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r u p p o i o v a n i

un
Dal dizionario [in-con-trà-re]
1 Trovarsi per caso alla presenza di qualcuno o qualcosa.
2 Riunirsi con qualcuno, secondo un precedente accordo.
3 Imbattersi in qualcosa.

Dal Vangelo secondo Giovanni 1,35-39


“Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e,
fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: “Ecco l’agnello di Dio! ”.
E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate? ”.
Gli risposero: “Maestro, dove abiti?”
Disse loro: “Venite e vedrete”.

Non esiste la solitudine. Stai sempre preparando un incontro con qualcuno là fuori
anche se non lo sai.
(Fabrizio Caramagna)

«Se vuoi arrivare primo, corri da solo; se vuoi arrivare lontano, cammina insieme»
(Proverbio del Kenya)
“Fango” è la canzona che più amo di Jovanotti (Lorenzo Cherubini). L’amo per le sue parole e per i concetti
espressi, dipinti, scolpiti. “FANGO” è una parola che amo, Davvero. Penso al termine latino che ne rappresenta
l’essenza, HUMUS e non posso fare a meno di riflettere sul fatto che da questa parola ne derivi un’altra di assoluta
bellezza: UOMO. Siamo esseri umani, siamo uomini, siamo humus, siamo fango. Il fango se ne sta lì, per terra,
nelle pozzanghere, solo, in attesa di essere calpestato, schiacciato, dimenticato eppure non rinuncia mai a urlare al
mondo le sue componenti: acqua e terra, che per noi rappresentano la vita. “Io lo so che non sono solo anche
quando sono solo”: è tutto qui il senso del nostro esistere, penso, mentre le parole scorrono nella mia testa per
raggiungere lo stomaco. Ognuno è solo al mondo ma al contempo non lo è perché il pensiero che ci rende umani e
che spesso è altro da noi, ci fa costantemente compagnia. Sappiamo che anche nella solitudine più totale non
siamo abbandonati al nulla, al vuoto. Ci basterà pensare al resto dell’umanità che ci circonda, al mondo che pulsa
e che vibra fuori dalle mura del nostro dolore per trovare risposta alla nostra sofferenza e capire come curarci con
le persone, lasciarci contagiare dalla bellezza dell’essere solidali, stretti, avvinghiati, partecipi dell’anima degli
altri. A un certo punto però Jovanotti canta: “stare con le antenne alzate verso il cielo”: cielo vuol dire Dio, il
riferimento ultimo con cui anche nelle difficoltà stabilire un contatto, lanciare un S.O.S. Pregare è sintonizzarsi
sulla stessa lunghezza di Dio e parlargli. Non siamo soli prima di tutto perché c’è Dio, in Dio vicino che si è fatto
visibile in Gesù.
Occorre sollevarsi per guardare le cose dall’alto e contemplarne la bellezza, la preziosità. Ci parla di scale da salire
che vengono paragonate a scivoli perché se è vero che la vita è un percorso in salita è anche vero che il dolore, la
sofferenza, la disperazione, possono diventare la via d’accesso per la nostra felicità. Sta qui il senso di tutto, il
senso del dolore: trasformare le scale in scivoli, abbracciare la disperazione è farne felicità. Non cercare la fuga dal
dolore ma imparare a danzare sul suo dorso. E ancora, il cantautore scrive di pericoli concreti, reali, fagocitanti
quali il non riuscire più a percepire la vita e le emozioni, l’incapacità di sentirci l’anima nel corpo, la felicità nelle
membra e la voglia di vivere nell’accettazione della nostra prismatica essenza. Queste parole suonano come un
invito a fuggire l’aridità emotiva, la siccità etica. L’incomunicabilità che caratterizza il nostro mondo viene dipinta
con poche immagini ma ben precise ed evocative: dialoghi interrotti, mozziconi di pensieri, frammenti di
riflessioni. Perché il mondo corre e strilla, ci urla nelle orecchie e rischia di farci confondere, di farci divenire sordi.
Tocca a noi, alla nostra forza e alla nostra volontà imparare a cantare con una voce che, seppur non più urlante, sia
più forte e persuasiva. L’amore diventa lo strumento, unico e indispensabile che può tenere in vita l’umanità,
fungere da cemento tra noi e gli altri, tra noi e la felicità. “E mi confondo con il cielo e con il fango”, conclude poi
l’autore. E ha ragione perché il senso di tutto, il senso di quello che siamo, forse sta proprio nell’incontro tra le
labbra terra e quelle del cielo. In questo bacio tra miracolo e paura.

Io lo so che non sono solo e con il fango…


anche quando sono solo…
la città un film straniero senza sottotitoli
sotto un cielo di stelle e di satelliti una pentola che cuoce pezzi di dialoghi
tra i colpevoli le vittime e i superstiti come stai quanto costa che ore sono
un cane abbaia alla luna che succede che si dice chi ci crede
un uomo guarda la sua mano e allora ci si vede
sembra quella di suo padre ci si sente soli dalla parte del bersaglio
quando da bambino e diventi un appestato
lo prendeva come niente e lo sollevava su quando fai uno sbaglio
era bello il panorama visto dall'alto un cartello di sei metri dice
si gettava sulle cose prima del pensiero tutto è intorno a te
la sua mano era piccina ma ti guardi intorno e invece non c'è niente
ma afferrava il mondo intero un mondo vecchio che sta insieme
ora la città è un film straniero solo grazie a quelli che
senza sottotitoli hanno ancora il coraggio di innamorarsi
le scale da salire sono scivoli, scivoli, scivoli e una musica che pompa sangue nelle vene
il ghiaccio sulle cose e che fa venire voglia di svegliarsi
la tele dice che le strade son pericolose e di alzarsi
ma l'unico pericolo che sento veramente smettere di lamentarsi
è quello di non riuscire più a sentire niente che l'unico pericolo che senti veramente
il profumo dei fiori l'odore della città è quello di non riuscire più a sentire niente
il suono dei motorini il sapore della pizza di non riuscire più a sentire niente
le lacrime di una mamma il battito di un cuore dentro al petto
le idee di uno studente la passione che fa crescere un progetto
gli incroci possibili in una piazza l'appetito la sete l'evoluzione in atto
di stare con le antenne alzate verso il cielo l'energia che si scatena in un contatto…

io lo so che non sono solo…


e rido e piango e mi fondo con il cielo

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