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J. Derrida, Il maestro o il supplemento di infinito, Il Melangolo, Genova 2015, pp. 72.

La figura del maestro nasconde un segreto. Il segreto della trasmissione di un sapere che non una
cosa, un dato oggettivabile, un'informazione come oggi piace dire bens un resto, uno scarto,
una negativit produttiva di senso. Che cos il maestro infatti domanda che essa stessa non pu
porsi se non nella forma della elusione di una risposta possedibile poich negherebbe la stessa
natura della maestria, del magistero di cui il maestro al tempo stesso causa ed effetto,
momento di transizione e luogo di condensamento del suo prodursi in quanto maestro. Dove
dovrebbe infatti risiedere la sua natura o essenza di maestro se essa, come insegna Derrida,
dell'ordine di ci che si presentifica solo facendosi assente? Derrida ci ha abituato a brevi testi,
apparentemente marginali, che segnalano importanti avanzamenti del suo pensiero verso quello che
possiamo definire, seppure paradossalmente, il suo nucleo essenziale. Si tratta, come ovvio, di un
nucleo che solo nella sua inessenza o assenza pu definirsi tale e che solo attraverso cerchi
concentrici arriva a svelarsi senza mai scoprire il fondo abissale che ne sorregge il movimento. La
scrittura ellittica e densissima di Derrida segue fedelmente questo movimento ogni volta nuovo,
ogni volta fedele a se stesso, mostrandosi sempre al tempo stesso dentro il proprio oggetto
nell'attimo stesso in cui ne svela l'apparente chiusura e fissit, in un'operazione mai estrinseca, mai
estetizzante. Questo sembra essere il caso anche di un testo curioso come Il Maestro. Il titolo
originale, infatti, suggerisce questo carattere centrale di un testo apparentemente d'occasione
attraverso un termine, eliso per ragioni editoriali dalla traduzione italiana: il termine reste (il titolo
originale infatti Reste - Le mitre ou le supplment d'infini). Non chiaro se reste abbia qui valore
sostantivale o verbale (e, in quest'ultimo caso, con un'ulteriore ambiguit relativa al tempo in cui si
declina il restare). In tal senso il resto indica sia ci che rimane, sia l'atto attraverso cui si
enuncia un rimanere del parlante (io resto), sia un'ingiunzione (resta!). Il saggio di Derrida si
qualifica cos come una riflessione sul concetto di resto e muove proprio dall'insegnamento di un
maestro - l'orientalista Charles Malamoud dal cui lavoro Derrida prende le mosse chiedendosi:
possibile, dichiarandolo 'in silenzio' o 'a bassa voce', non dovere niente a un maestro? Proprio qui?
A un maestro ammirato? (p. 21). Cosa resta di tale insegnamento nel momento in cui si pensa la
possibilit di non restituire qualcosa, di non rendere il resto di ci che pure si preso, forse
guadagnato da esso? Da questo reste veniamo cos precipitati subito nelle tematiche pi tipiche di
Derrida, verso gli indecidibli e le aporie che il pensiero chiamato a custodire per non smarrire il
senso del proprio orientamento verso l'altro da s, verso un abisso che la forma in cui la violenza
del fondamento pu essere disinnescata o, quantomeno, sospesa nella sua pretesa identitaria e
totalitaria: un resto senza niente, un resto senza res, quanto un tempo mi ero arrischiato a chiamare
la restanza di un resto senza niente che sia, niente di sussistente, di esistente, di persistente, di
permanente, di sostanziale. N soggetto n oggetto (p. 23). Derrida traccia cos, magistralmente,
l'itinerario della mente verso questa alterit che le si annuncia, scavando dentro la parola l'abisso, il
non-fondamento che paradossalmente la sostiene; un percorso che viene condotto attraverso il gioco
del linguaggio, gioco che ha le sue regole e dunque il suo rigore, e che pure non cessa di stupire,
poich lo stupore se non l'inizio cronologico del filosofare senz'altro l'origine ricorsiva verso
cui si muove il pensiero che non cessa di meravigliarsi dell'incontro che lo rende possibile:
restiamo a bocca aperta davanti allabisso o, pi esattamente, nellabisso, gi nel fondo senza
fondo dellabisso che gi la nostra bocca aperta (p. 23).
Malamoud offre quindi lo spunto a Derrida per un'incursione vertiginosa nella tematica
(vedica e non) del resto, attraverso variazioni che lambiscono i margini costitutivi della cultura a
partire dalla ritualit e dal sacrificio, il cibo e l'atto del mangiare, fino alla questione stessa di ci
che sia cultura e tradizione culturale. facendosi accompagnare da Malamoud nella lettura del
Rigveda che Derrida inizia cos a tematizzare il resto all'interno della logica paradossale del
sacrificio, quella cio che esorcizza la violenza attraverso l'esercizio della violenza. Nel sacrificio,
istituito e sorretto dall'orrore nei confronti della violenza, la distruzione dei corpi e dell'offerta
stessa agli dei, cos come il resto che ne scaturisce, vengono amministrati, economizzati, sottratti
alla circolarit del naturale proprio attraverso un agire che ne mima gli effetti di annichilimento.
L'umano sembra potersi istituire solo dove si inserisce nel dileguare delle cose sottraendovisi cos di
un soffio: l'essenziale di questo doppio movimento , appunto, il residuale. in questo gioco di
identificazione/dis-identificazione che si annuncia ci che Derrida chiama il problema del
mangiare e del mangiare-l-altro poich, in effetti, mangiare, non anzitutto spostare questa
bordatura? E far entrare il fuori nel dentro, laltro nello stesso? (p. 57). Ma come possibile ci se
non vengono dati o, in supplenza di ci, marcati i confini che si tratta poi eventualmente di
attraversare? L'io/l'altro, dentro/fuori divengono cos i margini di quel sacer che definisce attraverso
il rito lo spazio di ci che sublime e di ci che infimo, divino e umano e in cui l'animale funge
da elemento aporetico, cerniera instabile di un gioco che funziona solo poggiandosi sul suo resto,
sulla sua resistenza all'identificazione. Temi cari all'ultimissimo Derrida (quello de L'animale che
dunque sono e de La bestia e il sovrano) che tuttavia qui vengono in parte lasciati sullo sfondo.
Anzi, Derrida si azzarda ad ipotizzare proprio nella capacit di fare esperienza del resto un
possibile discrimine tra quanto si chiama l'animale', il vivente non umano e il suo altro-umano;
sarebbe anzi proprio a partire dalla possibilit del resto che si aprirebbe laccesso allantropologico
come tale (p. 54). Perch nella questione del resto, scrive Derrida, siamo anticipatamente inscritti
nello spazio che collega lesperienza del mangiare (interiorizzare, assimilare, prendere dentro di
s i resti, gli avanzi, rammemorarsene (p. 44), siamo cio dentro la logica che l'ordine del
mangiare a quello del pensare: nell'un caso come nell'altro, una questione di ci che principale e
di ci che avanza, sconfinando nel rifiuto e nello scarto. Ci che chiamiamo l'animale o ancora
meglio il non-umano funge da collante di questa danza di resti in cui si istituisce la cultura.
all'animale in quanto smembrato nel sacrificio e in quanto introiettato nell'atto del mangiare che
dobbiamo la possibilit di segnare quella soglia da cui si spalancano il divino e l'umano e di
articolare il movimento delle loro relazioni. Cos come di quel chiasmo che da qui si origina
(divino-umano, umano-animale), di cui la relazione maestro-discepolo una declinazione (il
discepolo deve raccogliere elemosine per il maestro, offrirle e mangiarne i resti (ucchist a):
si tratta,
anche in questo caso, di unoblazione e, dice il testo (I, 3, 43), 'le elemosine sono riconosciute come
cibo sacrificale. Rispetto ad esse, il maestro la divinit' (p. 18). La pratica sacrificale funge qui
per cos dire da paradigma di un rapporto vertiginoso con ci che non si lascia assimilare,
nonostante ogni sforzo e che, anzi, proprio perch non assimilabile, resta, suscita quegli sforzi e li
sostiene. Tanto chi opera il sacrificio, quanto la divinit, tanto il maestro quanto il discepolo sono
non solo costantemente impegnati in ma propriamente generati da questo instancabile gesto di
riappropriazione del resto inappropriabile. In un caso come nell'altro, ci che all'opera il
tentativo di chiudere l'apertura, suturare la ferita che quel resto segna infallibilmente,
inaggirabilmente. Il resto inquieta e cos pone fine alla quiete, mette in moto la vuota identit e la
dinamizza verso quell'alterit che eccedendola la costituisce.
In questo senso, come abbiamo detto, l'atto sacrificale, atto testimoniale ed esorcizzante a un
tempo dell'orrore della violenza, non ne cancella gli effetti, reali o immaginari. Anzi, forse ancor pi
nell'immaginario la violenza sembra restare, incancellabile segno che restituisce l'integrit solo a
patto di spezzarla: nonostante il sacrificio supplementare, nonostante tutte le promesse, non siamo
mai sicuri che, nellaltro mondo, la vittima non possa vendicarsi. Per esempio travestendosi da
uomo e mangiandoci a sua volta. Bhrgu,
figlio del dio Varun a, lo racconta: ha visto uomini, in verit
bestie travestite da uomini, gettarsi gli uni sugli altri, tagliarsi a pezzi, farsi a brandelli, ecc (p. 36).
Il problema centrale, osserva acutamente Derrida, relativo al chi. Dagli atti inaugurali del rituale,
del sacrificio, della preparazione del cibo e del mangiare, fino alle vette dell'attivit in senso lato
spirituale, del sapere e della sua trasmissione, dunque, dell'insegnamento e del rapporto maestro-
discepolo, tutto ruota attorno all'identificazione di un chi; le prassi materiali, i gesti, le parole e i
silenzi si sostanziano della domanda attorno al chi, sono risposte a tale domanda, suscitate da tale
domanda. Non si tratta di un chi come soggetto o io, chiarisce Derrida, bens della figura
sghemba, al tempo stesso centrale e sfuggente, attorno a cui si organizzano le altre questioni della
soggettivit o della persona (umana o divina che sia). Anche rispetto al problema formidabile e
abissale del chi l'animale gioca un ruolo di rilievo, ci che ultimamente rende possibile quella
domanda e ne mette in movimento la dinamica (dal chi mangia chi, o chi mangia cosa, fino
al chi sono io rispetto a te o ad esso, sono questioni che sembrano potersi porre solo a partire
dal rapporto con l'alterit animale, col suo sguardo, la sua nudit, la sua morte). A partire
dall'analisi dei testi vedici Derrida ripercorre molti luoghi di questa filiazione della cultura a partire
dallo scandalo dell'animale, del suo offrirsi come collante irrapresentabile, imprendibile,
inesauribile del gioco della cultura. Caso emblematico quello della vacca che fu la nutrice
originaria dei giganti e degli dei (p. 29). L'esempio del latte e del suo ruolo eccentrico in quello
che Lvi-Strauss avrebbe chiamato la struttura simbolico-linguistica del crudo e del cotto
indicativo: latte sembra appartenere tanto all'ambito del crudo quanto del cotto, poich ci
sembra sgorgare physei dalla mungitura, eppure tiepido, gi direzionato verso la cottura o ci che
la precede e la fonda. Esso cos al tempo stesso crudo e cotto o, se si vuole, n l'uno n l'altro,
sottraendosi alla presa del nostro sistema simbolico nell'atto con cui ne conferma le coordinate
fondamentali. Ma il latte fa anche parte del corpo di un altro di cui ci fa parte (p. 30); inoltre,
esso non impuro come gli altri umori che fuoriescono dal corpo, il sudore, la saliva, o ancora
lurina o le feci (p. 33). Abbeverarsi alla fonte di questo corpo extracorporeo, di questo logos
spermatikos universale che frutto dell'unione tra la vacca e i(lo sperma de)l Dio Agni, sembra
essere il paradigma dell'apprendimento da un maestro (ibid.).
Nella figura del maestro che emerge alla fine di questo derridiano troviamo cos molti dei
temi che hanno caratterizzato il suo percorso filosofico negli ultimi decenni: in particolare il tema
dell'identit come certezza di se stesso, come propriet, declinati nelle ultime opere nel senso
della sovranit di cui il maestro, in quanto signore (matre), dovrebbe essere l'architrave ideologica.
Un'identit senza resti, senza ombre, senza vuoti regge illusoriamente tutto il sistema della
metafisica e della cultura occidentale. Nel termine stesso e nel concetto stesso dellipse [...],
lipseit, lidentit a s, la propriet, addirittura la pulizia dello stesso implicano la posizione
gerarchica del maestro, del signore, del padre, dello sposo, del capo o del sovrano, di chi fa la legge
nel focolare di un presso-di-s, di casa sua: eco-nomia, ecc. Se listanza dipseit la forza
dellonto-teo-fenomenologia, allora questa implica la posizione o listituzione del maestro (maestria
e magisterialit) (p. 61). In cosa consiste, infatti, la sua autorit sul discepolo se non nell'essere
ci che il suo discorso lo qualifica ad essere, nella certezza di una tradizione di cui si fa portavoce?
Derrida, come noto, scioglie l'ambiguit ideologica del discorso del maestro riconducendone la
figura ad un'identit manchevole e aperta, attraversata costantemente e strutturalmente dall'Altro:
dunque il valore di 'proprio' e di 'stesso', lipseit dello stesso (meisme, metipse, metipsissimus) che
qui si mette a tremare. E dunque a far tremare tutto. Quanto, qui, trema intransitivamente, non
soltanto la parola chiave [matre mot], ma il potere e lautorit di ogni signore/maestro [matre] in
generale (p. 50). Il maestro come veicolo di passaggio dell'altro verso l'altro: l'altro di una
tradizione che non presenza oppressiva di un sapere costituito e immobile ma spazio in cui si
iscrive irrinunciabilmente la testimonianza di un lettore-destinatario-discepolo; ma anche l'altro in
quanto questa stessa alterit ricevente che non pu costituirsi senza la mediazione del maestro ma
di cui il maestro stesso debitore del suo essere-in-quanto-maestro. E ogni pratica culturale sembra
iscriversi in questa aporia della cui impossibilit impossibile non appropriarsi se si vuole restare
fedeli alla traditio che inevitabilmente sempre si tradisce. il caso, emblematico, della traduzione
in cui la riuscita non mai separabile dalla consapevolezza pi o meno esplicita del fallimento,
della resistenza che ci che viene tradotto oppone ad una sua conversione integrale ad un'altra
lingua/cultura: accade allora come se lontologia, nel movimento profondo del suo desiderio, nella
sua potenza ma anche nella disperazione della sua impotenza, fosse destinata a saturare o a suturare
tale eccesso. in questo luogo che un 'resto' alla traduzione resiste sempre (p. 46). Ci che fa
resto , dunque, il vero e paradossale punto di consistenza di un'identit che si vorrebbe piena di s
e che invece non pu che lasciarsi attraversare: laddove il resto non lascia tregua n al proprio,
n allessere n allavere, nessuna identit, nessuna identit con s pu porsi o riposarsi in tutta
convinzione. Non potrebbe disporre di s determinandosi. Proprio nel senso dellipse [...], non
potrebbe esserci ipseit assicurata, dunque maestria, addirittura magisterialit del 'chi' (p. 55).
importante tuttavia sottolineare che il movimento del testo derridiano arriva a
circoscrivere il resto a partire proprio da esempi che sono essi stessi scarti, margini, riverberi; un
movimento periferico, costretto a non tradursi, pena la negazione performativa di se stesso, in una
qualsivoglia forma di centralit. Un'ontologia del resto (e forse ogni ontologia, del resto...) una
non-ontologia, o un'ontologia del non-ontologico: i 'resti' attorno ai quali ci diamo da fare, non
possiamo n dire stricto sensu che 'sono', e nemmeno che 'costituiscono' il 'centro' di una
problematica, ad esempio quella del 'mangiare-l-altro'. Non costituiscono, non istituiscono niente, e
soprattutto non un centro (p. 48). Occorrerebbe dunque pensare ci che Derrida offre al lettore
nella parabola che dal resto conduce al maestro come istanza di una cancellazione dell'ovviet
dell'essenza, come dislocazione dell'oggetto del pensiero in una zona fatta di soglie aporetiche che
segnano i confini mobili di ci che si offre al pensiero come senso della sua esperienza e che
propriamente gli si concede solo nel momento in cui sfugge alla presa della definizione
inequivocabile. Gi nel suo essere essenzialmente relazione l'essere-maestro sfuma i connotati di
ci che essenzialmente lo definisce (Si tratta qui di una coppia e senza dubbio possibile
distinguere 1. una certa comunit e 2. una certa reciprocit in ci che la istituisce come coppia p.
65). Per tacere del fatto che il maestro continua ad esercitare la propria paradossale natura e la
propria inesauribile potentia anche nel momento della propria eclissi definitiva, quando cessa di
essere fisicamente presente, pur mantenendosi vivo nell'esperienza del discepolo.
Certo, parte stessa di questo lavoro della "maestria" il fatto che il maestro si offra al
discepolo in una peculiare forma di cannibalismo cui allude il lavoro semantico di Derrida sul
resto, inteso come scarto ma anche come forma costitutiva dell'inappropriabile che inerisce alla
natura dell'insegnamento. La mutualit, la reciprocit (apparenza di uguaglianza 'democratica', si
affretterebbero a dire alcuni) significa paradossalmente la fine di unautonomia o di una sovranit
del soggetto-signore, dunque della sua ipseit. La sua ipseit dipende dallaltro, prima o al di l di
ogni dialettica (pp. 67-68). Il matre/maestro guadagna il proprium rispetto al matre/padrone
quando riesce a resistere (fare resto) alla pretesa identitaria con cui quest'ultimo sigilla il rapporto
con se stesso e con l'altro. L'altro appare solo perch l'identico si fa da parte e il suo annunciarsi
scandito dall'omofagia, da ci che Derrida chiama la consumazione dellipseit (p. 58). Si insegna
qualcosa solo facendosi da parte, mettendosi di lato, non occupando il centro della scena, sia nel
senso di non oscurare col proprio corpo il corpo scritto della tradizione (la scena della scrittura), sia
nel senso di non occludere la possibilit di movimento del pensiero con la rigidit di una riposta
senza repliche (la scena della lettura). Il maestro si qualifica come tale solo se la sua maestria si
manifesta come arte dello smarcarsi socraticamente per lasciare alla vita del pensiero lo spazio
necessario di compimento e, dunque, lasciando libera tanto la tradizione di cui si fa testimone, tanto
il sapere di cui si fa tramite. E se l'allievo si ciba di qualcosa, questo cibo non costituito dalle
nozioni che il maestro pretende infondergli, bens di un rapporto alla verit che fatto di tale resto
inesauribile. Come diceva Agostino nel De magistro: Chi pu infatti essere cos stoltamente
curioso, da mandare il proprio figlio a scuola perch impari quello che pensa il maestro?. Ma
chiaro che di questa stessa apertura alla verit fatto il maestro stesso se non vuole dissolversi in
quanto maestro: poich anche il maestro manchevole e in debito rispetto al discepolo della cui
propensione all'apertura verso l'altro a sua volta si pasce.
La questione del rapporto maestro-discepolo apre alla questione del rapporto tra ci che
viene donato nella forma della tradizione culturale e il debito inesauribile che entrambi, maestro e
discepolo, contraggono nei confronti di tale tradizione. Un debito nei cui confronti ci si pone in
modi e in posizioni diverse, e che assume dal punto di vista del discepolo la forma del
ringraziamento (da cui, come detto, il testo di Derrida prende le mosse). Se da un lato, infatti, il
discepolo pu essere veramente tale solo nella misura in cui esentato dalla restituzione al maestro,
in una forma di ingratitudine che inerisce all'essenza stessa di un rapporto libero, non normato, cui
essenziale proprio perci un supplemento che lo appropri a ci che per Derrida l'etico come tale,
dall'altro lato, e per conseguenza, non si pu sfuggire alle aporie di questo rapporto. Certo, lallievo,
in quanto depositario dellinsegnamento del maestro, chiamato ad una risposta nei confronti della
quale pu sempre recedere, dire di no. consustanziale alla libert che inerisce a quel rapporto
che egli possa negarlo, tirarsene fuori, che egli possa non voler ringraziare. O rinnegare, o
sciogliersi dalla promessa di una rinascenza dentro di lui di ci di cui stato testimone: la vita della
tradizione che si gioca, appunto, non come morta eredit ma come promessa di un compimento a-
venire, il supplemento di infinito di cui parla Derrida. Certo, vero che quel no di cui l'allievo
pu sempre essere testimone si gioca su un s pi profondo e radicale nei cui confronti egli arriva
sempre a ritardo e, per certi versi, in modo inattuale. E la forma stessa di quel legame col maestro lo
rende esplicito: perch delle modalit in cui il discepolo pu affermare o negare quel legame non
pu decidere ad arbitrio; esse sono gi scritte, come iscritte in lui sono gli effetti della ineludibile
presa di posizione nei confronti dell'eredit del maestro cui chiamato, in ogni caso, a rispondere.
La gratitudine nei confronti del maestro si gioca quindi su un piano diverso, imprendibile, rispetto
alle dinamiche empiriche, psicologiche ed esistenziali, di cui pure si sostanzia quella relazione.
Relazione che rimane quindi centrale, al di fuori di ogni definizione cosalistica, proprio perch
trova un proprio paradossale e vertiginoso fondamento nel rapporto con l'Altro. E, l'Altro, insegna
Derrida, ci che eminentemente non definibile in anticipo, incasellabile in un programma,
controllabile nei suoi effetti e, se si vuole, nelle sue derive. Ci che finisce per coinvolgere entrambi
i poli di questa relazione in un rapporto generativo con l'alterit, tanto il discepolo, quanto il
maestro che si pone nei confronti del primo senza alcuna garanzia di riuscita. Il maestro sempre
umano. Poich (o di conseguenza) mangia resti. Non pu ridurre il resto, e accanirvisi, e accanirsi a
consumarlo, che trascorrendo la sua vita ad aver bisogno di desiderare i resti (p. 70).
L'aspetto che pi sorprende in questo piccolo ma denso testo di Derrida la forza con cui il
lavoro di ricerca sulle tracce della parola viene proposto al lettore. Non che Derrida sia estraneo a
questo, anzi, rappresenta uno degli aspetti pi connotanti e sorprendenti della scrittura derridiana il
tentativo di circoscrivere con progressive incursioni semantiche e filologiche il senso dei concetti
che intende chiarire. Se la tradizione ha infatti scolpito nella parola un intrico di rapporti sociali,
politici, economici, religiosi, giuridici, ontologici, sempre stato caratteristico del lavoro filosofico
di Derrida, il tentativo di cesellare quelle parole seguendo le linee di frattura che la tradizione vi ha
costruito dentro, per mostrarne gli strati pi profondi e nascosti ed offrirli cos alla riflessione. Non
si tratta, ovviamente, di un lavoro di scavo che vorrebbe accedere ad un significato pi originario,
bens, al contrario, di un lavoro archeologico di liberazione del significato dalle pretese totalizzanti
di una definizione logica o di una storia tramandata. Attiene al gesto stesso di decostruzione del
senso l'ipotesi che il senso non si faccia che nel momento in cui se ne segue la traccia, senza che ci
significhi irrazionalismo o relativismo. nel seguire la traccia che l'assenza si fa presenza e le
movenze del discorso filosofico trovano una guida e una propria destinazione. Le difficolt che il
lettore pu incontrare in testi come Il maestro sono quindi effetti inevitabile dello stile di Derrida,
giocato come sempre sulla ricerca di un rigore le cui regole non sono definite a priori. Ma forse mai
come in questo testo l'arduo lavoro di ricostruzione degli strati e degli addentellati della parola
sembra chiamare in causa il lettore-discepolo ad una fedelt a quel rapporto che lo definisce come
tale. Qui Derrida parla del maestro ma, in un certo senso e inevitabilmente, parla anche di se stesso
in quanto maestro. O, meglio, del tipo di magistero che egli vorrebbe fosse il suo se qualcuno
potesse riconoscersi da solo maestro. Ed dunque un invito a seguirlo, per coloro che sono stati o
vogliono farsi discepoli, sulle tracce di quella libert (in)condizionata che il portato vero del
lavoro filosofico: libert che assunzione senza costrizione di un vincolo, la parola data, che fonda
a sua volta la libert come lavoro di interpretazione di quella parola. Il circolo ermeneutico inteso
nella sua valenza decostruttiva, laddove l'incedere dellanalisi mostra come il suo oggetto sempre
al di l della presa e, lungi dall'essere qualcosa che staticamente si d in un passato, assume forma
e significato solo nella forma aperta del supplemento dinfinito.

(Marco Maurizi)

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