rispetto a tutta la nostra realtà, così difficile e così
complessa ma anche così meravigliosa. È stato veramente un appuntamento di grande spessore e di
grande valore; abbiamo toccato i grandi numeri del nostro percorso e del nostro lavorare. E quando
penso che, in Italia, le scuole che stanno facendo un percorso con noi sono oltre quattromilatrecento
non sono poca cosa! Quattromilatrecento scuole nel nostro paese stanno costruendo dei percorsi con
noi! Quando prendiamo coscienza di numeri che non devono trarci in inganno, che non devono
pomparci dentro, ma che sono la realtà, il frutto del nostro impegno, delle nostre fatiche e delle
nostre speranze e quindi anche la consapevolezza di tutto questo. Io penso a quel numero di
università con la quale si sono costruiti già dei percorsi e dei progetti. È il frutto del lavoro di
ciascuno di noi! Ognuno ha messo la sua parte, il suo contributo, il suo pezzetto.
Vi prego non venga mai meno questo! Non venga mai meno questa attenzione alla nostra realtà ma
anche al resto! A partecipare a questa grande sfida che si vuole portare avanti (oggi più che mai)
nelle varie dimensioni del nostro paese: sociale, politica, etica, culturale, educativa. Siamo chiamati
ad avere ben presente dentro di noi questa consapevolezza e, soprattutto, questo impegno. La
positività, ma anche la consapevolezza delle nostre fragilità, di quel di più che è necessario, di uno
sforzo in questo pluralismo di espressioni da portare avanti, di esserne veramente soddisfatti per le
cose che si sono fatte, ma anche consapevoli della distanza abissale e di una velocità, oggi, di scelte,
di modalità e anche di criminalità in tutte le sue espressioni, che viaggiano, certamente, rispetto alla
storia del paese con una velocità, per mille ragioni, più veloce della nostra. Perché il viatico lo
danno certe politiche, certi linguaggi, certe normative, certe altre modalità che ci sono distanti e che
allargano veramente, in negativo, altri terreni attorno a noi. Allora siamo chiamati, tutti per nome, a
continuare l’assunzione di questa nostra responsabilità e di questo nostro impegno da parte di questa
realtà che si chiama “Libera”, che mette insieme persone, associazioni, movimenti e realtà così
diverse! E vi prego di credere che non è semplice, non è facile camminare tutti insieme; a volte ci
sono sbavature, ci sono delle presunzioni, c’è qualcuno che prende delle scorciatoie, c’è qualcuno
che parla di legalità e poi all’interno della sua realtà non la rispetta, non comunica, non fa partecipi
gli altri, lavora di sottobosco (e noi siamo vigili a questo, richiamiamo questo). E quando si chiede
conto, quando si mettono dei paletti, quando da Roma qualcuno, giustamente, si arrabbia, quella
rabbia è un atto d’amore, perché siamo veramente preoccupati che quei binari di chiarezza, di
trasparenza, di positività che ci vedano camminare tutti insieme ma senza che nessuno pensi di
inventarsi delle modalità o di scegliere anche all’interno di molti nostri contesti quello che
denunciamo agli altri, quella legalità sostenibile. E poi c’è qualcuno anche tra di noi – e sapete che
abbiamo dovuto togliere il marchio da alcune Cooperative, si è dovuto richiamare alcune
Associazioni – non lo si fa assolutamente con presunzione o calandolo dall’alto, ma su dati
oggettivi, a volte che si possono dichiarare, altre volte che non si possono dichiarare. Perché i
segnali che arrivano a noi, arrivano sempre da fonti certe e precise, a volte anche dalla magistratura,
che ci chiede il silenzio, ma che per un rispetto al nostro lavoro ci avverte: «state attenti!», «vigilate
in quella situazione!», «uscitene in fretta!», “non date marchio a quella realtà!”, «sospendete un
attimo perché ci sono cose in corso», ecc. ecc. Quando arrivano alcuni richiami, alcune
sottolineature, quando ci sono telefonate che giungono e che chiedono conto, che chiedono
assunzione dell’attenzione (anche proprio nella gestione, anche nella presentazione di quei percorsi,
di quei progetti), è un atto di grande amore, credetemi. Io non ho una parola più grande per dirlo. È
un atto di amore in questo senso: perché è un atto di volerci bene, di fare le cose bene, di aiutarci a
evitare – magari in assoluta buona fede – di essere travolti anche noi. Perché le insidie sono tante, ci
sono tutti i giorni. Noi trattiamo una materia, scusate la parola, che non è semplice e non è facile.
Dall’altra parte ci sono i giochi criminali, c’è l’illegalità, ci sono forme di corruzione, ci sono
persone che manovrano forme di schiavitù, di altri giochi e di altri interessi. Quante facce d’angelo
si presentano nelle nostre realtà e nei nostri consensi! In realtà c’è la voglia di penetrare, di
ascoltare, di destabilizzare. Dobbiamo essere attenti e vigili e quando, in questi anni e soprattutto in
questi ultimi anni, qui a Svignano abbiamo gridato con forza – e qualcuno se lo ricorda – di essere
attenti, seri, vigili, umili, ve ne siete accorti che, puntualmente, quello che avevamo detto si è
verificato; lo si sa per le ragioni che abbiamo appena detto e sulla base dei segnali che noi abbiamo,
e che ci permettiamo di consegnare a ciascuno di voi con chiarezza e con fermezza: a
quest’Assemblea, a tutti voi, alle associazioni, ai gruppi e ai movimenti che fanno parte di questa
meraviglia, perché la consapevolezza di questa corresponsabilità ci chiede di essere attenti e
veramente corresponsabili. Bisogna prendere coscienza che non è un movimento qualsiasi – non
voglio sminuire il valore di altri – ma qui c’è proprio un coordinamento di tanti segmenti, realtà e
associazioni. In base a questo siamo chiamati tutti per nome a continuare quest’assunzione della
responsabilità, di saper cogliere i richiami che non sono mai dettati – sui vostri territori e a livello
nazionale – per presunzione, ma sono richiami proprio con quella dimensione di una sana voglia di
costruire nella chiarezza e nella trasparenza. Perché anche noi siamo sovraesposti; anche noi
abbiamo questa insidia; anche nelle nostre realtà, appunto perché agiscono dentro questi contesti.
Ebbene, dentro le fessure nostre c’è chi cerca di infiltrarsi, c’è chi non rispetta quelle quattro regole,
c’è chi parla di legalità e poi ha delle modalità di superficialità, a volte in buona fede altre volte
proprio di superficialità (e lasciatemi dire, a volte, anche un po’ di ignoranza). Aiutiamoci in questo
cammino! Il grande valore, le grandi positività del frutto del lavoro di questi anni, del vostro
generoso e coraggioso impegno, questo allargarsi di Libera, ormai presente in tutte le regioni, in
quasi tutte le province e in tanti territori, con tanti presidi che nascono, che si allargano, in quelle
migliaia di scuole, in quelle università, con la presenza di beni confiscati, le nuove cooperative che
verranno aperte con la nostra modalità, quel cooperare con Libera Terra fatto di tante realtà che
portano loro professionalità, il loro bagaglio e le loro competenze, questa rete internazionale
meravigliosa: insomma abbiamo una grande responsabilità, c’è una grande positività, che ci da
forza, ci da coraggio e ci dimostra che è possibile. Ma la velocità dall’altra parte è alta, è alta! E
dobbiamo correre allora! Non a caso la coordinatrice nazionale operativa di Libera è un’atleta, non
a caso! Che corre, che ci fa correre! Non a caso noi stamattina abbiamo visto un altro uomo che
corre; dobbiamo correre insieme, insieme!
Secondo aspetto. Stiamo in mezzo alla gente! Stiamo in mezzo alla gente! Una realtà che
educa è una realtà che ascolta. Anche noi impariamo ad ascoltare! Non parliamo sempre e solo con
gli amici degli amici! Attenzione se, a volte, andando nei luoghi si riempiono le sale, dobbiamo
chiederci se non sono sempre gli stessi: quelli più sensibili. Ma noi dobbiamo stare in mezzo alla
gente per parlare anche a chi non la pensa come noi, chi non ci conosce, chi è in un cammino di
ricerca. Noi non dobbiamo andare nei territori a insegnare, dobbiamo andare a imparare; certo
portiamo anche il nostro contributo, ma oggi più che mai gli scenari che si sono aperti ci pongono
una riflessione: dobbiamo imparare. E avete sentito lo stupendo esempio che il nostro grande amico
ha messo nello sport, coniugandolo con la legalità: la sua passione e il suo correre in quei quartieri.
La storia della pasta ci insegna che dobbiamo imparare nei nostri territori. Non andiamo a
insegnare, portiamo anche il nostro contributo, ma andiamo a imparare; e si impara dal confronto
con l’altro, con qualunque altro. Nell’incontro con gli altri – nei nostri territori – qualunque essi
siano, ogni sapere cozza con i suoi limiti. Perché quando tu incontri le storie il tuo sapere prende
coscienza dei suoi limiti. Abbiamo bisogno tutti di un umile apprendimento. Abbiamo bisogno di
un’educazione e di una formazione nostra permanente che parta anche da quei contesti che hanno
delle cose da dirci. È quello che stanno facendo alcuni di voi, soprattutto i familiari, e con quanta
fatica, quanta fatica, ma anche con la voglia di non mollare, di andare nelle carceri per i minorenni a
incontrare quei ragazzi detenuti; quello che per esempio Dario Montana sta facendo, quello che
molti amici del coordinamento familiare di Napoli stanno facendo. Guardate, è uno degli aspetti di
una storia nata all’interno di questi nostri percorsi di uno spessore unico. Per chi di noi ha lavorato
tanti anni nelle strutture dei carceri minorili sappiamo cosa vuol dire. Ma vi rendete conto che in
questo vostro cammino – in questi ultimi tre anni – molti, anche qui presenti, senza chiasso e senza
rumore, hanno costruito dei percorsi e degli incontri importanti. In questa concretezza, che fa fatica,
certamente, che crea un subbuglio, io non ho parole; sono pagine belle dove ci sono ragazzini che
hanno sbagliato e che devono pagare, ma che devono trovare un futuro, una speranza ed è bello
trovarla attraverso quei familiari: credo non ci sono parole per esprimere questo. Nessuno deve
prendere scorciatoie: sono i picciotti, la manovalanza, mandati per quattro soldi in tutto questo.
E allora attenti! Noi andiamo anche per imparare; l’incontro con gli altri in quei territori, in
quei contesti, in quella realtà, diventino veramente un’occasione per ciascuno di noi. Non è
semplice e non è facile. Ci vuole una continuità: anche in queste forme, anche in queste nuove
modalità (non giudicando, ma sostenendo chi le porta avanti): una continuità della ricerca di nuove
basi della speranza, perché questi percorsi sono nuove basi di speranza. Altro passaggio importante
è quello che ci porterà il 21 marzo, quasi con ogni probabilità, in Lombardia, a Milano. Milano: per
le tante ragioni che sono state anche qui puntualmente riportate. Questo legame sempre più forte tra
la memoria e l’impegno. Tutte le vittime non ci chiedono di essere commemorate: noi non vogliamo
commemorare nessuno, ci chiedono di continuare il loro impegno, di compiere il bene per cui
hanno vissuto, creduto, lottato, perché quei sogni e quelle speranze qualcuno le porti avanti. E allora
è un grande impegno, è un grande impegno il 21 di marzo. La Lombardia è certamente un territorio
non semplice e non facile; le spinte sono in direzioni anche diverse ma le ragioni che avete
ascoltato, sentito, che conoscete ci portano ad andare lì, in questo continuo oscillare delle giornate
dell’impegno della memoria, tra il Sud e il Centro e il Nord. Milano, 21 marzo di quest’anno, la
Lombardia, ma è tutta questa nostra Italia, e non solo, che si prepara e che vuol vivere quel
momento, non di commemorazione ma di impegno: di andare ad ascoltare la gente, a imparare, a
cercare di capire il perché di certe situazioni e portare a fianco di quelli che già in quei territori
lavorano, affiancarsi a loro per questo grande momento. Di questo ne riparleremo ma, vi prego,
bisogna mettersi in moto, bisogna organizzarsi, bisogna prendere coscienza che è importante anche
il numero, ma non solo: i centocinquantamila e più di Napoli è il segno di un cammino che ci vede
impegnati trecentosessantacinque giorni all’anno. E allora non ci saranno più, i cento passi che
accompagnano il 21 marzo, ma ci saranno i passi di tutti i trecentosessantacinque giorni all’anno.
Da questo momento tutto quello che avviene marcatelo verso il 21 marzo. Tutti gli appuntamenti,
gli incontri piccoli e grandi, con quel metodo, con quello spessore, con quella forza, dalle scuole
alle università, dalle associazioni ai gruppi, alle chiese, negli incontri promossi con le
amministrazioni. Tutte viaggiano verso quel 21 marzo; non ci sono più i cento passi, perché
abbiamo detto a Napoli che il nostro impegno è trecentosessantacinque giorni all’anno. Quindi
organizzatevi, Milano è il nostro grande appuntamento! Ripeto ancora una volta: non è un corteo,
non è un evento, ma è veramente quell’abbraccio con chi non c’è più, con i familiari di chi non c’è
più, e far emergere le cose positive, quell’esperienze positive legate a quei territori, anche la
denuncia delle cose che non vanno bene e far emergere, soprattutto, quei bisogni, quelle proposte e
quei grandi progetti.
Il nostro, l’avete visto, l’avete sentito, è un paese oggi segnato dalla paura, dalla stanchezza;
in molti c’è rassegnazione, in troppe persone c’è delega, tanta gente vive nell’insicurezza, molta
viene alimentata, alcune espressioni sono reali, altre sono alimentate. Questa, voi me lo insegnate, è
sempre più una società barricata, che si sente minacciata dalla sola presenza dell’altro. Una società
che ha nostalgia del nuovo, perché tutti parlano del nuovo e che, anziché cercarlo in avanti, lo cerca
indietro difendendosi: questa è una società che si difende. Allora noi siamo chiamati a non
dimenticare che, chi non ha una salda coscienza civile, tenderà sempre più a seguire l’esempio di
quelle scorciatoie e di quelle modalità: c’è bisogno di una grande sfida culturale e di una grande
sfida, ancora più forte, educativa, di trasformare quello che abbiamo detto più volte in questi giorni,
quelle paure e quelle insicurezze in speranze. Noi dobbiamo calibrare di più i nostri progetti, i nostri
percorsi. Mi rendo conto dei dati nuovi, dello scenario politico, sociale e culturale incrementato in
questo senso nuovo; dobbiamo tenerne conto nei nostri nuovi progetti, dobbiamo saldare questo
nostro impegno tenendo conto anche di questa dimensione. Perché questi nostri amici, in base a
quello che è successo il 2 luglio, sono senza cittadinanza, sono senza visto, saranno senza diritti, i
diritti nostri. Più che di incostituzionalità bisogna parlare di anticostituzionalità, in questo momento
– e ce lo ricordava, in un articolo stupendo, Gustavo Zagrebelsky –: una cosa è certa, tutto quello
che sta per avvenire consegnerà una massa crescente di cittadini migranti alle organizzazioni
criminali, al mondo della illegalità. Questo sta per avvenire! E vi posso dire con certezza, che
saranno organizzazioni criminali a occuparsi del loro alloggio, dei loro risparmi, della loro salute,
rendendo sempre più insicuro e più fragile il nostro paese. Bisognava, come tutti noi abbiamo
chiesto (le associazioni, i gruppi, quelli che ogni giorno si spendono, in migliaia, in Italia) le
politiche che non escludono ma che costruiscono, nel rispetto della legalità e dei diritti per tutti. È
una grande sfida culturale ed educativa, è una grande sfida politica e sociale: noi faremo la nostra
parte. La nostra parte sarà anche quella di convocare quegli avvocati delle associazioni e i
magistrati con cui si lavora, le associazioni che vivono le accoglienze per capire che cosa noi
possiamo e dobbiamo fare. Mi permetto di ricordare qui, senza voler escludere nessuno, con le
stupende parole di don Tonino Bello parlando di un Natale, quando diceva che se, cercando Dio,
non incontriamo un Dio glorioso ma la fragilità di un bambino, non abbiamo sbagliato strada.
Perché a Natale tutti pensano a un Dio glorioso e invece trovi un bambino fragile; e poi aggiunse, in
una sua omelia di Natale stupenda queste parole: «i poveri, gli ultimi, sono il luogo dove Dio
continua a vivere in clandestinità». In tutti gli immigrati, lì dentro, c’è Dio che vive in clandestinità.
Io non posso respingere Dio! Io non posso respingere Dio!!! Lì dentro c’è Dio! E allora noi
abbiamo cacciato Dio – oggi Dio è clandestino nel nostro paese!
Vi prego, il nostro riferimento resti – per chi ha quei riferimenti – ma non escluda nessuno, perché è
un riferimento dove ci sono l’umanità, i diritti, l’attenzione alle persone, la dignità e la libertà delle
persone. Noi lotteremo con la dimensione politica, usando gli strumenti possibili, lo faremo con
tutte le nostre forse, nel rispetto delle regole. Però, c’è un ultimo strumento che è la libertà di
coscienza: è la nostra coscienza. E quindi molti di noi hanno già scelto l’obiezione di coscienza. Lo
avete visto, nel Gruppo Abele già un mese fa abbiamo parlato dell’obiezione di coscienza.
Nell’ansia di fare ordine, l’ho detto l’altro giorno, si è fatto grande disordine: e il primo grande
disordine è la negazione dei diritti. Vi do per certo che l’Europa e l’ONU interverranno a dire che
quella non è la strada: lo do per certo. Non c’è bisogno di chissà che cosa per dire che quelle
modalità non sono possibili, non sono possibili!
Ma vi devo anche dire che di quella finanziaria che è passata ci sono anche aspetti importanti e
positivi; non parliamo solo delle cose negative: ci sono dei dati di valore e di positività. Ora non è
questa la sede di esaminare i sessanta articoli, di riconoscere quelle parti positive che ci riguardano,
di farle emergere, di essere persone che dicono le cose positive che vengono fatte, che le
apprezzano e le sostengono e che denunciano con forza le cose negative. Anche qui ci vuole il
giusto equilibrio, e non solo nella negatività delle cose che non vanno. Però in tutto quello che avete
sentito, vi prego, l’equilibrio di cogliere anche le positività che ci sono. Il tempo vola, ma i nostri
amici scappano dalla fame, dalla miseria, dai conflitti e dalle guerre. Scappano dalla fame! Io
auguro a tutti voi e l’auguro a me tanta e tanta fame! Scusatemi, vi auguro tanta fame! Abbiamo noi
bisogno di fame, una fame da diffondere, quella della giustizia, dei diritti, della dignità, della
conoscenza, dell’informazione e della verità. È questa la fame che noi dobbiamo diffondere!
Abbiamo bisogno di questa fame per non dimenticarci della loro fame. E anche se nei nostri territori
ci occupiamo di altre cose, questa dimensione non possiamo dimenticarla. Come io non posso
dimenticare Mamuni; voi sapete, perché certamente lo sapete, a me ha creato un dolore, come credo
in molti di voi. E quello che questa donna ha commesso sta per moltiplicarsi in questi giorni.
Mamuni Mubraka, origine tunisina, da dieci anni circa in Italia (cinque dei quali passati in carcere:
storie di roba, certo era fragile ed ha sbagliato) si è suicidata la notte del 7 maggio scorso nei bagni
di uno di quei centri di identificazione a Ponte Galleria a Roma. Il giorno prima aveva scoperto che
sarebbe stata rimpatriata nel suo paese, dove – aveva confidato alle compagne del centro – non
aveva più nulla e nessuno e che lì non sarebbe tornata. Io sono molto preoccupato, come penso
ciascuno di voi, perché per molti tornare nel loro paese non sappiamo che cosa voglia dire. E chi,
come noi, si occupa di tratta e di prostituzione – e lo facciamo tutti i giorni nelle nostre realtà –
sappiamo che per molte di quelle donne vuol dire una fine e un marchio non indifferente ritornare in
quei paesi. Chi di noi, anche qui presente, lavora in quei paesi da anni coi nostri gruppi e le nostre
realtà, sa che c’è un dovere di impegnarci, di far di più la nostra parte, di moltiplicare e di sentire
questa fame, di non scoraggiarci, e che il diritto e l’accoglienza siano nella nostra testa e nel nostro
impegno, nella nostra lotta, nel nostro partecipare a dibattiti e discussioni per cercare di trovare
degli sbocchi. Diritto e accoglienza ci accompagnino sempre. Siano al centro di un processo che ci
chiede a tutti, ma proprio a tutti, di farsi coscienza critica e soprattutto testimoni del senso vero
della giustizia e della legalità. Lo dicevo l’altro giorno e lo ripeto qui; due cose non si possono fare:
obbedire all’ingiustizia, alla violenza, alla sopraffazione, agli egoismi, e rendersene complici
direttamente o indirettamente dicendo che le cose non cambieranno. Noi dobbiamo lottare, non
possiamo lasciarci travolgere dalla rassegnazione, dal poco coraggio! Noi faremo la nostra parte,
Libera farà la sua parte; offriremo a voi strumenti in più di lettura per poter agire e per moltiplicare
questa consapevolezza.
Voi avete capito tutti che si è aperta in Italia una guerra di nuova generazione, è una guerra
silenziosa, in Italia e in Europa. Questa guerra dura da anni ed è quella che respinge queste persone:
è una guerra perché, all’altro giorno, le persone accertate inghiottite nel mar Mediterraneo erano
quattromiladuecento. Questo è il prezzo di una guerra di nuova generazione, molto silenziosa, che
spara con le sue normative, le sue leggi, i suoi egoismi. Possibile che non possiamo inventarci modi
diversi? Voi sapete che nel palazzo della giunta della regione Puglia c’è una targa con scritto “Ester
Ada – migrante, cittadina del mondo”; abbiamo chiesto noi a quella regione di fare un gesto, un
segno verso questa ragazza diciassettenne morta sbattuta tra Malta e l’Italia per le competenze.
Cinque giorni nella scialuppa, morta! Voi sapete che in ebraico Ester vuol dire “la nascosta”, e lei
era costretta a nascondersi. Ester in ebraico significa “la nascosta”, vuol dire il pudore, la
riservatezza, l’umiltà, ed è stata costretta a nascondersi. Ecco, noi dobbiamo lottare contro la
povertà, non contro i poveri, dobbiamo lottare contro i giochi criminali e non contro le vittime che
pagano questi prezzi. Dobbiamo lottare contro i grandi trafficanti di quei mercati di morte – la
droga in primo luogo e chi copre quel mercato – e non verso gli anelli più fragili e più deboli, ai
quali noi chiediamo di rispondere, per la loro parte, di responsabilità. Allora, questo è il nostro
grande impegno. Impegnarci per una cultura di vita e di legalità e soprattutto io auguro a me, a voi
la normalità del bene e del coraggio. La normalità del bene e del coraggio! che poi è la vera ossatura
della nostra società. Noi vogliamo cose normali, non eccezionali. Viaggiamo in questa direzione: il
bene e il coraggio. E, soprattutto, non vorrei che tra qualche anno dovessimo batterci il petto
colpevoli e dire, come il profeta Geremia, «siamo rimasti lontani dalla pace» e credo che, tra
qualche anno, se tutte queste modalità vanno avanti saremmo in tanti a batterci il petto perché siamo
rimasti lì. Noi non vogliamo rimanere lì, vogliamo fare di più.
E Contromafie non è un momento qualsiasi. E quell’occhio del marchio che ricordate sta a indicare
l’Osservatorio, il bisogno di analisi, di confronto, di ascolto, di impegno. Quel marchio, continuerà,
magari in piccolo, ad essere il segno della continuità di quel percorso arricchito magari da altro. Ma
vi prego abbiamo bisogno che ci prepariamo, che ci facciamo sentire per tempo, ci organizziamo,
perché l’appuntamento di Roma ci arricchisca. Ma Contromafie sarà un momento di grande valore,
di lettura, di confronto, di studio, di analisi ma anche di denuncia e di proposta. Sempre la denuncia
sia accompagnata dalla proposta! Non basta denunciare, bisogna proporre. E se noi qui non
facessimo cose concrete non avremmo ragione di prendere la parola, se noi qui non avessimo
quell’accoglienza, quel lavorare con la gente, con gli ultimi della fila, sulla strada con quelle
ragazze ecc. non prenderemmo la parola. Noi la prendiamo coi piedi per terra, sempre con quel
pudore. Abbiamo questa grande responsabilità! Contromafie. Eravamo duemilacinquecento persone
a lavorare l’altra volta, e quante in più per la crescita che abbiamo avuto anche al nostro interno ci
ritroveremo a Roma. Preparatevi su quei temi, venire arricchiti per arricchirci ma anche per portare
con forza il nostro contributo. Contromafie è un appuntamento d’impegno nella continuità e rientra
in quei trecentosessantacinque giorni, in quei passi verso Milano. E lì noi rivedremo alcuni di questi
passaggi. Risentiremo molto l’importanza della proposta culturale, politica, etica e tutti i suoi
aspetti, sociale ed economico. Lì ci sarà un incontro dove saremo tutti sullo stesso piano, tutti, tutti,
tutti, dove ci si deve misurare, non perché io faccio questo e tu fai questo, ma ci deve essere quella
capacità dove ognuno si spoglia di certe sue dimensioni, ruoli, ecc., per potersi confrontare e trovare
un linguaggio che ci permetta anche di proporre e di graffiare di più la nostra realtà. E l’altro
aspetto importante è una vicenda che ci tocca da vicino e si chiama “I Siciliani” di Pippo Fava.
Pippo Fava fondò questo giornale, costruì con un gruppo di ragazzi quella controinformazione, quel
coraggio nella quotidianità, per far crescere la consapevolezza, le coscienze in quel territorio. Pippo
Fava è stato ucciso, come ben sapete. Il giornale aveva un po’ ripreso, poi la crisi economica,
momenti difficili, contraddizioni, fatiche, sofferenze e il fallimento perché non avevano i soldi per
poter andare avanti. E dopo questo fallimento sono giunte a questi redattori, che erano i ragazzi di
ieri – alcuni di loro si arrabattano come possono – è giunto di dovere pagare una cifra non
indifferente che il tribunale ha stabilito dal fallimento. Hanno chiesto aiuto anche a noi. E allora noi
dobbiamo solo comunicarci, chiederci che cosa possiamo fare, come possiamo entrare in gioco per
dare una mano, non dimenticarci di quella storia e di quel coraggio. Questo fallimento non segni
un’altra morte, al di là del suo direttore che è stato ucciso; perché chi aveva altri interessi possa
dire: abbiamo vinto noi. Noi vogliamo esserci, ci hanno chiesto una mano. Vedremo con Roberto,
che ci può insegnare tante cose, cosa è meglio fare, cosa è possibile fare, perché qualcuno non spari
una seconda volta, perché è un altro modo per calpestare la speranza di questo percorso.
E l’ultima grande cosa: San Sebastiano da Po. L’altra sera, a San Sebastiano da Po, che è un bene
confiscato ai Belfiore (da lì partì l’ordine di uccidere il procuratore di Torino Bruno Caccia, che è
stato ricordato anche qui) i volantini che Libera Piemonte ha fatto per le tre serate di spettacolo e
musica, avevano un titolo sotto con una parola grande: armonia. E voi sapete proprio cha armonia
vuole dire, dal greco, “unione”, vuol dire “accordo”. E noi abbiamo proprio pensato quella sera che
eravamo lì, a quest’armonia, perché c’erano questi strumenti musicali, questi giovani così forti e
simpatici; questa cascina-villa che oggi porta il nome di “Bruno Caccia”. Però su quei depliant c’è
una foto stupenda; è di questa foto che voglio parlarvi, perché non c’è immagine migliore che canti
l’amore meglio di quella riprodotta sul depliant di quell’appuntamento di quei tre giorni alla cascina
dedicata a Bruno Caccia e alla moglie, altra donna coraggiosa, Carla Caccia. C’è una foto di tanti,
tanti anni fa di Bruno e Carla che danzano giovanissimi in un cortile, giovani e allegri. E vedete
questa cascina, cascina probabilmente della loro famiglia o dei loro parenti, e questi due ragazzi
giovani che stanno ballando insieme; non c’è migliore foto che poteva ricordarci quella cascina-
villa dei Belfiore, oggi confiscata, per ricordarci Bruno e Carla Caccia quella sera. Ma
quell’immagine, voi lo capite, è di un amore non esclusivo, non ripiegato su se stesso; un amore che
non si vergogna della propria felicità e desidera espandersi, coinvolgere, contagiare, trasformarsi in
responsabilità e impegno civile, come è stata la vita di Bruno e di Carla e come loro hanno
testimoniato. E vedo qui tanta gente che ha delle storie belle, alcune faticose, alcune che si sono
interrotte ma che lentamente procedono. Allora ho pensato di chiudere questa nostra riflessione
parlando proprio di questo canto dell’amore di Bruno Caccia e di Carla che ballano e che
testimoniano questa dimensione, che ci vogliono contagiare. Fatelo anche voi, col vostro volerci
bene, volendoci bene e volendovi bene, ed è l’augurio che faccio veramente a tutti, a tutti, a tutti.
Lottiamo perché i diritti e la storia delle persone vengano riaffermati con forza.
Grazie e a prossimamente.

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