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• Cooperazione militare
UEO: Unione dell’Europa occidentale, fondata con il Trattato di Bruxelles nel 1948, che poi si
è estinta nel 2011
NATO: L’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico , fondata nel 1949
• Cooperazione politica
Consiglio Europeo: nel 1949, che ha dato vita alla Convenzione Europea per la protezione dei
diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali nel 1950 ( CEDU).
Tutte queste organizzazioni sono organizzate secondo il metodo della cooperazione intergovernativa,
cioè il metodo tradizionale: gli Stati danno vita ad una organizzazione intesa come struttura per
agevolare la loro cooperazione. Ciò significa che gli Stati non conferiscono loro dei poteri sovrani.
Gli elementi che caratterizzano il metodo della cooperazione intergovernativa sono:
1. Tendenziale prevalenza degli organi di Stati rispetto agli organi di individui. – Negli organi
dell’organizzazione siedono dei soggetti che rappresentano gli Stati di cui sono cittadini, che
rispondono alle direttive dello stesso. Sono Rappresentanti degli Stati;
2. Carattere non vincolante delle decisioni di tale organizzazione. – Gli Stati conferiscono
raramente all’organizzazione il potere di prendere decisioni vincolanti. Le decisioni prese da
tali organizzazioni hanno il carattere di raccomandazioni. Tal volta, quando sono dotate del
potere di adottare decisioni vincolanti, questa deve essere assunta all’unanimità;
3. Unanimità delle decisioni vincolanti. – Ogni Stato deve essere favorevole alla decisione, e non
può vedersi imposto una decisione assunta dagli altri. Ciò comporta un diritto di VETO ad ogni
Stato;
4. Mancata produzione di effetti diretti. – La decisioni vincolanti, tendenzialmente, non
producono effetti sugli individui degli Stati (persone fisiche e giuridiche). Quando ciò avviene si
parla di EFFETTI DIRETTI DELL’ATTO. Quando l’atto produce effetti, cioè diritti ed
obblighi, solo in capo agli Stati non si può parlare di effetti diretti;
5. Non esiste un sistema di controllo giurisdizionale che controlla la validità degli atti
dell’Organizzazione e il rispetto degli obblighi discendenti dall’organizzazione da parte dei
membri della stessa.
Alla cooperazione intergovernativa si contrappone la cooperazione comunitaria, che ha caratteristiche
opposte.
L’ispirazione del cammino comunitario, che ha portato alla nascita delle Comunità Europee,
tradizionalmente si fa risalire alla Dichiarazione Schuman del 9 Maggio 1950. Il Ministro degli esteri
francese Robert Schuman ha pronunciato tale dichiarazione nella sala dell’Orologio del ministero degli
esteri francese.
“… la pace mondiale non può essere salvaguardata se non con sforzi creativi proporzionale ai pericoli che la
minacciano il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il
mantenimento di relazioni pacifiche”…”l’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarò costituita tutta insieme”
… “essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto (c.d. politica dei piccoli
passi). “a tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l'azione su un punto limitato ma
decisivo.
Il governo francese propone di mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una
comune Alta Autorità, nel quadro di un'organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei.
La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo
economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si
sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime.”
“… Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all'instaurazione di una
comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da
sanguinose scissioni.
Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni
saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di
una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace.”
Schuman insieme a Jean Monnet (altro padre fondatore delle Comunità europee e ideatore della
dichiarazione di cui sopra) ebbero l’intuizione che se si fossero integrate le economie del continente
europeo, cominciando proprio dalla produzione del carbone e dell’acciaio, sarebbe stato impensabile
una guerra tra paesi dello stesso continente, perché l’integrazione delle economie comporta la reciproca
convenienza a mantenere relazioni pacifiche.
La dichiarazione Schuman è illuminante perché fa piazza pulita di un luogo comune in base al quale le
Comunità europee sono una costruzione meramente economica, in maniera dispregiativa con
affermazione del tipo l’Europa dei mercanti. La dichiarazione mostra che l’integrazione economica è
uno strumento per il raggiungimento di un fine politico che è quello della pace tra gli Stati del
continente europeo.
L’idea che sta alla base del cammino di integrazione europea è quella di creare una solidarietà di fatto,
che comincia da un settore particolare dell’economia quale il settore della produzione del carbone e
dell’acciaio, per estendersi all’intero mercato fino ad altri campi, diverso da quello economico.
La dichiarazione Schuman contiene un fine, un mezzo e un metodo.
Il fine è la pace; il mezzo è l’integrazione economica, e il metodo è la cd la politica dei piccoli passi, cioè
quella per cui l’integrazione si realizza non tutta insieme, ma attraverso realizzazioni concrete.
A seguito della dichiarazione SCHUMAN, trae origine la PRIMA DELLE COMUNITÀ EUROPEE,
che è la Comunità Europea del carbone e dell’acciaio (la CECA) che è stata istituita con il Trattato di
Parigi firmato nel 1951, ed entrato in vigore l’anno successivo ,nel ‘52.
Tale trattato è l’unico dei Trattati istitutivi delle Comunità Europee che aveva una durata
predeterminata, venne infatti prefissata una durata di 50 anni, per cui la CECA si è estinta nel 2002, e
le relative competenze, sono state oggi assorbite dall’UE.
A questo punto devo aprire una piccola parentesi relativa al processo di formazione dei trattati
internazionali, mi serve per spiegarvi quello che è accaduto con alcuni trattati istitutivi e con
alcuni trattati modificativi di cui parleremo domani.
Come si forma un trattato internazionale?
Il processo di formazione di un trattato internazionale passa normalmente attraverso 4 fasi:
• Negoziazione
• Firma
• Ratifica
esistono anche trattati stipulati in forma semplificata che non passano attraverso la ratifica e
scambio delle ratifiche, quindi producono effetti vincolanti al momento della firma.
La negoziazione è la fase nella quale i rappresentanti degli Stati predispongono il testo
dell’accordo, questa fase si conclude con la firma da parte dei rappresentanti degli Stati, ma la
firma ha un valore di autentificazione del testo, cioè non comporta la produzione di effetti
vincolanti del Trattato, seguiranno poi le fasi della ratifica, ovvero l’atto con il quale gli organi
competenti degli Stati (che sono indicati dall’ordinamento costituzionale di ciascuno Stato)
esprimono la volontà di impegnarsi al rispetto degli obblighi internazionali sottoscritti dai
plenipotenziari (in Italia la ratifica è atto del Presidente della Repubblica, controfirmato dal
ministro competente, ma ci sono alcune circostanze previste dall’art. 80 della Costituzione,
nelle quali la ratifica deve essere autorizzata dal Parlamento, e quindi occorre una legge di
autorizzazione alla ratifica) e la fase finale, quella dello scambio o il deposito delle ratifiche con
le quali ciascuno Stato porta a conoscenza delle altre parti dell’accordo l’avvenuto processo di
ratifica, e a questo punto i Trattati producono effetti vincolanti.
Vi dico tutto questo perché nella cronologia che vi ho messo su internet e anche nella
trattazione orale delle lezioni, vi dirò che c’è una data della firma e poi una entrata in vigore, la
distinzione è data dal fatto che il Trattato non entra in vigore con la firma, e difatti noi vedremo
che ci sono stati Trattati che sono stati firmati, ma che non sono mai entrati in vigore perché si è
inceppato il meccanismo di ratifica.
Quando parleremo delle fonti, e in particolare dell’art. 48 sul processo di revisione dei Trattati,
vedremo come possono essere modificati i Trattati. L’art. 48 dispone che i Trattati comunitari
diventano efficaci soltanto quando tutti gli Stati membri hanno ratificato.
Questo vi spiega la distinzione tra firma ed entrata in vigore di un Trattato.
Il Trattato CECA è stato firmato nel 1951 ed è entrato in vigore il 23 Luglio del 1952 e si è estinto nel
Luglio del 2002, avendo una durata predeterminata.
La Comunità europea del carbone e dell’acciaio era un’organizzazione settoriale, che riguardava una
particolare branca dell’economia, ossia la produzione di due materie prime: il carbone e l’acciaio.
Perché proprio il carbone e l’acciaio?
Perché sono due materie prime fondamentali per l’industria bellica (e questo è conforme allo spirito
della dichiarazione Schuman, ovvero quello di creare un unione che consentisse la pace tra i popoli).
È una comunità, quindi, settoriale, ma costituisce il primo passo verso il vasto processo di integrazione
europea.
La CECA è una comunità che si basa su una logica differente rispetto alle altre organizzazioni
internazionali (di cui vi ho detto nella prima parte della lezione quando abbiamo parlato di metodo
della cooperazione intergovernativa).
Infatti la CECA si caratterizza per il fatto che:
• L’essenziale del potere, appartiene ad una autorità indipendente dagli stati membri, che prende
il nome di Alta autorità;
Altri organi sono:
• L’essenziale dei poteri sta in capo ad un soggetto che prende il nome di Alta autorità, è
indipendente dagli Stati membri, quindi non è un organo di rappresentanti degli Stati, ma è
composto da individui che siedono a titolo personale e che non sono, o almeno non dovrebbero
essere, titolari o portatori di un interesse del proprio Stato membro, ma si muovono in modo
indipendente per realizzare un interesse della comunità;
• Francia
• Germania
• Italia
• Belgio
• Lussemburgo
• Olanda
La strada intrapresa dai fondatori delle comunità europee, prevedeva la cosiddetta “politica a piccoli
passi”, quindi la integrazione progressiva attraverso realizzazioni concrete, e, proprio per essersi
discostata dalla politica dei piccoli passi, il progresso di integrazione europea, nel 1954, subisce il suo
primo fallimento:
di fronte all’aggravarsi della guerra fredda, che vedeva contrapposto il blocco occidentale e l’ex blocco
sovietico, si era posta la necessità di addivenire ad un riarmo della Germania, ma la 2° guerra mondiale
era ancora vicina, e gli Stati avevano una resistenza alla circostanza del riarmo, era difficile pensare ad
una rinascita dell’esercito tedesco indipendente, e quindi l’idea che si escogitò, fu quella di inserire il
riarmo tedesco nel quadro europea, all’interno di una comunità sovrannazionale sullo stampo della
CECA, e per questo si diede origine ad un progetto di una comunità europea di difesa, la CED, ma si
trattava di rinunciare ad una fetta importante della sovranità, quale era la politica militare che fa parte
del nocciolo duro delle competenze statali, non ci si trova, quindi, dinnanzi ad una integrazione
progressiva, ad una politica a piccoli passi, infatti, anche per questo motivo, il progetto fallisce, il 30
Agosto del 1954, quando l’Assemblea Parlamentare francese si rifiuta di ratificare il Trattato istitutivo
della comunità europea di difesa, che era stato firmato a Parigi il 27 Maggio del ‘52, e mai entrato in
vigore.
Perché l’assemblea nazionale rifiuta di ratificare il trattato CED?
Tra le cause c’è la morte di Stalin, che aveva attenuato, in quel particolare frangente, il conflitto tra
l’Unione Sovietica e il blocco occidentale;
ci sono una serie di problemi interni della Francia, riguardanti ad esempio, il consistente impegno
militare francese in Algeria, e la guerra in Indocina, che stava andando malissimo, quindi la Francia
mal tollerava rinunce ai propri poteri sovrani in ambito militare,
e poi vi era una frangia di forze politiche in Francia che rifiutava l’idea di un riarmo tedesco.
(Senza dimenticare che, come abbiamo già detto, il motivo più profondo che porta al fallimento
dell’istituzione della comunità europea di difesa [comportando, questa, la rinuncia di una parte
importante della sovranità da parte degli Stati ovvero della politica militare] è il discostarsi dalla
politica dei piccoli passi, probabilmente i tempi non erano ancora maturi, e non lo sono neanche
adesso, perché sebbene si sia pervenuti a forme di cooperazione in materia di politica estera, come
vedremo più avanti, queste sono fondate sul metodo della cooperazione intergovernativa, perché, come
vedremo, nella PESC ovvero nella politica estera e sicurezza comune, l’integrazione non è fondata sul
metodo comunitario, ma più sul metodo della cooperazione intergovernativa, infatti in materia di
politica estera l’UE decide all’unanimità).
In seguito a questo fallimento la prospettiva di un unione politica è stata scartata per molto tempo, e
l’idea di cooperare nel campo della politica estera è stata ripresa soltanto negli anni ’70 e si è pervenuti
a risultati che comunque non sono analoghi a quelli che si è pervenuti in altri settori, come quello della
creazione di un mercato comune, perché in tema di politica estera e politica militare, non si può dire
che gli Stati abbiano ancora rinunciato alla propria sovranità.
Per quanto concerne il riarmo tedesco, questo avvenne nel ‘55 nell’ambito della adesione della
Germania alla NATO, quindi comunque in un quadro di una cooperazione internazionale.
In seguito al fallimento della comunità europea di difesa si è ritornati ancora all’idea della integrazione
progressiva, e il rilancio di tale processo si ebbe nel 1955 con la conferenza di Messina( era messinese il
ministro degli esteri dell’epoca, Gaetano Martino) che ha incaricato una Commissione di esperti,
guidata dal belga SPAAK, di studiare le iniziative opportune per addivenire ad un rilancio del processo
di integrazione, e in particolare, la commissione era incaricata di studiare le iniziative da seguire allo
scopo di creare un unione economica fondata su un mercato comune, e poi, di avviare altre iniziative
settoriali sullo stampo di quella avviata con la CECA in settori specifici.
Alla fine di tali studi, la Commissione elabora due progetti, uno più ambizioso e ampio prevedeva la
creazione di un mercato comune tra gli stati aderenti alla CECA, poi un altro progetto più settoriale
che riguardava la creazione di una comunità europea per l’energia atomica.
Entrambi i progetti sono stati poi approvati, e il 25 marzo del 1957, si arriva alla firma dei trattati di
Roma, che sono 2:
• CEE
Si tratta di 3 comunità distinte, che hanno una struttura istituzionale in parte separata, in particolare,
queste 3 comunità avevano in comune:
• La Corte di giustizia;
Questo evidentemente dava luogo ad una complicazione inutile, per cui, per arrivare ad una
razionalizzazione, nel 1965 venne concluso il Trattato di Bruxelles, anche detto “Trattato di fusione
degli esecutivi”, firmato nell’Aprile del ‘65 ed entrato in vigore nel Luglio dello stesso anno.
Trattato di fusione degli esecutivi perché prevedeva un solo Consiglio e una sola Commissione per le 3
comunità, quindi, in questo modo si ebbe un unificazione degli organi, mentre le competenze delle
comunità rimangono separate e discendono dai diversi trattati istitutivi,
per cui Commissione e Consiglio si riuniscono e utilizzano competenze e procedure che sono diverse
sulla base dei temi che vengono volta per volta trattati.
Il cammino dell’integrazione europea, subisce poi delle nuove battute di arresto, la principale si ha
proprio nel 1965 ( lo stesso anno del Trattato di fusione degli esecutivi), con l’avvento al potere in
Francia del generale De Gaulle che si dimostrava ostile al concetto di comunità soprannazionale e di
cessione di sovranità, era piuttosto in favore di un “Europa delle patrie”, quindi di un Europa in cui
gli Stati collaborano ma senza cedere la propria sovranità ad organi sovrannazionali.
Vi dicevo che la battuta di arresto nel processo di integrazione si ha nel 1965 allorquando si verifica la
cosiddetta “crisi della sedia vuota” , in sostanza, la Francia giudicava inaccettabili alcune proposte
dalla Commissione in tema di politica agricola comune ( PAC), che è un ambito di interesse essenziale
per alcuni paesi membri, e allora DE GAULLE ritira il proprio rappresentante dal Consiglio della
Comunità.
Tale crisi della sedia vuota fu risolta alcuni mesi più tardi, nel Gennaio del ’66 con il compromesso di
Lussemburgo (che non è un Trattato ma una dichiarazione politica) con la quale gli Stati affermano
che le decisioni ritenute di interesse essenziale per uno Stato, sarebbero state prese all’unanimità.
Ma tale compromesso rappresentava un significativo passo indietro rispetto al metodo comunitario
(che prevede la prevalenza del voto a maggioranza), perché è sufficiente che uno Stato dice che la tale
decisione è di interesse essenziale, perché la decisione debba essere presa all’unanimità; e quindi
attraverso tale sistema, gli Stati si riprendevano il proprio potere di veto.
Il compromesso di Lussemburgo, non essendo un atto di diritto derivato o un Trattato, ma solamente
una decisione politica, non può essere abrogato, ma col tempo, il Compromesso è caduto in
desuetudine, in particolare, è da ritenersi del tutto abbandonato negli anni ’80, con l’Atto unico
europeo, un Trattato riunificativo che spinge molto sull’integrazione e sul voto a maggioranza.
Negli anni’70, c’è stata un ulteriore ripartenza del processo di integrazione, cambia la politica francese
con l’uscita di scena del Generale DE GAULLE e l’avvento del Presidente Pompidou, il quale era
favorevole al processo di integrazione a cui diede nuovo impulso.
E Negli anni ’70 vengono raggiungono 3 traguardi nel processo di integrazione:
1. Decisione del Consiglio del 22 aprile del 1970 con la quale si cambia il sistema di
finanziamento delle comunità.
Prima di allora, le comunità erano finanziate dagli Stati membri, i quali ogni anno conferivano
delle proprie risorse alle comunità europee.
Con la decisione del Consiglio si passa al “sistema delle risorse proprie” cioè, le comunità
(oggi UE) non dipendono più dai trasferimenti statali, ma hanno delle risorse proprie attraverso
ad esempio:
Riscossione dei diritti doganali derivanti dalle importazioni di prodotti dai paesi terzi;
Percentuali dell’IVA (imposte sul valore aggiunto) ecc.….
2. È stata introdottala la prima forma di cooperazione in tema di politica monetaria (che poi
vedrà i suoi frutti più maturi con l’introduzione dell’euro), in particolare, nel 1972 viene
introdotto un sistema “il serpente monetario europeo” volto a limitare l’oscillazione nel tasso
di cambio tra le diverse monete degli Stati membri delle comunità europee.
Si stabilisce, in particolare, un margine massimo di fluttuazione, e questo serve ad evitare che
l’oscillazione dei tassi di cambio costituisca un ostacolo alla realizzazione delle libertà
fondamentali, e in particolare alla libertà di circolazione delle merci.
Questo sistema è stato sostituito poi, da un sistema più avanzato, ovvero il sistema monetario
europeo (SME) introdotto nel 1978.
3. L’integrazione oltre ad approfondirsi (attraverso i punti 1 e 2 ) si allarga a nuovi Stati, infatti
negli anni ’70 comincia il processo di allargamento delle comunità europee.
• Irlanda.
Era previsto che nello stesso anno aderisse anche la Norvegia, che aveva firmato il Trattato di adesione
che poi non è stato ratificato, ancora oggi, la Norvegia, è l’unico paese scandinavo che non fa parte
dell’UE.
L’Europa a 15 è l’assetto che si manterrà per circa un decennio fino al: 1° Maggio 2004, data in cui
entra in vigore il Trattato di Atene, di adesione di 10 nuovi paesi membri:
• Malta
• Cipro
Nel 2007 aderiscono Bulgaria e Romania e nel 2013 la Croazia.
COME AVVIENE IN CONCRETO L’INTEGRAZIONE DELLE ECONOMIE.
Lo scopo che si propongono di raggiungere le Comunità è il raggiungimento della pace, quindi scopo
politico, raggiungibile attraverso uno strumento economico, quale è l’integrazione economica dei Paesi
europei.
Il mercato unico europeo si fonda sulle quattro libertà e sulle politiche della concorrenza:
• Libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali;
• Divieto di restrizioni quantitative e misure d’effetto equivalete (mee): ad esempio nel Regno Unito
si produce birra, ma si importa vino; per cui il Regno Unito potrebbe avere interesse a
scoraggiare il consumo di vino a favore del consumo d birra; per far ciò potrebbe stabilire un
limite quantitativo all’importazione. Una misura del genere si chiama restrizione quantitativa, ed
è una misura protezionistica piuttosto rozza, infatti gli Stati non lo fanno perché l’esito di tale
misura sarebbe la procedura di infrazione della Commissione su denuncia di uno i produttori
colpiti dalla misura restrittiva. Più delicata e difficile da individuare è una misura ad effetto
equivalente al divieto di restrizione quantitativa: supponiamo che il Regno Unito anziché
predisporre che si posso no importare 10000 bottiglie di vino, dispone che per l’importazione
del vino è necessario un controllo particolarmente gravoso, che quindi scoraggia
l’importazione del prodotto pur non prevedendo un limite quantitativo. Altro esempio è quello
del divieto di pubblicizzare il vino, cosa non prevista per la birra inglese o il whisky scozzese.
La libera circolazione delle persone: in origine, la disciplina comunitaria in materia non investiva la
persona in quanto essere umano, ma riguardava la persona in quanto agente economico, cioè quel
soggetto che esercita un’attività economicamente rilevante. Nell’epoca in cui fu redatto il Trattato
istitutiva della Comunità Europea c’erano dei problemi relativi alla manodopera, in particolare alcuni
paesi, come Germania e Belgio, avevano difficoltà a reperire la manodopera necessaria per la
produzione industriale che era in crescita; altri invece, come l’Italia soprattutto meridionale,
registravano un eccesso di manodopera rispetto alla capacità produttiva. Per cui gli autori del Trattato,
con la libera circolazione delle persone, si prefiggevano un obiettivo sostanzialmente economico, quale
quello di favorire un regime di piena occupazione , e quindi consentire alla imprese di reperire in un
mercato più ampio la manodopera, reperendo anche i lavoratori più efficienti, più qualificati, e d’altro
canto soddisfare l’interesse dei lavoratori di trovare le condizioni di lavoro migliori all’interno di un
mercato più ampio, qual è il mercato comunitario. Quindi il lavoratore è visto come un fattore della
produzione, e non come “essere umano”. La libera circolazione delle persone è un mezzo per
raggiungere uno scopo economico.. Questa visione del lavoratore come fattore della produzione è stata
rapidamente abbandonata grazie al lavoro della Corte di Giustizia e delle Istituzione. Oggi il cittadino è
preso in considerazione non più come fattore della produzione ma come persona umana. La libertà di
circolazione non è più subordinata allo svolgimento di un’attività economica. La cittadinanza implica
la possibilità di circolare e soggiornare senza svolgere un’attività economica, ad esempio gli studenti.
La libera circolazione delle persone riguarda sia i lavoratori subordinati che autonomi: nel Trattato
troviamo sia norme che disciplinano il lavoro subordinato, sia il lavoro autonomo. Vi è un’unica
differenza: la disciplina della circolazione dei lavoratori subordinati è una disciplina unitaria (art. 45 e
ss. TFUE), la disciplina della libera circolazione dei lavoratori autonomi è una disciplina bipartita,
contenuta in due gruppi di norma, ascrivibili alle due categorie del diritto di stabilimento e della libera
circolazione dei servizi.
Il diritto di stabilimento riguarda la situazione del lavoratore autonomo che si trasferisce stabilmente
nel territorio di un altro Stato membro per svolgere la sua attività, ed è disciplinato dagli art. 49 e ss del
TFUE.
La libera circolazione dei servizi riguarda invece la situazione del lavoratore autonomo, il quale pur
rimanendo stabilito nel proprio paese di origine, presta saltuariamente la sua attività in altri Paese
membro, disciplinato dagli artt. 56 e ss. TFUE.
Quindi nel Trattato troviamo in sostanza 3 gruppi di norme:
1. Artt. 45 e ss. : sul lavoro subordinato;
2. Artt. 49 e ss. : sul diritto di stabilimento;
3. Artt. 56 e ss. : sulla libera circolazione dei servizi.
Sembra un sistema articolato, ma è un sistema che presenta una sua uniformità, in quanto ci sono degli
elementi comuni nell’esercizio di queste libertà di circolazione; in particolare sia la disciplina del lavoro
autonomo sia quella del lavoratore subordinato si fondano sul divieto di discriminazione in base alla
nazionalità, ossi lo Stato ospitante non può discriminare il lavoratore comunitario rispetto al lavoratore
nazionale.
La libera circolazione dei servizi ha un margine di sovrapposizione con la libera circolazione delle persone,
infatti anche se la libera circolazione dei servizi costituisce una delle 4 libertà fondamenti, già se ne
parla all’interno della libera circolazione delle persone. Ciò non significa che la libera circolazione dei
servizi è assorbita dalla libera circolazione delle persone, perché esiste un ambito di applicazione
autonomo della libera circolazione dei servizi.
La libera circolazione dei servizi non riguarda solo i lavoratori, le persone fisiche, ma riguarda anche
le imprese. Ed in tale ambito non vi è alcuna sovrapposizione tra libera circolazione delle persone e
libera circolazione dei servizi. Sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia si può dire che
esistono vari modelli di libera circolazione dei servizi, e ce ne sono almeno 4:
1. Prestatore di un servizio rimane stabilito nel suo paese di origine, e occasionalmente presta
servizi in altri Paese membro ( medico italiano stabilito in Italia che si sposta occasionalmente
in un altro paese membro per eseguire un intervento);
2. Prestato di un servizio rimane stabilito nel suo Paese di origine, ma l’elemento transfrontaliero è
costituito dl fatto che il beneficiario del servizio si sposta (il paziente si sposta in un paese
membro dal proprio per essere sottoposto ad un intervento, o il turista);
3. Non c’è alcun spostamento fisico né del prestatore né del beneficiario, ma l’unico spostamento
riguarda il servizio stesso (solo le trasmissioni televisive transfrontaliere attraversano le
frontiere);
4. Si spostano sia il prestatore sia il beneficiario del servizio per eseguire la prestazione in un
paese membro diverso da quello di origine (la guida turistica si sposta dal proprio paese di
origine insieme ai turisti in un altro paese membro).
La libera circolazione dei capitali è disciplinata dagli art. 63 e ss. del TFUE. Il Trattato prevedeva in
origine che gli stati sopprimessero gradualmente gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali, nella
misura necessaria al buon funzionamento del Mercato Comune. Tale libertà quindi era funzionale al
buon funzionamento del Mercato Comune, e quindi rispetto alle altre libertà di circolazione. La
versione originaria dell’art. 63 operava una distinzione del movimento dei Pagamenti dal movimento dei
Capitali: per Pagamento si intende il corrispettivo dell’esercizio di un’altra libertà di circolazione (se c’è
una libera circolazione delle merci ci sarà una libera circolazione dei pagamenti relativi alle merci
suddette). Tale distinzione consente un regime differenziato: la libera circolazione dei pagamenti non aveva
restrizioni, invece la libera circolazione dei capitali, che si ha quando il capitale circola e si colloca in un
altro Paese membro, ma non come corrispettivo dell’esercizio di un'altra libertà di circolazione, non era
liberalizzato. Lo era solo quando consentito da atti di diritto derivato di attuazione.
La situazione è cambiata con il Trattato di Maastricht del ’92 che ha completamente liberalizzato anche
i movimenti di capitali, sicché oggi questa distinzione non ha più senso, in quanto oggi i capitali sono
liberalizzati nella misura in cui sono liberalizzati anche i pagamenti.
Le Intese sono gli accordi con cui le imprese si accordano tra di loro per falsare la concorrenza,
decidono di non farsi concorrenza fra loro, ad es. concordano i prezzi di vendita, o intese di
compartimentale il mercato con cui si dividono il mercato dell’Ue segmentandolo geograficamente.
Quindi attraverso atti di diritto privato, accordi tra le parti si ostacolano le quattro libertà di
circolazione.
Le regole di concorrenza sono un logico completamento delle libertà di circolazione, nella misura in
cui ad es. impediscono alle imprese di compartimentare i mercati.
L’art.102 TFUE vieta l’abuso di posizione dominante. Questa si ha quando un’impresa detiene una
buona quota di mercato, tale da agire indipendentemente dai concorrenti, e utilizza tale posizione per
ostacolare la concorrenza, quindi ad es. per vietare la nascita o la permanenza sul Mercato di altri
concorrenti. (vendita sotto-costo dell’impresa per un determinato periodo di tempo, sostenibile grazie
alla posizione dominante ricoperta sul mercato). La posizione dominante non è in sé vietata; lo è il suo
abuso a discapito della concorrenza.
Le regole di concorrenza che si rivolgono agli STATI riguardano il divieto di Aiuti di Stato previsto
dell’art. 107 TFUE: gli autori del Trattato si preoccupano della possibilità che gli Stati supportino le
proprie imprese, sia pubbliche che private, attraverso dazioni di denaro, o agevolazioni fiscali,
alterando così la concorrenza.
La revisione dei trattati: il progetti di integrazione europea si è evoluto rispetto alla sua configurazione
originale attraverso:
• il Trattato di Amsterdam
• il Trattato di Nizza
In dottrina si è parlato di un processo di revisione permanente dei trattati, in quanto questo è avvenuto
pressoché in 20 anni.
Per la revisione del Trattati, art.48 TUE, è necessario che il CONSIGLIO EUROPEO, organo in cui
siedono le più alte istanze statali membro quali capi di Stato e di Governo, convochi una
CONFERENZA INTERGOVERNATIVA (CIG), che è l’istanza nella quale i rappresentanti degli Stati
negoziano il testo del Trattato, indicando oggetto della negoziazione. Seguono poi le tradizionale fasi
della FIRMA, RATIFICA e del DEPOSITO DELLE RATIFICHE (atto con cui si mettono al corrente
gli altri Stati dell’avvenuta ratifica del trattato internazionale). L’atto con cui il Consiglio Europeo
indica quale sia l’oggetto della negoziazione e delle materie che devono essere trattate dalla CIG è detto
mandato del consiglio europeo.
Il processo di revisione permanente dei trattati comincia con l’ATTO UNICO EUROPEO, e il
prodromo dell’AUE è il Consiglio Europeo di Milano del giugno 1985 che decise di convocare una CIG.
Il motivo della convocazione stava nel fatto che non si era ancora compiutamente realizzato il Mercato
Unico Europeo: erano stati fatti dei passi avanti in tal proposito attraverso la rimozione degli ostacoli
che gli Stati frappongono alla libera circolazione, attuando la cd. INTEGRAZIONE NEGATIVA. Ma
per la creazione di un mercato unico occorre un intervento positivo attraverso l’emanazione di atti di
diritto derivato, con la cd. INTEGRAZIONE POSITIVA. ( ad es. per la libera circolazione degli
avvocati non basta rimuovere gli ostacoli, cioè eventuali atti interni che limitano o ne vietano la
circolazione, ma anche emanare atti di diritto derivato, come una direttiva che ne disciplina la
circolazione stessa). Quindi a metà degli anni ’80 abbiano atti che consentono l’integrazione
negativa,ma non abbastanza atti che consentono quella positiva; ciò accadeva perché in molte materie
si decideva all’unanimità sebbene ci fosse già la prevalenza del principio di maggioranza. Una di tale
materie era l’armonizzazione delle legislazioni nazionali, che è quella che serve per l’integrazione
positiva. Proprio questo era uno dei temi fondamentali che il Consiglio Europeo di Milano pone
all’attenzione della CIG. Quest’ultima elabora un progetto che si compone di due testi che vengono poi
unificati, per questo si parla di AUE.
L’atto unico europeo viene firmato nel febbraio del 1986, ed entra in vigore il 1° luglio del 1987. Ha
introdotto una serie di rilevanti modifiche dei Trattati preesistenti sia di carattere istituzionale, sia
modifiche di fondo, tra cui la modifica del preambolo (l’enunciazione che precede la parte precettiva
dei Trattati nella quale gli autori spiegano quali sono le loro intenzioni). Nel preambolo dell’AUE, per
la prima volta, fa la sua comparsa nell’ambito dei Trattati, il concetto di Unione Europea. In questo si
afferma che si vuole trasformare l’insieme delle relazioni tra gli Stati membri in una UNIONE
EUROPEA. In realtà questa terminologia era già in uso dagli anni ’70 in una serie di documenti, ma è
la prima volta che fa la sua comparsa nei Trattati, sia pure nel preambolo.
L’espressione UNIONE EUROPEA ha un contenuto tecnico, che però verrà esplicitato con il Trattato
di Maastricht. Nell’AUE non è ben chiaro quali siano i contorni di tale espressione. Secondo alcuni
esponenti della dottrina il successo di tale espressione sta ne fatto che si tratta di un’espressione del
tutto ambigua, che ha evitato il dibattito tra chi voleva uno sviluppo in senso federalista delle Comunità
Europea, e chi invece ne era contrario. Uno sviluppo di tipo Federale non potrebbe avere un esito
positivo, perché alcuni Stati, come la Francia, vedono nel federalismo una perdita di sovranità in favore
di uno stato centrale; quindi considerano il federalismo come un processo di centralizzazione a favore
delle Comunità Europeo. Coloro che invece sono a favore del sistema federale sono coloro che hanno
già un’esperienza di federalismo o regionalismo come l’Italia, i quali vedono nel Federalismo un
sistema che riconosce la maggiore autonomia possibile alle parti che compongono la federazione:
secondo questa concezione lo Stato centrale svolge delle funzioni limitate al buon funzionamento del
Stato, garantendo la possibilità di mantenere lo status di nazione per gli Stati membri; coloro che invece
ne sono contrari vedono un sistema che si pone in piena contrapposizione all’ “Europa delle patrie” di
De Gaulle. Per tale motivo l’espressione neutra di Ue trova in successo.
Per quanto riguarda il contenuto di questa espressione fino agli anno ’80 vige l’incertezza. Il primo
documento nel quale viene impiegato il termine è il Rapporto dei Saggi incaricato dal Consiglio Europeo
di Bruxelles del ’78 di esaminare dei meccanismi istituzionali necessari all’allargamento delle Comunità
Europee.
“Quando si parla di Ue non si parla di un obiettivo determinato, ma piuttosto di un movimento verso una
comunità che si comporta in modo sempre più solidale nei suoi sforzi per risolvere le molteplici difficoltà che la
Comunità e gli Stati membri devono fronteggiare”.
Questa indeterminatezza del termini Ue ha permesso delle evoluzioni che possono essere presentate
non come dei movimenti verso un’Europa federale, ma come necessari per raggiungere l’Unione. à
unione europea in senso generale
• Addivenire a un riparto di competenze più chiaro tra Ue e Stati membri: codificare alcuni
principi in tema di riparto di competenze;
• Il trattato recepisce gran parte delle innovazione della Costituzione Europea, non recepisce il
maquillage costituzionale.
• Riforma le regole relative all’apparato istituzionale: prima la Presidenza del Consiglio Europeo
(capi di Stato e di Governo) ruotava a semestri, oggi c’è un Presidente stabile.
• S’introduce la figura dell’Alto Rappresentante dell’Ue per gli affari esteri e politica di
sicurezza, che è anche vicepresidente della Commissione (a dicembre è Federica Mogherini)
• Viene meno la struttura a pilastri, perché non esiste più la Comunità Europea. Il Trattato
istitutivo della CE diventa TRATTATO SUL FUNZIONAMENTO DELL’UNIONE
EUROPEA, e il terzo pilastro viene interamente assoggettato al metodo comunitario. Il
secondo pilastro (PESC) rimane disciplinato dal TUE: ancora oggi per la politica estera e di
sicurezza comune vige un sistema che si fonda sul meccanismo della cooperazione
intergovernativa; ciò comporta voto a maggioranza, controllo limitato da parte della Corte di
Giustizia dell’Ue, prevalenza degli organi di Stati sugli organi di individui. La disciplina è
contenuta negli artt. 23 e ss. Del TUE.
Una differenza tra la Costituzione Europea e il Trattato di Lisbona sta nel fatto che la Cost. Europea
avrebbe dovuto abrogare i precedenti trattai, invece il Trattato di Lisbona ha modificato quei trattati
preesistenti modificandone la denominazione.
Il TUE si compone di 55 articoli: contiene le norme più importanti sull’assetto costituzionale dell’Ue e
tutte le norme sulla PESC.
Il TFUE si compone di 358 articoli: contiene norme istituzionali più di dettaglio, e le norme relative
alle competenze materiali dell’Ue ( per esempio le norme sul mercato).
Il TUE pur contenendo disposizioni istituzionali più importanti, non è gerarchicamente sovraordinato
rispetto al TFUE. Si tratta di atti che hanno rango di diritto primario.
Altra distinzione importante netta tra la Costituzione Europea e il Trattato di Lisbona riguarda le
forme, il lessico. Il manuale Daniele parla di processo di decostituzionalizzazione della Cost. europea.
Il risultato del referendum francese e del referendum olandese è stato letto come un rifiuto di voler
costituzionalizzare l’Ue. Per cui ad esempio, gli atti di diritto derivato conservano il loro nome
originario, si parla ancora di regolamento e direttiva, sono soppressi gli articoli sui simboli dell’Ue. La
Costituzione europea prevedeva che fosse espressamente codificato il principio del primato del diritto
dell’Ue. Si tratta di un principio di origine giurisprudenziale della Corte di Giustizia delle CE,
enunciato nella causa Costa contro Enel , e ribadito in altre sentenze. il Trattato di Lisbona mantiene
invece la situazione preesistente, però ci si preoccupa che qualcuno possa pensare che, non avendo
introdotto un articolo sul primato, l’Ue abbia fatto un passo indietro. Così viene allegato al Trattato
una “Dichiarazione degli Stati” nella quale si rammenta che, sulla base della giurisprudenza della
Corte di Giustizia, vige il principio del primato del diritto dell’Ue sul diritto interno, e poi è stato
allegato un parere del servizio giuridico del Consiglio (apparato composto da giuristi che danno assistenza
all’attività del Consiglio) nel quale si riafferma che la mancata inclusione del principio del primato nel
Trattato di Lisbona, non implica un arretramento rispetto allo status quo.
Per quanto concerne la Carta dei diritti fondamentali, la Costituzione europea prevedeva che fosse
inglobata nel Trattato. Il Trattato di Lisbona non modifica la sostanza, ma modifica la forma perché si
prevede all’art. 6 TUE (art. sulla protezione dei diritti fondamentali ) che la Carta dei diritti
fondamentali dell’Ue abbia il rango di diritto primario. Nella sostanza non cambia nulla perché la
Carta non viene inglobata nei Trattati, ma è un documento separato al quale si conferisce il rango di
diritto primario, e quindi lo stesso valore giuridico dei trattati.
Attraverso modifiche all’art.6 TUE è prevista un’adesione dell’Ue alla CEDU. Si prevede che l’”
unione aderisce alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
Altro elemento ripreso dalla Costituzione europea è l’introduzione di un articolo sul RECESSO
SALL’UNIONE EUROPEA, attraverso un meccanismo codificato dall’art. 50 del Trattato sull’Ue
occorre una notifica al consiglio europeo. È previsto che lo Stato che richiede il recesso stipuli un
accordo volto a definire le modalità del recesso. Ma il recesso non è subordinato all’accordo, per cui se
non lo si raggiunge, lo Stato può comunque recedere dall’Ue. Anche prima si riteneva che uno Stato
poteva recedere dall’Unione, ma tale possibilità non era codificata.
9 OTTOBRE 2014
Il Trattato non prevede una gerarchia tra gli atti vincolanti previsti dall’art. 288. Una direttiva può
abrogare un regolamento, ed un regolamento può abrogare la direttiva, e una decisione può prevedere
delle deroghe rispetto a regolamenti e direttive. Sono coordinabili attraverso un criterio di competenza:
volta per volta il trattato specifica il tipo di atto o i tipi di atto che possono essere adottati per ogni
determinata materia (le istituzioni in questo caso sono libere di scegliere). L’unico caso in cui è
possibile adottare un criterio di gerarchia per coordinare le fonti di diritto derivato è quello in cui sono
ATTI di BASE e ATTI di ESECUZIONE.
Che significa atti di base e atti di esecuzione? È una circostanza che si verifica quando un atto di
diritto derivato fornisce una disciplina generale per una determinata materia e poi demanda ad ulteriori
atti di diritto derivato la disciplina di dettaglio. I due atti, comunementi detti atti di base e atto di
attuazione, sono ordinabili attraverso un criterio gerarchico. Si tratta di una prassi antica che fino al
trattato di Lisbona non aveva trovato codificazione. Questo invece, oggi, ne da una disciplina più
ordinata.
Il Trattato di Lisbona introduce la distinzione tra atti legislativi e atti non legislativi. Questa
distinzione si fonda sulla procedura di adozione dell’atto.
L’art. 289 dice che la procedura legislativa ordinaria consiste nell’adozione congiunta di un
regolamento, di una direttiva e di una decisione da parte del Parlamento europeo e del Consiglio su
proposta della Commissione. La Commissione ha potere esclusivo di iniziativa legislativa. Nei casi
specifici previsti dai Trattati l’adozione di un regolamento, di una direttiva, di una decisione da parte
del Parlamento europeo con la partecipazione del Consiglio (e viceversa) costituisce una procedura
legislativa speciale. Tale “partecipazione” può anche essere un parere reso dal Parlamento, il quale
potrebbe anche non avere potere decisionale. Il 3° comma dice che “gli atti adottati mediante procedura
legislativa sia ordinaria si speciale sono atti legislativi”. Gli altri atti adottati mediante altre procedure,
diverse da quelle descritte nei primi due commi, non sono atti legislativi. Gli atti della Commissione
non sono atti legislativi. Questa distinzione è stata introdotta dal Trattato di Lisbona.
L’art. 15, relativamente al funzionamento del Consiglio europeo specifica che non esercita funzione
legislativa e che gli atti del Consiglio europeo non sono atti legislativi, in quanto non rispondono alle
procedure legislative descritte dai primi due commi dell’art. 289.
La fase preparatoria: il potere di iniziativa per la modifica di Trattati spetta agli Stati membri, alla
Commissione, e ora con il Trattato di Lisbona anche al Parlamento Europeo. (anche questa previsione
rientra nel quadro del rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo). Tali soggetti possono proporre
dei progetti volti a modificare il trattato possono accrescere o ridurre le competenze attribuite al’Ue
rispetto alle competenze statali. Questa specificazione non è una novità sostanziale, in quanto anche
nel sistema previgente nessuno ha mai dubitato che i trattati potessero diminuire le competenza
dell’Unione stessa. Il Trattato di Lisbona lo ha specificato e lo ha messo per iscritto, e ciò dimostra
l’esistenza di una qualche ritrosia nel processo di integrazione. La decisione di aprire la procedura di
revisione spetta al Consiglio europeo, a maggioranza semplice, dopo avere consultato il Parlamento e
la Commissione. Il Consiglio europeo quando assume questa decisione adotta anche un mandato, il
quale fissa il campo della previsione, in quanto indica gli aspetti di cui ci si dovrà occupare nel processo
di revisione.
Nel sistema dell’art. 48 previgente questo chiudeva la fase preparatoria e apriva la fase deliberativa con
la CIG. . Con il Trattato di Lisbona è stato codificata la prassi utilizzata per la prima volta per la Carta
di Nizza e poi successivamente per la redazione del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa.
Tale prassi è la Convenzione.
L’art.48 par. 3 dice che “qualora il Consiglio Europeo, previa consultazione del Parlamento europeo e della
Commissione, adotti a maggioranza semplice una decisione favorevole all’esame delle modifiche proposte, il
Presidente del Consiglio Europeo convoca una Convenzione composta da rappresentanti dei Parlamenti nazionali,
dei Capi di Stato e di Governo degli Stati membri, del Parlamento europeo e della Commissione. Nel caso in cui le
modifiche riguardano il settore monetario è consultata anche la BCE. La Convenzione esamina i progetti di
modifica e adotta per consenso (senza voti contrari) una raccomandazione a una Conferenza dei Rappresentati
dei governi degli Stati membri quale prevista nel paragrafo 4” .
La Convenzione, che è a composizione più ampia, non sostituisce la CIG che non ha le caratteristiche
di trasparenza tipiche della Convenzione ed è composta solo dai capi di Stato e di Governo, ma la
precede. Infatti si inserisce nella fase preparatoria in cui quindi si ha una PROPOSTA, una
DECISIONE A MAGGIORANZA SEMPLICE DEL CONSIGLIO e poi la CONVOCAZIONE
DELLA CONVENZIONE.
L’esito dei lavori della Convenzione, che saranno contenuti in una raccomandazione, non saranno
vincolanti per la CIG. Quest’ultima può discostarsi dai lavori della Convenzione. Inoltre è una fase
eventuale, infatti non è detto che si debba convocare la Convenzione. L’art. 3 prevede che il consiglio
europeo può decidere a maggioranza semplice, previa approvazione del Parlamento europeo, di non
convocare la Convocazione, qualora l’entità delle modifiche non lo giustifichi. In questo caso il
Consiglio Europeo definisce il mandato per una conferenza dei governi degli Stati membri. Si potrebbe
quindi avere una revisione attraverso la procedura ordinaria, senza la convocazione della Convenzione.
La fase deliberativa, disciplinata dal paragrafo 4 non ha subito alcuna modifica rispetto al sistema
previgente: i negoziati sono condotti in seno a una Conferenza di rappresentanti degli Stati membri
(CIG), convocata dal Presidente del Consiglio, la quale si svolge secondo le regole classiche della CIG
che danno luogo ai trattati internazionali. Per cui, ad esempio le istituzioni dell’Ue non giocano alcun
ruolo, ma sono i rappresentanti degli Stati i quali negoziano. Al termine della CIG seguiranno le
tradizionali fasi della FIRMA (che ha l’effetto di autenticazione del testo, cioè ferma i negoziati), e la
fase della RATIFICA. Le modifiche del Trattato entrano in vigore dopo essere state ratificate da
TUTTI GLI STATI MEMBRI, conformemente alle rispettive norme costituzionali.
L’art. 48 par. 5 dice che “qualora, al termine di un periodo di due anni, a decorrere dalla firma del trattato che
modifica i trattati, i 4/5 degli Stati membri abbiano ratificato detto trattato, e uno o più Stati membri abbiano
incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è deferita al Consiglio europeo”. Gli autori del
Trattato di Lisbona prendono atto che ci sono state difficoltà in passato.
Attenzione: bisogna ricordare che il Consiglio Europeo è composto da capi di Stato e di Governo,
invece le CIG sono composte dai Rappresentanti degli Stati membri, quindi possono essere anche
diplomatici, assistiti da consulenti giuridici., plenipotenziari.
Una novità importa nella formulazione dell’art. 48 è costituita dall’istituzione di due PROCEDURE
DI REVISIONE SEMPLIFICATE (SPECIALI).
La prima procedura semplificata si ha se si vogliono modificare le disposizioni della parte terza del
TFUE, relativamente alle politiche dell’Ue e quindi alle competenze materiali dell’Ue. Se si vuole
modificare il diritto materiale dell’Ue non occorre convocare una CIG ne la Convenzione, ma il
Consiglio europeo può deliberare modifiche alle norme della parte terza del TFUE, attraverso una
deliberazione all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo, della Commissione o nel
caso in cui si tratti di settore monetario della BCE. Questa decisione unanime del Consiglio entra in
vigore dopo che è stata approvata dagli Stati membri conformemente alle rispettive norme
costituzionali. Parte della dottrina dice che l’uso del termine “approvazione”, diverso dal termine
“ratifica”, può far intendere come se non fosse occorresse una ratifica. Ma saranno gli Stati membri a
dover decidere se utilizzare la ratifica o meno.
L’art. 48 par.6 dice che si possono modificare la competenze materiali, ma non nel senso di
estenderle attraverso le procedure di revisione speciale. Per estendere tali competenze è necessario
ricorrere alla procedura di revisione ordinaria. Questa disposizione è stata utilizzata una sola volta: nel
2011 per modificare l’art. 136 TFUE sulla politica monetaria; a questo articolo è stato aggiunto un
capoverso: gli Stati membri, la cui moneta è l’euro, possono istituire un meccanismo di stabilità da
attivare, ove indispensabile per la salvaguardia della stabilità della zona euro nel suo insieme, ecc..
Sulla base ci questa disposizione è stato adottato un meccanismo di stabilità attraverso il Trattato MES
, cioè il Trattato sul meccanismo europeo di stabilità, che istituisce il Fondo Salva Stati, il quale ha lo scopo
di intervenire qualora uno Stato, a determinate condizioni, si trovi in gravi difficoltà. L’utilizzo della
procedura semplificata per aggiungere questo paragrafo all’art. 136 TFUE ha dato luogo a delle
controversie.
SENTENZA CORTE di GIUSTIZIA: SENTENZA PRINGLE. Pringle, politico irlandese ha
impugnato disposizioni di attuazione davanti la Corte irlandese, che ha sollevato rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia. Pringle sosteneva che per introdurre questa modifica dell’art. 136 non si poteva
utilizzare una procedura semplificata, ma si sarebbe dovuta utilizzare una procedura di revisione
ordinaria, perché la modifica, sebbene riguardi l’art. 136 contenuto nella parte terza del TFUE,
riguarderebbe anche una norma fondamentale contenuta nella parte prima. Secondo questa
disposizione la politica monetaria dell’Ue è una competenza esclusiva dell’Unione. Inoltre sostiene
ancora il ricorrente che questa procedura semplificata non può essere utilizzata per l’estensione delle
competenze dell’Unione, così come previsto dall’art. 48, e che con le modifiche del 136 le competenze
dell’Ue sarebbero risultate estese. La CORTE di GIUSTIZIA RIGETTA QUESTE
ARGOMENTAZIONI, affermando in primo luogo che la modifica del 136 non incide sulla
competenze dell’Ue nell’ambito della politica monetaria, sebbene sia collocato nel capo relativo alla
politica monetaria. Ciò in quanto l’obiettivo della politica monetaria è il mantenimento della stabilità
dei prezzi attraverso l’operato della BCE. Qui invece, si interviene non per la stabilità dei prezzi ma
per la stabilità della zona euro nel suo complesso, attraverso la costituzione di un fondo salva-stati, e la
concessione di assistenza finanziaria a uno Stato membro che si trova in difficoltà non rientra
nell’ambito della politica monetaria come politica volta alla stabilità dei prezzi. Inoltre afferma che
l’art. 136 non estende le competenze dell’Ue, cioè non crea una base giuridica che consenta all’Unione
di avviare un’azione che non poteva avviare prima dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 136.
(tale argomento è trattato nel Daniele ed. 2014)
La seconda procedura di revisione semplificata (speciale) può essere adottata nel caso in cui si voglia
passare da una procedura legislativa speciale (adozione di un atto con la partecipazione) ad una
procedura legislativa ordinaria (adozione di un atto congiuntamente); quello che nel processo di
revisione permanete dei trattati è stato definito come estensione dei poteri del Parlamento Europeo e
dell’area della codecisione, oggi può avvenire attraverso una procedura di revisione semplificata. Lo
stesso vale anche per il passaggio dal voto all’unanimità al voto a maggioranza. In quei settori in cui è
prevista ancora il voto all’unanimità, si può passare al voto a maggioranza attraverso la procedura di
revisione semplificata di cui al paragrafo 7 dell’art. 48. È sufficiente una deliberazione unanime del
Consiglio,ma è necessaria una approvazione del Parlamento europeo a maggioranza qualificata dei
membri. Il tutto viene trasmesso ai Parlamenti nazionali, e nel caso di opposizione di uno dei
parlamenti nazionali notificata entro 6 mesi, la decisione non è adottata. Per cui non è necessaria
un’approvazione del Parlamento nazionale, ma necessario che non ci sia una opposizione.
Le principali differenze tra i Trattati dell’Ue e le Costituzioni degli Stati federali sono due:
1. Gli Stati membri dell’Ue continuano ad avere una personalità giuridica internazionale, che
invece si estingue negli stati confederati;
2. La revisione dei Trattati è il procedimento tipico di stipulazione dei Trattati internazionali, non
assibilabile al procedimento di revisione di una Costituzione nazionale.
La caratteristica che maggiormente accomuna il Trattato ad una Costituzione è da ricercarsi
nell’effetto delle norme del TUE e TFUE sui soggetti dell’Ue; perché normalmente i trattati
internazionali producono effetti in capo agli Stati stipulanti, e non producono effetti all’interno degli
Stati membri. Il TUE e TFUE invece regolano anche rapporti che si collocano all’interno degli Stati
membri, producono diritti e doveri in capo a persone fisiche e giuridiche, per cui nell’ordinamento
dell’Ue i singoli sono soggetti di diritto e obblighi, e possono anche accedere ad un sistema
giurisdizionale particolarmente efficiente che tutela le loro posizioni derivanti dai Trattati.
Per interpretare i Trattati comunitari la Corta di Giustizia utilizza regole interpretative proprie
dell’ordinamento dell’Ue, le quali sono analoghe a quelle che i giudici interni utilizzano per
interpretare il diritto interno. Il Daniele fa qualche esempio: le libertà fondamentali sono interpretate
estensivamente, mentre le deroghe alle libertà fondamentali sono interpretate restrittivamente. Viene
rovesciato il criterio secondo cui nei Trattati internazionali non si presumo le limitazioni della sovranità
statale che devono essere specificate, invece nell’ordinamento dell’Ue si possono presumere tali
limitazioni; fondamentale poi tra i criteri di interpretazione del Tue e TFUE è il criterio dell’effetto
utile: principio in base al quale le norme dell’Unione devono essere interpretate in modo da consentire
che esse esplichino i loro effetti nella misura maggiore possibile (simile al principio di conservazione del
contratto in diritto privato).
Altro elemento che avvicina i trattati alle Costituzioni è il principio del primato delle norme dell’Ue sul
diritto in base al quale, in caso di antinomia tra fonti , la norma comunitaria prevale su quella
nazionale. Un altro elemento costituzionale è il sistema completo di tutela dei diritti fondamentali.
16 OTTOBRE 2014
1. attribuzione alla Carta dei diritti fondamentali dello stesso valore giuridico dei Trattati (art.6
paragrafo1 TUE: “l'Unione riconosce i diritti,le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali
dell'Unione europea, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Le disposizioni della Carta non estendono in
alcun modo le competenze dell'unione definite nei trattati”), la carta è diritto primario oggi;
2. l'adesione alla CEDU: art.6 paragrafo 2TUE: “l'Unione aderisce alla Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze
dell'Unione definite nei trattati”.
Paragrafo 3: codificazione della giurisprudenza della Corte di giustizia: i diritti fondamentali tratti dalle
tradizioni comuni e dalla CEDU sono principi generali dell'ordinamento dell'Unione europea. Ci si
potrebbe chiedere perché mantenere questa norma se oggi abbiamo un catalogo dei diritti dell'Unione
europea. Il mantenimento del paragrafo 3 è opportuno per 2 ragioni:
• I diritti fondamentali in quanto principi generali hanno una maggiore flessibilità perchè la Carta
è un documento scritto, cristallizzato in una certa epoca (non si può escludere in futuro che si
ponga la necessità di tutelare nuovi diritti fondamentali). I principi generali possono essere
utilizzati per ricavare i diritti fondamentali che è necessario tutelare senza la necessità di
modificare il diritto primario. La Carta ha un pregio: maggiore conoscibilità dei diritti
fondamentali, ma è uno strumento meno flessibile rispetto ai principi generali che sono ricavati
dalla Corte di giustizia a seconda delle esigenze delle controversie che si presentano.
• È anche opportuno per indicare che la situazione attuale non può subire un passo indietro
rispetto alla situazione preesistente, costituisce semmai un passo avanti. Si pone il problema in
relazione alla posizione di alcuni paesi membri relativamente alla Carta dei diritti
fondamentali. Mi riferisco al Protocollo n.30 sull'applicazione della Carta dei diritti
fondamentali alla Polonia e al Regno Unito. In sede di negoziazione del Trattato di Lisbona
non tutti gli Stati membri erano pienamente favorevoli al riconoscimento della Carta dei diritti
fondamentali al rango di diritto primario: alcuni avevano una certa retrosia. La Polonia temeva
che la Carta dei diritti fondamentali potesse incidere sul diritto di famiglia facilitando i
matrimoni omosessuali e attraverso l'enunciazione del diritto di proprietà potesse dar luogo alle
rivendicazioni dei tedeschi,che sono stati espulsi dalla Polonia dopo la seconda guerra
mondiale, quindi la rivendicazione sui beni di cui questi soggetti erano stati espropriati. Il
Regno Unito aveva il timore all'enunciazione dei diritti sociali: potesse nuocere alla
competitività dell'economia britannica. In realtà se andiamo a vedere il contenuto tecnico della
Carta ci rendiamo conto come questi timori siano infondati, xkè la Carta dei diritti
fondamentali non si applica a tutto il diritto interno, è parametro di legittimità del diritto
derivato dell'U.E. e di una parte del diritto interno, quella parte che rientra nell'ambito di
applicazione del diritto dell'U.E. Ad es. i matrimoni omosessuali non fanno parte dell'ambito di
applicazione del diritto dell'U.E. perché l'U.E. non ha competenze in materia di famiglia. Non
c'è alcun collegamento tra la Carta dei diritti fondamentali ed eventuali rivendicazioni di
tedeschi espropriati dei loro beni perché non siamo nell'ambito di applicazione dei diritti
dell'U.E., semmai potrebbe venire in rilievo la CEDU in questo settore,ma non la Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione Europea. L'ambito di applicazione della CEDU è l'intero
diritto nazionale. La Carta dei diritti fondamentali ha un ambito limitato.
Si è deciso d'inserire un protocollo relativo alla posizione del Regno Unito e della Polonia, protocollo
n.30 dice che la Carta dei diritti fondamentali non estende la competenza della Corte di giustizia o di
qualunque organo giurisdizionale interno a ritenere le leggi e i regolamenti e le disposizioni della
Polonia e del Regno Unito non siano conformi ai diritti, alle libertà e ai principi fondamentali che la
stessa carta afferma. Di questo protocollo era possibile dare due interpretazioni:
1. Interpretazione massimalista secondo la quale la Carta non si applica a Polonia e a Regno
Unito.
2. Interpretazione restrittiva in base alla quale la Carta si applica a Polonia e a Regno Unito ma
non estende le competenze della Corte di giustizia.
Il riferimento ai principi generali è significativo: anche se la Carta non si applicasse a Regno Unito e
Polonia questi non sono sottratti al rispetto dei diritti fondamentali, devono cmq rispettare i diritti
fondamentali perché sono principi generali dell'ordinamento dell'Unione così come disposto dal
paragrafo 3 dell'art.6. In realtà la Corte si è pronunciata sul protocollo n.30, sentenza del 2011 N.S. in
cui la Corte di giustizia dice che questo protocollo non ha affatto l'effetto di rendere inapplicabile la
Carta dei diritti fondamentali a Polonia e Regno Unito, la Carta si applica a Polonia e Regno Unito,
ma si limita a ricordare qual è l'ambito di applicazione della Carta: art.51 della Carta dei diritti
fondamentali il quale dice che la Carta dei diritti fondamentali si applica al diritto interno e dà
esecuzione al diritto dell'Unione europea e dice che le competenze dell'unione non vengono estese.
Ribadisce quanto espresso nell'art.6.
Questo protocollo n.30 probabilmente ha valore simbolico, si limita a ricordare degli elementi che
troviamo nella Carta.
5. Dedicato alla cittadinanza. Ci trovate una serie di diritti del cittadino nei confronti
dell'amministrazione dell'UE;
6. Dedicato alla giustizia dove trovate il diritto al ricorso effettivo (art.47 della Carta dei diritti
fondamentali).
17 OTTOBRE 2014
Atteso che l'unione rispetta i diritti fondamentali, i diritti fondamentali sono enunciati dalla Carta dei
diritti fondamentali e quelli che si ricavano in via giurisprudenziale come principi generali
dell'ordinamento dell'unione, dobbiamo definire la portata dell'obbligazione a rispettare i diritti
fondamentali nell'UE.
Quali atti può controllare la Corte di giustizia?
I diritti fondamentali sono parametro di legittimità di cosa?
Il controllo della Corte nel rispetto dei diritti fondamentali si esercita innanzitutto sugli atti di diritto
derivato(regolamenti, decisioni). Questo significa che quando un atto di diritto derivato contrasta con
la Carta dei diritti fondamentali è possibile esperire un'azione di fronte alla Corte di giustizia. Azione
diretta qualora ricorrano i presupposti.
Il controllo della Corte riguarda anche gli atti degli Stati membri. I diritti fondamentali però non sono
parametro di legittimità dell'intero diritto nazionale, ma soltanto del diritto nazionale che ricade
nell'ambito di applicazione del diritto dell'unione europea. Il diritto di famiglia x es. non ricade
nell'ambito di applicazione del diritto dell'unione europea. Quando gli Stati membri dell'unione
agiscono sulla base delle disposizioni del Trattato dell'Unione devono rispettare i diritti fondamentali
che s'impongono al legislatore dell'UE. Ad es. le direttive devono essere trasposte, quando lo Stato
traspone una direttiva, ad es. attraverso una legge ordinaria, deve rispettare la sua attività di
trasposizione deve rispettare gli stessi diritti fondamentali che deve rispettare l'unione quando pone in
essere la direttiva. La Corte di giustizia non ha competenza generale in tema di diritti fondamentali. Se
un soggetto lamenta la violazione di un diritto fondamentale da parte dello Stato membro, può
rivolgersi alla Corte di giustizia in via diretta attraverso il meccanismo del rinvio pregiudiziale soltanto
se quell'atto si colloca nell'ambito del diritto dell'unione, diversamente avrà altri rimedi: diritti contenuti
nella Cost. italiana oppure la CEDU, una volta esauriti i ricorsi interni potrà rivolgersi alla Corte
europea dei diritti dell'uomo. Questo principio deriva dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.
I diritti della Carta sono contenuti in 6 capi e poi c'è un settimo capo. Il settimo capo è relativo alle
disposizioni generali che disciplinano l'interpretazione e l'applicazione della Carta(art.51 e ss della
Carta dei diritti fondamentali).
Per quanto concerne l'ambito di applicazione la Carta di Nizza s'ispira alla giurisprudenza della Corte
di giustizia. Art. 51: i diritti in essa enunciati si applicano alle Istituzioni,organi e organismi dell'unione come
pure agli Stati esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione. Si tratta di un'attuazione del diritto
dell'Unione che è + restrittiva rispetto all'ambito di applicazione usata dalla giurisprudenza della Corte.
Ambito di applicazione comporta legami meno stretti rispetto all'attività di attuazione: anche una legge
interna che non traspone una direttiva può entrare nell'ambito di applicazione del diritto comunitario,
anche se non è un atto di attuazione. La Corte è intervenuta con una sentenza del febbraio 2013
“Akerberg Fransson”, nella quale sostanzialmente ha precisato che si tratta di espressioni equivalenti:
attuazione è equivalente a ambito di applicazione.
Problema della coesistenza tra la Carta dei diritti fondamentali e la Convenzione europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU). Molti dei diritti elencati nella Carta dei diritti fondamentali
corrispondono a diritti che sono garantiti dalla CEDU e allora gli autori della Carta si sono posti il
problema che l'interpretazione dei 2 strumenti (CEDU e Carta dei diritti fondamentali) potessero dar
luogo a un affievolimento dei livelli di tutela,per questa ragione nell'art.52 paragrafo 3 della Carta dei
diritti fondamentali si dispone che laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli
garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, il significato e la portata degli
stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il
diritto dell'unione conceda una protezione più estesa. In altri termini il livello di protezione garantito dalla
Carta deve essere almeno equivalente a quello garantito dalla CEDU, non vuol dire uguale, si può
andare oltre. L'UE può concedere una protezione maggiore rispetto a quella garantita dalla CEDU,
ma non potrebbe concedere una protezione inferiore. E se concede una protezione inferiore qual è il
rimedio?
Ci sono atti di diritto derivato in materia di PESC, che sono quelli disciplinati dall'art.25 del TUE, ci
sono gli atti del terzo pilastro (il 3 pilastro non esiste +, ma prima dell'entrata in vigore del Trattato di
Lisbona il pilastro esisteva e sulla base del vecchio art.34 del TUE sono stati posti in essere una serie di
atti del 3 pilastro, mi riferisco in particolare alle decisioni quadro sul mandato d'arresto europeo. La
decisione quadro è un atto emanato sulla base del vecchio art.34 TUE, non si possono + emanare
nuove decisioni quadro, oggi il posto delle decisioni quadro è preso dalla direttiva, ma le decisioni
quadro preesistenti ancora oggi abbiamo decisioni quadro nell'ambito del diritto derivato, ha le stesse
caratteristiche delle direttive, perché vincola lo Stato nel fine ma lascia libero nei mezzi, però per
espressa previsione del vecchio art. 34 TUE la decisione quadro non produce effetti diretti. Le direttive
in certe circostanze possono produrre effetti diretti).
Poi esistono gli atti atipici, atti che non sono tipizzati nel Trattato, ma che in linea di prassi vengono
adottati dalle Istituzioni, ad es. pluralità di atti che vengono emanati nell'ambito del diritto della
concorrenza, s'imbatte in formicazioni della Commissione. Le formicazioni sono atti atipici emanati in
prassi dalla Commissione europea.
23 OTTOBRE 2014
La scorsa settimana abbiamo parlato delle fonti dell'Unione europea e ci siamo in particolare soffermati
sul tema della tutela dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Questa tematica nasce da una lacuna
dei Trattati quali nella loro versione originaria e abbiamo visto come la Corte di giustizia ha con la sua
giurisprudenza colmato questa lacuna affermando che i diritti fondamentali sono principi generali
dell'ordinamento dell'Unione europea ed individuando le 2 fonti d'ispirazione da cui è possibile trarre
i principi fondamentali dell'Unione europea ossia le tradizioni costituzionali comuni e le Convenzioni
internazionali in tema di diritti umani cui partecipano gli Stati membri ed in particolare la CEDU. La
posizione della Corte è stata in qualche modo avvalorata dal comportamento delle Istituzioni degli
Stati membri, i quali stati membri in una serie di revisioni successive dei Trattati hanno introdotto una
tutela dei diritti fondamentali colmando la lacuna da cui siamo partiti, mi riferisco all'art. 6 del Trattato
sull'Unione europea introdotto dal Trattato di Maastricht,il quale ha codificato i principi
giurisprudenziali enunciati dalla Corte ed è stato poi progressivamente arricchito, l'ultimo
arricchimento in ordine di tempo è quello derivante dal Trattato di Lisbona che ha conferito valore di
diritto primario alla Carta fondamentali dei diritti e poi ha attribuito una base giuridica per l'adesione
dell'Unione europea alla CEDU. E poi abbiamo parlato della Carta dei diritti fondamentali, il suo
ambito di applicazione e dei rapporti tra l'Unione europea e la CEDU e a questo proposito abbiamo
detto che attualmente l'Unione europea non è parte della CEDU, sebbene sia in corso, sia in una fase
piuttosto avanzata una procedura di adesione alla Convenzione.
Ci resta da dire poche cose sul diritto derivato.
Vorrei introdurvi il concetto di base giuridica di un atto e poi dobbiamo dire qualcosa sui principali atti
di diritto derivato: direttive, regolamenti e decisioni. Poi tratteremo il tema dei rapporti tra
ordinamenti.
Invocabilità vuol dire la possibilità di invocare in giudizio interno norme di diritto dell'U.E. ed in
particolare gli effetti diretti e gli effetti indiretti.
BASE GIURIDICA
Dobbiamo dire cos'è la base giuridica di un atto.
Quando l'Unione Europea ha competenza si pone il problema dell'atto da adottare, la scelta circa il tipo
di atto da adottare dipende dalla base giuridica.
Che cos'è la base giuridica? La base giuridica è una disposizione del trattato che attribuisce alle
istituzioni il potere di adottare un determinato atto, una sorta di titolo di competenza. Di solito la base
giuridica ci dà un insieme di informazioni, in particolare ci dice il tipo di atto da adottare e la procedura
da seguire x l'adozione dell'atto. Quindi la base giuridica può contenere 3 informazioni:
1. l' U.E. ha la competenza ad adottare un atto;
2. il tipo di atto da adottare;
3. la procedura decisionale da eseguire.
Non sempre contiene tutte e tre le informazioni, a volte non dice nulla circa la procedura decisionale da
seguire, in questo caso si seguirà la procedura legislativa ordinaria oppure non ci dice l'atto da adottare,
in questo caso le istituzioni hanno discrezionalità, possono scegliere. Ad es. in materia di aiuti di stato
l'art.109 TFUE ci dice che il Consiglio su proposta della Commissione previa consultazione del Parlamento
europeo può stabilire tutti i regolamenti utili ai fini dell'applicazione delle norme sugli aiuti di stato. Questa
disposizione del Trattato ci dice 3 cose: l'unione europea ha competenza a legiferare di aiuti di stato;
qual è il tipo di atto da adottare; qual è la procedura da seguire (è una procedura legislativa speciale
perché il Parlamento europeo viene semplicemente consultato e quindi non c'è l'adozione di un atto
congiuntamente, ma c'è l'adozione di un atto dal Consiglio con la partecipazione del Parlamento
europeo). In tema di diritto di stabilimento l'art.50 dice il Parlamento europeo e il Consiglio legiferano
mediante direttive secondo la procedura legislativa ordinaria (abbiamo una competenza ad emanare atti di
diritto derivato in tema di diritto di stabilimento e poi abbiamo indicazione del tipo di atto: direttive e
poi le procedure da seguire (mediante la procedura legislativa ordinaria).
Il problema che si pone è quello spesso di individuare la corretta base giuridica x l'adozione di un atto.
Come si fa a individuare la base giuridica per l'adozione di un atto? Bisogna avere riguardo allo scopo e
al contenuto dell'atto. Il regolamento in tema di controllo degli aiuti di stato evidentemente rientra nella
base giuridica di cui art.109 perchè il suo scopo è disciplinare il controllo sugli aiuti di stato e quindi
non è un atto che desta dei …?.. circa l'adozione della corretta base giuridica. Capita però che ci siano
atti i quali prevedono la pluralità di scopi ed una pluralità di contenuti ecco che in questo caso il
problema si pone perché le istituzioni devono stabilire qual è lo scopo principale dell'atto e in base allo
scopo principale dell'atto devono individuare la corretta base giuridica per l'adozione dell'atto. Ad es.
un regolamento sulla spedizione dei rifiuti è un atto che può avere scopi: uno scopo potrebbe essere la
tutela dell'ambiente, un altro scopo la libera circolazione delle merci (anche i rifiuti sono una merce
perché sono idonei ad essere oggetto di trattazioni economiche), x cui questo è un atto che può
perseguire una pluralità di scopi(tutela dell'ambiente, libera circolazione delle merci). E allora come si
fa a individuare la base giuridica corretta? Bisogna individuare lo scopo principale: la tutela
dell'ambiente e così la base giuridica sarebbe l'art.192 TFUE di tutela dell'ambiente. L'art.192 non ci
dice qual è l'atto che la comunità dovrà adottare, questo vuol dire che l'unione può adottare direttive,
regolamenti, decisioni a sua discrezione, valuterà l'atto da adottare sulla base degli obiettivi che intende
perseguire.
Nell'ipotesi in cui non ci sia uno scopo principale, può capitare che più scopi, più contenuti si pongono
sullo stesso piano, non c'è uno scopo principale, in questi casi si potranno adottare più basi giuridiche,
si potranno indicare più basi giuridiche: si parla a proposito di base giuridica plurima .
Il problema si pone quando le diverse parti giuridiche indicano diverse procedure per porre in essere
l'atto. Supponiamo che una indichi una procedura legislativa speciale, mentre un'altra base giuridica
indica una procedura legislativa ordinaria e allora la Corte di giustizia dice: “si possono indicare + basi
giuridiche, ma la procedura da seguire deve essere una, se ne sceglie una, non si possono seguire
contemporaneamente più procedure, poi il Parlamento viene consultato oppure approvazione del
Parlamento secondo procedura legislativa ordinaria”, la Corte di giustizia afferma che in questo caso si
dovrà preferire la base giuridica di portata + generale rispetto a quella + specifica e non dovranno mai
essere pregiudicati i poteri di partecipazione del Parlamento europeo all'adozione dell'atto. Quindi nell'
es. che vi ho fatto prima(una base giuridica prevede una procedura legislativa speciale consistente nella
deliberazione unanime del Consiglio previa consultazione del Parlamento europeo come l'art.109 ed
un'altra invece prevede la procedura legislativa ordinaria) secondo voi quale procedura bisognerà
adottare? Il principio è + generale e non pregiudica le prerogative del Parlamento e quindi si applicherà
la procedura legislativa ordinaria!
Sono quelli indicati dall'art.288 del TFUE. Nella scorsa lez. vi ho detto che sono i principali ma ve ne
sono anche altri: ci sono gli atti in materia di PESC; ci sono gli atti del terzo pilastro, anche se il terzo
pilastro non esiste più, gli atti che sono stati posti in essere restano in vigore; c'è una vasta pluralità di
atti atipici, di atti che non trovano un'espressa disciplina; però i principali atti di diritto derivato sono i
regolamenti, le direttive e le decisioni, disciplinati dall'art.288.
Cosa dice l'art.288 relativamente ai regolamenti? Dice: “il regolamento ha portata generale, esso è
obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”. Quindi il
regolamento ha 3 caratteristiche:
• Portata generale. Vuol dire che si applica in maniera astratta a tutti i soggetti che rientrano nel
campo di applicazione. Non ha portata individuale, ma portata generale. Può accadere che un
regolamento in virtù dei suoi requisiti sia indirizzato a una cerchia limitata di soggetti, ma questa
circostanza non gli fa perdere il suo carattere di generalità, a meno che il contenuto del
regolamento non sia stato posto in essere in relazione ad una situazione individuale, in un caso
del genere allora la Corte di giustizia in sede di annullamento potrebbe dire che il regolamento
maschera una decisione, però questa è un'ipotesi patologica, rara. L'esigenza del carattere
generale del regolamento è essenziale nel contenzioso di legittimità. Azione di annullamento
disciplinata dall'art.263 TFUE mediante la quale è possibile porre in discussione di fronte alla
Corte di Giustizia la legittimità di un atto di diritto derivato. L'art.263 distingue alcune categorie
di ricorrenti: ricorrenti privilegiati, ricorrenti non privilegiati e poi c'è una categoria intermedia. Il
problema che c'interessa riguarda i ricorrenti non privilegiati,che sono le persone fisiche e le
persone giuridiche, quindi i ricorrenti individuali sono ricorrenti non privilegiati. Sono non
privilegiati perché non possono impugnare con l'azione di annullamento qualunque atto di diritto
derivato, ma possono impugnare soltanto gli atti giuridici adottati nei loro confronti, nei loro
confronti vuol dire sono i destinatari. Per gli atti di cui non sono destinatari i singoli possono
impugnare soltanto gli atti che li riguardano direttamente (diretto vuol dire che non ci deve
essere alcun atto che si frappone fra l'atto che volete impugnare e la vostra sfera giuridica, se c'è
un atto di esecuzione dovrete impugnare l'atto di esecuzione) ed individualmente (vuol dire alla
stregua di un destinatario formale), nonché dice l'art.263 a seguito del Trattato di Lisbona: i
singoli possono impugnare gli atti regolamentari che li riguardano direttamente e che non
comportano alcuna misura di esecuzione. Quali atti potete impugnare? Potete impugnare un
regolamento? Ha portata generale. Può riguardare qualcuno in maniera diretta e individuale? Io
direi diretta si xkè è direttamente applicabile, individuale no, se lo fa è una decisione mascherata
regolamento (ipotesi di mascheramento dell'atto, ipotesi rara in giurisprudenza). Normalmente il
regolamento avendo portata generale non può essere impugnato dai singoli. Il trattato di
Lisbona introduce questa disposizione all'interno dell'art.263, che riguarda l'azione di
annullamento e aggiunge che i singoli possono impugnare anche gli atti regolamentari che li
riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura di esecuzione. Qualcuno potrebbe
dire allora si può impugnare, in realtà la Corte di Giustizia ha avuto modo di precisare che gli
atti regolamentari non sono i regolamenti, ma sono gli atti non legislativi (Sentenza Inmitt del
2013), questa dizione “atti regolamentari” è rimasta invariata dalla Costituzione europea, la
quale prevedeva non atti legislativi e atti non legislativi, ma atti legislativi e atti regolamentari.
• Portata obbligatoria. L'art.288 dice il regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi, questo
vuol dire che il regolamento s'impone integralmente alle Istituzioni, agli Stati membri e ai singoli
e quindi ha portata obbligatoria a tutte le situazioni che rientrano nel suo ambito di applicazione.
• Diretta applicabilità in ciascuno degli Stati membri. Il regolamento non deve essere oggetto di
una misura di trasposizione. Le direttive devono essere oggetto di trasposizione; il regolamento
non deve essere trasposto, è direttamente applicabile e anzi la trasposizione di un regolamento
potrebbe essere una violazione del Trattato perché la trasposizione comporta la trasformazione di
un atto dell'Unione europea in atto interno con la perdita delle caratteristiche che ha il
regolamento, x es. il primato. La trasposizione è vietata, altro discorso è l'esecuzione che
compete agli Stati.
• L'applicabilità del regolamento dispiega i suoi effetti sia nei confronti delle autorità nazionali sia
nei confronti di singoli (persone fisiche, persone giuridiche).
DIRETTIVE
L'ART.288 dice: “la direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da
raggiungere salvo restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.” anche la
direttiva quindi è obbligatoria xkè vincola lo Stato membro, ma a differenza del regolamento la
direttiva è indirizzata agli Stati membri, di solito a tutti gli stati membri, ma a volte a taluni stati
membri. La direttiva è una sorta di legge quadro,cioè un atto che delinea tratti generali di una
disciplina, ma che dovrebbe lasciare agli Stati la possibilità di occuparsi dei dettagli,margine di scelta
quanto alle modalità di attuazione per raggiungere gli obiettivi previsti dalla direttiva. Ovviamente
questo grado di libertà di cui gli Stati membri dovrebbero godere può essere + o meno ampio a seconda
del livello di previsione della direttiva. Nella prassi c'è una tendenza a redigere direttive piuttosto
dettagliate e anzi la dottrina ha individuato la categoria delle direttive dettagliate, cioè delle direttive che
non lasciano margine di discrezionalità, lasciano un margine di discrezionalità minimo agli Stati
nell'attività di trasposizione e questa è una tendenza che erode le competenze principalmente dei
Parlamenti nazionali. Qualcuno in passato ha posto in dubbio la legittimità delle direttive dettagliate.
La Corte di giustizia non ha mai formulato critiche in proposito, x cui oggi si considera conforme al
sistema dell'Unione il fatto che le direttive possono avere anche notevoli gradi di dettaglio.
Le direttive prevedono un termine di trasposizione, alla scadenza del quale gli Stati che non hanno
posto in essere l'attività di trasposizione si trovano in una situazione di infrazione del diritto
dell'unione europea, che la Commissione può far valere attraverso lo strumento “procedura
d'infrazione” che è lo strumento attraverso il quale la Commissione può far valere la violazione degli
obblighi discendenti dal Trattato da parte degli Stati. Prima della scadenza del termine d'infrazione
secondo la Corte lo Stato ha soltanto l'obbligo di astenersi dall'adottare disposizioni che possono
compromettere il risultato previsto dalla direttiva.
Quanto all'attività di trasposizione lo Stato può scegliere le misure che preferisce purché queste diano
pieno effetto agli obblighi contenuti nella direttiva. Questo cosa vuol dire? In Italia se una direttiva
interviene in una materia che era disciplinata da una legge ordinaria e allora lo Stato dovrà intervenire
attraverso legge ordinaria, perché diversamente non darebbe pieno effetto agli obblighi contenuti nella
direttiva, però se questo non avviene lo Stato ha discrezionalità quanto agli strumenti da utilizzare per
dare pieno effetto alle direttive. Si ritiene però che non è possibile conformarsi ad una direttiva
attraverso una semplice prassi amministrativa oppure attraverso un'emanazione di circolari.
DECISIONI
Sulla base dell'art.288 sono obbligatorie in tutti i loro elementi e se designano i loro destinatari sono
obbligatori soltanto nei confronti di questi. La decisione è un atto obbligatorio direttamente applicabile.
La decisione può avere portata individuale, solitamente ha portata individuale, ma in pochi casi previsti
dal Trattato la decisione può avere portata generale.
Portata individuale cosa vuol dire? Vuol dire che la decisione individua il suo destinatario, il quale può
essere una persona fisica, può essere persona giuridica, può essere uno Stato membro. La portata
individuale ha delle conseguenze rilevanti nel contenzioso di legittimità(azione di annullamento art.263
perché come vi ho detto prima i singoli possono impugnare gli atti di cui sono destinatari, quindi la
decisione è impugnabile dal suo destinatario oppure da quei soggetti che pur non essendo destinatari
sono riguardati direttamente e individualmente).
Esistono decisioni aventi portata generale,solitamente sono prese dal Consiglio. x es. nell'ambito della
stipula di un trattato internazionale si prevede che il Consiglio prende decisioni.
Una delle caratteristiche principali dell'ordinamento dell'Unione europea consiste nel fatto di
riconoscere come titolari di soggettività giuridica non soltanto gli Stati membri dell'Unione europea ma
anche i soggetti che si collocano all'interno degli ordinamenti statali ossia persone fisiche e persone
giuridiche, x cui le nome di diritto dell'unione europea non hanno soltanto una dimensione
internazionale (non si rivolgono soltanto agli Stati membri), ma hanno anche una dimensione interna
(producono diritti e obblighi in capo ai soggetti che si collocano all'interno degli ordinamenti statali). Il
+ delle volte si tratta di un rapporto tra soggetto privato e soggetto pubblico, riconducibile in modo
indiretto/diretto all'autorità statale, in questo caso si parla di rapporti verticali (soggetto privato con
soggetto pubblico). Quando invece le fonti dell'unione incidono nei rapporti intercorrenti tra soggetti
privati si parla di rapporti orizzontali.
Ma in che modo le fonti dell'unione incidono sulle posizioni giuridiche individuali? Può incidere con
intensità variabile e la dottrina fa riferimento a questo proposito a 2 modalità attraverso le quali le fonti
dell'unione possono incidere nei rapporti giuridici interni (vedi schema in pdf) sono riconducibili a
queste 2 categorie:da un lato effetti diretti, dall'altro effetti indiretti.
EFFETTI DIRETTI
L'efficacia diretta consiste nell'idoneità che hanno certe norme dell'unione europea ad incidere
direttamente nelle posizioni giuridiche individuali che si collocano all'interno degli ordinamenti interni
senza necessità che lo Stato faccia da diaframma. Effetto diretto è l'idoneità che hanno certe norme
dell'unione europea di produrre diritti e obblighi in capo a soggetti che si collocano all'interno di
ordinamenti statali.
L'impatto tra fonti interne e fonti di diritto dell'unione europea dotato di effetto diretto può produrre 2
fenomeni, che vengono individuati, definiti dalla dottrina come effetto di sostituzione ed effetto di
opposizione o preclusione.
Che cos'è l'effetto di sostituzione? Può verificarsi che una fonte di diritto dell'unione europea fornisca in
tutto o in parte la disciplina di rapporti giuridici interni. Questo è il fenomeno che si verifica nel caso
dei regolamenti; il regolamento è direttamente applicabile, fornisce in tutto o in parte la disciplina di
una fattispecie, di un rapporto giuridico interno e quindi si sostituisce a eventuali fonti interne
incompatibili, preesistenti, x questo si parla di effetto di sostituzione.
Può anche verificarsi che la fonte di diritto dell'unione europea non fornisca una disciplina completa di
un rapporto giuridico interno, ma si limiti ad impedire l'applicazione di norme interne ad essa
contrarie: si parla a proposito di effetto di opposizione.
es. di effetto di sostituzione: un regolamento che armonizza le norme tecniche sulla produzione di un
determinato prodotto. Le norme tecniche sono le norme che riguardano i prodotti, ad es. le modalità di
fabbricazione di un prodotto, le componenti che questo prodotto può o non può avere, il
confezionamento, l'imballaggio,etc.. un regolamento che dice che i materiali x l'edilizia non possono
contenere amianto contiene una norma tecnica e spesso i regolamenti hanno lo scopo di armonizzare le
norme tecniche nazionali. Un atto che disciplina la produzione di una merce è un atto idoneo a
sostituirsi a un'eventuale atto interno incompatibile. Se c'è un regolamento comunitario che dice che
nei materiali di edilizia non si può mettere l'amianto e c'è una legge interna che prevede che si possano
mettere delle soglie di amianto non superiori a .., allora il regolamento comunitario sostituisce la fonte
interna incompatibile e si parla di effetto di sostituzione.
es. di effetto di opposizione: pensate ad una legge interna, la quale prevede un indennizzo x i soggetti
che subiscono un'aggressione e poi una successiva legge interna la quale limita questo beneficio ai
cittadini di quel paese. La seconda legge contrasta col principio di non discriminazione sulla base della
nazionalità. Il principio di non discriminazione impedisce che questa dispieghi i suoi effetti in favore di
una legge preesistente. Quindi questo è un effetto di opposizione. Il principio di non discriminazione
non si sostituisce alla legge interna incompatibile. Quindi la fattispecie non è regolata dal diritto
dell'Unione Europea,ma da una fonte interna preesistente. Altro es. causa Berlusconi sul falso in
bilancio: una causa decisa a settembre dalla Corte di Giustizia del 2005. Che cosa era successo? C'erano
alcuni procedimenti penali pendenti in Italia x falso in bilancio, non riguardava soltanto Berlusconi, la
sentenza è “Berlusconi, Dell'Utri e altri” origina da un insieme di rinvii pregiudiziali provenienti da
giudici italiani e la Procura della Repubblica aveva posto il problema della compatibilità delle nuove
norme in materia di false comunicazioni sociali con alcune direttive comunitarie, ci sono direttive in
materia di diritto societario, le quali prescrivono alcuni obblighi in capo agli Stati membri in tema di
bilancio delle società e dicono che in caso di violazione di questi obblighi, gli Stati devono prevedere
adeguate sanzioni. Il legislatore italiano aveva recepito queste direttive attraverso attività di
trasposizione e poi in seguito queste regole sono state modificate con norme sanzionatorie meno
severe, depenalizzazione di alcune fattispecie rientranti nel falso in bilancio. E allora il problema che si
poneva la Procura della Repubblica qual era? Le nuove sanzioni sono adeguate come prescrivono le
direttive in materia di diritto societario oppure non sono adeguate? In quel caso le procure non
invocavano l'effetto di sostituzione xkè non c'è una norma comunitaria che dice quali sono le sanzioni
da adottare, che si sostituisce ad eventuali sanzioni interne incompatibili, ma la norma comunitaria ci
dice che le norme devono essere adeguate, x cui se la Corte di giustizia, come non ha fatto, avesse detto
che le sanzioni italiane non sono adeguate si avrebbe avuto la veridiscenza delle precedenti sanzioni
previste dall'ordinamento, precedenti alla riforma introdotta nel 2002, si sarebbe avuto non effetto di
sostituzione, ma effetto di opposizione. In realtà questo non è successo xkè la Corte di giustizia ha
detto che non è scesa nel merito del rinvio pregiudiziale, non è andata a verificare se le sanzioni sono o
meno adeguate, ma ha fondato il principio dell'applicazione retroattiva della pena + mite, x cui ha
detto “anche se le nuove norme non fossero da considerarsi adeguate in ogni caso dovrebbe applicarsi
l'applicazione della pena retroattiva + mite anche se questa pena contrasta col diritto dell'Unione
europea” e quindi non è andata a verificare se le norme sul falso in bilancio sono o meno adeguate.
Quali norme del diritto dell'U.E. Sono dotate di effetti diretti? Fino al 1963 appariva certo che soltanto i
regolamenti e le decisioni fossero direttamente applicabili, producessero effetti diretti, mentre si
riteneva che non producessero effetti diretti il Trattato e le norme contenute nelle direttive che x
espressa previsione dell'art.288 devono essere oggetto di trasposizione.
Perché si riteneva che non producessero effetti diretti le norme del Trattato? Perché nel diritto
internazionale classico i Trattati obbligano gli Stati e non producono effetti in capo ai soggetti che si
collocano all'interno degli ordinamenti nazionali. Le persone fisiche e le persone giuridiche non sono
soggetti di diritto internazionale. I soggetti di diritto internazionale sono gli Stati e le organizzazioni
internazionali. Si dava per scontato che questo principio valesse anche in relazione all'ordinamento
delle comunità europee e questo anche in virtù della formulazione del Trattato. Gran parte delle norme
che voi trovate nel Trattato sembrano formulate in relazione alla posizione degli Stati, sembrano
rivolgersi agli Stati. es. uno dei pilastri su cui si regge la libera circolazione delle merci è l'unione
doganale, che si compone di una tariffa ..???.. e divieto di dazi doganali. A chi si rivolge il divieto di
introdurre dazi doganali? Agli Stati, sono gli Stati che non possono introdurre dazi doganali.
Nel 1963 questa certezza è stata scardinata da una sentenza epocale: la sentenza Van Gend en Loos,
nella quale x la prima volta si afferma che anche le norme del Trattato sono dotate di efficacia diretta
quando sono chiare, precise e incondizionate.
Van Gend en Loos è una società di trasporto,che trasportava materiali chimici tra la Germania e
l'Olanda sennonché al momento dell'attraversamento della frontiera in occasione di trasporti effettuati
da Van Gend en Loos, la quale si vedeva chiedere dall'autorità doganale olandese un dazio doganale
maggiorato, siamo ancora nei primi anni '60, non c'era stata ancora la totale abolizione dei dazi
doganali,ma si prevedeva che x un certo periodo transitorio gli Stati non potessero aumentare dazi
doganali e poi alla fine si prevedeva l'abolizione dei dazi doganali. Quindi Van Gend en Loos si vede
domandare dazi doganali maggiorato vietato dall'art. 30 TFUE. Van Gend en Loos si rivolge al giudice
olandese e gli chiede che sia disposto il rimborso del dazio doganale maggiorato che era stata chiamata
a versare. La violazione del Trattato è evidente.
Van Gend en Loos, individuo, può domandare a un giudice l'applicazione di una norma del Trattato
che sembra rivolgersi agli Stati membri? Le norme del Trattato producono effetti diretti oppure no?
Di fronte alla Corte di giustizia intervengono numerosi governi degli Stati membri e tutti i Governi che
intervengono sostengono la stessa posizione, cioè dicono che vige il principio generale in base al quale
le norme dei Trattati obbligano gli Stati membri, ma non conferiscono direttamente diritti in capo ai
cittadini. Nonostante questo la Corte di giustizia in questa sentenza dice: “la Comunità costituisce un
nuovo ordinamento giuridico, un ordinamento giuridico che riconosce come soggetti non solo gli Stati membri, ma
anche i loro cittadini e fra i diritti sussistono non solo nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma
anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal Trattato ai singoli, agli Stati membri o alle istituzioni
dell'Unione”. L'effetto diretto è la contropartita di un obbligo incombente sullo Stato. E poi ancora
afferma che l'art.30 pone un divieto chiaro e preciso e non condizionato e per questa ragione produce effetti
diretti. Il giudice olandese deve concedere alla società di trasporto Van Gend en Loos il rimborso del
dazio versato e quindi con questa sentenza si riconosce il principio in base al quale quando una
norma del Trattato è chiara, precisa e non condizionata oppure sufficientemente precisa e non
condizionata e allora la norma del Trattato produce effetto diretto.
Il presupposto della sufficiente precisione riguarda la formulazione della norma, che deve essere
considerata alla luce del contesto e alla luce dello scopo che si prefigge di raggiungere; la norma deve
contenere il precetto che deve essere sufficientemente definito in modo tale che i destinatari possono
comprendere la portata ed il giudice sia in grado di applicare il precetto della norma nella controversia
dinanzi a esso pendente.
Nella giurisprudenza successiva la Corte ha dato un'altra definizione di questo requisito della
“sufficiente precisione”; in particolare nella sentenza Francovich del 1991 la Corte dice che sufficiente
precisione vuol dire : “la norma specifica 3 presupposti: il titolare dell'obbligo, il titolare del diritto e il
contenuto del diritto obbligo”. Una norma è sufficientemente precisa quando sono ricavabili il titolare
dell'obbligo, il titolare del diritto e il contenuto del diritto obbligo. È un test(bisogna individuare
titolare dell'obbligo, il titolare del diritto e il contenuto del diritto obbligo) che riguarda in realtà l'effetto
di sostituzione e non anche l'effetto di opposizione. Quando è effetto di opposizione non occorre che la
norma comunitaria renda individuabile il titolare del diritto, il titolare dell'obbligo, il contenuto del
diritto obbligo. Se l'effetto è effetto di sostituzione allora la disciplina della fattispecie deve essere
completa, se l'effetto è effetto di opposizione il livello di precisione può essere sensibilmente + basso,
tant'è che si riconosce che producono effetti diretti anche alcuni principi generali dell'U.E. La Corte di
giustizia è + elastica quando si tratta di effetti di opposizione.
L'incondizionatezza riguarda l'assenza di ragioni che subordinano l'applicazione della norma
comunitaria ad ulteriori interventi normativi da parte degli Stati membri.
Quali norme sono non condizionate? Quelle norme che non richiedono un'ulteriore attività di
esecuzione da parte degli Stati membri. es. che vi faccio riguarda una direttiva sent. Francovich.
Per la prima volta nella sentenza Francovich la Corte ha enunciato il principio in base al quale lo Stato
deve rispondere dei danni che procura in caso di mancata attuazione del diritto dell'Unione europea.
(effetto indiretto)
La sentenza Francovich origina da un'azione promossa da alcuni lavoratori italiani. C'era una direttiva
che prevedeva un'indennità ai lavoratori in caso d'insolvenza del datore di lavoro. La direttiva però non
è una direttiva dettagliata, lasciava allo Stato un certo margine di discrezionalità nella sua trasposizione
e in particolare la direttiva prevedeva che lo Stato potesse mettere questa garanzia, quest'indennità a
carico del bilancio pubblico dello Stato o a carico di un fondo istituito con contributi del datore di
lavoro. La direttiva non veniva trasposta nell'ordinamento italiano, questi soggetti avevano un diritto
discendente dalla direttiva, che però non appariva azionabile xkè lo Stato italiano non aveva posto in
essere un'attività di trasposizione. Direttive non possono considerarsi incondizionate, sono
condizionate dal compimento di questa attività dello Stato, il quale deve decidere chi è il soggetto che
pagherà l'indennità. Questa disposizione non produce effetti diretti xkè difetta del requisito
dell'incondizionatezza.
Quindi è non condizionata una norma che non richiede ulteriori atti di esecuzione.
Sufficiente precisione e incondizionatezza sono requisiti oggettivi. Non ci sono anche requisiti
soggettivi.
Sentenza Van Gend en Loos è rapporto verticale perché singolo contro lo Stato. Questa norma del
Trattato produce effetti verticali. Ma la circostanza che la direttiva si rivolga allo Stato non comporta
che la norma del Trattato produca soltanto effetti verticali, può produrre effetti diretti anche orizzontali.
Questo principio la Corte di giustizia l'ha enunciato x la prima volta nel '76 la sentenza De FREN, altro
es. sentenza del 2000 sentenza Angonese che riguardava un ricorrente che non andava di essere
assunto da una banca, la Cassa di risparmio di Bolzano. Questa banca chiedeva che i candidati al
concorso fossero in possesso del patentino di bilinguismo, cioè un particolare certificato rilasciato da
scuole presenti soltanto nella provincia autonoma di Bolzano nella quale si attestava la perfetta
conoscenza della lingua italiana e della lingua tedesca. Un ricorrente ha sostenuto che questo fosse
contrario alla libera circolazione dei lavoratori e all'art. 45. Il rapporto è un rapporto orizzontale perchè
la banca è una banca privata, è un singolo contro un altro singolo. L'art.45 sulla libera circolazione dei
lavoratori subordinati è una norma che formalmente si rivolge agli Stati, ma la Corte di giustizia dice
“sebbene la norma si rivolga agli Stati produce effetti diretti orizzontali, è invocabile in un rapporto tra
privati” .
Le norme del Trattato producono effetti diretti sia verticali che orizzontali.
X le direttive il discorso è + complesso.
Si pongono 2 problemi:
1. le direttive producono qualche effetto prima che sia scaduto il termine per la trasposizione?
Problema degli effetti in pendenza del termine di trasposizione. La Corte ha avuto modo di
pronunciarsi in proposito nella sentenza Inter-Environnement Wallonie, 1997, nella quale
sentenza ha affermato il “principio dell'obbligo di non aggravamento”. E' l'obbligo x cui uno Stato
membro, durante la pendenza del termine di trasposizione, non può adottare provvedimenti in
contrasto con la direttiva o cmq tali da compromettere gravemente la realizzazione del risultato
prescritto dalla direttiva. L'obbligo di non aggravamento discende secondo la Corte di giustizia
dal principio di leale cooperazione tra stati membri e unione europea sancito nell'art. 4
paragrafo 3 del Trattato sull'unione europea. Gli stati membri adottano tutte le misure atte ad
assicurare le funzioni derivanti dai Trattati e si astengono da qualsiasi misura che rischi di
compromettere la realizzazione degli scopi dell'Unione.
2. Che cosa succede nel caso in cui lo Stato non traspone la direttiva,non la traspone
correttamente? La direttiva prevede un diritto in capo a un soggetto. Questo soggetto ha un
diritto, ma non può azionarlo in giudizio xkè la direttiva non è stata trasposta. Se una direttiva
conferisce diritti ai singoli e lo Stato membro non la traspone entro il termine prescritto, questi
soggetti possono far valere la direttiva di fronte ad un giudice nazionale oppure no? Ex art. 288
dovremmo dire no. Esistono direttive dettagliate che non lasciano ampio margine discrezionale
agli Stati membri e allora in questo caso in astratto le direttive potrebbero produrre effetti
diretti. Abbiamo visto anche che direttive che non sono dettagliate sono astrattamente idonee a
produrre un effetto diretto quando si tratta di effetto diretto di opposizione.
3. La Corte di giustizia ha avuto modo di occuparsi di questo tema nella sentenza Van Duyn del
1974. Nel 1973 una cittadina olandese si vedeva rifiutare l'autorizzazione ad entrare nel Regno
Unito dove intendeva lavorare come segretaria della chiesa Scientology. In quel periodo per il
Regno Unito Scientology era un pericolo per la società, x cui il Ministero dell'interno britannico
rifiutava l'ingresso di questo soggetto. La signorina Van Duyn dice “qua c'è stata una violazione
innanzitutto dell'art.45 del Trattato (libera circolazione dei lavoratori subordinati) e poi di una
norma contenuta in una direttiva n.221/64 (oggi abrogata,oggi questa materia è disciplinata
dalla direttiva 2004/38). passo indietro: l'art. 45 prevede la libera circolazione dei lavoratori
subordinati, però prevede anche delle deroghe che sono: l'ordine pubblico, pubblica sicurezza..
Il Regno Unito dice: “si è vero c'è la libera circolazione, ma questa situazione rientra in una
deroga che è quella dell'ordine pubblico, senonché poi le deroghe sono disciplinate in modo più
dettagliato in atti di diritto derivato (oggi dalla direttiva 2004/38, all'epoca da una direttiva 221
del '64). La direttiva dice: “i provvedimenti di ordine pubblico o pubblica sicurezza devono essere
adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell'individuo nei confronti del quale essi
sono applicati”. Signorina Van Duyn dice “io non ho fatto niente, io non ho assunto un
comportamento personale che pone in pericolo, idoneo ad arrecare pregiudizio all'ordine
pubblico nel Regno Unito” e quindi di fronte al giudice invoca una norma contenuta nel
Trattato, l'art.45 e una norma contenuta in una direttiva. Regno Unito dice “la Van Duyn non
può invocare una norma contenuta in una direttiva xkè sulla base dell'art.288 soltanto
regolamenti e decisioni producono effetti diretti, le direttive no,devono essere trasposte dagli
Stati e non conferiscono direttamente diritti in capo ai soggetti che si collocano all'interno degli
ordinamenti statali”. La Corte di giustizia respinge quest'affermazione: “nei casi in cui le
autorità comunitarie abbiano mediante direttive obbligato gli Stati membri ad adottare un
determinato comportamento, la portata dell'atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far
valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in
considerazione come norma di diritto comunitario”. Quindi per la prima volta la Corte
riconosce effetto diretto alle norme contenute in direttive, che siano chiare, precise e non
condizionate.
4. La signora Van Duyn può invocare la norma contenuta nella direttiva? La Corte dice sì. E poi
ci si chiede anche: l' appartenenza ad una setta costituisce un comportamento personale sulla
base di quanto previsto dalla direttiva? La Corte qui dà torto alla signora Van Duyn e dà
ragione al Regno Unito perchè dice che l'appartenenza ad una setta implica sia la
partecipazione alle sue attività sia l'adesione ai suoi obiettivi e quindi può essere considerato
atto volontario dell'interessato e di conseguenza può essere fatto rientrare nella nozione
comportamento personale ai sensi della direttiva.
Nella giurisprudenza successiva la Corte di Giustizia ha poi precisato che ai requisiti oggettivi si
aggiunge anche un requisito soggettivo. L'efficacia diretta delle direttive è limitata ai rapporti verticali
ascendenti, in altri termini l'efficacia diretta delle direttive può essere fatta valere soltanto da un
soggetto privato nei confronti dello Stato, mai da un privato nei confronti di un altro privato né dallo
Stato nei confronti di un soggetto privato. Perché? Perché la giurisprudenza che ha riconosciuto anche
le direttive non attuate da …?... di produrre effetti diretti si fonda sul nesso fra l'efficacia della direttiva e
la violazione dell'obbligo di trasposizione della direttiva, violazione imputabile allo Stato. In particolare
questa giurisprudenza sugli effetti diretti delle direttive è una giurisprudenza che si regge su 3 gambe:
• effettività del diritto comunitario. La teoria dell'effetto utile, cioè il principio in base al quale
le norme dell'Unione devono essere interpretate in modo che dispieghino i loro effetti nella
misura maggiore possibile.
• Carattere obbligatorio delle direttive nei confronti degli Stati.
• Principio dell'estoppel, che deriva dagli ordinamenti di Common law ed è il principio in base
al quale lo Stato membro, che non ha adottato entro i termini previsti i provvedimenti di
attuazione imposti dalla direttiva, non può opporre ai singoli l'inadempimento da parte sua
degli obblighi previsti dalla direttiva stessa. Lo Stato non può basare la sua difesa in giudizio su
un suo inadempimento xkè competeva allo Stato stesso trasporre la direttiva.
Problema si è posto anche nella sentenza Marshall del 1986. La Corte dice “la direttiva non può di per
sé creare obblighi a carico di un singolo, la direttiva non può essere invocata contro un individuo
perché questo equivarrebbe a equiparare le direttive ai regolamenti, contrario all'art.288. Estendere la
giurisprudenza relativa all'efficacia diretta delle direttive inattuate nell'ambito dei rapporti tra singoli significherebbe
riconoscere in capo all'Unione il potere di emanare norme che facciano sorgere con un effetto immediato obblighi a
carico di questi ultimi nel dettare competenza che spetta laddove sia attribuito il potere di adottare regolamenti”.
Questa giurisprudenza suscita delle critiche molto forti in dottrina.
Gli argomenti ve li dirò nella lezione di domani.
24 OTTOBRE 2014
SENTENZA MARSHALL : sentenza nella quale, per la prima volta, la corte ha enunciato il requisito
soggettivo, l'invocabilitá della direttiva soltanto nei rapporti verticali ascendenti, perché lo stato non
agiva come pubblica autorità ma come datore di lavoro; la signora Marshall era una lavoratrice
dipendente di un apparato statale britannico in un ordinamento nel quale il diritto del lavoro era
privatizzato, cioè l'impiego pubblico era soggetto alle stesse norme di diritto privato, secondo la corte di
giustizia questo non rileva, si tratta comunque di un soggetto pubblico. Un caso estremo è poi
rappresentato dalla sentenza Foster del 1990, che traeva origine da una controversia tra una lavoratrice,
la signora Foster, ed il suo datore di lavoro, la British gas, un'impresa privata che aveva rilevato il
servizio pubblico di distribuzione del gas in regime di monopolio nel regno unito, essendo questo un
soggetto privato la direttiva non dovrebbe essere applicabile nei suoi confronti, ma secondo la corte di
giustizia anche un soggetto come la British gas che è un organo incaricato con atto della pubblica
autorità di prestare sotto il controllo di quest'ultima un servizio di interesse pubblico e che dispone a
questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano ai rapporti
tra i singoli, è da considerarsi, ai fini dell'invocabilitá delle direttive, come un soggetto pubblico, si tratta
di un caso estremo che ha suscitato critiche in dottrina. Relativamente alla sentenza Marshall, è una
giurisprudenza rimasta costante e si è consolitata nel tempo, però ha suscitato numerose critiche in
dottina :
1. in primo luogo, la giurisprudenza che nega gli effetti orizzontali delle direttive può dar luogo
ad una disparità di trattamento e quindi a quella che nell'ordinamento interno noi chiameremo
"violazione del principio di eguaglianza" (es. Una direttiva conferisce dei diritti ai lavoratori, il
lavoratore pubblico la può invocare nei confronti del suo datore di lavoro, il lavoratore privato
assunto da un'azienda che svolge le medesime mansioni, non la può invocare) ;
2. si è poi detto che tale giurisprudenza non tiene conto in modo adeguato della circostanza che
anche nei rapporti verticali ci sono spesso degli effetti nei confronti di altri soggetti privati, cioè
anche in una controversia definita verticale-ascendente (privato contro Stato) ci possono
tuttavia essere degli effetti nei confronti di soggetti terzi privati (caso degli appalti: un'impresa si
aggiudica una gara d'appalto e un'altra impresa, invocando una direttiva comunitaria, impugna
tale aggiudicazione; questa impugnazione é in rapporto verticale perché l'impresa soccombente
che impugna l'aggiudicazione dell'appalto, intenta un ricorso contro l'amministrazione pubblica
che ha bandito la gara, però c'è un aggiudicatario privato, quindi se l'esito sperato è quello
dell'annullamento, ovviamente si pregiudica questo soggetto, si parla in proposito di "rapporti
triangolari", perché il rapporto non è semplicemente verticale-ascendente ma coinvolge anche
altri soggetti privati. Secondo la corte di giustizia si tratta di mere ripercussioni negative nei
confronti dei diritti di terzi, minimizzando il ruolo di soggetti privati in controversie del genere.
Perciò, queste mere ripercussioni negative sui diritti dei terzi non escludono l'effetto diretto nei
confronti dello Stato;
3. Assottigliamento del confine tra effetti diretti ed effetti indiretti, ed in particolare tra, effetto
diretto e dell'interpretazione conforme; quest'ultimo criterio ha avuto un'espansione tale per la
quale si afferma in dottrina che tanto valeva riconoscere gli effetti diretti orizzontali.
In generale, quindi, questa distinzione tra rapporti verticali e orizzontali è una distinzione formalistica;
nonostante però le critiche della dottrina, la corte di giustizia non è mai pervenuta ad un ripensamento,
se non che negli ultimi anni la corte di giustizia ha in larga misura eroso l'ambito di applicazione della
giurisprudenza Marshall, cioè della giurisprudenza che nega gli effetti orizzontali delle direttive, ha
attenuato questa giurisprudenza sostanzialmente in 2 modi:
1. Consiste nel riconoscere l'effetto diretto di direttive che sono espressione di un principio
generale, quindi quando la direttiva è sorretta da un principio generale, allora la corte di
giustizia riconosce anche effetti diretti orizzontali non soltanto verticali ascendenti;
2. Riguarda il fenomeno dell'espansione del criterio dell'interpretazione conforme.
Per quanto riguarda la prima, il fenomeno si verifica per la prima volta in una sentenza del 2005, la
sentenza Mangold, e poi la corte di giustizia riprende questo principio giurisprudenziale nella sentenza
del 2010 Kucukdeveci, la causa riguardava la direttiva 2078 che "stabilisce un quadro generale per la
parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro", siamo nell'ambito della
disciplina materiale della parità di trattamento nei rapporti di lavoro; in particolare, gli art. 1 e 2 di
questa direttiva hanno ad oggetto l'occupazione e le condizioni di lavoro e le discriminazioni fondate
sulla religione, le convinzioni personali, gli handicap, l'età e le tendenze sessuali; il punto che qui ci
interessa riguarda l'età --> la controversia, che è una controversia orizzontale, oppone una lavoratrice
(signora kucukdeveci), al suo datore di lavoro (un privato) in germania: questa lavoratrice aveva
assunto il suo impiego nel 1996 all'età di 18 anni, nel 2006 si vedeva recapitare una lettera di
licenziamento con un preavviso di circa 1 mese, preavviso calcolato dal datore di lavoro come se la
dipendente avesse avuto un'anzianità di 3 anni, mentre, il rapporto di lavoro era durato 10 anni; tale
calcolo era basato su una legge tedesca secondo la quale, "per il calcolo della durata del termine di
preavviso non sono presi in considerazione i periodi di lavoro svolti prima del venticinquesimo anno di
età", quindi erano stati presi in considerazione soltanto i periodi di lavoro svolti dai 25 ai 28 anni, per
questo il datore di lavoro dava un preavviso di solo un mese. E allora la signora kucukdeveci invoca gli
art. 1 e 2 della direttiva 2078, sostenendo che vi fosse una discriminazione sulla base dell'età; essendo
però una controversia orizzontale, non dovrebbe essere possibile invocare le norme della direttiva, ma
qui subentra un elemento di novità in quanto la corte applica le norme della direttiva perché afferma
che la direttiva costituisce la specificazione di un principio generale dell'ordinamento dell'ue, il
principio di non discriminazione sulla base dell'età, si tratta di un principio che, al momento dei fatti di
causa, non era codificato ma era stato enunciato soltanto in una sentenza precedente, la sentenza
Mangold; secondo la corte di giustizia, essendo questo un principio generale dell 'ordinamento, si
applicano le norme contenute nella direttiva, non dovrebbe produrre effetti orizzontali ma é
specificazione di un principio generale e quindi produce effetti orizzontali. Sentenza Berlusconi falso in
bilancio e le adeguate sanzioni; la direttiva prevede che gli stati membri debbano predisporre adeguate
sanzioni in caso di scorrette comunicazioni sociali, l'italia depenalizza molte fattispecie riconducibili al
falso in bilancio e la corte di giustizia è chiamata a pronunciarsi sulla conformità delle nuove sanzioni
alla disposizione della direttiva in materia di diritto societario secondo cui le sanzioni devono essere
adeguate. Tale controversia è di tipo verticale discendente, è lo stato che invoca la direttiva contro il
privato, non si possono invocare effetti diretti delle direttive nelle controversie verticali discendenti ma
ci si appoggia proprio sull'idea che questa direttiva sia specificazione di un principio generale perché si
dice che, la circostanza che la violazione di un obbligo comunitario sia sanzionata in modo adeguato è
espressione del principio di leale cooperazione, oggi contenuto nell'art 4 del tue in base al quale "gli
stati adottano ogni misura atta ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati"; in questo
caso la corte non si è pronunciata poi sul merito perché ha detto che in ogni caso vale il principio
generale dell'applicazione della legge penale più mite.
EFFETTI INDIRETTI
Ci sono dei casi nei quali le direttive prevedono dei diritti ma non producono effetti diretti o anche
norme del trattato quando non sono sufficientemente precise e non incondizionate non producono
effetti diretti. Poniamo il caso che un soggetto abbia un diritto discendente da una norma del trattato o
della direttiva ma non possa invocare questa norma in giudizio perché non produce effetti diretti; per
capire quali strumenti di tutela vi sono in questi casi, la corte di giustizia ha enunciato un insieme di
principi giurisprudenziali che la dottrina racchiude nella categoria degli effetti indiretti, cioè ci sono
dei casi in cui le direttive o le norme dei trattati non producono effetti diretti ma comunque producono
degli effetti, definiti appunto effetti indiretti. Le forme di efficacia indiretta individuate dalla dottrina
sono essenzialmente 2:
1. INTERPRETAZIONE CONFORME = è un obbligo incombente sui giudici, in base al quale,
quando sono chiamate ad applicare norme interne, i giudici sono tenuti ad interpretarle, ove
possibile, in conformità del diritto dell'ue, anche se questo diritto non produce effetti diretti, in
particolare, ad es. in relazione alle direttive, la formula ricorrente della giurisprudenza della
corte dice: " spetta ai giudici nazionali interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della
lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e
conformarsi pertanto all'art. 288 tfue (che disciplina gli atti di diritto derivato del trattato sul
funzionamento dell'ue) " , quindi il giudice ha l'obbligo di interpretare il diritto interno
conformandosi al disposto del diritto dell'ue; ne consegue che quando il diritto interno si offre a
più interpretazioni offre uno spettro più o meno vasto di interpretazioni che possono essere
adottate, il giudice dovrà adottare quella che maggiormente si conforma al diritto dell'ue. Ruolo
importante in questa materia ha il principio di leale cooperazione, art 4 tue, in base al quale gli
stati membri adottano tutte le misure necessarie per assicurare l'esecuzione degli obblighi
comunitari. La nozione di stato è una nozione unitaria, perciò quando il trattato parla di stato,
l'obbligo dispiega i suoi effetti anche nei confronti del giudice, obbligo che deriva dal principio
di leale cooperazione. I giudici sono organi dello stato e quindi, anche nell'ipotesi in cui non
possono applicare le norme di una direttiva perché la controversia è orizzontale, devono
comunque fare tutto quanto il possibile perché si raggiungano gli effetti voluti dalla direttiva, e
devono farlo nella loro attività di interpretazione, da questo nasce il principio
dell'interpretazione conforme. In teoria c'è una differenza tra efficacia diretta e interpretazione
conforme, poiché nella prima il giudice disapplica la norma interna eventualmente
incompatibile con la norma del diritto dell'ue, nel caso dell'interpretazione conforme il diritto
interno non viene disapplicato, viene interpretato conformemente al giudizio dell'ue; i risultati
pratici, però, spesso non sono molto diversi. L' obbligo di interpretazione conforme ha subito
una notevole evoluzione che lo ha portato ad una progressiva espansione nella giurisprudenza
della corte di giustizia, perché inizialmente tale obbligo era stato enunciato in relazione a dei
particolari atti di diritto interno, ossia alle disposizioni di trasposizione di una direttiva, cioè la
corte di giustizia enuncia il principio di leale cooperazione, per la prima volta nel 1984 nella
sentenza Von Colson (causa tedesca), in relazione ad una legge interna che traspone una
direttiva, legge interna che veniva interpretata dal giudice tedesco in modo non conforme alle
esigenze di efficacia della trasposizione della direttiva; allora, in tale occasione, la corte di
giustizia ha enunciato il principio giurisprudenziale in base al quale, quando il giudice
nazionale deve interpretare una legge interna che traspone una direttiva, deve farlo alla luce del
contenuto e dello scopo della direttiva. Ma già pochi anni dopo, in particolare nella sentenza
Marleasing del 1990, la corte di giustizia ha esteso l'obbligo di interpretazione conforme anche a
disposizioni nazionali precedenti alla direttiva, che quindi non hanno un legame funzionale con
questa. In epoca piú recente, questa tendenza si è confermata e addirittura rafforzata, infatti la
corte di giustizia ha affermazto che l'obbligo di interpretazione conforme riguarda
indistintamente tutto l'ordinamento interno ed ha anche aggiunto che "il giudice deve fare tutto
ciò che rientra nella sua competenza per garantire la piena efficacia della direttiva",
affermazione contenuta nella sentenza Pfeiffer del 2004, nella quale la corte di giustizia ha
chiarito che l'obbligo di interpretazione conforme riguarda tutto il diritto nazionale senza
distinzione --> FATTI DI CAUSA : controversia tra un lavoratore ed il suo datore di lavoro, la
signora Pfeiffer era una lavoratrice della crocerossa tedesca, che è un ente di diritto privato,
quindi controversia orizzontale, e il problema che si poneva era la conformità dell'orario di
lavoro dei lavoratori della crocerossa tedesca ad alcune direttive in materia di sicurezza del
lavoro, i contratti collettivi stipulati dalle categorie di lavoratori interessati prevedevano un
orario di lavoro che era superiore rispetto al massimo previsto da un insieme di direttive in tema
di orario di lavoro; la legge tedesca entra in gioco perché espressamente affermava che i
contratti collettivi che prevedono un orario superiore al massimo stabilito dalla legge restano in
vigore, quindi conferisce la possibilità di derogare ai massimi previsti quanto all'orario di
lavoro. Essendo una controversia orizzontale, tra privati, questi lavoratori non possono
invocare le direttive in tema di orari di lavoro di fronte al giudice chiedendo la disapplicazione,
e allora chiedono l'interpretazione conforme, la corte di giustizia ha ricordato la sua
giurisprudenza relativa all'obbligo di interpretazione conforme dicendo che "il giudice del rinvio
deve fare tutto ciò che rientra nella sua competenza prendendo in considerazione tutte le norme
del diritto nazionale per garantire la piena efficacia della direttiva al fine di evitare il
superamento dell'orario massimo di lavoro settimanale"; sentenza nella quale l'obbligo di
interpretazione conforme viene valorizzato al massimo e sembra addirittura sconfinare nella
disapplicazione della legge interna, diciamo infatti che si sono assottigliati i confini tra
interpretazione conforme e disapplicazione perché la legge interna è piuttosto chiara, dice che i
contratti collettivi possono derogare al massimo consentito quanto agli orari di lavoro, perciò
tale disposizione o si applica o si disapplica, e allora se l'interpretazione conforme arriva fino
quasi alla disapplicazione tanto vale dichiarare gli effetti diretti orizzontali delle direttive,
questa è la critica che si pone alla giurisprudenza della corte. Probabilmente anche per via delle
varie critiche relativamente a questa impostazione, la corte di giustizia si è poi corretta nella
giurisprudenza successiva e in particolare ha ricordato che comunque l'interpretazione
conforme ha dei LIMITI :
• interpretazione contra legem, cioè l'obbligo di interpretazione conforme non può servire
da fondamento ad un'interpretazione contra legem del diritto nazionale, e quindi sembra
escludere la possibilità per il giudice di disapplicare; questa statuizione di principio è
contenuta nella sentenza, di poco successiva alla sentenza Pfeiffer, Adeneler del 2006 -->
Come si combinano entrambe le sentenze, cioè come si combina l'idea secondo la quale il
giudice deve fare tutto quanto il possibile per assicurare l'effetto voluto dalla direttiva con il
limite dell'interpretazione contra legem ? = Il giudice del rinvio deve fare tutto il possibile
purché vi sia un margine di discezionalità tra l'interpretazione della fonte comunitaria,
diversamente, quanto richiesto esorbita dalle sue competenze perché sarebbe
interpretazione contra legem.
• L'obbligo di interpretazione conforme non sorge prima della scadenza del termine di
trasposizione di una direttiva, quindi in pendenza del termine non c'è obbligo di
interpretazione conforme; l'unico obbligo in pendenza del termine è l'obbligo di non
aggravamento, enunciato per la prima volta dalla corte nella sentenza Inter-Environnement
Wallonie del 1997.
• Rispetto dei principi generali del diritto dell'ue, nella sua attività di interpretazione del
diritto interno il giudice si deve fermare quando la sua interpretazione da luogo alla
violazione di un principio generale di diritto dell'ue; questo problema è venuto in rilievo in
particolare nell'ambito di controversie penali nelle quali talvolta l'interpretazione conforme
può dar luogo ad un aggravamento della responsabilità penale dell'imputato, estendendo
ad es. il campo di applicazione delle ipotesi di reato.
Altra sentenza molto importante in tema di interpretazione conforme è la sentenza Pupino del
2005, che riguarda il tema dell'estensione dell'obbligo di interpretazione conforme anche alle
decisioni quadro = atti del terzo pilastro, vincolano lo stato negli obiettivi ma lo lasciano libero
nei mezzi, si differenziano dalle direttive in quanto espressamente nel vecchio art. 34 tue si
affermava che le decisioni quadro non producono effetti diretti --> ma producono effetti
indiretti e quindi si impone anche in relazione alle decisioni quadro l'obbligo di interpretazione
conforme? Problema affrontanto appunto nella sentenza Pupino, che origina da un rinvio
pregiudiziale italiano, nella quale la corte di giustizia ha affermato che la decisione quadro
produce quantomeno un effetto indiretto che è l'obbligo di interpretazione conforme. La
sentenza origina da una questione pregiudiziale posta dal giudice per le indagini preliminari del
tribunale di firenze circa l'interpretazione di una decisione quadro del 2001, relativa alla
posizione della vittima nel procedimento penale: in sostanza c'era la signora Pupino che era una
maestra, accusata di maltrattamenti nei confronti dei suoi alunni; il codice di procedura penale
sulla testimonianza dei minori, all'art 398 co. 5 bis, dice che è prevista l'assunzione anticipata
della testimonianza dei minori, però, nei soli casi di delitti sessuali o a sfondo sessuale. La
signora Pupino non è imputata di un delitto sessuale o a sfondo sessuale, il problema sono i
maltrattamenti e le percosse, e quindi sulla base di un'interpretazione letterale del codice di
procedura penale italiano, l'assunzione anticipata di queste testimonianze attraverso l'incidente
probatorio, non poteva avvenire; ciò nonostante il pubblico ministero chiedeva al giudice per le
indagini preliminari di raccogliere le deposizioni di 8 bambini, sostenendo che l'assunzione
della prova non poteva essere differita fino al dibattimento, a causa della minore età dei
testimoni e della inevitabile modificazione della situazione psicologica di questi ultimi e allora,
invocando una decisione quadro del 2001 sulla posizione della vittima nei procedimenti penali,
secondo la quale all'art. 2, "ciascuno stato membro assicura che le vittime particolarmente
vulnerabili beneficino di un trattamento specifico che risponda in modo ottimale alla loro
situazione, il giudice per le indagini preliminari chiede alla corte di giustizia se è possibile
interpretare il diritto interno conformemente alla decisione quadro in modo da estendere in via
interpretativa le ipotesi di incidente probatorio, ma ci sono degli ostacoli : l'ostacolo principale
sarà il fatto che l'art 34, espressamente dice che la decisione quadro non produce effetti diretti
ma non solo, l'obbligo di interpretazione conforme come abbiamo detto discende dal principio
di leale cooperazione, che oggi troviamo all'art. 4 del tue, nel sistema previgente era disciplinato
dall'art.10 tce e quindi era sancito nell'ambito del pilastro comunitario, noi però siamo
nell'ambito del terzo pilastro, del tue e non del tce --> PROBLEMA: il principio di leale
cooperazione si applica anche in pilastri non comunitari? (secondo e terzo pilastro) La corte di
giustizia dice che questo argomento deve essere respinto perché nonostante il fatto che il
principio di leale cooperazione sia sancito dall'art.10 tce è comunque un principio generale
dell'ue e pertanto dispiega i suoi effetti anche nell'ambito dei pilastri non comunitari per cui
secondo la corte di giustizia vige l'obbligo di interpretazione conforme anche nell'ambito delle
decisioni quadro. Altro elemento interessante sta nel fatto che la corte di giustizia ricorda quella
sua giurisprudenza secondo la quale l'obbligo di interpretazione conforme incontra un limite nel
rispetto dei principi generali del diritto, tema che viene proposto di fronte alla corte di giustizia,
si dice quindi che si ha un aggravamento della posizione della signora Pupino e questo non è
conforme al principio di non retroattività della legge penale, la corte di giustizia però risponde
dicendo che non si tratta di norme sostanziali, ma di norme processuali, cioè le disposizioni che
sono oggetto della causa, quelle concernenti l'assunzione della prova, non riguardano la portata
della responsabilità della signora Pupino ma le modalità di assunzione della prova e quindi
sono neutre rispetto alla responsabilità penale della signora Pupino. Il codice di procedura
penale dice che si può assumere la prova mediante incidente probatorio in determinati casi, la
corte in sostanza estende il novero dei casi e allora ci si può chiedere se effettivamente si tratti di
interpretazione oppure di disapplicazione del principio in base al quale la prova si forma in
contraddittorio tra le parti nella fase del dibattimento; in realtà siamo nell'ambito
dell'interpretazione ma siamo ai confini con la disapplicazione così come nella sentenza
Pfeiffer. Il principio enunciato dalla corte di giustizia, quindi il dictum della sentenza Pupino, è
che il criterio dell'interpretazione conforme si applica anche alle decisioni quadro.
2. RISARCIMENTO DEL DANNO (seconda forma di efficacia diretta) = danno provocato
dallo stato in caso di violazione del diritto dell'ue; in sostanza se il singolo non può trovare
tutela invocando l'effetto diretto e non può trovare tutela attraverso l'interpretazione conforme,
rimane quale strumento residuale, per tutelare i diritti derivantigli dall'ordinamento dell'ue, il
risarcimento del danno; questo principio giurisprudenziale in base al quale lo stato deve
rispondere dei danni provocati in violazione del diritto dell'ue è stato enunciato dalla corte di
giustizia nella sentenza Francovich 1991, quindi non lo troviamo sancito nei trattati, è una
creazione della giurisprudenza della corte di giustizia. --> FATTI DI CAUSA : Francovich è
una causa nella quale la corte di giustizia viene chiamata a pronunciarsi sulla mancata
attuazione di una direttiva, quella che prevedeva una indennità in capo al lavoratore in caso di
insolvenza del datore di lavoro, non ci dice però qual'è il soggetto chiamato a pagare
l'indennità, tale direttiva non produce effetti diretti perché non è incondizionata in quanto lo
stato deve porre in essere una scelta, deve decidere qual' è il soggetto obbligato al pagamento
dell'indennità. Dunque ci sono questi lavoratori, i quali hanno un diritto garantito da una
direttiva che non possono invocare, la direttiva non è stata trasposta dallo stato italiano e quindi
questi lavoratori si rivolgono ad un giudice pretendendo il risarcimento dei danni da parte dello
stato italiano, perché l'indennità spettante non è stata corrisposta a causa di una illeggittima
omissione in quanto lo stato avrebbe dovuto trasporre la direttiva indicando il soggetto
chiamato a pagare l'indennità; la corte di giustizia nella sentenza Francovich afferma che
effettivamente se lo stato produce un danno in violazione del diritto dell'ue, questo danno deve
essere risarcito, ed enuncia 3 condizioni dell'azione : 1. La norma violata deve essere diretta a
conferire diritti ai singoli danneggiati; 2. La violazione della norma deve essere sufficientemente
grave e manifesta; 3. Ci deve essere un nesso causale tra la violazione ed il danno. Quando lo
stato non ha trasposto una direttiva siamo di fronte ad una violazione grave e manifesta. Quella
di "stato" è una nozione unitaria che comprende il legislatore, il potere esecutivo, il potere
giudiziario, e quindi questo comporta che lo stato è chiamato a rispondere anche dei danni
prodotti dell'esecutivo ma anche dei danni provocati da sentenze, quindi anche nel caso in cui
la violazione del dirito dell'ue sia imputabile ad un giudice; questo principio è stato enunciato
per la prima volta nella sentenza Kobler 2003, per cui lo stato può essere chiamato a
rispondere del danno prodotto, in questo caso, da un giudice di ultimo grado che viene meno
all 'obbligo di sollevare rinvio pregiudiziale.
30 OTTOBRE 2014
• Si tratta di un atto che esprime la volontà dello Stato che il trattato sia applicato all’interno
dello Stato stesso.
• Di solito l’ordine di esecuzione si esprime con la formula “piena ed intera esecuzione è data al
Trattato X”.
• Il più delle volte, l’ordine di esecuzione è dato con legge ordinaria, ma può anche essere dato in
modo diverso (es. atto amministrativo).
Nei casi previsti dall’art. 80 Cost., per la ratifica dei trattati internazionali, è necessaria una legge di
autorizzazione alla ratifica. In questi casi la stessa legge che autorizza alla ratifica, contiene l’ordine di
esecuzione: la legge autorizza la ratifica e “dice” anche “piena ed intera esecuzione è data al Trattato
X”.
In questo caso, l’ordine di esecuzione precede l’entrata in vigore1 del Trattato. Una volta ultimati i
processi di ratifica, il trattato produrrà effetti nell’ordinamento.
Questo ultimo punto è importante per l’importanza del rango dell’atto che contiene l’ordine di
esecuzione: infatti, sulla base di una concezione classica2 dei rapporti tra diritto internazionale e diritto
statale, il rango dell’atto che contiene l’ordine di esecuzione, determina il rango che assumerà il
trattato nell’ordinamento interno. Secondo questa concezione, dunque, se l’ordine di esecuzione è
contenuto in una legge ordinaria, allora, nell’ordinamento interno, il trattato assumerà il rango di legge
ordinaria.
L’adattamento ai trattati da parte del diritto italiano è avvenuto con l’ordine di esecuzione di ciascun
trattato, contenuto nella stessa legge con cui il Parlamento autorizza alla ratifica.
Per il Trattato istitutivo della CEE l’ordine di esecuzione del trattato è contenuto in una legge
ordinaria: la l. 14 ottobre 1957 n. 1203
Altri stati membri hanno preferito adeguarsi al diritto dell’U.E. attraverso altre tecniche. Alcuni stati
membri hanno, infatti, modificato le loro costituzioni nazionali, introducendo delle clausole europee.
La Costituzione francese comprende un intero titolo dedicato alle comunità europee e all’unione
europea. In particolare, secondo l’art. 88, paragrafo 1: “La Repubblica partecipa alle comunità europee ed
all’unione europea, costituite da stati che hanno scelto liberamente, in virtù dei trattati che le hanno istituite, di
esercitare in comune alcune loro competenze”.
Una clausola europea è contenuta anche nella Costituzione tedesca all’art. 23, secondo cui: “Per la
realizzazione di un’Europa unita, la repubblica federale di Germania collabora allo sviluppo dell’unione europea.
La federazione può, a questo scopo, trasferire i diritti di sovranità, mediante legge con l’assenso del Bundesrat1”.
1
Che avviene con la ratifica e, poi, con lo scambio delle ratifiche.
2
Vedremo che questo è un principio generale, in parte superato, soprattutto in relazione al diritto dell’U.E.
Nella Costituzione italiana manca una disposizione di questo tipo, ma la Corte costituzionale ha
individuato nell’art. 11 una norma di copertura costituzionale del diritto comunitario.
Per quello che a noi riguarda, l’art. 11 Cost. stabilisce che: “L’Italia consente, in condizione di parità con gli
altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni.
Promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Poiché la Costituzione3 è precedente al primo trattato comunitario4 è facile comprendere che la norma
non era concepita come copertura costituzionale del diritto comunitario e non poteva neanche esserlo:
l’art. 11 era concepito, infatti, per assicurare all’Italia la possibilità di partecipare all’Organizzazione
delle Nazioni Unite5.
Anche l’art. 117 Cost. (come modificato dalla l. 3/2001) contiene disposizioni riguardanti il diritto
comunitario. Si stabilisce, infatti, che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni, nel rispetto
della Costituzione nonché dei vincoli derivati dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.
Questa norma NON è una clausola europea. L’oggetto di questa disposizione:
RIEPILOGO:
ð L’adattamento ai trattati nell’ordinamento italiano è avvenuto con legge ordinaria.
ð La Costituzione italiana non contiene una clausola europea.
3
Costituzione del 1948
4
Trattato CECA del 1951
5
L’ONU fu fondata nel 1945 con la Carta di S. Francisco
I modelli definibili per inquadrare i rapporti tra diritto internazionale e diritto interno sono modelli
teorici elaborati tra il 19° secolo ed il 20° secolo, che si inquadrano schematicamente in tre principali
posizioni:
1. Principio monistico con primato del diritto statale
Si tratta di quella teoria secondo la quale il fondamento di validità degli obblighi internazionali
va ricercato nella volontà degli stati.
La conseguenza di questo fondamento è che il diritto internazionale ed il diritto interno fanno
parte di una sorta di ordinamento unitario (per questo si parla di monismo), che trova il suo
fondamento all’interno degli stati.
In caso di contrasto tra una fonte internazionale ed una fonte interna, prevalgono le norme
interne, perché la decisione di uno Stato sovrano non può essere ostacolata o limitata da altri
soggetti.
È una teoria – avanzata nel 18° secolo e poi più compiutamente elaborata a cavallo tra il 19° ed
il 20° secolo – che riflette una concezione nazionalista dei rapporti tra Stati: la sovranità degli
Stati è una sorta di barriera insuperabile.
2. Principio dualistico
Secondo l’impostazione dualista – proposta dal giuspublicista Tripel (?) ed elaborata da
Anzilotti tra il 1902 e il 1928 – l’ordinamento internazionale e l’ordinamento interno non
costituiscono due parti dell’ordinamento, ma sono due ordinamenti distinti e separati.
L’autonomia degli ordinamenti giuridici comporta che questi non possono essere ordinati
secondo un criterio gerarchico (come nel monismo). Si pone, dunque, il problema di come
entrino in contatto le norme e di come possa verificarsi un’antinomia tra fonti dei due
ordinamenti.
Le norme internazionali e le norme interne entrano in contatto perché le fonti internazionali
vengono “tradotte” in diritto interno, attraverso l’attività di trasposizione costituita dall’ordine
di esecuzione.
Le norme interazionali non possono, dunque, direttamente invalidare le norme interne e
viceversa, perché le norme entrano in contatto solo con l’attività di trasposizione.
Una volta tradotta in fonte interna, la norma internazionale assume il valore, la forza, il rango
dell’atto che la recepisce6 (concezione classica).
Questa posizione è un passo avanti rispetto al nazionalismo preesistente, perché ispirata ad un
nazionalismo più moderato rispetto al monismo con primato del diritto statale.
6
Se l’ordine di esecuzione è recepito con legge ordinaria, assumerà il rango di legge ordinaria.
pacifista, perché la necessità di assicurare la primazia del diritto internazionale è funzionale ad
una concezione pacifista tra Stati.
Negli anni ’50, al momento dell’adesione dell’Italia alle Comunità Europee, appariva del tutto pacifico
che i rapporti tra diritto comunitario e diritto interno dovessero fondarsi sul modello dualista; ciò per
due motivi:
• Il dibattito teorico tra i sostenitori del monismo e i sostenitori del dualismo si era risolto con
una netta prevalenza dei sostenitori del dualismo.
• In origine le comunità europee avevano dei tratti peculiari, ma questi non avevano dispiegato i
loro effetti. Venivano, quindi, considerate come organizzazioni internazionali ordinarie, al pari
di tutte le altre. Non si era ancora affermata l’idea di un carattere sovranazionale delle
Comunità europee e l’idea di un carattere peculiare rispetto alle altre organizzazioni
internazionali.
L’affermazione del monismo con primato del diritto internazionale ha costituito oggetto di una
notevole evoluzione giurisprudenziale, che ha avuto al suo centro la dialettica tra la Corte
costituzionale italiana e la Corte di Giustizia delle comunità europee.
In una prima fase:
• La Corte di Giustizia delle comunità europee affermava il principio del primato, fondandosi su
una ricostruzione di tipo monista con primato del diritto internazionale.
• Corte costituzionale italiana era sulla posizione del dualismo.
Successivamente la Corte costituzionale italiana ha modificato la sua posizione:
• Ha superato il “dualismo puro” dei primi tempi
• Pur non avendo ancora oggi adottato un’impostazione monista, nella pratica è arrivata a
raggiungere alle stesse conclusione della Corte di Giustizia delle comunità europee. Si dice,
infatti, che il dualismo attuale sia “dualismo temperato”.
7
Costa contesta la bolletta perché era azionista della società “Edison Volta”, che era stata espropriata attraverso
la legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica.
8
Figura non più esistente, analoga al giudice di pace, avente il compito di giudicare le cause di modesto valore
economico.
Vengono adite sia la Corte costituzionale e della Corte di giustizia, perché il sig. Costa sostiene
che la violazione del trattato, viola anche l’art. 11 della Costituzione. Il giudice conciliatore
solleva, quindi, sia rinvio pregiudiziale, sia questione di legittimità costituzionale di fronte
alla Corte costituzionale.
Il problema principale che si pone all’attenzione della Corte costituzionale e della Corte di
giustizia è : cosa succede in caso di contrasto tra una legge ordinaria nazionale9 e il diritto
comunitario?
• La prima a pronunciarsi è la Corte costituzionale italiana con sent. n. 14 del 7 marzo 1964.
Il trattato istitutivo della CEE è stato reso esecutivo in Italia con legge ordinaria (l. 1203 del
1957), pertanto:
o Gli obblighi comunitari10 hanno il rango di legge ordinaria;
o E l’art. 11 della Cost. non conferisce alla legge ordinaria che rende esecutivo il
trattato un’efficacia superiore a quella propria delle leggi ordinarie.
Dunque, l’asserito contrasto tra le leggi di nazionalizzazione dell’energia elettrica e gli
obblighi comunitari11 è un contrasto tra due leggi ordinarie:
o La legge del ’57 che contiene l’ordine di esecuzione del tratto e consente a questi
obblighi di fare ingresso nel nostro ordinamento,
o La legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Poiché le antinomie tra fonte interna e fonti internazionali si risolvono in un contrasto tra
due leggi dello stesso rango, il contrasto si risolve con il criterio di successione delle leggi
nel tempo: la legge posteriore deroga la legge anteriore.
• Quattro mesi più tardi si pronuncia la Corte di giustizia delle comunità europee con sent.
del 15 luglio del 1964.
In questa sentenza la Corte di giustizia ribadisce la posizione già stabilita nella sent. Van
Gend en Loos, secondo cui il trattato ha istituito un ordinamento giuridico proprio,
integrato con quelli nazionali, che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare.
Il concetto di integrazione denota la propensione, fin dall’inizio, della Corte ad una
concezione monista.
“Tale integrazione, nel diritto di ciascuno Stato membro, di norme che promanano da fonti
comunitarie e più in generale lo spirito e i termini del trattato, hanno per corollario l’impossibilità degli
Stati di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizioni di reciprocità un
provvedimento unilaterale ulteriore, il quale, per tanto, non potrà essere opponibile all’ordine
comune…
Se l’efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all’altro in funzione delle leggi interne
posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione degli scopi del trattato”.
Siamo in una posizione di tipo monista con primato del diritto internazionale. In
particolare, l’argomento del pericolo per l’attuazione degli scopi del trattato (dovuto
all’eventuale variazione del diritto da uno Stato all’altro) è la riproposizione dell’argomento
di Kelsen, in base al quale la coesistenza di un ordinamento più ampio con ordinamenti di
9
Quale era quella che ha portato alla costituzione dell’Enel.
10
Erano quelli invocati da Costa: diritto di stabilimento, il divieto di aiuti di Stato.
11
Per gli obblighi comunitari che Costa sostiene violati si veda nota precedente.
portata meno ampia non può che portare alla prevalenza del primo sui secondi. Affinché il
sistema funzioni, ogni Stato non può funzionare per i fatti suoi.
Questa è la prima affermazione del primato da parte della Corte di Giustizia. La
concezione del primato si traduce in quella regola, volta a risolvere le antinomie tra fonti, in
base alla quale nei contrasti tra la fonte interna e la fonte comunitaria, la fonte comunitaria
prevale sulla fonte interna.
Dunque, in una fase iniziale il contrasto tra corti non poteva essere più netto: la Corte costituzionale
ricostruisce i rapporti tra ordinamenti in chiave dualista; la Corte di Giustizia in chiave monista con
primato del diritto internazionale. Il contrasto andrà attenuandosi nelle fasi successive.
2. Seconda fase
La seconda fase della giurisprudenza si ha negli anni ’70, in particolare in due sentenze:
• Sent. Frontini n. 183 del 27 dicembre 1973
Origina da quattro ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale, dei tribunali di Torino
e di Genova. In queste ordinanze viene sollevata la questione di legittimità costituzionale
della l. 1203 del 1957 (la legge che assicura l’ingresso dell’ordinamento comunitario
nell’ordinamento interno).
I giudici di Torino e di Genova ritengono che questa legge possa essere incostituzionale
perché affermano che attraverso l’ingresso del diritto comunitario nell’ordinamento interno,
allo Stato viene sottratta la competenza legislativa in determinate materie: l’Italia rinuncia
ad esercitare la competenza legislativa in certe materie, sottraendole ad una serie di garanzie
contenute nella Costituzione.
Le garanzie individuate sono:
12
Della sent. Frontini abbiamo già parlato quando abbiamo affrontato la teoria dei controlimiti. Abbiamo detto
che il tema della tutela dei diritti fondamentali è cruciale nei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno. Le
corti costituzionali italiana e tedesca hanno sollevato proprio questa obiezione: come si fa a riconoscere il primato
di un ordinamento che non tutela i diritti fondamentali?
Qui la Corte costituzionale non si occupa delle antinomie tra fonti, con la
conseguenza che in questa sentenza non si trovano le istruzioni in caso di contrasto
tra fonte comunitaria e fonte interna.
La Corte Costituzionale dichiara la questione non fondata, svolgendo una serie di
considerazioni sui rapporti tra ordinamento italiano e ordinamento comunitario.
La Corte afferma che: “diritto comunitario e diritto interno possono configurarsi come sistemi
giuridici autonomi e distinti, ancorché coordinati” (posizione dualista); e prosegue affermando
che: “la legge di esecuzione del trattato comunitario trova, però, sicuro fondamento di legittimità nella
disposizione dell’art. 11 della Costituzione”.
Si comprende subito che c’è uno scarto significativo tra sent. Costa vs. Enel e sent. Frontini:
o In Costa vs. Enel si sostiene che l’articolo 11 della Cost. – non conferendo alla
legge ordinaria un rango superiore a quello della legge ordinaria – sembrerebbe
irrilevante nei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno
o In Frontini, per la prima volta, l’art. 11 della Cost. viene riconosciuto come
copertura costituzionale del diritto comunitario. La Corte dice, infatti, che la legge
di esecuzione del trattato comunitario trova sicuro fondamento di legittimità
nell’art. 11 Cost.
È vero che, come rilevato dai giudici di Tornino e di Genova, ci sono delle limitazioni di
sovranità, ma queste sono consentite perché coperte dall’art. 11 Cost.: l’art. 11 consente
all’Italia le più impegnative forme di collaborazione attraverso organizzazioni
internazionali, che comportano limitazioni di sovranità.
“Questa formula legittima le limitazioni dei poteri dello Stato in ordine all'esercizio delle funzioni
legislativa, esecutiva e giurisdizionale, quali si rendevano necessarie per la istituzione di una Comunità
tra gli Stati europei.”
La Corte costituzionale ricorda che queste limitazioni trovano un corrispettivo nei poteri
che hanno gli Stati nell’ambito del Consiglio: è vero che lo Stato si spoglia di una parte della
sua sovranità, ma questo fenomeno è compensato dai poteri che lo Stato esercita
nell’ambito del Consiglio13
Questa copertura costituzionale consente ai regolamenti di avere piena efficacia
obbligatoria e diretta, necessità di leggi di recezione ed adattamento. Il fatto che i
regolamenti siano direttamente applicabili, non contrasta con la Costituzione perché
l’operazione è coperta dall’art. 11 Cost.
Sebbene quello di cui si occupa la Corte è la legittimità costituzionale della partecipazione
dell’Italia alle comunità europee (e non delle antinomie tra fonti), ciò che è stabilito nella
sent. Frontini è importante anche dal punto di vista delle fonti, perché valorizza l’art. 11
della Costituzione (riconoscendogli una portata ben diversa da quella riconosciuta
nell’ambito della sent. Costa vs. Enel). Questa nuova interpretazione dell’art. 11 Cost.
non può che avere delle conseguenze anche sul piano dei rapporti tra fonti comunitarie e
fonti interne.
13
Organo nel quale siedono i rappresentanti degli Stati.
Con riguardo alle censure relative al controllo giurisdizionale sugli atti di diritto
comunitario, la Corte sostiene che (nonostante non vi sia un controllo giurisdizionale) vi
sia, però, un controllo di legittimità da parte della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
RIEPILOGO:
ð Il venir meno di competenze viene compensato dai poteri che i governi hanno
nell’ambito del consiglio
ð Il venir meno del controllo da parte della Corte costituzionale , viene compensato dal
controllo in capo alla Corte di giustizia.
ð
Con riguardo al tema dei diritti fondamentali, la Corte costituzionale enuncia la teoria dei
controlimiti: ci sono delle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost., ma deve
escludersi che le limitazioni di sovranità cui dà luogo il trattato di Roma ”possano comportare
per gli organi della C.E.E. un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro
ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana. Ed è ovvio che qualora dovesse
mai darsi all'art. 18914 una sì aberrante interpretazione, in tale ipotesi sarebbe sempre assicurata la
garanzia del sindacato giurisdizionale di questa Corte sulla perdurante compatibilità del Trattato con i
predetti principi fondamentali.”
Se ci fosse, quindi, un regolamento15 che viola i principi fondamentali della Costituzione o i
diritti inalienabili della persona umana, la Corte costituzionale si ritiene competente ad
intervenire sulla perdurante compatibilità del trattato con i predetti principi fondamentali.
Il rimedio, quindi, individuato dalla Corte costituzionale italiana sembra essere la
dichiarazione di illegittimità della legge del ’57 (che contiene l’ordine di esecuzione),
rimettendo in discussione la partecipazione dell’Italia alle comunità europee.
La Corte costituzionale tedesca individua, invece, un altro rimedio: la dichiarazione di
inapplicabilità della norma comunitaria che viola i diritti fondamentali nell’ordinamento
tedesco.
14
Oggi art. 149
15
Perché il regolamento è l’atto che produce effetti diretti, è direttamente applicabile nell’ambito degli
ordinamenti statali.
• Sent.ICIC16 n. 232 del 30 ottobre 1975
La sentenza Frontini non riguarda un caso di contrasto tra fonte comunitaria e fonte
interna. Restava il problema di stabilire se questa nuova interpretazione dell’art 11 Cost., in
chiave di valorizzazione, in qualche modo si ripercuota nelle antinomie tra fonti
comunitarie e fonti interne.
Il problema viene affrontato dalla Corte Costituzionale nella sentenza ICIC del 1975, nella
quale la Corte afferma che – sulla base della interpretazione dell’arti. 11 Cost. effettuata
nella sentenza Frontini – in casi di contrasto tra una fonte comunitaria ed una fonte interna
successiva, il giudice italiano avrebbe dovuto sollevare una questione di legittimità
costituzionale, per contrasto della legge ordinaria con l’art. 11 Cost. (che costituisce la
norma di copertura costituzionale).
Atteso che il diritto comunitario ha la sua copertura nell’art. 11 Cost., il contrasto tra legge
ordinaria e legge comunitaria non è più un contrasto tra fonti dello stesso rango, ma è da
leggersi come un contrasto tra la legge ordinaria successiva e l’art. 11 Cost.
Atteso che nel nostro ordinamento non esiste un controllo diffuso di costituzionalità delle
norme (ma il controllo è accentrato), in casi del genere il giudice deve rivolgersi alla Corte
costituzionale, che affermerà il contrasto della legge con l’art. 11 Cost.
Questa soluzione costituisce un passo avanti rispetto alla sent. Costa vs. Enel (nella quale il
contrasto tra fonti era ricostruito come contrasto tra fonti dello stesso grado), ma non è
ancora una soluzione ottimale perché costringe il giudice a rivolgersi alla Corte
costituzionale e ciò comporta un allungamento dei tempi processuali ed un aggravamento
delle procedure necessarie per dare immediata applicazione alle fonti comunitarie.
Nel 1977 il pretore di Susa si rivolge alla Corte di giustizia, sollevando rinvio pregiudiziale,
domandando se la via procedurale tracciata dalla sent. ICIC del ’75, è o meno compatibile con il diritto
dell’Unione Europea. La Corte di giustizia si pronuncia in proposito nella sent. Simmenthal del 1978.
Nella sent. Simmenthal si afferma che l’effetto diretto ed il primato del diritto comunitario impongono
che sia data applicazione immediata alle norme di diritto comunitario. Sulla base di questa
ricostruzione, il giudice:
• non dovrebbe sollevare questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 11
Cost,
• mantiene come punto fermo l’idea, costante nella giurisprudenza, secondo cui gli ordinamenti
sono autonomi e distinti, ancorché coordinati (posizione dualista),
16
ICIC: Industrie chimiche Italia centrale.
• ma, per la prima volta, la Corte costituzionale sostiene che l’autonomia tra i due ordinamenti
comporta che la norma comunitaria direttamente applicabile impedisce alla norma nazionale
contrastante di venire in rilievo.
La norma nazionale successiva contrastante nel diritto comunitario non è invalida, ma è inapplicabile
al caso controverso. Questo comporta che il giudice non è più tenuto a sollevare la questione di
legittimità costituzionale, ma (essendo la norma inapplicabile) è tenuto a disapplicarla.
Oggi, dunque, il giudice ordinario di fronte ad un contrasto tra la fonte comunitaria e la fonte interna,
disapplica la fonte interna in favore della fonte comunitaria.
Secondo la Corte “l’ordinamento della Comunità Economica Europea e quella dello Stato, pur distinti ed
autonomi, sono come esige il Trattato di Roma, necessariamente coordinati17; il coordinamento discende, a sua
volta, dall'avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell'art. 11 Cost.,
le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate.”.
In questa sentenza, la Corte costituzionale ricostruisce i rapporti tra ordinamento interno e
ordinamento comunitario non sulla base del principio di gerarchia18, ma – pur mantenendo una
posizione dualista – ricostruisce i rapporti tra i due ordinamenti secondo criteri di competenza:
• L’atto che va al di là delle competenze dello Stato non è suscettibile di venire in rilievo
nell’ambito di una controversia pendente di fronte ad un giudice, che dovrà disapplicare la
normativa interna e dare spazio a quella comunitaria.
Vero è che una corte si mantiene ferma sul monismo con primato del diritto internazionale, mentre
l’altra mantiene, in astratto, ferma una posizione di tipo dualista; è vero anche che si tratta di dualismi
diverso:
• In Costa vs. Enel vi è quello che una parte della dottrina chiama “dualismo puro”.
Il dualismo puro si fonda sull’attività di trasposizione, per cui i rapporti tra ordinamenti si
fondano sulla trasposizione che avviene con l’ordine di esecuzione.
17
Si tratta sempre della stessa formula, ma qui il coordinamento viene valorizzato.
18
Come fa la Corte di Giustizia nella sent. Costa vs. Enel e nella giurisprudenza successiva.
L’ADEGUAMENTO DELL’ORDINAMENTO ITALIANO AGLI OBBLIGHI COMUNITARI
Le norme dell’unione europea producono effetti diretti, ma ciò non comporta che lo Stato possa
rimanere inerte. Ci sono degli obblighi verso i quali lo Stato deve porre in essere un’attività: è il caso
delle direttive.
È vero che la Corte ha pronunciato la teoria dell’effetto diretto delle direttive nella sent. Van Duyn,
ma l’effetto diretto attiene alla patologia19 dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno.
Questo comporta che la teoria degli effetti diretti è una teoria imperfetta, perché pone dei problemi con
riguardo, ad esempio, al principio di eguaglianza20.
La circostanza che le direttive abbiano effetti diretti non esime, dunque, gli Stati dall’obbligo di
trasporre correttamente le direttive. Se lo stato viola gli obblighi comunitari, rischia, inoltre, di essere
sottoposto ad una procedura di infrazione21.
Per ovviare al problema della mancata attuazione delle direttive, alla fine degli anni ’80 ci si è dotati di
uno strumento che prendeva il nome di legge comunitaria annuale. L’istituto è stato disegnato dalla
legge La Pergola (L. 86/1989), successivamente sostituita dalla legge Buttiglione (L. 11 /2005). In
epoca molto recente, la legge Buttiglione è stata abrogata e sostituita dalla l. 234/2012.
La legge Buttiglione e la legge La Pergola istituivano la legge comunitaria annuale, prevedendo un
meccanismo ispirato alla legge finanziaria.
Si prevedeva che il Ministro per il coordinamento delle politiche comunitarie o il Presidente del
consiglio predisponessero, entro il 31 gennaio di ciascun anno, un disegno di legge comunitaria
annuale, contenente le norme necessarie ad assicurare l’adempimento degli obblighi comunitari ai
quali l’Italia doveva dare attuazione nell’anno di riferimento.
La legge comunitaria prevedeva l’adeguamento al diritto comunitario attraverso tre tecniche:
• Attuazione diretta – La stessa legge comunitaria conteneva delle norme che davano attuazione
agli obblighi comunitari.
19
Quando l’Italia non ha trasposto la direttiva nell’ordinamento interno.
20
Per la circostanza, ad esempio, che un lavoratore pubblico può invocare la direttiva dei rapporti con il suo
datore di lavoro, il lavoratore privato non può avvalersi attraverso la diretta applicazione delle norme delle
direttive in un giudizio che lo oppone al suo datore di lavoro privato.
21
L’Italia ha il record di procedure di condanna per mancata attuazione delle direttive.
La legge La Pergola costituiva un passo avanti, ma non aveva risolto il problema legato alla
trasposizione delle direttive in Italia, perché la legge comunitaria annuale finiva di diventare una
contenitore in cui il Parlamento infilava norme che non avevano niente a che vedere con l’attuazione
degli obblighi comunitari.
Questa dilatazione dell’oggetto comportava la dilatazione dei tempi di approvazione ed attuazione.
Nei suoi primi nove anni di vita (dal 1989) la legge comunitaria annuale era stata adottata solo cinque
volte. A partire dal ‘98 il parlamento ha adottato una legge comunitaria all’anno, ma non sempre nei
tempi previsti: la legge comunitaria di un anno veniva approvata l’anno successivo e l’iter di
approvazione delle leggi comunitarie si accavallava.
Nel 2012 si verificò un accavallamento tra l’approvazione della legge comunitaria del 2011 e quella del
2012: il Senato fu chiamato a pronunciarsi sul disegno di legge dell’anno corrente e dell’anno
precedente, ma la cessazione anticipata della sedicesima legislatura ha portato alla mancata
approvazione delle due leggi. Questo avvenne perché i disegni di legge erano stati presentati molto in
ritardo.
Abbiamo visto che la legge comunitaria annuale prevede tre tecniche, ma nel caso della delega e della
delegificazione l’approvazione della legge comunitaria non chiude la partita: occorre, infatti, che il
Governo ponga in essere i regolamenti, o i decreti legislativi. Ciò comporta un’ulteriore dilatazione dei
tempi.
Come si nota, il sistema delle legge comunitaria annuale non funzionava del tutto e non sempre ha
prodotto risultati positivi. Per questi motivi il sistema è stato profondamente modificato dalla L.
234/2012, attraverso l’introduzione di una nuova disciplina che separa l’attuazione della direttiva
dall’adempimento di altri obblighi comunitari22.
La L. 234/2012 prevede che (quella che era) la legge comunitaria sia sdoppiata in due strumenti:
• La legge di delegazione europea
La legge di delegazione europea viene utilizzata per l’attuazione delle direttive e per quello che
rimane dell’attuazione delle decisioni quadro
La legge prevede che entro il 28 febbraio di ogni anno il Governo presenti al parlamento un
disegno di legge di delegazione europea, che prevede soltanto deleghe legislative e
autorizzazione all’attuazione in via regolamentare. Dunque, per le direttive si prevede
l’attuazione attraverso delega legislativa o attraverso regolamenti di delegificazione, e le
autorizzazioni sono contenute nella legge di delegazione europea.
Se nel corso dell’anno si presenta nuovamente la necessità di adeguarsi a strumenti è prevista la
possibilità di presentazione di una nuova legge di delegazione europea entro il 31 luglio di
ogni anno. Nello stesso anno possono esserci più leggi di delegazione europea.
Il fatto che la legge di delegazione europea contenga esclusivamente deleghe legislative al Governo ed
autorizzazioni a recepire le direttive in via regolamentare, comporta lo sdoppiamento dei canali.
• La legge europea
La legge europea non viene presentata ogni anno, ma approvata solo in caso di necessità.
Infatti, non è assegnato alcun termine al Governo per la sua presentazione.
22
Ad esempio, per gli obblighi di adeguamento che discendono da una procedura di infrazione, che prima
finivano nello stesso calderone dell’attuazione delle direttive, oggi c’è una separazione dei canali.
Questa legge riguarda disposizioni modificative o abrogative di norme interne, oggetto di
procedura di infrazione o comunque di sentenze della Corte di giustizia.
Se si vuole procedere all’adempimento degli obblighi comunitari in via diretta attraverso legge,
ciò è da farsi attraverso la legge europea.
Lo sdoppiamento è motivato dal fatto che si riteneva che i ritardi fossero dovuti all’applicazione
diretta23. In questo modo le deleghe non vengono rallentate dall’attuazione diretta, che segue un altro
canale.
Nella relazione di accompagnamento della l. 234 si dice che la ragione dello sdoppiamento è da
ravvisarsi nella circostanza che i ritardi si sono avuti soprattutto in relazione alle norme di attuazione
diretta. Sulla base di questo, si prospetta una corsia preferenziale per le deleghe ed un iter ordinario per
la legge europea.
• Art. 117, 5° co. Cost. – “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle materie di loro
competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono
all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle
norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo
in caso di inadempienza”.
• Art. 120 Cost. – “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle
Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto della normativa comunitaria … con legge si devono
definire le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano esercitati nel rispetto del principio di
sussidiarietà e del principio di leale collaborazione”.
L’art. 120 definisce il potere sostitutivo a cui fa riferimento l’art. 117 e stabilisce che le modalità del
potere sostitutivo sono disciplinate con legge comunitaria.
La Costituzione si occupa del potere sostitutivo in virtù del principio di unità dello Stato: dal punto di
vista dell’Unione Europea non rilevano le articolazioni dello Stato, poiché questo è considerato come
unitario, anche in caso di violazione degli obblighi comunitari.
Non rileva, quindi, che la violazione sia posta in essere dallo Stato centrale o dagli enti territoriali. Lo
Stato risponde in modo unitario della violazione degli obblighi comunitari.
Ci si preoccupa, dunque, di predisporre un potere sostitutivo statale perché, in caso di violazione
dell’obbligo di trasporre la direttiva (o più in generale in caso di violazione degli obblighi comunitari)
da parte delle Regioni, chi ne risponderebbe sarebbe l’Italia.
23
I ritardi non intervenivano in relazione alle deleghe, ma in relazione agli obblighi oggetto di attuazione diretta.
31 OTTOBRE 2014
L’art. 120 Cost. fa riferimento ai poteri sostitutivi dello Sato nei confronti delle Regioni, questi poteri
sostitutivi devono essere disciplinati con legge.
Abbiamo da un lato la l. 234\2012 (artt. 40-41) e dall’altro lato la l. La Loggia – l. 131\2003 (artt. 5-8).
In particolare la l. 234\2012 riafferma il principio costituzionale contenuto nell’art. 117, in base al
quale le Regioni e le Province autonome, nelle materie di propria competenza, possono procedere
direttamente e immediatamente all’attuazione delle direttive. Questa disposizione si trova nell’art. 40,
par. 1, legge 234 che non è altro che la mera riaffermazione di un principio già inserito nella
Costituzione.
Questo adattamento alle direttive avviene anche attraverso leggi annuali di recepimento sul modello
della legge comunitaria annuale.
L’attività dello Stato però non è del tutto esclusa, perché per le materie di competenza concorrente la
legge di delegazione europea è chiamata a indicare i principi fondamentali a cui dovranno attenersi le
Regioni nell’attuazione delle direttive, c’è poi un’attività dello Stato costituita dal c.d. potere
sostitutivo.
La l. 234 prevede un meccanismo sostitutivo preventivo: consiste nell’adozione, da parte dello Stato,
di disposizioni di attuazione del diritto comunitario, anche in materie di competenza regionale;
disposizioni che si applicano soltanto fino a quando la Regione o la Provincia autonoma non pone in
essere la sua attività di trasposizione della direttiva, per cui queste disposizioni statali che si collocano
nell’ambito di materie di competenza regionale hanno carattere cedevole perché, una volta che
interviene la Regione o la Provincia autonoma, l’efficacia delle norme statali viene meno.
La l. La Loggia prevede un meccanismo sostitutivo successivo, in particolare all’art. 8 par. 2 nel quale
dispone che nel caso in cui la Regione sia in una situazione di inadempienza degli obblighi comunitari
il Governo può adottare i provvedimenti necessari, che possono essere provvedimenti normativi, ma
possono anche consistere nella nomina di un apposito commissario, nel caso in cui sia un
inadempimento da parte dell’amministrazione; in questo caso può essere nominato un commissario che
pone in essere le attività che non ha posto in essere l’amministrazione regionale in violazione di un
obbligo comunitario.
La l. La Loggia prevede che ci sia una messa in mora, cioè prevede che prima di esercitare il potere
sostitutivo, il governo debba avvisare, debba mettere in mora l'ente interessato (Regione o Provincia
Autonoma) assegnandogli un termine entro cui adempiere. Soltanto nel caso in cui la Regione non
adempie alla scadenza di questo termine allora si può attivare il meccanismo sostitutivo successivo.
Soltanto in casi di assoluta urgenza è prevista la possibilità di utilizzare il potere sostitutivo senza una
previa messa in mora.
L'UE non è un ente a competenza generale, come è ad esempio lo Stato membro, la competenza
dell'UE si presenta come un'eccezione rispetto alla competenza degli Stati membri.
Negli stati federali il sistema di ripartizione delle competenze comporta generalmente delle redazioni di
liste di competenze nelle quali sono enumerate le competenze federali (competenze dello stato
centrale), oppure sono enumerate le competenze degli stati confederati, oppure ci sono liste che
contengono le enumerazioni delle competenze dello stato federale e le competenze degli stati federati;
questo sistema prende il nome di sistema delle competenze enumerate, sembrerebbe il sistema più
chiaro di riparto di competenze. In realtà l'esperienza degli stati federati ci mostra che così chiaro non
è, anche quando le competenze sono enumerate, non lo è perché queste liste sono poi oggetto di
un'attività di interpretazione che può essere sia restrittiva sia estensiva e poi ancora le liste vengono
stabilite in una certa epoca quindi cristallizzano la situazione esistente all'epoca in cui sono redatte e
poi però non si prestano talvolta a fornire delle risposte in caso di evoluzioni che diano luogo alla
creazione di nuove competenze; per esempio negli stati confederali più antichi il problema si è posto
nel campo dell'elettricità, ferrovie, trasporti aerei ecc.
La logica che sta dietro al riparto della competenza fra l'Unione e gli Stati membri è una logica diversa
rispetto al sistema delle competenze enumerate.
Il trattato istitutivo della CEE faceva originariamente riferimento essenzialmente a degli obiettivi da
raggiungere. La CEE aveva essenzialmente un obiettivo: creazione di un mercato comune, il quale si
sarebbe dovuto creare attraverso le 4 libertà di circolazione:
1. persone
2. merci
3. servizi
4. capitali
Per definizione le libertà di circolazione toccano un vasto insieme di materie che non si prestano ad una
enumerazione, anche perché se si enumerassero e si attribuisse la competenza di queste materie all'UE
probabilmente si avrebbe uno svuotamento eccessivo di sovranità da parte degli Stati membri in favore
dell'UE.
Es.: non era prevedibile in origine che la libera circolazione delle persone avesse degli effetti anche nella
materia dello sport, però quando parleremo di libera circolazione delle persone e in particolare ci
occuperemo della Sent. Bosman che riguarda il tema dei calciatori professionisti, la libertà di
circolazione tocca anche il campo delle attività sportive. Se anche questo sviluppo si fosse potuto
prevedere si sarebbe potuto istituire un sistema di competenze enumerate in cui lo sport sarebbe stato
attribuito all'UE, ma anche questo tipo di impostazione è sproporzionata ed eccessiva perché l'UE non
è interessata alla regolamentazione dello sport in generale ma è interessata alla regolamentazione dello
sport solo nella misura in cui questo incide nella realizzazione di un mercato comune; allora in queste
condizioni stilare delle liste di competenze è particolarmente difficile perché queste liste sarebbero state
o troppo ristrette o troppo ampie e per questa ragione la determinazione delle competenze, nell'ambito
dell'UE, si è operata caso per caso a partire dagli obiettivi delle comunità europee, per cui la natura
delle competenze dell'UE è funzionale, ossia le competenze sono quelle che servono per la
realizzazione di determinati obiettivi che sono fissati nel Trattato; gli obiettivi dell'UE sono assai più
ampi rispetto a quelle delle origini (creazione del mercato comune), oggi gli obiettivi sono più ampi
(libertà, sicurezza e giustizia, le libertà di circolazioni non riguardano più solo i lavoratori ma
coinvolgono anche soggetti economicamente inattivi e così via). Oggi questa indicazione degli obiettivi
è contenuta nell'art. 2 del TUE, originariamente gli obiettivi dell'UE erano fissati nell'art. 3 del Trattato
Istitutivo della CE.
Nonostante la circostanza che il riparto di competenze tra UE e stati membri non sarebbe
efficacemente affrontato attraverso un sistema di enumerazione delle competenze, in occasione di ogni
revisione dei trattati è affiorata la proposta di stilare delle liste di competenze al fine di alzare degli
argini chiari, di tracciare delle linee nette di demarcazione tra le competenze statali e le competenze
dell'UE, questo è collegato all'atteggiamento degli Stati membri dell'UE, i quali da un lato hanno
progressivamente ampliato le competenze dell'Unione, dall'altro lato però temono che si possano
verificare degli sviluppi imprevedibili sul piano delle competenze ad opera della giurisprudenza della
Corte di Giustizia che, anche in questo caso, ha giocato un ruolo determinante, e questo atteggiamento
spiega quella formula ricorrente in base alla quale si attribuisce all'UE una competenza, però si dice che
tale disposizione non estende le competenze dell'Unione. Per es. l'UE aderisce alla CEDU, però questa
disposizione, dice l'art. 6, non estende le competenze dell' UE oltre quanto previsto; la carta dei diritti
fondamentali ha valore di diritto primario ma questo non estende le competenze dell'UE.
Queste disposizioni sono sintomatiche di un certo atteggiamento di ritrosia da parte degli stati, o timore
che ci siano degli sviluppi imprevedibili ad opera della giurisprudenza della Corte di Giustizia, per cui
gli stati si preoccupano di mettere dei paletti, addirittura nella carta dei diritti fondamentali non
abbiamo solo il riferimento all'art. 6 ma nell'art. 51, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati e quini
lo stesso valore giuridico dell'art 6, troviamo al stessa formula: "la carta non estende le competenze
dell'UE".
In occasione della revisione dei trattati spesso è affiorato il problema relativo alla enumerazione delle
competenze, cioè è affiorata la proposta di passare ad un sistema di competenze enumerato che renda
più chiaro il riparto di competenze fra stati e UE.
Però, il sistema delle competenze enumerate è un sistema chiaro in teoria, perché poi queste
competenze vengono interpretate e noi in Italia abbiamo avuto un'esperienza diretta di questo perché le
liste di competenze contenute nel titolo V della Cost., cioè il riparto di competenze fra stato e regioni, è
stato poi oggetto di una ampia opera interpretativa da parte della corte Costituzionale.
Il Trattato di Lisbona, ricalcando la costituzione europea, ha in una certa misura tentato di soddisfare
questa richiesta di alcuni stati membri (passare ad un sistema di competenze enumerate), per cui
nell'attuale formulazione del TFUE si trovano effettivamente delle liste di competenza:
1. competenze esclusive
2. competenze concorrenti
3. competenze complementari
Non si può dire soltanto per questo che si è passati ad un sistema di competenze enumerate, perché
queste liste non danno luogo ad un effetto di contenimento rispetto a competenze dell'UE (23.14) ....
atteso che non sono liste esaustive, in particolare la lista delle competenze concorrenti, infatti l'articolo
relativo alla lista delle competenze concorrenti dice che " l'Unione ha competenza concorrente nelle
principali seguenti materie", il che vuol dire che non si esclude che ce ne possano essere delle altre.
Vero è che oggi si trovano delle liste di competenze, ma non per questo si può dire che si è passati da
un sistema in cui le competenze erano determinate in chiave funzionale, cioè in considerazione degli
obiettivi dell'UE ad un sistema di competenze enumerate, quindi la natura delle competenze
dell'Unione rimane funzionale perché le competenze si determinano a partire dagli obiettivi dell'UE.
Queste liste contenute negli artt. 3 e ss. nel TFUE non fanno altro che codificare la situazione
preesistente, elencando una serie di titoli di competenze che non sono altro che il copia incolla delle
rubriche dei Trattati.
Per es. l'art 4 dice: "l'unione ha una competenza concorrente con quella degli stati membri nei
principali seguenti settori", quindi non è una lista tassativa, né un numero chiuso, quindi non si esclude
che l'unione abbia competenza in altri settori, questo è già sintomatico che non siamo nell'ambito di un
sistema a competenza enumerate e questi settori sono a volte degli obiettivi dell'UE, per cui, per
esempio, il primo settore è il mercato interno, che non è una materia ma è un obiettivo, che è quello di
realizzare il mercato comune simile ad un mercato interno e quindi il Trattato di Lisbona non ha
sostanzialmente modificato l'impostazione originaria, per cui il riparto di competenze segue un
approccio funzionale.
• competenze esclusive
• competenze concorrenti
• competenze complementari
Si tratta di categorie alle quali dottrina e giurisprudenza fanno riferimento per spiegare il fenomeno
delle competenze comunitarie da molto tempo. Oggi queste categorie sono state anche elaborate dalla
dottrina e codificate dal Trattato di Lisbona (art. 2 ss. TFUE introdotti dal Trattato di Lisbona).
Art. 2 par. 1 TFUE: "quando i trattati attribuiscono all'Unione una competenza esclusiva in un
determinato settore solo l'Unione può legiferare ed adottare atti giuridicamente vincolanti, gli Stati
membri possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall'Unione oppure per dare attuazione agli
atti dell'Unione". Questo paragrafo descrive le competenze esclusive.
Par. 2 si riferisce alle competenze concorrenti: "quando i trattati attribuiscono all'Unione una
competenza concorrente con quella degli Stati membri in un determinato settore, l'Unione e gli Stati
membri possono legiferare ed adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore, gli stati membri
esercitano la loro competenza nella misura in cui l'Unione non ha esercitato la propria. Gli Stati
membri esercitano nuovamente la loro competenza nella misura in cui l'Unione ha deciso di cessare di
esercitare la propria".
Par. 5 è dedicato alle competenze che abbiamo definito "complementari", in realtà sarebbe più corretto
parlare di competenze "di sostegno, coordinamento e completamento", però la dottrina fa riferimento
per semplicità alla categoria delle competenze complementari. In proposito il par. 5 dispone che: "in
taluni settori e alle condizioni previste dai Trattati l'Unione ha competenza per svolgere azioni intese a
sostenere, coordinare o completare l'azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro
competenza in tali settori. Gli atti giuridicamente vincolanti dell'Unione adottati in base alle
disposizioni dei trattati, relativi a tali settori, non possono comportare un'armonizzazione delle
disposizioni legislative e regolamentari degli stati membri".
In sintesi, le competenze esclusive si caratterizzano perché escludono ogni intervento degli stati
membri, a meno che gli stati membri non siano abilitati dal legislatore dell'Unione oppure a meno che
si tratti di attività di esecuzione di obblighi dell'UE.
Nel quadro delle competenze concorrenti possono intervenire sia UE che Stati membri, però quando
interviene l'UE la competenza degli Stati membri viene meno, si ha, quindi, questo fenomeno di
ritrazione delle competenze statali nel momento in cui interviene la competenza degli stati membri e
questo effetto prende il nome di pre emption (prelazione).
Anche nel quadro delle competenze complementari possono intervenire UE e Stati membri, però la
differenza con le competenze concorrenti sta nel fatto che nelle competenze concorrenti si verifica il
fenomeno della pre emption, per cui si ha questa ritrazione della competenze statali quando interviene
lo stato, nelle competenze complementari, invece questo fenomeno non si verifica.
Il Trattato di Lisbona contiene anche delle liste di competenze, quindi gli artt. 3 e ss. contengono liste
di competenza esclusive, concorrenti e complementari.
Art. 3: in relazione alle competenze esclusive è redatta una lista che comprende:
1. Unione doganale che è competenza esclusiva;
2. La definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno;
3. La politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l' €, in questo campo gli stati
membri non possono intervenire perché la competenza è esclusiva;
4. La conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della
PESCA;
5. La politica commerciale comune.
In questi settori può intervenire solo l'UE, quindi è escluso un intervento degli Stati membri. Non si
tratta di un elenco innovativo, quindi l'elenco redatto dagli estensori del Trattato di Lisbona non è
innovativo rispetto alla situazione precedente, perché non si fa altro che codificare in proposito la
giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'UE, la quale già aveva affermato che queste competenze
sono esclusive.
Però elemento rilevante che si ha con il Trattato di Lisbona, elemento di innovazione rispetto alla
situazione preesistente, sta nel fatto che questo è un elenco tassativo. Ciò comporta che le competenze
esclusive sono solo quelle individuate nell'elenco, quindi la Corte di Giustizia che in passato aveva
individuato queste competenze esclusive in futuro non potrà più individuarne delle nuove perché
l'elenco è quello fissato dagli autori del Trattato di Lisbona.
Il problema che si pone è: che cosa succede se l'Unione ha una competenza esclusiva ma non la
esercita? Non utilizza la competenza esclusiva, allora questa astensione può creare una lacuna
normativa, gli Stati membri hanno la facoltà di colmare questa lacuna?
Il Trattato di Lisbona ancora una volta codifica la giurisprudenza della Corte di Giustizia in proposito e
dice quando gli stati membri possono intervenire.
Possono intervenire solo in due ipotesi:
• se sono espressamente autorizzati dall'UE, questa regola oggi espressa era stata enunciata dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia in una Sent. del ’76;
• se l'intervento degli Stati membri serve per dare attuazione agli atti dell'Unione, questo è del
tutto pacifico perché l'attuazione degli obblighi comunitari è competenza degli Stati membri,
quindi il Trattato di Lisbona ribadisce questo principio sul quale però non potevano sussistere
dubbi.
Quindi gli unici casi in cui gli Stati possono intervenire sono questi. Al di fuori di queste ipotesi, anche
se c’è una lacuna normativa, gli stati membri non possono intervenire.
L'art. 3 par. 2 si riferisce alle competenze esclusive in materia di conclusione di accordi internazionali.
COMPETENZE CONCORRENTI
Le competenze dell’Unione sono normalmente concorrenti. Gli Stati membri restano competenti ad
adottare atti fintanto che l'Unione non è intervenuta, nel momento in cui interviene la legislazione
dell'UE in un settore di competenza concorrente la competenza degli Stati membri viene meno, si
verifica quindi questo effetto di pre emption.
La pre emption non è un'invenzione dell'UE, è un concetto che è stato enunciato nell'ambito di alcuni
Stati federali, ancora una volta per risolvere il problema della ripartizione fra competenze dello Stato
federale e competenze degli Stati confederati. In particolare, così come la teoria dei poteri impliciti,
anche la pre emption è una nozione che nasce nel diritto degli Stati Uniti d'America, dove pure si parla
di pre emption.
Quando si verifica la pre emption, cioè quando l'UE e le competenze degli Stati si ritraggono, si dice a
volte che si è in presenza di una competenza esclusiva per esercizio, quindi il fenomeno che si verifica è
assimilabile a quello delle competenze esclusive, perché una volta che l'Unione è intervenuta gli Stati
non possono più intervenire. Però la situazione è diversa rispetto a quella delle competenze esclusive,
perché si tratta di un fenomeno reversibile, ossia se l'Unione fa venir meno, dà luogo all'abrogazione
dell'atto di diritto derivato in questione, allora l'effetto di pre emption non c'è più, per cui la
competenza statale può nuovamente espandersi. Questo è espressamente sancito nell'art. 2, il quale
dice: "gli Stati membri esercitano nuovamente la loro competenza nella misura in cui l'Unione ha
deciso di cessare di esercitare la propria".
Al di là della reversibilità del fenomeno è importante precisare in cosa consiste l'interdizione per gli stati
di intervenire nei campi in cui si è verificata la pre emption; quando l'UE è intervenuta con una sua
legislazione, gli stati hanno ancora qualche margine di libertà? Possono ancora disciplinare la materia
sia pure in aspetti di dettaglio?
A questo scopo bisogna vedere cosa prevede la legislazione dell'UE. Se l'UE è intervenuta attraverso
una armonizzazione delle legislazioni allora non c'è più alcun margine per gli Stati membri, alcun
margine al di fuori della solita esecuzione che c'è anche nell'ambito delle competenze esclusive. Se l'UE
è intervenuta con un atto di diritto derivato che disciplina la materia solo nei suoi tratti essenziali,
allora in questo caso gli Stati membri possono esercitare le loro competenze contemporaneamente alle
competenze dell'UE, quindi bisogna vedere caso per caso qual è lo spazio che l'UE ha lasciato agli Stati
membri per intervenire.
A questo proposito un protocollo ai trattati, che è il protocollo n.m25 sull'esercizio della competenza
concorrente e che contiene un unico articolo, dice che: "quando l'Unione agisce in un determinato
settore il campo di applicazione di questo esercizio di competenza copre unicamente gli elementi
disciplinati dall'atto dell'Unione in questione e non copre pertanto l'intero settore". Per cui pre emption
non vuol dire che gli Stati non hanno più alcuna possibilità di intervento, non hanno più alcuna
possibilità di intervento soltanto se la legislazione dell'Unione è completa, una legislazione che
disciplina la materia in ogni suo elemento, se non è così gli Stati possono ancora intervenire, ciò si
evince espressamente dall'art. 1 del protocollo 25 ai trattati.
Quanto alle liste di competenze concorrenti, questa è contenuta nell'art. 4 del TFUE, il quale dice che:
“l'Unione ha la competenza concorrente nei principali seguenti settori”, il riferimento ai principali
settori comporta che anche altri settori che non sono contenuti nell'elenco possono essere definiti come
settori di competenza concorrente dell'UE. Comunque l'elenco è estremamente ampio perché a volte le
competenze individuate non sono delle materie ma sono degli obiettivi che l'UE deve raggiungere, per
cui per es. la prima competenza individuata nell'elenco è il mercato interno che non è una materia ma è
un obiettivo.
Altro elemento fondamentale sta nel fatto che le competenze dell'Unione sono normalmente
competenze concorrenti, per cui competenze esclusive e competenze complementari costituiscono delle
eccezioni alla regola e questo si evince proprio dall'art. 4 il cui primo paragrafo dispone che: "l'Unione
ha competenza concorrente con quella degli Stati membri quando i trattati le attribuiscono una
competenza che non rientra nei settori di cui agli artt. 3 e 6"; l'art. 3 è quello relativo alle competenze
esclusive, l'art. 6 è quello relativo alle competenze complementari. Le competenze concorrenti sono
individuate in modo residuale rispetto a quelle esclusive e complementari.
Segue poi questo elenco, l'elenco non è altro che il copia incolla dei titoli delle rubriche del trattato (per
es. il titolo I del trattato è quello che riguarda il mercato interno e nell'elenco al n. 1 troviamo il mercato
interno). L'unica competenza nuova è rappresentata dalla competenza in materia di energia che è stata
introdotta dal Trattato di Lisbona.
Ultima precisazione che riguarda questo art. 4 sulle competenze concorrenti riguarda i paragrafi 3 e 4
dell'art. 4 nei quali si inseriscono la politica della ricerca e la politica della cooperazione allo sviluppo e
dell'aiuto umanitario. Queste competenze sono inserite nell'art. che riguarda le competenze concorrenti
però si dice anche che l'esercizio di tali competenze non può avere per effetto di impedire agli Stati
membri di esercitare le loro competenze, quindi un'operazione strana effettuata dagli autori del Trattato
di Lisbona, perché da un lato si dice che ricerca e la politica della cooperazione allo sviluppo e
dell'aiuto umanitario si inquadrano nelle competenze concorrenti, dall'altro però si dice che l'esercizio
delle competenze da parte dell'Unione non può avere per effetto lo svuotamento delle competenze da
parte degli Stati membri, si dice in sostanza che non si può verificare la pre emption, quindi anche se
vengono qualificate come competenze concorrenti queste particolari competenze hanno in sostanza le
caratteristiche delle competenze complementari perché non si può esercitare la pre emption.
6 NOVEMBRE 2014
LE COMPETENZE COMPLEMENTARI
Le competenze complementari sono disciplinate all’art. 6 TFUE, che fa riferimento alla competenza
dell’Unione “per svolgere azioni intese a coordinare o completare l’azione degli Stati membri”.
Queste sono definite dalla dottrina come “competenze complementari”, anche se sarebbe più aderente
alla lettera del Trattato parlare di competenze di sostegno/coordinamento/completamento. Altra
definizione corrente è quella di competenze del terzo tipo.
L’art. 6 prosegue con un elenco di settori in cui le competenze sono complementari. Tale elenco24, al
pari di quello relativo alle competenze esclusive, è un elenco tassativo.
Nel caso di competenze complementari:
Secondo l’art. 225, par. 5 “In questi settori l’Unione può svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare
l’azione degli Stati membri, senza tuttavia sostituirsi alla loro competenza in tali settori.”
24
Elenchi: quello delle competenze esclusive e quello delle competenze complementari sono tassativi; mentre
quello delle competenze concorrenti è un elenco aperto. Gli autori dei trattati hanno formulato il TFUE nel senso
che l’Unione ha competenza concorrente nei “principali seguenti settori”; questo comporta che l’elenco non è
chiuso, e che potrebbero esserci altri settori.
25
Nell’art. 2 sono descritte le competenze. Negli artt. 3 e seguenti seguono le competenze.
In altri termini – a differenza che nelle competenze concorrenti – nelle competenze complementari la
preemption26 non si verifica. L’istanza statale e quella comunitaria agiscono fianco a fianco.
Anche in questo caso l’intervento degli Stati incontra il limite del principio di leale collaborazione, in
base al quale gli Stati membri si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la
realizzazione degli obiettivi dell’Unione. Gli Stati agiscono, purché le loro azioni non pregiudichino
l’efficacia delle azioni poste in essere dall’Unione Europea.
Anche in relazione alle competenze concorrenti può accadere che l’intervento dell’Unione non
esaurisca la competenza e possa, quindi, esserci uno spazio di intervento degli Stati membri.
Per stabilire il margine e lo spazio di intervento degli Stati membri, bisogna vedere di volta in volta
qual è l’esercizio della competenza effettuato dall’Unione Europea. Anche in questo caso gli Stati
membri, agendo nel rispetto del principio di leale collaborazione, non possono mai pregiudicare le
azioni dell’Unione.
La fondamentale differenza tra competenze concorrenti e competenze complementari è:
• Nel caso delle competenze concorrenti, l’Unione può intervenire con norme di
armonizzazione, che esauriscono la competenza, senza lasciare margine alcuno agli Stati
membri.
• Nel caso delle competenze complementari, l’Unione non può mai intervenire attraverso un
esercizio esaustivo della competenza, ma deve comunque lasciare un margine di intervento agli
Stati membri. L’Unione non può procedere ad una armonizzazione, disciplinando l’intero
settore ed esaurendo la competenza.
L’art. 2 par. 5 dispone espressamente che “gli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione, adottati in base a
disposizioni dei trattati relativi a tali settori 27 non possono comportare un’armonizzazione delle disposizioni
legislative e regolamentari degli Stati membri”
Nell’art. 6 segue poi una lista, che non dà luogo a particolari innovazioni: anche prima del Trattato di
Lisbona era pacifico che in questi settori la competenza fosse complementare. Ancora una volta il
Trattato di Lisbona codifica una situazione preesistente.
I principali settori sono:
• La salute umana
• L’industria
• La cultura
Le competenze dell’Unione sono pur sempre competenze che si ricavano in maniera funzionale
In definitiva, con riguardo agli articoli esaminati (artt. 2 e seguenti del TFUE), il Trattato di Lisbona28
non ha dato luogo ad una riforma delle competenze dell’Unione, ma ha condotto un’opera pedagogica
di codificazione29 della giurisprudenza. Questa opera pedagogica in alcuni punti manca di rigore: è il
caso degli artt. 3 e 4, riguardanti la ricerca e la cooperazione allo sviluppo.
26
Fenomeno di svuotamento delle competenze statali.
27
Si tratta dei settori di competenza complementare.
28
Il Trattato di Lisbona ha, sì, introdotto delle liste, ma non si è passati ad un sistema di competenze enumerate:
le competenze dell’Unione sono pur sempre competenze che si ricavano in maniera funzionale (in ragione degli
obiettivi dell’Unione)
29
La codificazione comporta anche una maggiore visibilità di certi principi giurisprudenziali.
Poiché nell’art. 4 i settori rientranti nella competenza concorrente hanno le caratteristiche delle
competenze complementari, se ne deduce che l’articolo contenga due commi dedicati a talune
competenze complementari.
L’art. 5 è relativo al coordinamento delle politiche economiche e occupazionali. Anche se si tratta di un
settore di intervento la cui natura non è stata chiaramente definita dal Trattato di Lisbona, si tratta di
competenze che avrebbero potuto essere inserite nell’articolo concernente le competenze
complementari.
Poiché nel disposto dell’art 5 si legge che siamo di fronte al coordinamento attraverso l’adozione di
indirizzi di massima ed orientamenti, se ne desume che siamo di fronte al coordinamento, in cui non
può avvenire il fenomeno della preemption.
Dunque, anche in relazione alle politiche economiche occupazionali siamo di fronte a competenze
complementari, inserite in un articolo separato dalla lista dell’art. 6 per conferirgli, probabilmente, una
maggiore visibilità politica.
COMPETENZE ESTERNE
Si tratta della competenza dell’Unione a stipulare accordi internazionali.
Il punto di partenza è l’art. 47 TUE, che espressamente afferma che l’Unione ha personalità giuridica.
Vi è un legame tra competenze esterne e personalità giuridica, perché la personalità giuridica comporta
la capacità di concludere accordi internazionali con Stati terzi e organizzazioni internazionali.
La personalità giuridica è una condizione irrinunciabile per l’esercizio delle competenze esterne.
Anche in relazione agli accordi internazionali, si pongono i problemi relativi all’estensione del campo
di attività e alla intensità del potere che l’Unione può esercitare in quel campo di attività.
Il campo di attività
L’unione ha la competenza a stipulare accordi internazionali essenzialmente in tre ipotesi:
• Competenze espresse
Si verifica quando la competenza esterna è espressamente attribuita all’Unione nei Trattati.
Il caso più importante è l’art. 207. par 3 TFUE, che espressamente attribuisce all’Unione la
competenza a stipulare accordi in materia di politica commerciale comune.
Altri casi sono:
• Art. 191 TFUE – Accordi in materia di ambiente.
In considerazione del fatto che l’Unione Europea aveva una competenza interna in materia di
trasporti, esercitata attraverso l’adozione di alcuni atti di diritto derivato, il problema che si
poneva era: la CEE poteva anche stipulare anche accordi internazionali in materia di trasporti
su strada?
La Corte di Giustizia ha utilizzato la teoria dei poteri impliciti, enunciando il c.d. criterio del
parallelismo tra competenze interne e competenze esterne.
Nella sent. AETS, la Corte di Giustizia ha affermato che esiste una competenza esterna
quando la Comunità ha adottato norme comuni in una determinata materia. In particolare, in
tema dei trasporti su strada c’era una competenza interna, esercitata attraverso l’adozione di
norme comuni (atti di diritto derivato), ne consegue che ci deve essere una competenza esterna
parallela.
L’idea che sta alla base di questa giurisprudenza è che: quando l’Unione ha posto in essere
delle regole interne in una determinata materia, non ha senso che la competenza esterna sia in
capo agli Stati, perché – ponendo in essere accordi internazionali nella stessa materia in cui
l’Unione ha posto in essere ha posto norme comuni – potrebbero pregiudicare l’efficacia di
quelle norme comuni.
La dottrina fa riferimento al fenomeno sopra descritto, utilizzando l’espressione competenza
parallela successiva, perché si ha quando l’Unione ha posto in essere norme comuni.
Non basta l’attribuzione di una competenza all’Unione, ma consegue all’adozione di atti di
diritto derivato sul piano interno31.
Questo pone il problema di cosa succede se l’Unione Europea dispone di una competenza sul
piano interno, ma non l’ha esercitata, ponendo in essere norme comuni. Ha anche in questo
caso una competenza esterna parallela?
La corte di Giustizia si è pronunciata nel sent. Kramer del 1976, enunciando la teoria delle
competenze parallele preventive. La teoria è stata poi sviluppata meglio nel parere 1/76 del 1977, nel
quale la Corte di Giustizia afferma:
ð Competenze parallele in generale – “Ogniqualvolta il diritto comunitario abbia attribuito alle istituzioni
della Comunità determinati poteri sul piano interno, onde realizzare un certo obiettivo, la Comunità è
competente ad assumere gli impegni internazionali necessari per raggiungere tale obiettivo, anche in mancanza
di espresse disposizioni a riguardo”
ð Competenze parallele successive – “Questa conclusione s'impone fra l'altro in tutti i casi in cui i poteri
inerenti alla competenza interna siano stati già esercitati al fine di adottare provvedimenti destinati
all'attuazione delle politiche comuni…”
30
La teoria dei poteri impliciti nasce proprio in relazione alle competenze esterne.
31
Detto in altri termini: Non basta che l’Unione abbia una competenza, occorre che l’abbia esercitata sul piano
interno, ponendo in essere norme comuni.
ð Competenze parallele preventive – “…ma non si limita, tuttavia, a tale ipotesi. Anche qualora i
provvedimenti comunitari di carattere interno vengano adottati solo in occasione della stipulazione e
dell'attuazione dell'accordo internazionale32, la competenza ad impegnare la Comunità nei confronti di Stati
terzi deriva comunque implicitamente dalle disposizioni del trattato relative alla competenza interna, nella
misura in cui la partecipazione della Comunità all’accordo internazionale sia necessaria alla realizzazione di
uno degli obiettivi della Comunità.”
Qui vi è competenza della comunità ad intervenire anche nel caso in cui non siano state
previamente adottate disposizioni comuni sul piano interno, ma queste vengono poste
contemporaneamente all’adesione ad un trattato internazionale.
RIEPILOGO:
ð Secondo quanto stabilito nel Parere 1/76, per esercitare una competenza parallela preventiva
occorrono due requisiti:
• Potere di azione nell’ambito della competenza interna – Occorre, cioè, che ci sia un potere sul
piano interno.
• “L'Unione può concludere un accordo con uno o più paesi terzi o organizzazioni internazionali qualora i
trattati lo prevedano
Si tratta di competenza espressa.
32
Come prevede nella fattispecie la proposta di regolamento sottoposta dalla Commissione al Consiglio.
• o qualora la conclusione di un accordo sia necessaria per realizzare, nell'ambito delle politiche dell'Unione, uno
degli obiettivi fissati dai trattati,
Questa categoria è idonea a racchiudere sia la clausola di flessibilità, sia la competenza parallela
preventiva. Il riferimento ai trattati necessari a realizzare uno degli obiettivi fissati dai trattati
richiama la formulazione del 352, solo che questo articolo dice anche “senza che siano previsti dei
corrispondenti poteri di azione”.
• o sia prevista in un atto giuridico vincolante dell'Unione, oppure possa incidere su norme comuni o alterarne la
portata”.
Competenza parallela successiva. C’è una competenza interna, sono state adottate norme comuni,
l’accordo può incidere su norme comuni.
Inoltre, il “sia prevista in un atto giuridico vincolante dell’Unione” è una specificazione della
competenza parallela successiva e ciò perché: sono state adottate norme comuni e questi atti di
diritto derivato prevedono espressamente che l’Unione stipuli un accordo internazionale. Questa è
una specificazione che costituisce la codificazione di una giurisprudenza della Corte di giustizia.
RIEPILOGO:
ð L’Unione ha una competenza esclusiva in tre casi:
• Quando ha una competenza interna esclusiva (avverbio “inoltre”).
• Quando dispone di una competenza parallela preventiva (dispone di una competenza normativa
sul piano interno, non ancora esercitata e la stipulazione di un accordo internazionale è
necessaria per conseguire un obiettivo dell’unione)
Tutte queste ipotesi elencate ed enunciate dalla giurisprudenza della Corte di giustizia sono oggi
ð
codificate nel par. 2 dell’art. 3, secondo il quale:
Ü allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell'Unione
Si tratta di una specificazione delle competenze parallele successive.
Ü o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno
Si tratta di competenze parallele preventive: le competenze non sono state esercitate, ma la
competenza esterna è necessaria.
Ü o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata.
Si tratta, ancora una volta, di competenze parallele successive. È un’ipotesi più generale rispetto
alla prima, perché si tratta di incidere su norme comuni: sono state adottate norme comuni che
hanno previsto la stipulazione di accordi internazionali.
Questa bipartizione ridondante34 deriva dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, che nella
sent. Open Skies del 2002 ha individuato queste specificazioni.
33
Hanno poteri sul piano interno, hanno adottato norme comuni.
34
Sarebbe sufficiente dire “esistono norme comuni” e questa ipotesi racchiude sia il caso in cui le norme comuni
prevedono espressamente la stipulazione di un successivo accordo internazionale, sia il caso in cui non lo
prevedano.
In tutti gli altri casi, la competenza dell’Unione coesiste con quella degli Stati membri a stipulare
accordi internazionali. Non c’è differenza tra competenze concorrenti e competenze complementari.
Rimane fermo (per gli Stati) il limite costituito dal rispetto del principio di leale cooperazione: gli Stati
restano liberi, ma devono astenersi da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione
degli obiettivi dell’Unione. Se, però, gli Stati violano questo obbligo – ponendo in essere un accordo
internazionale in un’area in cui le sue competenze coesistono con quelle dell’unione europea – nel
settore della stipulazione degli accordi internazionali, mancano i mezzi per rimuovere l’ostacolo
costituito dall’accordo. Per questa ragione, in dottrina35 c’è chi auspica la creazione di un sistema per
informare l’unione europea circa i negoziati relativi agli accordi stipulati tra stati membri. Secondo
Gaia, gli Stati membri – quando stanno stipulando un trattato internazionale in un’area in cui i poteri
dello Stato coesistono con i poteri dell’unione – dovrebbero essi stessi informare l’Unione Europea,
perché nel caso in cui l’accordo violi il principio di leale cooperazione, l’Unione sarebbe prima di
strumenti per la rimozione dell’accordo. Questa rimane comunque una proposta, di cui non c’è traccia
nei trattati.
LA GIURISDIZIONE COMUNITARIA
Gli organi che compongono la giurisdizione comunitaria sono, da un lato, quelli indicati all’art. 19 del
TUE (Corte di Giustizia, Tribunale e Tribunali specializzati) e dall’altro lato la Corte dei conti.
Questi organi si dividono in due gruppi perché primi tre (Corte di Giustizia, Tribunale e Tribunali
specializzati) danno luogo ad una sorta di sistema integrato, del quale non fa parte la Corte dei Conti.
La Corte dei Conti è un’istituzione giurisdizionale che ha il compito di condurre il controllo dei conti,
ossia la regolarità delle entrate e delle uscite. Controlla, quindi, la sana gestione finanziaria della
comunità europea.
• L’art. 19 del TUE – indica i tratti generali della giurisdizione dell’Unione Europea,
disciplinando la composizione di questi organismi e indicandone i compiti.
• Artt. 251 e ss. del TFUE –si trovano alcune disposizioni istituzionali (buona parte sono
contenuti nell’art. 19, ma alcune sono anche in questi articoli). In questi articoli si trova la
disciplina dei ricorsi esperibili di fronte alla giurisdizione dell’unione europea
35
In particolare la posizione di Gaia, un rilevante autore italiano
36
Ciascuna giurisdizione comunitaria è dotata di un suo regolamento di procedura
37
Entrambe sono fonti di diritto primario.
Poiché lo Statuto è uno strumento più flessibile rispetto ai Trattati, le modifiche possono essere
apportate con procedura legislativa ordinaria (non occorre, quindi attivare la procedura di revisione dei
trattati).
Si precisa che prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona occorreva una decisione del consiglio
all’unanimità; oggi, invece, lo Statuto è modificabile con procedura legislativa ordinaria.
Il regolamento di procedura non è fonte di primo grado. Ciascun organismo giurisdizionale stabilisce il
proprio regolamento di procedura, che verrà poi sottoposto all’approvazione del consiglio, ai sensi
dell’art. 253 par 6 del TFUE.
Dal punto di vista sostanziale (cioè dal punto di vista del contenuto di questi atti):
• lo Statuto contiene le norme più generali sul funzionamento della giurisdizione dell’ Unione,
Composizione
La Corte di giustizia è attualmente composta da ventotto giudici e da nove avvocati generali.
• Art. 2 Statuto della Corte di giustizia – i membri della Corte di giustizia svolgono le loro
funzioni in piena imparzialità e secondo coscienza.
• Art. 6 Statuto della Corte – lo stesso Statuto prevede anche una sanzione nell’ipotesi in cui
l’obbligo di indipendenza, imparzialità venisse violato dai membri della Corte di giustizia. In
questo caso i membri della Corte possono essere rimossi dalle loro funzioni in virtù di una
decisione unanime della stessa corte di giustizia. Si precisa che tratta di un caso meramente di
scuola.
• Art. 18 dello Statuto della Corte – vieta alle parti di invocare la nazionalità di un giudice o
l’assenza di un giudice della propria nazionalità per contestare la composizione della Corte.
Es. in una procedura d’infrazione intentata dalla commissione contro l’Italia, la Commissione
non può lamentare la presenza di un giudice italiano nel collegio giudicante; di converso, nel
caso in cui il collegio giudicante non contenga un giudice italiano, l’Italia non può lamentarne
l’assenza nel collegio giudicante, perché il giudice non è un rappresentante dello Stato membro,
portatore di un interesse statale, ma è un soggetto che agisce in piena indipendenza (e quindi a
titolo individuale).
Secondo l’art. 253 del TFUE, i giudici e gli avvocati generali sono nominati di comune accordo dai
governi degli Stati membri.
Il trattato di Lisbona ha introdotto una novità: prima della nomina, i governi degli Stati membri (i quali
sono competenti a nominare i giudici) debbano consultare un comitato, che – in base all’art. 255 TFUE
– ha il compito di fornire un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice
e di avvocato generale della Corte di giustizia e di giudice del Tribunale.
Questo cd. “Comitato art. 255” (previsto proprio dall’art. 255 TFUE) è composto da sette membri,
scelti tra ex membri della Corte di Giustizia, del Tribunale ed anche tra i membri dei massimi organi
giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza (ex membri di Corti costituzionali, o del
consiglio di presidenti o del consiglio di Stato).
Uno di questi sette è proposto dal Parlamento Europeo, gli altri sono scelti dal Consiglio, che con una
decisione (istituiva del Comitato) ne disciplina anche il funzionamento.
I membri della Corte:
• Vengono scelti di comune accordo tra gli stati membri, ma previo parere del “Comitato art.
255”.
• Sono nominati per sei anni.
• Il loro mandato è rinnovabile anche più volte. Questa circostanza si verifica spesso, l’attuale
giudice italiano è stato, infatti, rinnovato più volte.
Così come previsto dall’art. 9 dello Statuto, le nomine avvengono a scadenze triennali: ogni tre anni
scadono, cioè, dalle loro funzioni la metà dei giudici.
L’ultima scadenza triennale si è avuta nell’ottobre del 2012, in cui sono scaduti quattordici giudici
sugli, allora, ventisette giudici. Nel 2015 scadranno gli altri quattordici.
La scadenza triennale vale anche per i nove avvocati generali, divisi in cinque e quattro.
Il mandato è di sei anni, ma le scadenze sono triennali per evitare che il mandato dei giudici della Corte
scada contemporaneamente per tutti, arrecando un pregiudizio ai lavori della Corte di Giustizia. Per
questa ragione si è deciso di scaglionare nel tempo la scadenza dei mandati.
• Ha una serie di compiti organizzativi: fissa le date delle udienze; decide sulle richieste di
provvedimenti cautelari e presiede udienze plenarie (rarissime).
Le udienze plenarie sono rarissime perché i ventotto giudici della Corte non decidono tutti insieme, ma
sono organizzati in sezioni da tre o da cinque giudici o una sezione composta da quindici giudici (la
c.d. grande sezione), presieduta dal presidente della Corte di Giustizia.
Le cause vengono normalmente decise dalle sezioni composte da tre o da cinque giudici; quando, però,
uno Stato membro o un’istituzione dell’Unione lo richiedono le cause vengono decise dalla grande
sezione.
In ipotesi rarissime i giudici decidono in seduta plenaria (ventotto giudici); questo avviene:
Le conclusioni dell’avvocato generale non sono vincolanti per la Corte di giustizia, che può, nella sua
sentenza, discostarsene senza doverne spiegare le ragioni.
Nonostante le conclusioni siano un parere non vincolante, sono molto rilevanti e orientano la Corte di
giustizia in un numero considerevole di casi: la Corte tende, infatti, a seguire39 le considerazioni
dell’avvocato generale, soprattutto per le cause maggiormente routinarie, cioè quelle relativamente alle
quali c’è una giurisprudenza più consolidata. Per i casi più difficili o quelli più politicamente più
sensibili è, invece, facile che vi sia una discrepanza tra le conclusioni dell’avvocato generale e la
sentenza della corte di giustizia.
38
Studia una possibile soluzione della causa.
39
Alcuni anni fa girava una statistica ufficiosa in base alla quale la corte di giustizia seguirebbe le conclusioni
dell’avvocato generale nell’ottanta percento dei casi.
Le conclusioni sono importanti anche per comprendere le ragioni della Corte di giustizia nelle sue
sentenze.
• Le sentenze della Corte sono solitamente più sintetiche e stringate delle conclusioni
dell’avvocato generale, perché la Corte di giustizia non deve convincere nessuno e, magari, ha
seguito le motivazioni dell’avvocato generale che sul punto sono più diffuse, più ampie
• L’avvocato generale tende ad essere più ampio nella motivazione della sua proposta di
soluzione della causa, perché cerca di convincere la Corte di giustizia.
Per questi motivi, le conclusioni dell’avvocato generale sono, spesso, utili per capire le ragioni per le
quali la Corte di giustizia ha pronunciato una sentenza sulla base di determinate motivazioni. Quando
si vuole comprendere appieno una sentenza della corte di giustizia è bene, dunque, leggerla insieme alle
conclusioni dell’avvocato generale.
Prima dell’entrata in vigore del trattato di Nizza (2003) gli avvocati generali dovevano presentare le
loro conclusioni in ogni causa pendente di fronte alla corte di giustizia; oggi – in seguito alle modifiche
introdotte dal trattato di Nizza ed, in particolare, sulla base della nuova versione dell’art. 252 TFUE –
questo obbligo viene meno: l’avvocato generale non pronuncia più le sue conclusioni in ogni causa, ma
è previsto dallo Statuto della Corte (che è abilitato a disporre in proposito dall’art. 252 TFUE) che la
Corte possa decidere la causa senza le conclusioni dell’avvocato generale, quando la causa non solleva
nuove questioni di diritto.
Capita ad esempio che ci siano procedure di infrazione non contestate (uno Stato che non ha trasposto
una direttiva si trova in una situazione di infrazione, che dà luogo ad una procedura di infrazione
avviata dalla commissione); in questi casi, spesso, lo stato che non ha trasposto la direttiva non contesta
l’infrazione.
Questa è una delle ipotesi in cui vengono meno le conclusioni dell’avvocato generale, che prima erano
necessarie.
Più in generale, secondo l’art. 20 dello Statuto Corte può decidere senza le conclusioni dell’avvocato
generale quando la causa non ponga nuove questioni di diritto.
La figura dell’avvocato generale è trapiantata dall’ordinamento giuridico francese: si tratta del
Commissario di governo, figura del tutto analoga all’avvocato generale, che svolge le proprie
osservazioni dinnanzi al Consiglio di stato francese prima della sentenza.
C’è anche una qualche analogia con una figura esistente nell’ordinamento italiano: il procuratore
generale di fronte alla Corte di Cassazione nelle cause civili. Anche il procuratore generale italiano
presenta le sue osservazioni di fronte alla Corte di Cassazione prima che questa decida, ma ci sono
delle differenze con la figura dell’avvocato generale; in particolare:
• Le osservazioni del procuratore generale sono orali e le parti, qualora in disaccordo, possono
replicare;
• Le conclusioni dell’avvocato generale sono un atto scritto pubblicato insieme alla sentenza, ma
le parti non possono replicare qualora siano in disaccordo.
Qual è la alla ratio della figura dell’avvocato generale di fronte alla Corte di giustizia?
In origine la Corte di giustizia decideva in unica istanza, infatti i tribunali specializzati sono stati
introdotti in epoca molto recente, con il trattato di Nizza, ed il Tribunale (di primo grado) è anch’esso
una introduzione successiva ai trattati originari, con una decisione del Consiglio del 1989.
Dunque, dalle origini fino all’istituzione del Tribunale, la Corte di giustizia era organo giurisdizionale
di unico grado che decideva (e decide) causa di importanza notevolissima40 . La circostanza che la
Corte emani sentenze con efficacia così dirompente in unico grado, impone un certo livello di
ponderazione delle sue decisioni.
Per assicurare, quindi, maggiore ponderazione delle decisioni della Corte di giustizia, si è deciso di
introdurre la figura dell’avvocato generale, avente il compito di studiare la causa prima della Corte e
proporre una soluzione, che deve essere presa in considerazione dalla Corte stessa.
La figura dell’avvocato generale è ancora opportuna, perché ancora oggi la Corte di giustizia – pur non
essendo più organo di unico grado in tutte le materie – si pronuncia in unico grado (ad esempio, sui
rinvii pregiudiziali) ed ancora oggi la Corte pronuncia sentenze la cui efficacia è dirompente, per cui è
ancora necessaria una maggiore ponderazione.
Il principale effetto collaterale è che le conclusioni dell’avvocato generale allungano i tempi processuali,
perché occorre aspettare che l’avvocato studi la causa e che si pronunci nelle conclusioni, che – come
tutti gli atti della Corte di giustizia che hanno rilevanza esterna – sono oggetto di traduzione. Ai tempi
necessari alla redazione si assommano, quindi, i tempi della traduzione in tutte le lingue ufficiali.
Proprio per questa ragione, il trattato di Nizza ha introdotto la circostanza che l’avvocato generale non
pronunci più le conclusioni in tutte le cause, ma se la causa non presenta nuove questioni di diritto si
può procedere più speditamente.
Quanto al numero, fino allo scorso anno gli avvocati generali erano otto, lo scorso anno è stata
emanata la decisione del Consiglio n. 336/2013 che li ha portati a nove e che ha previsto che nel 2015
diventeranno undici.
Per prassi non codificata:
• Cinque vengono designati dai cinque paesi membri più grandi dell’UE: Francia, Germania,
Italia, Regno Unito, Spagna.
ATTENZIONE! Nel Daniele c’è un errore: dice che i paesi più grandi sono quattro,
dimenticando la Spagna.
• Gli altri quattro sono decisi a rotazione dagli altri stati membri.
L’Italia designa sempre un avvocato generale: c’è sempre un avvocato generale italiano alla corte di
giustizia, mentre l’avvocato generale (ad es) lussemburghese ruota insieme ai ventitré dei restanti Stati
membri sui quattro posti rimanenti. È questa la ragione per la quale il numero degli avvocati generali è
stato aumentato.
Per la scelta si procede allo stesso modo che per i giudici della corte di giustizia:
• I governi di comune accordo designano giudici e avvocati generali tra soggetti che abbiano
determinati requisiti di competenza e di indipendenza.
• Anche per gli avvocati generali viene ascoltato il comitato art. 255.
Poiché anche la Polonia (stato di grandezza simile alla Spagna) voleva designare un avvocato generale
senza ruotare, è stato introdotto il nono avvocato generale: oggi sei vengono scelti (c’è anche quello
scelto dalla Polonia che probabilmente continuerà a designare un avvocato generale). Si tratta
comunque di regole non scritte.
40
Ancora oggi decide casi di importanza notevolissima: es. se la Corte di giustizia afferma che una certa
legislazione nazionale che istituisce una tassa non è compatibile con il diritto dell’UE, l’Italia deve rimuovere
quella tassa.
Con riguardo alla mancata possibilità di replicare alle conclusioni dell’avvocato generale, si pone il
problema della compatibilità di questa circostanza con il principio del contraddittorio, garantito
dall’art. 6 par 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti fondamentali.
Il problema si è posto anche perché la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è pronunciata su figure
analoghe all’avvocato generale di fronte alla Corte di giustizia, affermando che le parti devono poter
replicare alle osservazioni.
Il problema si è posto per la prima volta di fronte alla Corte di Strasburgo nella sent. Vermeulen del
1996, relativa al pubblico ministero di fronte alla Corte di Cassazione belga. Questo soggetto, seppure
in piena indipendenza, presentava le sue osservazioni di fronte alla Corte di Cassazione, ma le parti
non potevano replicare. Di fronte alla Corte di Strasburgo si è posto il problema se questo fosse o meno
compatibile con il principio del contraddittorio.
Il problema sta nel fatto che il principio del contraddittorio imporrebbe che tutti gli elementi sottoposti
all’attenzione del giudice siano oggetto di contraddittorio tra le parti, invece così non è per le
conclusioni dell’avvocato generale.
La pronuncia della corte di giustizia nell’ordinanza Emesa sugar del 2000, originava proprio da una
controversia di questo tipo:
• La società Emesa sugar, in una causa in materia doganale, si era vista soccombente nella
soluzione proposta dell’avvocato generale.
• L’avvocato generale viene spesso seguito dalla corte di giustizia.
IL TRIBUNALE
Prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, il Tribunale si chiamava Tribunale di primo grado.
Il trattato di Lisbona ha opportunamente modificato la denominazione, perché frattanto – per il tramite
del trattato di Nizza – sono state istituite delle camere giurisdizionali: i tribunali specializzati,
competenti a conoscere in primo grado di determinati settori del contenzioso comunitario.
La denominazione “di primo grado” non era, quindi, più corretta in relazione ad alcune materie: in
relazione al tribunale della funzione pubblica, in materia del contenzioso della funzione pubblica
(quello che oppone i funzionari dell’unione europea all’unione europea), il tribunale non è più giudice
di primo grado, è giudice di appello.
Il Tribunale è un organo istituito non dalle origini, ma in epoca relativamente recente: la sua istituzione
è stata prevista dall’Atto unico europeo (1986), il quale ha introdotto nel trattato istitutivo della CEE
una c.d. clausola abilitante e successivamente – con una decisione del consiglio, la decisione n.
951/1988 – è stato istituito il Tribunale.
La clausola abilitante è una disposizione con la quale gli autori dei trattati modificativi – anziché
prevedere immediatamente una modifica dei trattati istitutivi – abilitano le istituzioni a introdurre una
determinata novità.
L’Atto unico europeo non istituisce, quindi, il Tribunale di primo grado, ma dispone che con decisione
unanime del Consiglio, ove questo venga ritenuto necessario, si possa istituire un Tribunale di primo
grado.
Dalla sua istituzione ad oggi il Tribunale ha visto progressivamente accrescere il suo ruolo.
Composizione
La norma rilevante è l’art. 19 TUE, secondo la quale il Tribunale è formato da almeno un giudice per
Stato membro.
Si noti la prima differenza con la composizione della Corte che, invece, è formata da un giudice per
stato membro (e non da “almeno” un giudice).
La circostanza che la norma parli di “almeno un giudice” sta a significare che numero dei giudici del
tribunale può essere incrementato e ciò attraverso una modifica dello Statuto della Corte di giustizia.
Attualmente i giudici sono ventotto e non mai avvenuto che siano stati aumentati di numero.
L’art. 254 TFUE dispone che il numero dei giudici del Tribunale è deciso nello Statuto della Corte di
giustizia. Per il Tribunale si prevede un meccanismo (più elastico rispetto a quello previsto per la Corte
di giustizia) in base al quale si è in grado di far fronte ad un improvviso aumento del contenzioso: se il
contenzioso del Tribunale aumentasse in modo abnorme, gli Stati potrebbero prevedere un numero
maggiore dei giudici del Tribunale, attraverso modifica dello statuto mediante una procedura legislativa
ordinaria.
• Anche nel Tribunale vige il sistema delle scadenze triennali: non scadono tutti insieme, ma
metà scadono ogni tre anni
• A differenza della Corte di giustizia, di fronte al Tribunale non esiste la figura dell’avvocato
generale.
Anche qui ci sono delle clausole abilitanti. È previsto che lo Statuto della Corte possa prevedere
che il Tribunale sia assistito da avvocati generali: se si volesse ipoteticamente istituire la figura
dell’avvocato generale anche di fronte al tribunale, si potrebbe fare con una modifica dello
statuto, senza necessità di modificare il trattato.
L’art. 49 dello Statuto prevede che in cause particolarmente delicate, un giudice del Tribunale
possa essere chiamato a svolgere le funzioni dell’avvocato generale. Anche senza istituirne la
figura, qualora se ne presenti la necessità per la particolarità della causa, un giudice del
tribunale può essere chiamato a svolgere le funzioni di avvocato generale. Il che è avvenuto in
ipotesi rarissime.
Di fronte al Tribunale non si pone la necessità di istituire la figura dell’avvocato generale,
perché le sentenze possono essere oggetto di impugnazione di fronte alla Corte di giustizia e
quindi la maggiore ponderazione si recupera con un successivo grado di giudizio.
1. Anche per il Tribunale vale quanto detto relativamente ai lavori organizzati in sezioni: i
ventotto giudici non decidono tutti insieme, ma decidono in sezioni da tre o da cinque o nella
grande sezione, composta da quindici giudici.
2. A differenza della Corte, in determinate circostanze, il Tribunale può decidere nella formazione
del giudice unico41.
3. Con riguardo alla grande sezione, di fronte al tribunale non vale quello detto per la Corte.
Per la corte vale il fatto che gli stati e le istituzioni possono chiedere e ottenere che la causa
venga decisa dalla grande sezione (composta da quindici giudici).
Per il Tribunale gli Stati e le istituzioni possono solo chiedere che la causa venga rimessa ad una
sezione di almeno cinque giudici.
Le cause introdotte di fronte al tribunale vengono normalmente decise dal Tribunale, ma in certi casi il
tribunale può anche rinviare la decisione della causa alla Corte di giustizia. Secondo quanto previsto
dall’art.256 TFUE, ciò può verificarsi quando una decisione può compromettere l’unità e la coerenza
del diritto dell’UE.
41
Il giudice unico è un tipico strumento di deflazione del contenzioso. Quando il contenzioso aumenta, si ricorre
alla figura del giudice unico, che decide tipicamente le cause di minore importanza.
13 NOVEMBRE 2014
TRIBUNALI SPECIALIZZATI
Prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si chiamavano camere giurisdizionali. Questi
Tribunali sono stati istituiti dal Trattato di Nizza attraverso una disposizione che noi oggi troviamo
nell’art. 257 TFUE, il quale dispone che: “Al tribunale possono essere affiancati dei tribunali
specializzati , incaricati di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi proposti in materie
specifiche”. E poi vengono disciplinate anche le modalità attraverso le quali possono essere istituiti
questi tribunali specializzati.
Originariamente il Trattato di Nizza prevedeva che ci fosse una deliberazione unanime, oggi, con il
Trattato di Lisbona, si è passati a procedura legislativa ordinaria. Quindi oggi con procedura legislativa
ordinaria è possibile istituire dei Tribunali specializzati. Anche in questo caso, così come per
l’istituzione del Tribunale, si è usata la tecnica della c.d. clausola abilitante: tecnica attraverso la quale
gli autori del Trattato, anziché prevedere una nuova istituzione con efficacia immediata, abilitano le
istituzioni a disciplinare in materia. Quindi le camere giurisdizionali, che poi diventeranno tribunali
specializzati, non si istituiscono direttamente ma si prevede che possano essere istituite.
La clausola abilitante è stata sfruttata con una decisione del Consiglio no 752/2004, che istituisce il
Tribunale della funzione pubblica e en disciplina anche il funzionamento.
Dispone che il Tribunale della funzione pubblica è composto da 7 giudici e che la sua competenza
riguarda il contenzioso in materia di personale dell’UE.
I giudici del Tribunale della funzione pubblica sono nominati dal Consiglio che decide all’unanimità;
qui c’è una particolare differenza rispetto alla designazione dei giudici della Corte di Giustizia e del
Tribunale, perché la nomina della Corte viene effettuata di comune accordo tra i Governi degli Stati
membri, che ne designano uno ciascuno, previo parere del Comitato (art 255).
I requisiti sono previsti dal Trattato, nel quale è previsto che può presentare la candidatura chiunque
abbia la cittadinanza dell’Unione e possiede la capacità per l’esercizio di funzioni giurisdizionali.
Per il Tribunale della funzione pubblica occorre garantire il requisito dell’indipendenza. I soggetti
presentano la loro candidature, le quali verranno poi esaminate dal Consiglio che dovrà previamente
consultare il comitato ex art. 255.
Questo comitato era stato originariamente previsto nel 2004, solo nel 2007, con il Trattato di Lisbona,
il comitato è stato disciplinato nei Trattati e si è previsto che il comitato emani un parere in relazione
alla nomina dei giudici della Corte, del Tribunale e degli avvocati generali della Corte di Giustizia.
Il comitato è composto da 7 personalità scelte tra ex giudici della Corte di Giustizia e del Tribunale, e
tra giuristi di notoria competenza.
Il comitato, ex art. 255, in relazione al Tribunale della funzione pubblica, ha dei poteri più pregnanti
rispetto a quelli che esercita in relazione alla nomina dei giudici della Corte di Giustizia e del
Tribunale. Poteri più pregnanti perché il comitato esamina le candidature che gli vengono sottoposte
dai soggetti che si candidano ed emana un parere sull’adeguatezza dei candidati e accompagna il parere
con un elenco di possibili candidati idonei che devono essere in numero doppio rispetto alle nomine
che poi il Consiglio dovrà fare.
Relativamente alla provenienza geografica, la decisione istitutiva del 2004 dispone che il Consiglio,
nella nomina dei giudici del Tribunale della funzione pubblica, deve assicurare una composizione
equilibrata, secondo una base geografica quanto più ampia possibile rispetto ai cittadini e agli
ordinamenti degli Stati membri.
Non sono previsti dei turni, delle votazioni, la nomina del giudice del Tribunale della funzione pubblica
deve avere una composizione equilibrata anche sul piano geografico.
Le sentenze del Tribunale della funzione pubblica sono impugnabili di fronte al Tribunale ed è questa
la ragione per la quale il Tribunale che prima si chiamava Tribunale di primo grado, con il Trattato di
Lisbona perde una parte della sua denominazione, oggi si chiama, infatti, solo tribunale.
Le sentenze sono impugnabili per i soli motivi di diritto, questo è analogo a quello che avviene per le
impugnazioni delle sentenze del Tribunale di fronte alla Corte di Giustizia. Il termine è di 2 mesi, per i
soli motivi di diritto, quindi è una sorta di giudizio per Cassazione.
È previsto anche che in circostanze eccezionali le sentenze del Tribunale, che vengono emanate a
seguito di un’impugnazione delle sentenze del Tribunale della funzione pubblica, possano essere oggetti
di riesame di fronte alla Corte di Giustizia. Pertanto, in questi casi eccezionali, abbiamo un giudizio
che si articola in tre gradi:
1. Sentenza del Tribunale della funzione pubblica;
2. Impugnazione per i soli motivi di diritto di fronte al Tribunale;
3. Eventuale riesame di fronte alla Corte di Giustizia.
Si parla di casi eccezionali perché il Trattato all’art. 256 par. 2 TFUE prevede che il riesame può aversi
“ove sussistano gravi rischi che l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione siano compromessi”.
Il riesame è ulteriormente disciplinato dallo statuto della Corte di Giustizia che limita la possibilità del
riesame dandone una disciplina piuttosto restrittiva. È previsto per esempio che la proposta di riesame
non avvenga da parte dei soggetti attore/convenuto, cioè dalle parti del giudizio di fronte al Tribunale,
ma la proposta del riesame è in mano al primo avvocato generale (è uno degli avvocati generali che ha
delle funzioni di coordinamento, non viene eletto ma è una nomina che avviene a rotazione, tutti gli
avvocati generali a turno sono primo avvocato generale).
È previsto che la Corte di Giustizia decida se pronunciarsi o meno, questa valutazione del primo
avvocato generale viene poi esaminata dalla Corte di Giustizia la quale potrebbe dire che non c’è
pericolo per la coerenza del diritto dell’Unione Europea, in questi casi rigetta la richiesta del primo
avvocato generale e può pronunciarsi, se lo ritiene opportuno, e in questo caso o risolve la causa – si
pronuncia in modo definitivo – o la rinvia al Tribunale, il quale è vincolato dai punti di diritto i quali
sono stati decisi dalla Corte di Giustizia.
Lo Statuto prevede anche che in casi di rinvio la Corte possa anche indicare gli effetti della decisione
del Tribunale che devono essere considerati definitivi nei riguardi delle parti in causa.
In questo modo il riesame non produce in tutto o in parte effetti sulle parti, quindi pur essendosi la
Corte pronunciata in un certo modo, questa pronuncia può anche non produrre effetti sulle parti della
causa, qualora la Corte ritenga di indicare alcuni effetti della Sent. del Tribunale da ritenersi definitivi
nei confronti delle parti; questo è un altro segnale del fatto che il riesame non è un rimedio in mano alle
parti ma svolto nell'interesse della legge, quindi nell'interesse dell'unità e della coerenza del diritto dell'
UE. L'esito dell'esame può dunque non produrre effetti sulle parti.
Procedura
Come si svolge una causa di fronte la Corte di Giustizia dell'UE?
La procedura è in larga parte disciplinata dal regolamento di procedura, il quale prevede che le parti
devono farsi rappresentare in giudizio, per cui le istituzioni nominano un agente (normalmente un
componente del servizio giuridico di quell'istituzione) per ogni causa, mentre le parti private si fanno
rappresentare da un avvocato (abilitato al patrocinio di fronte alla giurisdizione di uno degli Stati
membri dell'UE, non occorre che sia un avvocato abilitato di fronte alle giurisdizioni superiori, quindi
nel caso dell'Italia non occorre che sia un avvocato cassazionista, è sufficiente che sia abilitato al
patrocinio di fronte alla giurisdizione italiana).
Una caratteristica particolare delle cause che si svolgono dinanzi alla giurisdizione dell'UE, sta nel fatto
che gli Stati membri e le Istituzioni dell'UE possono sempre intervenire in qualunque causa senza
bisogno di dimostrare un loro interesse specifico. La ragione di questa peculiarità va ricercata
nell'efficacia che hanno le sentenze della Corte di Giustizia. Infatti, le sentenze della Corte di Giustizia
non hanno effetto soltanto sulle parti della causa, ma hanno efficacia erga omnes, quindi i loro effetti si
dispiegano al di là della controversia che viene decisa dalla Corte. Questo è particolarmente evidente
nel caso del rinvio pregiudiziale, il cui scopo è non di risolvere una controversia ma di garantire
un'uniforme applicazione del diritto dell'UE, ciò comporta che se la Corte pronuncia una determinata
interpretazione del diritto dell'UE, questa interpretazione non dispiega i suoi effetti solo nella
controversia da cui origina il rinvio pregiudiziale, ma dispiega i suoi effetti erga omnes.
ES. supponiamo che la Corte sia chiamata a vagliare, con una pregiudiziale di interpretazione, la
compatibilità di un tributo italiano - come è successo nel caso dell'IRAP - con una direttiva
comunitaria. In questo caso se in Lestonia c'è un tributo che ha le stesse caratteristiche dell'IRAP e la
Corte si pronuncia in senso negativo, cioè dell'incompatibilità dell'Irap, allora in questo caso non solo
l'Italia è costretta ad abrogare il tributo, ma anche gli altri Stati membri, nel quale sorgono dei
contributi analoghi, saranno costretti a fare altrettanto.
Questo spiega perché qualunque Stato membro dell'Unione può intervenire di fronte la Corte di
Giustizia, senza bisogno di dimostrare uno specifico interesse all'intervento, perché l'interesse è in re
ipsa.
La procedura si divide in una fase scritta e in una fase orale.
La fase scritta si apre con l'istanza, che nel caso del rinvio pregiudiziale è l'ordinanza di rinvio
pregiudiziale, nel caso di ricorsi diretti (es. l'azione di annullamento) è il ricorso, l'istanza viene
depositata nella cancelleria della Corte.
La fase scritta prosegue con uno scambio di memorie e contro memorie, in virtù del principio del
contraddittorio le parti hanno la possibilità di replicare e può anche essere completata da
provvedimenti istruttori, per esempio la testimonianza, sebbene questo di fronte la Corte è piuttosto
raro, perizie ecc.
Nella fase scritta il Presidente della Corte di Giustizia nomina il giudice relatore a cui compete redigere
la cd relazione di udienza, che è il documento nel quale il giudice relatore riassume i fatti di causa e
riassume le posizioni espresse dalle parti nelle memorie e contro memorie, è un documento piuttosto
importante nel corso della causa, tant'è che le parti possono anche obiettare la formulazione della
relazione d'udienza replicando nel corso dell'udienza, ove ritengano che i fatti non siano ricostruiti
correttamente oppure che le loro posizioni non siano riportate in modo corretto.
La fase orale si svolge nell'udienza che è consacrata all'audizione delle parti, alle quali è concesso un
tempo limitato per potere esprimere le loro posizioni, di soliti 30\15 minuti, anche qui c'è la possibilità
di replicare. Un aspetto interessante di queste udienze sta nel fatto che i giudici della Corte e l'avvocato
generale tengono ad interloquire con le parti facendo una serie di domande, questa prassi è necessaria
perchè spesso la causa proviene da un ordinamento giuridico di cui i giudici della Corte e l'Avvocato
Generale non hanno alcuna conoscenza, per cui hanno la necessità di chiarirsi le idee di come funziona
quell'ordinamento giuridico.
Per esempio un udienza che riguarda la possibilità per una signora francese laureata in giurisprudenza
in Francia di iscriversi nel registro dei praticanti avvocati presso l'ordine degli avvocati di Genova, la
causa ha poi dato luogo alla sentenza Morgne(?). In quel caso il giudice relatore, che era inglese, e
l'avvocato generale tedesco, non conoscevano il funzionamento della pratica forense e dell'esame di
avvocato in Italia, per questa ragione hanno fatto una sequela di domanda alle parti intervenienti di
fronte alla Corte di Giustizia. Per cui gli avvocati impegnati di fronte la Corte di Giustizia si trovano
spesso a rispondere alle domande dei giudici e degli avvocati generali.
La fase orale si chiude con la lettura delle conclusioni dell'avvocato generale, che di solito avviene in
un'udienza successiva rispetto a quella in cui le parti vengono sentite, questo perchè le conclusioni
devono anche tener conto di quello che si è detto nell'udienza, per cui l'avvocato generale non si
esprime nel corso della stessa udienza, quindi redige le conclusioni e si esprime nel corso di un udienza
che si terrà in seguito.
Le parti non possono rispondere alle conclusioni dell'avvocato generale, per cui dopo la lettura delle
conclusioni la palla passa alla Corte di Giustizia la quale in camera di consiglio redigerà la sentenza.
Quindi alle parti non resta che attendere la sentenza, che viene tradotta in tutte le lingue ufficiali
dell'UE.
A proposito del regime linguistico, l'istituzione è composta da 37 membri (28 giudici e 9 avvocati
generali) che parlano 23 lingue diverse, per cui non è concepibile che ciascun atto che viene sottoposto
all'attenzione della Corte venga tradotto in tutte le lingue ufficiali dell'UE, la traduzione di tutte le
lingue ufficiali si fa solo per la sentenza e per le conclusioni che hanno rilevanza esterna, per i
documenti di lavoro della Corte di Giustizia per convenzione si adotta una lingua di lavoro che è il
francese, ciò perchè il francese è una delle lingue ufficiali di Lussemburgo, poi anche perchè il francese
era tradizionalmente la lingua delle relazioni diplomatiche, oggi ha ceduto il passo all'inglese, però di
fronte alla Corte di Giustizia si continua ad utilizzare come lingua di lavoro il francese; ciò vuol dire
che tutti i documenti sottoposti alla Corte di Giustizia vengono tradotti in francese e alla lingua di
lavoro si aggiunge la lingua della procedura che, ai sensi dello Statuto, è la lingua del ricorrente, a
meno che il convenuto sia uno Stato membro, quindi per es. nel caso della procedura di infrazione in
cui il ricorrente è la commissione, la lingua della procedura non è quella del ricorrente, perchè il
convenuto è uno stato membro.
Se si tratta di rinvio pregiudiziale la lingua della procedura è quella del giudice remittente, per es. se
un'impresa italiana impugna una decisione, emanata dalla commissione di fronte il tribunale, in
materia di concorrenza, allora la lingua della procedura è italiana.
Per quanto concerne le udienze si svolgono nella lingua della procedura e poi c'è il complesso servizio
di traduzione simultanea, attraverso cui si spera che i giudici capiscano qualcosa di quello che si è detto
durante l'udienza; il problema si pone in particolare perchè mentre prima ciascuna lingua veniva
tradotta in tutte le altre, oggi la combinazione è tale per cui questo non è più possibile, quindi si
procede con un sistema di doppia tradizione: se non c'è il traduttore in grado di tradurre dal lestone
all'italiano, allora ci sarà un traduttore in grado di tradurre dal lestone al francese e un altro dal francese
all'italiano.
Competenze
Vediamo come sono ripartite le competenze giurisdizionali tra Corte di Giustizia e Tribunale, perchè le
competenze del Tribunale della funzione pubblica sono piuttosto evidenti e chiare.
Facciamo una premessa sui ricorsi che sono esperibili dinanzi alla giurisdizione dell'UE.
Tradizionalmente si dice che il controllo giurisdizionale dell'UE si articola su due piani:
1. cd controllo diretto: è costituito dai ricorsi diretti.
questi sono:
• i ricorsi del personale, ossia quei ricorsi che oppongono i funzionari dell'UE all'UE.
Per comprendere il riparto di competenze, nel quadro dei ricorsi diretti, dobbiamo dire che questi
ricorsi sono esperibili sia dalle istituzioni dell'UE, sia dagli Stati membri, sia dagli individui (persone
fisiche e persone giuridiche).
Questa osservazione è importante perchè per ripartire le competenze tra le varie articolazioni della
giurisdizione dell'UE si è spesso fatto riferimento alla categoria dei ricorrenti.
2. cd controllo indiretto: si sostanzia nel rinvio pregiudiziale, che è lo strumento in base al quale
quando sorge di fronte ad un giudice nazionale una questione di diritto dell'UE, che è
necessaria per risolvere la causa pendente di fronte a questo giudice, il giudice nazionale ha la
possibilità di interloquire con la Corte di Giustizia, analogamente a quanto avviene con la
Corte Costituzionale in Italia; si tratta di una procedura che ha natura incidentale non
conteziosa, così come avviene per il rinvio di costituzionalità, per cui il giudice nazionale può
chiedere alla Corte di Giustizia qual è l'interpretazione da attribuirsi ad una determinata norma
di diritto dell'UE (questo è il rinvio pregiudiziale di interpretazione), oppure può chiedere se
una determinata norma di diritto derivato sia o meno valido, conforme, compatibile al Trattato
(rinvio pregiudiziale di validità).
Sappiamo già che il Tribunale della funzione pubblica ha la competenza a conoscere i ricorsi del
personale dell'UE.
Per quanto riguarda le impugnazioni le sentenze del Tribunale della funzione pubblica possono essere
impugnate per motivi di diritto di fronte al Tribunale, poi eventualmente ci può essere un riesame della
Corte; le sentenze del Tribunale possono essere impugnate per motivi di diritto di fronte alla Corte di
Giustizia.
Il riparto di competenze fra questi soggetti ha subito un' evoluzione notevole, infatti in origine esisteva
solo la Corte di Giustizia, il Tribunale è stato istituito nell'88 e il Tribunale della funzione pubblica nel
2004.
La ragione per cui con l'atto unico europeo si prevede la possibilità di istituire il Tribunale è l'aumento
del contenzioso, a metà degli anni '80 ci si rende conto che la Corte di Giustizia è sottoposta alla
pressione di un quantitativo di contenzioso crescente e si decide di affiancarle un Tribunale.
Nel 1988 viene istituito il Tribunale di primo grado le cui competenze subiscono un'evoluzione perchè
in origine le competenze del Tribunale erano piuttosto limitate. In origine il Tribunale aveva la
competenza in materia di contenzioso del personale ed era competente a conoscere i ricorsi individuali
cioè quelli esperiti da persone fisiche e persone giuridiche in materia di concorrenza, questo è quello
che si verifica in una prima fase che dura dal 1989 al 1993, nel 1996 il sistema cambia, il Tribunale
accresce le sue prerogative e questo assetto viene mantenuto fino al 2004, per cui dal '93 al 2004 il
Tribunale era competente a conoscere tutti i ricorsi individuali, per cui il riparto di competenza era
piuttosto semplice: se un ricorso era esperito da uno Stato o da un'Istituzione, questi dovevano
rivolgersi alla Corte di Giustizia, se il ricorso è esperito da una persona fisica o giuridica il giudice
competente era l'allora Tribunale di primo grado. Il rinvio pregiudiziale era ancora di competenza
esclusiva della Corte di Giustizia.
Il rinvio pregiudiziale è di competenza della Corte di giustizia perchè è un terreno molto delicato, il
rinvio pregiudiziale serve a garantire l'uniforme interpretazione del diritto dell'Unione Europea in tutti
gli Stati membri, quindi non sarebbe conforme all'esigenza di garantire l'uniforme interpretazione del
diritto dell'Unione Europea la circostanza di attribuire la competenza pregiudiziale a due soggetti
distinti (Corte di Giustizia e Tribunale di primo grado), quindi è opportuno che, se lo scopo è quello di
uniforme applicazione, la competenza pregiudiziale sia accentrata su un unico soggetto per evitare che
poi ci siano contrasti interpretativi.
La Corte di Giustizia in tema di rinvio pregiudiziale è spesso chiamata a risolvere controversie
particolarmente delicate. Pensiamo a cosa sarebbe accaduto se la Corte avesse detto che il tributo che le
caratteristiche dell'Irap è incompatibile con il diritto dell'Unione Europea, le conseguenze sarebbero
state dirompenti, atteso che spesso il rinvio pregiudiziale di interpretazione si traduce in un giudizio di
compatibilità comunitaria di una legge nazionale, si tratta di giudizi che hanno una notevole
importanza, per cui è opportuno che la competenza sia in capo al soggetto che sta all'apice della
giurisdizione dell' Unione Europea; anche per questa ragione non sono state ancora attribuite
competenze pregiudiziali al Tribunale. Questa è la situazione vigente fino all'entrata in vigoria del
Trattato di Nizza (trattato che più incisivamente ha introdotto riforme nell'ambito della giurisdizione).
Innovazioni del Trattato di Nizza:
1. Possibilità di istituire dei tribunali specializzati incaricati di conoscere alcune categorie di ricorsi
in materie specifiche. Prima del Trattato di Lisbona questo doveva avvenire con decisione
unanime del Consiglio, oggi avviene attraverso la procedura legislativa ordinaria.
2. Possibilità di trasferire al Tribunale la competenza a conoscere i ricorsi diretti o comunque una
parte della competenza a conoscere dei ricorsi diretti, indipendentemente dalla qualità del
ricorrente (fino a Nizza la competenza del Tribunale discendeva della qualità del ricorrente, il
Tribunale era competente a conoscere i ricorsi delle persone fisiche e giuridiche).
Il Trattato di Nizza prevede che il Tribunale possa conoscere anche altri ricorsi esperiti da
istituzioni o da Stati membri.
3. Possibilità di trasferire al Tribunale la competenza a conoscere di questioni pregiudiziali di
materie specifiche determinate dallo Statuto, quindi il Tribunale potrebbe, ove questa possibilità
venisse sfruttata, conoscere anche di questioni pregiudiziali, che attualmente sono di
competenza esclusiva della Corte di Giustizia.
4. Possibilità di impugnare di fronte al Tribunale le sentenze dei Tribunali Specializzati e la
possibilità di pervenire ad un riesame di fronte alla Corte di Giustizia.
Parte della dottrina ha aspramente criticato il Tratto di Nizza in proposito, alcune critiche riguardano le
tecniche di redazione del Trattato (alcuni hanno evidenziato che il Trattato di Nizza non individua
delle soluzioni specifiche, ma piuttosto apre una serie di strade, per cui c'è chi ha detto che "gli autori
del Trattato di Nizza hanno creato un nuovo giocattolo ma hanno dimenticato di scrivere il manuale di
istruzione", hanno dato una serie di possibilità però poi bisognerà vedere come queste possibilità
verranno sfruttate), altre critiche riguardano il merito delle novità introdotte dal Trattato di Nizza
(hanno criticato la scelta relativa all'istituzione dei Tribunali specializzati, questa istituzione si
prefiggeva di affrontare il problema derivante dall'aumento del contenzioso di fronte al Tribunale, parte
di dottrina ha detto che se il problema è l'aumento del contenzioso non è opportuno istituire un nuovo
grado di giudizio, semmai si sarebbe dovuto potenziare il Tribunale, perché con l'istituzione di un
nuovo grado di giudizio aumentano le impugnazioni quindi il contenzioso invece di ridursi si
moltiplica. Questa critica è valida in parte perché le possibilità di impugnazione sono poi piuttosto
limitate, perché le impugnazioni delle sentenze dei tribunali specializzati può avvenire solo per motivi
di diritto e quello che più conta è che il riesame avviene in ipotesi del tutto eccezionali su iniziativa,
non delle parti, ma del primo avvocato generale.
In che modo sono state sfruttate le possibilità aperte dal Trattato di Nizza?
Per quanto riguarda i Tribunali specializzati, come sappiamo, è stato istituito un solo Tribunale
specializzato, è possibile che in futuro vengano istituiti nuovi Tribunali specializzati, ma questo ancora
non è avvenuto.
Per quanto riguarda la possibilità di potenziare le competenze del Tribunale non sono state attribuite al
Tribunale competenze pregiudiziali, come detto precedentemente; probabilmente non è opportuno
attribuire al Tribunale competenze pregiudiziali, perché è bene che le competenze pregiudiziali restino
in capo alla Corte di Giustizia, per esigenze di uniformità di interpretazione del diritto dell' Unione
Europea.
Invece, nell'ambito dei ricorsi diretti, le competenze del Tribunale sono state effettivamente potenziate.
Oggi resta ferma la competenza del Tribunale per i ricorsi delle persone fisiche e persone giuridiche, per
cui, così come avveniva prima dell'entrata in vigore del Trattato di Nizza, anche oggi una persona fisica
e una persona giuridica che vogliano esperire un ricorso diretto, per esempio vogliono impugnare una
decisione della Commissione, devono rivolgersi non alla Corte di Giustizia ma al Tribunale; però per
quanto concerne Stati membri e Istituzioni la situazione è in parte cambiata, nel senso che alcune
competenze che prima erano della Corte di Giustizia sono passate al Tribunale, in particolare resta
ferma la competenza esclusiva della Corte di Giustizia quando il ricorrente è un'Istituzione dell'Unione
Europea, quando il ricorrente è uno Stato membro per stabilire la competenza della Corte e del
Tribunale occorre vedere il contenuto dell'atto contestato, o meglio il soggetto che ha posto in essere
l'atto contestato: se l'atto contestato è un atto del Parlamento o del Consiglio, oppure del Parlamento e
del Consiglio congiuntamente, la competenza è della Corte di Giustizia, se invece si tratta di un atto
della Commissione la competenza è del Tribunale. Per capire meglio questa distinzione ricordiamo che
la categoria degli atti del Consiglio e del Parlamento comprende gli atti legislativi, quindi se un atto è
legislativo il soggetto competente a conoscere la controversia è la Corte di Giustizia e non il Tribunale.
Ci sono poi una serie di eccezioni (sono accennati, da vedere meglio nel manuale o nello Statuto della
Corte di Giustizia). Il Tribunale è competente anche per i ricorsi di annullamento proposti da uno Stato
membro contro un atto del Consiglio se si tratta o di decisioni adottate da Consiglio in applicazione
dell'art. 108/5, si tratta di decisioni del Consiglio in materia di aiuti di stato, allora la competenza è del
Tribunale e non della Corte di Giustizia anche se l'atto è del Consiglio; è competente per i ricorsi di
annullamento proposti da uno Stato contro atti del Consiglio se si tratta di atti adottati in forza di un
regolamento relativo a misure di difese commerciale di cui all'art. 207 TFUE; se si tratta di un atto del
Consiglio in esercizio di competenze di esecuzione (gli atti di esecuzione solitamente sono posti in
essere dalla Commissione, ma ci sono casi in cui sono posti in essere dal Consiglio).
La presidenza è oggi disciplinata dall'art. 16 TUE, prima era disciplinata dall' art. 203 TCE il quale
disponeva che: "la presidenza è esercitata a turno da ciascun membro del consiglio per una durata di 6
mesi secondo l'ordine stabilito dal consiglio che delibera in proposito all'unanimità". Oggi l'art. 16 TUE
dispone che: "la presidenza delle formazioni del Consiglio, ad eccezione della formazione affari esteri,
è esercitata dai rappresentanti degli Stati membri del Consiglio secondo un sistema di rotazione
paritaria alle condizioni stabilite conformemente all' 236 TFUE". L'art. 236 lett. b TFUE dispone che:
"il Consiglio europeo adotta a maggioranza qualificata la decisione sulla presidenza delle formazioni
del Consiglio".
Rimane fermo il sistema della rotazione della presidenza però mentre prima l'art. 203 prevedeva
espressamente che la presidenza avesse durata semestrale, oggi questo riferimento dei semestri non è
più previsto dal Trattato, è però previsto dal regolamento interno del Consiglio, per cui con una
decisione a maggioranza semplice si potrebbe decidere che la presidenza ha una durata diversa da
quella attuale che è ancora quella semestrale (in questo semestre c'è la presidenza italiana).
Il consiglio degli affari esteri è presieduto dall'alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la
politica di sicurezza, che ha, come si dice nel gergo comunitario, il "doppio cappello" di vicepresidente
della Commissione. L'alto rappresentante viene designato dal Consiglio europeo d'accordo con il
presidente della Commissione, il Trattato non dice nulla sulla durata del suo mandato, da questo si
desume che la durata del mandato dell'alto rappresentante sia pari alla durata dei membri della
Commissione, quindi una legislatura, 5 anni.
L'alto rappresentante è disciplinato dall'art. 18 par.2 TUE: "l'alto rappresentante guida la politica estera
e di sicurezza comune dell'Unione. Contribuisce con sue proposte alla previsione di detta politica e la
attua in qualità di mandatario del Consiglio, egli agisce allo stesso modo per quanto riguarda la politica
di sicurezza e di difesa comune.
Come vicepresidente della Commissione è incaricato della responsabilità della Commissione nel settore
delle relazioni esterne e del coordinamento degli altri aspetti dell'azione esterna della Commissione".
Attualmente la presidenza viene esercitata a turno per una durata di 6 mesi, come previsto dal
regolamento interno del Consiglio, anche la questione della durata della presidenza ha dato luogo a
dibattiti, perchè secondo alcuni 6 mesi sarebbe una durata troppo breve per dare una direzione ai lavori
del Consiglio, sarebbe un arco temporale troppo breve sempre in ragione delle esigenze di continuità
dei lavori del Consiglio, esigenze particolarmente rilevanti in materia di politica estera si è rimediato
attraverso l'istituzione dell'alto rappresentante, ma in tutte le altre materie la presidenza non è
permanente, ma ruota attraverso al sistema dei semestri.
Si era quindi immaginato, ed è questo il senso del Trattato di Lisbona, perchè prima era lo stesso
Trattato a prevedere i semestri, oggi il sistema può essere modificato con regolamento interno perchè si
vuole lasciare la possibilità allo stesso Consiglio di passare a un sistema in cui la rotazione avviene per
periodi diversi del semestre, e si era ipotizzato di passare a un periodo più lungo di presidenza, per
esempio di un anno. Il vantaggio sarebbe la maggiore continuità e non lo svolgimento dei lavori del
Consiglio, il lato negativo è che se oggi ognuno esercita la presidenza di un anno ci vorrebbero 28 anni
per arrivare ad esercitare la presidenza una volta scaduto il proprio turno; per cui si è deciso di rimanere
fermi con il sistema dei semestri, anche perchè si è detto che il sistema della presidenza a turno con la
rotazione dei semestri è un sistema che contribuisce a rafforzare l' appartenenza degli Stati membri
all'Unione Europea.
Al fine di assicurare una maggiore coerenza in un particolare settore nel quale si ritiene che ci sia uno
specifico bisogno di coerenza nell'azione, che è quello degli affari esteri, si è deciso di istituire la figura
dell'Alto rappresentante, che presiede il Consiglio nella formazione affari esteri; questa figura risponde
all'esigenza che hanno i soggetti terzi di identificare un soggetto rappresentativo della politica estera
dell'Unione Europea, quindi di consentire all'UE di stare sulla scena internazionale con maggiore
visibilità e chiarezza.
è famosa una battuta piuttosto risalente del segretario di Stato, il ministro degli esteri degli Usa il quale
a proposito dell'Europa diceva "vorrei sapere quale numero di telefono devo comporre quando devo
parlare con l'Europa".
Allora per rispondere in parte a questa esigenza si è deciso di istituire la figura dell'altro rappresentante
permanente. Esisteva anche prima del Trattato di Lisbona una figura analoga che era l'alto
rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, il quale però era una figura diversa rispetto
a quella dell'attuale alto rappresentante perché era un figura istituita dal Trattato di Amsterdam che
coincideva con il segretario generale del Consiglio, quindi nel sistema previgente il segretario generale
aveva anche la funzione di alto rappresentante per la PESC, ed era una figura diversa anche perché
l'alto rappresentante nella sua versione previgente non presiedeva il Consiglio e non aveva il ruolo di
vicepresidente della Commissione. Quindi la riforma del TUE ha sensibilmente rafforzato questa
posizione.
Ad uno scopo simile il Trattato di Lisbona ha anche introdotto una presidenza permanente del
Consiglio europeo; il presidente del Consiglio europeo non ruota più attraverso il sistema dei semestri
come avviene per la presidenza del Consiglio, ma è un ruolo che viene rivestito in via permanente per
un mandato di due anni e mezzo.
Un profilo problematico sta nel fatto che il presidente del Consiglio europeo ha delle competenze che in
parte sono sovrapponibili a quelle dell'alto rappresentante degli affari esteri, perchè l'art. 15 par. 5 TUE
dispone che: "il presidente del Consiglio europeo assicura al suo livello e in tale veste la rappresentanza
esterna dell'Unione, per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le
attribuzioni dell'altro rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza". mentre
l'art. 18 par.2 diceva: "l'alto rappresentante guida la politica estera di sicurezza comune, contribuisce
con le sue proposte all'elaborazione di detta politica e la attua in qualità di mandatario del Consiglio".
Il presidente del Consiglio europeo assicura la rappresentanza esterna per le materie relative alla
politica estera e di sicurezza comune.
I confini tra le prerogative delle due figure non sono chiare, perchè entrambe le figure svolgono un
ruolo di rappresentanza esterna dell'Unione Europe. Allo stesso modo svolgono un ruolo di
rappresentanza esterna anche i governi che hanno la presidenza semestrale del Consiglio (attualmente
l'Italia), anche l'attività di questi ha una rilevanza esterna e poi anche la Commissione, in particolare il
presidente della Commissione. Per cui c'è da augurarsi che i soggetti che ricoprono questi incarichi
agiscano in stretto coordinamento, in caso contrario c'è il rischio che i terzi che vogliono rivolgersi
all'Unione Europea non sappiano quale numero di telefono comporre.
La presidenza del Consiglio organizza e dirige i lavori del Consiglio, assicurando il rispetto delle
disposizioni del regolamento interno e sotto l'autorità del Consiglio il Presidente ne è il rappresentante;
quindi chi riveste la presidenza è anche il rappresentante del Consiglio.
Il presidente del Consiglio convoca il consiglio, decide l'ordine del giorno delle riunioni di ciascuna
sessione del Consiglio, firma gli atti deliberati dal Consiglio e poi è il rappresentante, nel senso che
rappresenta il Consiglio di fronte alle altre istituzioni, tra cui il Parlamento.
La presidenza del Consiglio ha la responsabilità del buon funzionamento dell'istituzione, oppure come
si dice nelle conclusioni di un Consiglio europeo che si è svolto ad Helsinki nel '99: ha la responsabilità
politica generale per la gestione delle attività del Consiglio, conformemente ai Trattati e al regolamento
interno.
In passato ciascun presidente del consiglio, quindi con il sistema dei semestri, poteva decidere
liberamente il suo programma; questo era un pericolo per la coerenza dell'azione del Consiglio, per cui
sempre nell'ottica di limitare al massimo questi pregiudizi, nel regolamento interno oggi si prevede che
il consiglio adotta un programma per la durata di 18 mesi (così dispone l'art. 2 par. 6 del regolamento
interno), questo programma ovviamente è stabilito di concerto dai membri che avranno la
responsabilità della presidenza in quel periodo, per cui i tre soggetti che avranno la presidenza del
consiglio per tre semestri consecutivi si riuniscono e decidono di comune accordo il programma che si
seguirà in questi 18 mesi, ciò serve per evitare che il consiglio segua un programma diverso ogni
semestre e poi però ciascuna presidenza in autonomia preparerà gli ordini dei giorni delle varie sessioni
del Consiglio, in considerazione di questo programma pluri semestrale.
La presidenza ha un ruolo fondamentale nel cercare delle soluzioni di compromesso quando si
registrano delle fatture nell'ambito del voto in seno al consiglio, il consiglio di solito decide sulla base di
un compromesso ricercato dalla presidenza, e poi ancora la presidenza del Consiglio gioca un ruolo
importante nel rapporto inter istituzionale, cioè nel rapporto con le altre istituzioni politiche, perchè
regolarmente il presidente del consiglio incontra il presidente della Commissione e del Parlamento e
partecipa a quello che nel gergo delle politiche comunitarie viene definito il "trialogo delle istituzioni",
ossia il dialogo tra il tre presidente delle tre istituzioni politiche.
14 NOVEMBRE 2014
Argomenti trattati:
• COREPER
• Segretariato generale
• Consiglio Europeo
COREPER
COREPER: comitato dei rappresentati permanenti, organo espressamente previsto oggi dal trattato
nell’art. 240 par 1 TFUE. Tale articolo dispone che ” Un comitato costituito dai rappresentanti permanenti
dei governi degli Stati membri è responsabile della preparazione dei lavori del Consiglio e dell'esecuzione dei compiti
che quest'ultimo gli assegna. Il comitato può adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno
del Consiglio”(contenuto in una decisione del Consiglio del 2009). Il COREPER è composto dai rappresentati
permanenti degli Stati membri presso l‘Unione Europea, si tratta essenzialmente di diplomatici di
carriera. Ogni Stato membro ha un rappresentante permanente e poi ha anche un rappresentante
permanente aggiunto. La necessità di avere un rappresentante aggiunto si pone perché il COREPER,
anche se è un organismo unitario, si riunisce a due livelli: il cd COREPER PRIMA PARTE ED IL
COREPER SECONDA PARTE. IL primo riunisce i rappresentati permanenti aggiunti, mentre il
secondo riunisce i rappresentati permanenti. Le due parti del COREPER si ripartiscono le materie di
competenza del Consiglio (ripartizione che a noi non interessa). Ha la funzione di preparare il lavoro
del Consiglio. Il regolamento interno all’art. 19 par 2 precisa che tutti i punti scritti all’ordine del giorno
di una sessione del Consiglio sono oggetto di un esame preliminare del COREPER. Quindi il esso è
l’istanza nella quale le questioni sottoposte all’attenzione del Consiglio vengono preliminarmente
esaminate e discusse e quindi è l’istanza in cui ci si sforza per trovare un accordo tra gli stati membri, il
quale accordo che se viene raggiunto sarà poi sottoposto all’adozione da parte del Consiglio .Poi il
COREPER si preoccupa anche di effettuare una presentazione dei dossier al Consiglio, presentando
anche gli orientamenti e le proposte di soluzione che sono state avanzate nell’ambito dello stesso. La
ragione per la quale questo organismo è particolarmente utile è da ricercarsi nella natura del Consiglio
che, come già sappiamo, è organo a composizione variabile perché i suoi membri non sono sempre gli
stessi, ma variano a seconda della materia trattata. La composizione variabile da un lato presenta dei
vantaggi: ogni ministro prende conoscenza della dimensione comunitaria della sua responsabilità e che
le decisioni in seno al Consiglio sono prese dai ministri che sono poi quei soggetti responsabili
dell’attuazione di queste decisioni. Dall’altro lato quest’ultima pone la necessità di dare continuità ai
lavori del Consiglio ed è per questo motivo che è stato istituito il COREPER, la cui composizione è
stabile. Come avviene la preparazione dei lavori del Consiglio? Al suo interno, che come già detto si
divide in due parti, ci sono ulteriori articolazioni in particolare si formano dei gruppi di lavoro o dei
comitati che a seconda della materia studiano i dossier anche con la partecipazione di funzionari della
Commissione specializzati nella materia trattata (questo è del tutto speculare rispetto a quello che
avviene nel Consiglio infatti la commissione è invitata alle sue riunioni il che è opportuno perché la
Commissione è il soggetto che esercita il potere di iniziativa legislativa). In questo modo è possibile
chiarire i problemi tecnici ed identificare delle eventuali soluzioni a questi problemi. Quando è possibile
trovare un accordo nell’ambito del COREPER la materia poi verrà iscritta all’ ordine del giorno del
Consiglio il quale a sua volta si divide in due parti ossia il punto A ed il punto B. Il punto A è quello
dedicato al voto del Consiglio senza un preventivo dibattito, invece il punto B è quello dedicato al voto
del Consiglio con dibattito. In buona sostanza se all’interno del COREPER si trova un accordo tra gli
Stati membri non è necessario che il Consiglio dibatta la questione, ma deve solo votare. In questi casi
il Consiglio ratifica una decisione che sotto il profilo sostanziale è stata assunta dal COREPER. Ci
sono casi però in cui questo non si verifica, solitamente si tratta dei dossier più importanti che
necessitano di un dibattito in seno al Consiglio. In questo caso la questione sarà iscritta nel punto B
dell’ordine del giorno. Da questo si capisce che il COREPER è un organo importante perché per molti
casi si trova l’accordo prima ancora di una riunione del Consiglio. Proprio questa sua centralità nel
processo decisionale ha dato luogo ad una serie di critiche, una di queste afferma che il COREPER
finisca per essere una sorta di “Consiglio ombra”, cioè un organo composto non da politici ma da
funzionari (organo tecnocratico), nell’ambito del quale si prende il grosso delle decisioni del Consiglio,
per cui funzionari statali di alto livello decidono alla fine le questioni fondamentali del processo di
integrazione europea. Secondo una diversa corrente di pensiero, questa impostazione non descrive in
modo accurato la realtà dei fatti perché comunque questi rappresentanti permanenti non agiscono a
titolo individuale e in piena indipendenza ma a stretto raccordo con i governi degli Stati membri che
rappresentano e quindi non è vero che è un organo privo di controllo politico perché i rappresentanti
permanenti seguono le direttive che provengono dalle autorità politiche nazionali, anzi in alcuni Stati
membri la posizione dello stato che assumerà nell’ambito del Consiglio è oggetto di un dibattito
parlamentare. Inoltre va anche detto che vero è che sotto il profilo quantitativo probabilmente
nell’ambito di esso si prende la maggior parte delle decisioni ma è vero anche che i dossier
politicamente più importanti non sono mai decisi a livello di COREPER ossia senza un successivo
dibattito nell’ambito del Consiglio. Questa ripartizione dell’ordine del giorno: punto A approvazione
senza dibattito, punto B approvazione con dibattito, è una ripartizione flessibile perché è sufficiente che
uno Stato membro lo chieda affinché un punto da trattare nell’ordine del giorno passi da una sezione
all’altra per cui si può chiedere anche la discussione di una questione che all’ordine del giorno è
collocata nel punto A che prevede l’approvazione senza dibattito. In buona sostanza anche se il
COREPER come vi dicevo si sforza di trovare un accordo tra i membri del Consiglio a livello di
rappresentanti permanenti, non si può considerare un “consiglio ombra” che si sostituisce al Consiglio
anzi il COREPER esegue i compiti che gli sono conferiti da quest’ultimo e non può mai adottare
autonomamente degli atti giuridici salvo le questioni, come previsto dal TFUE, relative alla sua
procedura. In riferimento alle questioni di procedura, l’art. 240 del TFUE, comporta che il COREPER
non può prendere autonomamente alcuna decisione di merito ma soltanto le decisioni di procedura.
SEGRETARIATO GENERALE
Struttura permanente all’interno del Consiglio previsto anch’esso dall’art. 240 paragrafo 2 del TFUE il
quale dice che “ il Consiglio è assistito dal segretariato generale, sotto la responsabilità di un segretario generale
nominato dal Consiglio. Il Consiglio decide a maggioranza semplice in merito all'organizzazione del segretariato
generale.” Fino all’entrata in vigore del trattato di Maastricht, che ha voluto dare visibilità alle strutture
di supporto del Consiglio, l’esistenza del segretariato generale non era contemplata nei trattati, l’unico
riferimento che potevate trovare sul segretariato generale era quello contenuto nel regolamento interno
del Consiglio. Si tratta di una piccola amministrazione unicamente al servizio del Consiglio
(indipendente rispetto agli stati membri), si calcola che abbia circa 2600 funzionari. Il suo compito è
quello di assicurare la continuità ed il coordinamento dei lavori del Consiglio, ad es. si occupa della
programmazione delle riunioni, del servizio di interpretariato, di traduzione degli atti del Consiglio,
esercita il ruolo di cancelliere, redige il verbale delle riunioni delle diverse sezioni del Consiglio e
gestisce il processo di voto, ecc. quindi si tratta di compiti di carattere organizzativo; a quest’ultimi si
sono aggiunti funzioni di consulenza delle Presidenza del Consiglio. Infatti il segretario generale,
informato dell’evoluzione dei dossier e in base alle informazioni di cui dispone può dare alla
Presidenza del Consiglio dei suggerimenti quanto a questioni procedurali, di merito, di contenuto degli
atti del Consiglio e anche il segretariato generale partecipa all’adozione di compromessi in seno al
Consiglio.
SISTEMA DI VOTO
Il sistema di voto è oggetto di dibattito nell’ambito delle conferenza intergovernative perché determina
quanto ciascuno Stato poi peserà nell’ambito delle votazioni in seno al Consiglio. Quest’ultimo può
votare in tre modi:
• A maggioranza semplice dei suoi membri;
• All’unanimità;
• A maggioranza qualificata dei voti ponderati dei suoi membri.
Prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona la precedente versione del TCE disciplinava la
materia nell’art. 205 il quale stabiliva che “salvo contrarie disposizioni del presente trattato le deliberazioni
del Consiglio sono valide se approvate a maggioranza dei membri che lo compongono” (maggioranza
semplice). Se qualcuno avesse letto isolatamente questo articolo avrebbe potuto dedurre che nella
maggior parte dei casi il Consiglio votava a maggioranza semplice e soltanto in ipotesi eccezionali
votava a maggioranza qualificata o all’unanimità. In realtà non era così e continua a non essere
così perché sono rarissime le disposizioni del trattato in cui non si dispone diversamente e nella
maggior parte dei casi il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. Il trattato di Lisbona ha
preso atto di questa circostanza ed ha in qualche modo cambiato la formulazione di questa regola
infatti l’art. 16 paragrafo 3 dispone che “ il Consiglio delibera a maggioranza qualificata salvo nei casi in
cui i trattati dispongano diversamente”.
Maggioranza semplice vuol dire che a ogni Stato spetta un voto e la decisione viene presa quando si
raggiunge la maggioranza dei voti.
Il voto all’unanimità è richiesto da quelle disposizioni che fissano in capo al Consiglio il potere di
assumere le decisioni che vengono ritenute più delicate perché gli Stati non vogliono rinunciare al
proprio potere di veto ossia al potere di bloccare delle decisioni relativamente alle quali sono
contrari; si tratta di questioni che toccano maggiormente il nocciolo della sovranità statale e spesso
si tratta di questioni che riguarda la materia economica, ad es. si vota all’unanimità relativamente al
finanziamento dell’Unione europea che come sappiamo si fonda sul sistema delle risorse proprie e
se si vuole incidere su tale sistema si deve trovare un accordo tra tutti i membri del Consiglio,
nell’ambito dell’armonizzazione della fiscalità indiretta, relativamente a questioni concernente
l’ambiente, questioni di natura latu sensu costituzionale (art. 223 del TFUE che riguarda la
procedura di elezione del parlamento europeo, alcune disposizioni relative alla corte di giustizia,
accordi di adesione all’Unione europea di paesi candidati). Come voi sapete il territorio
dell’unanimità originariamente era molto più ampio ma gradualmente con il processo di revisione
permanente dei trattati cioè le successive revisioni dall’atto unico europeo fino al trattato di Lisbona
gradualmente l’ambito dell’unanimità si è andato riducendo in favore del principio di maggioranza.
Il voto all’unanimità esiste ancora ma costituisce un’eccezione rispetto al voto di maggioranza.
Il voto a maggioranza è il terzo sistema di voto ed è anche il più complesso sistema di voto che può
essere adottato in seno al Consiglio. Non si tratta di maggioranza semplice ma di maggioranza
qualificata, cioè di voti ponderati dei membri del Consiglio; il voto ponderato è in buona sostanza
una tecnica in base alla quale a ciascuno Stato membro viene assegnato una sorta di coefficiente
sulla base, in termini generali, del suo peso demografico, economico, politico; questo coefficiente
non è oggetto di calcolo ma di una negoziazione ed è questo il motivo per il quale spesso nelle
conferenze governative ci si blocca su negoziati che riguardano il voto ponderato. Questo sistema
serve a stabilire un equilibrio nell’ambito del Consiglio, equilibrio che consente di evitare che i paesi
più piccoli possano bloccare il processo decisionale da un lato e dall’altro lato evitare che i lavori del
Consiglio siano guidati da una sorta di direttorio dei grandi stati per cui ci si sforza di trovare un
equilibrio tra le esigenze dei “grandi” e dei “piccoli” i quali non possono essere marginalizzati ma
non possono neanche bloccare il processo decisionale dell’Unione europea. Nella comunità a sei
cioè quella originaria, il sistema di voto ponderato era più semplice, la comunità europea si
componeva di tre paesi grandi (Germania, Italia e Francia) e di tre paesi piccoli (BENELUX); il
sistema prevedeva che i voti dei paesi del BENELUX considerati nel loro insieme equivaleva al voto
di uno dei tre paesi grandi in modo tale che i tre paesi piccoli non potevano bloccare il processo
decisionale ma messi insieme avevano un peso nel sistema di voto del Consiglio per cui non li si
poteva considerare marginalizzati. Quando si parla di questo sistema si fa sempre riferimento a
questa contrapposizione tra stati grandi e piccoli perché questo è l’equilibrio che ci si sforza di
trovare con il voto ponderato però questo non vi deve fare pensare che nell’ambito del Consiglio ci
siano delle maggioranze bloccate come avviene nei parlamenti, nella realtà questa opposizione tra
grandi e piccoli è piuttosto rara perché solitamente quando si generano delle fratture in seno al
Consiglio queste non tengono conto delle dimensioni del paese ma piuttosto della sua tradizione; ci
sono paesi che hanno una tradizione più libero-scambista e paesi che hanno una tradizione meno
incline all’intervento del mercato, quindi paesi più favorevoli alle liberalizzazioni e paesi meno
favorevoli. Una caratteristica del Consiglio che oppone l’esperienza di quest’ultimo a quella dei
parlamenti nazionali è che queste maggioranze sono variabili; nei parlamenti nazionali ci sono le
elezioni da cui viene fuori una maggioranza che per la durata della legislatura dovrebbe essere
tendenzialmente stabile e quindi i giochi sono sostanzialmente bloccati. Nel Consiglio non è così, le
maggioranze si ricompongono a seconda del problema che viene trattato nell’ambito del Consiglio e
a seconda dei diversi interessi nazionali. Questo è anche necessario affinché il Consiglio possa
funzionare, pensate voi a cosa accadrebbe se uno stato venisse messo costantemente in minoranza,
difficilmente sarebbe accettabile per quest’ultimo accettare le decisioni che provengono dal
Consiglio dell’Unione europea per cui gli stati accettano di essere messi in minoranza a condizione
che l’indomani possano far parte della maggioranza, quindi questa composizione variabile delle
maggioranze è una garanzia importante per gli stati ed è una garanzia che spinge alla ricerca di
soluzioni di compromesso, cioè gli Stati membri si rendono conto dei rispettivi interessi, in questo
modo tendono a ricercare soluzioni di compromesso e tendono a favorire gli accordi perché sanno
che anche se oggi sono in maggioranza il giorno dopo potranno essere in minoranza su un’altra
materia. Come si forma la maggioranza qualificata? La maggioranza qualificata si fonda su un
sistema che si basa sulla ponderazione, cioè a ciascuno Stato membro viene attribuito un peso. Nel
sistema vigente fino all’entrata in vigore del trattato di Lisbona questo peso si traduceva in una sorta
di coefficiente che veniva attribuito a ciascun paese membro, questo vuol dire che a ciascun paese
membro veniva attribuito un certo numero di voti, ad es. all’Italia sono attribuiti 29 voti e ai paesi
più piccoli di meno. Su cosa si basa questa attribuzione? Non su un calcolo ma su una negoziazione
che avveniva nell’ambito delle conferenze intergovernative in cui si facevano valere una serie di
parametri, come la popolazione, il potere economico, l’influenza che gli stati erano in grado di far
valere nei negoziati, questo coefficiente era oggetto di un negoziato e non di un processo aritmetico.
Questo metodo è stato incisivamente modificato dal trattato di Lisbona, che prevede un abbandono
graduale di questo sistema dei coefficienti numerici. Il trattato di Lisbona prevede che fino all’1
Novembre 2014 si adottasse il sistema di Nizza (coefficienti numerici), a partire dall’1 Novembre
2014 si adotta il nuovo sistema ma fino al 31 Marzo 2017 è sufficiente che uno stato membro ne
faccia richiesta perché si voti con il sistema vecchio (protocollo 36 sulle disposizioni transitorie). Nel
sistema negoziato a Nizza la maggioranza qualificata si raggiunge se si realizzano tre condizioni,
due di queste sono sempre applicabili invece l‘applicabilità della terza è soltanto eventuale:
• Deve raggiungersi una soglia minima di voti ponderati, pari a 260 su 352 dei voti complessivi
dei membri del Consiglio;
• Voto favorevole di un certo numero di membri del Consiglio, in particolare ci vuole il voto
favorevole della maggioranza dei membri del Consiglio quando le deliberazioni sono prese su
proposta della Commissione, invece sono necessari i 2/3 dei membri del Consiglio quando non
c’è stata la proposta della_Commissione;
• Gli Stati membri che compongono la maggioranza qualificata devono rappresentare almeno il
62% della popolazione totale dell’Unione, il cd criterio demografico. Tale condizione è
eventuale e diventa necessaria solo quando lo richiede un membro del Consiglio.
Il sistema di votazione negoziato a Nizza si fonda sul concetto della proporzionalità degressiva ,
questo vuol dire che i piccoli stati hanno un peso maggiore di quello che sarebbe giustificato dal loro
effettivo peso demografico. È come se gli stati venissero raggruppati in categorie nelle quali fanno
parte stati il cui peso demografico è tra loro comparabile; quindi abbiamo: i grandi stati (Germania,
Regno Unito, Francia ed Italia) che hanno 29 voti anche se hanno differente dimensione; gli stati
medi (Spagna e Polonia) che hanno 27 voti (quindi solo due voti in meno rispetto ai paesi grandi)
anche se hanno 40.000.000 di abitanti; poi gli altri stati più piccoli.
La terza condizione è stata richiesta dalla Germania per tutelare gli stati grandi che sono
maggiormente penalizzati perché hanno un numero di voti leggermente superiore ai paesi medi.
Con tale criterio la Germania può bloccare una decisione in seno al Consiglio se trova l’appoggio di
altri due Stati membri.
Il nuovo sistema di voto introdotto dal trattato di Lisbona è quello previsto dall’art 16 par 4 TUE, il
quale prevede la realizzazione di solo due condizioni per il raggiungimento della maggioranza
qualificata:
• Numero minimo di voti, precisamente un numero pari al 55% dei membri del Consiglio (quindi
15 voti favorevoli) se il Consiglio delibera su proposta della Commissione; invece se non vi è
stata proposta della Commissione la percentuale è del 72 % dei membri del Consiglio.
• I voti a favore devono essere espressi dagli Stati la cui popolazione non sia inferiore al 65 %
della popolazione totale dell’Unione(Criterio demografico).
Si prevede inoltre che la minoranza di blocco debba essere composta da almeno da 4 membri del
Consiglio, altrimenti la maggioranza qualificata si considera raggiunta. Lo scopo è quello di limitare il
potere dei paesi grandi perché il sistema demografico accresce il loro potere (ad esempio la Germania è
il paese più grande dell’Unione Europea perché ha più di 80.000.000 di abitanti e perciò si vuole
evitare che quest’ultima, da sola o trovando l’alleanza di altri due paesi grandi, possa bloccare il
processo decisionale impedendo il raggiungimento del quorum demografico).
Il sistema di voto a maggioranza qualificata è stato oggetto di una crisi nel 1965, tale crisi ha preso il
nome della cd “sedia vuota” perché la Francia, la quale giudicava inaccettabile alcune proposte della
Commissione in tema di politica agricola comune, ha ritirato il proprio rappresentante dal Consiglio; si
uscì da tale crisi grazie al compromesso di Lussemburgo, il quale prevedeva che quando una
delegazione nazionale stimava una questione fosse di interessa essenziale si passava dal voto a
maggioranza all’unanimità; il compromesso non aveva valore giuridico, era una semplice dichiarazione
politica comunque rispettata dagli Stati membri perché non volevano correre il rischio di essere messi
in minoranza su decisioni che giudicavano rilevanti per il loro interesse nazionale.
Le conseguenze di questo sostanziale potere di veto furono notevoli: il primo luogo tale potere di veto
ha rallentato ed in certi casi paralizzato il processo decisionale in seno al Consiglio ed in secondo luogo
ha alterato le dinamiche in seno al Consiglio ossia ha stravolto la logica maggioritaria che favorisce la
creazione di compromessi tra i membri del Consiglio, poiché gli stati che oggi sono in maggioranza
domani potrebbero essere messi in minoranza. La tecnica che derivava dal compromesso di
Lussemburgo dava luogo alla cd” presa ad ostaggio” ossia atteggiamento di un Stato il quale non è
contrario nel merito all’assunzione di una decisione ma esercita il potere di veto, anche se quella
decisione non chiama in causa un suo interesse essenziale, per utilizzare il veto come merce di scambio
nella contrattazione nell’ambito del Consiglio.
In virtù di queste problematiche, a partire dalla prima metà degli anni ’70 gli Stati manifestarono
l’intenzione di non utilizzare più il compromesso ossia il loro potere di veto; il compromesso si ritenne
abbondonato con l’atto unico europeo del 1986 perché con la sua entrata in vigore si è passati dall’
unanimità al voto di maggioranza in una seria di materie. Inoltre con l ‘atto unico europeo si è passati
dal sistema di veto al sistema cd dell’outing out: questo avviene in una materia sensibile cioè
l’armonizzazione delle legislazioni nazionali disciplinata oggi dall’art 114 TFUE (che era stato
originariamente inserito dall’ atto unico europeo) che prevede voto a maggioranza per
l’armonizzazione delle legislazioni nazionale ma prevede anche l’outing out in base al quale uno stato
membro che è contrario, se si verificano alcune circostanze, può chiamarsi fuori dall’applicazione
della decisione.
CONSIGLIO EUROPEO
Con il trattato di Lisbona è tecnicamente un istituzione che però nasce da una prassi dei cd vertici che
riunivano i Capi di Stato e di governo degli Stati membri delle Comunità Europee. Questo vuol dire
che nel passato i trattati non facevano riferimento ad esso; le istituzioni politiche erano la
Commissione, il Parlamento ed il Consiglio composto dai ministri. Nonostante questo i Capi di Stato e
di Governo nella prassi si riunivano già a partire degli anni’60; il primo vertice fu a Parigi nel 1961.
Questa prassi è stata istituzionalizzata attraverso una serie di passaggi; il primo si ha con il vertice di
Parigi nel Dicembre del 1974 nel i soggetti sopra citati decisero di dare una cadenza periodica ai loro
incontri, in particolare decisero di incontrarsi, accompagnati dai Ministri degli affari esteri, tre volte
l’anno e poi ogni volta che se ne presentava la necessità per assicurare lo sviluppo e la coesione generale
delle attività della comunità. Il Consiglio Europeo si forma in via di prassi perché il Consiglio è
composto dai semplici ministri che non sono in grado di assumere le decisioni di fondo sul processo di
integrazione europea; infatti le decisione di indirizzo politico più importanti devono essere prese dai
Capi di Stato e di Governo. Viene per la prima volta menzionato nei trattati nell’Atto Unico Europeo,
il cui art 2 non ancora trasformava esso ancora in una istituzione, ma si limitava a codificare gli
elementi già esistenti. Passo successivo importante è il trattato di Lisbona il quale per la prima volta lo
inserisce nell’elenco delle istituzioni. Infatti oggi l’art. 13 TUE prevede l’elenco delle istituzioni
politiche e sono menzionati il Parlamento, la Commissione, il Consiglio ma anche il Consiglio
Europeo. La sua disciplina generale è contenuta nell’art.15 TUE il quale al paragrafo 2 dispone che:” Il
Consiglio europeo è composto dai capi di Stato o di governo degli Stati membri, dal suo presidente (è un presidente
stabile, non ruota più con il sistema dei semestri) e dal presidente della Commissione. L'alto rappresentante
dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori”. Poi il paragrafo 3:” Il Consiglio
europeo si riunisce due volte a semestre su convocazione del presidente. Se l'ordine del giorno lo richiede, i membri
del Consiglio europeo possono decidere di farsi assistere ciascuno da un ministro e, per quanto riguarda il presidente
della Commissione, da un membro della Commissione. Se la situazione lo richiede, il presidente convoca una
riunione straordinaria del Consiglio europeo”. Paragrafo 1” Il Consiglio europeo dà all'Unione gli impulsi
necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni
legislative”.
Il Consiglio Europeo è configurato come supremo organo di indirizzo politico dell’Unione Europea. La
sua politica si riflette anche agli atti che emana che nella seconda frase del paragrafo 1 sono atti che non
hanno portata legislativa, questo però non vuol dire che i suoi atti non producono effetti giuridici anzi
alle volte producono effetti giuridici anche nei confronti di soggetti terzi; in quest’ultimo caso come
previsto dal trattato di Lisbona gli atti del Consiglio Europeo sono impugnabili di fronte alla Corte di
Giustizia.
Al termine delle sue riunioni esprime delle conclusioni, atti che contengono indirizzi di massima non
giuridicamente vincolanti a cui possono aggiungersi una serie di comunicati e dichiarazioni degli Stati
membri con i quali si possono far emergere anche elementi di dissenso relativamente a temi trattati dal
Consiglio Europeo. Queste sono le attribuzioni generali, ma ci sono una serie di disposizioni del
trattato che gli conferiscono altre attribuzioni specifiche. Le più importanti sono quelle che riguardano
la politica estera e di sicurezza comune (è ancora l‘unica disciplina materiale che trova posto nel TUE
perché è ancora soggetta al metodo della cooperazione intergovernativa) , ambito nel quale lo stesso
può adottare atti formali provvisti di efficacia giuridica. L’art. 22 par 1 dice che” Il Consiglio europeo
individua gli interessi e obiettivi strategici dell'Unione sulla base dei principi e degli obiettivi enunciati all'articolo
21”. Poi il par 2 dispone che” Le decisioni del Consiglio europeo sugli interessi e gli obiettivi strategici
dell'Unione riguardano la politica estera e di sicurezza comune e altri settori dell'azione esterna dell'Unione.
Possono riferirsi alle relazioni dell'Unione con un paese o una regione o essere improntate ad un approccio tematico.
Esse fissano la rispettiva durata e i mezzi che l'Unione e gli Stati membri devono mettere a disposizione”.
Il Consiglio Europeo ha delle prerogative anche nel campo della politica economica (art. 121 TFUE)e
nel tema delle occupazioni art. 148 TFUE .Ha poi una serie di prerogative concernente la nomina
(dello stesso presidente del Consiglio Europeo, del presidente della Commissione che deve essere
approvata dal Parlamento europeo e poi dell’Alto Rappresentante per affari esteri) degli organi di
vertice dell’Unione e poi concernenti una serie di decisioni di carattere costituzionale (ci riferiamo all’
art. 48 che riguarda la materia della revisione dei trattati, in questo caso le attribuzione del Consiglio
Europeo diventano pregnanti quando si tratta di revisioni semplificate dei trattati perché la decisione
viene presa nel suo ambito). Poi decide il sistema di rotazione della presidenza del Consiglio; poi
assume la decisione in base alla quale si stabilisce la composizione del Parlamento Europeo.
La presidenza è stabile, non ruota più con il sistema della rotazione dei semestri per ragione di
continuità e di riconoscibilità. A tal proposito l’art. 15 par 5 TUE dice che “Consiglio europeo elegge il
presidente a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta. In caso di
impedimento o colpa grave, il Consiglio europeo può porre fine al mandato secondo la medesima procedura.” Poi
art.15 par 6 ”il presidente del Consiglio europeo: a) presiede e anima i lavori del Consiglio europeo; b) assicura la
preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio europeo, in cooperazione con il presidente della Commissione e
in base ai lavori del Consiglio «Affari generali»; c) si adopera per facilitare la coesione e il consenso in seno al
Consiglio europeo; d) presenta al Parlamento europeo una relazione dopo ciascuna delle riunioni del Consiglio
europeo. Il presidente del Consiglio europeo assicura, al suo livello e in tale veste, la rappresentanza esterna
dell'Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune, fatte salve le attribuzioni dell'alto
rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza”.
Di regola le deliberazioni sono assunte per consensus, tecnica in base alla quale non c’è propriamente
un voto sul tema, ma l’atto si intende adottato se non i sono obiezioni. L‘art. 15 par 4 dispone che
“Consiglio europeo si pronuncia per consenso, salvo nei casi in cui i trattati dispongano diversamente.” Nei casi in
cui è previsto il voto, il presidente del Consiglio Europeo e della Commissione non votano ma votano
solo i Capi di Stato e di governo. Quando il trattato prevede il voto a maggioranza qualificata valgono
le stesse regole vigenti relativamente al Consiglio. È’ frequente che quando il Consiglio è chiamato a
votare il voto sia a maggioranza qualificata (decisioni relative alla proposta di nomina del presidente
della Commissione oppure dell’intera Commissione); meno frequente è la maggioranza semplice che di
solito si ha per le questioni procedurali e poi anche frequente è il voto all’unanimità (decisione relative
alla revisione semplificata dei trattati ).
In fine con il trattato di Lisbona è stata prevista la possibilità di impugnare dinanzi alla Corte di
giustizia gli atti illegittimi del Consiglio Europeo purché si tratti di atti che producono effetti giuridici
nei confronti di terzi. Questo controllo si riduce notevolmente se si pensa che le principali attribuzioni
del Consiglio Europeo sono in materia di politica estera e di sicurezza comune, ambito nel quale per
espressa previsione del trattato la Corte di giustizia non è esercita controllo giurisdizionale. La Corte è
intervenuta in altri casi, sentenza Pringle.
20 NOVEMBRE 2014
IL RINVIO PREGIUDIZIALE
(VEDERE SCHEMA CHE IL PROF. HA CARICATO SU INTERNET)
Il rinvio pregiudiziale è una procedura attraverso la quale il giudice nazionale (che può essere un
giudice civile, penale, amministrativo ecc. …) sotto cui si pone una questione di diritto dell’UE, ha la
facoltà o, se è un giudice di ultima istanza, l’obbligo, di sollevare alla Corte di Giustizia un quesito
circa l’interpretazione di norme di diritto dell’UE o la validità di norme di diritto derivato dell’UE.
Nel Trattato istitutivo della Comunità Europea, quindi, nell’assetto vigente fino all’entrata in vigore del
Trattato di Lisbona, la procedura di rinvio pregiudiziale aveva una disciplina piuttosto frammentata,
perché era disciplinata in via generale dal vecchio art. 234 del TCE (quello che oggi è diventato art.
267 del TFUE) e poi c’erano alcune disposizioni che regolavano il rinvio pregiudiziale in materie
specifiche, mi riferisco in particolare all’art.68 del TCE che riguardava il rinvio pregiudiziale in
materia di visti, asili, immigrazione ed altre politiche connesse alla libera circolazione delle persone
(ovvero al Titolo IV) e che rappresentano quelle parti del 3° pilastro che sono state comunitarizzate dal
Trattato di Amsterdam, e all’art.35 del TUE che riguardava il rinvio pregiudiziale nell’ambito del 3°
pilastro;
(quando abbiamo accennato all’azione di annullamento, abbiamo fatto un cenno alle categorie
dei ricorrenti, e abbiamo detto a questo proposito che esistono 3 categorie di ricorrenti:
• i ricorrenti privilegiati
• i ricorrenti intermedi
• le persone fisiche e giuridiche, ovvero i ricorrenti non privilegiati, quindi i ricorrenti
individuali; abbiamo anche detto che i ricorrenti individuali
non possono impugnare qualsiasi atto
[se io ritengo che una direttiva sia illegittima non posso impugnarla, uno stato membro invece
può farlo, essendo un ricorrente privilegiato]
ma solo quelli che sono a loro rivolti
[per esempio, una decisione indirizzata ad un impresa, in questo caso l’ impresa potrà
impugnarla];
o atti di cui, pur non essendo i destinatari formali, li riguardano direttamente
[ovvero non ci devono essere atti di esecuzione che si frappongono tra l’atto impugnato e la
sfera giuridica del soggetto che lo impugna, perché diversamente il soggetto dovrà impugnare
l’atto di esecuzione]
ed individualmente
[ovvero alla stregua di un destinatario, cioè, come se fosse il destinatario formale dell’atto];
poi, abbiamo detto che il Trattato di Lisbona ha esteso i presupposti di ricevibilità per il ricorso
di annullamento anche all’ipotesi dell’impugnazione da parte di singoli di atti regolamentari
che non comportano alcuna misura di esecuzione.
Quindi, i singoli oggi possono impugnare:
e infatti non è infrequente che organismi i quali, ai sensi dell’ordinamento nazionale non fanno parte
della giurisdizione, siano considerati dalla Corte di Giustizia legittimati a sollevare rinvio pregiudiziale.
È capitato, ad esempio, con l’ufficio aggiudicazione appalti del Land Tirolo in Austria, che ai sensi
dell’ordinamento Austriaco non era un giudice, ma, secondo la Corte di Giustizia, aveva natura
giurisdizionale e quindi ha ritenuto ammissibile un rinvio pregiudiziale;
oppure organismi inquadrati nell’ambito del Ministero delle finanze in Spagna sono stati ritenuti
giurisdizione legittimata a sollevare il rinvio pregiudiziale, anche se in Spagna non vengono considerati
come giudici ecc.…
E questo comporta anche il contrario, cioè, un organismo che senz’altro, sulla base dell’ordinamento
nazionale è qualificato come giurisdizione, a seconda delle funzioni che svolge, può non essere ritenuto
legittimato a sollevare rinvio pregiudiziale.
È il caso della Corte dei conti in Italia, quando svolge funzioni di valutazione e controllo dell’attività
amministrativa, in questo caso la Corte dei conti svolge funzioni non contenziose, quindi la Corte di
Giustizia ritiene che non sia legittimata a sollevare rinvio pregiudiziale.
È anche il caso del Tribunale nell’ordinamento giuridico italiano, a seconda le funzioni che svolge, per
esempio, secondo la Corte di Giustizia, quando queste funzioni sono funzioni di volontaria
giurisdizione, allora il Tribunale non è legittimato a sollevare il rinvio pregiudiziale.
(la Corte di Giustizia si è pronunciato a tal proposito nella molto nota sentenza Job Centre del 1995
relativa ad un ordinanza pregiudiziale sollevata dal Tribunale di Milano, il contesto nel quale il
Tribunale di Milano sollevava l’ordinanza pregiudiziale non era di tipo contenzioso, ma era il contesto
di un giudizio di omologazione dell’atto costitutivo di una società, cioè, siamo nell’ambito della
volontaria giurisdizione);
(altro caso di volontaria giurisdizione è ad esempio l’omologazione da parte del giudice di una
separazione consensuale, in questi casi, secondo la Corte, il giudice non risolve una controversia, e
quindi le funzioni svolte non hanno natura giurisdizionale).
Pertanto, nell’ambito della volontaria giurisdizione, il giudice italiano non può sollevare rinvio
pregiudiziale, perché secondo la Corte svolge una funzione sostanzialmente amministrativa e non
giurisdizionale( ovvero di soluzione di una controversia).
• Il carattere permanente dell’organo ( quindi la circostanza che l’organo non eserciti funzioni
giurisdizionali in via occasionale ma in modo permanente)
• L’obbligatorieta’ della sua giurisdizione ( che esclude rimedi alternativi)
• Il rispetto del principio del contraddittorio ( che è indice della natura giurisdizionale
dell’organo)
• Indipendenza e la terzietà (anche questo, indice della natura giurisdizionale dell’organo perché
il giudice si pronuncia in modo indipendente ed è terzo rispetto agli interessi delle parti)
• L’organo deve esercitare una funzione giurisdizionale (qualcuno ha detto che questo è un
requisito circolare, cioè, dire che ha natura giurisdizionale un organo che esercita una funzione
giurisdizionale , equivale a non dire nulla, in realtà non è così perché poi la Corte specifica che
esercitare una funzione giurisdizionale vuol dire, nella sostanza, risolvere una controversia)
Allora, in base a questi criteri, un COLLEGIO ARBITRALE, può sollevare rinvio pregiudiziale?
Il collegio arbitrale non ha origine legale perché non è istituito dalla legge ma dal contratto che contiene
una clausola compromissoria.
La questione della natura giurisdizionale o meno dei collegi arbitrali, è venuta in rilievo in relazione a
rinvii pregiudiziali sollevati da collegi arbitrali e anche da organi di ordini professionali aventi, anche
questi, natura arbitrale, e il problema si è posto per la prima volta in una sentenza del 1982 , la sentenza
NORISI [non so se si scrive così!!!!! Registrazione al 33:22], che aveva ad oggetto un rinvio
pregiudiziale sollevato da un collegio arbitrale nell’ambito di una controversia che era sorta tra delle
imprese nell’ordinamento tedesco.
In questa occasione, la Corte si è dichiarata incompetente a pronunciarsi, quindi ha dichiarato il
quesito pregiudiziale irricevibile dicendo che “ se è vero che la funzione dell’arbitro presenta alcune analogie
con l’attività giudiziaria, tuttavia l’arbitro non costituisce una giurisdizione ai sensi dell’art. 267 perché”, dice la
Corte “ la decisione di deferire ad arbitri le proprie liti, lungi dall’essere obbligatoria, è frutto di una libera scelta
delle parti, inoltre, non solo manca del tutto il requisito del carattere obbligatorio della giurisdizione, ma”, secondo
la Corte “non sussiste quel legame con l’esercizio dei pubblici poteri che è tipico della funzione giurisdizionale”. E
quindi in sintesi, mancano almeno 2 dei 6 requisiti che abbiamo individuato, ovvero l’origine legale e
la obbligatorietà della giurisdizione.
Questa linea giurisprudenziale è rimasta costante, ma ha anche dato luogo a delle critiche, perché nella
prassi, le parti private fanno spesso ricorso allo strumento dell’arbitrato, e c’è chi dice che la posizione
della Corte non giova certo alla uniforme applicazione del diritto dell’UE, perché la Corte,
sostanzialmente, rifiuta di dare il suo sostegno interpretativo ai collegi arbitrali, i quali quindi, poi
decideranno autonomamente le questioni del diritto dell’UE, perché se si rivolgessero alla Corte, questa
dichiarerebbe il quesito pregiudiziale irricevibile.
Cosa si può rispondere a questa critica?
In primo luogo si può rispondere che una interpretazione di segno opposto, cioè un interpretazione
sulla base della quale anche l’arbitro può sollevare rinvio pregiudiziale, potrebbe finire per snaturale
l’istituto del rinvio pregiudiziale, perché consentirebbe la moltiplicazione delle giurisdizioni nazionali
per volontà delle parti, le quali parti, potrebbero utilizzare anche strumenti contrattuali (per esempio
una clausola compromissoria o un compromesso arbitrale) stabilendo in capo agli arbitri anche un
obbligo di sollevare rinvio pregiudiziale, e in questo modo potrebbero aggirare i limiti che sono posti
alle parti private per l’impugnazione degli atti ex art. 263, cioè delle imprese le quali non possono
impugnare la direttiva, perché la direttiva non le riguarda direttamente e individualmente, potrebbero
tra loro stipulare un compromesso arbitrale prevedendo un obbligo per gli arbitri di sollevare rinvio
pregiudiziale di validità e in questo modo aggirare la preclusione per parti private ex art. 263 del TFUE;
poi, altro argomento : vero è che gli arbitri non possono sollevare rinvio pregiudiziale, ma è vero anche
che le legislazioni nazionali consentono sempre, in determinate circostanze, di impugnare il lodo
arbitrale, cioè la pronuncia resa dall’arbitro, di fronte alla giurisdizione ordinaria, per esempio in Italia
il lodo arbitrale si può impugnare di fronte alla Corte di appello limitatamente ai casi per contrarietà
all’ordine pubblico; anche altri ordinamenti prevedono un sistema analogo per cui le pronunce degli
arbitri si possono impugnare di fronte al giudice ordinario per contrarietà all’ordine pubblico.
Questo pone un altro interrogativo, se il lodo arbitrale è contrario al diritto dell’UE è contrario
all’ordine pubblico?
Quindi, la violazione da parte del lodo arbitrale del diritto dell’UE lo rende impugnabile dinnanzi la
giurisdizione ordinaria per contrarietà all’ordine pubblico?
In un caso che si è posto di fronte alla giurisdizione, se non ricordo male, tedesca, il lodo arbitrale
sembrava contrario all’attuale art. 101 del TFUE, cioè divieto di intese, divieto di cartelli ( ne abbiamo
accennato quando abbiamo fatto il panorama della parte materiale), perché consentiva ad un intesa
anticoncorrenziale di spiegare i suoi effetti;
questo lodo è stato impugnato di fronte al giudice ordinario che si è posto il problema se fosse o meno
contrario all’ordine pubblico un lodo arbitrale contrastante con il diritto dell’UE. In quella circostanza,
la Corte di giustizia ha affermato che l’art. 101 del TFUE contribuisce a formare la nozione di ordine
pubblico, per cui il lodo è impugnabile per violazione dell’art. 101.
Benché la Corte, in quel caso, non parlasse di diritto comunitario in generale, ma dell’art. 101, si può
estendere questa giurisprudenza, cioè, si può ritenere che tutte le volte in cui il lodo arbitrale è contrario
al diritto dell’UE, il lodo è anche contrario all’ordine pubblico, e quindi impugnabile di fronte al
giudice ordinario.
In questo caso il rinvio pregiudiziale si recupera, perché, nell’ambito dell’impugnazione il giudice
ordinario (in Italia la Corte di appello), può sollevare rinvio pregiudiziale di fronte la Corte di
Giustizia, perché la Corte di Appello è pacificamente un organo giurisdizionale ai sensi dell’art. 267.
Altro particolare problema che si è posto, in relazione all’ordinamento italiano, è quello che riguarda la
Corte Costituzionale.
La Corte non esercita funzione giurisdizionale, perché non risolve la controversia, ma la risolve il
giudice a quo.
Qual è la posizione della stessa Corte Costituzionale?
C’è stata un evoluzione significativa della giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Fino al 2008, la Corte Costituzionale non aveva mai utilizzato lo strumento del rinvio pregiudiziale,
ma si era espressa in proposito, ovvero sulla sua natura di autorità giurisdizionale ai sensi dell’art.267
in due orbiter victa, cioè in sentenze in cui la possibilità di sollevare rinvio pregiudiziale non faceva
parte del tema principale della sentenza, però incidentalmente la Corte ha detto qualcosa in proposito.
In una sentenza del ’91 n.168 , la sent. Giampaoli, la Corte Costituzionale aveva fatto riferimento alla
facoltà di sollevare anch’essa una questione pregiudiziale di interpretazione, quindi sulla base di questa
ordinanza la Corte Costituzionale sembrava propensa a ritenersi giurisdizione nazionale ex art.267, poi
però, c’è stata un ordinanza del 2005 n. 536, in cui la Corte Costituzionale torna sui suoi passi e dice di
non poter sollevare rinvio pregiudiziale in virtù della sua funzione che è quella di “suprema garanzia
dell’osservanza della Costituzione da parte degli organi costituzionali dello Stato e di quelli delle Regioni”; questa
giurisprudenza ha dato luogo ad un insieme di critiche, anche piuttosto accese, da parte della dottrina
prevalente, ma, per comprendere la questione, noi dobbiamo fare una distinzione.
Abbiamo detto che la Corte Costituzionale non è giudice della controversia, perché giudice della
controversia è il giudice a quo,
ma, questo vale per tutti i casi?
Quando il ricorso è in via principale non c’è un giudice a quo, e allora noi dobbiamo fare una
distinzione in proposito tra: GIUDIZIO IN VIA PRINCIPALE e GIUDIZIO IN VIA
INCIDENTALE di fronte la Corte Costituzionale.
• NEL GIUDIZIO IN VIA INCIDENTALE, invece, la situazione non è così netta, perché in
questo caso c’è un giudice a quo che potrebbe sollevare rinvio pregiudiziale in luogo della Corte
Costituzionale, e questa, fino al 2013 è stata la posizione della stessa Corte Costituzionale in
base alla quale, il giudice costituzionale non è giudice della controversia nei giudizi in via
incidentale, perché, in questi, il giudice della controversia è il giudice a quo, il quale dovrebbe
sollevare rinvio pregiudiziale prima di rivolgersi alla Corte Costituzionale. Quindi la posizione
della Corte Costituzionale fino al 2013 era questa: il giudice a quo doveva prima risolvere
qualsiasi questione interpretativa relativa al diritto dell’UE, e quindi eventualmente sollevare
rinvio pregiudiziale, e poi, rivolgersi alla Corte Costituzionale. Questo meccanismo è stato
definito dalla dottrina come “ DOPPIA PREGIUDIZIARIETA’ ”, cioè, il giudice a quo deve
rivolgersi a due istanze:
o la Corte di Giustizia e la Corte Costituzionale,
o perché la Corte Costituzionale non solleva rinvio pregiudiziale dinnanzi alla Corte di
Giustizia.
Anche questa posizione, sebbene presenti meno inconvenienti rispetto a quella espressa nel
rinvio principale, da luogo a critiche, e infatti in dottrina c’è chi ha detto che la controversia non
è soltanto la controversia di merito, cioè, vero è che il giudice a quo è giudice della controversia
di merito, ma la controversia non è soltanto di merito, fanno parte della controversia anche le
questioni di diritto, per cui non è detto che la Corte Costituzionale non sia giudice della
controversia, dipende dalla accezione che si da alla nozione di controversia, se controversia è
solo una questione di merito, l’unico giudice della controversia è il giudice a quo; ma se fanno
parte della controversia anche le questioni di diritto, allora anche la Corte Costituzionale è
giudice della controversia.
E allora, vi dicevo che, negli ultimi anni la posizione della Corte Costituzionale è mutata in modo
significativo, e l’ordinanza che più rileva in tal proposito, è quella del 15 Aprile del 2008, nella quale,
per la prima volta, la Corte Costituzionale torna sui suoi passi, emanando un ordinanza di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia, avente ad oggetto la compatibilità con il diritto dell’UE di una
serie di imposte fissate dalla regione Sardegna.
Si tratta delle “TASSE SUL LUSSO” in Sardegna, l’allora governatore della regione Sardegna Soru
,aveva previsto una serie di tasse cosiddette sul lusso, le quali colpivano in particolare i natanti e gli
aeromobili di soggetti (persone fisiche e persone giuridiche) non residenti o non aventi la sede sociale in
Sardegna, e poi, se non ricordo male, anche le abitazioni di soggetti non residenti in Sardegna ecc… ,
insomma, si prevedeva un prelievo fiscale più elevato per i soggetti i quali, in relazione ad una serie di
attività, non avessero la residenza o la sede sociale in Sardegna.
Allora lo Stato promuove un giudizio in via principale contro la regione Sardegna, nel quale giudizio in
via principale, tra le altre cose, invoca la violazione dell’art.117, 1° comma della Costituzione,
affermando che le tasse sul lusso erano incompatibili col diritto dell’UE (perché il 117, 1° comma?
Perché è l’art. in base al quale il legislatore nazionale e quello regionale deve tener conto dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali, oltreché , ovviamente, il rispetto
della Costituzione).
Quali obblighi comunitari vengono in rilievo?
in particolare l’asserita violazione di quello che oggi è l’art.56 del TFUE, relativo alla libera
circolazione dei servizi, come abbiamo già detto, i beneficiari della libera circolazione dei servizi sono,
sia i prestatori di servizi, sia anche i fruitori dei servizi, e, tale imposta colpisce sia i fruitori di taluni
servizi che vengono erogati in Sardegna, e sia anche i prestatori di servizi.
Facciamo un esempio, pensate al caso di una società di charter nautico, cioè una società che affitta
imbarcazioni da diporto ai turisti, se tale società ha sede in Sardegna, le sue imbarcazioni non sono
soggette alla tassa sul lusso; se la stessa società ha sede nella vicina Corsica, invece le imbarcazioni che
stazionano in Sardegna sono soggette alla tassa sul lusso.
Siamo difronte ad una situazione palesemente discriminatoria, perché è una situazione che colpisce con
maggiore intensità, sotto il profilo fiscale, quei soggetti i quali non hanno domicilio fiscale nella regione
Sardegna, e quindi l’imposta controversa, tra le altre cose, viene reputata in contrasto con l’art. 56 sulla
libera prestazione dei servizi.
In proposito si pronuncia la Corte di Giustizia con sentenza del 17 Novembre 2009, la quale riconosce
che c’è una situazione di contrasto con l’art.56, ma quello che a noi interessa non è il merito della
controversia, ma la possibilità per la Corte Costituzionale di sollevare rinvio pregiudiziale, e a questo
proposito, nell’ordinanza del 2008 n. 103 la Corte Costituzionale per la prima volta afferma che “La
Corte, pur nella sua peculiare posizione di supremo organo di garanzia costituzionale dell’ordinamento interno,
costituisce una giurisdizione nazionale ai sensi dell’art 234, 3° paragrafo ( quello che oggi è l’art. 267, 3°
paragrafo) , ed in particolare una giurisdizione di unica istanza, in quanto, contro le sue decisioni, non è ammessa
alcuna impugnazione, essa pertanto, nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale, è legittimata
a proporre questione pregiudiziale davanti alla Corte di Giustizia;
(e poi aggiunge anche che) ove nei giudizi di legittimità costituzionale promossi in via principale non fosse
possibile effettuare il rinvio pregiudiziale, risulterebbe leso il generale interesse alla uniforme applicazione del diritto
comunitario quale interpretato dalla Corte di Giustizia”.
Il passo avanti compiuto dalla Corte Costituzionale in questa ordinanza è notevole, perché non
soltanto riconosce di essere soggetto legittimato a sollevare rinvio pregiudiziale, ma fa anche
riferimento al vecchio art 234, oggi 267, paragrafo 3°, ovvero quello dedicato all’obbligo di rinvio
pregiudiziale incombente sui giudici avverso le cui decisioni non è possibile proporre un ricorso
giurisdizionale, ovvero i giudici di ultima istanza, quindi la Corte non dice soltanto di essere legittimata
a sollevare rinvio pregiudiziale ma dice anche di avere l’obbligo di sollevarlo ex art. 267 paragrafo 3
essendo giudice di unica istanza, in quanto contro le sue decisioni non è ammessa alcuna
impugnazione. E quindi, almeno per quanto concerne il giudizio in via principale, la Corte
Costituzionale si ritiene obbligata a sollevare rinvio pregiudiziale allorquando per risolvere una
questione si ponga un problema di diritto dell’UE.
Per quanto concerne la questione relativa alla possibilità di sollevare rinvio pregiudiziale nell’ambito di
un giudizio in via incidentale di costituzionalità, l’anno scorso, per la prima volta con ordinanza n. 207
del 18 Luglio 2013, la Corte Costituzionale ha rinunciato al cosiddetto “ SISTEMA DELLA DOPPIA
PREGIUDIZIALITA’ ”, in base al quale dovrebbe essere il giudice a quo a sollevare rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia, e in questa ordinanza, ha sollevato per la prima volta un rinvio
pregiudiziale anche nell’ambito di un giudizio in via incidentale.
Non ho molto da dirvi su questa ordinanza, perché la Corte Costituzionale, in questo caso, non ha
motivato il suo cambio di rotta rispetto alla giurisprudenza previgente;
abbiamo visto che nell’ordinanza del 2008 la Corte dice di essere legittimata “ nei giudizi di legittimità
costituzionale promossi in via principale”, e quindi da questo sembrava doversi escludere che la Corte
Costituzionale si ritenesse legittimata nei ricorsi in via incidentale, invece nel 2013, questa
giurisprudenza cambia, evidentemente sulla base di quella nozione più ampia del concetto di
controversia individuata dalla dottrina, per cui controversia non è soltanto quella sui fatti di causa, ma
anche la controversia relativa alle questioni di diritto.
Va da sé che nel giudizio in via incidentale, la Corte Costituzionale non è un giudice di ultima istanza
(perché poi c’è il giudice del rinvio e le eventuali impugnazioni delle sentenze del giudice del rinvio) ,
quindi non si ritiene tale almeno nella sua ordinanza, che infatti non fa riferimento al paragrafo 3
dell’art. 267.
(Tutto questo per quanto concerne la natura giurisdizionale della Corte Costituzionale ex art. 267.
La Corte di Giustizia non adotta le nozioni nazionali di giurisdizione, accoglie piuttosto una nozione
comunitaria che si fonda su quell’insieme di criteri che abbiamo detto (dei quali, devo anche dirvi, la
Corte di Giustizia fa un uso piuttosto elastico), e sulla base di questi criteri abbiamo esaminato la
questione dei collegi arbitrali che la Corte di giustizia ritiene non legittimati a sollevare rinvio
pregiudiziale e la questione concernente la possibilità per la Corte Costituzionale italiana di sollevare
rinvio pregiudiziale.
Devo anche dirvi che, è vero che la Corte Costituzionale italiana è da pochi anni che solleva rinvio
pregiudiziale, ma da molti anni ci sono altre corti costituzionali nazionali, tipo quella belga (che spesso
fa ricorso a rinvio pregiudiziale), spagnola ecc… che sollevavano rinvio pregiudiziale, quindi non è
l’unica corte costituzionale nazionale a utilizzare lo strumento del rinvio pregiudiziale).
Relativamente ai profili soggettivi, l’ultimo tema di cui dobbiamo occuparci è quello concernente
• dovrebbe concludere che la questione si impone con tale evidenza da non lasciar adito ad
alcun ragionevole dubbio;
• e che la stessa conclusione si imporrebbe di fronte agli altri giudici nazionali e alla stessa
Corte di Giustizia.
Un insieme di indicazioni che sono forse illusorie, difficili da applicare, ma tutto questo è significativo
perché indica la volontà della Corte di Giustizia di circoscrivere, nella misura maggiore possibile, la
discrezionalità dei giudici di ultima istanza nell’interpretare autonomamente il diritto dell’UE, e quindi,
secondo la ricostruzione di LENARD, l’accento non deve essere posto sulla teoria dell’atto chiaro, ma
piuttosto sui limiti alla teoria dell’atto chiaro, cioè la Corte, preso atto che i giudici nazionali già
avevano questa tendenza, tende a circoscriverla il più possibile.
Questa è la giurisprudenza CILFIT, per concludere l’argomento devo parlarvi del rovescio della
medaglia, perché, se da un lato la Corte di Giustizia ha introdotto in via giurisprudenziale delle
attenuazioni all’obbligo di rinvio pregiudiziale, dall’altro lato, ha anche affermato l’inverso, cioè che ci
sono dei giudici non di ultima istanza i quali quindi dovrebbero avere la FACOLTA’ di rinvio
pregiudiziale, che invece hanno l’obbligo di sollevare rinvio pregiudiziale.
Quindi c’è un obbligo di rinvio pregiudiziale, per quanto non sia espressamente previsto dall’art. 267,
anche in capo alle giurisdizioni le cui decisioni sono impugnabili, e quest’obbligo si ha nel caso in cui,
queste giurisdizioni, ritengano che un atto comunitario di diritto derivato non sia valido.
Quindi siamo nell’ambito del RINVIO PREGIUDIZIALE DI VALIDITA’ ( vi ho detto all’inizio che
esistono 2 tipi di rinvio pregiudiziale : di interpretazione e di validità, perché sono 2 le cose che il
giudice nazionale può chiedere alla Corte di Giustizia, ovvero, qual è la corretta interpretazione di un
atto di diritto comunitario derivato o di una norma contenuta nei Trattati, oppure può chiedere se un
atto di diritto derivato è compatibile o meno con i Trattati, quindi se è o meno valido).
Nell’ambito del GIUDIZIO DI VALIDITA’, la Corte di Giustizia, in una sentenza FOTO-FROST
DEL 1987,ha affermato che il giudice non di ultima istanza, se ritiene che un atto di diritto derivato
non sia valido, non può disapplicarlo autonomamente, ma è obbligato a sollevare rinvio pregiudiziale
alla Corte di Giustizia.
Vi dicevo che di questo obbligo di rinvio, noi non troviamo traccia nell’art. 267, paragrafo 3, perché
tale articolo non fa alcuna distinzione a riguardo tra rinvio pregiudiziale di interpretazione e rinvio
pregiudiziale di validità, quindi sulla base di un interpretazione letterale noi dovremmo dedurre che
tutto ciò che è vero per il rinvio pregiudiziale di interpretazione si applica anche al rinvio pregiudiziale
di validità, e quindi dovremmo dedurre che i giudici che non sono di ultima istanza possono
interpretare autonomamente il diritto comunitario, e possono anche vagliare la legittimità di atti di
diritto derivato;
e sulla base del dato letterale dell’art. 267, in un primo tempo, era capitato che giudici nazionali si
pronunciassero circa l’incompatibilità di un atto di diritto derivato con il Trattato, e quindi
disapplicassero autonomamente norme di diritto derivato ritenute non valide.
Nella sentenza FOTO-FROST del 1987 la Corte invece afferma che:
“le giurisdizioni nazionali, possono esaminare la validità di un atto comunitario, e se ritengono infondati i motivi di
invalidità addotti dalle parti, possono respingerli concludendo per la piena validità dell’atto, viceversa, non hanno il
potere di dichiarare invalidi gli atti delle istituzioni comunitarie”,
quindi, quando di fronte ad un giudice nazionale non di ultima istanza si pone una questione di validità
di un atto di diritto derivato, le possibili ipotesi sono 2:
1. Il giudice ritiene che l’atto sia valido, allora in questo caso può procedere autonomamente
applicandolo, e quindi non ha l’obbligo di sollevare rinvio pregiudiziale;
2. Il giudice ritiene che l’atto non sia valido, allora in questo caso ha l’obbligo di sollevare rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Ma se questo obbligo non può ricavarsi dall’art. 267, da cosa lo trae la Corte di Giustizia?
Lo ricava dall’ art 263 che riguarda l’azione di annullamento, in sostanza la Corte ritiene di avere una
competenza esclusiva in tema di annullamento degli atti comunitari non validi, e questa competenza le
deriverebbe dall’art. 263, e poi la Corte sottolinea anche che il giudice dell’Unione è l’organo più adatto
a pronunciarsi sulla validità degli atti comunitari, perché di fronte alla Corte di Giustizia, le istituzioni
che hanno emanato l’atto, possono presentare le loro osservazioni ( mentre di fronte al giudice
nazionali, le istituzioni comunitarie non presentano loro osservazioni circa la validità o meno dell’atto).
Nella sentenza FOTO-FROST, si fa salva un'unica eccezione, cioè il caso in cui il problema di validità
si ponga in un procedimento cautelare.
Qui dice la Corte che se c’è un istanza cautelare, quindi ci sono delle ragioni di urgenza, il giudice può
anche disapplicare, però, quando poi quando deciderà sul merito, sarà tenuto a sollevare una questione
pregiudiziale di validità di fronte alla Corte di Giustizia.
Secondo una parte della dottrina, la sentenza FOTO-FROST è una sentenza non condivisibile (e
anch’io sono di questo avviso), sulla base dell’interpretazione letterale dell’art. 267 che non fa alcuna
distinzione tra rinvio pregiudiziale di interpretazione e di validità, e prevede che l’obbligo ci sia solo per
i giudici di ultima istanza, e inoltre perché, le due argomentazioni utilizzate dalla Corte di Giustizia ( la
prima che si fonda sull’uniforme applicazione del diritto comunitario, e la seconda che si fonda sull’art.
263, quindi sull’azione di annullamento), sono argomentazioni superabili.
La Corte in primo luogo dice: è pregiudizievole dell’uniforme applicazione del diritto comunitario un
giudizio sulla validità da parte di un giudice nazionale senza sollevare questione pregiudiziale di
validità di fronte alla Corte di Giustizia; ma è un argomento che prova troppo, perché è applicabile
anche alle questioni di interpretazione, cioè il giudice non di ultima istanza può interpretare
autonomamente il diritto comunitario, e nessuno dice che questo è pregiudizievole per l’uniformità,
perché poi l’uniformità si recupera con l’impugnazione; la stessa cosa vale per la pregiudiziale di
validità, anche qui il giudice dovrebbe potersi pronunciare autonomamente, e se commette un errore e
sempre possibile impugnare, e allora una volta impugnata la sentenza, il giudice di ultima istanza avrà
l’obbligo di sollevare rinvio pregiudiziale;
L’altro argomento è quello fondato sulla competenza esclusiva ex art.263 ovvero la Corte di Giustizia
si ritiene l’unico soggetto competente a pronunciarsi sulla validità del diritto dell’UE, quindi degli atti
di diritto derivato, ma anche questo argomento è superabile, perché mette in parallelo 2 situazioni che
non sono comparabili:
la situazione della pronuncia del giudice nazionale circa la validità di un atto comunitario, non è
paragonabile alla situazione in cui la questione sia posta dinnanzi alla Corte di Giustizia;
perché se sul tema si pronuncia la Corte di Giustizia e ritiene che l’atto non sia valido, questa dice:
L’ATTO è NULLO E NON AVVENUTO, quindi ne dichiara la nullità con efficacia erga omnes e
retroattiva;
se invece è il Tribunale di Palermo a ritenere che un atto di diritto derivato non sia valido, questo non
potrà mai dire che l’atto è nullo e mai avvenuto, ma al massimo potrà disapplicarlo, e quindi la portata
della sua sentenza è limitata al caso di specie.
Per cui, vero è che la Corte di Giustizia ha in proposito una competenza esclusiva, ma ha la
competenza esclusiva a dichiarare l’atto nullo e non avvenuto, è l’unico soggetto che può dichiarare
l’atto nullo e non avvenuto, il giudice nazionale, se ritiene che l’atto è incompatibile, può al massimo
disapplicarlo, e se commette un errore, questo errore, è circoscritto al caso di specie e rimediabile con
una successiva impugnazione, quando (finita la sequela delle impugnazioni) si arriva dinnanzi al
giudice di ultimo grado, questo sì, che ha l’obbligo del rinvio, ma non perché lo dice la Corte di
Giustizia, ma perché lo dice l’art.267, paragrafo 3.
Ma nonostante le critiche della dottrina, la giurisprudenza FOTO-FROST , che oggi è una
giurisprudenza che ha 27 anni (dal 1987), è rimasta costante perché la Corte di Giustizia non è mai
tornata sui suoi passi.
21 NOVEMBRE 2014
Argomenti trattati:
1. violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale;
2. profili oggettivi del rinvio pregiudiziale;
3. effetti delle sentenze pregiudiziali.
1. pilastro comunitario;
2. la politica estera e di sicurezza comune;
• Gli artt. che vanno da 28 a 32 TFUE: divieto di dazi doganali alle importazioni e alle
esportazioni e di tasse ad effetto equivalente ai dazi doganali,queste norme comportano anche
la fissazione di una tariffa doganale comune. Divieto di dazi doganali e tariffa doganale
comune insieme danno vita all'unione doganale;
• erano previste delle scadenze per l'eliminazione dei dazi doganali, l'ultima di queste scadenze
era la fine del periodo transitorio nel 1969; quindi era previsto che gli Stati dovessero stare fermi
fino al '69, non aumentare i dazi doganali, nel '69 i dazi doganali fra gli stati sarebbero venuti
meno;
• deve trattarsi di un onere pecuniario, questo elemento ci serve per distinguere l'ambito di
applicazione dell'art. 30 dall'ambito dell'applicazione degli artt. 34 e ss, quelli che vietano le misure
ad effetto equivalente ad una restrizione quantitativa, perchè se la misura è una tassa e allora
siamo nell'ambito dell'art. 30 e non nell'ambito del divieto di restrizione quantitative e misure ad
effetto equivalente;
• deve trattarsi di onere che colpisce un bene in ragione della sua importazione o esportazione;
questo ci serve a distinguere l'ambito di applicazione dell'art. 30 dall'ambito di applicazione dell'art.
110 (misure fiscali interne discriminatorie), che riguarda pure delle misure fiscali ma non quelle
che colpiscono il bene in ragione dell'attraversamento della frontiere ma misure fiscali interne che
colpiscono il bene in una fase successiva rispetto all'attraversamento di una frontiera.
Questo divieto riguarda gli scambi di merci tra i paesi membri però non ha alcun rilievo che la tassa si è
imposta quando il bene entra nel complesso del territorio statale o soltanto in una parte del territorio
statale, ne rileva che la stessa tassa si è imposta a prodotti che provengono da altre regioni del territorio
statale; questo principio è giurisprudenziale ed è tratto da una sentenza che riguarda le isole d'oltre
mare francesi, cioè dei territori appartenenti alla Repubblica francese, i quali si trovano al di fuori del
continente europeo. In questi territori era prevista un'imposta che prendeva il nome di dazio di mare
che colpiva i prodotti provenienti sia da altri paesi membri delle comunità europee sia anche i prodotti
provenienti dalla Francia continentale.
Secondo la Corte di giustizia, il fatto che siano colpiti anche altri prodotti nazionali non rileva affatto e
non toglie la sua natura di dazio doganale vietato dall’art. 30 del Trattato. La sentenza è la sent. Le
Gros del 1992.
Se la regione Sicilia imponesse, ad esempio, un dazio sull’importazione del vino rosso, questo dazio
sarebbe incompatibile con il Trattato indipendentemente dal fatto che colpisce anche il vino toscano o
piemontese. Non è quindi rilevante che riguardi una parte del territorio e che colpisca altri prodotti
provenienti dallo stesso territorio nazionale.
DISPOSIZIONI FISCALI INTERNE DISCRIMINATORIE
Art. 110, co. 1 – “Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri stati
membri imposizioni interne di qualsivoglia natura superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai
prodotti nazionali similari”.
Il primo comma fa riferimento alle imposte applicate ai prodotti nazionali similari, individuando
questi ultimi come termine di paragone per la discriminazione.
Art. 110, co. 2 – “Nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri stati membri imposizioni interne intese a
proteggere indirettamente altre produzioni”
Il secondo comma fa riferimento ad altre produzioni e cioè ai prodotti nazionali che, pur non essendo
similari, sono in rapporto di concorrenza con il prodotto importato (c.d. prodotti concorrenti).
Lo scopo dell’art. 110 è quello di completare il sistema che vieta i dazi doganali e le tasse ad effetto
equivalente ai dazi doganali.
Il divieto di dazi doganali non ha senso, senza un divieto di imposizioni fiscali interne discriminatorie;
il sistema non potrebbe, infatti, funzionare perché sarebbe offerta agli Stati una facile scappatoia.
Se – una volta fatto transitare un prodotto senza che a questo sia applicato un dazio doganale o una
tassa ad effetto equivalente – gli Stati applicassero un’imposizione interna discriminatoria, si
produrrebbe, infatti, lo stesso effetto protezionistico che si produce attraverso l’imposizione di un dazio
doganale o una tassa ad effetto equivalente.
Il problema che gli autori del Trattato si sono posti è quello che gli Stati potessero aggirare il divieto di
dazi doganali o tassa ad effetto equivalente.
Esempio tratto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia: poniamo il caso di un paese nel quale
l’industria automobilistica nazionale produce esclusivamente auto di piccola cilindrata o di media
cilindrata ed importa le auto di grossa cilindrata. In ipotesi del genere – se questo paese volesse attuare
un’imposizione fiscale protezionistica – potrebbe scoraggiare l’acquisto di auto di grossa cilindrata in
favore dell’acquisto di piccola e media cilindrata, attraverso un sistema fiscale interno discriminatorio
oppure adottando un dazio doganale vietato dall’art. 30.
Questo esempio è tratto da un caso giurisprudenziale (del 1985) riguardante la Francia : secondo
sistema di tasse di circolazione42 francese, le auto fino a sedici cavalli fiscali pagavano un’imposta
progressiva, che arrivava a 1100 franchi (imposta massima); le automobili di potenza superiore a sedici
cavalli fiscali pagavano una tassa fissa di 5000 franchi. In condizioni del genere era probabile che i
consumatori sarebbero stati incentivati all’acquisto di un’automobile di cilindrata più ridotta, per
sfuggire al pagamento dell’imposta fissa particolarmente pesante.
Questo sistema ha avuto fine quando un cittadino francese (che aveva acquistato una Mercedes che
superava i sedici cavalli fiscali) ha impugnato questa imposizione fiscale nazionale di fronte ad un
giudice nazionale, che ha sollevato un rinvio pregiudiziale43.
La Corte di giustizia, constatando il fatto che la Francia produca solamente macchine di cilindrata fino
a sedici cavalli, rileva che la disposizione fiscale sia discriminatoria nei confronti del prodotto
importato rispetto al prodotto nazionale similare, dichiarandone la sua contrarietà al diritto
dell’Unione.
Poiché la tassa in questione non colpisce il bene in ragione della sua importazione, ma in ragione delle
sue caratteristiche (e cioè il superamento dei sedici cavalli fiscali), non si applica l’art. 30, ma l’art. 110.
42
Quello che noi chiamiamo bollo.
43
Una delle funzioni più interessanti del rinvio pregiudiziale è che – anche se si tratta di pregiudiziale di
interpretazione – finisce per essere uno strumento di controllo sulla compatibilità comunitaria delle leggi interne.
È come se i privati fossero delle sentinelle del rispetto della legalità comunitaria.
Dunque, l’art. 110 è un completamento dell’art. 30, proprio perché un caso del genere sfugge
all’applicazione dei quest’ultimo (ma non all’art.110).
Si badi bene che l’art. 110 non vieta le imposizioni interne che colpiscono i beni importati44, ma vieta la
discriminazione (misure fiscali interne discriminatorie), garantendo la neutralità dei tributi rispetto alla
concorrenza tra merci nazionali e merci importate.
Un rilevante problema di interpretazione dell’art. 110 riguarda la distinzione tra le imposizioni fiscali
interne discriminatorie di cui all’art. 110 e le tasse effetto equivalente a dazi doganali di cui all’art. 30.
Questa distinzione è importante perché si tratta di divieti diversi:
• Non è applicabile art. 3045, perché il tributo46 non colpisce il prodotto in ragione della sua
importazione, ma lo colpisce in quanto tale (in ragione delle sue caratteristiche);
• Sarebbe applicabile l’art. 110, ma questo ci pone davanti ad un’altra questione: la circostanza
che non ci sia una produzione nazionale con cui effettuare la comparazione, comporta che l’art.
110 sia operativo? E se sì, come?
Secondo la Corte di giustizia, non essendoci prodotti similari o concorrenti l’art. 11047 non è
operativo, perché non si tratta di misure protezionistiche: la Danimarca è libera di stabilire il
livello di tassazione che preferisce, dato che non vi è discriminazione rispetto ad un prodotto
similare o concorrente.
Secondo la Corte, “l’art. 110 non può essere invocato nei confronti di tributi interni che colpiscono
prodotti importati in mancanza di produzione nazionale similare o concorrente; in particolare esso non
consente di censurare l’eccessività del livello di tassazione che gli Stati membri potrebbero stabilire per
determinati prodotti, in mancanza di ogni effetto discriminatorio o protezionistico”.
44
Se lo facesse, i beni importati avrebbero un vantaggio rispetto ai beni nazionali soggetti ad imposizioni interne
45
Se l’art. 30 fosse applicabile, si dovrebbe dedurre che la Danimarca non può imporre una tassa di circolazione
sule automobili.
46
Una tassa di circolazione, in Danimarca particolarmente gravosa.
47
Divieto di protezionismo.
Con riguardo al contenuto dell’art. 110, bisogna dire che:
• Il secondo comma, più ampio, vieta agli Stati membri di applicare ai prodotti importati tributi
intesi a proteggere altre produzioni, cioè prodotti che, anche se non sono similari, hanno
comunque un qualche rapporto di concorrenza con il prodotto importato, perché mirano a
soddisfare le stesse esigenze dei consumatori (c.d. prodotti concorrenti).
La divisione in due commi della norma dipende dal fatto che la disciplina è diversa. È, dunque,
importante capire quando un prodotto è similare e quando è concorrente.
Secondo la Corte, la nozione di prodotto similare va interpretata con una certa elasticità, non in base
al criterio di assoluta identità, ma in base alla comparabilità d’impiego o analogia.
I prodotti si dicono similari quando, pur non essendo del tutto identici, hanno caratteristiche
intrinseche analoghe e quando soddisfano gli stessi bisogni del consumatore.
Una sent. del 1986 tratta un caso giurisprudenziale in tema, riguardante i vini da uva e i vini da frutta
in Danimarca: si trattava di stabilire se le imposizioni richieste dalla Danimarca sui vini da uva fossero
discriminatorie rispetto alle imposizioni più basse, applicate ai vini da frutta. Il problema si poneva
perché la Danimarca è un paese nel quale i vini da uva sono prevalentemente importati, mentre i vini
da frutta sono di prevalente produzione nazionale.
In questa sentenza la Corte ha affermato che, per stabilire se questi due prodotti sono similari, occorre
avere riguardo a due distinti aspetti:
• Le caratteristiche obiettive del prodotto: in relazione alle bevande bisogna andare a vedere
origine, processi di produzione, qualità organolettiche, gusto, gradazione alcolica, etc.
• Chiedersi se le due bevande rispondano o meno alle stesse esigenze dei consumatori.
In relazione ai vini da una e ai vini da frutta, la Corte ha stabilito che sono prodotti similari, perché:
• Sotto il primo profilo:
o sono prodotti ottenuti dallo stesso genere di base (prodotti agricoli),
o secondo un processo analogo (la fermentazione naturale),
o hanno analoghe caratteristiche organolettiche (gusto, gradazione alcolica, etc.).
• il diritto di soggiorno, qui la direttiva fa una distinzione tra i soggiorni fino a tre mesi e i
soggiorni oltre i tre mesi. Il primo disciplinato dall’art.6 di tale direttiva, il secondo dall’art. 7
della direttiva in questione. Per quanto concerne il soggiorno entro i tre mesi, i cittadini
dell’unione non devono rispettare alcuna condizione ulteriore rispetto a quelle che valgono per
l’uscita e per l’entrata, cioè è sufficiente il documento di identità o il passaporto in corso di
validità. Per il diritto di soggiorno superiore a tre mesi, occorre che il lavoratore esibisca alle
autorità dello stato ospitante oltre al documento, anche la conferma dell’assunzione da parte
del datore di lavoro oppure un certificato di lavoro. Se si tratta di soggetti economicamente
inattivi, lo stato ospitante può domandare di rispettare due requisiti: -risorse sufficienti per il
sostentamento personale; -il possesso di una assicurazione sanitaria che copre tutti i riesci nello
stato membro ospitante. La concezione che sta alla base di questi requisiti è la seguente, il
soggetto economicamente inattivo può soggiornare ma non deve gravare sullo stato sociale del
paese ospitante. Il paese ospitante può chiedere questi requisiti ma può anche non chiederli,
l’importante che non chieda requisiti in più. Cosa sono queste risorse economiche sufficienti? Si
tratta di una disposizione contenuta in una direttiva e quindi gli stati hanno un margine di
discrezionalità nella trascrizione e quindi ciascun paese membro da una sua definizione di
risorse economiche sufficienti rispettando sempre il principio della proporzionalità, per quanto
concerne l’Italia, in Italia si fa riferimento all’assegno sociale, cioè quel contributo erogato
dall’INPS ai soggetti che hanno più di 65 anni, i quali non raggiungono una certa soglia di
reddito, a questi soggetti va un assegno sociale che viene rivalutato ogni anno e che è
comunque molto basso, intorno ai 5000 euro annui, in Italia quindi vuol dire che si deve
disporre di circa 5000 euro annui per aver risorse economiche sufficienti. La soglia aumenta nel
caso in cui vi siano familiari a carico. Per gli studenti vi è poi un regime previsto dalla direttiva
più favorevole rispetto agli altri soggetti economicamente inattivi, poiché è previsto che lo
studente rilasci una semplice dichiarazione, con ciò voglio intendere che lo stato ospitante non
può chiedere allo studente la dimostrazione delle risorse economiche sufficienti e
dell’assicurazione sanitaria, ma può chiedere di rilasciare una dichiarazione in tal senso, negli
altri casi invece può essere chiesta la prova cioè di esibire alcuni documenti dai quali risulta che
si abbia un assicurazione e risorse economiche sufficienti, quindi la disciplina è differenziata.
Differenziata perché per i lavoratori subordinati per il soggiorno superiore a tre mesi occorre
che ci sia la produzione di un certificato di lavoro, quindi la prova dell’esistenza di un rapporto
di lavoro, in questo caso non si fa riferimento né all’assicurazione sanitaria né alle risorse
economiche sufficienti quindi anche un tirocinante con retribuzione inferiore al minimo
salariale ha diritto alla libertà di circolazione, anche un lavoratore part-time, per la semplice
circostanza di essere titolare di un rapporto di lavoro subordinato, il lavoratore non deve avere
l’assicurazione sanitaria poiché chi lavora contribuisce ad incrementare le risorse dello stato e
quindi può anche gravare sullo stato sociale del paese ospitante. Per quanto concerne i cittadini
economicamente inattivi invece no, questi soggetti devono avere risorse economiche sufficienti
e un’assicurazione sanitaria su richiesta dello stato ospitante, gli studenti hanno un regime
particolarmente favorevole perché è sufficiente che si attesti di essere in possesso di questi
requisiti. Per quanto concerne i lavoratori subordinati, la disciplina previgente (vigente fino
all’entrata in vigore della direttiva 2004/38) prevedeva il rilascio di una carta di soggiorno per la
durata di 5 anni, cioè prevedeva che il soggetto in questione chiedesse il rilascio di una carta di
soggiorno per 5 anni, e quindi questo soggetto doveva presentarsi di fronte alle autorità
competenti dello stato e domandare la carta di soggiorno il cui rilascio era subordinato alla
dimostrazione della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, questa carta era rilasciata
automaticamente una volta che il requisito era accertato, quindi non era un potere discrezionale
dello stato. La corte di giustizia ha poi affermato che la carta di soggiorno non aveva portata
costitutiva del diritto e quindi il soggetto che non richiedeva la carta di soggiorno era
sanzionato ma non espulso perché il diritto discende dall’art.45 non dalla direttiva del 1968
dalla quale discendeva la carta di soggiorno. Questo principio è stato enunciato dalla corte in
una sentenza del 1976, la sentenza Royer che riguardava un cittadino francese il quale aveva
preso dimora in Belgio e non aveva mai chiesto la carta di soggiorno, le autorità belga dopo
aver accertato che non ne era in possesso emanarono un provvedimento di espulsione, la
vicenda dava luogo ad un rinvio pregiudiziale e la corte di giustizia ha affermato che la carta di
soggiorno è un requisito richiesto da una direttiva e non dall’art.45, la direttiva può specificare
il diritto ma non può restringerlo pertanto la carta di soggiorno non po’ ritenersi costitutiva del
diritto di soggiorno del lavoratore subordinato e quindi l’assenza della carta di soggiorno può
dar luogo a sanzioni proporzionate che non possono coincidere con l’espulsione. Adesso la
carta di soggiorno non esiste più poiché la direttiva 2004/38 l’ha abolita, sostituendola con
l’obbligo di iscrizione presso le autorità competenti, la differenza sta nel fatto che la carta di
soggiorno era limitata a 5 anni e una volta scaduta si doveva chiedere una nuova carta di
soggiorno, l’obbligo di iscrizione presso le autorità competenti non è soggetto a questo limite
perché dopo 5 anni vi è il diritto di soggiorno permanente, quindi non è più necessario il limite.
Resta però fermo ed è espressamente previsto dalla direttiva 2004/38 che l’inadempimento
dell’obbligo di iscrizione rende l’interessato passibile di sanzioni proporzionate e non
discriminatorie, l’utilizzo del termine proporzionate esclude in radice la possibilità che il
soggetto il quale non adempie all’obbligo di iscrizione venga espulso dal paese ospitante.
Per il trattamento del lavoratore subordinato è rilevante il regolamento 492 del 2011. Relativamente al
profilo che ci interessa, il paragrafo due dell’art.45, il quale dice che la libertà di circolazione implica
l’abolizione di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità tra i lavoratori di uno stato membro
per quanto concerne l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro, è il più rilevante. Come
potete vedere si tratta di un divieto di discriminazione, anche detto principio del trattamento nazionale,
termine equivalente con principio di non discriminazione. Questo divieto di discriminazione si applica,
in virtù dell’efficacia sia orizzontale sia verticale, ai soggetti pubblici e a quelli privati, il che vuol dire
che la discriminazione non può essere contenuta neanche in un contratto. Anche in questo caso il
principio distingue le discriminazione dirette, quelle che hanno come punto di riferimento la
cittadinanza, da quelle indirette, quelle che anche se assumono punti di riferimento diversi dalla
cittadinanza finisce per avere un’efficacia sostanzialmente discriminatoria e questo principio è
espressamente sancito nel regolamento del 2011, il quale espressamente vieta le discriminazioni
indirette. In particolare l’art. 3 del regolamento 492 del 2011 dispone che non si possono applicare ai
lavoratori degli stati membri disposizioni che ne sottopongono l’impiego a limiti o condizioni che non
siano previsti ai lavoratori nazionali, oppure seppure applicabili senza distinzione di nazionalità hanno
per effetto esclusivo o principale di escludere i cittadini di altri stati membri agli impieghi offerti. Questa
è una definizione di discriminazione indiretta contenuta in un atto legislativo: discriminazione indiretta
è quella misura che sebbene applicabile senza distinzione di nazionalità abbia per scopo o per effetto
esclusivo principale di escludere gli altri cittadini degli stati membri dall’impiego offerto (art 3,par. B
reg. 2011/492). Esempi classici di discriminazione indiretta sono quelli relativi al criterio della
residenza o al criterio delle conoscenze linguistiche. Per esempio è stata ritenuta incompatibile con
l’art.45 del trattato una norma tedesca che prevedeva che una certa indennità potesse essere
riconosciuta soltanto ai soggetti i quali prima di essere assunti risiedevano in Germania, oppure ancora
venuta in rilievo di fronte alla corte di giustizia una disposizione italiana che ai fini della graduatoria di
un concorso pubblico prendeva in considerazione i lavori svolti pressi le amministrazioni pubbliche
italiane, quindi erano più avanti in graduatoria quei soggetti che avevano prestato servizio presso
amministrazioni pubbliche italiane rispetto a chi aveva svolto prestazioni lavorative presso
amministrazioni pubbliche di altri paesi membri poiché quest’ultimi non accedevano al beneficio. In
un'altra causa la corte doveva valutare la conformità al trattato di una norma francese che prevedeva la
riduzione dei contributi sociali per quei datori di lavori che assumevano giovani che avevano svolto un
tirocinio presso un istituto d’istruzione nazionale, quindi c’è un vantaggio per il datore che assume quei
soggetti che hanno svolto il tirocinio presso un istituto d’istruzione nazionale, la corte ha dichiarato che
si trattava di una discriminazione indiretta. Discorso a parte merita l’altro criterio, quello delle
conoscenze linguistiche, la questione qui è più controversa perché un buon livello di conoscenza del
paese ospitante può essere determinante per svolgere specifiche prestazioni di lavoro subordinato e
anche questo profilo è disciplinato dal regolamento 492 del 2011 che infatti esclude espressamente dalle
discriminazioni indirette le condizioni linguistiche richieste per ottenere un lavoro, tuttavia per stabilire
se è una limitazione all’accesso ad una posizione di lavoro fondata su una discriminazione linguistica
sia o meno compatibile con il trattato, dice la corte di giustizia che bisogna guardare la natura
dell’impiego offerto. Esempio tratto dalla giurisprudenza della corte di giustizia è la sentenza Groener
del 1989, la quale riguardava una normativa irlandese che richiedeva un certo grado di conoscenza del
gaelico, il gaelico è lingua ufficiale in Irlanda insieme all’inglese, qui c’era un’ insegnante, la quale
voleva essere assunta da un istituto professionale irlandese, questo soggetto conosceva l’inglese ma non
conosceva il gaelico e quindi veniva esclusa dalla possibilità di essere assunta dall’istituto in Irlanda,
allora la corte di giustizia ha dovuto valutare se il requisito linguistico richiesto fosse o meno una
discriminazione indiretta. La corte di giustizia ha detto che in considerazione al tipo di lavoro e del fine
che ci si propone di raggiungere attraverso l’introduzione di questo requisito, la misura irlandese non è
da ritenersi una discriminazione indiretta, è importante il fine poiché l’Irlanda si è difesa dicendo che il
gaelico è per loro un elemento di identità nazionale e un mezzo di espressione della cultura nazionale,
per cui la politica del governo è quella di promuovere l’uso della lingua gaelica, per cui la corte di
giustizia, tenuto conto di questi elementi ha affermato che stante la natura dell’impiego da svolgere il
requisito linguistico del gaelico era compatibile con il trattato e non poteva costituire una
discriminazione indiretta. Probabilmente se il lavoro fosse stato un lavoro alla catena di montaggio di
una fabbrica il requisito della perfetta conoscenza del gaelico sarebbe stato un requisito sproporzionato
e pertanto una discriminazione indiretta. Analogamente nella sentenza Angonese quella concernente il
patentino del bilinguismo, la corte di giustizia non si è pronunciata negativamente per il bilinguismo
ma il problema stava nei mezzi di prova del bilinguismo poiché poteva essere attestato soltanto da un
istituto della provincia di Bolzano.
12 DICEMBRE 2014
Il contenuto della libertà di circolazione dei lavoratori è divisibile in due profili: l’accesso e il
trattamento del lavoratore. Quanto all’accesso vige il divieto di ostacolare o frapporre ostacoli all’
accesso ad un’ attività di lavoro subordinato in un paese diverso da quello di origine.
L’ostacolo non deve essere necessariamente insormontabile, anche ostacoli dissuasivi sono
incompatibili con l’art 45.Per quanto riguarda il trattamento del lavoratore, vige un divieto non di
ostacolare ma il divieto di discriminazione diretta e indiretta, codificato dal regolamento 492 del 2011.
Il principio del trattamento nazionale, riguardo a tale principio ne abbiamo parlato nelle
discriminazioni indirette e in particolare della residenza e del requisito delle conoscenze linguistiche. Il
principio del trattamento nazionale riguarda ogni aspetto del rapporto di lavoro e il solito regolamento
del 2011 cita la retribuzione in quanto ci vuole una parità di trattamento nella retribuzione,il
licenziamento, la reintegrazione personale, i vantaggi sociali e fiscali; in realtà quello che rileva il
principio del trattamento del lavoratore sono i vantaggi sociali piuttosto che quelli fiscali, e infine
l’insegnamento professionale. Ci si può chiedere se questa è una lista esaustiva di aspetti relativamente
ai quali il lavoratore non deve essere discriminato, in realtà, quando si parla di liste di diritti non sono
mai esaustive ad ogni modo, all’ interno la lista contiene dei vantaggi sociali che sono del tutto
indefiniti secondo la giurisprudenza della corte.
Qualunque cosa potrebbe essere un vantaggio sociale, in particolare la corte ha affermato che sono
vantaggi sociali” tutte quelle misure connesse o meno all’ esistenza di un rapporto di lavoro di cui i
cittadini dello stato ospitante risultino i destinatari, in virtù delle loro condizione generale di lavoratori
o della semplice residenza sul territorio nazionale”. Quindi, qualunque aspetto della vita del lavoratore
è soggetta al principio di non discriminazione.
Gli esempi giurisprudenziali sono numerosi esempio: l’ agevolazioni fiscali legate alla nascita di un
figlio è un aspetto che non è strettamente legato al rapporto di lavoro però relativamente a questo il
cittadino che esercita la libertà di circolazione non deve essere discriminato rispetto al cittadino
nazionale.
Altri esempi sono le riduzioni per i biglietti ferroviari concesse alle famiglie numerose, le indennità di
disoccupazione e poi altri esempi che riguardano le normative dei posti di lavoro durante il periodo di
servizio militare, l’alloggio, l’assegnazione di una casa popolare quest’ultimo, infatti, è un vantaggio
sociale in quanto non legato direttamente al rapporto di lavoro.
Quindi tutto ciò che rientra nella sfera giuridica del soggetto, della libertà di circo9lazione dei
lavoratori, è soggetto al principio di non discriminazione perché può ricondursi alla nozione di
vantaggio sociale.
Il regolamento 492 del 2011 contempla anche espressamente alcuni diritti, in particolare i diritti
sindacali i quali sono disciplinati dall’art 8 del 2011, l’art 8 dispone che il lavoratore cittadino di uno
stato membro occupato sul territorio di un altro stato membro, gode della parità di trattamento per
quanto riguarda l’iscrizione alle organizzazioni sindacali, e l’esercizio dei diritti sindacali ivi compresi
il diritto di voto.
Sembra fare riferimento all’esercizio di un diritto passivo, ma in realtà non è cosi perché il lavoratore
può accedere ai posti amministrativi e direttivi di un’organizzazione sindacale, quindi può fare il
sindacalismo attivo con il limite che è riconducibile al paragrafo 4 dell’art 45, riguardante i lavori
presso la pubblica amministrazione.
Per tali lavori si intendono quelle posizioni che implicano l’esercizio dei pubblici poteri, per esempio
l’Italia potrebbe riservare ai suoi cittadini il segretariato del rappresentanze sindacali nazionali.
Ricongiungimento Familiare.
Non è una novità del diritto derivato, era già previsto dal regolamento del ’68 n° 1612 , poi abrogato
dalla direttiva 2004 /38.
Questo vuole dimostrare come il lavoratore sia una persona umana a tutto tondo e non un fattore della
produzione.
Questo inizia nel ’6, si pensi che già nel ’68 era previsto il ricongiungimento familiare e si
consideravano aspetti della vita del lavoratore comunque distinguibili da quelli afferenti al rapporto di
lavoro.
La direttiva del 2004/38 ha abrogato gli articoli relativi al regolamento 1612 concernenti il
ricongiungimento familiare e a oggi e lei che disciplina la materia e si occupa sia dei familiari dei
cittadini di stati membri dell’U.E., sia dei familiari che sono cittadini di stati terzi.
Le due situazioni sono differenti, perché il familiare del cittadino dello stato membro dell’U.E. oggi,
anche se un soggetto economicamente inattivo, benefica della libertà di circolazione; mentre diverso è
ilcaso dei familiari di cittadini di stati terzi, questi soggetti non avrebbero un diritto autonomo di
soggiorno e di circolazione nell’U.E. per cui il diritto discente dal familiare o ad esempio dal coniuge.
Si conferisce ai familiari il diritto di stabilirsi con il lavoratore cittadino di uno stato membro,
qualunque sia la cittadinanza.
Il regolamento del ’68 definiva questo diritto come un diritto strettamente ancillare rispetto al diritto del
lavoratore.
La natura del diritto ancillare comporta che rescisso il legame di familiarità, per esempio a seguito di
divorzio, oppure a seguito di decesso di lavoratore, veniva meno del tutto ogni diritto del familiare.
La direttiva del 2004 ha attenuato questo rapporto di ancillarieta, la quale consente al familiare di
restare a certe condizioni, in caso di decesso o di divorzio o di annullamento di matrimonio, e in questo
caso la direttiva distingue dal decesso il caso di annullamento del matrimonio o del divorzio.
Nel primo caso, per i cittadini comunitari il decesso non incide sul diritto sdi soggiorno, per quanto
concerne i familiari che sono cittadini di stati terzi, questi conservano un diritto di soggiorno purchè
abbiano soggiornato almeno per un anno prima del decesso del loro familiare cittadino comunitario.
Tuttavia devono dimostrare o di esercitare un attività lavorativa oppure possedere risorse economiche
sufficienti e assicurazioni malattie.
Nei casi di divorzio o annullamento matrimonio la disciplina è più restrittiva, all’art 13 prevede una
serie di condizioni , tra cui si dice che il matrimonio deve essere durato almeno tre anni di cui almeno
uno nel paese ospitante, diversamente non si conserva il diritto di soggiorno .
Familiare non è soltanto il coniuge e quindi chi sono i familiare del lavoratore che esercita la libertà di
circolazione ? il regolamento del ’68 diceva che i familiari sono il coniuge, i discendenti di età inferiore
a 21 anni , i discendenti a carico anche di età superiore a 21 anni e poi gli ascendenti a carico.
La direttiva del 2004 ha conservato queste categorie ma ne ha aggiunte delle altre. Ha esteso a nozione
familiare ai figli del coniuge nonché agli ascendenti del coniuge e poi ha introdotto delle novità
riguardo al partner non coniugato.
Per quanto concerne la situazione spinosa del partner non coniugato, questa non era presa in
considerazione dal regolamento del ’68.
La corte di giustizia se n’era occupata nella sentenza REED del 1986 e in quella occasione aveva
escluso che la nozione di coniuge potesse riguardare il partner non coniugato; ma la corte di giustizia
aggiungeva che la facoltà di farsi raggiungere dal proprio partner doveva ritenersi un vantaggio sociale,
relativo al vantaggio sociale il principio è quello di non discriminazione.
La disciplina 2004/38 ha formulato una categoria del partner coniugato, dove per partner coniugato ci
deve essere almeno un unione registrata.
In Italia le unioni registrate non ci sono, diversamente dalla Francia e dalla Spagna. Chi ha contratto
un unione registrata non ha diritto al ricongiungimento incondizionato, ha un diritto al
ricongiungimento soltanto sé nel paese ospite le unioni registrate sono equiparate ala matrimonio.
La questione dell’alloggio, anche qui la direttiva 2004/38 è più avanzata rispetto al regolamento del
’68, perché tale regolamento subordina il diritto al ricongiungimento familiare al requisito di una
disponibilità di un alloggio che sia considerato normale per i lavoratori nazionali.
Questo requisito è stato eliminato dalla direttiva e in più il diritto al ricongiungimento familiare non
implica neanche un obbligo di convivenza ( coniugi separati).
Importante è stata la sentenza UeKer riguardanti due cittadini tedeschi i quali richiedevano il
ricongiungimento familiare con i loro coniugi che erano rispettivamente Norvegese e Russo. La corte
di giustizia ha affermato, che in una situazione del genere è una situazione puramente interna.
Se si tratta di un familiare comunitario gli si applica l’articolo 18 TFUE il quale prevede che
nell’ambito dell’ applicazione del trattato sono vietate le discriminazioni sulla base della nazionalità .
invece, il famliare che non è cittadino comunitario la corte di giustizia ha affermato che si applica il
principio di non discriminazione questo principio però non discende dall’art 18 del TFUE ma discende
dalla nozione di vantaggio sociale e quindi cosi si arriva alla parità di trattamento.
Oltre al principio della parità di trattamento il diritto derivato prevede per il coniuge e per i figli alcuni
diritti in modo espresso, in particolare questi soggetti hanno il diritto ad accedere a qualsiasi attività
subordinata sul territorio dello stato, i figli dei lavoratori hanno il diritto di frequentare i corsi di
insegnamento generale di apprendistato e di formazione professionale che si tengono negli stati membri
art 10 del regolamento, gli stati membri devono incoraggiare tale iniziative dirette ai giovani a
frequentare i corsi nelle migliori condizioni.
La corte di giustizia ha interpretato estensivamente queste nozioni, quindi il diritto di accedere ai corsi
comporta il diritto di vincere borse di studio. La parità di trattamento si estende anche nel caso i cui la
formazione del figlio sia fornita in uno stato membro diverso da quello ospitante.
I trattati comunque non si occupano dei familiari ma ci si arriva grazie al diritto derivato.
LE GARANZIE.
Nel caso Calfa l’espulsione era a vita, vedremo che questo non è possibile poiché la direttiva 2004/38
prevede una serie di garanzie e una possibilità di riammissione nello stato che ha emanato tale
provvedimento.
I provvedimenti di espulsione o di diniego d’ingresso devono essere notificati per iscritto all’interessato
in questa comunicazione si devono indicare i motivi circostanziati per i quali gli si irroga tale
provvedimento restrittivo.
Questo serve per un eventuale impugnazione e infatti deve essere indicato anche l’organo a cui
rivolgersi per un eventuale impugnazione e deve essere indicato il termine per abbandonare il territorio.
Questo termine non può essere inferiore ad un mese fatti salvi i casi di urgenza.
Quanto all’impugnazione, l’interessato ha la facoltà di accedere a mezzi amministrativi o giudiziari per
l’impugnazione al fine di chiedere l’annullamento o la revisione del provvedimento.
La direttiva precedente ammetteva che poteva soltanto essere chiesto un provvedimento di legittimità
del provvedimento restrittivo, invece la direttiva attuale estende la tutela perché prevede un controllo
giurisdizionale riguardo al merito del provvedimento restrittivo.
Per quanto riguarda la durata del provvedimento restrittivo, sono infatti inammissibili provvedimenti a
vita come quello della signora Calfa.
A questo proposito la corte di giustizia ha affermato che la domanda di riammissione deve poter essere
presentata dal soggetto e deve essere esaminata dall’autorità amministrativa dello stato ospitante il
quale deve prendere in considerazione se sussistono ancora, in base al comportamento del soggetto, le
condizioni di pericolosità che avevano giustificato il provvedimento di restrizione.
La direttiva 2004/38 codifica tale principio nell Art 32 “ la persona nei cui confronti è adottato il
provvedimento di divieto dopo un determinato periodo e ad ogni modo dopo tre anni dimostra il mutamento delle
circostanze che hanno determinato il divieto d’ingresso”.
Ultima deroga è quella del paragrafo 4 dell’art 45. Dice l’Art 45 al comma 4 che le disposizioni del presente articolo
non sono applicabili agli impiegati P.A . qual è la ratio ? si vuole evitare che l’attività della P.A. sia condotta da
cittadini stranieri, la deroga però è formulata in termini troppo ampi perché attività della P.A. può essere qualunque
cosa.
In realtà la norma vuole fare riferimento a quei lavori che implicano dei pubblici poteri. Non esistono delle
elencazioni esaustive di tali lavori però a tal proposito è utile un documento della commissione, una comunicazione (
Atto atipico non vincolante ), e ,a ,elencato alcuni settori della P.A. che certamente rientrano nella deroga ad
esempio la funzione del magistrato, del diplomatico e ripresa nell’elenco anche l’amministrazione finanziaria , le
forze armate le forze dell’ordine .