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GIUSEPPE CASALE

Per una sovranità “simbiotica”


La rappresentanza possibile in ipotesi di e-democracy

1. La “profezia” di Schmitt

Più di ottant’anni fa, Carl Schmitt osservava: «Negli Stati Uniti d’America
e in altri Paesi anglosassoni si sono inventate macchine complicate con
registri e tasti, non solo per garantire istituzionalmente il segreto del
suffragio, ma anche per dargli garanzie meccaniche. Potrebbe
immaginarsi che un giorno per mezzo di ingegnose invenzioni ogni
singolo uomo, senza lasciare la sua abitazione, con un apparecchio possa
esprimere le sue opinioni sulle questioni politiche e che tutte queste
opinioni vengano automaticamente registrate da una centrale, dove
occorre solo darne lettura. Ciò non sarebbe affatto una democrazia
particolarmente intensa, ma solo una riprova del fatto che Stato e
pubblicità sarebbero totalmente privatizzati. Non vi sarebbe nessuna
pubblica opinione, giacché l’opinione così concorde di milioni di privati
non dà nessuna pubblica opinione, il risultato è solo una somma di
opinioni private. In questo modo non sorge nessuna volontà generale,
nessuna volonté générale, ma solo la somma di tutte le volontà
individuali, una volonté de tous»1.
In questa maniera, probabilmente, ben al di là delle sue stesse
intenzioni, il filosofo tedesco s’inseriva anzitempo nella contesa che,
secondo la felice definizione di Umberto Eco, da tempo va
contrapponendo “apocalittici” a “integrati”, con riferimento alle paure o
alle attese suscitate dalla civiltà informatica 2. Atteggiamenti divergenti e
contrastanti, i quali, soprattutto con il passaggio metamorfosi dal
carattere di Gutemberg al chip in silicio, testimoniano le reazioni dinanzi
alla rivoluzione tecnologica in atto nella dimensione comunicativa
1
C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, Milano 1984, p. 322.
2
Vedi U. ECO, Apocalittici e integrati, Milano 1964, ma soprattutto nelle versioni
più aggiornate delle sue molteplici edizioni. Originali sviluppi di questa
contrapposizione sono svolti, con attenzione filosofica prima che sociologica, in
M. SIRIMARCO, Ancora su apocalittici ed integrati: ovvero tra Hermes e Narciso,
nel volume Informatica, diritto, filosofia, Roma 2007, curato dal medesimo
autore.
dell’umano: per alcuni, occasione imperdibile per una radicale
democratizzazione della società post-industriale; per altri, pericolo di un
epocale dissolvimento della libertà, così come concepita dallo Stato di
diritto e implementata dalle soluzioni liberaldemocratiche degli
ordinamenti occidentali. Non può certo passare inosservata, infatti, la
speranza – talvolta capace di assumere le sembianze di un’attesa
escatologica – riposta nell’informatizzazione da parte di coloro i quali
assegnano al linguaggio elettronico il compito di favorire la creazione di
agorà meta-spaziali, partecipabili da chiunque, senza dover abbandonare
i luoghi che ancora esigono la presenza fisica: assemblee virtuali, oggi già
vigenti sotto la significativa denominazione di forum, grazie alle quali
ciascun membro, eguagliando gli altri in quanto ad accesso alle
informazioni e a facoltà di espressione, un giorno, non dovrà più
rimettersi al rapporto fiduciale nei riguardi di un rappresentante,
vedendo riconosciuta un’efficacia giuridica e istituzionale al proprio clic.
Ma è altrettanto innegabile la tendenza, manifestata dal fronte dei
pessimisti, a delineare un futuro di diabolica manipolazione delle menti,
raggiunte da una comunicazione tanto capillare quanto unidimensionale e
massiva, capace di omologare coscienze e pensieri. Agitando lo spettro
orwelliano del Grande Fratello, l’umore nero di questa sorta di
millenarismo applicato alla rivoluzione informatica presuppone la visione
di una massa atomizzata di utenti acritici, ridotti a reagire
meccanicisticamente agli stimoli dei soggetti emittenti, di sicuro elaborati
in modo da suscitare risposte univoche, pre-formate: reazioni comunque
indotte secondo piani previsionali, mediante la versione più raffinata del
Panopticon di Bentham, non più disposto a mera finalità di controllo,
bensì lanciato verso soluzioni di produzione “artificiale” di un pensiero
per ciò stesso eterodiretto, nella costanza di un disegno
concentrazionario, deresponsabilizzante e nient’affatto incline al
pluralismo.
Eppure, le citate affermazioni di Schmitt avevano un sapore diverso,
perché diversa (dalla nostra) non era soltanto l’epoca, ma anche
l’intenzione provocatoria, allegata a presupposti politici e gius-filosofici di
profondo momento. E parimenti diversa, dunque, è la natura delle
riflessioni che, nel presente, le parole di Schmitt ci suggeriscono,
volgendosi a questioni che superano – pur comprendendolo – l’esclusivo
àmbito della formazione dell’opinione pubblica. Certamente, da esse
proviene lo spunto utile a tratteggiare un possibile scenario evolutivo
dello Stato, della rappresentanza e delle modalità d’esercizio della
sovranità. Insomma, potremmo tentare di ripensare la statualità nelle
forme modernamente concepite, di fronte alle sfide che la “democrazia
elettronica”, semmai dovesse conoscere un reale avvento, riuscirà a
lanciare, ponendo fine a quel che, da qualche tempo, va annunciandosi
come l’“autunno del Leviatano”.
Nel fare questo, è bene precisare donde proveniva “profezia
schmittiana” più sopra richiamata, e in quale contesto speculativo essa
trovava collocazione. Un’avvertenza, più che un timore, quella del filosofo
e giurista tedesco, elaborata a margine di una dottrina tesa a
reinterpretare i canoni della legittimità, dell’obbligazione e dell’unità
politica di uno Stato liberale che, con l’inveramento della società di massa
a cavallo tra XIX e XX secolo e, viepiù, dopo le novità introdotte (si
potrebbe dire “rivelate”) nella politica europea dagli esiti della Prima
Guerra Mondiale, denunciava una sensibile incapacità di tenuta,
destinata a riverberarsi anche sotto il profilo epistemologico, oltre che
istituzionale. Soprattutto, in Germania, la Repubblica di Weimar indicava,
con le contraddittorietà ordinamentali e le intrinseche debolezze del suo
congegno democratico, l’insieme degli attriti prodottisi in seno a un
sistema bifronte, il quale, se da un lato guardava alla tradizione elitaria
del liberalismo ottocentesco, dall’altro apriva le “stanze del potere” a
organizzazioni partitiche radicate in una società civile tutt’altro che
compatta, percorsa da velleità rivoluzionarie, concentrazioni di forze
ideologicamente contrapposte e, nell’insieme, non più disposta a
consistere in semplice spettatrice, attivata solamente nel momento di
delegare in bianco i suoi rappresentanti3.
Nel quadro di un sistema sottoposto a spinte centrifughe, a
sommovimenti demotici e a competizioni parossistiche, emergevano,
invero, tutte le aporie di una forma-Stato non più antica di un secolo e
mezzo, ma che si credeva potesse durare in eterno, nella convinzione di
avere raggiunto la soluzione atta a far consistere la cittadinanza
compatta, composta da individualità astrattamente eguali, unificate nella
dimensione concettuale di una rappresentanza politica “libera”, esente da
mandato imperativo e, perciò, abilitata a incarnare la personalità
intellettiva e volitiva della nazione, anziché le soggettività corpuscolari a
essa immanenti. Un’idea, questa, che filosoficamente rimontava alla
sovranità hobbesianamente intesa, ancorché resa democraticamente più
consona ai canoni democratici e, comunque, depotenziata nelle sue
possibili implicazioni assolutistiche, a partire dalla Rivoluzione Francese
e dalla sentenza capitale comminata alla rappresentanza organico-cetuale
dell’Antico Regime. Ma, altresì, un’idea che, nella certezza di potere (o
dovere) trasferire nella persona ficta istituzionale la summa potestas
della collettività nazionale, nei primi decenni del ‘900 prestava oramai il
fianco a inedite riformulazioni della sovranità popolare. Proprio su un
simile versante di criticità si era concentrata l’analisi di Schmitt, diretta a
una valutazione più consapevole, sicuramente disincantata, di quanto
contraddistingue la categoria della rappresentanza politica moderna: un
programma di ridefinizione, animato dall’intento di puntellare l’edificio
della statualità, prima che si sgretolasse per un patologico difetto di

3
Per una ricostruzione approfondita del periodo in argomento, attenta alla
qualità culturale e sociologica, oltre che ai risvolti dottrinali dei mutamenti
allora in atto, si vedano i saggi contenuti in Crisi istituzionale e teoria dello
Stato in Germania dopo la prima guerra mondiale, a cura di G. Gozzi e P.
Schiera, Bologna 1987.
autonomia e di monopolio potestativo. Il che aveva importato, sin da
principio, la denuncia della distinzione tra rappresentanza politica
(Repräsentation) e rappresentanza privatistica (Vertretung), propedeutica
a evidenziare il nesso sussistente tra la prima e l’unità stessa dell’ente-
Stato. Tale differenza introduceva, a mo’ di corollario, ad altra
divaricazione categoriale, consistente nell’antitesi tra identità e
rappresentazione: se la prima importa l’idea di un popolo presente, nella
sua immediatezza, quale elemento imprescindibile all’esistenza di
un’entità politica, la seconda si sostanzia nel principio per cui «l’unità
politica del popolo in quanto tale non può essere mai presente nella reale
identità e perciò deve sempre essere rappresentata personalmente da
uomini»4.
Ma l’analisi schmittiana raggiungeva una maggiore profondità nel
momento di esaltare, sia nella Verfassungslehre sia nella Politische
Theologie, in base alle premesse ravvisabili già in Römischer
Katholizismus und politische Form, la funzione formante della
rappresentazione, quale fattore necessario a conferire una morfologia
strutturale sia alla volontà generale del corpo cittadino, sia alla
personalità dell’apparato autoritativo, tale da abilitare il popolo ad agire
in maniera politicamente significativa. D’altro canto, affermare che «non
c’è nessuno Stato senza rappresentanza, poiché non c’è nessuno Stato
senza forma di Stato e alla forma spetta essenzialmente la
rappresentazione dell’unità politica»5 voleva dire, peraltro, non arrestarsi
a una prospettiva teorico-giuridica, tendendo invece ad affrontare il
fenomeno nella sua concretezza esistenziale, rendendo il problema
coesteso alla dialettica sussistente tra visibile e invisibile, ossia all’attività
del «rendere visibile e illustrare un essere invisibile per mezzo di un
essere che è presente pubblicamente»6. O, in maniera ancor più chiara,
significava sostenere che «la dialettica del concetto consiste nel fatto che
l’invisibile è presupposto come assente ed è nello stesso tempo reso
presente»7. Come è stato da più parti notato, tale argomentazione recluta
canoni concettuali di fattura teologica, nel momento di riconoscere
all’oggetto reso presente e visibile dalla rappresentazione un’eccedenza
trascendente rispetto al soggetto rappresentante, così da porre l’uno e
l’altro sui piani diversificati dell’empirico e del meta-empirico: stante la
consustanzialità tra il luogo della rappresentazione e il soggetto che
svolge la funzione rappresentativa, l’oggetto rappresentato non può non
detenere una natura resa manifestamente diversa dalla necessità stessa
di essere condotto alla presenza, nonostante la sua perdurante assenza.
Così è per il popolo (a maggior ragione, se sublimato in unità nazionale)
rispetto al politico, come pure per il divino rispetto al ministero
sacramentale terreno e, ancora, per l’idea rispetto alla storicità

4
C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, cit., p. 271.
5
Ivi, p. 273.
6
Ivi, p. 277.
7
Ibidem.
immanente. Se non altro, in punta di logica, basterebbe affermare che
non ha senso rappresentare quanto sia già presente, per decidere e agire
secondo effettiva contestualità8.
Almeno, nelle spiegazioni di Schmitt, ciò vale per la rappresentanza
pubblicistica, dal momento che lo “stare in luogo di un altro”, tipico del
diritto privato, importa una semplice sostituzione, incapace di dare forma
storica a un contenuto eidetico e uni(ci)tà a una soggettività molteplice
che aspiri a connotarsi di qualità politica 9. Del resto, costante è il
riferimento schmittiano a Hobbes, considerato come il più sincero
“profeta” della rappresentanza moderna, avendo egli negato, con
nettezza, la possibilità che lo Stato-persona possa ricondursi, nel
processo determinativo della sua volontà, alle volizioni frazionali dei
singoli membri dello Stato-comunità, cui resterebbe inibita la facoltà di
fornire “interpretazioni autentiche” del “dio mortale” cui si dà vita
attraverso il patto. In un certo senso, l’antecedenza cronologica del
pactum unionis rispetto al pactum subiectionis risulta essere più
semplificativa che reale, giacché, sul piano logico-realizzativo, non v’è
8
Per ulteriori e più diffuse considerazioni sulla dialettica “visibile/invisibile” in
Schmitt e sulla sua matrice teologico-metafisica, si veda, nella pur cospicua
bibliografia in tema, G. DUSO, Rappresentazione come presenza dell’assenza, in
ID., La rappresentanza politica. Genesi e crisi del concetto, Milano 2003. In
maniera critica nei riguardi di detta dialettica si esprimeva, già negli anni della
produzione schmittiana, Friedrich Glum (Der deutsche und französische
Reichwitschaftsrat. Ein Beitrag zu dem Problem der Repräsentation der
Wirtschaft im Staat, Berlin – Leipzig 1929 (corrispondentemente alla sezione di
testo poi riprodotta sotto il titolo di “Begriff und Wesen der Repräsentation”, in
Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfassung,
Darmstadt 1968), eccependo la contraddittorietà nel considerare durevolmente
assente quanto venga riprodotto in presenza. Ciò nonostante, un altro analista
del sistema weimariano, quale Gerhard Leibholz, svolgeva, in uno scritto
pubblicato l’anno successivo alla Verfassungslehre, considerazioni affatto
analoghe a quelle di Schmitt, sostenendo la necessità di distinguere la
rappresentazione tanto dalla mera resa astrattiva di un universale, quanto dalla
banale raffigurazione immaginale di qualcosa privo di fisicità, giacché soltanto
attraverso essa è possibile riferirsi a un’eccedenza eidetica, attribuendole
un’operatività storica continuativa o reiterata (Das Wesen der Repräsentation
unter besonderer Berücksichtigung des Repräsentativsystems. Ein Beitrag zur
allgemeinen Staats- und Verfassungslehre, Berlin – Leipzig 1929, ora nella
versione ampliata Das Wesen der Repräsentation und der Gestaltwandel der
Demokratie im 20. Jahrhundert, Berlin 1966, p. 26, tr. it. La rappresentazione
nella democrazia, Milano 1989, p. 70).
9
Sulla differenza tra Repräsentation pubblica e Vertretung privata si
esprimevano, nei medesimi anni, anche Hermann Heller (Die Souveränität. Ein
Beitrag zur Theorie des Staats- und Volksrrechts, Berlin – Leipzig 1927, pp. 75
ss.), Rudolf Smend (Verfassung und Verfassungsrecht, München 1928, pp. 8 ss.),
e Gerhard Leibholz (Das Wesen der Repräsentation, cit., p. 32). Una
ricostruzione storica dell’evoluzione dottrinale di questa tematica in materia
giuspubblicistica è svolta da H. HOFMANN, Reprasentätion. Studien zur Wort-
und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins. 19. Janrhundert, Berlin 1974.
effettiva unio che non sia stabilita e conservata per il tramite della
subiectio. Còlta sotto questa luce, la rappresentanza cessa di orbitare nel
novero delle tipicità ideologiche liberali, a lungo decantate come
strumentali alla delimitazione e al controllo di un potere finalmente
riferito agli intendimenti della società civile: diversamente, essa, nella
concezione schmittiana, appare come il crudo fondamento alla politicità
dell’uomo moderno, sottratto alla trama delle sue appartenenze
organiche, a carattere cetuale o funzionale, secondo una pregiudiziale
che lo oppone all’alterità di un non-Io collettivo.
L’inaudito della Modernità consisterebbe, in estrema sintesi,
nell’assunzione dell’individuo quale entità elementare e termine di
riferimento della concezione contrattualistica della società politica, ben
salda su un principio di uguaglianza tale da esigere l’agire
rappresentativo di un super-Io artificiale, di cui tutti sono, al contempo,
autori e sudditi: una volta creatolo, già non se ne ha più la disponibilità. Il
che, nonostante tutte le denotazioni giacobine e liberaldemocratiche,
trova riscontro anche nei casi di regimi assolutistici fondati sul costrutto
razionale di una sovranità che non ammette né l’intermediazione
piramidale di “corpi organici”, né alcuna forma di legittimazione
tradizionale, di diritto teocratico o puramente dinastico: nemmeno la più
avanza democrazia riuscirebbe a smentire le crude affermazioni di
Hobbes in ordine alla figura del “sovrano-rappresentante”, espressione
con cui Schmitt, nei saggi dedicati al filosofo britannico, designa
indifferentemente il monarca e il politico repubblicano, collegati dalla
comune qualità di essere signori senza mandato – in quanto “incastonati”
nella mens directiva della colossale macchina leviatanica – anziché
servitori del popolo legittimante10.
Persino nel caso di ipotesi plebiscitarie, ovvero, referendarie, ove è
possibile verificare distintamente la diretta espressione popolare,
interviene un irrinunciabile fattore di “mediazione formante”, in grado di
stimolare la risposta corale del corpo civile, conferendole univocità, ossia,
facendo dell’insieme delle “voci singolari” un unico suono: un sì o un no.
Questo, appunto, si rende realizzabile proprio in quanto il popolo assume
facoltà di parola solamente se interpellato su una specifica domanda,
formulata e proposta in maniera inequivoca: solo così, in luogo di
10
Vedi i saggi raccolti, in traduzione italiana, in Studi su Thomas Hobbes, Milano
1986. A tale riguardo, risulta assai chiarificatore il commento offerto da
Giuseppe Duso: «già in Hobbes sovrano è colui che rappresenta il corpo politico
nella sua unità, e fornisce dunque volto e azione a quella forza comune che tutti
hanno creato e a cui tutti sono sottoposti. In una diversa situazione concettuale
e con diverso riferimento storico, è pensabile un corpo politico mediante lo
svolgimento delle funzioni delle sue parti gerarchicamente organizzate, per cui
le istanze superiori non negano quelle inferiori, e il potere più alto non è potere
sovrano e assoluto. Qui invece si tratta di esprimere quell’unica forza che è da
tutti prodotta e che non può avere resistenza, un potere sovrano, che si incarna
appunto nell’agire rappresentativo, per cui si può parlare del sovrano-
rappresentante» (La rappresentanza politica, cit., p. 155).
un’amorfa e variegata congerie di volontà “puntiformi”, si perviene alla
forma unitaria del responso. In buona sostanza, anche laddove
sembrerebbe concesso fare a meno della mediazione rappresentativo-
autoritativa della persona ficta, recuperando l’esatta identità tra demos e
nomos, tra deliberazione e sovranità popolare, in realtà interviene,
immancabilmente, la demiurgia della rappresentazione. Ancorché in
maniera poco evidente o, comunque, di non immediata percezione,
quest’ultima opera a monte, anticipando la risposta popolare, rendendosi
preventivamente interprete del suo stesso intendimento, nel momento di
decidere l’oggetto dell’approvazione, oppure i termini del quesito su cui
la cittadinanza è chiamata a decidere. Ciò vale a dire che quest’ultima
viene rappresentata surrettiziamente anche in ordine alla materia della
scelta: il popolo può rispondere, ma non può domandare11.
Simile ragionamento non manca di coinvolgere il popolo nella sua
qualità di potere costituente, cardine di un coerente sistema democratico.
Infatti, persino qualora esso venga interpellato relativamente alla forma
da conferire allo Stato costituendo, è inevitabile ricorrere a un intervento
di mera ratifica, rispetto a una più o meno ristretta rosa di opzioni
costituzionali elaborata e proposta da un soggetto precedentemente
incaricato di dare corpo, dunque limite “morfologico”, all’infinite
possibilità ordinamentali e ai relativi schemi (puri, spuri, combinatori)
suscettibili di selezione: benché sia innegabile il primato decisorio –
perché dirimente e insindacabile – riconosciuto alla volontà popolare, al
soggetto proponente viene richiesto di attribuire, ex ante, realtà empirica
a un modello sino a quel momento confuso tra le innumerevoli eventualità
fluttuanti nell’inafferrabile dimensione delle idealità ottative, nell’atto
stesso di prediligerne alcune e di scartarne altre, al fine di somministrarle
all’attenzione della cittadinanza. In altri termini, il rappresentante-
promotore esercita un potere d’iniziativa nei riguardi della volontà
popolare, in quanto la “costringe” ad attivarsi su quanto da lui
considerato “sceglibile”. Di conseguenza, non sarebbe del tutto
inappropriato ritenere la Convenzione un “sovrano-rappresentante” pure
in tale circostanza, giacché precede il risultato della consultazione,
avendo in potenza già “voluto” quello che poi, in atto, risulterà essere il
contenuto della scelta sovrana del popolo (meglio, della sua
maggioranza). Se non altro, a essa si deve l’impulso primigenio che
conduce a esistenza la forma costituzionale infine prediletta12.
Dunque, neppure nei casi-limite, in cui più nettamente si svolge la
fenomenologia democratica della sovranità, la dinamica rappresentativa
smentisce la necessaria sussunzione dell’identità in un processo che
meglio sarebbe definire di identificazione (Identifizierung), il quale risolve
l’intrinseca dialettica tra realtà e finzione in un rapporto fattivamente
differenziale tra le persone plurime dei governati (rappresentati) e la
personalità istituzionale del governante (rappresentante), capace tuttavia

11
Vedi C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 207 ss.
12
Vedi C. SCHMITT, Dottrina della Costituzione, cit., pp. 83 ss.
di operare la transustanziazione qualitativa della sommatoria
“apeirontica” delle singole volontà in una volonté générale di grado
superiore, poiché politicamente performativa. Soltanto in detta
dimensione ideale, difatti, si elimina lo scarto tra l’individuo-suddito,
fisicamente assente dalle sedi dell’imperium (nonché impossibilitato a
decidere sovranamente per tutti i suoi pari), e l’esclusività decisoria
dell’attore politico, eletto, ma pur sempre dotato di delega “in bianco”. In
effetti, la distinzione, sebbene imposta dalla necessità esistenziale – ancor
prima che logistica – della rappresentazione, scompare nel momento di
riconoscere il popolo come variante secolarizzata del “corpo mistico”
paolino, nel suo carattere di insieme di membra sì giustapposte sotto il
profilo sociologico (in quanto unità fisiche assunte secondo l’assioma
della perfetta eguaglianza), ma reciprocamente omologate e aggregate
sotto il punto di vista eidetico, così da partecipare alla soggettività cui lo
Stato-persona inerisce, animata dallo pneuma politicamente vitalizzante
“inalato”, appunto, dall’istituto rappresentativo: ossia, dall’elemento
produttivo di “forma-unità” che la rende in grado di volere e di agire nelle
vesti di subiectum autarchico. In caso contrario, data l’impossibilità di
fare a meno di una mens directiva che sovrintenda alla dimensione
pubblica e, conseguentemente, dotata di potere (Macht), non si
otterrebbe altro che il nudo risultato di un gruppo oligarchico (più o
meno ristretto) nient’affatto consentaneo all’ente-popolo, collocato in
posizione di dominio nei riguardi di una più vasta collezione di singolarità
politicamente irrelate rispetto all’imputazione sovrana del “dio
mortale”13.
Il rimando alla terminologia rousseauviana non è affatto casuale,
essendo il filosofo ginevrino l’altro termine di riferimento della
spiegazione di Schmitt, almeno con riguardo agli aspetti in cui costui si
dimostra, nelle premesse, degno erede dell’insegnamento hobbesiano 14.
Persino Rousseau, che non spicca di certo tra i sostenitori del sistema
rappresentativo, escludeva categoricamente la coestensione identitaria
tra la società, considerata nelle sue componenti soggettive, e il popolo,
inteso sotto la specie dell’unità politica. Già dovendo ricorrere alla figura
(addirittura, di estrazione allogena) di un “fantomatico” nomoteta-
fondatore dall’aura semidivina, per non cadere nell’aporia del momento
costituente, egli altresì negava che la totalità popolare, in quanto
sovrana, possa corrispondere alla somma algebrica dei singoli che la
compongono. Per giunta, coloro i quali presenziano nell’assemblea
deputata a manifestare – con una sorta di espressione dichiarativa più
che deliberativa – la volontà generale, trovano il titolo della propria
partecipazione non in un diritto soggettivo all’azione politica, bensì nel
costituire una cellula inespungibile della persona collettiva sovrana.
A causa del dogma dell’eguaglianza formale vigente tra gli uomini,
così come affermata dal giusnaturalismo moderno nelle sue variegate

13
Ivi, pp. 236 ss.
14
Ivi, p. 205.
declinazioni contrattualistiche, l’alienazione dei diritti in favore del corpo
politico, tanto in Hobbes quanto in Rousseau, si manifesta pressoché
invincibile. È pur vero che il secondo contesta al primo filosofo la
previsione di una formula rappresentativa tale da usurpare al popolo la
titolarità di determinarsi secondo il proprio interesse, contrapponendo a
ciò un’alienazione nient’affatto fiduciale, ove i consociati siano, al
contempo, sudditi e sovrani, secondo la circolarità implicata nell’auto-
governo. Ma è altrettanto vero che la tendenziale universalità della
persona sovrana, incarnata nell’assetto assembleare cui s’impone la
manifestazione (unanime!) della volonté générale, viene contraddetta da
un recupero surrettizio della rappresentazione, allorché al potere
legislativo totalitario si contrappone un potere esecutivo il quale esige un
ambiente istituzionale più ristretto, quindi selezionato, giacché «non è
bene che chi fa le leggi le applichi, né che il corpo del popolo distolga la
sua attenzione dai problemi generali per indirizzarla a scopi
particolari»15.

2. Neo-democrazia o post-democrazia?

Ciò nondimeno, rimane quanto mai opportuno interrogare le


considerazioni schmittiane scontando, dal peso complessivo delle
suggestioni ricavabili, la tara costituita dal contesto e dai riferimenti
ideologici, parimenti storicizzabili. Un’operazione, insomma, alquanto
affine a quella realizzata da Eric Voegelin, il quale, recensendo il
Verfassungslehre, enucleava gli elementi atti a isolare, nella
rappresentazione concepita da Schmitt, il condizionamento apportato
dalla realtà weimariana, oltre che la fedele insistenza sulle categorie
proprie della scienza giuspubblicistica del XIX secolo, così ossessionata
dal tema dell’unità da fondere, in via analogico-sinonimica, il momento
della sovranità statuale con l’essenziale politicità dell’umano, esaurendoli
nella polarità tra governanti e governati, obbligazione e libertà 16.
Ancorché si possa rinvenire, nella lezione schmittiana relativa alla
Repräsentation, l’abbrivio dei nodi concettuali espressi da Voegelin nella
sua New Science of Politics, rimane pur sempre centrale l’appunto mosso
da quest’ultimo, stante la volontà di radicalizzare filosoficamente la
componente esistenziale della rappresentazione: nonostante tutto,
Schmitt non soltanto non riuscirebbe a sanare lo scarto tra la staticità
della teoria politica moderna e le trasformazioni in atto in una civiltà
sempre meno “statocentrica”, ma rischia di eccedere in una
15
J.J. ROUSSEAU, Contrat social, in Oeuvres complètes, Paris 1964, vol. III.3, cap.
4, p. 404.
16
Vedi E. VOEGELIN, “Die Verfassungslehre von Carl Schmitt. Versucheiner
rekonstruktiven Analyse ihrer staatstheoretischen Prinzipen”, in Zeitschrift für
öffentlichen Recht, XI, 1931 (ora tradotto in Filosofia politica e pratica del
pensiero. Eric Voegelin, Leo Strauss, Hannah Arendt, a cura di G. Zanetti e G.
Duso, Milano 1988.
formalizzazione giuridica della rappresentanza istituzionale, mancando di
cogliere l’eccedenza della società – e della relativa articolazione
antropologica – rispetto alla totalità-uni(ci)tà popolare, presupposta dalla
personificazione statuale della sovranità. Eppure, ancora valido e
operante, nella filosofia schmittiana, resterebbe il suggerimento a
connettere la dimensione rappresentativa alla nozione “sovrastrutturale”
di persona, implicando un equivalente rifiuto a disintegrare la
compattezza simbologico-identificativa consentita dalla prima in una
pluralità di istanze esistenziali immediate, individualisticamente irrelate
rispetto al vertice potestativo del kosmion politico.
In quest’ultimo aspetto esegetico, dunque, può decisamente inscriversi
il significato dell’iperbole immaginosa, senz’altro avveniristica, del
“cervellone elettronico” di cui Schmitt faceva parola. Che fosse un caso di
fantasia in grado di anticipare il futuro? Non crediamo. Così come non
crediamo fosse nelle intenzioni del filosofo indurre il lettore del suo
tempo a paventare le controindicazioni impolitiche di una società
tecnologica futuribile, predisposta ad asservire i frutti delle esperienze
civilizzazionali alle logiche autonome della macchina. Piuttosto, è da
ritenere che dietro lo scenario prefigurato da Schmitt si celi lo spettro
della democrazia diretta, agitato in una stagione di confuso riformismo,
nell’atmosfera concitata della Germania del primo dopoguerra.
Un’ipotesi, questa, prontamente divenuta il bersaglio polemico di una
dottrina costruita attorno all’idea di una rappresentanza individuata non
tanto come filtro delle volontà singolari, quanto come elemento
catalizzatore della personificazione della res publica, abilitando la
nazione a volere e ad agire attraverso la volizione e l’azione esercitata di
un Herrscher legittimo, costituito in un rapporto di solidarietà pre-
politico – in un certo senso, “naturalistico” – nei riguardi del Diener, nella
veste privata di attore solamente sociale. Negli schemi di Schmitt,
risoltasi, a partire dal contrattualismo moderno, la continuità tra stato di
natura e stato civile, abolita definitivamente la configurazione dei cerchi
concentrici in cui concepire, inclusivamente e progressivamente,
l’individuo, la famiglia, il clan, il ceto e la società politica, qualsiasi
tendenza a soppesare istituzionalmente la volontà deliberativa del singolo
avrebbe significato infliggere un colpo ferale a un modello statuale
consolidato: in sostanza, si sarebbe disintegrato lo Stato-persona,
trasformandolo definitivamente non solo nel (già disapprovato) Stato-di-
partiti, ma, peggio ancora, in uno Stato-di-opinioni: praticamente, un non-
Stato, per via dell’impossibilità di distinguere la necessaria alterità del
kratos decisorio rispetto al demos.
Tuttavia, l’alternativa che Schmitt opponeva a un simile esito,
connotandosi in guisa conservatrice, ovvero, cercando di puntellare il
nucleo mono-archico della rappresentanza politica dello Stato moderno,
esige un requisito minimale, ma imprescindibile. E potremmo
riconoscerlo come afferente alla legittimità, precisandolo meglio quale
presupposto all’identificazione, ossia, come disponibilità della
cittadinanza, indipendentemente dalle propensioni ideologiche o
partitiche, a ritenersi rappresentata da un unico corpo politico. Lo stesso
che, nelle sedi istituzionali, dismessa l’attitudine concorrenziale che
oppone reciprocamente le fazioni in lizza per la conquista del potere,
vesta i panni “superpersonali” che si addicono all’officium di
rappresentare il popolo quale soggetto sovrano, rendendolo, appunto,
“presente” sotto specie potestativa. Occorre, cioè, che l’insieme dei
governati abbia la percezione d’identificarsi, in quanto soggetto unitario,
nella figura del soggetto rappresentante, corrispondentemente al
risultato di quel processo che Schmitt indica come coincidenza tra
rappresentazione e identità, diretto a caratterizzare politicamente l’“ente-
popolo”17.
Una condizione, questa, che il filosofo difficilmente avrebbe potuto
riscontrare nei nostri giorni, caratterizzati da una poli-archia in crescita
esponenziale, accompagnata da un deficit di legittimazione politica18: vale
a dire da una sensibile carenza d’identificazione tra una società in
dinamica trasformazione, sempre più distante dalle logiche istituzionali, e
un ceto politico sempre più autoreferenziale o, comunque, in affannoso
ritardo rispetto ai molteplici centri di potere (ovvero, di autorità, stando il
richiamo etimologico all’arché) che muovono gli ingranaggi socio-
economici delle nazioni, patendo la zavorra di una concezione statuale
ormai al crepuscolo. A soffrire di un tale stato di cose, senza dubbio,
finisce con l’essere la democrazia stessa, subendo la frattura patologica
tra la politica e la società, determinata dall’intervallo sempre più ampio
che separa le ragioni dei governanti da quelle dei governati. Ma, come
sempre accade nei momenti in cui la rappresentazione dimostra le
proprie insufficienze, non riuscendo più a giustificare le posizioni di
vertice potestativo secondo criteri di adeguatezza, capacità e – in fin dei
conti – efficienza prudenziale detenuta in misura maggiore rispetto alla
media antropologica dei rappresentati, anche in tale circostanza
l’opinione comune reagisce reclamando un accesso più ampio ed effettivo
possibile alla “stanza dei bottoni”. E lo fa, immancabilmente, cercando
conforto nei mezzi più idonei che i tempi e le risorse culturali le offrono.
Risorse che, segnatamente, la nostra età vuole tecnologiche, traducendo
la soluzione diretta della democrazia in e-democracy.
In quest’ipotesi di applicazione politologica e giuspubblicistica dell’era
digitale pare effettivamente traslarsi l’avvento epocale di una nuova
17
Prova ne sia la constatazione secondo la quale «appena di fa strada la
convinzione che nell’àmbito dell’attività parlamentare ciò che si svolge
pubblicamente è diventato solo una vuota formalità e che le decisioni vengono
prese al di fuori di questa pubblicità, il parlamento può forse ancora esercitare
talune funzioni utili, ma davvero non è più il rappresentante dell’unità politica
del popolo» (C. SCHMITT, Dottrina della costituzione, cit., p. 275).
18
Per le considerazioni che andiamo svolgendo, non possiamo non riferirci agli
importanti spunti che ci provengono – ancorché in àmbito non prettamente
informatico – da R. DAHL, Polyarchy: Partecipation and Opposition, New Haven –
London 1971.
forma di libertà: al di là della “libertà negativa”, intesa come conquista
giusnaturalistica in grado d’inibire le ingerenze del potere nella sfera
dell’autodeterminazione privata, ma anche oltre la “libertà positiva”, a
garanzia dell’attitudine partecipativa del cittadino alla res publica, si
suole ormai concepire una “libertà informatica”, in corrispondenza del
potere individuale di esercitare i propri diritti, civili e politici, sulla base
di un’attività, alternativamente, ricettiva ed emissiva della
comunicazione, data la facoltà di conoscere ed esprimersi, senza
intermediazioni, in tempo reale.19
Ovviamente, non ci si sta riferendo alle esperienze di e-vote e di voto
elettorale on-line, le quali, pur consistendo in un’agevolazione
all’esercizio di un diritto politico così centrale come il suffragio, non
importano una trasformazione sostanziale del modus democratico. Sia
che si tratti di soluzioni di velocizzazione computativa nelle operazioni di
scrutinio, sia che si faciliti un elettore reso capace di avvalersi di un’urna
virtuale raggiungibile senza muovere un passo, il clic del mouse si
limiterebbe a sostituire, in maniera meramente strumentale, la matita e
la scheda cartacea, risolvendosi in una modificazione tutta interna alla
liturgia delle votazioni, magari rendendola più “prosaica”, ma senza
esercitare alcuna ripercussione culturale o psicologica sui modi
d’intendere la sovranità, la partecipazione e i processi di legittimazione.
Discorso analogo vale per il cosiddetto e-government (altrimenti detto e-
governance), il quale, pur potendo incidere sulle dinamiche partecipative,
nonché sulla qualità delle relazioni tra governo e governati, inerisce non
al rapporto di mandato, bensì all’informatizzazione della pubblica
amministrazione, definendo in senso razionalizzante ed efficientistico
l’erogazione di servizi ai cittadini, accompagnata dal soddisfacimento di
esigenze etico-giuridiche in ordine alla tutela, alla trasparenza, alla
fruibilità, all’accessibilità, all’informazione e alla parità, in tutte le loro
declinazioni possibili20.
19
Su questo, vedi le più diffuse considerazioni di R. DAVIS, The Political Impact of
the Internet, in Reinvigorating Democracy? British Politics and Internet, a cura
di R.K. Gibson e S. Ward, Aldershot 2000; ID., Click on Democracy: The
Internet’s Power to Change Political Apathy into Civic Action, Boulder 2002; M.
DIANI, Comunità virtuali, comunità reali e azione collettiva, in Rassegna italiana
di Sociologia, I, 2000; P. DELL’AQUILA, Tribù telematiche, Rimini 1999.
20
Sulle ricadute democratizzanti comunque esercitate dall’e-governance sugli
apparati amministrativi dello Stato, si vedano le considerazioni di A. CHADWICK e
C. MAY, “Interaction between States and Citizens in the Age of the Internet: ‘E
government” in the United States, Britain and the European Union”, in
Governance: International Journal of Policy, Administration and Institutions, XVI,
2003; A. Chadwick, “Bringing E-democracy back in What It Matters for Future
Research on E-governance”, in Social Science Computer Review, XXI, 2003. Su
basi simili, Daniele Pitteri giunge a delineare i caratteri di una e-democracy
amministrativa, quale «versione avanzata dell’e.government , non tanto sotto il
profilo delle soluzioni tecnologiche, quanto per la concezione che la sostiene e
per le funzioni ascritte alle nuove tecnologie». Soprattutto, Pitteri si riferisce
alle occasioni di superamento delle logiche centralistiche dell’amministrazione,
Piuttosto, riteniamo che il carattere innovativo e trasformativo dell’e-
democracy attenga a uno dei fondamenti dell’idea democratica in sé,
ossia, alla qualità dialogica che presiede alla deliberazione, attraverso la
quale si estrinseca la sovranità popolare. A questo riguardo, la
rivoluzione tecnologica in materia comunicativa non può non apparire
suscettiva di radicali ripensamenti sulle formule rappresentative e sulla
condotta stessa dell’attore politico. L’esistenza di terminali bidirezionali,
tali da consentire il superamento della comunicazione di massa del tipo
one-to-many, insieme con l’abolizione del rapporto differito tra fonte e
fruitore (con la conseguente possibilità di concepire dinamicamente i due
ruoli, quali autori paritetici di un dialogo istantaneo), importa la messa in
discussione della democrazia rappresentativa dello Stato moderno. In
sostanza, i new media, potenzialmente accessibili da chiunque, in
qualsiasi circostanza connettiva – vale a dire, “internautica” – e
indipendentemente da ascrittività geolocalizzanti, preannunciano la
metamorfosi del mediatore politico. Più precisamente, la figura del
“sovrano-rappresentante” delineata da Schmitt pare esaurire la propria
funzione di “presenzializzare”, nel micro-cosmo istituzionale, la
soggettività volitiva di un popolo materialmente costretto all’assenza
fisica.
Quel che muta è la nozione stessa di “presenza”, così da non poter più
giustificare la necessità della delega. Il che dimostra di verificarsi in
concomitanza con una serie di criticità, ormai endemiche alla
liberaldemocrazia in regime di globalismo pluridirezionale, le quali non
farebbero altro che concorrere a fornire argomenti a sostegno di
alternative ordinamentali. Su tutte, neanche a dirlo, primeggia la
progressiva perdita di centralità dei parlamenti, relegati a cassa di
risonanza – e di mera ratifica – delle decisioni già assunte in altre sedi.
Né, d’altronde, si tratterebbe unicamente di un problema legato alla pur
insopprimibile incidenza degli arcana imperii, a fronte della quale
basterebbe replicare le considerazioni già secoli addietro svolte da
Hobbes nei riguardi dell’ipocrisia parlamentare, riferibile all’illusione di
reputare la volontà sovrana visibilmente espressa attraverso un organo
assembleare percorso e diviso da interessi di parte e, sovente, asservito a
logiche decisorie provenienti da poteri allogeni.
Il fatto stesso di concepire l’avviso popolare formalizzato e veicolato
nell’ambiente istituzionale dal tramite partitico, si accinge a perdere
irrimediabilmente consistenza motivante, per via di una funzione
incentivate da sistemi open source tali da provocare, «per ricaduta, una
mentalità diversa nei confronti della relazione con i cittadini, necessariamente
più aperta a un confronto e a un dialogo, facilitato, tra l’altro, dal fatto che
l’erogazione di servizi necessita anche di un sistema di feedback,
dell’espressione da parte dell’utente del livello di gradimento», accendendo
«dinamiche istituzionali e culturali che conducono a una convergenza
dell’e.government con alcune pratiche tipiche dei processi di e.democracy […]
tali da rinsaldare il legame fiduciario fra istituzioni e cittadini» (Democrazia
elettronica, Roma–Bari 2007, pp. 78 s.).
negoziale che da lungo tempo si percepisce privata della sua cifra
rappresentativa. Se, in passato, la ragione genetica dei partiti poteva
essere rilevata nella necessità di avvalersi di soggetti preposti a
interpretare le istanze provenienti dalla società civile, oggi, la
“cittadinanza digitale” sembra avviarsi a un’abilitazione partecipativa tale
da consentirle di raggiungere autonomamente qualsiasi interlocutore
ufficiale. Grazie alla capillare diffusione di strumenti capaci di propiziare
l’incontro e il confronto degli interessi già nella loro scaturigine sociale, i
cittadini, sin da ora, vanterebbero la disponibilità di proprie strategie
rappresentative, rivendicative e compositive, potendo così derogare a una
rappresentanza politica sovente incline all’autoreferenzialità, avvezza a
prassi partitocratiche sorde alle voci del corpo elettorale, vanificando,
con ciò stesso, la giustificazione del mandato “in bianco”. In altri termini,
armati di tastiera, i cittadini avrebbero la facoltà di ridurre la divergenza
prodottasi tra sovranità nominale e potestà sostanziale, riconducendo il
processo dell’identificazione alla radice di espressioni volitive
tendenzialmente prossime alla dimensione dell’identità tout-court, non
solo per appropriarsi dell’effettivo ruolo contrattuale contemplato nel
pactum fondativo (in quanto titolari del potere costituente), ma anche per
“scavalcare” una rappresentazione fittizia, giacché ridotta alle more della
tautologia: quella esercitata da una classe di rappresentanti che, nel
diffuso giudizio del senso comune, dimostra di non rappresentare altro
che se stessa e, perciò, responsabile del corto-circuito sistemico
provocato dal pleonasmo di rendere presente chi presente è già.
Osservata da questa prospettiva, la e-democracy, più che una forma di
governo, si proporrebbe come una soluzione rivitalizzante per la cultura
democratica, implementando il peso partecipativo dei cittadini alla
gestione della cosa pubblica. Di sicuro, essa configura una progressiva
erosione dei sistemi della rappresentanza, svolgendo un’operazione di
riqualificazione dell’intervento condizionante svolto dall’opinione
pubblica nei confronti delle scelte politiche dei governi. Ricorrendo a una
vasta gamma di opzioni strumentali, la “democrazia elettronica”
presenterebbe comunque la caratteristica di una correzione all’esercizio
stesso del mandato, restringendo la divaricazione di norma vigente tra il
momento consultivo e quello deliberativo. Difatti, anche qualora il popolo
della (e nella) rete non venisse chiamato a esprimere il proprio avviso in
qualità di soggetto deliberante, attraverso un’ipotetica interpellanza
referendaria dotata di forza legale o altre pratiche di voto, le stesse
consultazioni on-line sollecitate sistematicamente dal singolo politico nei
riguardi dell’elettorato rivestirebbero un profondo valore vincolante: non
trattandosi di un campione anonimo selezionato secondo meri criteri
statistici, ed essendo invece questione di un accesso potenzialmente
universale al dialogo pubblico, pluralistico e trasparente con il
rappresentante, quest’ultimo non potrebbe non avvertirsi esposto al
significato vincolante dei risultati, attribuendo a essi il contenuto
materiale di una delega non più “in bianco”: se non proprio istruzioni
imperative di mandato, le indicazioni di volta in volta desumibili
sarebbero da reputarsi quali espressioni iterative di un consenso
legittimante.
Che non sia questione di mere ricognizioni può evidenziarsi,
soprattutto, tenendo presente l’eventualità che a richiedere il dialogo
siano i cittadini stessi, nel contesto post-massmediatico che si profila
all’orizzonte, ove la comunicazione politica, viaggiando preferenzialmente
lungo le fibre ottiche, si manifesti bidirezionale anche sotto il profilo
dell’iniziativa. In tal caso, sarebbero gli elettori a sollecitare la
responsività del politico, impossibilitato da ovvi motivi a rifiutarsi di
sottoporsi al confronto: dal momento che vi si sottraesse, darebbe adito a
un pre-giudizio ( “in contumacia”) avente a oggetto incompetenze o
inadempienze puramente indiziarie, eppure confessate in via implicita,
con la scelta del silenzio. In uno scenario del genere, in luogo
dell’“episodica” chiamata alle urne dei cittadini da parte dell’autorità
statuale – secondo Rousseau, unico momento di reale esercizio sovrano
del potere democratico in un sistema rappresentativo – si assisterebbe
alla “convocazione” di un rappresentante raggiungibile on-line, privo di
alibi utili a giustificare il proprio diniego all’ascolto, cui muovere la
richiesta di rendere ragione del suo operato, ovvero, di essere
platealmente ricettivo delle esplicite istanze provenienti dalla società del
web.
Possiamo omettere di esaminare, con piglio realistico e, a un tempo
garantistico, le possibilità tecniche di rendere tale esito realmente
esperibile in maniera universalmente diffusa e accessibile. Di questioni
del genere si è occupata una cospicua letteratura sociologica. Quel che
invece preme considerare è lo spettro delle eventuali controindicazioni, a
seconda che si osservi l’iniziativa al “contatto” provenire dal
rappresentante, ovvero, dai cittadini.
Senz’altro, l’“incontro elettronico” così concepito permette di
auspicare una riduzione dell’autoreferenzialità elitistica della classe di
governo, cui corrisponderebbe una tendenziale “orizzontalizzazione” dei
rapporti tra l’eletto e la base elettorale, non solo innovando le modalità di
controllo dei soggetti istituzionali, ma introducendo, altresì, esperienze di
promozione normativa e governativa provenienti dal “basso” 21.
Nondimeno, è parimenti valutabile il rischio osservare, nel confronto
azionato dal rappresentante, il preludio di una democrazia non tanto
diretta, quanto “compulsiva”, ove una consultazione permanente
dell’opinione pubblica celi una logica del marketing, disposta a saggiare
quotidianamente i gusti dei “cittadini-acquirenti”, avvalendosi, oltretutto,
di stili congrui a una campagna elettorale lunga quanto il mandato.
Sottoposta a un così facile abuso, l’agorà virtuale riproporrebbe, sotto
mentite spoglie, la medesima ratio del sondaggio, sostituendo al quesito

21
A riguardo, vedi S. RODOTÀ, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie
della comunicazione, Roma – Bari 2004, ove s’introducono, con stile – potremmo
dire – iperbolico, le definizioni di “socialismo” e di “egualitarismo informatico”.
un comizio continuativo, somministrato in guisa utile da suscitare non
tanto il dibattito, quanto la misura del grado di soddisfazione dei
cittadini, consentendo inoltre al politico di registrare tutti i desiderata,
nell’affanno di accontentare il più vasto numero possibile di individui e
d’interessi. Conseguentemente, se ne ricaverebbe la propensione a
strategie politiche contraddittorie e confuse, di corto respiro progettuale,
come pure a programmi di governo populistici a trazione plebiscitaria.
Anche nel caso in cui l’iniziativa dialogica fosse innescata dalla base
degli internauti, la rappresentazione potrebbe rivelarsi incline a tradire
l’innegabile funzione “demiurgica” assegnatale da Schmitt, sostituita da
tendenze che potremmo chiamare “mimetiche”. Stavolta, tuttavia, esse
risulterebbero, anziché scelte, subite dal rappresentante o, meglio,
imposte da e-citizens per giunta indotti a un atteggiamento di reciproca
competizione, volta a far prevalere la pressione delle proprie istanze nei
riguardi di un unico recettore, a discapito di altre. La partecipazione
sarebbe mossa dall’adesione – taciuta, ma potentemente operante – a una
nuda logica della maggioranza, sottesa ai risultati “consultivi” da
ostentare, a onta alle voci minoritarie uscite sconfitte dalla tenzone
telematica consumata tutta all’interno dell’elettorato. In questo caso, il
premio per la vittoria così conseguita verrebbe a coincidere con
l’affiliazione del politico, spinto a conformare il proprio operato
all’orientamento prevalente, comunque effimero, transeunte, ricavato
dalla convergenza occasionale tra interessi eterogenei e disgregati. Di
qui, un rappresentante costretto all’affanno del compiacimento, per
giunta difficile da riferire a indicazioni maggioritarie – quindi, ad assetti
consensuali – instabili, denotanti una polverizzazione sia dell’offerta, sia
della domanda politica.
Con queste premesse analitiche, si è in grado di tracciare taluni
scenari futuribili, riferendoli a eventuali declinazioni di una e-democracy
eretta sulla nozione individualistica dell’interesse (a partecipare) e
sull’accezione altrettanto individualistica del rapporto di mandato
rappresentativo.
In primo luogo, si potrebbe considerare l’ipotesi di una e-democracy
pura o diretta, fondata sulla convinzione di poter rimuovere qualsiasi
diaframma tra la società civile e l’effettivo esercizio della sovranità,
riducendo lo Stato al solo apparato burocratico. Ma non è affatto difficile
immaginare la difficoltà di ricondurre la sommatoria degli avvisi dei
singoli cittadini a una sintesi che non equivalga a una tirannia della
maggioranza – ammesso che la deposizione del canone rappresentativo
possa giustificarsi unicamente con la facoltà di raccogliere in tempo reale
gli orientamenti puntuali di ciascun membro del popolo internautico
(criterio logistico), senza considerare la necessità di far precedere il
momento deliberativo dalla conoscenza delle materie a oggetto
dell’esternazione decisoria (criterio scientifico-prudenziale). E,
comunque, una soluzione del genere difetterebbe della capacità di
raccogliere i soggetti sociali attorno a un’idea unitaria di popolo e,
conseguentemente, di volontà sovrana, in conformità a quanto di
imprescindibile si conserva nella riflessione di Schmitt.
In via alternativa, potrebbe darsi l’ipotesi di una e-democracy
consultiva, ove invalga la prassi di consultare i cittadini prima di
assumere decisioni legislative o governative, con tutte le
controindicazioni poc’anzi esposte in tema di derive populistiche.
Una strada intermedia verrebbe invece costituita da una e-democracy
partecipativa, qualora i governati venissero coinvolti, in rete, nelle
dinamiche di policy making, con la conseguente facoltà di esprimere
anche promozioni, proposte ed emendamenti, pur permanendo il ruolo
decisorio in capo ai rappresentanti. Una variante accentuata di tale
modello, tra l’altro, potrebbe ravvisarsi in una e-democracy deliberativa,
assai affine alle impostazioni socio-politologiche di Jürgen Harbemas,
intesa a valorizzare anche le dinamiche del dialogo interno alle diverse
aggregazioni civili, che sul web s’incontrerebbero per discutere e
confrontarsi sulle varie opzioni disponibili, prima di prodursi in una
scelta. Tuttavia, ciò, pur rappresentando una soluzione più raffinata –
oltre che più trasparente – del lobbying democratico, non pare affrontare
il problema della relazione con il rappresentante e, ancor prima, quello
genetico della rappresentazione. Sebbene si presupponga un assetto
pluralistico del dibattito entro “sfere pubbliche spontanee”, parallele
all’ambiente istituzionale, l’ottimismo nutrito nella “ragione
comunicativa” e nella relativa “persuasione razionale” non spiega quale
vincolo identificativo o di afferenza responsiva verrebbe a crearsi tra il
rappresentante politico (pur sempre della nazione) e le issues groups
provenienti dal “basso”. In sostanza, le indicazioni dei cittadini non si
dirigerebbero a un soggetto ben individuato, incaricato di sostenere le
posizioni deliberate da ogni preciso “aggregato dialogico” e, per ciò
stesso, immune dalla lusinga elettoralistica di polverizzare la propria
offerta politica: in fondo, se da un lato il momento operativo della
sovranità vedrebbe la compartecipazione tra istituzioni e società civile,
d’altro canto, con molta probabilità, sul versante selettivo (vale a dire,
rappresentativo, quindi elettorale), l’attenzione dei cittadini
continuerebbe a dedicarsi esclusivamente alla scelta del “miglior
offerente”, senza le garanzie di un più profondo legame fiduciale22.

3. Uno spunto althusiano

22
Di diverso avviso è invece l’analisi offerta in J.B. ABRAMSON, F.C. ARTENTON e
G.R. ORREN, The Electronic Commonwealth: The Impact of New Media
Technologies on Democratic Politics, New York 1988, la quale si concentra sui
benefìci aggregativi apportati da una diffusa coscienza civica razionale e
dialogante, talmente libera da ipoteche identitarie (pre-razionali) da favorire
l’internazionalizzazione della cittadinanza e, quindi, dei governi, agevolando
l’esportabilità “indolore” della liberaldemocrazia occidentale su scala
potenzialmente globale.
Quel che si sta tentando di sostenere è che non dovrebbe apparire del
tutto eccentrico presagire gli inconvenienti aporetici, sotto il profilo
anche sistemico, allegati a modelli partecipativi e rappresentativi non
ancora invalsi nella realtà. La posta in gioco, difatti, è talmente alta da
dettare l’esigenza di verificare, con previdenza oculata, se l’intervento
delle nuove forme relazionali tra i soggetti istituzionali e il corpo civile sia
in grado di correggere e aggiornare i processi della legittimazione
politica e, segnatamente, della rappresentanza democratica, ovvero,
quale sia l’incidenza di rischio riferibile a una dimensione comunicativa
foriera d’interpretazioni aberranti della democrazia stessa.
In tale ottica, Pitteri ha ragione di paventare, con notevole perspicacia,
atteggiamenti ispirati a un “determinismo tecnologico” «per cui
l’attuazione di forme di e.democracy passa necessariamente per la
realizzazione di forme di governo elettronico, che ne costituiscono il
presupposto, individuando un automatismo», sebbene non sia
«assolutamente scontato che processi che si inseriscono nell’ambito della
modernizzazione dello Stato siano il presupposto per la ridefinizione dei
processi democratici»23.
Per quanto ci riguarda, abbiamo già accennato, sommariamente, al
sospetto che la nuova strumentazione tecnologica del dialogo tra eletti ed
elettori corra il pericolo di vedere impiegata la misura minima delle
potenzialità riformatrici cui la rete darebbe adito. In particolare,
sembrano sin da ora evidenti i prodromi di un utilizzo non accompagnato
dalla consapevolezza della odierna crisi, affliggente il rapporto fiduciale
e, quindi, la cifra identificativa della rappresentazione. Proprio ciò
permetterebbe di spiegare il – più o meno voluto – fraintendimento
relativo all’uso della e-communication secondo i criteri dell’approccio
massmediatico. Ci si riferisce, in particolare, al ricorso a un canale
comunicativo apprezzato prevalentemente nel solo pregio della
23
D. PITTERI, Democrazia elettronica, cit., p. 83. Poco più oltre, lo studioso si
diffonde nell’argomentare queste prime affermazioni: «Questo principio della
linearità è applicabile anche al concetto di cambiamento così come esso si
configura nei processi e nelle logiche della e.democracy. Emerge una spiccata
tendenza a ritenere che le fasi di sviluppo della democrazia elettronica
corrispondono alle applicazioni particolari che della tecnologia si fanno, e cioè
che il grado di democraticità cresce via via che si ricorre a determinate
tecnologie, per cui i processi di e.democracy si configurano solo come
successione di fasi tecnologicamente successive a prescindere dalle modalità di
relazione e di inclusione, che invece dovrebbero costituire il baricentro dei
processi partecipativi». Pertanto, quantunque le tecnologie costituiscano il
motore, ma non il contenuto qualificante delle dinamiche democratiche, la
«logica deterministico-lineare, che individua nella centralità assoluta delle
nuove tecnologie la specificità dei processi di e.democracy, determina,
paradossalmente, un contesto di assoluta autoreferenzialità, che esclude
qualsiasi relazione con tutto ciò che è differente dalle tecnologie, come se il solo
fatto che il processo sia tecnologicamente attivato esaurisse il compimento del
processo stesso: c’è, dunque funziona, dunque garantisce partecipazione e
democrazia» (p. 84).
simultaneità, dell’economicità e dell’accessibilità capillare, sino al punto,
addirittura, d’irrobustire l’attitudine autoreferenziale di certa classe
politica: in buona sostanza, per una sorta di paradosso, la rete si presta a
essere impiegata pure in maniera distorta, dando vita a forme di ascolto
senza dialogo, ove il comunicatore istituzionale, rinserrandosi nella
modalità statica della sua esposizione on-line, avrebbe facoltà d’imporre il
proprio linguaggio, al riparo da interferenze. È questo il caso, per
esempio, del ricorso a un blog ove esporre la propria figura comunicativa,
accogliendo gli interventi dei fruitori come in un recinto ermeneutico a
carattere concentrazionario, riducendoli ai termini di commenti già
disciplinati, in quanto a tematiche e a obiettivi: una sorta di siti-vetrina,
perfettamente congrui alla tendenza alla “vetrinizzazione” trasposta
dall’àmbito commerciale alle strutture relazionali e, infine, alla
comunicazione di massa24. E anche qualora l’animazione della sede di
confronto fosse rimessa alla più libera gestione degli utenti
atomisticamente considerati, non sarebbe esclusa l’evenienza che essi
stessi – sulla base di quanto si è ipotizzato al termine del precedente
paragrafo – scoraggino il rappresentante a interpretare le loro
esternazioni per dare esito applicativo a strategie di policy making
davvero coinvolgenti. In luogo di ciò, potrebbe benissimo emergere la
propensione teatrocratica alla mera “registrazione”: l’obiettivo sarebbe
ottenere che il politico registri, anziché elaborare e dare forma
politicamente strutturata alla datità delle espressioni maggioritarie, in
conformità a una customerizzazione che assimili i cittadini a “clienti” da
assecondare. Al che corrisponderebbe, inoltre, una rappresentazione
eterogenea e sperequata, giacché questa sorta di customer satisfaction
tenderebbe a dare riscontro alle aspettative di un elettore il quale, da un
lato, sarà attento a concentrare i propri interventi sulle tematiche che lo
interessano, dall’altro, si asterrà dall’esprimersi su questioni di altrui
riguardo: come se, ponendo sul medesimo piano i diversi “interessi a
partecipare”, il politico, dietro la finzione semplificatrice di un’unica
rappresentazione, di fatto, si facesse latore di un fascio di mandati
irriducibili a unità.
Ma allora, s’intravede, se non proprio un’alternativa, almeno un
margine cautelativo, che consenta di avvalersi delle opportunità
risolutive, in senso sostanzialmente democratizzante, offerte dalla rete, a
sanare il deficit d’indentificazione che sembra affliggere l’odierna
rappresentanza politica? Segnatamente, come adeguare la
rappresentazione schmittianamente intesa, insieme con la sua funzione
“presenzializzante”, alla realtà poli-archica del tempo attuale, senza
incorrere in contraddizioni?
Le soluzioni al vaglio degli analisti sono indubbiamente innumerevoli,
talvolta radicali, talaltra ispirate da misurati accorgimenti riformistici. A
nostro parere, meriterebbero particolare attenzione i modelli che, mossi

24
Questa dinamica socio-comportamentale risulta accuratamente esaminata da
V. CODELUPPI, La vetrinizzazione, Torino 2007.
dall’obiettivo di riavvicinare il logos composito della cittadinanza a quello
delle istituzioni statuali, si propongano, per così di dire, di “socializzare”
la politica e, al contempo, di “politicizzare” la società.
Disposti a correre il rischio di essere fraintesi, vedendo la nostra ottica
tacciata di anacronismo o, peggio, di reazionarismo, reputiamo che un
buon punto d’inizio possa consistere nel ridiscutere i presupposti
individualistici dell’antropologia politica della Modernità. In una
situazione in cui la fictio giuspubblicistica del contrattualismo e della
relativa nozione di “interesse generale” svela le sue deficienze, a fronte di
una socialità sempre più manifestamente articolata in corpuscolarità
aggregate – semplici o complesse che siano – ci sembra quanto mai
opportuno considerare la natura degli autori-attori effettivi di un pactum
societatis e, conseguentemente, di un pactum civitatis sottoposti a
quotidiana negoziazione.
Per meglio illustrare i termini di simili affermazioni, sarà alquanto utile
rifarsi al pensiero di Johannes Althusius, che potremmo considerare
l’estensore di una dottrina diretta a rivendicare una concezione pre-
moderna del governo e della rappresentanza, esposta nel suo ultimo
“colpo di coda” prima dell’affermazione della “personalità statuale”
perorata dal giusnaturalismo seicentesco25. Il riferimento ad Althusius
risulta viepiù giustificato, alla luce di una nozione “simbiotica”
dell’esistenza, tale da considerare l’innata socialitas degli uomini
estrinsecarsi nella formazione di consociationes sempre più ampie e
inclusive, dalla famiglia sino ad arrivare a quella consociatio universalis
che è la respublica, apice della tendenza federativa dei gruppi a unirsi in
regime di ordinata cooperazione26.
Quest’assetto, se da un lato afferma la naturalezza della società, al
contempo individua l’altrettanta naturalezza del gubernum, fattore
direttivo che, al cospetto della mentalità moderna, non può non esaltare
la differenza tra governo e potere: esulando da un rapporto meramente
formale di comando e obbedienza, la categoria utilizzata da Althusius
insiste sulla necessità fisiologica di una funzione di guida in ogni entità
associativa, da esercitare secondo i canoni della felice metafora
platonico-aristotelico-ciceroniana del nocchiero, relativa a una strategia
di navigazione che non distingua la fortuna del natante da quella del suo

25
Chiaramente, questa lettura diverge dalla consueta interpretazione del
pensiero althusiano, invalsa a partire da O. VON GIERKE, Johannes Althusius und
die Entwicklung der naturrechtlichen Staatstheorien, Breslau, 1880, che colloca
Althusius tra gli esordi del giusnaturalismo moderno. Preferiamo invece seguire
gli orientamenti esegetici ricavabili da Politische Theorie des Johannes
Althusius, a cura di K.W. Dahm, W. Krawietz, D. Wyduckel, Berlin, 1988, ove la
maggior parte dei contributi tende a rivisitare e a emendare gli aspetti più
critici della tesi di Gierke.
26
Importanti approfondimenti sul principio federativo althusiano sono offerti in
Th.O. HÜGLIN, Sozialiter Föderalismus. Die politiche Theorie des Johannes
Althusius, Berlin – New York 1991.
equipaggio, di cui il pilota è pur sempre parte 27. Detto in maniera più
esplicita, le norme ispiratrici della rotta coincidono con la cura degli
interessi plurali degli attori sociali, considerati nel loro reciproco
intersecarsi e conglutinarsi, stabilendo l’essenziale politicità non soltanto
del soggetto governante, ma anche dei governati. In poche parole, il
gubernum reipublicae althusiano si rende efficace nella misura in cui
esso, essendo presente a ogni livello dell’ordine sociale, si esprime come
coordinamento delle molteplici communiones consociate: molteplici,
proprio perché, a differenza di quanto delineato dal moderno concetto di
sovranità, non si dà una volontà unica del popolo, bensì un carattere
unitario e federato di parti che, anche dopo il patto costitutivo
inaugurante la civitas, non annullano il momento politico delle loro
identità, giacché membra organiche di un corpo complessivo.
D’altro canto, se la sapientia civilis dei Romani, espressa per bocca di
Cicerone, definisce populus non un’entità astratta, bensì un «coetus
multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus»28, anche in
Althusius, l’unificazione organica di aggregati che, a ogni livello del
foedus, conservano identità e interessi autonomamente rappresentabili,
rivela che le singole consociazioni – anziché gli individui in quanto tali! –
sono i soggetti di riferimento politico, in grado di esprimere volontà
pubblica («populus seu membra regni consociata»29). In luogo di una
sovranità popolare riconosciuta in capo all’insieme totalistico dei cittadini
(contrapposto, come ente a sé, alla dimensione privata del singolo), rileva
la mediazione delle cerchie in cui i singoli s’inscrivono, le quali si
compongono, in maniera coordinata, nel momento unitario del gubernum,
ove all’istanza decisoria viene affiancata un’istanza collegiale: in ciò si
riflette il principio di una rappresentanza “per ordini”, che percorre ogni
livello associativo della società, sino al vertice potestativo della città, nel
quale si consuma l’incorporazione del popolo in misura dei suoi
raggruppamenti («potestas regni seu consociatorum corporum»30).
27
Vedi J. ALTHUSIUS, Politica methodice digesta atque exemplis sacri set profanis
illustrata, I, 35 ss. Per un saggio della differenza tra la nozione antica e pre-
moderna di governo e quella di un potere così come definito dalla sovranità
statuale giusnaturalistica, si consulti G. DUSO, Sulla genesi del moderno
concetto di società: la consociatio in Althusius e la socialitas in Pufendorf, in
“Filosofia politica”, X, 1996.
28
CICERONE, De re publica, I, 25, 39. Si noti, tra l’altro, come quest’insieme
organizzato in unità plurali collettive (coetus multitudinis… sociatus) sulla base
del consentimento etico-giuridico-politico dell’appartenenza (iuris consensu) e in
virtù della compartecipazione a un interesse unitivo (utilitatis communione), si
contrapponga a qualsiasi novero eterogeneo di individui, connotati
antropicamente ma non anche civicamente (omnes coetus hominum), accostati
secondo un criterio soltanto quantitativo e casuale, in maniera tutt’altro che
strutturata (quoquo modo congregatus). Ancor più in dettaglio, si osservi
l’opposizione tra il termine sociatus e quello di congregatus (etimologicamente
da grex, gregge).
29
ALTHUSIUS, Politica, IX,16.
30
Ivi, XVI, 19.
In un quadro del genere, seppure l’individuo si manifesti come mera
astrazione rispetto all’organicità complessiva, risulta parimenti astratta
l’idea di un popolo inarticolato, politicamente inesistente e inoperante
prima del patto. Giacché vivificato da un crisma di politicità e di
rappresentatività vigente in ciascuna delle sue sezioni consociative,
inanellato progressivamente in tutte le sue concentricità, sino al vertice
della consociatio universalis, il popolo detiene una capacità di agire e di
volere risultante dall’armonia dell’agire e del volere delle sue membra,
ognuna adunata intorno a interessi oggettivi, stabili, concreti 31. Il che
avviene per una “un’automotilità” composita, che non necessita di essere
azionata, ab extra, da una volontà del tutto aliena, capace di contare
solamente singoli sudditi al suo cospetto, trattandosi invece di una
sovranità ottenuta dall’accordo iterativo delle diverse potestates, cui
sovrintende la summa potestas32.

4. “Prove tecniche” di democrazia organica: un domani che viene dal


passato

L’esserci dilungati su Althusius, più che costituire un intermezzo


erudito, risponde allo scopo di fornire talune premesse filosofiche e
dottrinali all’ipotesi di un modo antico e, al contempo, nuovo, d’intendere
una forma di rappresentanza democraticamente possibile per la post-
Modernità digitale. Se non altro, attraverso l’espediente althusiano
possiamo riflettere su un modo di chiudere il “circolo identificativo”
richiesto da Schmitt, senza costringere necessariamente il cittadino a
rinunciare alla propria identità sociale, per acquisire la titolarità (in
absentia) della qualificazione sovrana: senza soluzione di continuità tra
consistenza sociale del proprio ruolo e attorialità politica del proprio
volere, l’individuo avrebbe scampo da quella sorta di “schizofrenia”
impostagli come condizione imprescindibile per annoverarsi idealmente
31
Ivi, V, 10.
32
A tale proposito, Duso nota con acutezza: «In questo contesto il termine di
consenso ha il suo autentico significato, e ciò proprio in quanto non siamo in una
situazione in cui la volontà di tutto il corpo, espressa come legge, richiede
soltanto obbedienza, ma piuttosto in quella di un lavoro continuo di accordo e
concordia, che tiene insieme il regno come pure le altre forme associative. Il
problema che qui si presenta non è quello dell’unità politica, ma piuttosto quello
del lavorio continuo al fine della concordia, compatibilità e solidarietà tra le
diverse parti della collettività. Ugualmente è denso di significato il termine di
partecipazione, perché mediante la partecipazione delle varie cerchie si ha la
vita dell’intero. Si potrebbe dire che consenso e partecipazione hanno un
significato costituzionale, se ci si distacca anche qui dal senso moderno che
connota il termine di costituzione, indicante un ordinamento di leggi
fondamentali, e lo si intende nel senso etimologico della struttura del corpo,
costituito appunto da tutte le sue parti con le loro diverse funzioni. Consenso e
partecipazione avvengono attraverso la rappresentanza delle parti sociali e di
questa rappresentanza mostrano la rilevanza» (La rappresentanza politica, cit.,
pp. 76 s.).
all’interno di una volontà sovrana – da Schmitt reputata alla stregua di un
“corpo mistico” secolarizzato.
Ma, ancor prima, occorre riconoscere, a contrario, i princìpi primi della
statualità moderna, fondata sulla neutralizzazione di un’antropologia
politica riposante sulla lunga tradizione di una filosofia pratica atta a
rilevare l’oggettività delle dinamiche che naturalmente dispongono la
trama esistenziale della politicità umana: una neutralizzazione operata
mediante una razionalità formale e astraente, capace di produrre
mistificazioni assiomatiche utili a spiegare soltanto ex post il risultato
perseguito. Nella fattispecie, ci si riferisce al ripudio di qualsiasi codice
orientativo desunto dalla consustanzialità tra natura politica ed economia
cosmica. Esprimendosi in maniera maggiormente circostanziata, si può
sostenere che il giusnaturalismo moderno, con l’ambizione di
razionalizzare la convivenza civile ponendo fine al dominio dell’uomo
sull’uomo, postulò il dogma di un’eguaglianza formale e universale,
ricorrendo all’ideazione di un soggetto terzo, una persona artificiale,
capace di assorbire l’autodeterminazione potestativa degli individui, onde
parificare tutti in uno status presuntivamente livellato, uti singuli et
privati, assolutamente equidistanti dall’ente sovrano impersonale. Da
allora, oltretutto, il concetto di governo venne eclissato da quello di
potere, inteso come subordinazione alla volontà unica e assoluta di chi
rende la sovranità operativa33.
In estrema sintesi, guardando ad Althusius, si ha l’occasione di ovviare
a un pervicace vizio prospettico: quello di ipostatizzare le categorie del
Moderno, ritenendole intrinseche alla politicità umana di qualsiasi tempo,
nell’incapacità di relativizzare, storicizzando, un insieme di concettualità
venute alla luce in determinate circostanze e, pertanto, suscettibili, un
giorno o l’altro, anche di dismissione e superamento34.
33
Il che, secondo Duso, importa anche una diversa concezione delle possibilità di
autotutela dei governati nei confronti del governante: «E’ signficativo che in
Althusius, proprio il contratto di mandato che istituisce la potestas del sommo
magistrato, e dunque che impone al popolo obbedienza, è anche il fondamento
del controllo e della possibile destituzione della somma autorità, cioè il diritto di
resistenza. Ora invece, di fronte all’istanza del potere del corpo comune non è
più possibile resistenza, che sarebbe solo sopruso di singoli che rivendicano una
loro differenza ed una loro forza contro il corpo comune, forza di cui possono
abusare contro i loro simili. È solo il potere comune, cioè quello politico, che
rende realizzabile l’uguaglianza degli individui, e unica legge è l’espressione
della sua volontà» (La rappresentanza politica, cit., p. 79).
34
Per un esempio di questa tendenza a “eternare” i caratteri della politica
moderna, si veda N. BOBBIO, M. BOVERO, Società civile e Stato nella filosofia
politica moderna, Milano 1979, in cui la modalità comparativa rispetto
all’Antichità si esplica conservando, come comune piano di riferimento, la
nozioni stesse di Stato e di potere, osservate in una presunta costanza
categoriale anche nella polis: secondo tale impostazione, quest’ultima si sarebbe
contraddistinta solamente per un fondamento etico fondato sulla gerarchia e la
diseguaglianza antropologica, nelle modalità peculiari con cui il suo impianto
potestativo si estrinsecava nelle dinamiche di legittimazione , di obbligazione
Tuttavia, trarre talune ispirazioni dal modello pre-moderno di
rappresentanza organica non significa affatto tradire il tempo presente
rifugiandosi in velleità anacronistiche. Ci basti osservare nelle invocazioni
al valore programmatico della sussidiarietà (verticale quanto orizzontale),
o nelle varianti extra-giudiziali della class action, se non proprio il
fenomeno di un ricorso storico, per lo meno profonde affinità, a carattere
principiale, rispetto alle formule rappresentative e partecipative di
vetusta vigenza. Di fatto, le interpretazioni della società in chiave
atomistica dimostrano progressivamente di non sapersi adeguare alle
trasformazioni decostruttive in corso d’opera. Piuttosto, si fa largo
l’opportunità – più che giustificata – di concepire un tentativo ordinante,
oltre che definitorio, che parta dalla nozione di una “società di ruoli e
funzioni”. Si tratta, cioè, di superare, già in sede teorica, le angustie di
uno schema unidirezionale dei canali istituzionali impiegati da interessi
più che mai molteplici e complessi, i quali reclamano, con sempre
maggiore insistenza, visibilità e “presenzialità” politiche. Sarebbe
davvero prova di miopia ignorare simili istanze, in nome della fedeltà a un
modello di rappresentanza “de-socializzata”, conforme alla “mistica” di
una sovranità statuale che, ormai, dà segno di non saper più sostenere la
fictio della propria personalità “leviatanica”, irrelata rispetto alla viva
concretezza degli aggregati simbiotici.
Il che è sufficiente per indurre attenti osservatori come Domenico
Campana a osservare che «non basta ristabilire i valori sociali minacciati
o distrutti, non basta restituire all’individuo il senso della sua libertà ed
imporre allo Stato il senso del limite, il rispetto dell’autonomia della
persona; occorre riconoscere che costituiscono fine in sé non soltanto le
persone ma anche le società che non vanno viste unicamente come mezzi,
perché è nella vita delle società intermedie che avviene quel processo
costitutivo che fa dell’esistenza singolare una persona»35. In
quest’accezione, ruoli e funzioni, ben al di là di una mera stratificazione
politica e, quindi, di accesso al potere. Di qui, la convinzione di poter
paragonare taluni assunti del giusnaturalismo moderno con gli elementi della
politologia di Aristotele a esso apparentemente compatibili.
35
D. CAMPANA, Il voto corre sul filo. Democrazia diretta democrazia in diretta,
Torino 1994, p. 16. In particolare, per l’autore, «I corpi intermedi
rappresentano, dunque, elementi caratterizzanti la struttura sociale. Una
concezione che ad essi si richiama parte dalla considerazione primaria secondo
la quale si riconosce in “atto” la struttura naturale della società, senza attribuire
fini predeterminati in quanto gli individui per realizzare “naturalmente” se stessi
si associano in raggruppamenti caratterizzati da finalità proprie e specifiche.
Questi raggruppamenti costituiscono i corpi intermedi. Le finalità si
realizzeranno attraverso il lavoro inteso come manifestazione concreta delle
diverse capacità e qualità individuali con una partecipazione differenziata per
gradi e livelli di responsabilità alle decisioni sia sul piano sociale sia su quello
politico. La subordinazione e sovra ordinazione saranno esclusivamente
funzionali, cioè legate alle mansioni, alle responsabilità ed ai compiti svolti
nell’ambito del processo produttivo. È una certa idea della società che può
essere ritenuta in atto» (p. 17).
per classi, presuppongono un’attorialità democratica che faccia giustizia
dei sistemi ispirati dal principio della “rappresentanza incorporea” della
nazione: innovazione, questa, che si rivela fattibile soltanto se si depone il
preconcetto di una necessaria profilassi della politica dalle identità
sociali, presumendo che ciò basti per guadagnare in neutralità e
imparzialità decisionali – semmai queste possano costituire un autentico
guadagno.
Molto meglio, dunque, cercare di governare il fenomeno, onde evitare
che le istituzioni, vivendo nell’illusione di sovrintendere alle sorti di
un’astratta cittadinanza, siano di fatto relegate all’insignificanza pratica,
nei riguardi di una realtà umana in continuo movimento. Meglio, cioè,
integrare le esigenze di “ripoliticizzazione” delle nuove consociationes
nella dimensione della sovranità statuale, magari sfruttando le occasioni
offerte dalla civiltà digitale. In breve, si sta sostenendo la possibilità di
rinsaldare l’identificazione tra rappresentante e rappresentati ricorrendo
alle pratiche partecipative consentite dal web, evitando tuttavia quelle
che abbiamo descritto come aberrazioni a margine di stili estemporanei
di relazionalità telematica, sia a scopo populistico (da parte del politico),
sia a iniziativa demotica (da parte dei cittadini).
Per neutralizzare o, almeno, ridurre i sopraccennati inconvenienti, è
probabile che occorra collegare i rappresentanti a delle e-communities
cui afferire in modalità dialogica, secondo un preciso principium
individuationis, consistente in un mandato d’interesse: inter-esse di
gruppo, atto a fondere, nella relazione, sia il coinvolgimento in processi di
decision making concernenti materie necessariamente conosciute, sia una
declinazione ponderata e, per certi versi, “premiale” del momento
selettivo della rappresentanza. Tutto questo, se non proprio per ottenere
una rappresentanzione identitaria, certamente per conseguire un
riavvicinamento tra la sovranità e le ragioni concrete della legittimazione.
In tale maniera, lo strumento informatico avrebbe agio di veicolare il
contatto dell’istituzione con l’interesse stesso a essere rappresentati e,
ancora più alla radice, con gli interessi che individuano, in maniera
tutt’altro che volatile, la genesi delle convergenze tra gli attori sociali36.
Soprattutto, collegare l’accesso alla community al requisito
dell’interesse condiviso cui dedicare quest’ultima potrebbe evitare il
rischio – precedentemente enunciato – di disporre i membri in
concorrenza per ottenere il primato maggioritario, utile a stabilire
l’agenda del politico, dirigendo la sua attenzione sulla issue di volta in
volta prevalente, con il risultato d’instaurare un regime di
“internetcrazia”. Dalla prospettiva opposta, il rappresentante avrebbe
minor motivo d’indulgere a una ricezione compulsiva delle indicazioni
36
Uno studio sulle trasformazioni della categoria dell’interesse, orbitante
soprattutto attorno alla nascita del moderno concetto astrattivo di “interesse
generale”, alle sue versioni e alla sua crisi è offerto da L. ORNAGHI, S.
COTELLESSA, Interesse, Bologna 2000. Vedi inoltre Il concetto di interesse.
Antologia, a cura di L. Ornaghi, Bologna 1984; Id., Interesse e antropologia
individualista: il possessivismo moderno, Milano 2008.
recepite, frammentando altresì la propria offerta programmatica per
inseguire confusamente gli orientamenti instabili di un elettorato
eterogeneo. In effetti, a differenza del social network generalista, il sito
destinato al dialogo tra gli “aventi interesse a uno specifico interesse” e il
politico sarebbe capace di rivoluzionare dal profondo la concezione della
rappresentanza. Il che avverrebbe senza esigere, necessariamente,
riforme costituzionali in tema di mandato imperativo37.
Già sul piano operativo, la mappatura dei potenziali “collegi virtuali”
ottenibili da una simile strategia di dialogo saprebbe rivitalizzare il
contatto tra società e istituzioni, regolando la rappresentazione intorno
alla praesentia di un’absentia comunque riferita a realtà civili che non
siano l’immagine di un ente-popolo confinato alla dimensione puramente
concettuale. Tralasciamo volentieri le questioni logistiche relative al
problema di accertare la sussistenza del titolo a iscriversi e partecipare a
delle e-communities così concepite. Né intendiamo dilungarci nella
disamina delle procedure da impiegare, materialmente, per condurre uno
specifico interesse all’interno delle aule rappresentative. Con valore di
esempio, possiamo sicuramente segnalare lo schema delineato da
Giuseppe Nistri, il quale descrive un tipo di selezione della classe politica
basato su meccanismi elettivi ambientati nella rete, ad andamento
piramidale, ideato con una vaga ispirazione al sistema statunitense, nella
previsione di fasce di “grandi elettori” numericamente sempre più
ristrette, partendo da soggetti rappresentativi individuati all’interno del
gruppo stesso, per finire all’elezione dei membri degli organi centrali 38.
Tuttavia, occorre essere ben consapevoli che prendere in considerazione
questa e altre ipotesi affini, animate dall’intenzione di rendere praticabile
l’e-democracy non soltanto sul versante della partecipazione
comunicativa e promozionale, ma anche sul piano squisitamente
elettorale, implicherebbe progetti di trasformazione ordinamentale
eccessivamente “esigenti”, con molta probabilità destinati
all’impraticabilità: si pensi soltanto all’eventuale previsione di un diritto
di voto plurimo in capo a soggetti che, in nome di molteplici interessi,
partecipino ad altrettante e-communities.
Senza spingersi verso rivolgimenti di tale portata, ci basti considerare i
benefìci apportabili dalla libera strutturazione, nella rete, di una sorta di
“Camera degli interessi” assai composita, concepita aggiornando talune
suggestioni di Gaspare Ambrosini rispetto alla prassi telematica, in grado
37
Nulla a che vedere, insomma, con le ipotesi di un “recall telematico” ricavabili
dalle suggestioni di Th.E. CRONIN, Direct democracy: The Politics of Initiative,
Referendum and Recall, Cambridge (Mass.) 1989, la cui formula di “democrazia
sensibile” intende conservare la modalità rappresentativa, tuttavia sollecitando
la classe politica a maggiore rappresentatività attraverso la “minaccia” della
revoca delle cariche.
38
Apprendiamo tale proposta dalla sintesi offertane da D. CAMPANA, Il voto corre
sul filo, cit., pp. 44 s., che la vuole pubblicata in articolo su Media Duemila:
rivista di cultura digitale, senza tuttavia fornire ulteriori dati utili al reperimento
finalizzato alla consultazione dello scritto.
di fungere da tramite connettivo tra politica e società, consultando la
quale il rappresentante possa costantemente misurare il polso degli
interessi frazionali che, senza ipocrite dissimulazioni, ne giustifichino la
legittimità sostanziale e l’oggettività consensuale del mandato. Un modo,
questo, per accrescere in costui un senso di responsabilità che sia
davvero radicale: una responsabilità che – come sostiene Hans Jonas nel
tentativo di definire un’etica per la civiltà tecnologica – sia liberamente
scelta dinanzi ai cittadini, indipendente dal grado di potere esercitato e
dalla formalità dell’incarico, divenendo così essa stessa l’oggetto
autentico della competizione politica39.
Di conseguenza, dismettendo l’alibi di un malinteso principio della
fungibilità, potrebbe avere realmente luogo una dialogicità bidirezionale,
idonea a innescare processi persuasivi nei confronti non solo del
cittadino, ma anche del rappresentante, superando l’impasse in cui si
dibatte il modello dell’“agire comunicativo” habermasiano, assillato da
esigenze veritative non integrate dalla funzionalità dei ruoli.
Tale responsività, richiesta da molteplici “opinioni pubbliche” informate e
informanti, consultate e consultanti, non solo consentirebbe «una sfera di
rapporti sociali integrata con le relazioni economiche, politiche e culturali
al punto da fare corpo unico con esse»40, ma, per giunta, rilancerebbe la
rappresentanza anche sul piano della qualità operativa del politico.
La relazionalità, per nulla “ingessata”, richiesta da una comunicazione
che passi dal genere one-to-many al one-to-group e al group-to-one,
risponderebbe, infatti, alla stessa ratio delle interpellanze e delle
interrogazioni parlamentari. Soltanto, mentre il question time trasmesso
sugli schermi televisivi dei cittadini può, al massimo, rendere questi
ultimi spettatori di un dialogo da altri condotto, i quesiti posti sulla
piattaforma del network “dedicato” vedrebbero gli elettori agire da
interroganti protagonisti, abilitati a chiedere conto rispetto a tematiche
di cui si abbia sufficiente cognizione. Peraltro, a rendere ragione del
proprio operato sarebbe finalmente non soltanto il membro dell’esecutivo,
ma anche il singolo parlamentare, sinora in grado di sfuggire
all’attenzione del popolo, anonimamente seduto tra i banchi assegnati al
proprio gruppo assembleare. Ebbene, la possibilità di ricorrere a questo
“pungolo” consentirebbe di incentivare il miglioramento della classe
politica nella sua puntuale composizione, giacché l’eventualità di essere
chiamati a illustrare la propria azione istituzionale, innescherebbe, già sul
piano psicologico, l’inibizione del rappresentante a costituire soltanto un
numero, a votare in aula su questioni a lui ignote, ossia, a omettere di
39
Vedi lo spazio specificamente dedicato al tema della responsabilizzazione del
rappresentante in H. JONAS, Das Prinzip Verantwortlung. Versuch einer Ethik für
die technologische Zivilisation, Frankfurt a.M. 1979.
40
C. Formenti, Composizione di classe, tecnologie di rete e post democrazia, in
L’innovazione necessaria, a cura di A. Di Corinto, Pisa 2006, p. 34. Della
molteplicità integrata di “opinioni pubbliche” consapevoli della propria
specificità politico-sociale si occupa J. JACOBELLI, Politica e Internet, Soveria
Mannelli 2001.
approfondire il quid della deliberazione, conformandosi passivamente alla
disciplina dettata dal capogruppo. Certo che, in talune circostanze, egli
potrebbe ridursi nella difficoltà di servire due “padroni”, nel caso in cui
l’orientamento del partito si discostasse dalle indicazioni fornite dagli
elettori. Ma proprio ciò recherebbe un vulnus rigenerante alle attuali
dinamiche del consenso, finendo per impedire al partito di divergere,
nella segretezza del “palazzo”, dai contenuti del programma sottoposto,
secondo logiche “seduttive”, al giudizio elettorale: il tutto, a detrimento di
quella riserva di autoreferenzialità partitocratica che, ancora oggi, induce
i leaders a ritenere di poter fare affidamento sui propri “pretoriani”,
vantando la licenza d’ignorare “impunemente” gli impegni assunti con i
cittadini.
Come si vede, per ottenere questa varietà di vantaggi, è comunque
necessario ancorare la vitalità del web ai luoghi tradizionali della
democrazia rappresentativa, onde innestare una rinnovata modalità della
legittimazione in processi identificativi tutt’altro che virtuali o nominali.
La base materiale dell’interesse, in questo senso, coniugando i criteri
dell’appartenenza a quelli della condivisione utilitaria e valoriale,
dovrebbe trovare, per così dire, uno fattivo “spazio costituzionale”,
inducendo gli ordinamenti stessi a metabolizzare la struttura reticolare
della “cittadinanza internautica”41. Nulla, insomma, che possa giustificare
la vigenza di una sovranità parallela entro una socialità digitale,
egemonizzata da una sorta di “neo-doxa”, frutto dell’ibridazione tra
strategie di marketing (dei beni come delle idee), un mondialismo indotto
e alienante e, in via residuale, un senso comune balbettante, sganciato da
progettualità civilizzazionali, disorientato dalla continua sperimentazione
di itinerari depoliticizzati. Nulla, ancora, che possa avvicinarsi alle pur
accattivanti proposte di Pierre Lévy e alla sua “démocratie planétaire”,
ove ascendenze kantiane si mescolano alla tesi neo-averroistica di
un’“intelligence collective” («distribuita ovunque, continuamente
valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione
effettiva delle competenze»42), la quale, coniugata con un “capitalisme
cognitif”, sia foriera di una “Fédération Universelle” informata agli
assiomi di un liberismo su scala globale, per sovrintendere al processo di
sovrapposizione tra società e mercati, una volta incapsulata la politica
nelle leggi dell’economia e della finanza43.
A una simile “profezia programmatica”, invece, opponiamo un’idea di e-
democracy utilizzata per la domiciliare gli interessi fattivi e compositi
della società entro i luoghi della sintesi potestativa della sovranità:
nell’era informatica, proprio gli interessi, nel solco delle trasformazioni in
41
Sul tema, anche in chiave problematizzante, vedi D. PITTERI, Democrazia
elettronica, cit., p. 46 ss. Più in generale, S. RODOTÀ, Tecnopolitica, cit..
42
P. LÉVY, L’intelligenza collettiva, Milano 1996, p. 34.
43
Sempre di Lévy, vedi Les technologies de l'intelligence: l'avenir de la pensée à
l'ère informatique, Paris 1990; World philosophie: le marche, le cyberspace, la
conscience, Paris 2000; Cyberdemocratie. Essai de philosophie politique, Paris
2002.
atto della politicità, assurgerebbero al rango di versione aggiornata del
“Nomos della terra” di schmittiana memoria, presentandosi nuovamente
come il correlativo oggettivo della legittimazione all’autorità costituita44.
Conservando costante la loro operatività nei confronti sia dell’agire dei
rappresentati, sia delle strategie dei rappresentanti, grazie all’apporto
dialogizzante dello strumento telematico, essi procurerebbero
un’“iniezione di concretezza” a una statualità che, a quanto pare, non può
più accordarsi il lusso di concepirsi del tutto trascendente rispetto ai
corpi civili.
Potremmo addirittura spingerci a parlare di un’e-democracy pluralista
neo-corporativa, se quest’ultimo attributo non rischiasse di evocare
imbarazzanti allusioni a precise formule di regime. Ma è pur vero che tale
ambiguità non può costringere a ignorare un modo tradizionale di
concepire le aggregazioni degli interessi organizzati: un principio che non
può non venire in evidenza, dinanzi allo scompaginarsi delle istanze
socio-economiche fondate sull’idea di uno Stato “fiturgo” di tutto ciò che
abbia rilievo politico, ovvero, radicate in una sempre più inattuale
contrapposizione tra persona sovrana e società, ormai coinvolta in una
confutazione giudicata già da Giorgio Del Vecchio come «una verità così
spesso ripetuta, che può dirsi ormai un luogo comune»45.
In proposito, ci soccorre la riflessione di Lorenzo Ornaghi, nel momento
in cui afferma: «Del resto, non appena si tenti di ricostruire l’idea di
corporazione in stretto collegamento con i fenomeni corporativi snodatisi
lungo la vicenda dello Stato moderno, ci si accorge subito che le origini
del corporativismo si collocano all’inizio stesso di una linea di tendenza
destinata a rivelarsi “costante” lungo l’intero svolgimento della moderna
sintesi statale. Sciolta infatti l’interrelazione (talvolta accettata ancora
diffusamente, e creduta così stretta da apparire cogente) fra
“corporativismo” e “autoritarismo”, il fenomeno corporativo rimanda di
necessità a quel sistema di aggregazioni cetuali che, anche quando si
tenti di tenere distinta in modo concettualmente rigoroso la corporazione
dal ceto, si palesa come il più significativo antecedente al fine di dar
conto della corrispondenza fra il ruolo politico della “moderna”

44
Attento a cogliere la dimensione psico-antropologica e anche “spaziale”
dell’inter-esse è L. ORNAGHI, Interesse e gruppi corporati. Introduzione allo
studio del fenomeno corporativo, in “Il Politico”, XLV, 1980. Non privi di tale
riferimento sono pure gli studi condotti su un preteso “neo-corporativismo” o
“neo-corporatismo” (ove il prefisso sta a chiarire l’assensa di derivazioni
ideologiche da soluzioni ordinamentali sperimentate nell’Ottocento e nel
Novecento). Vedi, per esempio, PH.C. SCMITTER, Still the Century of Corporatism,
in “The Review of Politics”, XXXVI 1974; G. GOZZI, Potere e modello
neocorporativo, in AA.VV., Nuove forme del potere. Stato, scienza, soggetti
sociali, Milano 1982; A. CESSARI, Pluralismo neocorporativismo
neocontrattualismo, in “Rassegna italiana di Diritto del lavoro”, II, 1983.
45
G. DEL VECCHIO, La crisi dello Stato, in “Rivista internazionale di Filosofia del
diritto”, XIII, 1913, p. 684.
corporazione e le funzioni da essa espletate sulla base di un interesse
considerato “comune”»46.
Certamente, dunque, non di corporativismo in senso stretto vorremmo
parlare, giacché sarebbe assurdo pensare ad assetti rigidi, al cospetto
alla socialità “fluida” del presente. Piuttosto, i suggerimenti che
provengono dal dibattito giuridico-politico, sociologico ed economico
della metà del primo Novecento, come pure le dottrine perorate dal
cristianesimo sociale italiano, francese, austriaco e tedesco, via via
risalendo a Romagnosi, Vico, Althusius e più in là ancora, possono
apportare, sotto un profilo principiale, maggiore consapevolezza alla
mente di chi, nel tempo presente, si ponga il problema della complessità
vitale dei soggetti sociali47. Da ciò dovrebbe discendere lo sforzo di
riconoscere una definizione di “politico” sganciata da quella di
“statualità”, trovando conforto in ciò che già Joseph von Görres, nel 1818,
sosteneva: «Allorché nella società borghese la costituzione si inceppa, là
fa la sua comparsa l’elemento genuinamente umano, sul quale – come sul
suo fondamento ultimo – ogni forma riposa, e che invariabilmente resta il
medesimo in ogni cambiamento della forma. Come l’intera moltitudine dei
diversi corpi naturali si lascia alla fin fine risolvere in pochi elementi
naturali, così egualmente, alla base di tutte le strutture nella società, si
trova un certo numero di elementi politici; questi, allorché la forma si
dissolve – in modo violento attraverso rivoluzioni, o per invecchiamento
nel corso naturale delle cose – sempre sopravvivono, indistruttibilmente
eguali, e subito dopo essere stati separati si ricompongono in una nuova
figura»48. In fin dei conti, si tratta di guardare a una vita che non può
esaurirsi nei termini di un artificio razionale giuspubblicistico, dal
momento che pure lo Stato è chiamato a consentirle agibilità e
“presenza” istituzionale, se intende giustificare il proprio ruolo, evitando
46
L. ORNAGHI, Stato e corporazione, Milano 1984. L’autore, con notevole acribia,
fa altresì notare: «In realtà, già nella società d’antico regime (e anche dopo che
la legge Le Chapelier avesse formalmente proclamato nel 1791 lo scioglimento
di ogni corporazione), l’oscillazione del fenomeno corporativo era stata guidata
- più che da un moto pendolare uniforme – da un continuo antagonismo fra due
tendenze, le quali, diverse e assai spesso contrapposte, erano entrambe operanti
sin dalla nascita dello Stato moderno: la tendenza dello Stato – da una parte – a
“incorporare” i gruppi economico-sociali – dall’altra – ad “accorparsi” in
aggregazioni stabilmente organizzate così da sottrarsi all’incapsulamento entro
uno Stato “totale» (p. 15).
47
Per una ricognizione del corporativismo cattolico, Vedi AA.VV., Verso il
corporativismo democratico, Bari 1951 e, (soprattutto riferito alle matrici neo-
romantiche), P.T. MAYER-TASCH, Korporativismus und Autoritarismus. Eine Studie
zu Theorie und Praxis der beruffsständischen Rechts- und Staatidee, Frankfurt
1971. In area liberaldemocratica, si vedano gli “illuminanti” articoli di A.
OLIVETTI, La rappresentanza nel sistema delle Comunità, in “Comunità”, I, 1946
e Vera e falsa competenza politica, in “Movimento Comunità”, I, 1948. Sul
versante del sindacalismo liberale spicca l’attività editoriale di Pagine libere.
48
J. VON GÖRRES, Gesammelte Schriften XIII: Politische Schrifen (1817-1822),
Köln, 1929, p. 5.
di dare corso a reazioni centrifughe e valorizzando, invece, le attitudini
politicamente centripete delle simbiosi consociative. Per questa ragione,
in maniera del tutto diversa rispetto alle sperimentazioni svolte in un
passato a noi noto, non si tratta di applicare esattamente i canoni della
sovranità statuale alle emergenze aggregative degli interessi sociali49.
Piuttosto, se non proprio in prospettiva rovesciata, accade di avvertire
l’esigenza di un incontro finalmente veridico tra Stato-persona e Stato-
comunità, utilizzando l’agorà virtuale introdotta dall’informatica per un
reciproco adeguamento. Proprio per tale ragione, anziché al
corporativismo (in quanto regime), più corretto sarebbe riferirsi a un
fenomeno corporativo lato sensu50, che si manifesti nella spontaneità di

49
Sul tutt’altro che pacifico dibattito interno alla stessa intellighenzia fascista,
riguardo agli obiettivi da assegnare allo Stato corporativo, vale la dettagliata
analisi ricostruttiva di L. ORNAGHI, Stato e corporazione, cit., che aggiunge
ulteriori elementi interpretativi alle già note letture riferite a esigenze
tecnocratiche di programmazione economica, a scopi di contenimento e
inglobamento delle forze sociali in potenziale contrasto con il regime, a
impostazioni autarchiche e protezionistiche, a strategie demagogiche, a
irriducibili velleità statocentriche etc. D’altronde, Silvio Lanaro non manca di
osservare: «Si sbaglierebbe ancora, inoltre, se si ritenesse che a cavallo del ’25-
26 il plesso istituzionale e culturale del corporativismo sgorga da un dibattito
“giovane” tutto interno alle correnti del fascismo – poco importa se di destra o di
sinistra, poco importa se innervate dal nazionalismo integralistico di Rocco o dal
criticismo americanizzante di Bottai – e poi riceve dalla depressione degli anni
trenta l’abbrivo per la formulazione compiuta di una “Bildung” teorica e
pragmatica. […] Spesso le ipotesi di Stato totalitario e “sindacale” fioriscono sul
terreno della più genuina tradizione del liberalismo, e sia pure particolarissimo
liberalismo italiano» (Nazione e lavoro. Saggio sulla cultura borghese in Italia
1870-1925, Venezia 1979, p. 238). Proprio la congerie di dottrine e idealità che
accompagnò l’esperimento corporativo in Italia, connotato secondo molteplici
famiglie ideologiche (democratica, socialista, nazionalista, liberale, sindacalista,
comunista), non poté non attirare l’attenzione di un altrettanto variegato
pubblico di osservatori. Come rilevava Gaetano Salvemini, lo « “Stato
corporativo” fascista ha destato la curiosità, la speranza, e persino l’entusiasmo.
L’Italia è diventata la Mecca degli scienziati politici, degli economisti, dei
sociologi, che vi affluirono per osservare coi loro propri occhi l’organizzazione e
l’attività dello Stato corporativo fascista» (Sotto la scure del fascismo: lo Stato
corporativo di Mussolini, Torino, 1948, p. 4). Tra i numerosi studi svolti in
materia da autori stranieri – atti a testimoniare la difficoltà esegetica
d’inquadrare esattamente il fenomeno – oltre alle ovvie attenzioni austro-
tedesche e spagnole, vedi, per esempio, L. ROSENSTOCK-FRANCK, L’économie
corporative fasciste en doctrine et en fait. Ses origines historiques et son
évolution, Paris 1934; R. BONNARD, Syndacalism, corporatisme et État
corporative, Paris 1937; S. AGAPITIDÈS, Saint-Simon et le corporatisme fasciste,
in “Révue d’Histoire économique et sociale”, XXIII, 1936; W.G. WELK, Fascist
Economic Policy. An Analysis of Italy’s Economic Experiment, Cambridge 1938;
P. EINZIG, The Economic Foundations of Fascism, London 1933.
50
Ancora secondo Ornaghi, «grave è l’equivoco in cui si incorre allorquando si
stabilisca una stretta correlazione fra tale crisi [scil.: della rappresentazione
prassi inclusive, con specifico riguardo a una formazione aggregativa del
consenso avulsa da quelle «sintesi unitarie prefigurate» 51 già in seno allo
Stato-persona.

5. Per un federalismo “simbolico”: ripensare la sovranità

Per quanto possa apparire contraddittorio, potremmo pensare


d’inscrivere in una futuribile “cittadinanza telematica” post-moderna
degli elementi principiali afferenti a un canone pre-moderno, informato a
un pluralismo organico su base cetuale 52. A patto, ovviamente, di non
incorrere in nostalgismi immotivati e carenti di risvolti attuativi,
mancando di selezionare solamente gli aspetti di cui possa darsi riscontro
nel presente, integrandoli con il senso di una conditio modificabile,
ovvero, legata alla dimensione “mobile” dell’“opinione” e della
“sensibilità”. Occorre, cioè, più che al ceto, riferirsi al paradigma cetuale,
statuale] e il fenomeno corporativo. L’equivoco è infatti, in tal caso, che il
fenomeno corporativo finisca con l’essere interamente interpretato alla luce
della ratio di svolgimento ritenuta specifica della moderna organizzazione del
potere: con la conseguenza che, smarrito il carattere di “costante” del fenomeno
corporativo, si perda anche la sua natura di forma di convivenza
tendenzialmente e storicamente alternativa a quella considerata tipica della
moderna sintesi statale» (Stato e corporazione, cit., p. 22).
51
Traiamo l’espressione da Giorgio Berti, del quale sottoscriviamo
convintamente l’analisi in argomento: «E’ chiaro ormai che l’unificazione
politica dello Stato è formale e artificiosa e non ci sono funzioni o astrazioni che,
come quelle della persona giuridica, soccorrano con qualche promessa. C’è anzi
da chiedersi se l’unificazione a livello politico generale, che pure è necessaria,
possa riprodursi secondo schemi simili a quelli dello Stato-persona, con il
ricorso a sintesi artificiose fra economia e politica in modo da far discendere
sulla società e sulle sue contraddizioni e ineguaglianze una serie di impulsi
autoritari. O non sia piuttosto il momento di dare atto che sintesi unitarie
prefigurate non sono più possibili e che i poteri, se così possono ancora
chiamarsi, debbono costruirsi in forme più libere di incontro e composizione di
interessi a seconda delle aree sociali ed economiche in cui questi interessi
compaiono e attendono per loro stessa natura a forme unificanti o compositive.
Allora l’ordinamento non può offrire altro che strumenti il cui uso sia
costantemente controllato e perciò legittimato» (“La parabola della persona
Stato e dei suoi organi”, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno”, XI-XII, 1982-83, p. 1031).
52
Per cogliere l’aspetto differenziale tra corporazione e ceto (cui pure Ornaghi
accenna), è utile rifarsi a J.H. KAISER, Die Repräsentation organisierter
Interessen, Berlin 1956, p. 63. Più incline alla loro sovrapponibilità è W. SCHWER,
Stand und Ständeordnung im Weltbild des Mittelalters. Die geistes- und
gesellschafts-geschichtlichen Grundlagen der beruffsständischen Idee,
Paderborn 1934, che, come recita il titolo stesso dell’opera,fa perno sul concetto
di Stand, ritenendolo afferente, in via già etimologica, a status, conditio, ordo,
gradus.
intendendoci bene su ciò che, con esso, si vuol significare. Segnatamente,
il riferimento corre a una concezione alternativa rispetto al modello
ordinamentale avente, come presupposto, una struttura sociale
atomizzata, ove vige l’equivalenza indifferenziale tra gli individui,
parificati nell’anonimato di una soggezione alla volontà generale, a sua
volta incarnata da uno Stato assiso su una totalità compatta e
inarticolata. A ciò si oppone, invece, la visione di una cittadinanza
sovrana composta da molteplici centri di eticità, ossia, da “interezze
parziali” le quali, prima ancora che poteri, esprimano i caratteri
particolari di un organismo globale, incapace a darsi direttamente alla
percezione, se non attraverso le sue stesse membra. Soprattutto,
potrebbe parlarsi di “frammenti di sovranità” in reciproca correlazione,
nel cui àmbito emerga la massima prossimità possibile a ciascuno degli
specifici interessi che percorrono il soggetto popolare.
A questo proposito, è veramente difficile non appropriarsi della nozione
di “sovranità oggettiva” (Sachsouveränität) che ci proviene dalle
premesse poste da Othmar Spann al suo Ständestaat, allorché,
confutando l’indivisibilità statocentrica della sovranità espressa dai
modelli bodiniano e hobbesiano, sostiene: «Non si può quindi più parlare
solamente di una “sovranità statale”. Ogni ceto possiede ciò che possiamo
chiamare il suo specifico potere di dominio, la sua specifica sovranità. Lo
specifico potere di dominio (“sovranità”) di un ceto non deriva dalla
volontà del singolo, come sostiene la concezione individualistica per la
sovranità statale – “sovranità popolare” quale fonte della “sovranità
statale” – bensì dalla validità del compito del ceto all’interno del
contenuto spirituale e morale della vita culturale, dalla fertilità di
quell’agire che di volta in volta è organizzato in un ceto. La sovranità
oggettiva subentra la posto della sovranità popolare. Oggettività al posto
della soggettività, al posto dell’arbitrio soggettivo»53.
Un’oggettività, dunque, spiegabile in termini di competenza, e che,
riversando il discorso in un’ambientazione telematica del confronto tra i
portatori dell’interesse a essa afferente, riterremmo coniugabile alla
consuetudine dialogico-deliberativa che questi ultimi manifesterebbero
rispetto a beni e valori condivisi. Ma, altresì, un’oggettiva in grado di
coinvolgere anche il rappresentante latore di quel medesimo interesse nei
luoghi della sintesi istituzionale, investito dell’onere di meritare consenso
e legittimazione dimostrando, agli occhi degli elettori oggettivamente
(appunto!) implicati, la capacità d’intendere e di soddisfare al meglio la
realtà cui applicarsi in sede politica: non più semplice ricettore di voti, né
anonima parte dell’ingranaggio potestativo, il rappresentante vedrebbe il
suo concreto operato assoggettarsi a requisiti di riconoscibilità e di
“tracciabilità istituzionale”, potendo guadagnare a esso il riscontro di
un’effettiva autorevolezza.

53
O. SPANN, Hauptpunkte der universalistischen Staatsauffassung, Berlin 1929,
p. 5 (tr it. in “Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica”, 1931, p. 57).
Taluni elementi della dottrina di Spann ci tornano utili per diversi
ordini di ragioni, reciprocamente connessi. Il primo inerisce al concetto di
Ganzheit, le cui ascendenze vengono fatte risalire a più disparati contesti
filosofici (dall’indiano al cinese, al platonico-aristotelico, al
neoplatonistico, al medioevale). Incentrato sull’affermazione ontologica
per cui ogni realtà deve la propria esistenza all’essere parte di un intero,
esso contrappone al metodo individualistico-atomistico, che separa ogni
ente dagli altri nella sua autarchica sussistenza, un metodo
universalistico, fondato su sei cardini: 1) ciascun intero si manifesta
soltanto nelle parti che organicamente la compongono; 2) l’intero vive
nelle sue parti, mentre queste ultime non godono di un’esistenza che
possa prescindere dall’interezza; 3) l’intero precede le parti secondo un
criterio non temporale, bensì logico, giacché il primo non risulta essere la
mera sommatoria meccanicistica delle seconde, né queste consistono in
un rapporto di alterità (causale) rispetto a esso; 4) l’intero non si
esaurisce nelle parti, essendo dotato di propria vitalità e di inesauribili
potenzialità; 5) le parti, essendo fondate sull’intero in maniera articolata,
vantano una propria identità, non fondendosi tra esse come in un tutto
indistinto; 6) l’intero, pur essendo presente in ciascuna parte (e
viceversa), non annulla quest’ultima nella propria preminenza pervasiva.
Da ciò discendono categorie quali l’articolazione, la trans-articolazione, la
somiglianza, la ricongiunzione, la dualizzazione, e le loro relative sotto-
categorie (somiglianza, prestazione, correlazione etc.), riferite alla
modalità fenomenologica dell’intero, il quale si rivela nella coordinazione
delle determinatezze particolari che lo compongono: in sostanza, l’intero,
manifestandosi nelle parti, non tradisce la propria natura, né queste si
dispongono in una conflittualità tra Io (tesi) e non-Io (antitesi), derivando,
al contrario, la propria “libertà ontologica” da un rapporto di reciproca
relazionalità con un “altro-diverso” che pure consente di percepirsi come
identità e, al contempo, di partecipare all’intero. Di qui, una
multicentralità per cui “tutto è in tutti”, secondo analogia, compensazione
o complementarietà, sicché nulla può vantare un titolo di nuclearità
irradiante rispetto a una “periferia”54.
Trasposte nel campo di una teoria della società e della politica, è
evidente quanto simili premesse rivelino il rifiuto di qualsiasi
considerazione individualistica, negante il carattere strutturante
dell’intersoggettività e, a maggior ragione, il valore super-personale delle
manifestazioni organiche dell’umanità. Il che non significa affatto
54
Vedi specialmente O. SPANN, Gesellschaftslehre, Leipzig 1923 e
Kategorienlehre, Jena 1924, insieme con i lavori pubblicati postumi Die
Ganzheit und ihre Kategorien im Hinblick auf das Verfahren der Wissenschaft, in
Studium Generale, 1952; Die Ganzheitliche Logik. Eine Grundlegung, Salzburg-
Klosterneuburg 1958 (ripubblicato in nuova versione nel volume n. 17 della
collana Gesamtausgabe, Graz 1971). Per un’analisi puntuale e schematica dei
princìpi relativi alla Ganzheit spanniana, segnaliamo G. FRANCHI, La filosofia
sociale di Othmar Spann. Tra Methodenstreit e Ständestaat, Roma 2002, pp. 32
ss.
ricorrere a una visione olistica tale da affermare l’assorbimento del
particolare nella totalità dell’universale. Diversamente, si tratta di
un’idea organica affermante il primato dell’“insieme-intero”, non
dell’“uno-tutto”: in un universo così concepito, si riesce davvero ad
ammettere il ruolo di un’identità individuale irripetibile, svolto nel
complesso cui essa partecipa. Al contrario, sarebbero le dottrine
individualistiche, fondate su una astratta fungibilità ed equivalenza dei
singoli (sinora testimoniato dal dogma della segretezza e dell’anonimato
del voto), a comprimere la libertà del particolare, asservendola a
un’arché artificiale55.
Da un’ottica ispirata alle intuizioni di Spann discenderebbe, altresì,
l’idea di una reciprocità dei rapporti non soltanto tra parti sociali, ma
anche tra Stato e società, giacché ciascun termine presenta, in sé, il
completamento perfezionante di un qualcosa già presente nell’altro,
proprio come accade nelle comunità umane naturalmente unitive e
moralmente vincolanti (matrimonio, famiglia, amicizia etc.), secondo
presupposti d’interdipendenza integrativa, in ordine a una
compensazione necessaria che si consuma nei modi analoghi al contatto
tra il “concavo” e il “convesso”. Detto in maniera più esplicita, tali
premesse consentirebbero di concepire lo Stato non più come “centro
assoluto”, entità a sé stante. Esso, invece, in conformità a un principio più
correttamente definibile “corporazionistico”, anziché “corporativistico” 56,
figurerebbe quale “ceto tra ceti”, dotato di specifica qualità funzionale
all’interno di una società da configurarsi come «interezza spirituale e
dell’agire» (geistige und handelnde Ganzheit): lo Stato altro non sarebbe
che la manifestazione istituzionale dell’“agire organizzante”
(organisierende Handeln) e, insieme, sede dell’“agire rappresentante” o
“completante” (darstellende oder vollbringende Handeln) dell’intero
parziale della politica. Esso, cioè, avrebbe lo specifico compito di
esercitare una direzione generale e, al contempo, un’attività
istituzionalizzante (anstaltbildende Tätigkeit) rispetto alle “comunità
dell’agire” – e dell’interesse – in cui si struttura l’insieme della
cittadinanza. Pertanto, il suo fine ultimo non sarebbe più il potere, bensì il
perfezionamento sintetico della politicità di cui la società stessa, nelle sue
singole frazioni organiche, è capace57.
55
D’altronde, come viene correttamente osservato da Franchi, «le dottrine
individualistiche che lamentano il condizionamento sociale del singolo nella
Ganzheitlehre cadono esse stesse, secondo Spann, in quello che egli definisce il
“paradosso individualista”: solo la dottrina dell’interezza può pensare fino in
fondo l’idea di unicità. Questo perché l’intero è sempre composto di parti uniche
ed irripetibili; chi nega l’interezza e considera i singoli individui come degli
atomi non avrebbe più parametri per pensarne l’unicità» (La filosofia sociale di
Othmar Spann, cit., p. 111).
56
Sulla differenza vedi L.M. LACHMANN, Corporativismo e Corporazionismo, in Lo
Stato, IV, 1933.
57
Per questi e altri assunti, in Spann, si noti la continuità teoretica e
terminologica tra la Gesellschaftslehre, il Der wahre Staat (Leipzig 1921) e la
Evitando di lasciarsi sedurre dal rigore gerarchico adoperato dalla
costruzione spanniana, possiamo parimenti ricavare dai suoi presupposti
l’occasione per rimodulare il monopolio statuale della sovranità,
rinunciando, al contempo, a qualsiasi ipotesi di de-statualizzazione della
rappresentanza. Se l’antico argomento addotto a spiegare
l’impraticabilità materiale di una democrazia diretta si annuncia
confutato dall’immediatezza partecipativa consentita dal cyberspazio, ciò
non basta a far decadere i motivi più profondi della mediazione
rappresentativa. Ma non v’è dubbio sulla possibilità di recuperare,
attraverso la “consociazione telematica”, l’inerenza durevole del mandato
rispetto all’interesse, insieme con la concomitanza tra la (s)elezione e il
vaglio delle effettive attitudini dell’eligendo. Una verifica, quest’ultima,
non esercitata in maniera improvvisata ed estemporanea – saremmo
tentati di dire emotiva e superficiale – bensì appuntata su aspetti
specifici, valutabili da parte di quanti abbiano, rispetto a essi, reali
capacità di giudizio. In questa direzione, il principio della competenza
rivelerebbe un’applicazione biunivoca, coinvolgendo tanto il
rappresentante, quanto i rappresentati. Né dovrebbe trattarsi di una
valutazione condotta in ordine sparso, da parte di singolarità impreparate
a far valere eticità e utilità condivise, anche in quanto minoranze, senza
disperdersi nelle accidentalità doxastiche che incombono su un singolo
isolato, privo di strumenti per valutare le ragioni del proprio consenso
confrontandole con quelle altrui e affinandole grazie al filtro del concorso
dialogico-deliberativo con i suoi “pari”. Il che non importerebbe affatto la
parcellizzazione della sovranità in innumerevoli “parrocchialismi”,
ricavandone una democrazia di fatto “bloccata”, come paventato da Hans
Kelsen58.
Gesellschaftsphilosophie (München 1928). Nel merito della contestazione
spanniana all’equivalenza tra Stato e politica, Franchi ha ragione di sottolineare
che «l’agire politico non appartiene solo al ceto statale, ma anche ad ogni altro
gruppo, associazione, organo territoriale, corporazione ecc.: in pratica, non
esisterebbe un’unica politica ma ce ne sarebbero tante quanti sono gli organismi
che agiscono all’interno della società e la gerarchia tra le diverse politiche
seguirebbe la stessa struttura dell’ordine sociale. Poiché ogni comunità
d’azione, ceto o altro, per il principio della Sachsouveränität è rappresentativa
dello specifico fine, della prestazione (Leistung) che svolge, ad ogni politica di
ceto corrisponde un relativo sistema rappresentativo. Diviene evidente, quindi,
come il principio dell’articolazione della società in interi parziali ed in gradi
neghi la distinzione netta tra rappresentante e rappresentato come vuole il
costituzionalismo liberaldemocratico: nelle “piccole interezze”, da cui è
costituita la società cetuale, ogni individuo è, al contempo, sia centro
(rappresentante), per la sfera di competenza di cui è guida, sia periferia
(rappresentato) delle interezze di cui è membro e che lo sopravanzano» (La
filosofia sociale, cit., p. 195).
58
E’ interessante notare la replica di Arnaldo Volpicelli ai timori kelseniani
espressi in Das Problem des Parlamentarismus, in ordine all’impossibilità di
ricavare esiti benèfici in una “decisione finale” afflitta, ab origine, da contrasti
d’interesse: secondo il pensatore italiano, l’obiettivo del principio corporativo è
In realtà, se v’è un filo rosso che accomuna il pensiero di Schmitt a
quello di Spann (qui assunti a pretesto per significare, rispettivamente,
maturità e superamento della statualità moderna), esso coincide con
un’eguale idiosincrasia rispetto a una traduzione in termini
individualistici della sovranità popolare, così frantumata in miriadi di
volontà e, pertanto resa politicamente insignificante, inoperante. Le
incompatibilità, piuttosto, emergono sul piano delle soluzioni: in un caso,
orientate a separare la politica dalla società, riservandola alla dimensione
dell’alterità potestativa dello Stato, in regime di esaustività
monopolistica; nell’altro, volte ad assegnare allo Stato il compito di
esaltare, coordinandole, le politicità esprimibili dagli uomini soltanto
nelle interezze consociative cui afferiscono59. Al che corrispondono due
modi diversi di concepire la rappresentanza politica: o isolata nella sua
funzione “germinativa”, produttrice dell’uni(ci)tà della volonté générale;
oppure varco di transito e contatto tra l’eticità sintetica del governo e le
molteplici ragioni civilizzazionali che, concretamente, animano le membra
della cittadinanza.
Di certo, è più che giustificabile la considerazione del rischio centrifugo
insito in un modello rappresentativo a carattere potenzialmente
“settoriale”, inteso a imprimere una cifra privatizzante all’esercizio della
sovranità. Tuttavia, la questione è osservabile anche da una prospettiva
diversa, già contando la considerazione per cui, in una democrazia a
suffragio universale come da noi conosciuta, non sono affatto
scongiurabili taciti moventi privatistici all’agire dei rappresentanti. Il
fatto è che un sistema corretto da una tendenza “corporazionistica” come
sin qui tratteggiata, forse, saprebbe liberarsi dall’equivoco ideologico con
il quale, dietro la copertura di un interesse dello Stato coincidente con
l’interesse generale, si celano meccanismi “satisfattivi” alquanto
disarmonici, rivolti al beneficio estemporaneo delle utilità frazionali
elettoralmente più proficue o dotate di maggiore evidenza comunicativa.

«l’elisione del dualismo tra società e Stato, economia e politica, interesse e


diritto», dal momento che esso «non è, come afferma il Kelsen, la “negazione” e
la “sostituzione” sic et simpliciter della democrazia – da lui con mitologico
razionalismo intesa come l’attuazione definitiva e perfetta nel tempo del
definitivo e perfetto ideale di Stato – ma un interno sviluppo della democrazia
stessa» (Dal parlamentarismo al corporativismo. Polemizzando con H. Kelsen, in
“Nuovi Studi di Diritto, Economia e Politica”, II, 1929, pp. 261 e 265).
59
D’altronde, gli stessi rapporti tra Schmitt e Spann non furono propriamente
idilliaci, segnati, in verità, dalle aspre critiche che il primo – formatosi a quella
scuola weberiana già oggetto delle critiche di Spann – mosse implicitamente al
secondo, annoverandolo in quel rigurgito soggettivistico dell’organicismo che
riteneva alimentato dagli strascichi estetizzanti del romanticismo mitteleuropeo.
Vedi C. SCHMITT, Politische Romantik, Berlin 1919. Per taluni dettagli sul
contrasto, alimentato altresì da rivalità accademica, oltre che dalle
inconciliabilità tra universalismo e decisionismo, si consulti C. GALLI, Genealogia
della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Bologna
1996, pp. 95 s.
Diversamente, il radicamento del consenso in un dialogo continuativo tra
eletti ed elettori, gravitando nella dimensione di interessi “dedicati”,
creerebbe le premesse per una rappresentazione istituzionale organica
ed equamente ripartita, comunque avvertita come veridica. In sostanza,
tale modificazione porrebbe le odierne consociazioni, spontaneamente
sorte nel tessuto sociale, nella condizione di svelare «sempre più il loro
carattere ancipite: “privato” (in quanto orientate al conseguimento di
obiettivi specifici e particolari), ma simultaneamente “pubblico” (in
quanto proiettate verso una “globalizzazione” – e, dunque, una
“politicizzazione” – dei propri interessi»60. Un discorso, questo, che vale,
a maggior ragione, in un contesto in cui la piattaforma internautica,
propiziando e strutturando le interazioni tra le nuove “famiglie” della
società civile, tende a erodere il potere ingerente delle attuali formazioni
partitiche, soprattutto dei cosiddetti “partiti-scatolone”, al cui interno si
agitano, in modo confuso, identità e strategie rappresentative non
propriamente uniformi, denunciando incoerenze e carenze rispetto alle
aspettative riversate nel mandato da parte delle comunità deleganti61.
Nel frattempo, la network society pare già farsi carico di declinare il
principio federale secondo accezioni non più soltanto geografiche, ma
anche sociali, economiche, culturali, rinnovando il patto di una res
publica a maggior ragione da intendersi come res populi: non un
contratto fittizio che riduca le parti a una massa informe e inarticolata,
bensì un’interrelazione facente perno su un foedus, appunto, che rinvii
alla fides, quale misura e garanzia d’inerenza delle attitudini singolari a
una doppia fedeltà, cioè alla propria natura individuale e all’unità politica
complessiva cui si appartiene. Di conseguenza, potremmo facilmente
parlare di un sistema di partecipazioni secondo momenti successivi di
integrazione, in cui a ciascun gruppo corrisponda una forma valoriale e
60
L. ORNAGHI, Stato e corporazione, cit., p. 7.
61
In fondo, questi nuovi assetti macro-partitici, oltre a rivelare una volontà
d’intercettare consensi a 360 gradi, a nostro di modo di vedere, derivano da un
necessario riadattamento democratico di quell’implicito “spirito di conquista
totale” che già Roberto Michels trovava modo di descrivere con disincanto,
riferendosi alla competizione per il potere all’interno della statualità moderna:
«Partito vuol dire parte, etimologicamente. Che lo voglia dire anche
storicamente, scaturisce chiaro dalla storia fiorentina in cui molte pagine
gloriose furono scritte appunto dalla parte guelfa. Senonché, partito è parte
anche dal punto di vista sociologico: “pars pro toto”. Con altri termini, il partito
logicamente non indica la totalità dei cittadini (né dei cittadini godenti diritti
politici, e neppure di quelli che a tali diritti aspirano) ma solo una parte. Con ciò
tuttavia non abbiamo ancora definito che uno solo degli elementi funzionali del
partito: giacché l’essere parte non è per il partito che il punto di partenza,
mentre il punto d’arrivo del partito chiamasi Stato. Epperò ogni partito mira
fatalmente a compenetrare lo Stato, ad assorbirlo, a foggiarlo e conformarlo alla
stregua dei suoi ideali e dei suoi bisogni; mira insomma, alla conquista politica
delle Società Nazionali, comprese nei suoi organi costitutivi» (Il concetto di
partito nella storia italiana moderna, in Il Partito Fascista nella dottrina e nella
realtà politica, a cura di O. Fantini, Roma 1931, p. 131).
funzionale armonizzata nell’intero (gradus dignitatis, nella felice formula
romana), la cui specifica rilevanza si disponga a essere apprezzata non
solo in quanto a “numero”, ma anche in quanto a “peso”. In questo
quadro, l’idea organica, se da un lato potrebbe agevolare convergenze e
desistenze tra parti sociali tradizionalmente costrette all’antagonismo,
dall’altro, deponendo il formalismo dell’astrazione egualitaristica,
libererebbe le autentiche “aristocrazie”, composte dai soggetti più
meritevoli con riguardo a capacità e competenze. Alla classe politica,
così, non resterebbe che fare la sua parte, confrontandosi con le voci
sempre più “corali” che provengono dalla società: da una cittadinanza
pronta a disporsi in collegi sì “virtuali”, ma solo in riferimento
all’immaterialità fisica della sede, a fronte dell’indubbia “materialità”
degli interessi e dei valori su cui fondarli.
Ostacolare tutto ciò potrebbe davvero innescare fenomeni di “apolidia
informatica”, con il rischio di trasmettere il senso di un esaurimento della
soluzione democratica, affidata a meccanismi istituzionali avviati alla
sclerosi autoreferenziale. Con questo, si vuole soltanto segnalare la
misura in cui i tempi, oramai, costringono a riformulare gli spazi vitali
della democrazia, per soddisfare le pressanti richieste di tornare a gestire
la complessità sociale.
Ancorché possa apparire stravagante, proprio l’universo della
sofisticazione virtuale, predisposto dalla rete, offre l’occasione per far
seguire, al processo di regressione partecipativa, una fase costruttiva,
inaugurata da un ritorno all’“elementare”: l’individuazione dei moventi
primari alla legittimazione, se adeguatamente valorizzata, renderà
possibile avviare un’idea di “sovranità differenziata”, eppur “integrata”,
comunque declinata secondo nuove modalità di formazione ed
espressione del consenso, ricavando una più significativa sinergia tra
volontà politica e identificazione rappresentativa.
Allora, governare attivamente il Kali-yuga dello Stato-persona, ossia
indirizzare il ciclo di caduta della statualità moderna verso esiti suscettivi
di palingenesi creativa, vorrà dire orientare il “costume telematico” delle
future generazioni a una nuova forma di face-to-face society, in cui alla
centralizzazione livellatrice e all’esercizio anodino del diritto di
cittadinanza si sostituisca una politica in cui gli uomini siano posti di
fronte ad altri uomini, nella diversità delle loro competenze e
responsabilità. Non ci nascondiamo che, a tale scopo, sarà necessario,
almeno, non opporsi allo sgretolamento – peraltro, già autonomamente in
corso – dei miti e degli idoli stratificatisi nel corso degli ultimi tre secoli,
arruolati a sostegno dottrinale di una sovranità disanimata,
spersonalizzata, meccanicizzata. Ciò nondimeno, siamo consapevoli del
rischio che si corre in una situazione simile a quella di chi abbatte i ponti
dietro di sé, senza contemplare momenti di transizione, in cui la
convivenza tra il vecchio e il nuovo si regoli attraverso la gestione di
sperimentazioni graduali. Proprio per questo, al fine di evitare
conseguenze impreviste o irruzioni forzate di schemi storicamente
esauriti, sarà necessario assumere l’idea organica nella misura in cui
basti impiegarne il “potere evocatorio”, non essendo la civiltà umana,
qualsiasi stagione si trovi ad attraversare, una materia inerte alla quale si
possa assegnare qualsivoglia forma, ancorché ben congegnata sotto il
profilo normativo. In virtù di ciò, si è parlato, appunto, di idea organica,
prefendola al termine organicismo, tanto più che quest’ultimo rimanda
ancora a una visione positivistica, quindi, razional-creazionistica, di una
sovranità artificiale da progettare, disporre e, infine, imporre. Qualcosa,
insomma, che può tutt’oggi indurre all’equivoco di un “corporativismo di
Stato”, il quale, nelle sue fallimentari sperimentazioni novecentesche, ha
già preteso di entificare soltanto giuridicamente la socialità dei corpi,
senza considerare la “logica cosmica” con cui ogni interezza, sebbene non
sia esaustivamente pensabile dall’intelletto, si dà come esistente, per sua
intrinseca iniziativa.
Nel presente, invece, sarà molto più opportuno e realistico ricondursi
al principio organico in senso non tanto tecnico-applicativo, quanto
critico-metodologico e ideal-regolativo, utile a segnare la distanza tra un
orizzonte ristretto a una semplice realtà empirica impostasi in forza di
esigenze non più verificabili, e uno scenario di compenetrazione tra la
“ragion politica” e gli interessi solidali dei consociati. A nostro modo di
vedere, è ancora l’idea organica a fornire il presupposto per una concreta
esplicazione della sussidiarietà, dell’autonomia (ben diversa
dall’autonomismo!), del decentramento. Non per nulla, è tipico degli
organismi “inferiori” l’essere composti da una massa corporea
inarticolata, mossa per riflessi, senza alcuna coordinazione tra le funzioni
organolettiche. Discorso simile, per via analogica, dovrebbe valere nei
riguardi di un centralismo statuale ove l’unità sia imposta dall’esterno,
mediante forme dirette d’ingerenza e di controllo, rispondenti
all’esercizio di un potere puramente quantitativo e materiale, intollerante
nei confronti delle libertà che s’interpongano tra il centro e la periferia,
producendo fenomeni di ipertrofia teratologica dell’impianto
amministrativo e comprimendo, con invadenza, ogni iniziativa all’interno
di bizantinismi e schemi anelastici, per ciò stesso destinati alla necrosi:
del resto, sono nuovamente gli organismi viventi a offrirci l’esempio di
una senescenza annunciata dall’irrigidimento dei tessuti, cui segue il
rigor cadaverico e, infine, la dissoluzione. Sono invece gli organismi in
pieno vigore vitale a comprendere funzioni molteplici, svolte da
altrettante membra che, pur conservando le loro specificità puntuali, si
coordinano, trovando coerenza in un’unità superiore. Fuor di metafora,
dovrebbe essere compito di uno Stato in “buona salute” (omnia potens ma
non omnia facens), ricapitolare, secondo misura proporzionale, le unità
differenziate in cui si scandisce la trama civile, valorizzando le relazioni
materiali e immateriali su cui insiste la sovranità complessiva: ufficio di
non poco momento, giacché capace di sublimare, nella dimensione
attuosa della politica, tutte le componenti della società, mantenendo la
barra ideologica a giusta distanza dalla statolatria, ma senza per questo
scadere nell’opposto vizio della sociolatria.
Almeno, questa ponderata comprensività, abilitata a dare
rappresentanza tendenzialmente esaustiva a piani distinti della civitas,
consentirebbe di decongestionare il governo della stessa dalle
declinazioni meramente economiche della politica, recuperando a
quest’ultima la sua vocazione anagogica, volta a trarre verso l’“alto” le
congiunzioni comunitarie delle esistenze singolari. Un risultato che, al
contempo, varrà a offrirle l’agio di emanciparsi dalle ipoteche biologico-
naturalistiche – per così dire, “telluriche” – di un’ennesima varietà di
regressione dell’individuale e dell’organico nell’indifferenzialità
massificante, accessoria alla superstizione dello “Stato Assoluto”: vale a
dire l’accezione demagogica della nazione, attorno alla quale si appunta
l’astrazione concettuale della moderna rappresentanza, formalmente
inaugurata dall’articolo 3 della Dichiarazione dei diritti del 178962.
Ampliando sensibilmente la visuale, forse converrà tenere in
considerazione alcuni degli argomenti da cui, sinora, abbiamo tratto le
nostre modeste suggestioni, per affrontare la prova del fuoco che, ormai,
va approntandosi per il prossimo futuro. Chissà che non si riesca a
opporre al nuovo ordine mondialista un’alternativa, basata sulla
convergenza trans-nazionale di comunità organiche e spontanee, capaci
d’incontrarsi nell’agorà internautica ergendosi a katechon, a “forza
frenante”, nei riguardi di un super-Stato planetario, rispondente a un
preciso progetto di omologazione culturale, denotato in chiave
economicistica63. Intendiamo riferirci alla possibile estensione, sul piano
globale, di una resistenza “dal basso” nei confronti di un più gigantesco
Leviatano, già in corso di edificazione, per esempio, in seno alla tecno-
bancocrazia europea, alimentato dal mito giacobino del cosmopolitismo
livellatore, certamente in una versione aggiornata dalla nuova retorica
dei diritti (formali) dell’uomo, ma pur sempre funzionale a un concetto
assolutistico e neo-kelseniano della sovranità64.

62
Per un’analisi ricostruttiva della genesi dell’idea nazionale moderna e del suo
progressivo esaurimento, vedi: H. KOHN, L’idea del nazionalismo nel suo
sviluppo storico, Firenze 1956; M. ALBERTINI, Lo Stato nazionale, Bologna 1958;
L. KOHR, Il crollo delle nazioni, Milano 1957; E. LEMBERG, Il nazionalismo. Il
sorgere dell’idea di nazione, gli stati nazionali del medioevo, l’età
contemporanea, Roma 1981; K. OHMAE, La fine dello Stato-nazione. L’emergere
delle economie regionali, Milano 1996; R. DE MATTEI, La sovranità necessaria.
Riflessioni sulla crisi dello Stato moderno, Roma 2001, A. DI LELLO, Geofollia.
L’attacco globalista agli Stati nazionali, Roma 2001.
63
Attestato su analoghe posizioni è J. BOHMAN, Expanding Dialogue: The
Internet, the Public Sphere and Prospects for Transnational Democracy, in “The
Sociological Review”, LII, 2004 In senso contrario rispetto alle descritte
aspettative si esprimono B. BARBER, The New Communications Technology:
Endless Frontier on the End of Democracy, in “Constellations”, IV, 1997, e Z.
BAUMAN, Modernità liquida, Roma – Bari 2002.
Probabilmente, occorrerà cominciare rimediando all’alterazione già
semantica tra la categoria di un “Impero” di identità plurali, riunite dal
comune riferimento a valori superiori e, perciò, universali, e quella di un
“Imperialismo” eterodiretto, negatore delle differenze che possano
ostacolare i piani di un oligopolio di casta (e di cartello), mascherato da
ecumenismo egualitario65. A quest’ultimo, peraltro, non potranno di certo
opporsi gli irrigidimenti nazionalistici, né l’esasperazione patologica delle
reazioni regionalistiche o localistiche. Al contrario, si dovranno impiegare
tutte le migliori risorse ricavabili dalla fluidità su cui poggia la socialità
digitale, al fine d’invertire, sui fronti intra- e inter-nazionali, la tendenza a
un preoccupante federalismo “diabolico” (dal greco dia-ballein: separare),
di segno autonomista e secessionista, sostituendolo con un federalismo
“simbolico” (dal greco syn-ballein: congiungere), a carattere unitivo e
cooperativo66.
Per conseguire simili risultati, sarà altrettanto importante evitare di
considerare il melting pot scomposto, d’ispirazione americana, come un
destino irreversibile, senza scorgervi l’epifenomeno della mercificazione
delle identità richiesta dalla strategia globalista. In secondo luogo, sarà
oltremodo proficuo ancorare le “piccole patrie” di cui si compongono le
attuali società allo spazio etico delle rispettive sensibilità, rendendole al
contempo capaci di inserirsi volontariamente in realtà sempre più
comprensive, così da assecondare una sorta di legge enantiodromica e
vedere, finalmente, la cittadinanza astratta sconfitta da una cittadinanza
concreta. Ma, soprattutto, si dovrà trovare la maniera più corretta
possibile per corrispondere istituzionalmente ai soggetti collettivi che

64
Per l’originalità e il disincanto analitico con cui viene esaminato il destino del
“sistema dei diritti” allegato agli sviluppi liberaldemocratici della statualità
moderna, riteniamo doveroso segnalare gran parte dei saggi contenuti in I
diritti umani tra politica filosofia e storia, tomo II, a cura di A. Carrino, Napoli
2003.
65
Per un approfondimento significativo sul significato autentico dell’imperialità,
con specifico riferimento al paradigma romano, vedi P. DE FRANCISCI, Arcana
Imperii, Roma 1970. Conformemente a una prospettiva ora categoriale, ora
attualizzante, vedi: A. VITALE, Terra e Impero. L’Ortodossia fra particolarismo e
universalismo nell’esperienza politica mondiale del Secondo millennio, Milano
1993; C. BONVECCHIO, Imago Imperii Imago Mundi. Sovranità simbolica e figura
imperiale, Padova 1997; L. SOREL, Ordine o disordine mondiale, in Idee per una
geopolitica europea, a cura di L. Sorel, R. Steuckers e G. Mascke, Milano 1998;
F. DI MARINO, Comunità, Europa, Impero. Un’utopia per il XXI secolo, Milano
2001; R. COOPER, L’Impero prossimo venturo, in “Ideazione”, IX, 2002.
66
Per una definizione critico-problematica del composito universo ideologico
sotteso alla soluzione federalista, sarà utile consultare: A. DANESE, Il
Federalismo. Cenni storici e prospettive politiche, Roma 1995; D.J. ELEAZAR,
Idee e forme del federalismo, Roma 1995; L.M. BASSANI, W. STEWART, A. VITALI, I
concetti del federalismo, Milano 1995; G. CARNEVALI, Nazionalismo o
federalismo?, Torino 1996; A.M. PETRONI, R. CAPORALE, Il federalismo possibile,
Soveria Mannelli 2000.
vanno costituendosi a ritmo inarrestabile67. Tutto questo, prima che
nuove forme di hackering, generate dalla frustrazione di non ritenersi
adeguatamente rappresentati nei propri interessi, non si limitino al
sabotaggio informatico, impegnandosi in qualcosa di più eversivo, di più
pericoloso.

67
La questione viene esaminata dettagliatamente da A. GIDDENS, Modernity and
Self-identity. Self and Society in the Late Modern Age, Cambridge 1991. Un più
puntuale riferimento anche alle modalità partecipative nell’ambito di una
futuribile “democrazia telematica” viene offerto in Immaginari postdemocratici,
a cura di A. Abruzzese e V. Susca, Milano 2006, ma soprattutto da S.L. ALTHAUS
e D. TEWKESBURY, Patterns of Internet and Traditional News Media Use in a
Networked Community, in “Political Communication”, XVII, 2000, e da F.
AMORETTI, La rivoluzione digitale e i processi di costituzionalizzazione europei.
L’e-democracy tra ideologia e pratiche istituzionali, in La democrazia elettronica,
dossier della “Rivista di Comunicazione politica”, VII, 2006.

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