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Il comico senza festa: Poesie della fine del mondo e invettiva

1. Per i lettori di Delfini, nulla è più familiare dell'uso che questo autore fa – in luoghi
del testo produttivi di ideologia – del periodo ipotetico (in specie quello della
possibilità o dell'irrealtà). Basti pensare all'inizio, felicissimo, della prefazione a Il
ricordo della Basca: «Se avessi avuto altri amici, o non li avessi avuti affatto, sarei
diventato un grande narratore, prima della caduta del fascismo; e dopo lo sarei
rimasto»1.
Vero e proprio sigillo ideologico, il periodo ipotetico, in Delfini, non revoca solo in
giudizio la realtà nella sua gradazione e consistenza ontologica; appare anche una
sorta di elemento impiegato per inquadrare la testualità conferendogli, entro certi
limiti, uno statuto (sempre pericolante) di totalità autosufficiente e riflessiva 2: quasi ci
fosse la necessità di infittire espedienti di tipo logico, retorico e macrotestuale di
incorniciamento3 per guadagnare alla scrittura una sua pur minima parvenza di
autonomia rispetto al gorgo della insignificanza in cui la testualità sembra sempre sul
punto di ricadere. Non è un caso che tanta attenzione Delfini dedichi alle soglie del
testo – prefazioni, note, introduzioni – e perfino a costruirne, appunto attraverso i
periodi ipotetici, di interne al testo stesso: «A ripensarci dico che se avessi allora
tenuto un journal non avrei potuto avere il tempo di vivere, né l'estro di creare, quei
veri racconti, vivendo i quali non ho avuto il tempo di scriverli»4.
Non c'è niente che, in linea di principio, possa distinguere la realtà dalla sua
rappresentazione (dopo tutto capita continuamente, nella vita, di incontrare
personaggi che starebbero bene in un romanzo, figure da operetta, momenti di
poesia); né dare una chiara idea di ciò che, nel testo o nella realtà, sia l'esperienza del
poetico. Per Delfini la letteratura è una forma dell'esperienza; ma esperienza letteraria
ed esperienza della realtà restano radicalmente scollegate, unite solo da un soffio di
voce: anche se, in un certo senso, poiché la realtà è sempre costituita da un tempo
fatto di necessità e contingenza, di attuale e virtuale, le virtualità irrealizzate e
inesperite incombono sulla sostanza dell'esperienza, e quindi della testualità,
imprimendovi la loro traccia o scia solo a prezzo del realizzarsi di una sorta di piccolo
miracolo epifanico (l'entonces della Basca).
La scrittura, per Delfini, è, quindi, un problema di realismo 5; il realismo consiste nella
dicibilità della realtà, declinata in termini di liceità e possibilità: un tentativo disperato
di porre sulla stessa lunghezza d'onda il testo dell'esistenza e quello della scrittura
1 Antonio Delfini, Il Ricordo del Ricordo, in Autore ignoto presenta, a cura di Gianni Celati, con un
saggio di Irene Babboni, Torino, Einaudi, 2008, p. 209. Il dispositivo ideologico sotteso a quest'uso
del periodo ipotetico è stato rilevato tra gli altri da Ginevra Bompiani (Il passato eventuale, in
«Riga», 6, 1994 [«Antonio Delfini», a cura di Andrea Palazzi e Marco Belpoliti], pp. 278-281), e
Gianni Celati (Antonio Delfini ad alta voce, in Autore ignoto presenta, cit., p. XXX).
2 Una dimensione di riflessività, parodica ironica, è segnalata in Delfini, tra gli altri, da Cesare
Garboli (La bicicletta di Delfini, in «Riga», cit., p. 265), che la designa con il nome di
«metalinguismo». Il rilievo è ripreso da Celati (Antonio Delfini ad alta voce, cit., pp. XXIII-XXV).
3 Può essere considerato un espediente di incorniciamento anche la metalessi, di cui ampiamente
discetta Stefano Calabrese (Antonio Delfini verofinto. Una metalessi italiana, Udine, Forum, 2007).
4 Antonio Delfini, Il Ricordo del Ricordo, cit., p. 213.
5 Nei Diari, viene elencata una serie di problemi relativi alla scrittura, tra cui quello «del realismo o
Realtà» (Antonio Delfini, Diari 1927-1961, a cura di Giovanna Delfini e Natalia Ginzburg,
Prefazione di Cesare Garboli, Torino, Einaudi, 1982, p. 166).

1
letteraria. Il metro del realismo, come mostra il fatto che Delfini nel lacerto citato
parli di «veri racconti», consiste nella dimensione dell'autenticità: un criterio che
mescola in modo spurio elementi di natura etica con elementi di natura estetica.
Proprio per la rilevanza di questa particolare firma stilistica che è in Delfini il periodo
ipotetico dell'irrealtà, si può forse cominciare il discorso sulle Poesie della fine del
mondo6, unico libro di poesia licenziato da Delfini (salvo l'autoedizione giovanile
delle Poesie del Quaderno n.1), segnalando un periodo ipotetico di tutt'altra fatta –
per inciso, della possibilità –, rispetto a quelli che normalmente ne abitavano la
testualità:
Mi spiacerebbe molto che tu fossi matta
perché non potrei più dirti sozza e immonda
come davvero sei – e del resto rimarresti
anche in galera in miseria o al manicomio.
Se tu ti ammalassi e tu chiedessi pietà...
che orrore dovertela concedere, che orrore!
Non ti ammalare – ti prego – non ti rinsavire
non diventare santa non ti riscattare!
Sarebbe veramente schifoso doverti perdonare.
La mia vendetta che domando per te è questa:
come adesso sei e fosti, stronza resta! (PFM, 128-129, corsivo mio).

Se il frammento e lo stilema appena documentati sono in qualche modo produttori di


un'ideologia testuale, si tratta di un'ideologia radicalmente differente da quella che
appariva attraverso le citazioni precedenti: alla ricerca dell'autenticità nelle virtualità,
non attualizzate, che abitavano il passato, ora Delfini oppone l'individuazione e messa
alla berlina dell'inautenticità nell'attualità. Delfini postula pertanto un nuovo modo di
esistenza della realtà, cui corrispondono modalità espressive inusitate; se
normalmente virtualità non attualizzate nel passato arricchiscono e completano
l'esperienza narrata della realtà, conferendole una forma poetica, attraverso le risorse
stilistiche dell'evocazione elegiaca dell'eventuale, qui al contrario le virtualità non
attualizzate nel presente vanno addirittura scongiurate come una minaccia, in quanto
spoetizzanti, e soprattutto con la minaccia: con l'invettiva7 e la maledizione, prodrome
e funzionali a una damnatio memoriae. La forma definitiva raggiunta dalla realtà va
fissata, in questo caso, in una sua immobilità priva di alternative possibili: se prima
Delfini cercava di rappresentare/ricordare la realtà nel modo più autentico, ora cerca
di agire in essa e su di essa attraverso la letteratura.

6 Tre sono le edizioni delle Poesie della fine del mondo: una prima sotto gli auspici di Giorgio
Bassani (Milano, Feltrinelli, 1961); una seconda, dal titolo Poesie della fine del mondo e Poesie
escluse, a cura di Daniele Garbuglia, Introduzione di Giorgio Agamben, Macerata, Quodlibet, 1995,
e, infine, Poesie della fine del mondo, del prima e del dopo, a cura di Irene Babboni, Prefazione di
Marcello Fois, Torino, Einaudi, 2013, da cui si citerà, impiegando l'acronimo PFM seguito
immediatamente dal numero di pagina.
7 È stato tra gli altri Eugenio Miccini a insistere sulla novità costituita dall'impiego dell'invettiva:
«Leggendo le Poesie della fine del mondo […] ho trovato due cose che, prima di Delfini, non
c'erano nella letteratura: il gergo tecnologico e forse l'invettiva. L'invettiva, se anche c'era già stata,
non era mai stata così sincera, così poco letteraria» (Testimonianze dell'avanguardia, in Antonio
Delfini. Testimonianze e saggi, a cura di Cinzia Policelli, Iconografia a cura di Franco Vaccari, con
un contributo di Natalia Ginzburg, Bologna, Mucchi, p. 212).

2
È dunque nella frattura tra queste due differenti modalità d'uso del periodo ipotetico
(in quanto esprimenti due modi differenti di demarcare la realtà) che si situa la svolta
che conduce Delfini ad adottare una nuova postazione soggettiva, non più rivolta
verso il passato8, che lo condurrà alla redazione integrale di PFM.

2. Ci si dovrebbe allora chiedere perché Delfini esperisca il suo ritorno pubblico alla
poesia – o meglio, il suo approdo, vista l'esiguità delle pubblicazioni precedenti –
secondo modalità del tutto dissimili da quanto tentato prima, e adottando un tipo di
testualità poetica tutt'altro che canonica: per sua stessa definizione, le poesie che
Delfini scrive sono infatti «poesie satiriche»9.
La satira, nella poesia italiana del Novecento – e non solo – , nonostante alcuni
tentativi di antologizzazione, è un genere decisamente minoritario, in parte privo di un
completo riconoscimento estetico10.
In una sorta di inversione, la prosa di Delfini sembra ritenere, tra i molteplici elementi
che la caratterizzano, quei tratti di espressione estatica della tonalità emotività del
soggetto lirico che normalmente pertengono alla poesia. Mentre in poesia Delfini ha
dato vita, tra altre cose, all'espressione di una tra le più inusitate tonalità emotive
nell'ambito della poesia novecentesca: la collera 11. Va sottolineato che, nelle PFM,
l'elemento satirico (ma più generalmente: comico) si pone in stretta relazione con
l'espressione di questa emozione, diventando anzi quasi un tentativo di giustificazione
e normalizzazione – oltre che, in modo paradossale, di amplificazione – di quella
forma discorsiva che con più frequenza contrassegna le PFM: l'invettiva12.
Scrivere la storia di come, in vari modi, la testualità lirica, abbia tentato un
rinnovamento delle proprie categorie e confini formali è un tentativo ancora in parte
da realizzare. Lo si è fatto in particolare per quanto concerne il graduale
decentramento del Lyrisches Ich, o, d'altra parte, il dialogo con le dimensioni della
prosa e dell'oralità; meno per quanto riguarda determinati aspetti che potremmo
definire di pragmatica linguistica: la forza illocutiva e gli aspetti performativi dei testi
poetici, con i corrispettivi atti (o gesti) lirici; le modalità di declinazione di quello che
8 Pasolini (Delfini [1963], in «Riga», 6, cit., pp. 246-247) ha sottolineato con forza il legame di
Delfini con il tema del passato.
9 Così l'autore definisce i suoi testi poetici in una lettera a Gualtiero Verdoni pubblicata in Antonia
Ravasi, Circostanze della mala poesia di Antonio Delfini, in «Poliorama», 2, 1983, p. 181.
10 Si segnalano, tra l'altro, Poesia satirica dell'Italia d'oggi, a cura di Cesare Vivaldi, Parma, Guanda,
1964, e Veleno. Antologia della poesia satirica italiana contemporanea, Roma, Savelli, 1980.
Entrambe le antologie ospitano testi di Delfini. Sul tema della satira nella poesia contemporanea, e
sulle motivazioni del declino della poesia satirica nel Novecento, si può consultare Timothy Steele,
Verse satire in the Twentieth Century, in A companion to Satyre, edited by Ruben Quintero, Oxford,
Blackwell, 2007, pp. 434-435.
11 Sulla questione dell'espressione verbale della collera, si può leggere Algirdas J. Greimas, Della
collera, in Del senso 2. Narrativa, Modalità, Passioni, Milano, Bompiani, 1994, pp. 238. Delfini è
perfettamente riconoscibile nel percorso patemico che porta dalla frustrazione allo scontento
all'aggressività, e che conduce pertanto al programma narrativo della vendetta.
12 Sul tema dell'invettiva nella letteratura italiana contemporanea si può consultare il volume
L'invective. Histoire, forme, stratégies, Saint-Étienne, Publications de l'université de Saint-Étienne,
2006: il volume fa riferimento in particolare a Palazzeschi, a Gadda, a Pasolini, Caproni e Sereni.
Sul tema dell'invettiva si può anche consultare Invectives et violences verbales dans le discours
littéraire, Sous la direction de Marie-Hélène Larochelle, Lévis, Les presses de l'Université Laval,
2007.

3
i francesi chiamano l'adresse lyrique; l'espressione di forme di emotività che esulino
da quelle consuete per la poesia novecentesca (che in disordine potrebbero essere:
estasi idillica, rammemorazione elegiaca, metatestualità, lutto).
È vero che il secondo Novecento apre il testo poetico all'accoglimento di forme
ulteriori rispetto a quelle canonizzate; come registra Fortini, con il consueto acume
moralistico, nel 1955: «L'enorme falsità del presente rende possibile l'ironia, la satira,
l'epigramma»13. In effetti, forme di poesia epigrammatica e satirica vengono praticate
in vari ambiti culturali, in particolare nella seconda metà degli anni Cinquanta: e i
tentativi conoscono anche sedi istituzionali, come la rivista «il Caffè» di Giambattista
Vicari, su cui appunto compaiono le PFM. Ma quello che distingue le PFM è la
frequenza d'uso dell'invettiva, accompagnata da un impiego sistematico di effetti di
tipo comico: riconducibile a un'intenzionalità anticanonica è dunque la totalità del
libro, e l'uso dell'invettiva si fa regola, nel testo, e non eccezione, come invece accade
negli autori sopra elencati. Eccezionale, in questo senso, diventa il libro stesso, e con
questo la pratica poetica nella sua interezza, non tanto il singolo testo epigrammatico
o la singola sezione epigrammatica rispetto alla totalità elegiaca: l'eccezione di Delfini
non conferma la regola (storicamente, si può dire che, in poesia, le eccezioni che non
confermano la regola, vengono ricondotte a un'intenzionalità comica).

3. È noto, e i Diari ne dànno ampia conferma, che Delfini coltivò una passione
amorosa bruciante e violentissima, sul finire del 1958 e all'inizio del 1959, per una
giovane donna parmigiana, Luisa B.: dalla delusione conseguente nascerà il grosso
delle PFM. Tuttavia, come opportunamente segnala Daniele Garbuglia 14, e
denunciano le date apposte in calce ai testi, la redazione delle PFM comincia ben
prima dell'incontro con Luisa B., e il tono di invettiva, nell'ambito della testualità
poetica, non è inaugurato dal travaglio personale, dovuto alla delusione amorosa, ma
dall'indignazione civile (tanto che poesie «rivoltose»15 è uno dei nomi con cui Delfini
indica i testi di PFM).
Ne consegue una congerie disparata di testi posti in sequenza cronologica, che accosta
le due isotopie dell'indignazione civile e dell'espressione (apparentemente)
incontrollata del rancore personale senza soluzione di continuità: sicché parrebbe che
gli unici elementi di organizzazione macrotestuale siano i paratesti, che forniscono
una chiave di lettura dell'accostamento nella qualità di simbolo della vicenda
personale («“È lei la causa della fine del mondo. È la donna, che ha fatto perire ogni
cosa”. Quella signora che lo sta osservando mentre muore è il simbolo del rimorso,
della frode e del peccato» PFM, 97), mentre l'espressione della collera privata,
scandita nella sua sequenza temporale, trasforma il libro in un journal intime dell'ira.
Insomma, le PFM sono un libro dalla scarsa consistenza macrotestuale, in cui appare

13 Franco Fortini, Allegato: L'altezza della situazione o perché si scrivono poesie [1955], in Gian
Carlo Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta. Saggio introduttivo,
antologia della rivista, testi inediti e apparati, Torino, Einaudi, 1975, p. 182.
14 «Già nel novembre del 1958 Delfini aveva iniziato a scrivere, a Modena, una prima serie di “Poesie
della fine del mondo”, mentre la rottura con Luisa B. è segnata nel diario del 4 marzo 1959»:
Daniele Garbuglia, Nota del curatore, in Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo e Poesie
escluse, cit., p. 125.
15 La definizione compare in un'altra delle lettere a Gualtiero Verdoni apparse in Antonia Ravasi,
Circostanze della mala poesia di Antonio Delfini, cit., p. 174.

4
in tutta la sua contraddittorietà il cambio di passo tra momento civile e momento
privato.
Non è un caso che l'operazione editoriale di Bassani passi attraverso una serie di
excusationes non petitae: «Adesso, a cinquant'anni di età, Antonio Delfini esce con un
libro di versi: e, date le premesse, la cosa potrà sorprendere soltanto coloro che
continuano a credere a vocazioni poetiche ferreamente distinte per generi letterari» 16.
Ancora: «Le sue parolacce, i suoi turpi calembours, i suoi versi scempi e zoppi: ci par
già di sentir la voce di chi gli rimprovererà tutte queste cose, praticando, per
distinguere la poesia dalla non-poesia, la solita vieta distinzione dei contenuti e delle
forme. Noi, dal canto nostro, siamo del parere che ai poeti autentici, come ai santi, sia
concesso proprio tutto: la bestemmia, comunque, in primo luogo» 17. All'invettiva,
insomma, sorta di bestemmia contro la poesia, va preparato indubbiamente il terreno;
le poesie vanno giustificate: quasi avessero violato una serie di regole deontologiche
della testualità lirica. Pare del resto che Bassani, in qualità di paradigma di
comprensione della stilistica del rancore e della collera che emerge dal testo, si senta
costretto a esibire l'idea (leopardiana e anceschiana) di una poesia come aumento o
supplemento di vitalità.
Anche Delfini, dal canto suo, pur avendo in buona parte abolito, nel testo, quegli
effetti di inquadramento così frequenti nella restante sua produzione, adotta due
paratesti giustificativi che funzionano anche come dispositivi di legittimazione di una
testualità avvertita come anticanonica (e comica anzitutto in questo senso). Importa il
fatto che, nella Premessa, che trasforma la temporalità della «fine del mondo» nella
giustificazione espressiva della testualità eslege esibita, l'espressione «il poeta» venga
impiegata da Delfini, rigorosamente in terza persona, per almeno 8 volte nell'esiguo
spazio di una paginetta (PFM, 97). Così pure avviene nella nota di chiusura, tutta
centrata sul concetto di «vita reale» (PFM, 169).
La trasformazione molecolare dunque di un'autorialità riconosciuta come narrativo-
prosastica in una lirica, marcando in qualche modo la continuità tra le due identità, è
quindi il passo previo per poter fornire al pubblico una poesia come quella delle
PFM18.
Si tratta del resto di un passo compiuto con molta più autocoscienza di quanta non si
sarebbe portati a credere. È noto l'aneddoto, riferito da Garbuglia e Portinari 19,
secondo cui Delfini si sarebbe autodenunciato, tramite una lettera indirizzata al
Procuratore della Repubblica, alla censura: benché rappresenti certamente una mossa
avventata, in una certa ottica va assunta come funzionale alla pianificazione della
trasformazione di Delfini in un autore, scandaloso, di poesia: un autore alla

16 Giorgio Bassani, Poesie della fine del mondo, in «Riga», cit., p. 244. Il testo uscì come nota
editoriale non firmata alle PFM.
17 Ivi, pp. 244-245.
18 Non a caso Bassani sottolinea poi la parentela tra le due scritture, e Delfini chiude le Note
affermando: «Io, poi, non per vantarmi, ho dimostrato in quella poesia di avere una buona vena di
romanziere, nonché di drammaturgo» (PFM, 170).
19 «Era tale la convinzione di aver messo in piedi un'operazione scandalosa, che Delfini creò da solo
un caso, abnorme e assurdo a giudicarlo a mente fredda, ma sintomatico del grado d'ira che v'era
dentro: inventò un ordine di sequestro del suo libro da parte del Procuratore della Repubblica di
Milano, al quale scrisse per chiederne ragione» (Folco Portinari, La “mala poesia” di Antonio
Delfini, in Antonio Delfini. Testimonianze e saggi, cit., p. 230n).

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Baudelaire, per intenderci. Un eventuale provvedimento avrebbe, per Delfini, assunto
il ruolo di ulteriore giustificazione estetica.
La risposta della critica a questa trasformazione molecolare, è sintomatica. Giacinto
Spagnoletti, per esempio, chiude la sua recensione con le seguenti parole: «La satira
impone altro rigore, non può fermarsi allo scherzo o allo sfogo» 20; nonostante
l'annessione al genere satirico. la parola sfogo rimanda immediatamente a una
condanna di fronte alla dimensione privata che caratterizzerebbe il testo delle PFM
(curiosa in chi, d'altronde, avrebbe giustificato senza battere ciglio invece l'operazione
compiuta in Lettere d'amore, dove veniva esibita la corrispondenza privata inviata a
Luisa B.). Insomma, si tratterebbe di una satira non abbastanza satirica, mentre la
sostanza privata della testualità fa problema in quanto esibita in una totalità che
veicola modalizzazioni patemiche di tipo collerico.
Anche in seno ai cultori della letteratura satirica questa testualità invettivale viene
avvertita come spuria. Ecco quanto asserisce Cesare Vivaldi:

Delfini mescola in modo del tutto inconsueto vita privata e vita letteraria, tentando di riscattare in
quest'ultima i drammatici, spesso squallidi problemi che non era riuscito a risolvere nella prima. La sua
pagina scritta, spesso, non è che immediato sfogo sentimentale, letterariamente sordo, ma capace tante
volte di raggiungimenti di un'acutezza e di una finezza (forse proibiti a un letterato "professionista")
che ne fanno una personalità di primissimo piano. Questo avviene solo quando tra "umore" e necessità
espressiva si determina una reale coincidenza, coincidenza non frequentissima nelle poesie, scritte
dopo una bruciante delusione sentimentale e cariche di una passionalità che non riesce sempre a
risollevarsi dal piano dell'invettiva pura e semplice. Nonostante i loro limiti, le Poesie della fine del
mondo sono state però, a mio avviso, un caso letterario non abbastanza valutato dalla critica; e la
rovente materia cara all'ultimo Delfini (l'insulto, la scatologia, persino la coprofilia) in parecchi versi si
trasfigura, si schiarisce in una sorta di stralunata, lucente fissità21.

È in atto in questo lacerto un paradigma di comprensione dell'invettiva basato


sull'idea di trasfigurazione: l'invettiva non può essere «pura e semplice», cioè non può
essere realmente tale, per poter essere delibata dal punto di vista della ricezione di un
testo poetico. È dubbio che in questo libro il livore personale, l'umore non si accordi o
non si incontri con le «necessità espressive» del poeta; così come pare pretestuoso il
limitare la portata e la validità di questa poesia per la sua insistenza sull'elemento
autobiografico: semmai, è l'invettiva in sé stessa che è di difficile metabolizzazione
per la poesia del Novecento (mentre veniva percepita come del tutto normale nella
poesia dell'Ottocento). La satira novecentesca (anche quella che emerge dall'antologia
di Vivaldi) si basa soprattutto sulla deformazione caricaturale di segmenti
rappresentativi della società; in Delfini più della caricatura, è la dimensione della
violenza collerica, anche dell'insulto a fare il verso. L'indignazione qui, nel fare il
verso, fa il salto fuori della normalità poetica secondo-novecentesca. Sbrigativamente,
si può dire allora che questa poesia è satirica solo in minima parte, in massima parte
comica.

4. Non è troppo difficile, in realtà, comprendere come Delfini sia pervenuto


all'invettiva in versi. Nei Diari, infatti, sono diverse le occasioni in cui l'autore
20 G.[iacinto] S.[pagnoletti], Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo, in «Espresso mese», II, 3,
marzo 1961, pp. 90-91.
21 Cesare Vivaldi, Introduzione, in Poesia satirica dell'Italia d'oggi, cit., pp.XIX-XX.

6
impiega questo registro. Lo stesso Delfini ne è cosciente: «Sono tutte note; poesie;
abbozzi di racconti; scritture gettate sulla carta per passare il tempo senza pensiero e
senza applicazione; frasi còlte a volo a passeggio in treno in bicicletta o stando con le
mani in mano mentre fluiva il tempo; amenità, invettive, silenzi, bronci, amori, viaggi,
dolori ecc. / Potrà mai giustificarsi una simile opera?»22.
L'invettiva tuttavia non è maggioritaria, fino al 1961, nei testi editi licenziati
dall'autore; ma se può senz'altro citare un esempio, di grande efficacia stilistica, che
compare in Il Ricordo del Ricordo:

Attenzione, sozzi professionisti fascisti dopo il delitto Matteotti e antifascisti dopo la morte di
Mussolini, autori, ispiratori e provocatori del bollettino dei protesti, ladri di vecchie signore, turpi spie
del governo fascista (e di tutti i governi), vecchi sporcaccioni cornuti fino al midollo della vostra fronte
sfrontata, attenzione, c'è sempre qualcosa (anzi, c'è sempre tutto!) che il vostro cervello privo di
immaginazione, con la vostra fantasia da elefanti, col vostro cuore ateo, con la vostra cultura
inesistente e con quella vostra erudizione, che persino il genio di Manzoni non sarebbe riuscito a
percepire, attenzione... c'è sempre qualcosa, per tutti, e anche per voi ci sarà... prima e dopo la
morte!23.

La ripetizione lessicale, e persino successivamente la rima («rotte le botti - le vostre


mogli - come vecchie gatte - renderan dirotti - i vostri pianti secchi - voi figli di
becchi»24), testimoniano di una lingua e di uno stile che si abbandonano a un non del
tutto sorvegliato automatismo di scrittura, quella che si potrebbe definire una
testualità euforica (più ancora che disforica); ma ciò che conta è però il fatto che il
momento di invettiva resta inquadrato all'interno di un testo autobiografico, traendone
in questo giustificazione sia nella misura in cui è bilanciato dai tanti momenti idillici o
elegiaci – in generale lirici – del testo, sia nella misura in cui è motivato appunto
dall'autobiografismo prosastico.
Il brano è già citato da Giuliani25 come prossimo, poetologicamente, alle grandi
invettive di PFM. Ora, stando alle carte finora rese disponibili, è dal 1957 che
l'invettiva compare nella poesia di Delfini, e con un titolo sintomatico, Mia prima
poesia:
Sia maledetto colui ch'è magistrato
sia maledetto il mio più grande amico.
Sian maledetti tutti gli avvocati
figliati da lucertole e lombrichi
Sian maledetti i vuoti vasi cervellotici
dei lustri ministri servitori
di lontane terre e avidi ladri
delle nostre terre e portatori
di mestizia disperazione e follia
Sia fatto posto ai cani atomici del futuro
di tutto quanto da loro viene detto puro
[...]
Dico che morte sia se per tutti è morte

22 Antonio Delfini, Diari, cit., p. 163.


23 Antonio Delfini, Il Ricordo del Ricordo, cit., p. 267.
24 Ivi, 268.
25 Alfredo Giuliani, Le “Poesie della fine del mondo”, in Antonio Delfini. Testimonianze e saggi, cit.,
p. 83.

7
e se per grazia morte per noi non fosse mai
per lor sia morte come morte è morte
anche se la vita (ch'era la vita antica)
non morisse mai
Sia benedetto il mio brutto poetare
Prego il Signore che il mio poetare sia ancor più brutto
avendo in mente gli innominabili nomi che ho maledetto e maledico (PFM, 69-7026).

A giudicare dal titolo, in Delfini l'approdo alla poesia della maledizione viene
avvertito come un fattore di novità tale da ridefinire l'essenza del genere poetico nei
testi anteriormente scritti. La prima vera poesia di Delfini è quindi quella in cui sorge
l'invettiva: una testualità poetica in cui la fa da padrone la modalità retorica della
vituperatio e della maledizione, e in cui il dismorfismo del testo viene avvertito come
funzionale alla strategia di aggressione verbale nei confronti degli antagonisti
rappresentati.
Questa strategia testuale ritorna identica nelle PFM. I cui testi iniziali, tuttavia, sono
esperimenti di poesia basati sul cut-up di frammenti di titoli giornalistici, e rivelano
quindi un certo grado di continuità con gli esperimenti poetici degli anni '30, mentre si
pongono in discontinuità con l'esempio addotto poco fa.
Il primo momento invettivale ha carattere civile e italiano, inquadrabile nella fantasia
di una sorta di «terzo risorgimento» (PFM, 114): abita questi testi un campionario di
esseri umani appartenenti alle varie sfere dei ceti dirigenti italiani (onorevoli,
industriali, notai), soggetti alle fantasie sadiche e omicide di Delfini. Ma è a partire da
Noi minacciamo di fare la guerra che la testualità acquisisce la sua facies più
caratteristica, con la comparsa, tra l'altro, di alcune figurine allegoriche, tra cui la
Bambina con una rosa in mano 27; solo a questo punto il tono d'invettiva diventa la
dominante stilistica del testo:
Stermineremo i maschi galletti d'Italia.
I primi saranno gli emiliani,
omosessuali-introvertiti e maiali;
secondi, i tesi lesi pesi piemontesi;
terzi, veneziani lombardi e ruffiani.
Sui mercati d'Italia sarà finito il puzzo
dei coglioni e dei loro padroni malaffari.
Che muoia l'uomo che parla di figa
poi pratica il culo... che muoia! (PFM, 120).

Le poesie, disposte in ordine pressoché cronologico, approdano alla piena invettiva


gradualmente, dando vita a una sorta di progressiva esplosione sadico-anale sempre
più incontrollata, con un effetto di «finimondo espressivo»28 che, per certi versi, viene
rispecchiato e amplificato dalla scarsa coesione macrotestuale.
Così, la disorganizzazione macrotestuale di PFM acquisisce una sua identità quasi suo
malgrado, proprio attraverso il dismorfismo, giustificabile nel tempo della fine del
26 La poesia viene compresa, all'interno dell'edizione Einaudi delle PFM, in una sezione denominata
dal curatore Irene Babboni, Prima della fine del mondo, ed è datata Modena 16 giugno 1957.
27 È plausibile che Delfini abbia desunto la figura della «Bambina con una rosa in mano» da un
elzeviro di Emilio Cecchi: È nata una bambina con una rosa in mano, in Pesci rossi, in Saggi e
viaggi, a cura di Margherita Ghilardi, Milano, Mondadori, 1997, pp. 52-57.
28 Daniele Garbuglia, Le Poesie della fine del mondo. Una lettura, in «Riga», cit., p. 309.

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mondo. A questo punto, in modo parzialmente irrelato rispetto ai precedenti contenuti
- tuttavia preannunciato nella Premessa, che organizza l'ordine interno dei
componimenti del libro secondo una scansione narrativa –, il testo si concentra sulla
figura femminile di Luisa B. e sugli amici di questa figura, facendone oggetti di
violenza verbale:
Non parlo di te, sozza immonda creatura che nel torrente
sei, viva, l'infame sporco fantasma di una vecchia città.
Non parlo degli amici a te congeniali.
Non parlo dei dolori, dei mali ed orrori che recasti
nel grembo della mia terra e della mia mamma.
Parlando di te devo parlare di orrore e miseria (PFM, 124).

La testualità ha una torsione verso una maggiore trasparenza comunicativa: benché


innumerevoli siano le allusioni a fatti empiricamente non verificabili, la flessione
della coerenza testuale che si registrava nelle zone di marca più immediatamente
surrealista (quelle, per intenderci, realizzate per mezzo del cut-up) diminuisce
notevolmente, per lasciar spazio a strutture retoriche, anche argomentative, classiche:
qui, per esempio, la ripetizione lessicale29 in principio di verso si combina alla
preterizione in una modalità oratoria quasi tribunizia (non più dedicata però al
discorso civile, ma a quello privato, tanto che, coerentemente, si passa dalla prima
persona plurale a quella singolare). La donna è poi definita, con un voluto ossimoro,
«sporco fantasma», accostando elementi dotati di una consistenza ontologica
differente, in una sorta di paradossale maledizione nei confronti di Luisa B. e di ciò
che la attornia: in questo attacco sadico il termine fantasma è chiamato a derealizzare
quell'ipostatizzazione dell'inautentico che ha fatto finire il mondo.
Lo slittamento dall'invettiva civile a quella privata, giustificato, da parte di Delfini,
nella Premessa, attraverso il riferimento alla natura simbolica della figura della donna,
è inquadrato attraverso un correlativo stilistico della simbologia della fine del mondo:
Tu in parrocchia famosa donna pia, lesbica in salotto,
volevi un marito maschio innamorato cotto
gabbiano, ricco, gran poeta, elegante e senza motto.
Invece sei caduta, eguale a te, nel rulo cotto.
O infelice miliardaria di provincia senza un soldo
avvizzita, piena di vizi e senza cuore
come potrà la tua città non perdere l'onore?
[...]
A me fai tanto schifo che pensando a te
non mi riesce di scrivere un solo verso degno (PFM, 127)

Si tratta ancora del riferimento al dismorfismo, al brutto, come elemento caratteristico


della stilistica di PFM, ricca di spostamenti di consonanti, di anagrammi (tipici del
resto del testo invettivo) che velano di non-senso la crudezza disfemica di determinati
versi; simili espressioni sono autorizzate, nel piano dell'opera, dall'infamia simbolica
del personaggio trattato, e dal dispositivo ideologico della fine del mondo, cui

29 Un'analisi acuta degli aspetti retorici della poesia di Delfini, si ha in Dario Tomasello, La poesia di
Delfini dall'elegia al disincanto della ragione, in Id., Poesia di narratori. Alvaro, Delfini, Landolfi,
Messina, Centro Dipartimentale di Studi Umanistici, 2004, pp. 29-54.

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consegue, in una sorta di collasso espressivo, non solo la carnevalizzazione, ma
letteralmente la deturpazione del testo poetico.
Il libro, pur non distogliendo l'attenzione dalla donna, non ne rende mai chiara
l'identità (tanto che variano persino i nomi, all'interno del testo) né i motivi dell'astio:
e sarà un'ulteriore espediente vòlto alla damnatio memoriae, al fine di renderla
irriconoscibile; frattanto l'invettiva può tornare a lambire temi civili (senza dismettere
però il tono allocutivo e la deformazione parodica e grottesca, attraverso i riferimenti
alla sfera sessuale):
Povera città perduta di Pianura!
Non avesti mai rivolta nella Storia,
non avesti nobiltà nell'albo giallo.
Di che razza sei formata lo sa iddio!
[...]
I borghesi delle tue strade son cornuti
perché donne volgari, materiali come bruti
non san tenere un uomo a letto dei minuti.
Il sesso delle donne è corto e contorto (PFM, 138).

È la rima, per molti versi, la protagonista dell'invettiva delfiniana: l'elemento a cui è


demandata parte dell'effetto comico e che è dotata certo di uno statuto parodico30 (il
che segnala anche che l'esperimento delle PFM è anche caratterizzato da un certo
grado di autocosciente ironia riflessiva). La rima – che non è presente nelle prime
poesie del libro, quasi che questo abbia acquisito solo in fieri una sua effettiva
fisionomia espressiva – può assumere persino una funzione di organizzazione testuale
discorsiva là dove il senso del testo pare dissolversi nella glossolalia: «Malaparte
malasposa malatutto / malagalli malfranzese malabrutto / malsalame malafiga
malprosciutto / il fidanzamento avvenne con un rutto» (PFM, 140).
Riepilogando, si possono astrarre i caratteri salienti dell'identità testuale del libro.
Anzitutto, se l'enunciazione postula, sovente, un enunciatore in prima persona che si
rivolge a un enunciatario in seconda persona, anche per il tramite di formulazioni dal
forte carattere perfomativo («Sia maledetto»), che tendono a finzionalizzare un
carattere attivo e una sensibile forza illocutiva alla testualità poetica, gli attanti del
testo sono variabili e mutevoli: il protagonista, soggetto locutore, che agisce per il
tramite della violenza verbale si oppone normalmente a un antagonista, la donna,
privata anche della fissità del nome proprio (mentre Delfini si firma a chiare lettere),
ma si rivolge sovente anche a una serie di oppositori. I tempi verbali, coerentemente
con l'espressione della collera, variano continuamente dai passati storici, in cui si situa
la frustrazione e la delusione, e quindi l'espressione coram populo del torto subito, al
presente (assieme agli altri tempi commentativi), vòlto a veicolare con maggior forza
la violenza verbale dell'insulto, che deve consentire all'enunciatore lo sfogo dalla
propria frustrazione, ai futuri, impiegati per introdurre le minacce rivolte ai nemici,

30 Uno dei racconti satirici compresi in Misa Bovetti e altre cronache, Milano, All'insegna del pesce
d'oro, 1960, dal titolo La stagione a V., mette in scena in chiusa (pp. 48-49) la premiazione di un
concorso di poesia, in cui i testi poetici, tutti intrinsecamente parodici, sono caratterizzati dalla
rima. Se ne cita uno: «Pensa o mio re d'Italia / la patria è in gramaglia! /Che termini la foia
repubblicana / la nostra patria ritorni sovrana. / Pel suo intimo gran merto, / Italia cara, fai venire
Umberto» (p. 48).

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che serviranno a ristabilire una situazione di equilibrio, e a scongiurare una nuova
vendetta dei nemici. In questa situazione fortemente dissimmetrica (gli interlocutori
non sono sullo stesso piano del poeta) non mancano le espressioni fortemente marcate
in senso disfemico, la parodizzazione delle forme del linguaggio degli avversari, con
conseguente uso di discorsi riportati (e forestierismi, citazioni dalle fonti più svariate,
domande retoriche) in un quadro di grande vivacità stilistica.
Coerentemente con lo scenario descritto, in cui l'enunciatore si rivolge a enunciatari al
corrente dei fatti, il testo presenta un'attenuazione della dimensione narrativa
(soprattutto in termini di linearità del racconto) del torto subito che pure sarebbe stata
plausibile in un narratore come Delfini, per lasciare spazio alla concatenazione
narrativa della ricerca del ristabilimento della giustizia. Come si vede, si tratta della
finzionalizzazione di una situazione comunicativa già fortemente ritualizzata, in cui il
patema cardine è certo la collera, ma la necessità di quella che è una vera e propria
esibizione e prova di forza conduce l'autore a mimare altre configurazione patiche, dal
rammarico al rimorso, dall'ilarità alla perplessità, in un quadro di espressione
virtuosistica che mutua stilemi da numerose forme discorsive, com'è proprio
dell'invettiva, ma persegue evidenti effetti pragmatici, in particolare quello di
ridicolizzare gli attanti che si oppongono all'enunciatore. Questo riconfigura anche il
ruolo del lettore, rendendolo enormemente più attivo, perché lo chiama a ricoprire un
compito testimoniale e di complicità nei confronti dell'autore.
Se quindi l'invettiva è un genere discorsivo polemico basato sull'apostrofe (e quindi
sulla seconda persona) o in generale sull'allocuzione, e caratterizzato per lo più da
argumenta ad hominem, e da relativa variabilità stilistica, nei vituperia di Delfini la
funzione polemica sfocia nella maledizione e nella minaccia, richiamando la
dimensione di vendetta. Si tratta di una testualità quindi attenta all'aspetto
performativo del testo, tanto da avere riguardo persino per la dimensione perlocutiva
della testualità: «Metto le mani nell'acqua, iettatore, / e il contatto tuo l'avrà il lettore»
(PFM, 145); «Corro a mettere le mani nell'acqua per un tanto / ed il lettore poi faccia
altrettanto» (PFM, 150).
La rilevanza di Delfini nel canone della poesia del Novecento italiano è anzitutto
quella di aver tentato di reintrodurre modalità discorsive e pragmatiche ormai da
tempo escluse dalla poesia italiana; di aver importato, ancor più del discorso
polemico, una vera e propria stilistica dell'ira e del rancore nei propri testi;
includendovi anche gesti lirici come la maledizione e la vituperatio. In questo, la
poesia di Delfini si ricollega a tutte quelle forme di testualità poetica che storicamente
si sono presentate come antitetiche rispetto al canone letterario. Quando, per esempio,
Delfini scrive:
È mio dovere scrivere la mala poesia
che infine, dopo tanto tempo porti
a te, mala carente, moglie del corto
tismico sofilofo una vera mala sorte (PFM, 150),

C'è da chiedersi se nel termine mala poesia non alligni un riferimento alla mala
canso, alla canzone cioè di scherno, spesso dedicata alla mala dompna come poesia di
disamore, che la letteratura provenzale medioevale e quella catalana avevano

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largamente praticato31. Derivazione o postrema evoluzione della mala canso potrebbe
del resto essere definita anche la disperata di Andrea Del Basso citata da Delfini in La
vera poesia:
Non sol cantar non posso senza cetra
ma non hai nulla di quella bella morta
che Andrea del Basso in rima corta
cantò - di rimembranze e di rancore - il volto
il seno il culo gli occhi ed altro molto.

Dov'è quel bianco seno d'alabastro?

Or tu lo sai - Petto disfatto -


il capezzòlo destro rientrato è violaccio
quello sinistro molle è straccio (PFM, 146).

Il rinvio appunto a Andrea del Basso e in generale alla idea di mala canso varrebbero
a ricollegare il testo al genere della canzone di disamore, giustificando anche
letterariamente in questo modo anche la dimensione della collera e della violenza
verbale presenti in gran evidenza nel libro32. Al di là però di questo forse non così
labile collegamento, importa il fatto che, il fatto che la mala poesia si presenta
innanzitutto come il rovesciamento33 di una buona poesia, così come la mala canso
era rovesciamento delle regole di composizione e stilistiche della bona canso, cioè la
canzone d'amore. È inutile dire che è precipuo della letteratura comica, il procedere
per rovesciamenti di ciò che il canone intende come regole deontologiche di
fabbricazione della letteratura seria. Non a caso, nei paratesti, Delfini definisce il
libello «anticanzoniere» (PFM, 98).
L'ascrizione delle PFM a una testualità di registro comico è un processo che avviene
dunque su base intertestuale (rispetto e infrazione delle regole di redazione del testo
poetico), e su base tipologico-stilistica: difficile non considerare comico un testo
poetico in cui largo spazio ha il rovesciamento parodico, il gioco di parole, il
disfemico, la minaccia, la maledizione nei confronti di un soggetto precedentemente
amato, e attraverso una poesia che usa allegramente modi da filostrocca o tiritera
popolaresca: anche perché evidente è la volontà di messa in ridicolo degli antagonisti.
Si prenda Sono stanco: se il titolo potrebbe lasciar presagire, tra le tante possibilità, un
testo elegiaco, o comunque di dimissione dell'aggressività, il distico iniziale: «Sono
stanco di parlare di te. / Tu sei morta» (PFM, 160), stravolge il senso del titolo, per
trasformarsi nell'ennesima maledizione e augurio di morte. Sul tema della morte,
però, Delfini inanella una serie successiva di variazioni che smentiscono totalmente
l'implicita preterizione iniziale, orchestrando per giunta tutto un campionario di figure
etimologiche e annominazioni, complicate da antitesi e ossimori:

31 Per la mala canso e la canzone di disamore, si rimanda al volume Canzoni occitane di disamore, a
cura di Francesca Sanguineti e Oriana Scarpati, Roma, Carocci, 2013.
32 Delfini poteva aver conosciuto la figura di Andrea del Basso, grazie a uno scritto di Emilio Cecchi,
Poeta sfortunato, in Corse al trotto, in Saggi e viaggi, cit., pp. 949-954.
33 A parlare esplicitamente di comico, e a individuarne la matrice nell'estetica del ribaltamento e del
cozzo tra aulico e disfemico è Giorgio Celli, Il comico nelle “Poesie della fine del mondo”, in
Antonio Delfini. Testimonianze e saggi, cit., pp. 139.

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Io solo ormai vivo - e non più morente
posso sentire il vuoto che te morta
vai vuotando nel vuoto del morto.

Era un morto da vivo.


Tu eri morta dapprima.
Eri morta dal tempo dei nonni
che morti pensarono di mettere al mondo
il gran morto: il padre tuo che fu beccamorto (PFM, 161).

Il poeta non resiste alla tentazione di chiosare questa rassegna di espressioni di


violenza verbale con una vera e propria freddura, ancora fondata, in aequivocatio,
sulla base lessicale di eccezionale produttività da cui si erano originate pressoché tutte
le immagini della poesia: «Da domani voglio riposare un po' / - ti giuro - e tornare
andare a nuoto: / quando proprio più non ne potrò / farò il morto e... forse ti vedrò»
(PFM, 162): se l'adesione di un testo a un genere è sempre frutto di un processo,
proprio l'ultima strofa completa il processo, sottolineando con la rima, per giunta
tronca, e quindi da canzonetta, e il riferimento frivolo alle vacanze estive e ai bagni al
mare, l'aspetto anzitutto antifrastico di ogni testualità comica. Anzi, la battuta finale è
talmente corriva da sembrare quasi uno sfregio alla testualità lirica: quasi fosse una
letteratura della crudeltà che nemmeno si prende sul serio.
La dimensione comica riscatta la semantica dell'odio di questo come di altri molti testi
del libro: in ciò fungendone da giustificazione. Tuttavia, nella volontà di Delfini, il
tentativo di ascrizione della propria testualità al genere comico ha anche un'altra e ben
evidente funzione: quella di conferire all'autore un capitale simbolico, all'interno del
campo letterario, che funga da fattore di distinzione rispetto alla restante parte degli
autori della letteratura italiana del secondo Novecento (con cui Delfini è per giunta in
eterno conflitto: si pensi al duello con Luzi, alle pagine sul Deprap, etc.). La scrittura
dell'invettiva, la scrittura del comico in poesia, insomma, ha in Delfini il ruolo di una
sorta di supplemento di autorialità.

5. Si potrebbe parlare, in analogia con quanto è stato fatto per il tragico, nel
Novecento, di un'impossibilità del comico. Si tratta in verità di un'impossibilità molto
relativa: i resti secolarizzati della tragedia e della commedia affiorano continuamente
e secondo diversi gradi e modalità nelle rappresentazioni estetiche - non solo quelle di
carattere commerciale e popolare - tanto che si dovrebbe correggere l'assunto che
tragico e comico si siano resi impossibili, con l'idea piuttosto di un loro
disincorporamento, anzitutto relativo ai normali tipi di ancoraggio testuale (tragedia e
commedia), in secondo luogo rispetto agli stili normalmente richiesti, infine rispetto
agli effetti possibili (lacrime, riso). Così, la presenza di innumerevoli tracce di comico
nei testi di Delfini non può nascondere che il comico in questo autore è piuttosto vòlto
a una normalizzazione-regolamentazione dell'eccezione della violenza, e reimpiegato,
in coerenza con la temporalità della fine infinita, perché unico registro che consente di
mimare, e aggredire insieme, l'inautenticità disumana che ha reso tutto ormai
indifferente. Sicché la particolare declinazione del comico, in Delfini, potrebbe essere
definita quella di un comico senza festa, esercitato in presenza di un evidente evento

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luttuoso34. La fine del mondo rende impossibile il ricordo e l'elegia, legittimando
l'invettiva anzitutto, e, con essa, una nuova figura autoriale; anche perché la fine del
mondo di cui parla Delfini allude anche a un'impossibilità di finire in un mondo in cui
tutto seguita identico a sé stesso. Non può stupire, nell'arco di circa trent'anni, vedere
come Delfini riscriva praticamente la stessa massima «Il pensiero è profezia e ricordo.
La vita è avvenire e passato. La vita non è mai presente. Il presente non è mai» 35. E
nella Premessa a PFM: «Le poesie datate da Modena (nov. 1958-febbr. 1959) sono in
qualche modo ispirate dal presagio di dover essere spettatori di una fine del mondo
che non si sa quando avverrà o quando avvenne» (PFM, 97). Se identica è la
concezione della temporalità, basta sull'idea di inesperibilità del presente, muta
radicalmente la figura soggettiva che soggiace alla testualità di Delfini: dall'autore
vòlto al passato, e quindi elegiaco, all'autore che tenta di guardare al futuro ma in cui
l'insufficienza del proprio sguardo fa sì che alla profezia si sostituisca l'invettiva.
Ora, se una simile figura d'autore, in questo comico senza festa - proprio perché
comico del mondo della fine infinita - ha speranza di solidificarsi in una presenza
canonica riconosciuta, il processo, Delfini lo sa bene, non può essere affidato alle sue
stesse qualità umane, ma a una aleatoria e contingente produzione di identità, che
guarda una qualche attinenza con la figura dell'autore empirico solo in una
dimensione post rem: «Vedere un autore del suo libro è più difficile che vederlo non
autore / Riscontrare in uno certe cose che riflettano il suo libro è più facile che non
riscontrarle [...] / Non basta scrivere le proprie cose o farle sembrare vere per essere
visto autore dei propri libri. Anzi, può sembrare il contrario: non autore» 36. Si
potrebbe chiosare in questo modo: il nome d'autore è sempre entro certi limiti un
significante vuoto, e affinché un autore empirico venga visto come autore del proprio
libro, si deve attivare una concatenazione di effetti di vario tipo, catene equivalenziali
che parificano gli interessi e le ossessioni dei membri del pubblico dei lettori, con le
prospettive poetologiche elaborate dall'autore.
L'apprezzamento per un autore, così, è quasi sempre caratterizzato da forme di
surdeterminazione: e perché il pubblico si crei l'illusione prospettica dell'esistenza di
un autore e del legame tra quell'autore e quell'opera, bisogna che il nome d'autore sia
investito da correnti di forze, affetti, passioni. Anche la ricezione di un macrotesto
poetico come PFM, come una qualsiasi narrazione, è un racconto caratterizzato da
forme precipue di scenarizzazione37. Non è dunque un caso che spesso ci riferiamo a
un autore, mai conosciuto, magari morto da decine o centinaia di anni, in termini di
34 Se ne era accorto Edoardo Sanguineti, che nel 1963 scrisse: «è con commozione profonda che qui si
rievoca la singolare e coraggiosa figura di Delfini, che ci affidò questi suoi versi estremi proprio
pochi giorni prima di morire. Né crediamo che esista lettore tanto freddo e impaziente da non
provare vero sgomento nel cogliere così ossessiva e così straziante, in tutto il suo gioco ironico e
grottesco e provocatorio in cui è immersa, l'idea prepotente della morte, in queste sue parole
postume (“Venite a prendermi di corsa - perché sto per morire... perché è a me che tocca”)» ( [Nota
introduttiva], in Disegni e parole, a cura di Luigi Carluccio, Enzo Gribaudo, Edoardo Sanguineti,
Torino, Pozzo, 1963, p. [XIX]). Vale la pena, per inciso, di segnalare un precoce interesse della
Nuova avanguardia per Antonio Delfini, che oltre a Sanguineti, vanta tra i suoi estimatori Giuliani e
Pagliarani, e fu amico personale di Corrado Costa
35 Antonio Delfini, Diari, cit., p. 131 (è il 1932).
36 Antonio Delfini, Diari, cit., p. 188.
37 Il concetto di scenarizzazione è desunto daYves Citton, Mitocrazia. Storytelling e immaginario di
sinistra, Prefazione di Wu Ming 1, Napoli, Alegre, 2013.

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legami empatici o affettivi. Lo stesso Delfini, parlando di D'Annunzio, scrive: «Per
D'Annunzio potremmo avere un'infinita antipatia»38. È forse per questo che Delfini ha
teso a caricare la forza affettiva e performativa di un testo come PFM: la
solidificazione di un'immagine autoriale doveva passare anche per il tentativo di
costruire un'immagine del capitale simbolico dell'autore che lo distinguesse dagli altri
autori rendendolo, entro certi limiti, simpatico. L'elemento comico è funzionale a
questo tentativo di trasformazione in un autore simpatico: è evidente che, entro certi
limiti, le PFM sono un marchingegno pensato in termini di espressione di sentimenti,
di formulazioni patetiche, vòlte a guadagnarsi anche la simpatia dei lettori.
Il problema di Delfini, nel mondo senza festa della fine del mondo, che quindi non
può relazionarsi autenticamente con l'antico (garante unico dell'autenticità) 39, in
quanto non se ne conoscono più le formule rituali di ripetizione 40, è quello del
riscattare quel disordine e quel predominio della contingenza che si chiama vita,
attraverso la letteratura, due testualità che Delfini tenta disperatamente di far
combaciare: «Orribile storia si presentava all'esperienza della vita. O come più bella
la vita inventata che volevo inventarmi! Come più dolce ancora, però, l'esperienza
vissuta, quando torna a essere, vent'anni dopo, una vita inventata!»41. La congerie
caotica delle virtualità inattualizzate per Delfini liberamente circola dal testo della vita
a quello dell'opera, vasi non pienamente comunicanti di norma solo
convenzionalmente messi in relazione dall'autore: «La mia vita sarebbe andata in
modo diverso. Ma i se (secondo quanto dice il maestro del mio grande amico) nella
storia non valgono. E forse neanche in amore. Ma nella Divina Commedia (per chi
crede all'Inferno, al Paradiso e al Purgatorio) i se devono avere un grande valore! / I
miei grandi amici dovrebbero ringraziare Iddio di una cosa, soprattutto: che io non sia
Dante Alighieri»42. È un mondo, in un certo senso, senza se, il mondo della fine: un
mondo in cui ormai i se non designano virtualità possibili ma non attualizzate, ma ne
segnalano la cancellazione, la perenne falsificazione. In questo mondo in cui così
impossibile e molesto è vivere, rimane solo il se della letteratura, il cui precipuo
sforzo è trasformare l'uomo in autore: «Dante Alighieri parlerà poi dell'Inferno. / Io
mi attengo alle cose dell'interno» (PFM, 126).
Così, ecco che senso ha l'attingere a sfere della vita, della biografia dell'autore
empirico tanto vicine alla realtà effettiva dei fatti: ricollegare le cose ai nomi,
restituendo verità al racconto dei fatti serve, sia pur in una azione di damnatio
memoriae, a dare vita a una forma di giustizia poetica, di contrappasso. In un certo
qual modo, che entro certi limiti ha a che fare con il comico, Delfini ribalta il
paradigma della poesia come supplemento di vitalità: in lui, la vita stessa funge da
supplemento di autorialità.

38 Antonio Delfini, Diari, cit., p. 189.


39 Il contatto con il passato è evocato da Delfini in Vi voglio un bene terribile: «Deh!, ridate, coi semi
salati, /il ricordo dei tempi più cari, che, andati, / sono rimasti nel cuore per sempre» (PFM, 135).
Spicca la valenza perfettiva del passato prossimo sono rimasti.
40 Il tema di una ripetizione impossibile emerge in vari loci dell'opera: «Sorgeranno i ricordi... /
Torneranno mai più? / Anche quelli son morti» (PFM, 165). Sulla ripetizione in Delfini, si veda
Gianni Celati, Antonio Delfini ad alta voce, cit., pp. XXX
41 Antonio Delfini, Il Ricordo del Ricordo, cit., p. 222.
42 Ivi, p. 261.

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