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1. La “profezia” di Schmitt
Più di ottant’anni fa, Carl Schmitt osservava: «Negli Stati Uniti d’America
e in altri Paesi anglosassoni si sono inventate macchine complicate con
registri e tasti, non solo per garantire istituzionalmente il segreto del
suffragio, ma anche per dargli garanzie meccaniche. Potrebbe
immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni
singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa
esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste
opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove
occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia
particolarmente intensa, ma solo una riprova del fatto che Stato e
pubblicità sarebbero totalmente privatizzati. Non vi sarebbe nessuna
pubblica opinione, giacché l’opinione così concorde di milioni di privati
non dà nessuna pubblica opinione, il risultato è solo una somma di
opinioni private. In questo modo non sorge nessuna volontà generale,
nessuna volonté générale, ma solo la somma di tutte le volontà
individuali, una volonté de tous»1.
In questa maniera, probabilmente, ben al di là delle sue stesse
intenzioni, il filosofo tedesco s’inseriva anzitempo nella contesa che,
secondo la felice definizione di Umberto Eco, da tempo va
contrapponendo “apocalittici” a “integrati”, con riferimento alle paure o
alle attese suscitate dalla civiltà informatica 2. Atteggiamenti divergenti e
contrastanti, i quali, soprattutto con il passaggio metamorfosi dal
carattere di Gutemberg al chip in silicio, testimoniano le reazioni dinanzi
alla rivoluzione tecnologica in atto nella dimensione comunicativa
1
C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, Milano 1984, p. 322.
2
Vedi U. ECO, Apocalittici e integrati, Milano 1964, ma soprattutto nelle versioni
più aggiornate delle sue molteplici edizioni. Originali sviluppi di questa
contrapposizione sono svolti, con attenzione filosofica prima che sociologica, in
M. SIRIMARCO, Ancora su apocalittici ed integrati: ovvero tra Hermes e Narciso,
nel volume Informatica, diritto, filosofia, Roma 2007, curato dal medesimo
autore.
dell’umano: per alcuni, occasione imperdibile per una radicale
democratizzazione della società post-industriale; per altri, pericolo di un
epocale dissolvimento della libertà, così come concepita dallo Stato di
diritto e implementata dalle soluzioni liberaldemocratiche degli
ordinamenti occidentali. Non può certo passare inosservata, infatti, la
speranza – talvolta capace di assumere le sembianze di un’attesa
escatologica – riposta nell’informatizzazione da parte di coloro i quali
assegnano al linguaggio elettronico il compito di favorire la creazione di
agorà meta-spaziali, partecipabili da chiunque, senza dover abbandonare
i luoghi che ancora esigono la presenza fisica: assemblee virtuali, oggi già
vigenti sotto la significativa denominazione di forum, grazie alle quali
ciascun membro, eguagliando gli altri in quanto ad accesso alle
informazioni e a facoltà di espressione, un giorno, non dovrà più
rimettersi al rapporto fiduciale nei riguardi di un rappresentante,
vedendo riconosciuta un’efficacia giuridica e istituzionale al proprio clic.
Ma è altrettanto innegabile la tendenza, manifestata dal fronte dei
pessimisti, a delineare un futuro di diabolica manipolazione delle menti,
raggiunte da una comunicazione tanto capillare quanto unidimensionale e
massiva, capace di omologare coscienze e pensieri. Agitando lo spettro
orwelliano del Grande Fratello, l’umore nero di questa sorta di
millenarismo applicato alla rivoluzione informatica presuppone la visione
di una massa atomizzata di utenti acritici, ridotti a reagire
meccanicisticamente agli stimoli dei soggetti emittenti, di sicuro elaborati
in modo da suscitare risposte univoche, pre-formate: reazioni comunque
indotte secondo piani previsionali, mediante la versione più raffinata del
Panopticon di Bentham, non più disposto a mera finalità di controllo,
bensì lanciato verso soluzioni di produzione “artificiale” di un pensiero
per ciò stesso eterodiretto, nella costanza di un disegno
concentrazionario, deresponsabilizzante e nient’affatto incline al
pluralismo.
Eppure, le citate affermazioni di Schmitt avevano un sapore diverso,
perché diversa (dalla nostra) non era soltanto l’epoca, ma anche
l’intenzione provocatoria, allegata a presupposti politici e gius-filosofici di
profondo momento. E parimenti diversa, dunque, è la natura delle
riflessioni che, nel presente, le parole di Schmitt ci suggeriscono,
volgendosi a questioni che superano – pur comprendendolo – l’esclusivo
àmbito della formazione dell’opinione pubblica. Certamente, da esse
proviene lo spunto utile a tratteggiare un possibile scenario evolutivo
dello Stato, della rappresentanza e delle modalità d’esercizio della
sovranità. Insomma, potremmo tentare di ripensare la statualità nelle
forme modernamente concepite, di fronte alle sfide che la “democrazia
elettronica”, semmai dovesse conoscere un reale avvento, riuscirà a
lanciare, ponendo fine a quel che, da qualche tempo, va annunciandosi
come l’“autunno del Leviatano”.
Nel fare questo, è bene precisare donde proveniva “profezia
schmittiana” più sopra richiamata, e in quale contesto speculativo essa
trovava collocazione. Un’avvertenza, più che un timore, quella del filosofo
e giurista tedesco, elaborata a margine di una dottrina tesa a
reinterpretare i canoni della legittimità, dell’obbligazione e dell’unità
politica di uno Stato liberale che, con l’inveramento della società di massa
a cavallo tra XIX e XX secolo e, viepiù, dopo le novità introdotte (si
potrebbe dire “rivelate”) nella politica europea dagli esiti della Prima
Guerra Mondiale, denunciava una sensibile incapacità di tenuta,
destinata a riverberarsi anche sotto il profilo epistemologico, oltre che
istituzionale. Soprattutto, in Germania, la Repubblica di Weimar indicava,
con le contraddittorietà ordinamentali e le intrinseche debolezze del suo
congegno democratico, l’insieme degli attriti prodottisi in seno a un
sistema bifronte, il quale, se da un lato guardava alla tradizione elitaria
del liberalismo ottocentesco, dall’altro apriva le “stanze del potere” a
organizzazioni partitiche radicate in una società civile tutt’altro che
compatta, percorsa da velleità rivoluzionarie, concentrazioni di forze
ideologicamente contrapposte e, nell’insieme, non più disposta a
consistere in semplice spettatrice, attivata solamente nel momento di
delegare in bianco i suoi rappresentanti3.
Nel quadro di un sistema sottoposto a spinte centrifughe, a
sommovimenti demotici e a competizioni parossistiche, emergevano,
invero, tutte le aporie di una forma-Stato non più antica di un secolo e
mezzo, ma che si credeva potesse durare in eterno, nella convinzione di
avere raggiunto la soluzione atta a far consistere la cittadinanza
compatta, composta da individualità astrattamente eguali, unificate nella
dimensione concettuale di una rappresentanza politica “libera”, esente da
mandato imperativo e, perciò, abilitata a incarnare la personalità
intellettiva e volitiva della nazione, anziché le soggettività corpuscolari a
essa immanenti. Un’idea, questa, che filosoficamente rimontava alla
sovranità hobbesianamente intesa, ancorché resa democraticamente più
consona ai canoni democratici e, comunque, depotenziata nelle sue
possibili implicazioni assolutistiche, a partire dalla Rivoluzione Francese
e dalla sentenza capitale comminata alla rappresentanza organico-cetuale
dell’Antico Regime. Ma, altresì, un’idea che, nella certezza di potere (o
dovere) trasferire nella persona ficta istituzionale la summa potestas
della collettività nazionale, nei primi decenni del ‘900 prestava oramai il
fianco a inedite riformulazioni della sovranità popolare. Proprio su un
simile versante di criticità si era concentrata l’analisi di Schmitt, diretta a
una valutazione più consapevole, sicuramente disincantata, di quanto
contraddistingue la categoria della rappresentanza politica moderna: un
programma di ridefinizione, animato dall’intento di puntellare l’edificio
della statualità, prima che si sgretolasse per un patologico difetto di
3
Per una ricostruzione approfondita del periodo in argomento, attenta alla
qualità culturale e sociologica, oltre che ai risvolti dottrinali dei mutamenti
allora in atto, si vedano i saggi contenuti in Crisi istituzionale e teoria dello
Stato in Germania dopo la prima guerra mondiale, a cura di G. Gozzi e P.
Schiera, Bologna 1987.
autonomia e di monopolio potestativo. Il che aveva importato, sin da
principio, la denuncia della distinzione tra rappresentanza politica
(Repräsentation) e rappresentanza privatistica (Vertretung), propedeutica
a evidenziare il nesso sussistente tra la prima e l’unità stessa dell’ente-
Stato. Tale differenza introduceva, a mo’ di corollario, ad altra
divaricazione categoriale, consistente nell’antitesi tra identità e
rappresentazione: se la prima importa l’idea di un popolo presente, nella
sua immediatezza, quale elemento imprescindibile all’esistenza di
un’entità politica, la seconda si sostanzia nel principio per cui «l’unità
politica del popolo in quanto tale non può essere mai presente nella reale
identità e perciò deve sempre essere rappresentata personalmente da
uomini»4.
Ma l’analisi schmittiana raggiungeva una maggiore profondità nel
momento di esaltare, sia nella Verfassungslehre sia nella Politische
Theologie, in base alle premesse ravvisabili già in Römischer
Katholizismus und politische Form, la funzione formante della
rappresentazione, quale fattore necessario a conferire una morfologia
strutturale sia alla volontà generale del corpo cittadino, sia alla
personalità dell’apparato autoritativo, tale da abilitare il popolo ad agire
in maniera politicamente significativa. D’altro canto, affermare che «non
c’è nessuno Stato senza rappresentanza, poiché non c’è nessuno Stato
senza forma di Stato e alla forma spetta essenzialmente la
rappresentazione dell’unità politica»5 voleva dire, peraltro, non arrestarsi
a una prospettiva teorico-giuridica, tendendo invece ad affrontare il
fenomeno nella sua concretezza esistenziale, rendendo il problema
coesteso alla dialettica sussistente tra visibile e invisibile, ossia all’attività
del «rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un
essere che è presente pubblicamente»6. O, in maniera ancor più chiara,
significava sostenere che «la dialettica del concetto consiste nel fatto che
l’invisibile è presupposto come assente ed è nello stesso tempo reso
presente»7. Come è stato da più parti notato, tale argomentazione recluta
canoni concettuali di fattura teologica, nel momento di riconoscere
all’oggetto reso presente e visibile dalla rappresentazione un’eccedenza
trascendente rispetto al soggetto rappresentante, così da porre l’uno e
l’altro sui piani diversificati dell’empirico e del meta-empirico: stante la
consustanzialità tra il luogo della rappresentazione e il soggetto che
svolge la funzione rappresentativa, l’oggetto rappresentato non può non
detenere una natura resa manifestamente diversa dalla necessità stessa
di essere condotto alla presenza, nonostante la sua perdurante assenza.
Così è per il popolo (a maggior ragione, se sublimato in unità nazionale)
rispetto al politico, come pure per il divino rispetto al ministero
sacramentale terreno e, ancora, per l’idea rispetto alla storicità
4
C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, cit., p. 271.
5
Ivi, p. 273.
6
Ivi, p. 277.
7
Ibidem.
immanente. Se non altro, in punta di logica, basterebbe affermare che
non ha senso rappresentare quanto sia già presente, per decidere e agire
secondo effettiva contestualità8.
Almeno, nelle spiegazioni di Schmitt, ciò vale per la rappresentanza
pubblicistica, dal momento che lo “stare in luogo di un altro”, tipico del
diritto privato, importa una semplice sostituzione, incapace di dare forma
storica a un contenuto eidetico e uni(ci)tà a una soggettività molteplice
che aspiri a connotarsi di qualità politica 9. Del resto, costante è il
riferimento schmittiano a Hobbes, considerato come il più sincero
“profeta” della rappresentanza moderna, avendo egli negato, con
nettezza, la possibilità che lo Stato-persona possa ricondursi, nel
processo determinativo della sua volontà, alle volizioni frazionali dei
singoli membri dello Stato-comunità, cui resterebbe inibita la facoltà di
fornire “interpretazioni autentiche” del “dio mortale” cui si dà vita
attraverso il patto. In un certo senso, l’antecedenza cronologica del
pactum unionis rispetto al pactum subiectionis risulta essere più
semplificativa che reale, giacché, sul piano logico-realizzativo, non v’è
8
Per ulteriori e più diffuse considerazioni sulla dialettica “visibile/invisibile” in
Schmitt e sulla sua matrice teologico-metafisica, si veda, nella pur cospicua
bibliografia in tema, G. DUSO, Rappresentazione come presenza dell’assenza, in
ID., La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Milano 2003. In
maniera critica nei riguardi di detta dialettica si esprimeva, già negli anni della
produzione schmittiana, Friedrich Glum (Der deutsche und französische
Reichwitschaftsrat. Ein Beitrag zu dem Problem der Repräsentation der
Wirtschaft im Staat, Berlin – Leipzig 1929 (corrispondentemente alla sezione di
testo poi riprodotta sotto il titolo di “Begriff und Wesen der Repräsentation”, in
Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung,
Darmstadt 1968), eccependo la contraddittorietà nel considerare durevolmente
assente quanto venga riprodotto in presenza. Ciò nonostante, un altro analista
del sistema weimariano, quale Gerhard Leibholz, svolgeva, in uno scritto
pubblicato l’anno successivo alla Verfassungslehre, considerazioni affatto
analoghe a quelle di Schmitt, sostenendo la necessità di distinguere la
rappresentazione tanto dalla mera resa astrattiva di un universale, quanto dalla
banale raffigurazione immaginale di qualcosa privo di fisicità, giacché soltanto
attraverso essa è possibile riferirsi a un’eccedenza eidetica, attribuendole
un’operatività storica continuativa o reiterata (Das Wesen der Repräsentation
unter besonderer Berücksichtigung des Repräsentativsystems. Ein Beitrag zur
allgemeinen Staats- und Verfassungslehre, Berlin – Leipzig 1929, ora nella
versione ampliata Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der
Demokratie im 20. Jahrhundert, Berlin 1966, p. 26, tr. it. La rappresentazione
nella democrazia, Milano 1989, p. 70).
9
Sulla differenza tra Repräsentation pubblica e Vertretung privata si
esprimevano, nei medesimi anni, anche Hermann Heller (Die Souveränität. Ein
Beitrag zur Theorie des Staats- und Volksrrechts, Berlin – Leipzig 1927, pp. 75
ss.), Rudolf Smend (Verfassung und Verfassungsrecht, München 1928, pp. 8 ss.),
e Gerhard Leibholz (Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 32). Una
ricostruzione storica dell’evoluzione dottrinale di questa tematica in materia
giuspubblicistica è svolta da H. HOFMANN, Reprasentätion. Studien zur Wort-
und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins. 19. Janrhundert, Berlin 1974.
effettiva unio che non sia stabilita e conservata per il tramite della
subiectio. Còlta sotto questa luce, la rappresentanza cessa di orbitare nel
novero delle tipicità ideologiche liberali, a lungo decantate come
strumentali alla delimitazione e al controllo di un potere finalmente
riferito agli intendimenti della società civile: diversamente, essa, nella
concezione schmittiana, appare come il crudo fondamento alla politicità
dell’uomo moderno, sottratto alla trama delle sue appartenenze
organiche, a carattere cetuale o funzionale, secondo una pregiudiziale
che lo oppone all’alterità di un non-Io collettivo.
L’inaudito della Modernità consisterebbe, in estrema sintesi,
nell’assunzione dell’individuo quale entità elementare e termine di
riferimento della concezione contrattualistica della società politica, ben
salda su un principio di uguaglianza tale da esigere l’agire
rappresentativo di un super-Io artificiale, di cui tutti sono, al contempo,
autori e sudditi: una volta creatolo, già non se ne ha più la disponibilità. Il
che, nonostante tutte le denotazioni giacobine e liberaldemocratiche,
trova riscontro anche nei casi di regimi assolutistici fondati sul costrutto
razionale di una sovranità che non ammette né l’intermediazione
piramidale di “corpi organici”, né alcuna forma di legittimazione
tradizionale, di diritto teocratico o puramente dinastico: nemmeno la più
avanza democrazia riuscirebbe a smentire le crude affermazioni di
Hobbes in ordine alla figura del “sovrano-rappresentante”, espressione
con cui Schmitt, nei saggi dedicati al filosofo britannico, designa
indifferentemente il monarca e il politico repubblicano, collegati dalla
comune qualità di essere signori senza mandato – in quanto “incastonati”
nella mens directiva della colossale macchina leviatanica – anziché
servitori del popolo legittimante10.
Persino nel caso di ipotesi plebiscitarie, ovvero, referendarie, ove è
possibile verificare distintamente la diretta espressione popolare,
interviene un irrinunciabile fattore di “mediazione formante”, in grado di
stimolare la risposta corale del corpo civile, conferendole univocità, ossia,
facendo dell’insieme delle “voci singolari” un unico suono: un sì o un no.
Questo, appunto, si rende realizzabile proprio in quanto il popolo assume
facoltà di parola solamente se interpellato su una specifica domanda,
formulata e proposta in maniera inequivoca: solo così, in luogo di
10
Vedi i saggi raccolti, in traduzione italiana, in Studi su Thomas Hobbes, Milano
1986. A tale riguardo, risulta assai chiarificatore il commento offerto da
Giuseppe Duso: «già in Hobbes sovrano è colui che rappresenta il corpo politico
nella sua unità, e fornisce dunque volto e azione a quella forza comune che tutti
hanno creato e a cui tutti sono sottoposti. In una diversa situazione concettuale
e con diverso riferimento storico, è pensabile un corpo politico mediante lo
svolgimento delle funzioni delle sue parti gerarchicamente organizzate, per cui
le istanze superiori non negano quelle inferiori, e il potere più alto non è potere
sovrano e assoluto. Qui invece si tratta di esprimere quell’unica forza che è da
tutti prodotta e che non può avere resistenza, un potere sovrano, che si incarna
appunto nell’agire rappresentativo, per cui si può parlare del sovrano-
rappresentante» (La rappresentanza politica, cit., p. 155).
un’amorfa e variegata congerie di volontà “puntiformi”, si perviene alla
forma unitaria del responso. In buona sostanza, anche laddove
sembrerebbe concesso fare a meno della mediazione rappresentativo-
autoritativa della persona ficta, recuperando l’esatta identità tra demos e
nomos, tra deliberazione e sovranità popolare, in realtà interviene,
immancabilmente, la demiurgia della rappresentazione. Ancorché in
maniera poco evidente o, comunque, di non immediata percezione,
quest’ultima opera a monte, anticipando la risposta popolare, rendendosi
preventivamente interprete del suo stesso intendimento, nel momento di
decidere l’oggetto dell’approvazione, oppure i termini del quesito su cui
la cittadinanza è chiamata a decidere. Ciò vale a dire che quest’ultima
viene rappresentata surrettiziamente anche in ordine alla materia della
scelta: il popolo può rispondere, ma non può domandare11.
Simile ragionamento non manca di coinvolgere il popolo nella sua
qualità di potere costituente, cardine di un coerente sistema democratico.
Infatti, persino qualora esso venga interpellato relativamente alla forma
da conferire allo Stato costituendo, è inevitabile ricorrere a un intervento
di mera ratifica, rispetto a una più o meno ristretta rosa di opzioni
costituzionali elaborata e proposta da un soggetto precedentemente
incaricato di dare corpo, dunque limite “morfologico”, all’infinite
possibilità ordinamentali e ai relativi schemi (puri, spuri, combinatori)
suscettibili di selezione: benché sia innegabile il primato decisorio –
perché dirimente e insindacabile – riconosciuto alla volontà popolare, al
soggetto proponente viene richiesto di attribuire, ex ante, realtà empirica
a un modello sino a quel momento confuso tra le innumerevoli eventualità
fluttuanti nell’inafferrabile dimensione delle idealità ottative, nell’atto
stesso di prediligerne alcune e di scartarne altre, al fine di somministrarle
all’attenzione della cittadinanza. In altri termini, il rappresentante-
promotore esercita un potere d’iniziativa nei riguardi della volontà
popolare, in quanto la “costringe” ad attivarsi su quanto da lui
considerato “sceglibile”. Di conseguenza, non sarebbe del tutto
inappropriato ritenere la Convenzione un “sovrano-rappresentante” pure
in tale circostanza, giacché precede il risultato della consultazione,
avendo in potenza già “voluto” quello che poi, in atto, risulterà essere il
contenuto della scelta sovrana del popolo (meglio, della sua
maggioranza). Se non altro, a essa si deve l’impulso primigenio che
conduce a esistenza la forma costituzionale infine prediletta12.
Dunque, neppure nei casi-limite, in cui più nettamente si svolge la
fenomenologia democratica della sovranità, la dinamica rappresentativa
smentisce la necessaria sussunzione dell’identità in un processo che
meglio sarebbe definire di identificazione (Identifizierung), il quale risolve
l’intrinseca dialettica tra realtà e finzione in un rapporto fattivamente
differenziale tra le persone plurime dei governati (rappresentati) e la
personalità istituzionale del governante (rappresentante), capace tuttavia
11
Vedi C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 207 ss.
12
Vedi C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 83 ss.
di operare la transustanziazione qualitativa della sommatoria
“apeirontica” delle singole volontà in una volonté générale di grado
superiore, poiché politicamente performativa. Soltanto in detta
dimensione ideale, difatti, si elimina lo scarto tra l’individuo-suddito,
fisicamente assente dalle sedi dell’imperium (nonché impossibilitato a
decidere sovranamente per tutti i suoi pari), e l’esclusività decisoria
dell’attore politico, eletto, ma pur sempre dotato di delega “in bianco”. In
effetti, la distinzione, sebbene imposta dalla necessità esistenziale – ancor
prima che logistica – della rappresentazione, scompare nel momento di
riconoscere il popolo come variante secolarizzata del “corpo mistico”
paolino, nel suo carattere di insieme di membra sì giustapposte sotto il
profilo sociologico (in quanto unità fisiche assunte secondo l’assioma
della perfetta eguaglianza), ma reciprocamente omologate e aggregate
sotto il punto di vista eidetico, così da partecipare alla soggettività cui lo
Stato-persona inerisce, animata dallo pneuma politicamente vitalizzante
“inalato”, appunto, dall’istituto rappresentativo: ossia, dall’elemento
produttivo di “forma-unità” che la rende in grado di volere e di agire nelle
vesti di subiectum autarchico. In caso contrario, data l’impossibilità di
fare a meno di una mens directiva che sovrintenda alla dimensione
pubblica e, conseguentemente, dotata di potere (Macht), non si
otterrebbe altro che il nudo risultato di un gruppo oligarchico (più o
meno ristretto) nient’affatto consentaneo all’ente-popolo, collocato in
posizione di dominio nei riguardi di una più vasta collezione di singolarità
politicamente irrelate rispetto all’imputazione sovrana del “dio
mortale”13.
Il rimando alla terminologia rousseauviana non è affatto casuale,
essendo il filosofo ginevrino l’altro termine di riferimento della
spiegazione di Schmitt, almeno con riguardo agli aspetti in cui costui si
dimostra, nelle premesse, degno erede dell’insegnamento hobbesiano 14.
Persino Rousseau, che non spicca di certo tra i sostenitori del sistema
rappresentativo, escludeva categoricamente la coestensione identitaria
tra la società, considerata nelle sue componenti soggettive, e il popolo,
inteso sotto la specie dell’unità politica. Già dovendo ricorrere alla figura
(addirittura, di estrazione allogena) di un “fantomatico” nomoteta-
fondatore dall’aura semidivina, per non cadere nell’aporia del momento
costituente, egli altresì negava che la totalità popolare, in quanto
sovrana, possa corrispondere alla somma algebrica dei singoli che la
compongono. Per giunta, coloro i quali presenziano nell’assemblea
deputata a manifestare – con una sorta di espressione dichiarativa più
che deliberativa – la volontà generale, trovano il titolo della propria
partecipazione non in un diritto soggettivo all’azione politica, bensì nel
costituire una cellula inespungibile della persona collettiva sovrana.
A causa del dogma dell’eguaglianza formale vigente tra gli uomini,
così come affermata dal giusnaturalismo moderno nelle sue variegate
13
Ivi, pp. 236 ss.
14
Ivi, p. 205.
declinazioni contrattualistiche, l’alienazione dei diritti in favore del corpo
politico, tanto in Hobbes quanto in Rousseau, si manifesta pressoché
invincibile. È pur vero che il secondo contesta al primo filosofo la
previsione di una formula rappresentativa tale da usurpare al popolo la
titolarità di determinarsi secondo il proprio interesse, contrapponendo a
ciò un’alienazione nient’affatto fiduciale, ove i consociati siano, al
contempo, sudditi e sovrani, secondo la circolarità implicata nell’auto-
governo. Ma è altrettanto vero che la tendenziale universalità della
persona sovrana, incarnata nell’assetto assembleare cui s’impone la
manifestazione (unanime!) della volonté générale, viene contraddetta da
un recupero surrettizio della rappresentazione, allorché al potere
legislativo totalitario si contrappone un potere esecutivo il quale esige un
ambiente istituzionale più ristretto, quindi selezionato, giacché «non è
bene che chi fa le leggi le applichi, né che il corpo del popolo distolga la
sua attenzione dai problemi generali per indirizzarla a scopi
particolari»15.
2. Neo-democrazia o post-democrazia?
21
A riguardo, vedi S. RODOTÀ, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie
della comunicazione, Roma – Bari 2004, ove s’introducono, con stile – potremmo
dire – iperbolico, le definizioni di “socialismo” e di “egualitarismo informatico”.
un comizio continuativo, somministrato in guisa utile da suscitare non
tanto il dibattito, quanto la misura del grado di soddisfazione dei
cittadini, consentendo inoltre al politico di registrare tutti i desiderata,
nell’affanno di accontentare il più vasto numero possibile di individui e
d’interessi. Conseguentemente, se ne ricaverebbe la propensione a
strategie politiche contraddittorie e confuse, di corto respiro progettuale,
come pure a programmi di governo populistici a trazione plebiscitaria.
Anche nel caso in cui l’iniziativa dialogica fosse innescata dalla base
degli internauti, la rappresentazione potrebbe rivelarsi incline a tradire
l’innegabile funzione “demiurgica” assegnatale da Schmitt, sostituita da
tendenze che potremmo chiamare “mimetiche”. Stavolta, tuttavia, esse
risulterebbero, anziché scelte, subite dal rappresentante o, meglio,
imposte da e-citizens per giunta indotti a un atteggiamento di reciproca
competizione, volta a far prevalere la pressione delle proprie istanze nei
riguardi di un unico recettore, a discapito di altre. La partecipazione
sarebbe mossa dall’adesione – taciuta, ma potentemente operante – a una
nuda logica della maggioranza, sottesa ai risultati “consultivi” da
ostentare, a onta alle voci minoritarie uscite sconfitte dalla tenzone
telematica consumata tutta all’interno dell’elettorato. In questo caso, il
premio per la vittoria così conseguita verrebbe a coincidere con
l’affiliazione del politico, spinto a conformare il proprio operato
all’orientamento prevalente, comunque effimero, transeunte, ricavato
dalla convergenza occasionale tra interessi eterogenei e disgregati. Di
qui, un rappresentante costretto all’affanno del compiacimento, per
giunta difficile da riferire a indicazioni maggioritarie – quindi, ad assetti
consensuali – instabili, denotanti una polverizzazione sia dell’offerta, sia
della domanda politica.
Con queste premesse analitiche, si è in grado di tracciare taluni
scenari futuribili, riferendoli a eventuali declinazioni di una e-democracy
eretta sulla nozione individualistica dell’interesse (a partecipare) e
sull’accezione altrettanto individualistica del rapporto di mandato
rappresentativo.
In primo luogo, si potrebbe considerare l’ipotesi di una e-democracy
pura o diretta, fondata sulla convinzione di poter rimuovere qualsiasi
diaframma tra la società civile e l’effettivo esercizio della sovranità,
riducendo lo Stato al solo apparato burocratico. Ma non è affatto difficile
immaginare la difficoltà di ricondurre la sommatoria degli avvisi dei
singoli cittadini a una sintesi che non equivalga a una tirannia della
maggioranza – ammesso che la deposizione del canone rappresentativo
possa giustificarsi unicamente con la facoltà di raccogliere in tempo reale
gli orientamenti puntuali di ciascun membro del popolo internautico
(criterio logistico), senza considerare la necessità di far precedere il
momento deliberativo dalla conoscenza delle materie a oggetto
dell’esternazione decisoria (criterio scientifico-prudenziale). E,
comunque, una soluzione del genere difetterebbe della capacità di
raccogliere i soggetti sociali attorno a un’idea unitaria di popolo e,
conseguentemente, di volontà sovrana, in conformità a quanto di
imprescindibile si conserva nella riflessione di Schmitt.
In via alternativa, potrebbe darsi l’ipotesi di una e-democracy
consultiva, ove invalga la prassi di consultare i cittadini prima di
assumere decisioni legislative o governative, con tutte le
controindicazioni poc’anzi esposte in tema di derive populistiche.
Una strada intermedia verrebbe invece costituita da una e-democracy
partecipativa, qualora i governati venissero coinvolti, in rete, nelle
dinamiche di policy making, con la conseguente facoltà di esprimere
anche promozioni, proposte ed emendamenti, pur permanendo il ruolo
decisorio in capo ai rappresentanti. Una variante accentuata di tale
modello, tra l’altro, potrebbe ravvisarsi in una e-democracy deliberativa,
assai affine alle impostazioni socio-politologiche di Jürgen Harbemas,
intesa a valorizzare anche le dinamiche del dialogo interno alle diverse
aggregazioni civili, che sul web s’incontrerebbero per discutere e
confrontarsi sulle varie opzioni disponibili, prima di prodursi in una
scelta. Tuttavia, ciò, pur rappresentando una soluzione più raffinata –
oltre che più trasparente – del lobbying democratico, non pare affrontare
il problema della relazione con il rappresentante e, ancor prima, quello
genetico della rappresentazione. Sebbene si presupponga un assetto
pluralistico del dibattito entro “sfere pubbliche spontanee”, parallele
all’ambiente istituzionale, l’ottimismo nutrito nella “ragione
comunicativa” e nella relativa “persuasione razionale” non spiega quale
vincolo identificativo o di afferenza responsiva verrebbe a crearsi tra il
rappresentante politico (pur sempre della nazione) e le issues groups
provenienti dal “basso”. In sostanza, le indicazioni dei cittadini non si
dirigerebbero a un soggetto ben individuato, incaricato di sostenere le
posizioni deliberate da ogni preciso “aggregato dialogico” e, per ciò
stesso, immune dalla lusinga elettoralistica di polverizzare la propria
offerta politica: in fondo, se da un lato il momento operativo della
sovranità vedrebbe la compartecipazione tra istituzioni e società civile,
d’altro canto, con molta probabilità, sul versante selettivo (vale a dire,
rappresentativo, quindi elettorale), l’attenzione dei cittadini
continuerebbe a dedicarsi esclusivamente alla scelta del “miglior
offerente”, senza le garanzie di un più profondo legame fiduciale22.
22
Di diverso avviso è invece l’analisi offerta in J.B. ABRAMSON, F.C. ARTENTON e
G.R. ORREN, The Electronic Commonwealth: The Impact of New Media
Technologies on Democratic Politics, New York 1988, la quale si concentra sui
benefìci aggregativi apportati da una diffusa coscienza civica razionale e
dialogante, talmente libera da ipoteche identitarie (pre-razionali) da favorire
l’internazionalizzazione della cittadinanza e, quindi, dei governi, agevolando
l’esportabilità “indolore” della liberaldemocrazia occidentale su scala
potenzialmente globale.
Quel che si sta tentando di sostenere è che non dovrebbe apparire del
tutto eccentrico presagire gli inconvenienti aporetici, sotto il profilo
anche sistemico, allegati a modelli partecipativi e rappresentativi non
ancora invalsi nella realtà. La posta in gioco, difatti, è talmente alta da
dettare l’esigenza di verificare, con previdenza oculata, se l’intervento
delle nuove forme relazionali tra i soggetti istituzionali e il corpo civile sia
in grado di correggere e aggiornare i processi della legittimazione
politica e, segnatamente, della rappresentanza democratica, ovvero,
quale sia l’incidenza di rischio riferibile a una dimensione comunicativa
foriera d’interpretazioni aberranti della democrazia stessa.
In tale ottica, Pitteri ha ragione di paventare, con notevole perspicacia,
atteggiamenti ispirati a un “determinismo tecnologico” «per cui
l’attuazione di forme di e.democracy passa necessariamente per la
realizzazione di forme di governo elettronico, che ne costituiscono il
presupposto, individuando un automatismo», sebbene non sia
«assolutamente scontato che processi che si inseriscono nell’ambito della
modernizzazione dello Stato siano il presupposto per la ridefinizione dei
processi democratici»23.
Per quanto ci riguarda, abbiamo già accennato, sommariamente, al
sospetto che la nuova strumentazione tecnologica del dialogo tra eletti ed
elettori corra il pericolo di vedere impiegata la misura minima delle
potenzialità riformatrici cui la rete darebbe adito. In particolare,
sembrano sin da ora evidenti i prodromi di un utilizzo non accompagnato
dalla consapevolezza della odierna crisi, affliggente il rapporto fiduciale
e, quindi, la cifra identificativa della rappresentazione. Proprio ciò
permetterebbe di spiegare il – più o meno voluto – fraintendimento
relativo all’uso della e-communication secondo i criteri dell’approccio
massmediatico. Ci si riferisce, in particolare, al ricorso a un canale
comunicativo apprezzato prevalentemente nel solo pregio della
23
D. PITTERI, Democrazia elettronica, cit., p. 83. Poco più oltre, lo studioso si
diffonde nell’argomentare queste prime affermazioni: «Questo principio della
linearità è applicabile anche al concetto di cambiamento così come esso si
configura nei processi e nelle logiche della e.democracy. Emerge una spiccata
tendenza a ritenere che le fasi di sviluppo della democrazia elettronica
corrispondono alle applicazioni particolari che della tecnologia si fanno, e cioè
che il grado di democraticità cresce via via che si ricorre a determinate
tecnologie, per cui i processi di e.democracy si configurano solo come
successione di fasi tecnologicamente successive a prescindere dalle modalità di
relazione e di inclusione, che invece dovrebbero costituire il baricentro dei
processi partecipativi». Pertanto, quantunque le tecnologie costituiscano il
motore, ma non il contenuto qualificante delle dinamiche democratiche, la
«logica deterministico-lineare, che individua nella centralità assoluta delle
nuove tecnologie la specificità dei processi di e.democracy, determina,
paradossalmente, un contesto di assoluta autoreferenzialità, che esclude
qualsiasi relazione con tutto ciò che è differente dalle tecnologie, come se il solo
fatto che il processo sia tecnologicamente attivato esaurisse il compimento del
processo stesso: c’è, dunque funziona, dunque garantisce partecipazione e
democrazia» (p. 84).
simultaneità, dell’economicità e dell’accessibilità capillare, sino al punto,
addirittura, d’irrobustire l’attitudine autoreferenziale di certa classe
politica: in buona sostanza, per una sorta di paradosso, la rete si presta a
essere impiegata pure in maniera distorta, dando vita a forme di ascolto
senza dialogo, ove il comunicatore istituzionale, rinserrandosi nella
modalità statica della sua esposizione on-line, avrebbe facoltà d’imporre il
proprio linguaggio, al riparo da interferenze. È questo il caso, per
esempio, del ricorso a un blog ove esporre la propria figura comunicativa,
accogliendo gli interventi dei fruitori come in un recinto ermeneutico a
carattere concentrazionario, riducendoli ai termini di commenti già
disciplinati, in quanto a tematiche e a obiettivi: una sorta di siti-vetrina,
perfettamente congrui alla tendenza alla “vetrinizzazione” trasposta
dall’àmbito commerciale alle strutture relazionali e, infine, alla
comunicazione di massa24. E anche qualora l’animazione della sede di
confronto fosse rimessa alla più libera gestione degli utenti
atomisticamente considerati, non sarebbe esclusa l’evenienza che essi
stessi – sulla base di quanto si è ipotizzato al termine del precedente
paragrafo – scoraggino il rappresentante a interpretare le loro
esternazioni per dare esito applicativo a strategie di policy making
davvero coinvolgenti. In luogo di ciò, potrebbe benissimo emergere la
propensione teatrocratica alla mera “registrazione”: l’obiettivo sarebbe
ottenere che il politico registri, anziché elaborare e dare forma
politicamente strutturata alla datità delle espressioni maggioritarie, in
conformità a una customerizzazione che assimili i cittadini a “clienti” da
assecondare. Al che corrisponderebbe, inoltre, una rappresentazione
eterogenea e sperequata, giacché questa sorta di customer satisfaction
tenderebbe a dare riscontro alle aspettative di un elettore il quale, da un
lato, sarà attento a concentrare i propri interventi sulle tematiche che lo
interessano, dall’altro, si asterrà dall’esprimersi su questioni di altrui
riguardo: come se, ponendo sul medesimo piano i diversi “interessi a
partecipare”, il politico, dietro la finzione semplificatrice di un’unica
rappresentazione, di fatto, si facesse latore di un fascio di mandati
irriducibili a unità.
Ma allora, s’intravede, se non proprio un’alternativa, almeno un
margine cautelativo, che consenta di avvalersi delle opportunità
risolutive, in senso sostanzialmente democratizzante, offerte dalla rete, a
sanare il deficit d’indentificazione che sembra affliggere l’odierna
rappresentanza politica? Segnatamente, come adeguare la
rappresentazione schmittianamente intesa, insieme con la sua funzione
“presenzializzante”, alla realtà poli-archica del tempo attuale, senza
incorrere in contraddizioni?
Le soluzioni al vaglio degli analisti sono indubbiamente innumerevoli,
talvolta radicali, talaltra ispirate da misurati accorgimenti riformistici. A
nostro parere, meriterebbero particolare attenzione i modelli che, mossi
24
Questa dinamica socio-comportamentale risulta accuratamente esaminata da
V. CODELUPPI, La vetrinizzazione, Torino 2007.
dall’obiettivo di riavvicinare il logos composito della cittadinanza a quello
delle istituzioni statuali, si propongano, per così di dire, di “socializzare”
la politica e, al contempo, di “politicizzare” la società.
Disposti a correre il rischio di essere fraintesi, vedendo la nostra ottica
tacciata di anacronismo o, peggio, di reazionarismo, reputiamo che un
buon punto d’inizio possa consistere nel ridiscutere i presupposti
individualistici dell’antropologia politica della Modernità. In una
situazione in cui la fictio giuspubblicistica del contrattualismo e della
relativa nozione di “interesse generale” svela le sue deficienze, a fronte di
una socialità sempre più manifestamente articolata in corpuscolarità
aggregate – semplici o complesse che siano – ci sembra quanto mai
opportuno considerare la natura degli autori-attori effettivi di un pactum
societatis e, conseguentemente, di un pactum civitatis sottoposti a
quotidiana negoziazione.
Per meglio illustrare i termini di simili affermazioni, sarà alquanto utile
rifarsi al pensiero di Johannes Althusius, che potremmo considerare
l’estensore di una dottrina diretta a rivendicare una concezione pre-
moderna del governo e della rappresentanza, esposta nel suo ultimo
“colpo di coda” prima dell’affermazione della “personalità statuale”
perorata dal giusnaturalismo seicentesco25. Il riferimento ad Althusius
risulta viepiù giustificato, alla luce di una nozione “simbiotica”
dell’esistenza, tale da considerare l’innata socialitas degli uomini
estrinsecarsi nella formazione di consociationes sempre più ampie e
inclusive, dalla famiglia sino ad arrivare a quella consociatio universalis
che è la respublica, apice della tendenza federativa dei gruppi a unirsi in
regime di ordinata cooperazione26.
Quest’assetto, se da un lato afferma la naturalezza della società, al
contempo individua l’altrettanta naturalezza del gubernum, fattore
direttivo che, al cospetto della mentalità moderna, non può non esaltare
la differenza tra governo e potere: esulando da un rapporto meramente
formale di comando e obbedienza, la categoria utilizzata da Althusius
insiste sulla necessità fisiologica di una funzione di guida in ogni entità
associativa, da esercitare secondo i canoni della felice metafora
platonico-aristotelico-ciceroniana del nocchiero, relativa a una strategia
di navigazione che non distingua la fortuna del natante da quella del suo
25
Chiaramente, questa lettura diverge dalla consueta interpretazione del
pensiero althusiano, invalsa a partire da O. VON GIERKE, Johannes Althusius und
die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, che colloca
Althusius tra gli esordi del giusnaturalismo moderno. Preferiamo invece seguire
gli orientamenti esegetici ricavabili da Politische Theorie des Johannes
Althusius, a cura di K.W. Dahm, W. Krawietz, D. Wyduckel, Berlin, 1988, ove la
maggior parte dei contributi tende a rivisitare e a emendare gli aspetti più
critici della tesi di Gierke.
26
Importanti approfondimenti sul principio federativo althusiano sono offerti in
Th.O. HÜGLIN, Sozialiter Föderalismus. Die politiche Theorie des Johannes
Althusius, Berlin – New York 1991.
equipaggio, di cui il pilota è pur sempre parte 27. Detto in maniera più
esplicita, le norme ispiratrici della rotta coincidono con la cura degli
interessi plurali degli attori sociali, considerati nel loro reciproco
intersecarsi e conglutinarsi, stabilendo l’essenziale politicità non soltanto
del soggetto governante, ma anche dei governati. In poche parole, il
gubernum reipublicae althusiano si rende efficace nella misura in cui
esso, essendo presente a ogni livello dell’ordine sociale, si esprime come
coordinamento delle molteplici communiones consociate: molteplici,
proprio perché, a differenza di quanto delineato dal moderno concetto di
sovranità, non si dà una volontà unica del popolo, bensì un carattere
unitario e federato di parti che, anche dopo il patto costitutivo
inaugurante la civitas, non annullano il momento politico delle loro
identità, giacché membra organiche di un corpo complessivo.
D’altro canto, se la sapientia civilis dei Romani, espressa per bocca di
Cicerone, definisce populus non un’entità astratta, bensì un «coetus
multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus»28, anche in
Althusius, l’unificazione organica di aggregati che, a ogni livello del
foedus, conservano identità e interessi autonomamente rappresentabili,
rivela che le singole consociazioni – anziché gli individui in quanto tali! –
sono i soggetti di riferimento politico, in grado di esprimere volontà
pubblica («populus seu membra regni consociata»29). In luogo di una
sovranità popolare riconosciuta in capo all’insieme totalistico dei cittadini
(contrapposto, come ente a sé, alla dimensione privata del singolo), rileva
la mediazione delle cerchie in cui i singoli s’inscrivono, le quali si
compongono, in maniera coordinata, nel momento unitario del gubernum,
ove all’istanza decisoria viene affiancata un’istanza collegiale: in ciò si
riflette il principio di una rappresentanza “per ordini”, che percorre ogni
livello associativo della società, sino al vertice potestativo della città, nel
quale si consuma l’incorporazione del popolo in misura dei suoi
raggruppamenti («potestas regni seu consociatorum corporum»30).
27
Vedi J. ALTHUSIUS, Politica methodice digesta atque exemplis sacri set profanis
illustrata, I, 35 ss. Per un saggio della differenza tra la nozione antica e pre-
moderna di governo e quella di un potere così come definito dalla sovranità
statuale giusnaturalistica, si consulti G. DUSO, Sulla genesi del moderno
concetto di società: la consociatio in Althusius e la socialitas in Pufendorf, in
“Filosofia politica”, X, 1996.
28
CICERONE, De re publica, I, 25, 39. Si noti, tra l’altro, come quest’insieme
organizzato in unità plurali collettive (coetus multitudinis… sociatus) sulla base
del consentimento etico-giuridico-politico dell’appartenenza (iuris consensu) e in
virtù della compartecipazione a un interesse unitivo (utilitatis communione), si
contrapponga a qualsiasi novero eterogeneo di individui, connotati
antropicamente ma non anche civicamente (omnes coetus hominum), accostati
secondo un criterio soltanto quantitativo e casuale, in maniera tutt’altro che
strutturata (quoquo modo congregatus). Ancor più in dettaglio, si osservi
l’opposizione tra il termine sociatus e quello di congregatus (etimologicamente
da grex, gregge).
29
ALTHUSIUS, Politica, IX,16.
30
Ivi, XVI, 19.
In un quadro del genere, seppure l’individuo si manifesti come mera
astrazione rispetto all’organicità complessiva, risulta parimenti astratta
l’idea di un popolo inarticolato, politicamente inesistente e inoperante
prima del patto. Giacché vivificato da un crisma di politicità e di
rappresentatività vigente in ciascuna delle sue sezioni consociative,
inanellato progressivamente in tutte le sue concentricità, sino al vertice
della consociatio universalis, il popolo detiene una capacità di agire e di
volere risultante dall’armonia dell’agire e del volere delle sue membra,
ognuna adunata intorno a interessi oggettivi, stabili, concreti 31. Il che
avviene per una “un’automotilità” composita, che non necessita di essere
azionata, ab extra, da una volontà del tutto aliena, capace di contare
solamente singoli sudditi al suo cospetto, trattandosi invece di una
sovranità ottenuta dall’accordo iterativo delle diverse potestates, cui
sovrintende la summa potestas32.
44
Attento a cogliere la dimensione psico-antropologica e anche “spaziale”
dell’inter-esse è L. ORNAGHI, Interesse e gruppi corporati. Introduzione allo
studio del fenomeno corporativo, in “Il Politico”, XLV, 1980. Non privi di tale
riferimento sono pure gli studi condotti su un preteso “neo-corporativismo” o
“neo-corporatismo” (ove il prefisso sta a chiarire l’assensa di derivazioni
ideologiche da soluzioni ordinamentali sperimentate nell’Ottocento e nel
Novecento). Vedi, per esempio, PH.C. SCMITTER, Still the Century of Corporatism,
in “The Review of Politics”, XXXVI 1974; G. GOZZI, Potere e modello
neocorporativo, in AA.VV., Nuove forme del potere. Stato, scienza, soggetti
sociali, Milano 1982; A. CESSARI, Pluralismo neocorporativismo
neocontrattualismo, in “Rassegna italiana di Diritto del lavoro”, II, 1983.
45
G. DEL VECCHIO, La crisi dello Stato, in “Rivista internazionale di Filosofia del
diritto”, XIII, 1913, p. 684.
corporazione e le funzioni da essa espletate sulla base di un interesse
considerato “comune”»46.
Certamente, dunque, non di corporativismo in senso stretto vorremmo
parlare, giacché sarebbe assurdo pensare ad assetti rigidi, al cospetto
alla socialità “fluida” del presente. Piuttosto, i suggerimenti che
provengono dal dibattito giuridico-politico, sociologico ed economico
della metà del primo Novecento, come pure le dottrine perorate dal
cristianesimo sociale italiano, francese, austriaco e tedesco, via via
risalendo a Romagnosi, Vico, Althusius e più in là ancora, possono
apportare, sotto un profilo principiale, maggiore consapevolezza alla
mente di chi, nel tempo presente, si ponga il problema della complessità
vitale dei soggetti sociali47. Da ciò dovrebbe discendere lo sforzo di
riconoscere una definizione di “politico” sganciata da quella di
“statualità”, trovando conforto in ciò che già Joseph von Görres, nel 1818,
sosteneva: «Allorché nella società borghese la costituzione si inceppa, là
fa la sua comparsa l’elemento genuinamente umano, sul quale – come sul
suo fondamento ultimo – ogni forma riposa, e che invariabilmente resta il
medesimo in ogni cambiamento della forma. Come l’intera moltitudine dei
diversi corpi naturali si lascia alla fin fine risolvere in pochi elementi
naturali, così egualmente, alla base di tutte le strutture nella società, si
trova un certo numero di elementi politici; questi, allorché la forma si
dissolve – in modo violento attraverso rivoluzioni, o per invecchiamento
nel corso naturale delle cose – sempre sopravvivono, indistruttibilmente
eguali, e subito dopo essere stati separati si ricompongono in una nuova
figura»48. In fin dei conti, si tratta di guardare a una vita che non può
esaurirsi nei termini di un artificio razionale giuspubblicistico, dal
momento che pure lo Stato è chiamato a consentirle agibilità e
“presenza” istituzionale, se intende giustificare il proprio ruolo, evitando
46
L. ORNAGHI, Stato e corporazione, Milano 1984. L’autore, con notevole acribia,
fa altresì notare: «In realtà, già nella società d’antico regime (e anche dopo che
la legge Le Chapelier avesse formalmente proclamato nel 1791 lo scioglimento
di ogni corporazione), l’oscillazione del fenomeno corporativo era stata guidata
- più che da un moto pendolare uniforme – da un continuo antagonismo fra due
tendenze, le quali, diverse e assai spesso contrapposte, erano entrambe operanti
sin dalla nascita dello Stato moderno: la tendenza dello Stato – da una parte – a
“incorporare” i gruppi economico-sociali – dall’altra – ad “accorparsi” in
aggregazioni stabilmente organizzate così da sottrarsi all’incapsulamento entro
uno Stato “totale» (p. 15).
47
Per una ricognizione del corporativismo cattolico, Vedi AA.VV., Verso il
corporativismo democratico, Bari 1951 e, (soprattutto riferito alle matrici neo-
romantiche), P.T. MAYER-TASCH, Korporativismus und Autoritarismus. Eine Studie
zu Theorie und Praxis der beruffsständischen Rechts- und Staatidee, Frankfurt
1971. In area liberaldemocratica, si vedano gli “illuminanti” articoli di A.
OLIVETTI, La rappresentanza nel sistema delle Comunità, in “Comunità”, I, 1946
e Vera e falsa competenza politica, in “Movimento Comunità”, I, 1948. Sul
versante del sindacalismo liberale spicca l’attività editoriale di Pagine libere.
48
J. VON GÖRRES, Gesammelte Schriften XIII: Politische Schrifen (1817-1822),
Köln, 1929, p. 5.
di dare corso a reazioni centrifughe e valorizzando, invece, le attitudini
politicamente centripete delle simbiosi consociative. Per questa ragione,
in maniera del tutto diversa rispetto alle sperimentazioni svolte in un
passato a noi noto, non si tratta di applicare esattamente i canoni della
sovranità statuale alle emergenze aggregative degli interessi sociali49.
Piuttosto, se non proprio in prospettiva rovesciata, accade di avvertire
l’esigenza di un incontro finalmente veridico tra Stato-persona e Stato-
comunità, utilizzando l’agorà virtuale introdotta dall’informatica per un
reciproco adeguamento. Proprio per tale ragione, anziché al
corporativismo (in quanto regime), più corretto sarebbe riferirsi a un
fenomeno corporativo lato sensu50, che si manifesti nella spontaneità di
49
Sul tutt’altro che pacifico dibattito interno alla stessa intellighenzia fascista,
riguardo agli obiettivi da assegnare allo Stato corporativo, vale la dettagliata
analisi ricostruttiva di L. ORNAGHI, Stato e corporazione, cit., che aggiunge
ulteriori elementi interpretativi alle già note letture riferite a esigenze
tecnocratiche di programmazione economica, a scopi di contenimento e
inglobamento delle forze sociali in potenziale contrasto con il regime, a
impostazioni autarchiche e protezionistiche, a strategie demagogiche, a
irriducibili velleità statocentriche etc. D’altronde, Silvio Lanaro non manca di
osservare: «Si sbaglierebbe ancora, inoltre, se si ritenesse che a cavallo del ’25-
26 il plesso istituzionale e culturale del corporativismo sgorga da un dibattito
“giovane” tutto interno alle correnti del fascismo – poco importa se di destra o di
sinistra, poco importa se innervate dal nazionalismo integralistico di Rocco o dal
criticismo americanizzante di Bottai – e poi riceve dalla depressione degli anni
trenta l’abbrivo per la formulazione compiuta di una “Bildung” teorica e
pragmatica. […] Spesso le ipotesi di Stato totalitario e “sindacale” fioriscono sul
terreno della più genuina tradizione del liberalismo, e sia pure particolarissimo
liberalismo italiano» (Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia
1870-1925, Venezia 1979, p. 238). Proprio la congerie di dottrine e idealità che
accompagnò l’esperimento corporativo in Italia, connotato secondo molteplici
famiglie ideologiche (democratica, socialista, nazionalista, liberale, sindacalista,
comunista), non poté non attirare l’attenzione di un altrettanto variegato
pubblico di osservatori. Come rilevava Gaetano Salvemini, lo « “Stato
corporativo” fascista ha destato la curiosità, la speranza, e persino l’entusiasmo.
L’Italia è diventata la Mecca degli scienziati politici, degli economisti, dei
sociologi, che vi affluirono per osservare coi loro propri occhi l’organizzazione e
l’attività dello Stato corporativo fascista» (Sotto la scure del fascismo: lo Stato
corporativo di Mussolini, Torino, 1948, p. 4). Tra i numerosi studi svolti in
materia da autori stranieri – atti a testimoniare la difficoltà esegetica
d’inquadrare esattamente il fenomeno – oltre alle ovvie attenzioni austro-
tedesche e spagnole, vedi, per esempio, L. ROSENSTOCK-FRANCK, L’économie
corporative fasciste en doctrine et en fait. Ses origines historiques et son
évolution, Paris 1934; R. BONNARD, Syndacalism, corporatisme et État
corporative, Paris 1937; S. AGAPITIDÈS, Saint-Simon et le corporatisme fasciste,
in “Révue d’Histoire économique et sociale”, XXIII, 1936; W.G. WELK, Fascist
Economic Policy. An Analysis of Italy’s Economic Experiment, Cambridge 1938;
P. EINZIG, The Economic Foundations of Fascism, London 1933.
50
Ancora secondo Ornaghi, «grave è l’equivoco in cui si incorre allorquando si
stabilisca una stretta correlazione fra tale crisi [scil.: della rappresentazione
prassi inclusive, con specifico riguardo a una formazione aggregativa del
consenso avulsa da quelle «sintesi unitarie prefigurate» 51 già in seno allo
Stato-persona.
53
O. SPANN, Hauptpunkte der universalistischen Staatsauffassung, Berlin 1929,
p. 5 (tr it. in “Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica”, 1931, p. 57).
Taluni elementi della dottrina di Spann ci tornano utili per diversi
ordini di ragioni, reciprocamente connessi. Il primo inerisce al concetto di
Ganzheit, le cui ascendenze vengono fatte risalire a più disparati contesti
filosofici (dall’indiano al cinese, al platonico-aristotelico, al
neoplatonistico, al medioevale). Incentrato sull’affermazione ontologica
per cui ogni realtà deve la propria esistenza all’essere parte di un intero,
esso contrappone al metodo individualistico-atomistico, che separa ogni
ente dagli altri nella sua autarchica sussistenza, un metodo
universalistico, fondato su sei cardini: 1) ciascun intero si manifesta
soltanto nelle parti che organicamente la compongono; 2) l’intero vive
nelle sue parti, mentre queste ultime non godono di un’esistenza che
possa prescindere dall’interezza; 3) l’intero precede le parti secondo un
criterio non temporale, bensì logico, giacché il primo non risulta essere la
mera sommatoria meccanicistica delle seconde, né queste consistono in
un rapporto di alterità (causale) rispetto a esso; 4) l’intero non si
esaurisce nelle parti, essendo dotato di propria vitalità e di inesauribili
potenzialità; 5) le parti, essendo fondate sull’intero in maniera articolata,
vantano una propria identità, non fondendosi tra esse come in un tutto
indistinto; 6) l’intero, pur essendo presente in ciascuna parte (e
viceversa), non annulla quest’ultima nella propria preminenza pervasiva.
Da ciò discendono categorie quali l’articolazione, la trans-articolazione, la
somiglianza, la ricongiunzione, la dualizzazione, e le loro relative sotto-
categorie (somiglianza, prestazione, correlazione etc.), riferite alla
modalità fenomenologica dell’intero, il quale si rivela nella coordinazione
delle determinatezze particolari che lo compongono: in sostanza, l’intero,
manifestandosi nelle parti, non tradisce la propria natura, né queste si
dispongono in una conflittualità tra Io (tesi) e non-Io (antitesi), derivando,
al contrario, la propria “libertà ontologica” da un rapporto di reciproca
relazionalità con un “altro-diverso” che pure consente di percepirsi come
identità e, al contempo, di partecipare all’intero. Di qui, una
multicentralità per cui “tutto è in tutti”, secondo analogia, compensazione
o complementarietà, sicché nulla può vantare un titolo di nuclearità
irradiante rispetto a una “periferia”54.
Trasposte nel campo di una teoria della società e della politica, è
evidente quanto simili premesse rivelino il rifiuto di qualsiasi
considerazione individualistica, negante il carattere strutturante
dell’intersoggettività e, a maggior ragione, il valore super-personale delle
manifestazioni organiche dell’umanità. Il che non significa affatto
54
Vedi specialmente O. SPANN, Gesellschaftslehre, Leipzig 1923 e
Kategorienlehre, Jena 1924, insieme con i lavori pubblicati postumi Die
Ganzheit und ihre Kategorien im Hinblick auf das Verfahren der Wissenschaft, in
Studium Generale, 1952; Die Ganzheitliche Logik. Eine Grundlegung, Salzburg-
Klosterneuburg 1958 (ripubblicato in nuova versione nel volume n. 17 della
collana Gesamtausgabe, Graz 1971). Per un’analisi puntuale e schematica dei
princìpi relativi alla Ganzheit spanniana, segnaliamo G. FRANCHI, La filosofia
sociale di Othmar Spann. Tra Methodenstreit e Ständestaat, Roma 2002, pp. 32
ss.
ricorrere a una visione olistica tale da affermare l’assorbimento del
particolare nella totalità dell’universale. Diversamente, si tratta di
un’idea organica affermante il primato dell’“insieme-intero”, non
dell’“uno-tutto”: in un universo così concepito, si riesce davvero ad
ammettere il ruolo di un’identità individuale irripetibile, svolto nel
complesso cui essa partecipa. Al contrario, sarebbero le dottrine
individualistiche, fondate su una astratta fungibilità ed equivalenza dei
singoli (sinora testimoniato dal dogma della segretezza e dell’anonimato
del voto), a comprimere la libertà del particolare, asservendola a
un’arché artificiale55.
Da un’ottica ispirata alle intuizioni di Spann discenderebbe, altresì,
l’idea di una reciprocità dei rapporti non soltanto tra parti sociali, ma
anche tra Stato e società, giacché ciascun termine presenta, in sé, il
completamento perfezionante di un qualcosa già presente nell’altro,
proprio come accade nelle comunità umane naturalmente unitive e
moralmente vincolanti (matrimonio, famiglia, amicizia etc.), secondo
presupposti d’interdipendenza integrativa, in ordine a una
compensazione necessaria che si consuma nei modi analoghi al contatto
tra il “concavo” e il “convesso”. Detto in maniera più esplicita, tali
premesse consentirebbero di concepire lo Stato non più come “centro
assoluto”, entità a sé stante. Esso, invece, in conformità a un principio più
correttamente definibile “corporazionistico”, anziché “corporativistico” 56,
figurerebbe quale “ceto tra ceti”, dotato di specifica qualità funzionale
all’interno di una società da configurarsi come «interezza spirituale e
dell’agire» (geistige und handelnde Ganzheit): lo Stato altro non sarebbe
che la manifestazione istituzionale dell’“agire organizzante”
(organisierende Handeln) e, insieme, sede dell’“agire rappresentante” o
“completante” (darstellende oder vollbringende Handeln) dell’intero
parziale della politica. Esso, cioè, avrebbe lo specifico compito di
esercitare una direzione generale e, al contempo, un’attività
istituzionalizzante (anstaltbildende Tätigkeit) rispetto alle “comunità
dell’agire” – e dell’interesse – in cui si struttura l’insieme della
cittadinanza. Pertanto, il suo fine ultimo non sarebbe più il potere, bensì il
perfezionamento sintetico della politicità di cui la società stessa, nelle sue
singole frazioni organiche, è capace57.
55
D’altronde, come viene correttamente osservato da Franchi, «le dottrine
individualistiche che lamentano il condizionamento sociale del singolo nella
Ganzheitlehre cadono esse stesse, secondo Spann, in quello che egli definisce il
“paradosso individualista”: solo la dottrina dell’interezza può pensare fino in
fondo l’idea di unicità. Questo perché l’intero è sempre composto di parti uniche
ed irripetibili; chi nega l’interezza e considera i singoli individui come degli
atomi non avrebbe più parametri per pensarne l’unicità» (La filosofia sociale di
Othmar Spann, cit., p. 111).
56
Sulla differenza vedi L.M. LACHMANN, Corporativismo e Corporazionismo, in Lo
Stato, IV, 1933.
57
Per questi e altri assunti, in Spann, si noti la continuità teoretica e
terminologica tra la Gesellschaftslehre, il Der wahre Staat (Leipzig 1921) e la
Evitando di lasciarsi sedurre dal rigore gerarchico adoperato dalla
costruzione spanniana, possiamo parimenti ricavare dai suoi presupposti
l’occasione per rimodulare il monopolio statuale della sovranità,
rinunciando, al contempo, a qualsiasi ipotesi di de-statualizzazione della
rappresentanza. Se l’antico argomento addotto a spiegare
l’impraticabilità materiale di una democrazia diretta si annuncia
confutato dall’immediatezza partecipativa consentita dal cyberspazio, ciò
non basta a far decadere i motivi più profondi della mediazione
rappresentativa. Ma non v’è dubbio sulla possibilità di recuperare,
attraverso la “consociazione telematica”, l’inerenza durevole del mandato
rispetto all’interesse, insieme con la concomitanza tra la (s)elezione e il
vaglio delle effettive attitudini dell’eligendo. Una verifica, quest’ultima,
non esercitata in maniera improvvisata ed estemporanea – saremmo
tentati di dire emotiva e superficiale – bensì appuntata su aspetti
specifici, valutabili da parte di quanti abbiano, rispetto a essi, reali
capacità di giudizio. In questa direzione, il principio della competenza
rivelerebbe un’applicazione biunivoca, coinvolgendo tanto il
rappresentante, quanto i rappresentati. Né dovrebbe trattarsi di una
valutazione condotta in ordine sparso, da parte di singolarità impreparate
a far valere eticità e utilità condivise, anche in quanto minoranze, senza
disperdersi nelle accidentalità doxastiche che incombono su un singolo
isolato, privo di strumenti per valutare le ragioni del proprio consenso
confrontandole con quelle altrui e affinandole grazie al filtro del concorso
dialogico-deliberativo con i suoi “pari”. Il che non importerebbe affatto la
parcellizzazione della sovranità in innumerevoli “parrocchialismi”,
ricavandone una democrazia di fatto “bloccata”, come paventato da Hans
Kelsen58.
Gesellschaftsphilosophie (München 1928). Nel merito della contestazione
spanniana all’equivalenza tra Stato e politica, Franchi ha ragione di sottolineare
che «l’agire politico non appartiene solo al ceto statale, ma anche ad ogni altro
gruppo, associazione, organo territoriale, corporazione ecc.: in pratica, non
esisterebbe un’unica politica ma ce ne sarebbero tante quanti sono gli organismi
che agiscono all’interno della società e la gerarchia tra le diverse politiche
seguirebbe la stessa struttura dell’ordine sociale. Poiché ogni comunità
d’azione, ceto o altro, per il principio della Sachsouveränität è rappresentativa
dello specifico fine, della prestazione (Leistung) che svolge, ad ogni politica di
ceto corrisponde un relativo sistema rappresentativo. Diviene evidente, quindi,
come il principio dell’articolazione della società in interi parziali ed in gradi
neghi la distinzione netta tra rappresentante e rappresentato come vuole il
costituzionalismo liberaldemocratico: nelle “piccole interezze”, da cui è
costituita la società cetuale, ogni individuo è, al contempo, sia centro
(rappresentante), per la sfera di competenza di cui è guida, sia periferia
(rappresentato) delle interezze di cui è membro e che lo sopravanzano» (La
filosofia sociale, cit., p. 195).
58
E’ interessante notare la replica di Arnaldo Volpicelli ai timori kelseniani
espressi in Das Problem des Parlamentarismus, in ordine all’impossibilità di
ricavare esiti benèfici in una “decisione finale” afflitta, ab origine, da contrasti
d’interesse: secondo il pensatore italiano, l’obiettivo del principio corporativo è
In realtà, se v’è un filo rosso che accomuna il pensiero di Schmitt a
quello di Spann (qui assunti a pretesto per significare, rispettivamente,
maturità e superamento della statualità moderna), esso coincide con
un’eguale idiosincrasia rispetto a una traduzione in termini
individualistici della sovranità popolare, così frantumata in miriadi di
volontà e, pertanto resa politicamente insignificante, inoperante. Le
incompatibilità, piuttosto, emergono sul piano delle soluzioni: in un caso,
orientate a separare la politica dalla società, riservandola alla dimensione
dell’alterità potestativa dello Stato, in regime di esaustività
monopolistica; nell’altro, volte ad assegnare allo Stato il compito di
esaltare, coordinandole, le politicità esprimibili dagli uomini soltanto
nelle interezze consociative cui afferiscono59. Al che corrispondono due
modi diversi di concepire la rappresentanza politica: o isolata nella sua
funzione “germinativa”, produttrice dell’uni(ci)tà della volonté générale;
oppure varco di transito e contatto tra l’eticità sintetica del governo e le
molteplici ragioni civilizzazionali che, concretamente, animano le membra
della cittadinanza.
Di certo, è più che giustificabile la considerazione del rischio centrifugo
insito in un modello rappresentativo a carattere potenzialmente
“settoriale”, inteso a imprimere una cifra privatizzante all’esercizio della
sovranità. Tuttavia, la questione è osservabile anche da una prospettiva
diversa, già contando la considerazione per cui, in una democrazia a
suffragio universale come da noi conosciuta, non sono affatto
scongiurabili taciti moventi privatistici all’agire dei rappresentanti. Il
fatto è che un sistema corretto da una tendenza “corporazionistica” come
sin qui tratteggiata, forse, saprebbe liberarsi dall’equivoco ideologico con
il quale, dietro la copertura di un interesse dello Stato coincidente con
l’interesse generale, si celano meccanismi “satisfattivi” alquanto
disarmonici, rivolti al beneficio estemporaneo delle utilità frazionali
elettoralmente più proficue o dotate di maggiore evidenza comunicativa.
62
Per un’analisi ricostruttiva della genesi dell’idea nazionale moderna e del suo
progressivo esaurimento, vedi: H. KOHN, L’idea del nazionalismo nel suo
sviluppo storico, Firenze 1956; M. ALBERTINI, Lo Stato nazionale, Bologna 1958;
L. KOHR, Il crollo delle nazioni, Milano 1957; E. LEMBERG, Il nazionalismo. Il
sorgere dell’idea di nazione, gli stati nazionali del medioevo, l’età
contemporanea, Roma 1981; K. OHMAE, La fine dello Stato-nazione. L’emergere
delle economie regionali, Milano 1996; R. DE MATTEI, La sovranità necessaria.
Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno, Roma 2001, A. DI LELLO, Geofollia.
L’attacco globalista agli Stati nazionali, Roma 2001.
63
Attestato su analoghe posizioni è J. BOHMAN, Expanding Dialogue: The
Internet, the Public Sphere and Prospects for Transnational Democracy, in “The
Sociological Review”, LII, 2004 In senso contrario rispetto alle descritte
aspettative si esprimono B. BARBER, The New Communications Technology:
Endless Frontier on the End of Democracy, in “Constellations”, IV, 1997, e Z.
BAUMAN, Modernità liquida, Roma – Bari 2002.
Probabilmente, occorrerà cominciare rimediando all’alterazione già
semantica tra la categoria di un “Impero” di identità plurali, riunite dal
comune riferimento a valori superiori e, perciò, universali, e quella di un
“Imperialismo” eterodiretto, negatore delle differenze che possano
ostacolare i piani di un oligopolio di casta (e di cartello), mascherato da
ecumenismo egualitario65. A quest’ultimo, peraltro, non potranno di certo
opporsi gli irrigidimenti nazionalistici, né l’esasperazione patologica delle
reazioni regionalistiche o localistiche. Al contrario, si dovranno impiegare
tutte le migliori risorse ricavabili dalla fluidità su cui poggia la socialità
digitale, al fine d’invertire, sui fronti intra- e inter-nazionali, la tendenza a
un preoccupante federalismo “diabolico” (dal greco dia-ballein: separare),
di segno autonomista e secessionista, sostituendolo con un federalismo
“simbolico” (dal greco syn-ballein: congiungere), a carattere unitivo e
cooperativo66.
Per conseguire simili risultati, sarà altrettanto importante evitare di
considerare il melting pot scomposto, d’ispirazione americana, come un
destino irreversibile, senza scorgervi l’epifenomeno della mercificazione
delle identità richiesta dalla strategia globalista. In secondo luogo, sarà
oltremodo proficuo ancorare le “piccole patrie” di cui si compongono le
attuali società allo spazio etico delle rispettive sensibilità, rendendole al
contempo capaci di inserirsi volontariamente in realtà sempre più
comprensive, così da assecondare una sorta di legge enantiodromica e
vedere, finalmente, la cittadinanza astratta sconfitta da una cittadinanza
concreta. Ma, soprattutto, si dovrà trovare la maniera più corretta
possibile per corrispondere istituzionalmente ai soggetti collettivi che
64
Per l’originalità e il disincanto analitico con cui viene esaminato il destino del
“sistema dei diritti” allegato agli sviluppi liberaldemocratici della statualità
moderna, riteniamo doveroso segnalare gran parte dei saggi contenuti in I
diritti umani tra politica filosofia e storia, tomo II, a cura di A. Carrino, Napoli
2003.
65
Per un approfondimento significativo sul significato autentico dell’imperialità,
con specifico riferimento al paradigma romano, vedi P. DE FRANCISCI, Arcana
Imperii, Roma 1970. Conformemente a una prospettiva ora categoriale, ora
attualizzante, vedi: A. VITALE, Terra e Impero. L’Ortodossia fra particolarismo e
universalismo nell’esperienza politica mondiale del Secondo millennio, Milano
1993; C. BONVECCHIO, Imago Imperii Imago Mundi. Sovranità simbolica e figura
imperiale, Padova 1997; L. SOREL, Ordine o disordine mondiale, in Idee per una
geopolitica europea, a cura di L. Sorel, R. Steuckers e G. Mascke, Milano 1998;
F. DI MARINO, Comunità, Europa, Impero. Un’utopia per il XXI secolo, Milano
2001; R. COOPER, L’Impero prossimo venturo, in “Ideazione”, IX, 2002.
66
Per una definizione critico-problematica del composito universo ideologico
sotteso alla soluzione federalista, sarà utile consultare: A. DANESE, Il
Federalismo. Cenni storici e prospettive politiche, Roma 1995; D.J. ELEAZAR,
Idee e forme del federalismo, Roma 1995; L.M. BASSANI, W. STEWART, A. VITALI, I
concetti del federalismo, Milano 1995; G. CARNEVALI, Nazionalismo o
federalismo?, Torino 1996; A.M. PETRONI, R. CAPORALE, Il federalismo possibile,
Soveria Mannelli 2000.
vanno costituendosi a ritmo inarrestabile67. Tutto questo, prima che
nuove forme di hackering, generate dalla frustrazione di non ritenersi
adeguatamente rappresentati nei propri interessi, non si limitino al
sabotaggio informatico, impegnandosi in qualcosa di più eversivo, di più
pericoloso.
67
La questione viene esaminata dettagliatamente da A. GIDDENS, Modernity and
Self-identity. Self and Society in the Late Modern Age, Cambridge 1991. Un più
puntuale riferimento anche alle modalità partecipative nell’ambito di una
futuribile “democrazia telematica” viene offerto in Immaginari postdemocratici,
a cura di A. Abruzzese e V. Susca, Milano 2006, ma soprattutto da S.L. ALTHAUS
e D. TEWKESBURY, Patterns of Internet and Traditional News Media Use in a
Networked Community, in “Political Communication”, XVII, 2000, e da F.
AMORETTI, La rivoluzione digitale e i processi di costituzionalizzazione europei.
L’e-democracy tra ideologia e pratiche istituzionali, in La democrazia elettronica,
dossier della “Rivista di Comunicazione politica”, VII, 2006.