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schede di lettura

Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?


di Federica Buongiorno

Scriveva Goethe (1809) che «I più grandi uomini sono sempre legati al loro secolo

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da una debolezza». La misura della contemporaneità, come appartenenza al proprio
tempo, era dunque data – per lo scrittore di Francoforte sul Meno – da un difetto, da
una inefficacia o impotenza. Da uno scarto, dunque, che introduce uno straniamento.
È qui, in questa frattura, che si apre lo spazio della creatività, la quale richiede un’in-
terruzione, un indugio a una certa distanza critica (nel senso anzitutto etimologico,
dal greco krinomai: (d)istanza critica e incrinante, separativa, negativa).
Non si tratta, propriamente, di una capacità: l’essere «legati al proprio secolo»
non indica un’abilità che si possa apprendere, magari affinando capacità d’analisi e
di comprensione, ma denota una condizione in cui ci si trova a essere. E che non ap-
partiene, perciò, a tutti: «i più grandi uomini», e non chiunque, si trovano in questa
particolare indigenza. Analogamente, in Che cos’è il contemporaneo? (Roma, notte-
tempo, 2008), Giorgio Agamben scrive che «[…] i contemporanei sono rari», perché
per esserlo occorre riconoscersi in questa dis-locazione.
Ma cosa può significare, dobbiamo chiederci, «essere contemporanei» nell’epoca
della post-modernità? Nella fase in cui il pensiero ha abbandonato le certezze del
soggettivismo, la fiducia comunque incrollabile nel progresso, e le conquiste della
fisica hanno spezzato l’immagine di un tempo lineare, intuitivamente articolabile in
passato-presente-futuro? Cosa significa, in questo stadio della storia umana, «appar-
tenere al proprio secolo», «essere contemporanei»? O forse la contemporaneità (la
post-modernità che viviamo) è questa stessa incrinatura che attraversa l’intelligenza

Federica Buongiorno, dottore di ricerca in Filosofia, borsista di ricerca presso l’Istituto


italiano per gli studi storici di Napoli, redattrice di varie riviste di filosofia

PSICHE Anno I, n. 1, marzo 2014


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delle condizioni date, e che non ci permette più di veder riflesso nello specchio del
mondo un’immagine composta e cristallina di noi stessi – com’è sempre stato nella
visione antropocentrica dell’immaginario occidentale, da Narciso in poi?
Agamben non si interroga sulla post-modernità; eppure, le indicazioni che egli
fornisce nella sua interpretazione del contemporaneo offrono alcuni elementi per
coordinarsi nel dis-orientamento. Potremmo cominciare rovesciando l’ordine del ra-
gionamento, che anche Agamben segue nella sua ricostruzione: «con-temporaneità»
significa, in effetti, una «temporaneità-con» – dunque, una temporaneità che avviene
con qualcosa (o qualcuno). Con noi, ad esempio: la temporaneità – che non è tempo-
ralità, non è lo schema del tempo, una rappresentazione o un concetto, ma è ancora
una condizione, l’attualità sempre sfuggente e mai in definitiva fissabile di tutto ciò
che è «ora» – ci chiama almeno quanto noi ci richiamiamo ad essa. Perché «tutto ciò
che è ora» ammette anche noi, non come una rete che ci avvolge, includendoci, ma
come una specie di aggancio o, appunto, di co-ordinazione. Con-temporaneità è dun-
que una reciprocità: ma evocare questo richiamo reciproco non è sufficiente per rea-
lizzare l’appartenenza. Agamben ricorre all’immagine suggestiva della luce proiettata
verso la terra dalle galassie in allontanamento costante dal sistema solare: la loro fuga
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avviene a una velocità incomparabile a quella della luce, così il loro bagliore – che noi
sappiamo essere «lanciato» verso di noi nella fuga – non riesce mai a raggiungerci.
Noi lo sappiamo, ma non lo vediamo. Così, lo «manchiamo»: questa mancanza, che
è insieme una nostalgia per ciò che si perde costantemente, è la «debolezza» dell’uo-
mo che appartiene al suo secolo. La sua inconcludenza. «Appartiene veramente al
suo tempo – scrive Agamben –, è veramente contemporaneo colui che non coincide
perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inat-
tuale; ma proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo,
egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo» (9).
Potremmo anche ricorrere all’immagine dell’uomo che getta un grido in una valle:
gli risponde la propria eco, che è insieme vicina e infinitamente lontana, che rimbalza
sulle barriere sonore e arriva sempre un attimo dopo, in ritardo. È, dunque, proprio
l’incrinatura, il mancarsi o, volendo enfatizzare il discorso, il mancamento come disa-
gio per un mancato incontro, ciò che caratterizza l’essere-contemporanei. Come pos-
sono, mancanza e contemporaneità, essere insieme? Che appartenenza può esservi tra
ciò che non è ancora e ciò che è ora? Tra inattuale e attuale?
Comprensibilmente, Agamben richiama le Considerazioni inattuali nietzscheane,
in cui la coscienza dell’intempestivo, dello scarto o dell’anacronismo come condizione
di afferramento del tempo presente trova un’espressione profonda e peculiare. Nella
seconda Considerazione Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Nietzsche teorizza
insieme la necessità della storia per la vita, e la dannosità per la stessa e per il vivente di
un suo «eccesso». Ma come può la storia «eccedere»? Essa eccede, potremmo rispon-
dere ricorrendo ad Agamben, ogniqualvolta non è controbilanciata dalla mancanza,
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dalla coscienza di un non-perfetto allineamento: se ci concepissimo come esattamente


allineati al nostro tempo, totalmente immersi in esso senza scarto o residuo, ci perde-
remmo in esso (e perderemmo anch’esso). Non saremmo «con-temporanei» al nostro
tempo, ma saremmo – proprio in quanto «sciolti» in esso – in-temporanei, dunque non
con-temporanei. Saremmo inattuali non nel senso nietzscheano, che è invece condi-
zione per l’essere contemporanei, ma saremmo fuori con-testo – fuori, cioè, dalla nar-
razione del nostro tempo. Fuori moda, per richiamare un altro tema esemplificativo
utilizzato da Agamben. La moda vive del con-temporaneo essere di attuale e inattuale
e del potere vivificante dell’atto creativo dello stilista, che può riconvertire in attuale
un motivo che era «passato di moda»: in questo senso, il «passato di moda» non è un
rischio innocente e la moda stessa non è un mero fenomeno culturale, qualcosa – come
si tende a pensare – di «temporaneo». Al contrario, essa è il con-temporaneo per eccel-
lenza, che incastona entro di sé il proprio contrario e ne fa, nella figura delle modelle,
il fulcro di sé: le modelle sono le uniche persone, scrive Agamben, «che sono sempre
e soltanto alla moda» e che proprio per questo «non lo sono mai veramente» (18). La
moda, dunque, è un fenomeno contemporaneo perché vive del necessario scarto tem-
porale. Non soffre dell’«eccesso di storia», ma ne accoglie la mancanza.

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Accogliere la mancanza non significa addomesticarla: vivere la frattura, come il
poeta che si colloca nel punto di rottura delle vertebre (è Osip Mandel’štam richiama-
to da Agamben), non significa acquietarsi o rassegnarsi. Il gesto di Bartleby, che nel
racconto di Melville – anch’esso interpretato da Agamben nel ben noto contrappunto
con Deleuze (1993) – esprime discretamente il suo rifiuto di eseguire gli ordini con
un disarmante «I would prefer not to», fino a lasciarsi morire, si colloca al di fuori
dell’aspettativa e del sistema prestazionale imperante nel solo modo possibile nella
società di Wall Street. Non realizzando, non attuando l’attuale, Bartleby è inconclu-
dente, inattuale e perciò «critico»; passa dalla dimensione del fare operativo a quella
dell’essere negativo, in cui si situa la vera radicalità, quella che non investe le infini-
te azioni esterne, ma l’intimo essere dell’uomo. Il contemporaneo è, così, lo stesso
«essere con-temporanei», la stessa condizione esistenziale che attraversa l’individuo
post-moderno – a patto che esso abbia il «coraggio», evocato da Agamben, di ricono-
scersi: è essere intempestivi, è mancare il proprio tempo per ritrovarlo nella coscienza
irriducibile e perturbante della mancanza.

Bibliografia

Agamben G. e Deleuze G. (1993), Bartleby, la formula della creazione, Macerata, Quod­


libet.
Goethe J.W. (1809), Diari di Ottilia, in Le affinità elettive, trad. it. di A. Vigliani, Milano,
Mondadori, 1988.

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