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Capitolo 1

Il mercato del lavoro

In questo capitolo presentiamo un quadro delle condizioni del mercato del lavoro in
Italia e un confronto con i paesi dellUnione Europea.
Prima di analizzare la situazione italiana, riteniamo opportuno fornire alcuni dati a
livello planetario, che rendono lidea dei problemi e delle disuguaglianze che riguardano la
situazione del lavoro nel mondo.
Secondo le stime dellInternational Labour Office (ILO) oltre un miliardo di persone
nel mondo sono disoccupate (160 milioni) o sottoccupate (900 milioni).
Nel mondo circa 211 milioni di bambini fra i 5 e i 14 anni (di cui oltre 70 milioni fra i
5 e i 9 anni) sono costretti a lavorare per aiutare la famiglia.
In alcune regione del pianeta ci sono ancora persone che lavorano in stato di
schiavit.
Circa 135 milioni di persone nel mondo sono emigrate per motivi economici (un
altro 10% per ragioni politiche).
Le principali categorie.
I principali dati relativi al mercato del lavoro in Italia vengono rilevati trimestralmente
dallIstituto Nazionale di Statistica (ISTAT) attraverso unindagine campionaria effettuata
intervistando oltre 300000 famiglie per un totale di circa 800 mila individui (l1,4% della
popolazione residente) in circa 1400 comuni di tutte le province del territorio nazionale.
Date le difficolt di raccogliere dati nei paesi meno sviluppati e le differenze nei
metodi di rilevazione nei diversi paesi, necessaria una certa cautela quando si
confrontano i dati delle diverse economie. Per quanto riguarda i paesi dellUnione Europea
luniformit dei sistemi di rilevazione consente confronti abbastanza precisi fra i paesi della
UE.
Per cominciare esaminiamo i principali aggregati che lISTAT prende in
considerazione nelle sue rilevazioni sul mercato del lavoro. Le persone intervistate in et
lavorativa (oltre i 15 anni) vengono suddivise dallISTAT in tre categorie:
a) Occupati. Questa categoria comprende coloro che hanno dichiarato di
possedere unoccupazione, anche se per qualsiasi motivo nella settimana di riferimento
non hanno lavorato, o se hanno dichiarato di avere lavorato almeno unora nella
settimana di riferimento. Si noti che, secondo le statistiche ufficiali, non sono
considerate occupate le persone che svolgono lavoro domestico; ci deriva dalla
difficolt di rilevare il numero di persone che svolgono tali attivit. C poi unaltra
categoria di persone difficile da classificare, si tratta di coloro che lavorano nel
sommerso, i cosiddetti lavoratori in nero. A rigore dovrebbero considerarsi occupati,
lintervistatore dellISTAT garantisce lanonimato allintervistato e non chiede al
lavoratore se regolare o in nero, ma i lavoratori occupati in attivit sommerse
temono denunce e preferiscono dichiararsi disoccupati o inattivi. A maggior ragione
questo discorso vale per chi impegnato in attivit illegali o criminali.
b) Persone in cerca di occupazione. Sono inclusi in questa categoria i
disoccupati, cio coloro che hanno perduto il lavoro e lo cercano attivamente nonch le
persone alla ricerca della prima occupazione. Per essere classificate persone in cerca
1

di occupazione necessario aver svolto almeno unazione concreta di ricerca nei


trenta giorni precedenti la rilevazione e dichiararsi disponibili a intraprendere unattivit
lavorativa nei 15 giorni successivi.
c) Non forze di lavoro. Questa categoria include coloro che, nella settimana di
riferimento, non hanno svolto attivit lavorativa e non lhanno cercata attivamente nei 30
giorni precedenti la rilevazione.
La somma dei lavoratori occupati e delle persone in cerca di occupazione
costituisce le forze di lavoro.
I principali indicatori che descrivono le condizioni del mercato del lavoro sono:
Il tasso di disoccupazione che definito come il rapporto fra persone in cerca di
occupazione e la forza lavoro.
Il tasso di attivit, che il rapporto fra le persone appartenenti alle forze di lavoro
e la popolazione in et lavorativa (15-64 anni).
Il tasso di occupazione, che il rapporto fra gli occupati e la popolazione in et
lavorativa (15-64 anni). Si tenga presente che questa la definizione utilizzata a livello
europeo, mentre lISTAT definisce il tasso di occupazione come rapporto fra occupati e
popolazione oltre i 15 anni; naturalmente lISTAT calcola anche il tasso di occupazione fra
i 15 e i 64 anni, il che permette un confronto con gli altri paesi europei.
In Italia la forza lavoro, secondo i dati ISTAT, nel 2002 era pari a circa 24 milioni
persone, di cui quasi 22 milioni di occupati e circa 2 milioni e 160 mila disoccupati. Se
teniamo conto che la popolazione residente in Italia pari a circa 58 milioni, il 41% della
popolazione residente italiana appartiene alla forza lavoro. La popolazione in et lavorativa
(15-64 anni), sempre nel 2002, era pari a circa 39 milioni. Dunque circa 15 milioni di
persone, pur essendo in et lavorativa erano fuori della forza lavoro, cio non erano n
occupati, n in cerca di occupazione o, almeno, secondo lISTAT non erano attivamente in
cerca di occupazione. E possibile che un certo numero di persone sia disponibile a
lavorare ma non cerchi attivamente occupazione. Queste persone fanno parte delle non
forze di lavoro, anche se si tratta di potenziali lavoratori. Molti di questi potenziali
lavoratori sono disoccupati scoraggiati. Si tratta sia di lavoratori disoccupati che nei
periodi di elevata disoccupazione, dopo aver tentato di trovare lavoro, abbandonano la
ricerca, sia di quei potenziali lavoratori che rinunciano ad entrare nel mercato del lavoro a
causa delle scarse probabilit di trovare occupazione. I "lavoratori scoraggiati" non sono
inclusi dalle statistiche fra i disoccupati, ma fra i "non appartenenti alle forze di lavoro",
tuttavia si tratta di persone pronte a cogliere nuove opportunit di occupazione, quando
queste si presentano.
Tanto per fare un esempio, fra le donne giovani (15-24 anni) appartenenti alla forza
lavoro nellItalia meridionale, circa due terzi non trovano occupazione. Ma la
partecipazione delle donne alla forza lavoro in questa classe di et particolarmente
bassa. Perch accade ci? Probabilmente perch numerose donne giovani non provano
neppure a cercare lavoro, tanto sono basse le probabilit che hanno di trovarlo e quindi
entrano a far parte delle non forze di lavoro, anche se sarebbe pi logico inserirle fra i
disoccupati.
In effetti, quando diminuisce loccupazione, diminuisce anche la forza lavoro e
viceversa, perch molti disoccupati smettono di cercare lavoro se si convincono di non
avere possibilit di trovarlo. Intorno alla met degli anni 90 il calo delloccupazione stato
accompagnato da un declino della forza lavoro. Negli ultimi anni aumentata
loccupazione e diminuito il numero dei disoccupati e parallelamente aumentata la forza
lavoro, perch dato laumento delle opportunit lavorative, molte persone
precedentemente inattive sono entrate nel mercato del lavoro.
Per questo motivo importante considerare il tasso di occupazione, che ci dice qual
la percentuale di persone in et lavorativa che il sistema in grado di assorbire. Un
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tasso di occupazione elevato indice di un sistema che in grado di utilizzare


adeguatamente le risorse disponibili. In Italia il tasso di occupazione (15-64 anni) nel 2002
era pari al 55,8%; nel 2001 era pari al 54,6%, ben 9,4 punti percentuali al di sotto della
media europea. Ci indica che in Italia il fattore produttivo lavoro impiegato in misura
nettamente inferiore agli altri paesi europei e che perci una risorsa importante non viene
adeguatamente utilizzata e limita le possibilit di crescita del nostro paese.
Un dato importante che viene rilevato dall'ISTAT la percentuale di disoccupati di
lunga durata sul totale dei disoccupati, ovvero la percentuale di persone che rimangono
disoccupate per un periodo superiore almeno ai sei mesi. In Italia nel 2002 il 74,4% delle
persone in cerca di occupazione rimaneva disoccupata per almeno 6 mesi, il 59% per oltre
12 mesi e il 42% per pi di due anni. Questo dato particolarmente preoccupante perch,
come vedremo, la disoccupazione un problema tanto pi serio tanto pi si prolunga nel
tempo.
Un concetto a cui talora si fa riferimento quello di unit di lavoro standard, che
rappresenta la quantit di lavoro prestata in un anno da un lavoratore a tempo pieno, o la
quantit equivalente prestata da lavoratori a tempo parziale o che svolgono un doppio
lavoro. Questo concetto non pi legato al numero di lavoratori occupati, ma al volume di
lavoro impiegato.
La dinamica delloccupazione in Italia
Se guardiamo allandamento delloccupazione e del tasso di disoccupazione negli
ultimi 50 anni in Italia come in altri paesi Europei, notiamo che, dopo una discreta
performance negli anni 50 e 60, la situazione occupazionale ha cominciato a deteriorarsi
verso la fine degli anni 70, quando, con le politiche di aggiustamento condotte dalle
economie occidentali per far fronte agli shock petroliferi, il tasso di disoccupazione ha
cominciato ad aumentare e loccupazione ha registrato una flessione nel tasso di crescita.
Leconomia italiana, che gi negli anni 80 aveva mostrato una scarsa capacit di creare
nuovi posti di lavoro rispetto alle economie pi avanzate, nei primi anni 90 stata investita
da una grave crisi occupazionale, caratterizzata non solo da un aumento dei disoccupati,
ma anche da una sensibile diminuzione nel numero degli occupati. Nella seconda met
degli anni novanta sembra essersi verificata una svolta, nel 1996 riprende a crescere il
numero degli occupati, aumentano il tasso di attivit e di occupazione e dopo il 1998 si
registra un calo nel numero dei disoccupati e comincia a calare il tasso di disoccupazione.
Non possibile affermare con certezza se tale svolta sar duratura; le ultime rilevazioni
ISTAT del 2002 mostrano un indebolimento della tendenza espansiva delloccupazione e
nel gennaio 2003 si registra per la prima volta dal 1999 un aumento delle persono in cerca
di occupazione. .
Il confronto con le principali economie industrializzate mostra una situazione di
debolezza del mercato del lavoro in Italia: il tasso di occupazione e il tasso di attivit sono i
pi bassi fra i paesi della UE e il tasso di disoccupazione fra i pi elevati, superato nel
2001 solo da Spagna e Grecia (vedi tabella 1.1).
E anche la dinamica espansiva delloccupazione della seconda met degli anni 90,
che ha seguito con un anno di ritardo la tendenza in atto nellUE, apparsa pi debole che
nella maggior parte degli altri paesi europei.
I mediocri risultati dellItalia sul piano occupazionale rispetto alle altre economie
avanzate dipende in larga misura dalla modesta crescita del PIL che, dagli anni ottanta, ha
mostrato una crescita pi contenuta rispetto alla media degli altri paesi industrializzati. Le
politiche di compressione della domanda globale adottate negli anni 90 per rispettare i
criteri di convergenza necessari per entrare nellUnione Monetaria hanno imposto una
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brusca frenata alla crescita della nostra economia (che ha registrato un tasso medio
annuo di crescita a inferiore a quello medio dei paesi UE) e, di riflesso, delloccupazione.
Tabella 1.1. Tasso di occupazione, di attivit e di disoccupazione nei paesi dellUnione Europea

Belgio
Danimarca
Germania
Grecia
Spagna
Francia
Irlanda
Italia
Lussemburgo
Olanda
Austria
Portogallo
Finlandia
Svezia
Gran Bretagna
Europa 15
*anno 2000
Fonte: Eurostat

Tasso di attivit
Anno 2001
63,6
79,2
71,3
62,1
64,5
68,6
67,6
60,3
64,1
75,7
70,7
71,7
77,1
75,3*
75,2
69,0

Tasso di occupazione
anno 2000
60,5
76,3
65,4
55,7
54,8
62,0
65,2
53,7
62,7
72,9
68,4
68,3
67,3
70,8
71,5
63,2

Tasso di disoccupazione
anno 2001
6,6
4,3
7,7
10,5
10,6
8,5
3,9
9,4
2
2,5
3,6
4,1
9,1
4,9
5
7,4

Ma un ruolo di rilievo stato giocato anche, come vedremo nei prossimi paragrafi,
dalle specializzazioni settoriali dellItalia e dal dualismo nord sud che caratterizza la nostra
economia.
Distribuzione settoriale delloccupazione
Nel corso degli anni novanta nellUE si verificata una forte diminuzione degli
addetti nellagricoltura, una sostanziale stabilit delloccupazione nellindustria e un
notevole incremento nel terziario. Il mercato del lavoro italiano ha riflesso gli effetti dei
cambiamenti nei sistemi produttivi avanzati. Attraverso le rilevazioni dellISTAT, scopriamo
che quasi due terzi dei lavoratori sono occupati nei servizi, poco meno di un terzo lavora
nellindustria e circa il 5% nellagricoltura. Questa distribuzione settoriale, in cui domina la
quota di lavoratori occupati nei servizi e lagricoltura assorbe una quota minima degli
occupati, non una peculiarit italiana, ma contraddistingue tutti i sistemi produttivi
avanzati ed dovuta alla crescente terziarizzazione e finanziarizzazione dei sistemi
economici moderni. Si noti peraltro che lItalia, come gli altri paesi a sviluppo tardivo,
assorbe una quota relativamente alta di occupati nellagricoltura (quota che va
rapidamente calando) e una percentuale relativamente bassa di occupati nei servizi
rispetto alla media dellUnione Europea.
Lo sviluppo del terziario in Italia come negli altri paesi industrializzati ha
rappresentato la principale componente nel processo di crescita delloccupazione e,
mentre nel 1970 il terziario assorbiva il 40% delloccupazione, ormai quasi due terzi degli
occupati lavorano nel settore dei servizi (vedi tavola 2.1). Lincremento della
partecipazione femminile al mercato del lavoro proprio legata al mondo dei servizi.
Anche il mercato italiano stato influenzato da processi di deindustrializzazione e dalla
crescente terziarizzazione e finanziarizzazione delleconomia. Tuttavia lItalia segue il
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trend europeo con un certo ritardo, soprattutto mostra una dinamica e unincidenza assai
pi contenute rispetto agli altri paesi europei in settori determinanti per la crescita
delloccupazione, quali i comparti dei servizi alle famiglie e alle imprese che nella Ue
hanno esercitato un ruolo trainante per loccupazione.
Tabella 2.1. Occupati per settore di attivit economica, composizione percentuale
Agricoltura
Industria
Servizi
Fonte: ISTAT

1971
20,1
39,5
40,4

1981
13,3
37,2
49,5

1991
8,4
32,0
59,6

2001
5,2
31,8
63,0

Per quanto riguarda loccupazione industriale importante sottolineare che il nostro


apparato produttivo presenta alcune specificit rispetto agli altri paesi europei: una
specializzazione produttiva prevalentemente nei settori tradizionali e un elevato numero di
piccole e micro imprese.
Quasi met delloccupazione concentrata nei settori tradizionali (alimentari,
tessile, abbigliamento, cuoio e calzature), mentre il peso dei settori a pi alto tasso di
ricerca e sviluppo risulta inferiore alla maggior parte dei paesi europei. Questo tipo di
specializzazione produttiva ha progressivamente provocato un indebolimento nella
posizione dellItalia sui mercati mondiali ed incide negativamente sulla crescita
occupazionale essenzialmente per due ragioni. In primo luogo, la crescita della domanda
nei settori tradizionali stata negli ultimi anni relativamente contenuta. In secondo luogo i
settori tradizionali sono i pi esposti alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo, che sono
pi competitivi grazie al basso costo del lavoro e alle normative pi tolleranti su
inquinamento, sicurezza, ecc. Questa situazione ha causato fra laltro uno spostamento
verso lestero di attivit che non risulta pi conveniente mantenere in Italia.
Unaltra specificit del settore manifatturiero italiano la prevalenza di unit
produttive di piccola dimensione. La struttura dimensionale delle imprese in Italia da
molti considerato un indice di arretratezza del nostro sistema produttivo, che ne
condiziona la competitivit, con ovvi risvolti sulloccupazione, che tende a crescere pi
debolmente che negli altri paesi industrializzati. Peraltro si assistito a un continuo
ridimensionamento delle grandi imprese, che a partire dai primi anni ottanta continuano a
registrare un vistoso calo delloccupazione. Basti pensare che fatto dal 1995 al 2002
loccupazione dipendente nelle imprese industriali con oltre 500 addetti scesa del 17%.
Divari territoriali
La situazione italiana si caratterizza per una netta segmentazione del mercato del
lavoro, sia a livello territoriale che per tipologie di lavoratori.
Le statistiche sulloccupazione in Italia evidenziano le forti differenze nella
distribuzione territoriale delle forze di lavoro, degli occupati e dei disoccupati. Esistono
divari territoriali considerevoli in molti paesi, ma difficilmente accentuati come nel nostro.
Esaminiamo alcuni dati relativi al 2001 (vedi tabella 3.1).
Tutti gli indicatori relativi al mezzogiorno si presentano decisamente peggiori
rispetto alla media europea. In particolare il tasso di disoccupazione nel 2001 si colloca
ben 11,7 punti percentuali al di sotto della media europea e 14,7 punti percentuali rispetto
alla media del centro-nord, il tasso di occupazione e il tasso di attivit nel sud sono a livelli
preoccupantemente bassi. Secondo i dati ISTAT del 2002 nel mezzogiorno il tasso di

disoccupazione per i giovani fra i 15 e i 24 anni circa 50% (60% per le donne e 43% per
gli uomini).
Viceversa il Nord (con l'eccezione di alcune aree metropolitane, quali Torino e della
Liguria, particolarmente toccate dal declino della grande impresa) presenta tassi di
disoccupazione molto bassi e tassi di occupazione e di attivit vicini alla media europea.
Anche il tasso di disoccupazione dei giovani fra i 15 e i 24 anni, pur essendo pi elevato
che per le altre classi di et, relativamente contenuto: 11% (13% per le donne 9% per i
maschi).
La buona performance occupazionale nelle regioni del centro-nord deriva dal fatto
che in tali regioni il declino della grande impresa stato accompagnato dallo sviluppo di
imprese di dimensione media e piccola. Particolarmente importante stata la creazione di
molte imprese nel nod-est e nel centro, lungo la direttrice adriatica e lo sviluppo dei
distretti industriali1.
Senza dubbio la crisi occupazionale del Mezzogiorno deriva dalla sua debolezza
economica e istituzionale. Per quanto riguarda gli aspetti economici, il sistema produttivo
meridionale caratterizzato da una dotazione scarsa di infrastrutture, da un limitato
contenuto innovativo degli investimenti, da una specializzazione produttiva in settori
tradizionali. Laspetto istituzionale gioca un ruolo rilevante: lincapacit delle istituzioni di
fornire servizi funzionali allo sviluppo locale ha incentivato la crescita della corruzione e
dellillegalit (compreso il lavoro nero), creando cos un terreno ostile allo sviluppo di
nuove attivit che comportino un aumento delloccupazione ufficiale. Non questa la sede
per approfondire i problemi strutturali delleconomia meridionale, che sono stati trattati da
una vastissima letteratura. Basta dare uno sguardo ai dati per rendersi conto che lItalia
appare un paese letteralmente spaccato in due. In numerose regioni del Nord esiste una
condizione di piena occupazione, almeno per quanto riguarda lofferta di lavoro maschile.
Ma la situazione nel mezzogiorno senzaltro allarmante e, nonostante il leggero
miglioramento della situazione occupazionale registratosi negli ultimi due anni, il problema
appare ben lontano da una soluzione.

Tabella 3.1. Principali indicatori delle forze di lavoro per ripartizione geografica anno 2001

Tasso di attivit
Tasso di occupazione
Tasso di disoccupazione
Tasso di attivit
Tasso di occupazione
Tasso di disoccupazione
Tasso di attivit
Tasso di occupazione
Tasso di disoccupazione
* dato del 2000
Fonti: ISTAT e Eurostat

Totale
Centro-Nord
Maschi e Femmine
60,4
64,3
53,7
61
9,6
5
Maschi
73,6
75
68,1
72,4
7,5
3,5
Femmine
47,3
53,4
41,1
49,6
13,1
7,2

Sud
53,6
43,1
19,3

Europa 15
69
63,2*
7,6

71
60,4
14,8

78
67,6*
6,6

36,4
26,1
28,1

60,1
53,8*
8,8

Il mercato del lavoro femminile

Si intende per distretto industriale unarea delimitata in cui si raccolgono piccole imprese appartenenti allo stesso
settore. Grazie alla sua omogeneit consente laccumulazione e la trasmissione di esperienze e conoscenze.

Il mercato del lavoro femminile in Italia presenta aspetti contraddittori. Un aspetto


senza dubbio positivo si pu riscontrare nel fatto che la presenza femminile sul mercato
del lavoro ha registrato un andamento crescente, nonostante la crisi occupazionale che ha
investito l'Italia nell'ultimo quarto di secolo e che, in particolare negli ultimi anni, gli ampi
differenziali di genere si sono progressivamente ridotti. Dal 1993 al 2001 si verificato un
incremento della forza lavoro femminile di circa un milione e il tasso di attivit delle donne
passato dal 41,9% al 47,3%.
La crescita dellofferta di lavoro femminile dipende in larga misura dalle
trasformazioni socio-culturali che hanno comportato mutamenti nella struttura della
famiglia e nel ruolo della donna nel contesto famigliare, in parte attribuibile alla diffusione
del lavoro part-time, in parte dipende dallincremento della domanda di forza lavoro
destinata a svolgere mansioni tradizionalmente femminili. Ma, nonostante la crescita della
partecipazione femminile, le differenze di genere si mantengono ancora molte elevate e
non ancora stato colmato il divario esistente con gli altri paesi industrializzati, n in
termini di tassi di disoccupazione, n in termini di tassi di partecipazione. Il tasso di
partecipazione delle donne alla forza lavoro il pi basso fra i paesi dell'UE, poco pi della
met di quello della Svezia e della Danimarca, nel 1990 l'Italia stata superata anche
dalla Spagna, che pure partiva da una situazione ancora pi critica. Nel 2001 il tasso di
attivit femminile resta circa 25 punti percentuali sotto quello maschile e il tasso di
disoccupazione al 13,1% contro il 7,5% degli uomini, ben al di sopra della media
europea (8,8%). Il tasso di attivit maschile rimasto invece sostanzialmente stabile
intorno al 72-73%, con una lieve flessione nel periodo 1995-98, in corrispondenza di una
fase caratterizzata da tassi di disoccupazione particolarmente elevati.
Nell'Italia meridionale e insulare la situazione del mercato del lavoro femminile critica. Il
tasso di disoccupazione nel gennaio 2003 era oltre il 26% e ci in presenza di un tasso di
attivit estremamente basso (35,3%), inoltre la disoccupazione di lunga durata, gi molto
elevata per gli uomini, assume valori abnormi (17,4%).
Non pi possibile oggi spiegare le differenze di genere attraverso il minore
investimento delle donne in istruzione e formazione, in quanto le donne in Italia hanno una
formazione e una cultura mediamente pi elevata rispetto agli uomini.
Notiamo che, oltre ai puri elementi discriminatori, una serie di provvedimenti volti a
favorire le donne, hanno finito con l'avere un impatto negativo del mercato del lavoro
femminile; si pensi ai congedi di maternit, che portano ad una discriminazione in favore
degli uomini, o alle deduzioni fiscali per il coniuge a carico che scoraggiano la
partecipazione femminile regolare al mercato del lavoro, incentivando caso mai il lavoro
nero delle donne o ancora il pensionamento per le lavoratrici anticipato rispetto agli
uomini. Tali misure dovrebbero essere comunque compensate da politiche in grado di
controbilanciarne gli effetti. Una via possibile quella di estendere agli uomini gli stessi
privilegi, ad esempio nella UE va sempre pi diffondendosi la pratica di estendere i
congedi parentali.
Un altro aspetto che spiega il basso tasso di attivit femminile ovviamente legato
al diverso ruolo sociale delle donne e alle attivit di cura a cui sono tradizionalmente sono
costrette a dedicare una parte del loro tempo. In tal caso sarebbe necessaria una politica
atte a riequilibrare le responsabilit familiari fra uomini e donne e ad alleggerire le attivit
di cura attraverso la creazione di asili, dopo scuola, assistenza agli anziani. Si tratta di
politiche che hanno dato ottimi risultati nei paesi scandinavi; in tali paesi si registrano,
infatti, tassi di partecipazione alla forza lavoro molto elevati sia per le donne che per gli
uomini, differenze minime fra generi sia per quanto riguarda il tasso di partecipazione, sia
per quanto riguarda il tasso di disoccupazione e differenziali retributivi pi contenuti della

media europea. Tali politiche trovano tuttavia ostacoli di attuazione oggi nel nostro paese,
che si muove in un'ottica di tagli alla spesa pubblica.
Uno studio sull'inserimento professionale dei giovani mostra inoltre la difficolt di
accesso delle donne ai lavori a tempo indeterminato; i maschi alla ricerca della prima
occupazione risultano avere circa il 50% di probabilit pi delle femmine di trovare un
lavoro a tempo indeterminato. Viceversa negli ultimi anni un contributo significativo
all'ampliamento della base occupazionale femminile derivato dalle forme di lavoro atipico
(part-time, lavori a tempo determinato) e dal lavoro autonomo. Resta per da verificare in
quale misura l'avviamento al lavoro attraverso forme "atipiche" favorisce un inserimento
stabile e in quale misura costituisce invece un a forma di marginalizzazione delle donne
nel mercato del lavoro.
Un altro problema relativo alloccupazione femminile la cosiddetta segregazione
verticale cio la forma di discriminazione che impedisce alle donne di salire i gradini pi
alti della scala professionale, fino a raggiungere posizioni di vertice. Sia nel settore
pubblico che nelle imprese private le donne non accedono ai livelli manageriali che a loro
competerebbero per et, anzianit e qualifica. La situazione decisamente migliore per le
donne che decidono di intraprendere una carriera imprenditoriale, in cui il successo
dipende dalla capacit e non dalla selezione condotta da maschi e improntata a un
modello maschile. Si guardi ad esempio ai seguenti dati: in Italia nel 1997 le donne erano
4,8% sul totale dei dirigenti, nel 1993 le donne erano il 15% e nel 1999 il 21,2% degli
imprenditori.
Il lavoro dipendente e il lavoro autonomo.
Una peculiarit del nostro mercato del lavoro rappresentata dallelevata incidenza
del lavoro indipendente sulloccupazione totale. La quota dei lavoratori autonomi in Italia
pi elevata rispetto agli altri paesi europei, seconda solo alla Grecia. Nella UE la quota dei
lavoratori indipendenti sulloccupazione totale nel 2001 era pari al 15,7% e in Italia
raggiungeva il 27,9%. Una possibile spiegazione di questo fenomeno pu essere
individuata nella struttura dimensionale delle imprese italiane, caratterizzata da un numero
eccezionalmente elevato di piccole imprese. Infatti anche gli altri paesi europei a sviluppo
tardivo, come la Spagna, Il Portogallo e la Grecia presentano una quota di lavoratori
dipendenti superiore alla media UE. La spiegazione di questo fenomeno per Spagna,
Portogallo e Grecia dipende in larga misura dal fatto che la quota di addetti in agricoltura
relativamente alta (in Grecia raggiunge addirittura il 16% contro il 4,2 della media UE) e
che in agricoltura la percentuale degli indipendenti molto elevata. In Italia viceversa il
peso delloccupazione agricola del 5,2% (con la differenza di un solo punto percentuale
rispetto alla media UE). Peraltro nel nostro paese lalta percentuale di lavoratori
indipendenti rilevabile in tutti i settori e non solo in quelli tradizionali che sono
normalmente caratterizzati da una maggiore presenza di imprese artigiane.
Indubbiamente la presenza particolarmente elevata di piccole e micro imprese in
Italia ha un ruolo determinante nella spiegazione della elevata quota di indipendenti, ma
necessario anche tenere conto che il dato italiano viziato dalla presenza di un numero
crescente di collaboratori coordinati e continuativi che, come vedremo nel prossimo
paragrafo, formalmente sono considerati lavoratori indipendenti, ma che in molti casi
mascherano forme di lavoro dipendente .

Il lavoro atipico
Negli ultimi anni si verificata una accentuata tendenza alla flessibilizzazione dei
rapporti di lavoro. Sono nate nuove forme contrattuali che hanno consentito un crescente
utilizzo del lavoro a tempo determinato e diverse variet di tipologie di orario. Il lavoro
atipico comprende le forme contrattuali diverse dal contratto di lavoro dipendente a tempo
pieno e indeterminato e dalle forme tradizionali di lavoro autonomo. Si tratta di una
categoria residuale ed eterogenea che include varie tipologie contrattuali, quali i lavori a
tempo determinato, il lavoro parasubordinato, che occupa una posizione intermedia fra
loccupazione alle dipendenze e il lavoro autonomo, il part-time, il telelavoro. Le varie
forme di lavoro atipico presentano aspetti e problematiche differenti e soddisfano esigenze
diverse di flessibilit.
Nel nostro paese esistono numerose forme di contratti a tempo determinato. Fra
queste possiamo ricordare: lavoro interinale, contratti di formazione e lavoro,
apprendistato, i lavori socialmente utili. I contratti a tempo determinato sono
rapidamente cresciuti (vedi tabella 4.1), passando dal 6,8% delloccupazione
dipendente nel 1994 al 9,8% del 2001 e interessano circa un milione e mezzo di
lavoratori; circa il 60% dei nuovi posti di lavoro creati dal 1994 a oggi sono a tempo
determinato.
Anche il part-time coinvolge un numero sempre pi elevato di lavoratori,
attualmente copre circa il 9% dei dipendenti (circa 1.400.000 lavoratori). Al netto delle
sovrapposizioni oltre il 15% dei contratti di lavoro dipendente sono atipici e interessano
circa due milioni e mezzo di lavoratori.
Contemporaneamente in crescita il lavoro dei collaboratori coordinati e
continuativi che, pur collocandosi formalmente come lavoro autonomo spesso
nasconde situazioni di lavoro dipendente, senza per le garanzie normalmente offerte
al lavoratore dipendente (ad esempio la retribuzione in caso di assenza per malattia). I
collaboratori sono legati da un contratto con unazienda senza esclusivit (ma nella
maggior parte dei casi il legame con una sola azienda). Nel 2001 circa 1.600.000
lavoratori erano collaboratori che operavano con un solo committente, il che sembra
indicare che si trattasse per lo pi di falsi autonomi.
Si pu stimare che, tenendo conto anche dei collaboratori coordinati e
continuativi, il 18-20% degli occupati, cio quasi 4 milioni di lavoratori, sia coinvolta in
forme di lavoro atipico.

Tabella 4.1 Loccupazione atipica - anni 1994/2001 (% sul totale degli occupati dipendenti)
Anni
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001

A termine
6,8
7.3
7,3
7,8
8,6
9,5
10,1
9,8

A tempo parziale
5,6
6,0
6,4
6,9
7,6
8,2
8,9
9,0

Fonte: elaborazione su dati ISTAT Indagine sulle Forze di lavoro, anni vari

Il lavoro nero
Lattivit sommersa consente di evadere il fisco, di non rispettare le norme
contributive e i minimi salariali, le norme relative allorario di lavoro, permette di aggirare gli
standard di sicurezza. Le imprese che operano nel sommerso possono abbassare i costi
aggirando le norme che regolano lattivit di produzione e lutilizzo del lavoro e quindi
mettono in atto pratiche di concorrenza sleale rispetto alle imprese regolari. In Italia il
fenomeno del sommerso molto diffuso e in aumento. Le nuove forme di flessibilit non
sono state in grado di contrastare lo sviluppo del lavoro sommerso, che ha continuato a
crescere per tutti gli anni novanta. Questo perch il sommerso generato non tanto
dallesigenza di comprimere il costo diretto del lavoro, che con le nuove forme di flessibilit
risultano notevolmente ridotti, ma dal desiderio di evasione fiscale contributiva, nonch
dalla volont di eludere tutta una serie di norme atte a tutelare la sicurezza dei lavoratori.
La crescita del lavoro irregolare fra i lavoratori dipendenti probabilmente imputabile
anche alla crescente presenza di stranieri nel nostro paese.
Naturalmente difficile valutare lampiezza del sommerso, per cui ci dobbiamo
accontentare di stime tuttaltro che precise. Secondo le stime effettuate dallISTAT nel
1992 le unit di lavoro irregolari erano circa 3 milioni 138 mila (con unincidenza del
13,4%, sul totale delle unit di lavoro), nel 2000 erano 3 milioni e 552 mila unit (con
unincidenza del 15,1%). La percentuale di lavoratori irregolari in crescita fra i lavoratori
dipendenti e ha raggiunto nel 2000 il 18% delloccupazione dipendente, mentre risulta
stabile (intorno all8,3%) fra gli indipendenti. Fra il 1992 e il 1998, mentre loccupazione
regolare scendeva di quasi il 5%, quella irregolare aumentava di oltre il 10%. Il tasso di
irregolarit nel 2000 risultava particolarmente elevato nel settore agricolo (32,1%), ma
anche il comparto delle costruzioni (16%) e dei servizi (commercio, riparazioni e trasporti
18,6%, intermediazione monetaria e finanziaria 13,8, altri servizi 16,2) registravano tassi di
irregolarit piuttosto alti, mentre lindustria in senso stretto non sembra utilizzare in modo
consistente il lavoro irregolare (5,7%).
Sempre lISTAT stima che a livello nazionale la percentuale di irregolari sulle unit
di lavoro complessive fosse pari al 15,1% nel 1999, concentrata soprattutto nelle regioni
meridionali (22,6% nel Mezzogiorno, 15,2% nel Centro, 11% nel Nord).

per saperne di pi
Segnaliamo qui una serie di siti internet e alcune indicazioni bibliografiche che servono per trovare
dati e informazioni sul mercato del lavoro.
-Il mercato del lavoro nel mondo:
International Labour Office (ILO) www.ilo.org
Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) www.unctad.org
Organizzazione internazionale di difesa di diritti umani contro la schiavit www.antislavery.org
United Nations Development Programme (UNDP) Human development report , pubblicato
annualmente
-Italia:
Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) www.istat.it

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