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FLAVIO TOCCAFONDI
In copertina: Flavio Toccafondi “Aborti” 2009
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Annapaola tratta a stento tre parole
Questo a sinistra.
Dimitri solitamente rientra all’una di notte, accende una delle sette luci del
salone e appende la giacca da lavoro giuridico sulla stampella che batte sul
muro di casa di Annapaola.
Da qui in avanti lo immaginiamo svolgere i seguenti delitti: schiarirsi la voce,
vedere se lei dorme, frugare, sbattendo gli stipiti, in cerca di un cracker in
cucina e snodarsi la cravatta.
Annapaola batte l’indice sul medio e sul pollice, osservando la cenere
avanzare bruciando la carta della sigaretta ormai prossima al filtro.
Dimitri è biondo da quando avevano sette anni e lei una volta in piscina, ma
erano davvero piccoli, lo ha visto nudo di schiena.
Ultimo dei sette delitti della serata (due proprio non riesce a immaginarli ma
ha una certezza, che siano sette), (sette, vero piede sinistro?) è spalancare la
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porta finestra che da sul terrazzo e stirarsi i palmi delle mani e premere la
destra contro la base della schiena (il sacro?)
1) Morale.
2) Uditivo.
Un consiglio che ti do, le dice spesso il suo piede sinistro, è quello di non
sforzarti troppo ad ascoltare con l’orecchio destro attaccato al muro e qui
potremmo aprire due parentesi quadre. La prima perché il muro è freddo e
vieni comunque distratta dalle strisciate non omogenee lasciate dal pennello
ed in particolare dalle setole attaccate al muro che provi a togliere con il
mignolo sinistro nel quale ti sei lasciata crescere (curandola) la tua unghia più
lunga.
La seconda perché, capisco l’interesse, ma lo sforzo comunque non varrà
mai un risultato accettabile per cui, sempre fossi in te, escogiterei dei
microfoni ambientali da piazzare forando il muro lì dove c’è l’impianto
dell’aerazione.
3) Emozionale.
Ci soffri.
Detto questo possiamo tornare sul balcone da Annapaola stretta nella sua
vestaglia di cotone bordeaux, una pantofola ventisei centimetri dietro il piede
sinistro ad aspettare la decisione di essere calzato o meno.
Non ora.
Inquadriamo la scena dalla strada.
Siamo a dieci metri dal palazzo, stessa altezza.
Davanti abbiamo, sulla destra, il balcone di Annapaola, mattonelle rosa antico
e un intreccio di ceramiche pitturate da lei raffiguranti tutte il sole e un
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biscotto della Gentilini immerso in una tazza di latte (bravissima in questo
soggetto).
Sulla sinistra casa di Dimitri e Isabella, ventisette anni lui, ventisei lei, di
professione tutor in un call center a sette fermate da lì se prendi il ventinove
barrato e ti segni la strada su un pezzo di carta. Una biciclettina rosa ha
rubato lo spazio ad un vaso di gerbere che negli ultimi mesi non erano
comunque un granché.
È una biciclettina rosa con le rotelle ed è lì da sei giorni e Annapaola,
Annapaola ogni tanto si domanda
Frenesia
Dimitri
Distante.
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Caro Pierpaolo: chiarimenti scopo matrimonio fra
Cionfarmoni Maria Luisa e Pierpaolo Trubia.
Caro Pierpaolo, spero tu abbia letto gli auguri per il nostro 11° anniversario di
fidanzamento (20.1.91 - 20.1.02) che ti ho inviato domenica oltre agli altri 10
che ti ho inviato ogni anno per dieci anni per telefono o per citofono già
dall’inizio dell’anno del tuo fidanzamento fra te e me. Spero sia l’ultima volta
che te li faccio per telefono o lettera o citofono dopo il tuo matrimonio solo
con me. Come ti ho scritto negli ultimi anni, tu devi infatti sposare solo me
(19-3-97) TE L’HO SCRITTO anche nella poesia a te dedicata, “La cacca
umana”, oltre che nelle migliaia di lettere perché con le troie sei il pollo da
spompinare, questo è risaputo, purtroppo.
Voltiamo pagina. Perché se ci penso soffro atrocemente. E non è giusto che
ti fai spompare da quella TROIA TUA CONVIVENTE! LASCIALA! PERCHE’
TU SEI GIA’ FIDANZATO CON ME DA BEN 11 ANNI. La tua convivente è
solo un capriccio e non c’entra niente fra me e te che siamo i veri fidanzati.
Perché non mi hai telefonato il giorno del nostro 11° anniversario, il 20-2-
2002, domenica? Io ti ho anche dedicato una mia esclusiva opera scritta
sabato 19-01-02 dicendoti per l’ennesima volta Pierpaolo io ti amo e
supplicandoti di telefonarmi. Potevi almeno concedermi questo onore visto
che ti fai spompare, ingiustamente, dalla troiona che ti detiene con
l’aggravante che mi devi sposare e che quindi sono io, e non la troiana, la tua
vera fidanzata.
Io, siccome sono molto buona, faccio grandissimi favori alla troiona che ti
spompa ma ho sopportato anche troppo ORA BASTA, NON VOGLIO PIU’
CHE TI SCOPI E CHE TI SPOMPI. BASTA! TU SEI IL MIO FIDANZATO E
NON IL SUO! Tu non devi scopare la troiana ma sposare me (la santa): ti
entra in testa? In quella testaccia dura piena di merda?
Io non so dirti con la dovuta cattiveria e forza, perché io, al contrario della
troiona, non sono cattiva e furba ma io sono buonissima e debole e non so
dirti con la dovuta forza quanto sia forte la tua Immensa Cattiveria verso di
me. Io ci sono rimasta molto male che tu non mi hai telefonato il 20-01-02
domenica. Sono stata in Chiesa a pregare affinché tu possa sposare solo me
e nessun altra.
Caro Pierpaolo, l’anno solare inizia a Gennaio di ogni anno e tutti lo sanno
ma forse tu fai finta di non saperlo che ormai più di 11 anni fa la luce di un
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inverno che ci appartiene illuminò la nostra esistenza facendoci incontrare e
innamorare tanto che tu il 20-01-91 mi hai fatto una corte spietata fino ad
arrivare la sera stessa a farmi la tua dichiarazione di fidanzamento dicendomi
Maria Luisa vuoi essere la mia fidanzata? e io freddamente rispondevo Sì. Ti
ricordi? io sì, insieme ad altri particolari precisi con la mia estrema precisione
descritti per ogni anno del nostro fidanzamento ancora in corso e che deve
completarsi con il tuo matrimonio solo con me.
È inutile che cerchi di consolarmi con modi di fare falsi e cortesi perché sono
modi di fare piemontesi, quale tu credi di essere, ma tu non sei piemontese,
l’ho già chiarito in altre lettere, tu sei un disonesto e basta ed è inutile che vi
sforziate a sembrare piemontesi, tu e la tua famiglia! Voi non avete nulla di
torinesi pertanto non siete falsi e cortesi ma siete imbroglioni falsi e disonesti,
assassini per il male che mi state facendo. Io non voglio più questo
cattivissimo comportamento da parte vostra, è chiaro? Io voglio un
comportamento verso di me come sono io, donna innamorata di Pierpaolo.
Voglio che anche voi vi innamoriate di me. Chiaro? Non accetto più minacce
o aggressioni materiali. Perciò convincete Pierpaolo a non sposare la troiona
sua convivente ma a sposare solo me.
Vi prego.
Tu, Pierpaolo, ti devi fare un bel esame di coscienza. Sei certo di voler
continuare a farti spompare il cazzo da quella troiona? Se, come spero, non è
così, telefonami e continua a corteggiarmi come quando ti sei fidanzato con
me (20-01-02) o anche se è così, ricordati che mi devi comunque sposare
perché c’ero prima io.
Io, per causa tua e di tua madre che dite che sono una puttana (cosa
falsissima ma verissima per la troiona tua) ho avuto forti traumi. Io, mentre tu
ti fai quella, io mi sto addolorando per te. Tu hai un impegno matrimoniale
con me e non devi tradirlo sfuggendo alle tue emozioni quando leggi le mie
lettere, non frenarti a telefonarmi, devi farlo, la coscienza te lo impone, hai
preso una strada tutt’altro che positiva, Pierpaolo.
La devi lasciare.
Ti scrivo perché ti amo, ti scrivo perché ti voglio sposare, solo questo.
Telefonami e parliamone.
Ti aspetto. Telefonami.
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IL ROSSO E IL NERO
Finestra
ruggine
grata
fiori al balcone
traffico bloccato
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cose.
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Eccolo Binbo, appena sveglio, che lieve infila le pantofole rosa ereditate
dalla cameriera polacca licenziata tre mesi prima solo per la disattenzione
di essersi dimenticata una platessa fresca al supermercato.
Eccolo, mentre si scrolla dalle spalle la vestaglia di seta, dote anch’essa
dell’estera, e raggiunge la piccola cucina della dépendance.
Quando indossa i pantaloni da giardiniere, sono appena scoccate le sette
e ventitrè.
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La valigia la prepara con dovuta perizia (si parla di massima cura nella
scelta di calzini cravatte collo della camicia in perfette condizioni).
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9.12
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La conferma scritta la riceve via fax (la possiamo notare, carta intestata
che scivola via dal comodino. C’è un marchio d’albergo che dice stella
stellina stelletta).
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10.42
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Starnutisce.
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Geneticamente parlando Binbo non certo bello Binbo non certo b (lo
salva il bon ton. Ha bon ton da vendere. I modi, capite? Uno può anche
versarti il caffè nella tazzina ma solo Binbo riesce a non far, di goccia
versata, riflusso.
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12.03
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Perché gli altri avevano barba e le basette lunghe e lui era liscio?
Perché gli altri facevano tardi, la mattina, per la rasatura e lui arrivava
sempre presto e non c’era mai un cazzo di nessuno?
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13.00
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14.24
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Nero, insomma.
Un bel nero.
Quando gli era spuntato il primo pelo, verso i diciannove anni, si era
sentito improvvisamente virile. Il primo filippino col pizzetto. Ti rendi
conto?
Per questo ed altri mille motivi non avrebbe accettato per nessuno motivo
al mondo di tagliarlo. Lui era il primo filippino col pizzetto.
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15.00
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15.30
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16.00
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Imbarco tutto ok.
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15.35
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Era questo il motivo per cui non sopportava che il filippino sfoggiasse
quel pizzetto nero. Era stato questo il motivo scatenante del suo ordine,
impartito senza troppa grazia, di tagliarselo senza discutere.
Era nero contro rosso. Non poteva sopportarlo.
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16.40
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Decollo perfetto.
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Partito, il malesetto.
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19.48
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“Bene, Signore”.
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“Diciannove e trenta, ventidue e trenta”.
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19.53
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Binbo, seduto sul puff, perso poi tornato ora dicevamo seduto. Sul puff.
Ride.
Ride e si liscia il pizzetto.
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19.58
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20.12
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Una delle due sveglie suona. Mi alzo, la spengo e mi dirigo verso la seconda,
schiaccio tutto quel che c’è da schiacciare e mesto verso il cesso mi
incammino, non prima di aver scavalcato un fustino di detersivo.
Dalla tazza, assonnato, recupero allungandomi il fustino e comincio a leggere
tutto quel che concerne la distribuzione del prodotto, la commercializzazione,
la potabilità dell’acqua dello stabilimento e sulla raccolta punti per i fantastici
premi.
Ansuini mi citofona alle 6. Indossa un cappello curioso e ha la valigia da fine
settimana.
“Attendez moi”, gli dico e apro il portone così il giannizzero sale, si
accomoda, accende la televisione e comincia a fare zapping tra il tg5 e Uno
mattina.
Qui a casa nuova non ho ancora portato tutte le mie cose. Mi potrei definire
essenziale in materia di idee di arredamento. Quando, qualche mese fa,
comunicai a Sandro di averla comprata, dicendogli la cifra, lui disse
“Cazzo, Fla’, non puoi spendere tutti ‘sti soldi”.
“Mm?”
“L’altra volta hai comprato quel orologio, ti ho detto non puoi pagare tutti ‘sti
soldi per un orologio…”
“No, guarda, sbagli. Ho fatto un affare. Tanto poi lo rivendo”
“Lo vedi?”
“Che?”
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Qui a casa nuova coabito con un ombrello verde, con i racconti di Rossella
Valentino sparsi per terra e con una bellissima pianta di salvia da annaffiare,
pare poco, per vederla crescere tanto. È un buon inizio.
All’aeroporto non ci aspetta nessuno, per il semplice motivo che non abbiamo
appuntamento con nessuno.
“Lulù?”
Il problema, ovvero quel che in un viaggio non dovrebbe mai accadere a chi
detesta volare o, in un ordine più esteso, a chi non ama gli aeroporti o, in un
contesto ancor più esagerato, a chi odia la gente, dicevo il problema che mi
fa sussultare si presenta quando Sandro tira fuori i biglietti.
Due ridotti Infant.
“Sandro, cazzo…”
“Ti sto facendo risparmiare 1000 euro. Un biglietto non è un orologio. Non lo
puoi rivendere.”
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La fila è abbastanza lunga. Avanziamo come formiche. Distrarre.
L’importante è distrarre. La parola d’ordine è distrarre. Bella parola, distrarre.
Ok.
Tocca a noi.
Porgo il biglietto alla signorina giapponese, le dico buongiorno, mi dice
buongiorno e se lo avvicina agli occhi e ora porca miseria, ora ci becca e
facciamo una figura di merda ma tu guarda cosa mi, invece Sandro entra in
scena da consumato attore, le infila il cappello paglierino (fin lì inutile) sulla di
lei testa e la ragazza vestita di verde ci sorride e si distrae mentre io, ottima
spalla, lesto tiro fuori dalla tasca la macchina fotografica e scatto una, due,
tredici foto per accecarla e difatti l’acceco e le avrei anche tastato il culo se
solo fosse stata bella per come idealizzo ogni volta le donne, io.
Poi.
È un cielo strano.
Come se.
Questo cielo.
Poi.
Dormo.
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O meglio.
Dormiamo.
Poi.
Arriviamo.
A Tokyo.
Dotto in culo, comunico i miei saperi al Cavalier Condorelli che sta al mio
fianco.
Ma Sandro è strano.
Mi parla di sughi e origami. Credo abbia letto qualcosa in aereo sui sughi e
ora, non so perché, li associa agli origami insomma non lo so, parla e non lo
capisco. Inoltre, da quando siamo scesi, non fa che pedinare una ragazza
giapponese con i calzini giapponesi e le scarpe strane, giapponesi, fatte di
legno e immagino terribilmente scomode, che lo attraggono.
Gli stessi calzini li avevamo visti già una volta a Roma, tra le altre cose alla
serata di Lds quando ci presentammo ubriachi e Cassan non volle bere con
noi e ci disse andate via.
“Sandro, ma tu sai come mai tutti quelli che fanno un sito di scrittura finiscono
per enne?”
“…..?”
“Cassan, Pighin…”
“……”
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Sul Corriere dello Sport acquistato all’edicola internazionale, il giovine Holden
mi si concentra sulla vecchia classifica, riproposta, del campionato dilettanti,
girone A, squadra in questione il Pizzighettone.
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Il più divertente è quando io, Sandro e il Micio giocavamo a pallone in classe,
il Micio in porta (un arco in fondo alla classe) e a un certo punto la
Professoressa di Diritto ci disse, impaurita, “Ansuini e Toccafondi, giocate
pure a pallone ma non colpitemi”.
53 minuti.
2940 yen.
Compriamo subito un carnet one day pass per Toei Subways, autobus e per
il Toei Tram. In tutto 700 yen per ognuno dei sette giorni. Sandro, da Gran
Signore, anticipa.
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Comunque la tizia ci dice kumbawa, Sandro risponde kumbawa, l’ha
imparato, prepaghiamo tutto e possiamo salire. La tizia ci fulmina con lo
sguardo appena si accorge che abbiamo ancora le scarpe.
Le camere sono solitamente delle singole con un tatami. Nelle nostre c’è
anche una postazione internet, segno del tempo che avanza. Gli shoji, le
porte scorrevoli, sono costituiti da un telaio a grata rivestito di carta di riso che
filtra la luce. C’è quasi sempre un tavolo al centro della camera con il disegno
di un fiore. Alcuni fusuma, i pannelli di legno rivestiti in carta, insieme ai
byobu, (paraventi) dividono lo spazio della stanza arredata (proprio come
casa mia, proprio come casa mia) con pochi elementi essenziali. La sera il
tavolo viene rimosso per lasciare spazio al letto, il futon, riposto nell’armadio.
Gli accessori che completano il letto sono il kakebuton, una pesante coperta,
e un guanciale imbottito di paglia di riso, detto makura.
“Andiamo”.
Licia dice va bene. Sandro mi copia gli accenti con le labbra. Il corso rapido
che gli ho fatto in aereo comincia a produrre i primi effetti. E dopo aver
assistito o perlomeno, dopo aver creduto di assistere alla scena di un
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cameriere che con la lisca del pesce spinato si porta dietro alla sedia della
signora seduta con il marito e con la lisca, fate attenzione, con la lisca prende
a solleticarle la schiena fino a farla venire, di brutto, in un orgasmo a strilli
multipli, dopo esserci divertiti all’idea di questa scena inventata ci vediamo
arrivare, nell’ordine, quanto segue:
Sukiyaki
Tempura di pesce
Sushi
Sashimi
Kaiseki ryori
Yakitori
Tonkatsu
Shabu-shabu
Soba
Infine Udon.
Alla fine Licia ci porta il conto. Sandro le chiede di uscire. Lei dice no. Grazie.
Non posso. Non mi piaci. Preferisco il tuo amico. Ma io ho sonno e domattina
devo incontrare Sasaki alle 9.
“Io vado a letto, Sa’. Nun je la posso fa’. Ci vediamo domani a pranzo.
Aspettami al ryokan. Cia’ .”
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Ho un paio di scarpe scamosciate, comode, con la punta rivolta all’insù.
Ho avuto un’infanzia difficile, un destro niente male e fondamentalmente sono
malato per le donne.
Yoooko, onoooooo?
Col punto interrogativo pare che capisce, tiene le mani giunte e mi fa degli
inchini. Fa cenno di seguirla. Ci sono porte di riso soffiato ovunque, corridoi,
cunicoli. Hanno la seduzione del labirinto i cinesi. O Giapponesi. È uguale.
Ho sempre avuto voglia di andare con una ragazza orientale, forse perché
sono pallide.
Adoro le ragazze pallide, ci divento matto. Fatemi vedere una pancia e io
muoio. Datemi una pancia giapponese, ci faccio sopra un sugo di origami.
Alla fine mi porta in una stanza con la luce rosa e mi fa sdraiare su una
specie di stuoia. Poi si spoglia. Le chiedo di farmi vedere le ascelle. Lei alza
le braccia.
Profuma di bianco. Il bianco profuma come le giapponesi. E dunque, che
volete sapere, i particolari? Ce l’ ho piccolo e vengo presto.
Tsè.
Quando esco è notte fonda e mi dico da solo jane fonda che si fionda su di
un’onda e sbotto a ridere sotto la luna gialla di Tokyo. Le luci si perdono
come nel film tron. Lo avete visto il film tron? Luci che si perdono, vene
elettriche, lisce. Questa è Tokyo. Io ho bevuto del saké. Forse un pelo di
troppo. Ho nutrito la giapponesina come un uccellino, ci siamo fatti prendere
la mano.
E Tokyo non si spegne mai.
Gente.
Movimento.
Luci che guizzano come scintille. Lisce. Ci vorrebbe una parentesi, mi dico.
(lungo i filari di neon che tentano di venderti qualcosa) è che vivo tra le
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parentesi delle poesie, io, e ho un gusto orrendo per le camice e i vestiti in
generale. Come Flavio più o meno. Lui però ha le cose con le maniche più
lunghe. Mi confondo.
Aveva paura del popolo dei lavoratori, il Fifì. Lui è uno con la pelle delicata e
odia gli ascensori. E ha tutto il diritto di confondersi sulla parola fabbrica.
Questo facciamo, nella vita, in definitiva; ci confondiamo. E io devo trovare il
ryokan.
Diocan.
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Alle 9 in punto mi trovo ad Asakusabashi.
“Yoo ni huusya”
“Hanasu bizinesu”
“Takusan bizinesu….”
“Ah ah ah!!”
“Eheheheheh….”
“Kooka subarasii”
“Kyoomibukai.“
“Tyokin !“
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“Subete no yoozi!”
“Kureru go!!!”
“Wasureru. Kesyoo matuge ya naru denkiya…”
“Mm?”
Esco dunque incazzato. Ho ancora buona parte della mattinata libera. Sandro
si sveglia tardi, in genere. Addiziono la piccola guida alle mie nozioni e ai
ricordi di Tokyo e decido di andarmi a fare un giretto a Shibuya e Harjuku, i
due quartieri alla moda. Uno spettacolo.
Nonostante l’ora, le strade sono affollate da ragazze e ragazzi colorati e
inquieti che ostentano varietà di stili. Sembrano pesci che cambiano pelle. Di
certo, e la cosa mi è capitata più volte, a Tokyo ho sempre visto cose che
l’anno successivo ho ritrovato a Londra e poi a Roma.
Per esempio ora indossano indumenti diversi tra loro e si inventano un trucco
infantile, con capelli, però, artificiali. L’impatto è devastante. Staresti ad
osservarli le ore. Leggono Yoshimoto Nara, un grande. Sentite che testo.
“Dalla torre di controllo espansa dal mio lobo frontale/i miei pensieri corrono
verso la vastità selvaggia/dove una luna di wafer si scioglie dolcemente./
Dentro la nebbia biancolatte un cane ruota su se stesso. /Volando su un
aereo sul pontile del mio cuore/una linea di trasfusione vola via/dirigendosi
contro il cane./ Se il passato diviene presente/allora il frammento
dell’implosione che ora è il cane/sono anch’io/sei anche tu.”
Qui in Giappone ci sono i murati vivi, ragazzi e ragazze ventenni che vivono
coi genitori, ignorandoli. Stanno semplicemente chiusi in camera, minuscole e
claustrofobiche. Escono di notte per comprarsi qualcosa da mangiare o per
noleggiare un video, prima di rinchiudersi.
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Sono le ragazze a fare moda, qui. E i maschi le imitano. Così leggono i
fumetti femminili, tipo Shojo Manga, si vestono come le loro sorelle. È
interessante quel fumetto. Shojo, la ragazzina, è contrapposta al padre,
impiegato modello.
In Giappone l’unica espressione che usano i ragazzi “diversi” è kawai, carino,
cute, mignon. Niente e nessuno, per loro, è più che kawai.
Bene. Abbiamo fatto le undici e venti. Prendo la metro e torno al nostro
Ryokan.
La nostra jochu-san mi saluta gentile. Contraccambio. Non ha tette,
confermo. Manco una prima. Mi sa che è l’unico caso di retromarcia.
Busso alla porta di Sandro.
“Fifi?”
“Si va”
“Andiamo al centro commerciale. Al Bit Valley”
“Si va”.
“Dai, smettila. Andiamo”
“Si va”.
Si veste, si lava, saliamo sulla metro. Sì.
Si va.
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26 MARZO 1827
Profonda landa
e quel che passa è solo un’interminabile sferzata di colori che ti bruciano
negli occhi.
Per la prima volta non trovo le parole, dicono le parole siano l’anima della
voce, io non lo so, deglutisco, ecco tutto.
Qui ognuno sembra abbia qualcosa da dire, parlano tutti, ridono tutti, urlano
tutti. Ognuno ha una sua teoria
e io i soldi per l’affitto proprio non li ho ma qualche buona poesia sì e forse
potrei barattare questi soldi per le mie parole ma non credo gli potrebbe
garbare, non lo credo proprio.
Lo sa che ci sono, sa che sono in casa, il Signore e mi bussa, si appiccica col
fiato alla porta e bussa bussa bussa dice Luca lo so che è in casa apra per
dio, ha due mesi di arretrati quanto è vero dio stavolta la sbatto fuori se non
paga.
Io lo ascolto con il cuore in gola, quei soldi proprio non li ho ma lui il Signore
bussa, dice Luca le do ancora due giorni tanto lo so che è lì che mi ascolta,
ha quarantotto ore di tempo maledizione, io la rovino, sia maledetto il giorno
in cui le ho affittato sta casa.
Se ne va, lui il Signore, perché io sento i passi pesanti e le bestemmie e
sento anche che gira nell’altro corridoio e che inizia a fischiettare poi smette
perché è troppo arrabbiato, me ne accorgo perché sbatte i pugni contro il
muro e io lo so che erano per me, io lo so e mi rannicchio e dico Luca devi
stare tranquillo
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e dice la Dottoressa che io devo scrivere tutti i sogni che faccio ma ho
sempre paura perché mi uccidono tutti e stanotte attraversavo una piazzetta
ed ero a piedi e davanti mi si sono messi due tipi grossi e uno ha preso il
coltello e mi ha tagliato la manica del giubbotto e poi non me lo ricordo più
ma non l’ho scritto perché mi fa ancora paura e la Dottoressa ha detto che
dobbiamo riuscire a focalizzare le mie angosce.
Io la Dottoressa credo abbia ragione, è l’unica persona al mondo che mi
vuole bene e non mi chiede i soldi per l’affitto come lui il Signore, lei vorrebbe
le mie poesie ma non le ho pubblicate, fa’ niente, mi bastano le bozze e mi ha
sorriso, io credo un pochino anche di piacerle.
La sua stanza è bella, bella davvero, vorrei tanto che la mia casa fosse bella
come quella stanza, forse un giorno le chiedo se mi regala per piacere quel
quadro azzurro che non sai mai se la barca è affondata o se è invece il cielo
ad essere cresciuto, io mica l’ho capito, lei dice Luca cosa le sembra quel
quadro, che sensazioni le da? ma io non lo so, non lo so proprio e allora dico
Dottoressa sono molto stanco, mi posso stendere e lei annuisce e poi scrive
che non so mai cosa vuol dire quel quadro.
La mia, di stanza, tutte quelle cose non le ha; lui il Signore, quando me l’ha
fatta vedere ha detto che ormai al giorno d’oggi bisogna ricavare spazio un
po’ dovunque e il modo migliore è eliminare il superfluo e io gli ho detto ma i
vestiti dove li appoggio e lui il Signore è tornato da casa sua con una sedia
ha detto qui, così quello è il mio armadio e anche la mia scarpiera e anche la
mia scrivania e anche il tavolo da pranzo anche se ora mangio sul davanzale
della finestra e la sedia me la porto dietro e la uso come sedia e il televisore
l’ho messo per terra vicino allo stereo.
Lui il Signore dice che a Roma bisogna prendere quello che c’è che gli
appartamenti non si trovano, su questo ha ragione, quello dove stavo prima
era piccolo e volevano unmilione ma allora ce l’avevo unmilione, stavo
ancora bene e lavoravo per il Comune che lavoravo tanto sì ma poi i soldi ce
li avevo per pagare casa e mangiare e comprarmi i vestiti nuovi.
Io me lo ricordo quando stavo bene. Dice la Dottoressa che tra un po’ starò
bene di nuovo bisogna solo capire cosa è successo ma io credo che non
glielo dico cosa è successo perché tanto non ci crede, lei dice che devo
raccontarle tutto ma io dico che poi non ci crede.
Lui il Signore non gliene frega niente di cosa mi è successo, lui il Signore sa
cosa mi succederà se non gli porto i soldi così mi frugo le tasche, frugo un
pochino ma non li trovo tutti quei soldi, Luca se ne dispiace ma lui il Signore
dovrà aspettare ancora un po’.
E
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E
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e
e
e io lo so che devo sbrigarmi a trovare quei soldi che lui il Signore ha perso la
pazienza però ora assaggio questa fragole perché il signore del carretto della
frutta è simpatico e dice Luca come ti va oggi? dico bene Antonio e a te, e lui
mi regala sempre qualcosa e la frutta ce l’ho in casa che è anche troppa.
Eppoi devo trovare quei soldi ma a lui Antonio non glieli chiedo forse chiedo
a lui il Signore se mi da altri giorni ma lo so che ho paura di dirgli se mi da
altri giorni e allora credo che è tutto un grosso buco nell’acqua e che sono
stanco di cercare quello che non riesco ad avere e che loro mi chiedono lo
stesso e poi mi sento la testa pesante, pesante che non la posso spazzolare.
E ora devo camminare, camminare ché una strada sono cento innamorati
che non hanno bisogno di me ma fa lo stesso lo giuro, devo solo camminare
e lo posso fare da solo, giuro, e un marocchino al semaforo mi chiede se
voglio tre pacchetti di fazzoletti diecimila amico ma io non sono raffreddato e
vado avanti perché è verde per i pedoni e alzo la testa che ci sono tanti
uccelli in cielo che volano belli tutti uniti fanno un disegno che però cambia
subito e sono tanti forse mille e penso che dovrei tornare a casa perché è
magnifico quello che ho visto e voglio scrivere tutto ma poi già lo so che lei la
Dottoressa mi chiede cosa significano quegli uccelli e io dovrei mentirle e
comunque ora non mi sento affatto bene e a casa ci torno comunque basta
che non incrocio lui il Signore perché proprio non ce li ho.
E
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e
e
e
e
e
e
e io me lo ricordo quando ero felice mica tanto tempo fa, io dico che forse
dovrei parlare di più con la Dottoressa ma poi lei mi dice se mi mancano quei
tempi e io non lo so, forse sì ma mica lo so perché sì che lavoravo al Comune
però già mi faceva male la testa però unmilione ce l’avevo e ci pagavo tutto.
Io mica lo so se ero felice forse sì ma mica lo so. Forse sì. Ero felice.
Io lo so che la Dottoressa me le chiede queste cose perché mi vuole bene e
dice Luca ti manca la tua famiglia ma non lo so Dottoressa, non li vedo mai,
mamma si è risposata e suo marito mica gli credo così non ci vado mai e poi
loro ora stanno lontani che mica lo so se mi va di andarci fino a laggiù perché
lei è diversa da quando papà è morto e dice Luca se hai voglia di venire vieni
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pure sennò fa’ come ti pare (quel uomo l’ha proprio cambiata) e io ora la
chiamo Luisa e non più mamma perché forse non lo è più.
Eppoi lei la Dottoressa dice parlami del rapporto col marito di tua madre ma a
me proprio non mi va perché non c’entra niente con quello che mi è successo
ma lei crede di sì e io un po’ gliene parlo ma poi sto sulle mie e guardo quel
quadro e lo so che mentre lo fisso lei intanto scrive ma io lo faccio apposta
perché poi la sbircio con la coda dell’occhio perché è veramente bella.
E poi io dico che mi vuole bene.
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e lui il Signore ha detto che non gliene frega più niente, posso trovare anche
centomilioni ma tanto domani mi caccia via e io gli ho detto ce per quanto mi
riguardava nella vita avrebbe dovuto fare l’ottico e lui mi ha chiesto perché
mai ma io già me ne ero andato dentro ad aspettare domani che tanto un
altro posto lo trovo lo stesso.
Io mi sa che non ho più voglia di scrivere poesie ma ormai lei la Dottoressa
me le chiede sempre così le scrivo giusto per lei perché a me non me ne
frega niente ma lei dice che spiegano tante cose così per me fa lo stesso e
un giorno mi ha chiesto se avessi mai scritto romanzi ma io dico di no, non
me lo ricordo, no, credo di no, forse vuole che comincio.
E quei soldi proprio non ce li ho però lei la Dottoressa ha detto che devo
prendere queste altre medicine che mi fanno bene e io ho letto nel foglietto
illustrativo che gli effetti collaterali sono sonnolenza, vertigini e senso di testa
vuota, annebbiamento della vista, cefalea, depressione, insonnia, ansia,
tremore, disturbi della memoria e della coordinazione, affaticamento, difficoltà
del linguaggio e dico che ce li ho quasi tutti anche se quella medicina mi fa
stare bene non come quando prendevo un milione ma bene lo stesso.
Io credo che non ne posso fare a meno di quella medicina, non finché lui il
Signore ma non importa, tanto domani me ne vado e non lo vedo più.
Io lo so che lui il Signore non è cattivo che vuole solo i soldi ma io
Io Luca sto bene solo quando metto le mani nell’acqua al mare che mi sporgo
dalla barca e le guardo , le mani, e ci resterei tutta la vita a vedere la scia che
lasciano le mie dita, mano a mano che la barca mi porta via, io ci passerei
tutti i giorni lì nell’acqua perché nessuno mi cerca e poi posso guardare le
mie manie anche sotto dove non si vede niente ma a me piace pensare che
ci sono i pesci e le alghe lo sono che ci sono perché vengono a galla ogni
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tanto e io le appoggio dall’altra parte del pattino e le riporto a riva dove
Sandro il bagnino dice Luca non devi andare oltre le boe ma poi lo sa che
tanto ci vado lo stesso e allora lo aiuto a rimettere a posto la mia Crociera
rossa Numero 7 e lui i soldi non li vuole mai perché dice tanto a Novembre
non c’è la fila e io gli dico grazie Sandro e lui ciao Luca, torna quando ti va.
Io lo so che lui Sandro pensa che non sto bene perché mi conosceva anche
quando lavoravo per il Comune e andavo lì per pulire la spiaggia quella vicina
che è sempre aperta perché non ci sono i cancelli e io lo andavo a trovare
sempre al bar del suo stabilimento e parlavamo e dicevamo che il mare oggi
era pulito che poi magari non era vero però almeno parlavamo.
Io lo so che lui Sandro mi da la barca perché pensa magari mi fa bene e io
spero sia vero e quando ritorno lui mi dice com’era il mare oggi e io gli dico
pulito! così mi sembrano i vecchi tempi e lui sì che fa un bel lavoro che
magari guadagna poco ma almeno ha tutto il mare che può andarci quando
vuole e nessuno gli dice niente non come me che poi la Dottoressa mi chiede
a cosa mi fa pensare il mare che io proprio non lo so, è come se avessi già
pensato a tutto quando vedo il mare e allora devo solo riposare e guardare le
mie mani nell’acqua che ci starei tutta la vita e ogni tanto canticchio una
canzone che non è musica vera di quella che senti alla radio, è proprio il
mare che mi fa cantare, lui dirige e io, io sono solo uno strumento accordato,
uno dei tanti suoi, mi piacerebbe essere un violino e magari la mia Crociera
rossa Numero 7 potrebbe essere un controfagotto.
Io dico che quando canticchio sulla barca sono meglio di Chopin ma forse
anche lui era solo uno strumento accordato dal mare. Io dico che quando ti
viene da canticchiare è meglio se non c’è nessuno ché magari ti sentono e ti
dicono che sei bravo e io ho paura perché lo so che Mozart è morto
nell’indifferenza più completa e che l’hanno sepolto in una fossa comune, io
lo so che il genio muore da solo perché gli altri sono solo tanti piccoli
ombrellini bucati che fanno la fila.
Io dico che quelle trentamila persone che poi seppellirono Beethoven non
dovevano andarci per rispetto a Mozart, alla morte e alla musica ma forse
anche il rispetto è un suppellettile arrugginito.
E
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Profonda landa,
lo so che prima o poi mi sentirò meglio. Lei la Dottoressa dice Luca sarà un
lavoro molto lungo ma con pazienza e buona volontà vedrai che ci arriveremo
e io dico che non serve a niente ma lei dice di sì, io le dico Dottoressa io mi
sa che non scrivo più e lei la Dottoressa mi guarda sempre in quel modo che
a me esplode il cuore e dice Luca non sei obbligato ma mi sa che lei già mi
vuole meno bene e a me fa male saperlo e le dico che tanto l’ho capito che
come uno si muove ci rimane male e lei dice vai avanti, spiegami, ma io sono
stufo e noncelafacciopiù e allora le dico mi sento molto stanco per favore
posso guardare il quadro e lei mi dice di sì.
Profonda landa,
io mi sa che a casa non ci torno neanche, anzi ci torno e mi porto via la sedia
così lui il Signore ci resta male e non fischia più per il corridoio e magari
casca dalle scale che non si dovrebbe augurare però se casca che ci posso
fare e così nell’altra casa che ora mi trovo ho già una sedia che è un buon
inizio, io dico di sì, e allora tutti quei soldi al Signore non glieli do più, mi sa, e
poi la Dottoressa ha detto che i soldi ora me li daranno loro non so perché ma
melidevonodare ma ha detto che me li devono dare e allora con quei soldi
magari ci sto bene non come quando avevo unmilione ma fa niente perché
tanto la casa la devo ancora cercare che spero costi meno di settecento mila
lire sennò mica gliele posso dare ma la Dottoressa dice che forse sì, però
bisogna aspettare un po’ ma lei dice che la pratica è avviata e ci pensa uno
che lei conosce e allora Luca deve aspettare un poco, forse un mese che poi
i soldi glieli daranno e io dico grazie Dottoressa e lei che forse non mi vuole
più bene dice non devi ringraziarmi, questa si chiama assistenza sociale che
io non lo so cosa vuol dire ma se mi danno i soldi io firmo e sto in pace,
almeno un po’.
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e io dico che lei la Dottoressa sbaglia quando dice che devo parlare con mia
madre e io dico che non ho più neanche il suo numero di telefono e poi ormai
sono tanti anni che non la vedo che non so più che faccia ha ma io me lo
ricordo che quando stavo bene ho detto che non la volevo più vedere e allora
mi sa che pure adesso la penso così.
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e io non glielo posso dire a lei la Dottoressa perché poi lo so che non mi
crede
ma io davvero ho visto la gente danzare e ho sentito suonare Beethoven il 26
marzo 1827 e dopo aver finito tutte le note mi si è avvicinato mi ha dettolo sai
che è stato il miglior concerto della mia vita e io ho detto lo so e poi me ne
sono andato via e ho visto tanta gente arrivare con la faccia scura, in silenzio
e a me che procedevo in senso contrario mi avvisavano mano a mano guardi
che il funerale è laggiù e io rispondevo non fa niente, stavolta la musica è
finita davvero e migliaia di persone continuavano ad arrivare da ogni
direzione mentre io me ne andavo via verso un punto solo e mi fissavano,
ingessati nei loro completi neri mentre io al contrario iniziai a sbottonarmi la
camicia e dopo l’ultimo bottone tolto, ormai a petto nudo, me la misi sulle
spalle cominciando a fischiettare che la gente che scontravo dopo un po’
prese a fermarsi e ad ascoltare me che fischiettavo,
me che fischiettavo perché era stato il più bel concerto della sua vita e poi
come d’incanto la gente prese a danzare e tutti piano piano capirono cos’era
la musica e smisero di parlare e ascoltarono solo la melodia che usciva dalle
mie labbra e ogni cosa, anche se per un solo istante, sembrò interrompersi e
tutto rimase immobile, c’era solo il mio fischiettare e quel infinità di persone
che danzavano senza toccare terra, su un tappeto sospeso tra perfezione e
incredulità.
Poi smisi, perché Beethoven comunque era morto nei loro vestiti.
Io, però, quella gente l’ho vista veramente danzare e non importa se era più
di un centinaio di anni fa.
Non importa.
Io, alla Dottoressa, non glielo posso dire che ho visto la luna di quella notte di
Vienna del 1827 e che era una luna bellissima.
Non posso dirle che poi, una volta rimasto solo, sono andato a piangere sulla
tomba di Mozart.
Non posso dirle che ho appoggiato un’orchidea su quella pietra e che poi ho
chiesto scusa, da parte di tutti, scusa.
Me ne andai camminando a testa bassa, scalzo, sul brecciolino di quella
fossa comune e piansi, piansi perché nessuno aveva capito niente, avevamo
tutti perso un’occasione.
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e io dico che ora è quasi buio ammesso che la luce esista e che sono stanco
di camminare per le strade di Roma anche se in genere mi piace farlo e che
ora sono sul lungotevere che non sembra neanche di stare a Roma, stasera,
sembra di stare semplicemente sopra un fiume.
E
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io lo so che poi starò meglio e che ho solamente ventisette anni così mi dico
Luca guarda il cielo stasera come assomiglia a quel quadro, propriouguale, e
mi piace quando i colori si confondono perché così non faccio fatica e uno
vale l’altro e forse la chiave è questa, il cielo è il mare degli uccelli e il mare è
il cielo dei pesci, chissà, a me piacerebbe tanto vivere in una casa in riva al
cielo, con le tende bianche e sentire il rumore delle onde la notte e perdermi
con loro, respirare il profumo e vedere volare i gabbiani per rotte diverse,
piegarsi con delicata armonia e poi planare sugli scogli, io vorrei vivere là e
riposare il respiro e dire adesso per un po’ vivo felice.
E
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e io ora devo andare a quella casa per l’ultima volta che poi tanto ne trovo
un’altra mica c’è fretta
e
e io dico che i ponti di Roma sono proprio belli e ora attraverso quello
dell’isola Tiberina che un pochino piove ma io dico che tanto è solo acqua e
non può far male e cammino piano perché il mondo è sottile come questa
pioggerellina che ti entra nel collo e la senti, ma non importa, fa quasi piacere
sentire la pelle bagnata e poi credo che ora smette, il cielo si sta schiarendo e
ognuno avrà qualcosa da fare, io lo so che le vite si incrociano senza mai
toccarsi per colpa della paura ma
io Luca mi sa che non ho più niente da dire, io Luca ho già contato fino a tre e
ora mi butto.
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ROSSO FUOCO ADDOSSO
Le cinque.
Luce che cala, rosso dappertutto, luce che trema. E fuoco.
Sui tetti.
Ecco.
Bisognerebbe viverci sui tetti, bisognerebbe trasferircisi, passarci del tempo.
Sui tetti.
Pensi a questo mentre i passi che ti si sciolgono tra le gambe sfilano
inesorabilmente lenti, uno appresso all’altro, meccanicamente.
Rosso fuoco addosso e cinque del pomeriggio.
Il calore del sole batte sui pantaloni blu accompagnando il meccanismo
scheletrico del tuo movimento e la giacca la tieni allacciata come fosse un
golfino, intrecciata, il nodo stretto alla schiena.
I pesci rossi degli acquari degli stilisti, dalle vetrine, sembrano volerti sbraitare
un impedimento al tuo sacrilego utilizzo mal abbinato delle loro stoffe.
Sapessero che non sono affatto originali e tantomeno loro, ti lascerebbero
certamente sfilare oltre.
Hai pensato anche ad un accenno di nodo alla cravatta, per comodità, si
intende, qualche istante dopo dall’esserti alzato da un prato zampillante
margherite.
Cinque del pomeriggio.
Dalla tua parte del marciapiede.
A momenti lo ammazza.
Il punto è che vorrei soltanto….mi piacerebbe per una volta soltanto, per una
sola volta nella vita che si potesse parlare senza recitare una parte. Dirgli
“pensa alla pazienza che dobbiamo avere”. Vorrei essere chiara, smettere di
amarlo, come una constatazione, con quella frase lì.
Basterebbe porsi una piccola domanda, in fondo.
A cosa porta tutto questo.
E lui, lui lo so, lui risponderebbe
“tutto questo?”
Passa un’ambulanza.
Vedi un vecchio osservarti dalla finestra. Quasi lo invidi, quel vecchio. Ha in
mano una prospettiva differente dalla tua.
Ecco perché bisognerebbe davvero vivere sui tetti. Potresti guardare le cose
da sopra.
Potresti guardare le cose succedere.
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Accovacciato, le ginocchia tirate al petto, mi immagino raccolto, le braccia
racchiuse in una specie di cerchio.
Perfetto e comodo, sul mio tetto, a sopportare solamente le abituali
combinazioni delle stelle, fissando innocuo come lavorano lenti gli uomini col
decespugliatore, come ignorano ciechi il rosso fuoco addosso della sera.
Lassù sì che sarebbe tutto sotto controllo.
Avrei risposte per tutto.
Avrei una madonna a portata di mano e davanti giorni e giorni ancora da
osservare.
Avrei i miei sbadigli per benedire i bambini e sconterei tutti i giorni a venire
lassù perché davvero, davvero
preferisco organizzare qualcosa pur di non rimanere più sola con te. In
silenzio.
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Basterebbe poco.
Se solo ne fossi capace, se solo non mi spaventasse ricominciare tutto da
capo, se solo non mi facesse paura dover pensare per sempre, da sola, a
Chiara.
Basterebbe poco, sarebbe sufficiente dirgli
se vuoi
puoi pensarmi ogni volta che ti capita.
“Mamma!”
Mi piace quando, abbracciandomi, mi si strofina addosso. Mi ricorda quando
l’allattavo. La sensazione che provavo ogni volta che tirava il latte.
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Ho anche la giacca stropicciata e i pantaloni, i pantaloni se possibile sono
ridotti ancora peggio, non so se il tessuto non era buono o cos’altro, ma i
pantaloni blu, sulle cosce, sembrano essersi schiariti, forse per colpa del
sole, forse per.
Stringo la cravatta fino a sentirla tirare, misurandone la tensione. Il nodo lo
sento storto ma poco importa.
Ho la sensazione di avere le scarpe sporche. Abbasso lo sguardo.
Appunto.
Sporche di fango ma non posso mica prendermi la colpa di tutto.
e la prendi per mano come tu sola sai farlo e ti fai raccontare dei colori e dei
pastelli e che per fare la H ci sono tanti modi ma che lei preferisce quello
complicato, preferisce la H corsiva perché non sa farla nessun altro.
“Sì, ma non devi cercare di stravincere”, dici con un tocco di follia della quale
presto ti penti, “Accontentati di vincere, piccolina mia”.
Avanti, che mentre noi perdiamo tempo, la piccola ruspa gialla avrà già
colpito una tegola del mio tetto ed ora giace capovolta su un fianco, la benna
alzata.
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TUTTO DI ME
Mani lucertole, mani le unghie curate, dita ticchettanti, mani spilli e un figlio a
casa a dirti mamma, a dirti mamma io questi pantaloni non li metto che qui a
rimetterci sono sempre io e quel tuo marito idiota a dirgli sbrigati fai presto
Marito idiota dimagrito per l’estate venti chili, marito barba e sandali (i piedi
degli uomini fanno schifo) investigatore di segni zodiacali come apertura
chiusura spigolo di ogni presentazione
- Cancro? Mm….
Cancro è luna, cancro è famiglia, cancro il segno degli artisti, segno che
qualcosa non quadra se sei cancro (e chi sta vicino a un cancro deve avere
molta pazienza, deve sapere che il cancro passa da un eccesso all’altro,
caratteri che si deprimono, caratteri brillanti, caratteri che insomma non potevi
nascere leone?)
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Casa vacanza casa per una settimana a Parigi oh che bello per una
settimana è solo tua guarda che avere una casa a parì non è cosa da tutti
non è cosa da – anche se devi portarti il cambio biancheria anche se al
supermercato sotto casa non ti conoscono e non ti fanno gli sconti perché ci
vai solo una settimana a parì.
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fisso sulle smagliature delle cosce rimanendo fissa in attesa del prete
dell’amante del cacciabombardiere rimanendo fissa le dita sporche
fosforescenti.
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OBIETTORE
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il sig. danovaro era stupendo
In comune litigai con tutti - sto obiettando, non potete sfruttarmi gratis - così
mi diedero un ufficio al pubblico, dovevo aprire alle otto, leggere il giornale e
fare il solitario al computer - fare le fotocopie e scrivere.
mi ero fatto fare un timbro per mettere l'orario, aveva due facce - 08.00 e
16.30 – lo stratagemma mi permetteva di svegliarmi tardi e di andare via
presto. un giorno mi convocò il sindaco, la municipale gli aveva scaricato un
barbone tedesco nell'ufficio - l'assistente sociale era nel panico - mi disse lei
che sa il tedesco cerchi di capire qualcosa e qualcosa la capii sul serio anche
se del tedesco so solo i numeri ma il sindaco cominciò a volermi bene lo
stesso.
mi diedero un motorino e la possibilità di usare la macchina del comune,
dovevo andare a savona e a genova - in tribunale - parcheggiavo sempre in
doppia fila ed entravo nelle librerie e leggevo i canti orfici di Campana.
poi si ammalò quel tipo, Favera, il sindaco pareva non aspettasse altro così
mi chiamò, disse - lo dobbiamo licenziare però stai attento - dovevo beccarlo
sul fatto – mi feci dare alcuni indizi e partii incazzato e annusante come un
segugio.
lo beccai che faceva il catechista in una chiesa di alberga, forse aspirava a
fare il prete, tornai dal sindaco, dissi tutto, mi invitò a cena e conobbi
alessandra - la sera dopo uscimmo insieme e l’amai per tre mesi.
poi un giorno il sindaco disse - devi andare da questi due anziani -
l'assistente sociale non c'era, feci spallucce, dissi va bene e mi incamminai a
piedi. davanti al portone c'era il mercato, suonai: gli anziani si chiamavano
danovaro
- chi è?
- è la signora danovari?
- danovaro
- signora danovari, sono toccafondo, l'obiettore
- io sto aspettando toccafondi, flavio toccafondi del comune
- mi chiamo toccafondo, fulvio toccafondo e sono del comune
- salga su
il palazzo era metallico. pop art. era un diavolo di palazzo metallico. suonai.
- chi è?
- signora danovari?
- danovaro
- sono fulvio toccafondo, l'obiettore
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aprì.
era una vecchia mezza pazza. voleva a tutti i costi farmi bere il genepì poi
come i pazzi cambiò genere e mi mostrò tutti i suoi quadri, facevano cagare,
domandai
- EH?
- SI VA?
la pazza gli mise il cappotto così uscimmo per andare a fare la foto tessera.
risi.
ci mettemmo seduti al bar a bere una birra. raccontò che quando era giovane
lui si andava al fronte, no le cazzate, gli obiettori, le figlie del sindaco.
Prima di pranzo lo riaccompagnai a casa, lo vidi rimettersi le cuffie fingendosi
scemo davanti alla tv. Sarebbe stato, da quel giorno in poi, il mio idolo.
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Katia la pittrice
mi misi con Katia la pittrice, dipingeva cose che non la soddisfacevano mai.
anche io non ero granché soddisfatto delle cose che dovevo fare. il lavoro
comunque non era difficile. dovevo portare il talvin, che in farmacia tenevano
in cassaforte, alla luigina. alla luigina volevo bene. suonavo il campanello, lei
diceva "chi è?", "flavio". aveva 67 anni e appena sbucavo dall'ascensore mi
precipitava addosso rapinandomi del talvin, Se lo andava a sparare su una
chiappa fregandosene che io fossi lì davanti. semplicemente, si abbassava il
pigiama e se lo iniettava. le prime volte la cosa mi imbarazzava poi avevo
cominciato a farci l'abitudine e al limite, quando lo stantuffo si avvicinava alla
chiappa, buttavo un occhio al programma di sardella. la luigina, dopo la dose,
diventava di buon umore e mi domandava sempre se avevo da stirare così
cominciai a lasciarle le camicie e i pantaloni. quando andavo a fare la spesa
per me, compravo sempre una bottiglia di olio in più per lei. La spesa
funzionava che l'assistente sociale, una cicciona di loano, doveva
accompagnarmi così la prima volta che ne ebbi bisogno dissi Miriam devo
andare a fare la spesa. mettemmo in moto e andammo al supermercato
convenzionato con il comune. presi il carrellino e cominciai a comprare le
cose, con lei dietro a seguirmi con il suo carrellino. alla cassa, la commessa
cominciò a battere i pezzi e la cicciona infilò anche i suoi nel mio conto
comunale. "sarebbe", domandai. "qui abbiamo sempre fatto così, tanto paga
il comune", "tanto te ne vai affanculo". quando tornai in comune chiesi di
poter aver in prestito la macchina del messo comunale per evitare il
coinvolgimento dell'assistente sociale. cercarono di capire il perché di questa
richiesta poi me l'accordarono. se qualcuno doveva fregare il comune quello
dovevo essere io, e di certo a esclusivo vantaggio di chi ne aveva realmente
bisogno. ecco perché la luigina mangiò bene per un anno.
katia la pittrice abitava in una casa cantoniera. mi trasferii lì. aveva un piccolo
orto. la mattina mi svegliavo un quarto d'ora prima del necessario e andavo a
prendere i pomodori che avremmo mangiato la sera. lei era solita affittare un
film in cassetta, amava vedere lo stesso film tre quattro volte di seguito.
comunque avevo i pomodori, basavo la mia esistenza su quello. le sue
amiche erano attrici di teatro tranne una, la roberta, che amava per sua
stessa ammissione più il cazzo dell'arte. la prima sera che la conobbi
eravamo in un'arena estiva, mi si mise sopra strofinandosi. un mese dopo, al
mare, eravamo tutti seduti, lei indossava un pareo e aveva sempre le gambe
aperte, con questa fregna sempre in mostra. estrassi dallo zaino di un vicino
un fucile ad acqua, lo caricai, mirai in mezzo alle cosce e sparai gridando "e
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basta co' sta fregna". a me piaceva la susy che nella vita faceva la maestra di
asilo. aveva sui trentacinque anni ed era piccolina, i capelli corti e rossi e un
giorno le vidi le susine. mi innamoravo spesso, in quel periodo, così lasciai
katia e per una settimana mi ubriacai. la sera di ferragosto organizzarono un
falò in spiaggia, a bergeggi; c'erano tutte le amiche di katia, c'era anche la
katia e una mare di gente che non conoscevo. per presentarmi rubai la
passerella dello stabilimento e accesi il falò. un tizio di lecce prese la chitarra
e cominciò a suonare terra mia di pino daniele e tutti sapevano le parole
tranne io. mi sentii solo e disordinato ma tutto sommato felice.
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Piero orsello vaffanculo
si chiamava piero orsello o piero maggi, non ho mai capito l'equivoco. abitava
nella piazza del mercato, era un disadattato di quaranta anni con una madre
colta da ictus, costretta alla sedia a rotelle. erano i primi giorni di un luglio
afoso ed avevo appena cominciato questo lavoro. "Allora, toccafondi e
donato - disse l'assistente sociale - andate da piero maggi e sentite cosa
preferisce, se vuole uscire lui o se dovete portare sua madre a prendere un
po' d'aria". Arrivammo in quel appartamento che puzzava di morto e glielo
domandammo, a piero maggi orsello, se era morto qualcuno. gianni, da buon
siciliano, annusando nell'aria, esclamò "minchia, cu fu'?" Assieme a noi c'era
ancora Dino the fox, il dj di minervino murge presto riformato per turbe
psichiche. lo avevamo incontrato per strada intento a sbrigare non so quale
pratica e lo invitammo a salire con noi. piero maggi orsello era uno schifoso,
un'ameba a carico della società. aveva la vocina in falsetto e fingendosi
gentile ci offrì un vasetto di pesto fatto con le sue mani. "no, grazie", risposi
"ma dai, prendiamolo, che mangiamo sempre merda", intervenne dino the fox
"io non lo mangio". In casa il balordo aveva una marea di dischi di lucio dalla
e di de gregori così misi sul piatto il primo disco di dalla di quando ancora
scriveva bene e me lo gustai buttandomi sul divano. "allora, ragazzi, io devo
uscire, poi appena torno portate mia madre a fare un giro" "sì, c'è niente di
avviato?", domandai "sarebbe?" "da bere, dico, c'è niente da bere?" Lo stolto
ci offrì della coca cola e la limonata. era stupido, proprio stupido. quando
chiuse la porta mi avviai verso il carrello dei liquori e versai tre bicchieri di
martini. "vaffanculo, piero orsello". la casa era piena di roba inutile,
soprattutto fumetti e riviste del cazzo tipo Oggi, Panorama e Bellitalia. Dino
the fox disse che si era rotto il cazzo e che lui se ne andava. rimanemmo così
io e gianni, sbattuti sul divano a sorseggiare martini, ascoltando lucio dalla, in
silenzio, la vecchia tranquilla nell'altra stanza, la faccia di traverso, ogni tanto
emetteva un lamento. poi piero maggi o orsello tornò e chiese se sua madre
aveva avuto bisogno di qualcosa. "no, no, tutto tranquillo". "allora adesso la
portate a fare un giro?" faceva un caldo della madonna. decidemmo rapidi
turni visivi per chi spingeva la carrozzina. "io la porto fino a lì" "ok. e io fino a
laggiù" la vecchia non ci stava proprio con la testa, non parlava, ogni tanto
sbavava, mi faceva senso. camminammo per una mezzoretta incrociando per
un paio di volte anche il vicesindaco. alzammo la mano in cenno di saluto. lui
contraccambiò. poi arrivammo dinanzi a un ponte pedonale. c'era un torrente
che scorreva lì sotto, più o meno secco. guardammo a destra e a sinistra.
l'alternativa era percorrere mezzo chilometro e tornare sulla statale, ritrovarsi
a dieci metri da dove adesso ora eravamo. "Col cazzo", dissi, e gianni
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"Signora, forza, si alzi". ci voltammo di nuovo a destra e a sinistra per
controllare. eravamo proprio soli. "Signora, perdio, si alzi". La vecchia,
faticosamente, mosse i primi passi così Gianni, gentile, l'aiutò a salire le
scale. L'operazione richiese circa dieci minuti. Completato l'ultimo gradino, la
vecchia era completamente pallida e aveva un'aritmia da infarto.
L'accompagnammo a casa in tutta fretta, dicendo a piero orsello o maggi che
sua madre, con quel caldo, non doveva uscire, che lui era un pazzo e ce la
squagliammo in tutta fretta. il pesto fatto con le sue manine, comunque, fece
cagare dino the fox per tre giorni.
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SCUOLA
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Cessi
non ho mai capito come mai tutti andassero a fumare nei cessi, io ai cessi ci
facevo le scritte
insomma cose del genere scritte con l'uniposca rosso fregato a chi
se l'era comprato anche perché non ho mai avuto il diario, scrivevo su quello
degli altri e un anno mi misi a vendere i libri e regalai quello di religione ad un
tizio che me ne comprò tre, una sorta di promozione in qualche modo.
una volta misero una bomba nel cesso dei maschi ma quel giorno
non c'ero - ricordo solo che accusarono il roscio, forse perché un mese prima
aveva fatto una telefonata preannunciando una bomba e la vicepreside
rispose - stavolta basta, smettila carosini.
***
i cessi dell'università non erano belli come quelli delle superiori
infatti non ci ho mai fatto nessuna scritta anche perché
***
il micio non ho mai capito come mai avesse la chiave dei cessi dei professori
aveva un particolare rapporto preferenziale con Orso, il bidello, e di
conseguenza poteva andare a cagarci - un giorno volevo andarci anch'io,
gliele chiesi ma il micio rispose che non me le poteva dare, non poteva
proprio.
il micio era un tipo strano. mi passava a prendere alle 7.45 e andavamo a
scuola insieme sul suo califfone - un giorno una puttana ci tirò un sasso
senza che noi le avessimo detto niente - oppure andavamo con l'autobus e
poi gli prestavo la bici per andare a casa.
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l'ultimo giorno di scuola come al solito gli prestai la bici con l'avvertimento
- micio, riportamela e lui disse - non ti preoccupare (voce nasale), sicché il
giorno dopo non vedendolo arrivare lo chiamai a casa
- signora buongiorno, che c'è il micio?
il micio non stava bene coi nervi. l'ho rivisto quattro anni fa in piscina ma non
ci siamo salutati.
era passato troppo tempo.
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Del perchè i down non sono affatto down
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Micio
Dica!
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Pippo
pippo voleva fare il cattivo me lo ricordo bene ma non valeva un cazzo era
ridicolo, lo sapevamo tutti, girava con ciccio e damiano il castoro che aveva
puntato monica ma anche damiano il castoro non valeva niente e non era
neanche il campioncino che volevano farci credere.
a ricreazione scendevamo in giardino con la palletta da tennis cinque contro
cinque in genere io il micio sandro zappalà e il mosca (poi zappalà fu
bocciato e il suo posto fu occupato da iannarella) contro damiano ciccio
origoni pippo e toro.
gli spaccavamo sempre il culo.
un giorno feci un lancio che sandro appoggiò di giustezza nella piccola
porticina. poi toro si lanciò sulla fascia ma cadde e si sventrò.
in classe avevamo le finestre che si tiravano su e giù, stavamo al primo piano
e pippo una volta mi afferrò il braccio da fuori, mi tirò, voleva sottomettermi,
dimostrarmi che era più grande ma fui veloce e con uno scatto gli girai il
braccio ripetendogli col ghigno "quanto meni... quanto meni... Pippo..."
e lui si contorceva dal dolore ché proprio non se l'aspettava.
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Tramezzini
- micio, perché non dici a tuo padre se prepara un cartone di tramezzini in più
così li vendiamo qui a scuola?
il business infatti terminò dopo un litigio tra me e il micio contro sandro o forse
era il contrario.
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quel giorno sandro stava male, non era venuto a scuola, a noi non andava di
entrare così con altre 10 persone partimmo per i Castelli, andammo al lago di
albano e mangiammo tutti i tramezzini offerti dalla ditta.
- Eh ma voi mi dovete pagare le spese. un tramezzino costa 400 lire che per
50 fa 20 sacchi. io se fate così ne guadagno solo cinque e voi 25.
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