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INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2009-2010
Mentre, per quanto riguarda gli studenti iscritti a corsi di laurea secondo gli
ordinamenti previgenti al DM 270, bisogna garantire loro i mezzi che
consentano di optare per l’ordinamento con il quale continuare e concludere il
proprio processo formativo, quindi garantire tabelle di equivalenza chiare per
chi vorrà passare in 270 e la possibilità di sostenere gli esami per chi sceglierà
di non effettuare tale passaggio, superando così i problemi dovuti alla
riorganizzazione.
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Diritto allo studio significa anche diritto alla casa, diritto che deve essere
garantito attraverso investimenti in alloggi universitari, nell’edilizia a canone
concordato e in una lotta senza quartiere alle vergognose forme di
speculazione di cui è vittima la popolazione degli studenti fuori-sede che sono
per la stragrande maggioranza costretti ad accettare contratti totalmente o
parzialmente in nero e ad abitare in edifici dalle precarie condizioni igieniche e
di sicurezza.
In tal senso, vorrei esprimere il mio apprezzamento per l’azione intrapresa
dall’Agenzia Regionale per il diritto allo Studio Universitario con la quale, in
sintonia con gli Atenei baresi, il Comune di Bari e la Regione Puglia è stato da
poco stipulato un protocollo d’intesa che prevede la realizzazione di un
importante progetto, lo “Sportello Casa” con il quale saranno forniti strumenti a
supporto della collocazione residenziale degli studenti universitari fuori sede.
L'impegno delle istituzioni non deve fermarsi al conferimento della Laurea,
vanno intensificate le iniziative di interfacciamento con le aziende come vanno
riprese le attività di orientamento in uscita conferendo loro stabilità affinché in
futuro non terminino assieme ai fondi ministeriali lasciando disorientati gli
studenti; in quest'ottica di grande importanza è la decisione dell'attuale
amministrazione di aderire al consorzio Alma Laurea.
Infine, vorrei concludere il mio discorso con un invito a tutti gli amici studenti,
cerchiamo di vivere a pieno il Politecnico come luogo di apprendimento, come
luogo di aggregazione dove è possibile accrescere il proprio sapere con
momenti di scambio e di confronto, partecipiamo attivamente alle scelte del
nostro Ateneo e soprattutto non restiamo indifferenti ai continui processi di
riforma che ci coinvolgono, rifiutiamoci di farci inglobare in un sistema che
vede noi studenti prima come clienti e poi come prodotti da riversare sul
mercato piuttosto che come risorse per la crescita del nostro Ateneo, del
nostro territorio, del nostro Paese.
Essere coscienti dei mutamenti che ci riguardano è il miglior modo per
contribuire a migliorare la nostra Università.
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Intervento del
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di una comunità debbano essere prese da un unico soggetto (il rettore) che a
sua volta dovrà rimettersi alle intenzioni di soggetti esterni, senza oltretutto
tener conto di una componente fondamentale degli attuali consigli di
amministrazione quale è quella del personale tecnico-amministrativo, snatura
il senso di una istituzione che nella sua democratica autonomia deve avere la
libertà di autodeterminarsi.
Si fa riferimento ad una distribuzione di fondi basata sul merito, ma la formula
per definire correttamente il merito non è semplice, poiché vanno considerate
alcune variabili basilari, tra cui una su tutte: la realtà in cui vive una università.
Non cerchiamo e non vogliamo commiserazione, come potrebbe sembrare a
chi pensa che nel meridione non esiste la voglia di riscatto, ma sicuramente
per noi salire un gradino richiede uno sforzo triplo rispetto ad atenei che
vivono realtà sociali ed imprenditoriali più floride e meno problematiche.
Il personale che rappresento è capace di fare e di dare tanto, ma molte volte i
contratti e le leggi imbrigliano le nostre professionalità che costerebbero
sicuramente meno ed avrebbero più attenzione di una consulenza chiesta
all’esterno.
Non si comprende la ragione per la quale gli Atenei, avendo la possibilità di
stipulare contratti per attività di insegnamento con soggetti in possesso di
adeguati requisiti scientifici e professionali, debbano escludere da tali
opportunità il personale tecnico-amministrativo.
Noi tutti vogliamo dimostrare che il personale pubblico non è per accezione
sinonimo di fannullone oppure incompetente, perché il nostro “X Factor” non
può essere solo una dichiarazione dei redditi veritiera; ma come dimostrarlo
se, ad esempio, non ci sono le risorse necessarie per rimettere in moto ed
aggiornare i laboratori per la ricerca?
Una riforma delle università utile alla ripresa non può farsi senza aggravio per
la finanza pubblica e quindi investimenti, non si può rispondere ad una crisi
semplicemente e solo con i tagli.
Eppure un certo Keynes, che aveva vissuto la crisi economica iniziata nel
1929, con il suo “moltiplicatore del reddito” dimostrò che una ripresa reale
dipende dall’entità dell’investimento iniziale e dal conseguente
incoraggiamento al consumo della collettività.
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Dobbiamo fare in modo che la storia ci insegni a non ripetere gli stessi errori
altrimenti cambieranno i sarti, ma la stoffa per fare abiti nuovi sarà sempre
riciclata e logora.
Comprendiamo tutti i problemi che ha portato la crisi, ma non è corretto
“continuare a far pagare ai figli le colpe dei padri”.
Ma oggi è un giorno di festa e come in un telegiornale dobbiamo cambiare
pagina guardando al futuro ed alla nostra componente studentesca alla quale
chiediamo di crescere con noi, amando il posto in cui studiano e non
vedendolo solo come una parentesi necessaria della propria vita, rispettando
e facendo rispettare da chiunque quella che deve essere per loro una
seconda casa, perché preservando ci permetteranno di utilizzare le loro tasse
per migliorare anziché riparare.
Ed infine ci piacerebbe che qui in Puglia si adottassero politiche per lo
sviluppo degli atenei che concorrano ad arginare l’emorragia di studenti dalla
nostra Regione, che nascano iniziative come a Milano, Catania, Bologna
attraverso le quali, grazie alla partnership con la Regioni, ci siano le possibilità
di creare campus universitari dotati di servizi e alloggi per gli studenti.
Un discorso a parte merita quel personale che in questo momento riveste lo
scomodo ruolo di precario, che in questi anni ha lavorato e lavora al fianco di
tanti colleghi nella speranza di vedersi confermato più per i meriti che per diritti
di legge.
A loro va il nostro in bocca al lupo e la promessa che ogni sforzo verrà fatto
affinché possano programmare un futuro che è già difficile per chi oggi un
posto di lavoro sicuro lo possiede.
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Intervento del
Sono qui a dare voce ai precari della ricerca per la seconda volta in questo
Politecnico.
La prima è stata nel 2006!
Ringrazio il Rettore per aver colto l’occasione dell’inaugurazione dell’anno
accademico per dare corpo, come “parte per il tutto”, a coloro che riempiono i
dipartimenti e spesso le aule universitarie ma che sono assenti dagli Statuti,
dai Regolamenti di Ateneo e dalla partecipazione attiva alla gestione della
Università.
È questa dunque una buona occasione per fare il punto della situazione dei
ricercatori precari in Italia e formulare propositi per battaglie future…ma il
breve tempo dell’intervento mi consente solo di fare alcune considerazioni.
In questi anni, noi ricercatori precari, abbiamo costruito un movimento intorno
alla nostra idea di Università frutto dell’esperienza come studenti, ricercatori e
docenti. Sappiamo che le contraddizioni nell’Università sono tante così come
nell’intero paese. Siamo consapevoli che in Università, che vogliamo continui
ad essere pubblica, si diventa strutturati mediante concorso e che le risorse
per i concorsi così come, del resto, per la ricerca sono limitate.
Per questo riteniamo debba essere adottato quale unico criterio di selezione
del personale docente e dei ricercatori il “merito” principio ispiratore, secondo
noi, di un nuovo illuminismo che deve nascere nei singoli Atenei a partire dalla
crisi economica in corso che, una volta di più, ci ha dato la consapevolezza
che le risorse sono limitate e devono essere investite per produrre ricchezza
attraverso una strategia di sistema (collaborazione tra enti pubblici ed imprese
private) e di efficienza degli investimenti. Insomma si deve puntare su una
delle risorse nazionali più esportate: “i cervelli”. Ma come?
In merito alla selezione del personale docente e dei ricercatori, il DDL Gelmini
di fine ottobre, sulla carta mette il “Merito” al centro dei concorsi attivando, per
esempio, la “abilitazione” ai ruoli universitari mediante concorso nazionale,
frutto di una rigida selezione sia dei commissari che dei vincitori. Tuttavia
questa misura separa la disponibilità di posti da mettere a concorso nei singoli
atenei con la “idoneità”, con validità quadriennale, conseguita mediante un
concorso a cattedra che temiamo non sarà la soluzione al problema del
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precariato ma che invece, come avviene oggi nella scuola, produrrà tanti
“abilitati” senza lavoro!
Anche l’istituzionalizzazione della figura del “ricercatore a tempo determinato”
appare ahimè essere un punto debole della riforma ministeriale poiché essa,
in ottemperanza al principio dell’autonomia universitaria, rimanda ai
regolamenti dei singoli Atenei la scelta delle modalità di reclutamento
depotenziando così il voluto controllo da parte del Ministero sulla qualità del
personale di ricerca e sugli investimenti statali in esso.
Da questi due riferimenti si evince che il problema dei ricercatori precari è
sicuramente complesso ma che forse va affrontato in una prospettiva diversa.
Intanto, si deve sgombrare il campo da un fraintendimento: il metodo di
reclutamento del personale della ricerca e dei docenti nelle Università è da
sempre in Italia ed all’estero basato sulla cooptazione. Infatti anche se in
università si entra per concorso la selezione avviene, sui grandi numeri, a
monte: infatti, i migliori studenti, mediante il “dottorato”, si inseriscono in un
gruppo di ricerca gestito da singoli professori strutturati e contribuiscono
all’attività di ricerca facendosi notare come potenziali ricercatori strutturati.
E’ quindi chiaro che il precariato è un elemento costitutivo e non eliminabile
del curriculum vitae di un ricercatore.
Tuttavia il problema nasce quando il precariato non rimane limitato nel tempo
ma diventa un parcheggio per gente meritevole ma non strutturabile.
La soluzione al problema riteniamo che risieda nella preziosa “Autonomia
Universitaria”. Essa dovrebbe essere utilizzata in modo “illuminato”, attraverso
la stesura di testi cogenti quali il “codice etico” ed i “Regolamenti per
l’assunzione di ricercatori a tempo determinato, indeterminato e personale
docente di 1° e 2° fascia” stilati nel rispetto di “snelle linee guida ministeriali” e
dei contesti territoriali che gli Atenei servono; ed una attività di controllo del
loro rispetto nella consapevolezza che sono i docenti ed i ricercatori che
danno lustro al singolo Ateneo e gli consentono di sopravvivere
economicamente e di arricchire il territorio e l’intero Paese.
Da questi presupposti potrà nascere una competizione tra Atenei non basata
su cifre Ministeriali pubblicate annualmente sulle maggiori testate nazionali ma
sulla fama dei suoi ricercatori e docenti, sull’efficacia delle sue scoperte
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Relazione del Rettore
Prof. Nicola COSTANTINO
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Cingano F. e Cipollone P., I rendimenti dell’istruzione, Questioni di Economia e Finanza,
Banca d’Italia, 2009.
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L. Einaudi, La crescita dell’università, in Le prediche della domenica, Einaudi, 1987 (prima
pubblicazione 1961).
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F. Ferrara, Prefazione a Biblioteca dell’Economista, vol. III, Torino 1852.
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Genovesi A., Lezioni di economia civile, Cap. VIII, pag. 52.
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… esse non sono solo utili, ma sono di prima necessità per un paese culto e
vanno a rinforzare l’arti di disegno” 5.
Quindi, nella Napoli di 250 anni fa, era la ragione di stato, per il tramite
dell’Accademia, a suggerire al “sovrano”, cioè al governo, lo sviluppo degli
studi che oggi diciamo politecnici, e più in generale scientifici, senza
naturalmente per questo penalizzare quelli umanistici.
Ed evidentemente il sovrano Borbone raccolse questo suggerimento, se è
vero che la prima Scuola di Ponti e Strade fu fondata nel 1811 a Napoli 6, dove
– come tutti sappiamo – nel 1839 fu inaugurata la prima ferrovia italiana.
Nel 1923 sorse poi l’Università di Bari, che dovette però aspettare il 1947 per
veder nascere, attraverso una lunga serie di peripezie, la Facoltà di
Ingegneria, che gemmò infine, nel 1990, il nostro giovane Ateneo.
A 19 anni dalla Sua nascita, il Politecnico di Bari continua a crescere: nel
numero degli immatricolati e degli iscritti, nella produzione scientifica, nei
laboratori di eccellenza, nelle dotazioni infrastrutturali (saranno a breve
inaugurate le nuove sedi della Facoltà di Architettura e dei Dipartimenti ICAR
e DICA) ma non negli organici, che stanno invece subendo pesantemente –
insieme a quelli di tutte le altre Università italiane – gli effetti perversi del
parziale blocco del turnover.
Qual è oggi la nostra situazione? Quali le prospettive?
Proviamo a rispondere a questi quesiti in termini di analisi S.W.O.T.:
esaminando cioè i punti di forza (Strengths), e di debolezza (Weaknesses) del
nostro Ateneo, insieme alle opportunità (Opportunities) ed alle minacce
(Threats) che gli si prospettano.
Punti di forza
Fondamentali punti di forza sono l’eccellenza internazionale in molte aree di
ricerca, insieme alla profonda radicalizzazione nel territorio, in termini sia di
didattica che di trasferimento tecnologico e ricerca applicata: i rapporti con il
tessuto produttivo regionale e nazionale sono estremamente intensi; con le
nostre tre Facoltà, i dieci Dipartimenti, i Centri d’Ateneo, con la variegata
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Genovesi A., Lezioni di economia civile, cap IX, pag. 57.
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Albino, Cultura politecnica e sviluppo industriale in Puglia, 2009.
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Punti di debolezza
A fronte di tali punti di forza, i punti di debolezza più evidenti sono sopratutto
di contesto. Il quadro normativo nazionale appare sempre più orientato, per
strategie politiche di lungo respiro e contingenze finanziarie, da una parte a
favorire la privatizzazione del sistema universitario, e dall’altra a scaricare
l’onere finanziario degli Atenei pubblici sulle Regioni, in una sorta di
anticipazione (peraltro sul solo fronte delle uscite) di un “federalismo fiscale”
niente affatto solidale.
La nostra situazione – insieme a quella di tutte le altre università meridionali –
non può pertanto che essere preoccupante. E questo non per scarsa
considerazione da parte del nostro Governo Regionale (a cui va invece
riconosciuta una particolare sensibilità nei nostri confronti che spero sia
confermata nei prossimi anni), ma per le oggettive differenze di contesto
territoriale che dividono il Mezzogiorno dalle aree più ricche del paese. Ci
riferiamo non solo ai diversi bilanci regionali, ma anche alla presenza delle più
ricche fondazioni di origine bancaria, dei grandi gruppi industriali, ecc..
Il bilancio di previsione del 2010 comporterà, per il nostro Politecnico come
per le altre Università pubbliche, sacrifici di entità tali da rischiare di mettere in
discussione, insieme alla nostra stessa sopravvivenza, la possibilità di
continuare a fornire al territorio regionale un servizio che riteniamo di poter
definire – senza falsa modestia – assolutamente insostituibile.
Dobbiamo però riconoscere che i nostri punti di debolezza non sono solo
esogeni: abbiamo bisogno di recuperare alcuni ritardi sul fronte dei servizi agli
studenti, dell’informatizzazione dei processi amministrativi, della non sempre
equa ripartizione del personale docente nei differenti settori scientifico-
disciplinari, della razionalizzazione dell’offerta didattica tra i vari corsi di
laurea, anche a livello territoriale.
Dobbiamo fare in modo, attraverso più efficaci opere di orientamento,
tutoraggio e supporto alla didattica, che i tempi di laurea si accorcino
sensibilmente, senza per questo intaccare il livello della preparazione
conseguita. Il servizio di placement, già efficacemente attivo da alcuni anni,
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Benedetto XVI, Caritas in Veritate, 2009.
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G. Dioguardi, Ripensare la Città, Donzelli, Roma, 2001.
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Prolusione del:
Gli scopi
Le donne e gli uomini vivono immersi nella natura e cercano di comprenderla
mediante l’identificazione degli oggetti che li circondano e dei fenomeni ai
quali assistono. A tal fine definiscono alcune caratteristiche proprie o
specifiche degli oggetti e dei fenomeni in esame. Quando hanno da
effettuare una scelta essi confrontano tra loro le caratteristiche degli oggetti
selezionati in funzione dell’obiettivo da perseguire. Descrittori di queste
caratteristiche sono le grandezze, per conoscere le quali occorre seguire un
procedimento di misurazione. Spesso non si fa distinzione tra le parole
misurazione e misura, anche se a rigore la misurazione è definita dal VIM
(International Vocabulary of basic and general terms in Metrology)1 “il
procedimento per ottenere sperimentalmente uno o più valori che
possono essere ragionevolmente attribuiti ad una grandezza”. La misura
invece è il risultato della misurazione. La misurazione o più semplicemente,
come si dirà nel seguito, la misura è quindi un procedimento elementare o
complesso, che permette di quantificare, assegnando dei numeri, le proprietà
degli oggetti o dei fenomeni del mondo reale. Essa richiede teoricamente un
confronto tra una quantità incognita, il misurando, ovvero la grandezza
oggetto della misura, e una nota, assunta come campione. Per effettuare il
confronto è necessario definire le scale di misura, caratterizzate da punti
numerali, in tal modo è possibile associare a ciascuna grandezza una
posizione nella propria scala e stabilire uguaglianze, differenze, relazioni.
Misurare consente di conoscere, di descrivere e quindi di controllare
qualsiasi sistema nel miglior modo possibile.
Per comprendere appieno gli scopi della scienza delle misure, è bene porsi
inizialmente due domande: Tutto è misurabile?; Si può fare a meno delle
misure?
Non è semplice rispondere alla prima domanda; molto spesso si usa la
parola misura riferendola a grandezze per le quali non è stata definita una
scala in modo certo e condiviso. Alcuni ritengono che non tutto sia
misurabile, altri2 hanno accettato la sfida di tentare di misurare, con
riferimento alle caratteristiche degli esseri umani, ciò che attualmente sembra
impossibile misurare come ad esempio: il benessere; la naturalezza; la
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Basilica, ultimata nel 1197, mentre per il padre sacrista della Basilica il cùbito
è stato realizzato per il mercato che si teneva nella piazza antistante in epoca
medioevale, il che convaliderebbe quanto prima affermato in merito alla
presenza di campioni di unità di lunghezza sui muri delle cattedrali. Alcuni
sostenitori della prima tesi vanno oltre la semplice relazione geometrica,
collegando il cùbito barese a criteri occulti di architettura sacra che
sarebbero stati seguiti nella realizzazione della Basilica, perché essa
alludesse, con la sua geometria, a verità accessibili solo a pochi iniziati.
Esiste una vasta letteratura sulle relazioni tra la Basilica di San Nicola e
l’ordine Templare, i Rosa-Croce, ed altri. Il cùbito barese può essere, quindi,
visto come simbolo della demarcazione tra due tipi di scienza: una basata su
affermazioni verificabili o confutabili da chiunque lo voglia, con strumenti
accessibili pubblicamente in qualunque momento; l’altra fondata su autorità
ineffabili, su una sapienza che non è spiegata e non è spiegabile, su verità
per pochi iniziati, che gli iniziati non possono mettere in discussione, pena la
radiazione e la persecuzione.
Fu Carlo Magno nell’Ottocento che, avendo avviato le grandi riforme
amministrative, economiche e giudiziarie dell’impero carolingio promulgò un
decreto sull’unificazione dei campioni di massa ed istituì il principio che i
costruttori di bilance, una volta ottenuta la licenza di vendita, fossero gli unici
responsabili del loro corretto funzionamento. Alla caduta dell’impero
carolingio, con la moltiplicazione dei centri di potere, la monarchia in Francia
, il regno d’Italia, il sacro romano impero della nazione germanica, si
moltiplicarono anche le unità di misura.
Nonostante la necessità di unificazione fosse sentita inizialmente nell’ambito
del commercio per facilitare le operazioni di scambio, in seguito fu la
comunità scientifica, con l’impulso dato da Galileo Galilei al metodo
sperimentale, a ritenere imperativa tale unificazione, in quanto i diversi
scienziati volevano far conoscere e confrontare i risultati ottenuti
nell’esecuzione di una stessa misurazione, anche se condotta in luoghi
diversi.
Solo alla fine del diciottesimo secolo si assistette alla nascita di sistemi di
misura che lentamente, ma inesorabilmente acquisirono carattere mondiale.
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Non devono avere paura dei dubbi che assalgono loro, nella consapevolezza
che essi scaturiscono da fattori molto spesso fortuiti o imprevedibili. È anzi
auspicabile che il dubbio rientri nell’etica dell’esistenza umana, perché si
possa sperare in una più cosciente crescita individuale e collettiva. Il
parallelismo tra la scienza delle misure e quella umana potrebbe continuare
esaminando i concetti di precisione, accuratezza e taratura, ma i limiti di
tempo di questo intervento non lo consentono.
Per il benessere degli esseri umani
Una filosofia di vita in cui il desiderio di avere, di possedere beni e di
consumarli, prevale spesso su aneliti di solidarietà, sul bisogno di dare
qualcosa di noi agli altri senza fini utilitaristici, sta portando donne e uomini a
vivere con ansia e schizofrenia la loro esistenza. Erich Fromm nel suo libro
“La rivoluzione della speranza; verso una tecnologia umanizzata”11,
individua come soluzione a questo serio problema una nuova filosofia dello
sviluppo che veda l’affermarsi della priorità della vita sulla morte. La
speranza è un elemento fondamentale di ogni tentativo di cambiare la
società. Fromm distingue la speranza passiva, che è attesa e
rassegnazione, da quella attiva, che è invece la proiezione nel futuro. Una
grande speranza è che questo nuovo millennio sia dedicato al benessere
degli esseri umani.
Un obiettivo a tal riguardo è certamente quello di migliorare la qualità delle
misure in campi strategici quali l’ambientale e il biomedicale, dove occorre
stabilire se la grandezza oggetto della misura rientri in limiti specificati e ben
definiti. Oggi si assiste ad un notevole incremento di strumentazione
biomedicale, che consente non solo la definizione della malattia, ma anche la
misura della sua gravità, la determinazione dei fattori sia prognostici sia
predittivi di risposta della cura. Quanto più una struttura ospedaliera è dotata
di sistemi sensori in grado di fornire in tempi brevi tutte le informazioni
necessarie ad una rapida diagnosi, tanto minore sarà l’incertezza con la
quale il medico assumerà le decisioni sul da farsi4.
Nei suddetti campi di applicazione le misure devono essere più corrette
possibili. Colui che esegue la misura deve avere ben presente lo scopo a cui
è destinato il risultato, deve fissare quantitativamente un limite massimo
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Bibliografia
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N° 2, A&T Editore, Torino, giugno 2008
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[12] Sartori, S., Incertezza di misura, ambiguità e diritto, Tutto Misure, A&T
Editore, Torino, vol. 1, n. 1, 1999
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ambientale degli agenti fisici: nuove prospettive e problematiche
emergenti”, Vercelli, 24-27 marzo 2009
[14] UNI CEI ENV 13005, Guida all’espressione dell’incertezza di misura,
2000
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Laudatio
Prof. Claudio D’AMATO
GUERRIERI
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questa non è una ricetta, essa può essere a volte necessaria contro i molti
errori compiuti in nome del “progresso”.
L’architetto “integrale”
L’opera di Enzo Siviero procede in questa direzione, e presuppone il colloquio
interdisciplinare con l’architetto, e l’attenzione ai valori della storia soprattutto
sub specie paesaggistica. E ciò è vero da quando egli scelse di insegnare
nelle Facoltà di Architettura: dove il tema del coniugare forma e struttura è
soprastante all’altro, più profondo e complesso, del come avvicinare e fondere
il sapere dell’architetto con quello dell’ingegnere strutturista. O se vogliamo
come concretamente realizzare l’ideale giovannoniano dell’architetto integrale.
I modelli dei suoi ponti provano a coniugare la modernità e la leggerezza dei
materiali artificiali, tentando al tempo stesso di sottrarli al falso fascino di
un’architettura modernista, hightech, destrutturata, priva di memoria.
Tradizione e modernità
L’azione culturale di Siviero ci rivela la sua profonda convinzione
nell’importanza primaria nella pratica, sia del progettare che del costruire,
della coscienza critica del lascito della tradizione, e del suo ruolo attivo nel
determinare scelte e procedure.
Come p.es. nel caso del cemento armato, dove più acuto è il dilemma del
dare forma alla sua consistenza plastica, di fornire “una” corretta risposta al
rapporto fra forma architettonica e struttura.
9
Come ha detto T. S. Eliot << La tradizione […] non può essere ereditata, e
se la si desidera, la si deve conquistare con grande fatica. Essa richiede in
primo luogo quel senso della storia indispensabile a chiunque voglia
continuare ad essere poeta oltre il suo venticinquesimo anno di vita; ed il
senso della storia a sua volta esige la capacità di percepire non solo il passato
come passato, ma percepire la presenza del passato. >>
Ponti italiani artigianali
Mi piace affermare che i ponti di Enzo Siviero sono ponti “italiani artigianali”
non perché essi posseggono una cifra stilistica da made in Italy, ma perché
sono profondamente in continuità con quel modo di progettare e costruire
9
T. S. Eliot, Tradition and the Individual Talent, 1920
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tipicamente italiano, volto allo studio di sezioni resistenti sempre più ridotte,
varianti organicamente con la distribuzione delle tensioni all’interno delle
strutture, che condusse alle ricerche su quel “minimo strutturale” che fu l’onore
dell’ingegneria strutturale negli anni trenta e quaranta e la premessa alla
grande fioritura dell’architettura strutturale italiana del secondo dopoguerra.
Questo filone di ricerca sulla costruzione in cemento armato, a cui a pieno
titolo appartengono le opere di Enzo Siviero, che impiega elementi organici in
strutture organiche –si pensi p. es. alle ricerche di Sergio Musmeci– o
elementi seriali in strutture organiche –si pensi p. es. alle ricerche di Pierluigi
Nervi e di Riccardo Morandi– costituisce l’interpretazione alternativa alla
serialità totale che sembrava dover costituire, attraverso i processi di
razionalizzazione, standardizzazione e prefabbricazione, il carattere
dominante della costruzione in calcestruzzo armato della seconda metà del
XX secolo, e poi di quella in acciaio.
I ponti di Enzo Siviero presuppongono la sincronicità del progettare e del
costruire; e per questo motivo sfuggono al terribile destino della
ingegnerizzazione del progetto. I ponti di Enzo Siviero fanno propri quegli
ideali architettonici mediterranei per i quali la costruzione non va banalmente
intesa come il momento realizzativo del progetto, quello in cui si traducono
scelte formali in scelte tecniche, apparentemente neutrali: per essi la
costruzione è atto prima di tutto mentale, consustanziale alla sua intuizione
tettonica e tipologica; ne esprime, attraverso la techné, i suoi specifici,
tendenziosi valori; coincide con il progetto prima ancora che con la sua
realizzazione; è fatto mentale, è atto creativo originario, espressione e al
tempo stesso strumento di aggiornamento dei metodi di progetto.
Arte, scienza e tecnica del costruire
Una linea di pensiero, prima ancora che di ricerca, che cosciente che la
costruzione moderna è, come sempre, prodotto di continui aggiornamenti
all’interno del processo tipologico, ci conduce alla semplice quanto illuminante
considerazione che Albenga pose ad introduzione dei suoi fondamentali due
volumi sulla tecnica dei ponti: << L’esperienza altrui e quella nostra, passate
al vaglio di una critica cauta e serena, ci suggeriscono l’architettura generale
dell’opera e cioè: materiale, tipo, lineamenti caratteristici, dimensioni
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Giuseppe Albenga, I ponti. Volume 1°: L’esperienza, Torino 1958, pag. 3.
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Motivazione della Laurea
honoris causa
Prof. Attilio PETRUCCIOLI
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Lectio del:
BRIDGESCAPE
Ponti e viadotti: architetture del (nel) paesaggio.
Enzo Siviero
Il tempo è il cammino della vita, un percorso verso il desiderio che è in noi, un
racconto continuo dell’ignoto, che attimo dopo attimo, materializza i nostri
sogni, un ponte sull’eternità capace di superare ogni ostacolo, vincere la
nostra solitudine, condividere il nostro dare e ricevere in cambio sempre e
solo amore.
Tempo e spazio: mondi diversi per suggestioni simili. Un ponte tra dimensioni
non confrontabili tra loro come momento di riflessione poetica per un oggetto
che tutti ormai considerano nella sua accezione metaforico-metafisica
piuttosto che nella sua dimensione fisica, il ponte che appartiene all’uomo per
la sua tradizione, la sua storia, ieri, come oggi, ma soprattutto domani.
PREFAZIONE
La dimensione concettuale del ponte è ormai oggetto di ampia e diffusa
considerazione. Lo si comprende dagli avvenimenti più spettacolari, pur non
privi di polemiche, come nel caso delle opere di Calatrava a Venezia e a
Reggio Emilia; lo si comprende dagli esempi, ormai numerosi in ogni parte
d’Italia, in cui “l’approccio culturale” alla progettazione di ponti, produce esiti
qualitativi di rilievo, risultato di una sintesi tra il lavoro di ingegneri e quello di
architetti; è evidente, infine, nel mondo sfumato delle relazioni che i ponti
instaurano con il paesaggio e quindi con le persone, scavando nei significati
delle sue metafore. Questa ribalta (o rivalsa, se si considerano gli ultimi trenta
o quarant’anni di ponti e viadotti di bassa qualità) conferma e sostiene il mio
lavoro sui ponti, che conduco da molti anni cercando di elevare il progetto ad
un ruolo culturale. Un atteggiamento, dunque, che affonda le sue radici
nell’antica (ed oggi più che mai auspicata) triade vitruviana, firmitas, utilitas,
venustas, capace di interpretare il luogo ed il paesaggio, in accordo con gli
intenti normativi sviluppatisi negli ultimi anni.
Una delle connotazioni più affascinanti e nello stesso tempo complesse dei
ponti è la loro “comunicazione”, che assume per me un doppio significato: il
primo riguarda la divulgazione del tema del ponte, degli aspetti culturali e delle
relazioni tematiche ad esso associate, ormai indispensabili per definirlo con
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Il nuovo ponte sul Fiume Sacco, inaugurato nel 2005 costituisce parte di una
serie di interventi del nuovo assetto della rete stradale reso necessario dalla
costruzione della nuova linea ferroviaria ad alta velocità da Roma a Napoli.
Rispetto alla nuova linea ferroviaria, il ponte ha una posizione trasversale, con
una delle due spalle molto ravvicinata al rilevato ferroviario, sotto il quale era
necessario che passasse. Tale infelice configurazione stradale ha
condizionato la ricerca progettuale, che si è indirizzata verso un’opera dal
profilo geometrico molto basso, un ponte ad archi ribassati a via superiore,
compositivamente indipendente rispetto alla retta della ferrovia. La vicinanza
di un ponte storico ad arcate multiple a delle rovine di un antico convento di
cui rimane una piccola torre ha indotto una progettazione attenta al rispetto
del luogo e delle sue preesistenze.
L’opera si sviluppa per una lunghezza complessiva di circa 132 m ed è
costituita da due archi, con luce di 56 m e freccia di 5.6 m, che sostengono
l’impalcato ad essi collegato in corrispondenza della chiave e delle spalle.
La “permeabilità” della struttura costituisce il tratto caratteristico del ponte e
raggiunge contemporaneamente lo scopo di superare l’alveo senza interferire
con il suo ambito naturale e contemporaneamente diminuire l’interferenza con
il flusso dell’acqua, incrementando la portata e diminuendo la spinta idraulica
trasversale.
Le tecnologie di industrializzazione del processo costruttivo con l’utilizzazione
di elementi prefabbricati che assumono il ruolo di casseforme a perdere e, una
volta integrati nella struttura con getti di completamento, costituiscono
elementi portanti, consentono di rendere competitive anche tipologie
costruttive, quali quelle ad arco, che per la complessità realizzativa e
l’onerosità economica, sono state sostituite quasi completamente da soluzioni
formalmente banali a travata. Tecniche costruttive innovative, dunque,
permettono di recuperare elementi compositivi della tradizione che si stanno
perdendo, e di dialogare con un paesaggio che, al contrario, ne è ancora
positivamente influenzato.
Ponte-viadotto sul Canale Taglio (Venezia)
Il ponte sul Canale Taglio di Mirano, facente parte delle opere complementari
al nuovo passante autostradale di Mestre, nasce in un difficile contesto,
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che oggi sembra aver raggiunto livelli inaccettabili: si manifesta anche, come
spesso avviene in questi casi, con un aumento del traffico veicolare ed una
mancanza di integrazione con le altre funzioni che rendono viva la città. In
particolare, le strade che le attraversano la città e appaiono sovrapporsi
letteralmente agli altri elementi che la compongono, creando cesure alla
fruizione pedonale in piena sicurezza.
Lo studio costituisce il tentativo, a partire da alcuni nodi critici di traffico, di
progettare delle strutture in grado di organizzare gli elementi del paesaggio
urbano: la convinzione che ha guidato la ricerca progettuale, infatti, è quella
che raccogliendo i segni della città sedimentati nel tempo e ricomponendoli
tramite architetture localizzate in punti strategici, si possa nel contempo
sbloccare il coerente sviluppo della città e favorire il progredire di una
coscienza identitaria culturalmente condivisa.
La ricerca progettuale si è concentrata in quattro punti della città, ed ha
prodotto quattro ponti pedonali ed una torre di 69 piani. Queste architetture,
venendo incontro alle esigenze di espansione proprie di una città-capitale,
sono state studiate per divenire punti di riferimento, luoghi attorno ai quali
costruire un nuovo paesaggio. Il legame che unisce i quattro nuovi punti di
riferimento è il tentativo di mettersi in relazione non solo con i caratteri
morfologici della città ma anche e soprattutto con la cultura della popolazione,
che anche in tal modo può trovare le ragioni della convivenza sociale.
PASSERELLE PEDONALI
Ponte pedonale “acquario” e “parco est”
L’idea è quella di una scultura leggera che ha origine dal percorso pedonale
esistente lungo la cinta muraria storica, sovrappassa la strada e si snoda in tre
traiettorie alternative rispettivamente verso il mare e l’acquario (lunghezza
complessiva circa 220 m), sul lungomare (circa 195 m) ed infine la terza che
sbarca sull’aiuola verde attrezzata (circa 200 m). Sullo snodo dei tre percorsi e
quindi baricentriche planimetricamente, hanno origine le due antenne da cui
partono gli stralli in acciaio di sostegno dell’impalcato.
Per la geometria planimetrica del ponte si è scelto un andamento “morbido”,
meno invasivo rispetto ad una configurazione rettilinea e comunque più aperto
alla multifunzionalità che la nuova struttura deve essere in grado di garantire.
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