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Ragioni e riflessioni iniziali che hanno condotto ai sei seminari sul rapporto
tirocinante – tutor ed alla nascita di questo testo, di Leonardo Angelini
Funzioni del tirocinio nel mercato del lavoro oggi, di Stefano Laffi
Idee per una ridefinizione del percorso di tirocinio degli psicologi, di Susy
Ammaini, Maria Mori, Simone Oliva
Quello dei tutor è un capitale umano da investire con un’ottica preventiva, prima
che i problemi diventino troppo complicati: i dati dei Nuclei di Valutazione degli
Atenei italiani ci dicono che è il primo periodo di inserimento nel mondo
dell’università quello che produce le più frequenti occasioni di insuccesso, crisi,
demotivazione. Se non siamo in grado di intervenire per prenderci carico delle
situazioni di carenza conoscitiva e delle difficoltà di gestione delle proprie abilità
di base che non pochi studenti presentano, corriamo il rischio di rendere ancora
più arso un terreno che potrebbe, se opportunamente trattato, diventare fertile e
produttivo.
Ho parlato del difficile momento di partenza del nuovo ordinamento degli studi
che caratterizza tutto il sistema universitario italiano per arrivare ad esprimere le
mie ambivalenti sensazioni a proposito del nuovo che ci attende, che
direttamente viene illustrato dal caso degli psicologi. In maniera estremamente
semplificata possiamo distinguere due visioni del mondo molto diverse a
proposito del modo in cui la formazione superiore e il mondo delle esperienze
professionali devono dialogare ed interagire. Secondo una impostazione
“tradizionale” che per tanto tempo ha segnato le scelte culturali del mondo
universitario, l’esperienza di formazione doveva concentrarsi sull’acquisizione
di conoscenze di base, di metodologie di tipo generale, sullo sviluppo di una
concezione critica rispetto ai modelli e agli approcci teorici, lasciando i problemi
della traduzione delle conoscenze acquisite e del senso critico maturato a fasi
successive, quelle del primo contatto con gli scenari del mondo delle pratiche
professionali, in preparazione all’esame di stato e all’ingresso nella “tribù” degli
psicologi. Ma da alcuni anni, sulla spinta di un complesso di fattori non sempre
coerenti, è maturata un a “nuova” impostazione, che privilegia un concetto di
formazione basato sulle precoci incursioni nel mondo del lavoro, nel panorama
dei problemi e delle pratiche professionali: sostanzialmente la logica è quella che
un percorso di formazione non può dirsi realizzato con successo se non ci si
prende carico non solo delle conoscenze ma anche delle concrete operazioni che
producono “azioni da psicologo”. Se il pericolo del primo approccio era quello
di coltivare esperienze culturali spesso inconsapevoli del mondo concreto
dell’operatività, il pericolo del secondo è quello di considerare la cultura
universitaria unicamente come un mezzo per raggiungere i traguardi “veri”,
quelli della piena realizzazione professionale. E questa è una concezione che ha
largo seguito tra i “nuovi” studenti, ma anche tra gli operatori professionali delle
realtà industriali e finanziarie in forte crescita. La richiesta è semplice e
convincente: “limitatevi a darci gli strumenti concettuali per interpretare la
realtà, quella fuori delle aule universitarie, a darci gli strumenti tecnici per
intervenire, e tutto funzionerà meglio”. La plausibile conclusione è che
l’esperienza universitaria è una sorta di “servizio militare” al quale nessuno può
sottrarsi perché obbligatorio, ma dal quale è opportuno uscire il più in fretta
possibile, perché “la vita è altrove”.
Partiamo allora da una semplice definizione di Roe (2001) il quale afferma che”
lo psicologo è un professionista che ha avuto un’educazione accademica e che
aiuta i clienti a capire e a risolvere i problemi applicando le teorie e i metodi
della psicologia”. Da cui si evince che il percorso di formazione che porta alla
professione è l’educazione di tipo accademico. Una seconda implicazione è che
non esiste un’area generale di professionalità in psicologia. In una certa misura
tutti coloro che esercitano la professione lo fanno in qualità di specialisti.
Insomma gli psicologi assomigliano molto di più agli
ingegneriRtorniamocheaimedicialloradialbaseproblema. di descrivere gli aspetti
che qualificano la professione dello psicologo. Per fare questo, possiamo
concentrarci sull’analisi del percorso educativo che consente di raggiungere la
qualificazione per esercitare in maniera indipendente, ma possiamo anche
focalizzarci sulle competenze che uno psicologo deve possedere per incarnare in
maniera adeguata il proprio ruolo. Se scegliamo la prima via ci riferiamo ad una
idea di università di tipo “tradizionale”, se scegliamo la seconda abbiamo in
mente il modello di università che la riforma ci sta proponendo. In ambedue i
casi corriamo il rischio di limitare la nostra attenzione solo ad un corno del
dilemma. Abbiamo invece bisogno di una architettura più complessa ed
integrata, in cui la competenza sperimentata dal professionista nello scenario del
suo impegno di lavoro derivi da una combinazione non casuale di conoscenze,
abilità e atteggiamenti.
1. Due anni or sono un gruppo di psicologi che, a fianco alla propria attività
professionale nell’AUSL di Reggio Emilia ormai da vari anni svolgevano una
attività di tutoring rivolta ai giovani colleghi usciti dalle università
convenzionate (che allora erano Padova e Cesena, alle quali di recente si è
aggiunta Parma), si posero il problema del senso che poteva avere per loro e per
i loro tirocinanti quell’insieme speculare di attività di tutoring e di tirocinio, che
fino al quel punto avevano svolto in maniera certo soddisfacente, ma poco
ponderata.
5. Nei nostri primi incontri cominciammo così a chiederci varie cose: - come
possa nascere e crescere dentro ai due attori presenti sulla scena del tirocinio, il
prossimo tirocinante e il tutor, la loro disposizione all’attività di tirocinio e di
tutoring; - come siano vissuti dal tirocinante i momenti di selezione (ed ancor
prima di autoselezione) dei luoghi di tirocinio; - come in effetti si dispiega il
rapporto tutor-tirocinante nel corso del tirocinio; secondo quali fasi si scandisce
il rapporto; quali siano i vissuti riguardo agli elementi della professione che
passano (o meno) dall’uno all’altro polo di questo particolare momento
formativo; quali le modalità del passaggio, le attese reciproche, le cose
effettivamente date e ricevute nello scambio fra queste due entità; - come
l’arrivo del tirocinante possa riverberarsi sui casi e le situazioni che gli vengono
affidate, o alle quali in ogni caso partecipa; - come viene affrontata ed elaborata
la separazione a fine tirocinio, sia sul versante del rapporto con il tutor sia su
quello del rapporto con i casi e le situazioni che ha visto il tirocinante
compartecipe, insieme al suo tutor e agli altri operatori istituzionali coinvolti.
Queste le nostre curiosità iniziali.
6. Il fatto poi che fin dall’inizio ai nostri incontri abbiano partecipato tutor e
giovani volontari delle strutture del volontariato europeo, nonché tutor e giovani
volontari della nostra struttura di volontariato ‘Gancio Originale’, ci ha permesso
di cogliere alcuni elementi di profonda similitudine che esistono all’interno di
ogni processo di formazione e di cura che i giovani fanno sul campo,
indipendentemente dal fatto che essi siano tirocinanti, volontari, o altro.
7. Abbiamo scoperto, continuando a vederci in questo contenitore iniziale che
ci comprendeva tutti (tutor, tirocinanti, volontari), ed in base ad una riflessione
fatta a partire dall’etimologia dei due termini: ‘tutor’ e ‘tirocinante’ che il primo
deriva dal latino tutor e sta per ‘colui che si prende cura di..’ (originariamente
“che è giunto a piena maturazione”), mentre il secondo, tirocinium, è di origine
militaresca e significa letteralmente “movimento delle reclute”: il che ci riporta
immedia-tamente in una atmosfera di disciplina, di obbedienza, di operatività.
8. Quindi, ci siamo detti, che, in base all’etimo, sulla scena del tirocinio e del
volontariato giovanile: - da una parte emerge una situazione di scambio
diseguale che allude molto da vicino allo scambio diseguale presente sulla scena
scolastica; - dall’altra un richiamo ad una atmosfera milita-resca e operativa,
proveniente dal termine ‘tirocinante’, che ci allontana dalla scuola, poiché
mentre la skholé è un luogo a parte di ‘non lavoro’ e di riposo, in cui cioè non
c’è alcuna impellenza di tipo produttivo, il tirocinio ed il volontariato rinviano
ad un movimento che va, molto più decisamente della scuola, verso il mondo
dell’operatività e della laboriosità. E immediatamente, a questo punto, la
discussione si è incentrata sulle modalità confusive con cui oggi si esce dal
mondo della scuola e si entra in quello del lavoro, per cui abbiamo deciso di
approfondire anche questo tema.
9. Nel momento in cui poi tornavamo, nella nostra discussione iniziale, alle
analogie fra scuola e tirocinio, abbiamo constatato, sulla scia di precedenti lavori
svolti con molti docenti reggiani negli anni scorsi , che le due figure del
tirocinante e del tutor, così come le due funzioni di tutorship e di apprendimento
sul campo, sono interdipendenti, esattamente come quelle del docente e del
discente. Ciò vuol dire che l’una è compresa nel rapporto con l’altra sia per
quanto riguarda l’aspetto dell’apprendimento secondario, e cioè delle capacità
professionali da passare e da ac-quisire, sia – e ancor più - per quello primario,
cioè per i processi di interiorizzazione e di agglutinamento dell’oggetto
protettore introiettato, responsabile del desiderio di essere formato e di formare,
che sulla scena del tirocinio sono ri-evocati in questo modo sia nel tirocinante
che nel tutor.
10. Abbiamo poi verificato, in base ai ricordi personali dei più anziani, come
fino ieri in Italia il processo di professionalizzazione fosse affidato, per tutte le
professioni del welfare (con rare eccezioni), ad una sorta di apprendimento in
itinere postumo, non curricolarizzato, che in realtà risultava importantissimo per
il singolo neoprofessionista della cura e dell’educazione. Un percorso di
apprendimento pratico basato essenzialmente sul precettorato e l’esempio in
base al quale i più anziani passavano le competenze ai più giovani all’interno di
un quadro in cui la gerarchia appariva strettamente legata all’anzianità.
Per cui ci siamo proposti di approfondire non solo gli aspetti che legano il
tirocinio all’oggi della scuola e dell’università, ma anche quali funzioni esso
assuma nei confronti del domani, ormai prossimo, in cui l’ormai ex-tirocinante
entrerà nel mercato del lavoro delle professioni del welfare, o nei territori
limitrofi in cui i processi di aziendalizzazione sono più avanzati, o presenti da
sempre.
12. Ed alla fine del nostro percorso ci siamo proposti, ritornando ai giovani
psicologi – cioè a coloro che per primi avevano fatto sorgere in noi il desiderio
di approfondire gli elementi che sono alla base del testo che ora il lettore ha sotto
gli occhi - di abbozzare una proposta di revisione del tirocinio post-lauream, che
non può non partire da una critica della collocazione post-lauream del tirocinio
degli psicologi. E ciò per vari motivi:
14. In secondo luogo con la collocazione post-lauream viene meno ciò che
proficuamente si è sviluppato da lunghissimo tempo nei paesi anglosassoni, e
che anche in Italia, in altri ambiti della formazione dei social worker, comincia a
funzionare bene. Pensiamo alla ormai consolidata esperienza di tirocinio tipico
della formazione degli assistenti sociali, e alle recenti disposizioni che pure in
ambito universitario si è data la facoltà di Scienze dell’Educazione. Pensiamo a
ciò che prevedono la maggior parte delle lauree brevi per i giovani che in esse si
impegneranno nei prossimi anni: e cioè la definizione del percorso di tirocinio
come momento costitutivo della professione e l’inquadramento dell’attività di
tutoring come importante punto di sutura nel rapporto fra più generazioni di
professionisti.
15. In terzo luogo viene meno ampiamente nel tirocinio post lauream
quell’importante supporto che il tutor può dare al proprio tirocinante nell’attutire
le ansie, le angosce e, più in generale, i problemi che lo studente – tirocinante
affronta nell’impatto sia con il luogo di tirocinio, sia, ancor prima (non
dimentichiamolo) nei confronti dell’istituzione università, alla quale lo studente
appartiene fino all’esame di stato. Altrimenti l’università diventa un luogo di
massacro dei giovani, che – abbandonati a se stessi – sono sottoposti a criteri di
selezione dei futuri professionisti a dir poco impropri (proviamo a chiedere ai
neolaureati non afflitti dalla Sindrome di Stoccolma nei confronti degli ex –
docenti cosa dicono dell’università di oggi).
16. Infine, attraverso il prolungamento di due anni della data di ingresso nel
mercato del lavoro, si determina un artificioso impedimento al lavoro, che forse
è l’unica vera ragione che ha spinto il legislatore all’invenzione del tirocinio post
lauream, ma ciò, in una società che si dice basata sul mercato, è un residuo
paleo, oltre che una invenzione perversa tendente a mortificare i giovani.
Qualcosa in ogni caso che non può vedere, ad esempio l’Ordine degli psicologi
schierato a difesa delle rendite di posizione già acquisite, poiché così la
professione è destinata a perire, o ad essere fortemente ridimensionata.
17. Il fatto che prima dell’inizio dei sei seminari sia stato possibile, grazie alla
mailing list Psico-Prof, comunicare in nostri propositi ad un nutrito gruppo di
colleghi psicologi operanti in Italia ci ha permesso di vedere ai nostri seminari
fino a 84 partecipanti, molto dei quali provenienti da altri luoghi del welfare.
Tracce di questa attiva partecipazione sono rilevabili nel presente testo.
18. Si può dire, anzi, che il rapporto con i colleghi di Parma, che fino all’anno
scorso erano a noi vicini territorialmente, ma estranei dal punto di vista
esperienziale, abbia visto in questi seminari un punto di partenza per l’intreccio
di ulteriori scambi e legami. Lo stesso pensiamo si possa dire nei confronti di
quei colleghi più lontani che ci proponiamo di coinvolgere, ogni volta che lo
riterremo utile ed opportuno, in altri momenti di scambio e di riflessione.
19. Riteniamo che anche sul piano più specificatamente reggiano i sei seminari
siano risultati utili per molti colleghi non psicologi operanti nei vari comparti del
welfare di casa nostra, che hanno avuto modo di riflettere con noi del rapporto
tirocinante tutor. Ed anche questa dimensione poliprofessionale del problema,
questo ritrovare tracce di una omogeneità di fondo all’interno dei processi
formativi di tutte le professionalità impegnate nella sanità, della formazione e del
sociale merita l’attenzione, a nostro avviso, di tutti coloro che hanno a cuore le
sorti del welfare italiano. Abbiamo potuto constatare infatti nei nostri seminari
come tutte queste professioni siano attraversate oggi, praticamente in egual
misura, da quella che ormai può essere definita come una vera e propria
impellenza formativa: la necessità di innovare immettendo nel circuito formativo
ambiti nuovi quali il tirocinio e di integrare tali ambiti all’interno del circuito più
tradizionale della formazione.
20. Infine un ringraziamento alla AUSL di Reggio Emilia ed alla Coop Nordest
che hanno creduto in noi e ci hanno permesso di svolgere questa esperienza
formativa e di pubblicare il testo che ora il lettore ha sotto gli occhi: speriamo
che dalla sua lettura egli possa trarre lo stesso piacere che abbiamo provato noi
durante i nostri sei seminari.
1ª parte: Tirocinio, tutoring e professioni del
welfare
Tirocinio e professioni del welfare ieri ed oggi, di Leonardo
Angelini e Deliana Bertani
Le ragioni in base alle quali fin dall’inizio gli assistenti sociali videro il tirocinio
collocarsi a buon diritto nel loro percorso formativo è sicuramente nel fatto che
la loro professione è giunta in Italia risentendo molto dell’impronta pratica che
questa professione aveva ricevuto negli USA e in Inghilterra a partire
rispettivamente dal New Deal e dalla prima significativa esperienza del welfare
inglese che risale ai governi laburisti dell’immediato dopoguerra.
Questo l’universo delle professioni che alla fine degli anni ’60 prevedevano
all’interno degli iter formativi qualcosa che somigliasse al tirocinio. Molte altre
professioni, ad esempio quelle dello psichiatra, dello psicologo, del
neuropsichiatra infantile, della logopedista e anche quella di fisioterapista, in
quel periodo non prevedevano all’interno del proprio curriculum di studi alcuna
forma di tirocinio.
Ancora più netta appare la situazione se noi coniughiamo quanto detto qui sopra
da Guerra con il dato dell’enorme influenza esercitata dalla cultura idealista,
specialmente fino all’inizio degli anni ’70, sull’università e sulla scuola italiana.
Influenza così ampia – nonostante la vigorosa virata verso un approccio più
scientifico alla cura – da improntare ancora oggi in notevole misura la nostra
cultura e le nostre istituzioni formative. In base ai postulati dell’idealismo
l’oggettività del sapere non lascia spazio allo studio delle sue diverse possibilità
di mediazione. L’importanza della didattica viene così negata e la centralità
dell’essere dell’operatore, del formatore viene affermata a scapito della ricerca
delle sue specifiche competenze professionali.
Per stato sociale intendiamo il welfare dei servizi, cioè quel welfare che è
attecchito solo in talune regioni d’Italia e che è basato sullo sviluppo di servizi
alla persona e alla comunità dai quali si irradia una cultura specifica, figlia della
storia e del patrimonio di conoscenze accumulate lungo il percorso di crescita
delle singole strutture.
Per stato assistenziale intendiamo il welfare dei sussidi che utilizza le risorse che
provengono dalla fiscalità in generale non in termini di servizi, ma in termini di
assistenza alle persone e alle famiglie. E’ chiaro che in questo secondo alveo del
welfare non si sviluppa una cultura dei servizi e che il profilo delle singole
professioni assume significati e spessori diversi a seconda che i professionisti
abbiano agito nel primo o nel secondo tipo di welfare.
Fatta questa per noi importante distinzione va detto in secondo luogo che in
questi trent’anni abbiamo assistito alla crisi dell’idealismo crociano e gentiliano
che ha provocato importanti trasformazioni nella scuola e nell’università in base
alle quali la pratica e il tirocinio hanno assunto via via un’importanza sempre
maggiore anche se in questo processo di rivalutazione della pratica e di
collegamento fra pratica e teoria in alcuni settori la scuola è stata più
conseguente in altri meno.
Ma, a fianco a questo, ci sono altri elementi che emergono da un’analisi della
fine dell’adolescenza nella società attuale e che - diciamo così - ci aiutano a
comprendere meglio di che cosa si tratta.
Nelle culture tradizionali, gli elementi di fondo che definivano la triplice ritualità
del passaggio consistevano: - in un alto tasso di cerimonializzazione, - nella
presenza di adulti che officiavano scientemente il passaggio, e nel fatto che tutti i
rituali si svolgevano palesemente di fronte alla comuNellanostraità. società
invece, come afferma Le Breton, il giovane affronta il passaggio sempre più solo
e senza il conforto di cerimonie sociali che attestino, agli occhi di tutta la società,
il suo ingresso nella comunità adulta. Questa cerimonia privata di passaggio,
questo rito intimo parallelo (Le Breton) da un lato testimonia l’importanza per il
giovane di dotarsi di segnali che attestino il cambiamento, anche in assenza di
cerimonie gruppali di passaggio, dall’altra ci lascia capire che la società adulta
oggi non sembra avere più al proprio interno quegli adulti officianti il passaggio
che nelle società tradizionali svolgevano l’importante funzione di rendere
sociale, e cioè condiviso da tutta la comunità, il passaggio stesso.
Il numero totale dei tirocini avviati durante il 1999, documentati presso l’ente
regionale, ammonta a 2.760 progetti. Si tratta di un dato aggiornato al mese di
Gennaio 2000.
Sono tirocini che riguardano soggetti più o meno in cerca di occupazione.
Le donne costituiscono il 61% del totale dei tirocinanti.
L’età media dei tirocinanti è di 26 anni.
Le fasce di età più frequenti sono quelle comprese dai 20 ai 30 anni.
Il 46,4 dei tirocinanti ha un diploma di scuola media superiore, mentre un 23% è
laureato.
Il numero di aziende coinvolte in attività di tirocinio è di 1359.
Di queste imprese però 362 (cioè 26%) promuovono ben il 63% di tutti i
progetti: questo probabilmente significa che, anche se in numero ancora esiguo,
le aziende hanno cominciato ad adottare il tirocinio come uno strumento di
politica aziendale avente finalità di formazione e di preselezione del personale.
Un altro dato interessante è che quasi la metà delle 1359 aziende riguarda
piccole realtà con meno di sei lavoratori.
L’incidenza maggiore di tirocini si registra in imprese operanti nelle province
“centrali” della regione: in ordine Modena (30%), Bologna, (17,5%)
Parma(14,2), Reggio ( 8%)
Il 37% delle 1359 aziende opera nel settore terziario.
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Bibliografia:
1. AA.VV., Istruzione, formazione, lavoro in Emilia e Romagna – Rapporto
2000, a cura della Regione Emilia e Romagna, Bologna, 2001
2. Alberoni F., Ferrarotti F., Calvaruso C., I giovani verso il duemila, Torino,
Edizioni Gruppo Abele, 1986.
3. Angelini A., Immagini del corpo e dello stigma: il tatuaggio fra i giovani
d’oggi. Una ricerca sul campo fra i giovani di Reggio Emilia, tesi di laurea,
Padova,, anno accad. 1998\99
4. Fofi G., Benché giovani. Crescere alla fine del secolo, Roma, edizioni E/O,
1993
5. Guerra L., Il tirocinio nella formazione universitaria dell’operatore
socioeducativo, in: Frabboni, Guerra, Lodini: Il tirocinio nella formazione
dell’operatore socioeducativo, Nuova Itali Sc., Roma, 1995
6. Jeammet Ph., Psicopatologia dell’adolescenza, Roma, Borla, 1992
7. Le Breton D., Passione del rischio, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1995
8. Laffi S., Il furto: mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del
mediterraneo Ed., Napoli, 1999
9. Mottana P., La funzione della tutorship nel processo affettivo di
apprendimento, in: SKILL, riv. dell’Enaip – Lombardia, N.4 del 1991
10. Mottana P., Formazione e affetti, Armando, Roma, 1993
11. Scabini E., Giovani in famiglia fra autonomia e nuove dipendenze, Vita e
Pensiero, Milano, 1997
12. Scanagatta S. (a cura di), Generazione virtuale: i giovani di un’area
emiliana tra benessere e ricerca dei valori, Roma, Carocci, 1999
13. Van Gennep A., I riti di passaggio, Torino¸ Bollati Boringhieri, 1988
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Note
1. Per quanto riguarda il conflitto fra vecchio e nuovo in ambito psicologico
Cfr.: Angelini L. “Una nuova figura professionale: lo psicologo nei servizi
pubblici, in ‘Simposio – Rivista di psicologi’, n.3, Firenze, 1995
La professione e la professione di tutor, di Leonardo
Angelini e Deliana Bertani
Noi riteniamo anzi che il concreto intreccio che nei vari ambiti formativi si va
determinando fra tirocinio e altri momenti formativi possa essere visto come una
cartina di tornasole del concreto sforzo che la scuola italiana va facendo, o
meno, su questo piano. Di modo che è possibile intravedere punti di eccellenza
in cui il tirocinio è ben piantato all’interno del corso degli studi, e via via
soluzioni sempre meno felici che diradano verso punti di totale discrasia fra
tirocinio e resto del processo formativo, spesso indicatori del fatto che, in quei
luoghi il tirocinio non solo non è stato pensato dalla scuola, ma anzi sembra
essere stato espulso e messo lì come un atto dovuto.
La mancata integrazione del tirocinio nel corso degli studi non significa ipso
facto per il tirocinante che il tempo trascorso con i propri tutor sia una inutile
perdita di tempo, poiché, come vedremo fra un po’, molto dipende da come in
concreto questo tempo viene speso da entrambe le parti in causa: quella del
tirocinante e quella del tutor.
Certo è che il fatto che il tirocinio sia pensato e programmato dalla scuola pone
le premesse affinché il tirocinio assuma un pieno di significati che è ben altra
cosa rispetto alla semplice sommatoria di teoria più pratica, e sicuramente
tutt’altra cosa dal metterlo lì, magari alla fine del corso di studi, dopo il diploma
o la laurea (vedi psicologia), come un’aggiunta dovuta, come un fastidioso iter
non governato da alcuno e sul quale l’accademia non sente il bisogno di sapere
nulla, quasi fosse un fatto privato fra tirocinante e tutor e non un aspetto
fondante dell’ingresso nel mondo della professione.
Ancora pochi cioè sono disposti a riflettere sul significato del tirocinio, e ancor
meno sono coloro che riflettono sul significato del tutoring. Perché, se è vero che
da una parte la scuola ancora in molti ambiti non è in grado di pensare realmente
al tirocinio come una risorsa, è ancora più vero che né la scuola né le istituzioni
in cui il tirocinio solitamente avviene, né noi professionisti che pure svolgiamo
funzioni di tutorship siamo in grado di fare una riflessione seria e conseguente
sul significato che l’attività di tutor ha per noi stessi, per il tirocinante e per le
stesse istituzioni in cui insieme ad esso operiamo per un certo ambito temporale;
su quali siano i presupposti pedagogico-didattici su cui si fonda l’attività di
tutoring, su quali siano le disposizioni interiori che favoriscono o inibiscono
l’attività di tutor; su quali basi infine sia possibile passare da una conoscenza
intuitiva ad una di tipo razionale e trasformativo circa i contenuti e i metodi che
il candidato - tutor deve acquisire per potersi dire realmente e professionalmente
tutor.
Molti di noi qui svolgono o hanno svolto, qualche volta nella loro vita, il
mestiere di tutor. Si può dire anzi che coloro che, come noi, lavorano da molto
tempo nelle istituzioni territoriali del welfare dei servizi lungo il proprio iter
professionale hanno dovuto fare continuamente un’opera di tutoring, attraverso
l’integrazione dei nuovi arrivati e la riqualificazione e la formazione in itinere
dei colleghi provenienti dagli enti disciolti e da altri ambiti esperienziali superati.
E ancor prima molti di noi più anziani, proprio per l’assenza di un iter di
tirocinio pratico ufficiale, collegato con i curricoli formativi scolastici e
accademici, sono stati tirocinanti, nei fatti affidati, agli albori della nostra
carriere professionale a colleghi più anziani che, in maniera informale si
disponevano nei nostri confronti come tutor. Ma anche i più giovani fra noi,
lungo l’iter di tirocinio (nell’autoaiuto fra pari), o immediatamente dopo (ad
esempio nella guida delle più giovani colleghe nei workshop) hanno potuto
sperimentare cosa significa il tutoring. Ciò permette a noi tutti di potere riflettere
sul tutoring a partire da un ambito di esperienza molto ampio e da una
prospettiva duplice, cioè con un doppio sguardo sul problema, quello del più
giovane ed inesperto, e quello del più anziano e competente.
Sulla falsa riga del rapporto fra genitori e figli, ma anche con tutte le distinzioni
derivanti dal fatto che il rapporto tirocinante – tutor si pone in un luogo e in
un’atmosfera operativa, pena lo sconfinamento in un ambito affettivo dal quale
possono derivare solo guai, il tutor per il tirocinante è un modello che, a seconda
delle caratteristiche personali di ciascuno, può essere un padre che definisce
confini, introduce in ambienti, dà un nome e una valenza al suo pupillo, una
madre che contiene e che fa sentire il tirocinante in una membrana duale
avvolgente e proteggente, una madre in grado di far emergere e lievitare le
vocazioni individuali del proprio tirocinante, di immaginarselo già grande e
realizzato, e perciò definito, circoscritto, ma non per questo sminuito, bensì
scolpito nelle sue fattezze, o infine un padre capace di separarsi e di dare una
piccola spinta affinché il tirocinante faccia da solo durante il tirocinio a alla fine
di esso.
Tutto ciò favorisce il flusso identificatorio che si instaura fra i due, fa si che la
visione delle cose dell’uno passi all’altro, con modalità diverse a seconda delle
caratteristiche personali del tutor. Attraverso questa strada è possibile per il
tirocinante passare lentamente, se le cose vanno sufficientemente bene, dalla
dipendenza all’autonomia.
Si tratta di un lavoro maieutico che implica da parte del tutor la propensione e gli
strumenti per tirare fuori quello che il tirocinante ha dentro, per scoprire le vere
vocazioni, quelle utili alla professione, ma anche quelle più in generale utili nella
vita, di tirare fuori le conoscenze che ciascun tirocinante ha dentro, ordinate o
meno, messe in fila nei precedenti percorsi della formazione, o in quelli che il
tirocinante sta facendo a lato e in concomitanza col tirocinio.
Il tutor poi è, come dicevamo nella precedente relazione, un sacerdote
dell’iniziazione, una guida di fronte alla quale, come nel rapporto fra Dante e
Virgilio, l’uno è debitore nei confronti dell’altro per aver appreso dall’altro “lo
bello stilo che m’ha fatto onore” che nel nostro caso è l’insieme delle modalità
professionali, delle pratiche, dell’etica, della filosofia che informano la
professione. Ed in questo rapporto poi il tutor, come ogni maestro deve
sopportare che gli allevi non solo vanno via, ma che possono superare il maestro,
e non per questo egli deve sentirsi invidioso di essi, poiché è proprio il sale che
lui è riuscito a dare loro che ha permesso poi agli ex allievi di affermarsi nella
vita.
E, come è possibile dedurre in base alla nostra esperienza due sono gli strumenti
didattici, in assenza della lezione formale, che il tutor usa per passare le proprie
competenze: il precettorato in base al quale poiché il tutor – grazie alla propria
esperienza - coglie le cose prima del tirocinante, mette a disposizione questo
acume e allena il più giovane e meno esperto a coglierle sempre più acutamente;
e l’esempio in base al quale il tutor rallenta a bella posta il proprio operare e fa
vedere al tirocinante come si fa.
A fianco di queste due modalità canoniche, riscontrabili in ogni mestiere, e che
sono alla base anche del rapporto maestro – apprendista, vi è nei mestieri della
cura la supervisione che consiste in un patto in base al quale il tirocinante porta i
suoi problemi sulle cose che gli sono state in precedenza affidate e il tutor vede
insieme al più giovane il problema, lavora sulle sue difficoltà, pone delle
coordinate nella lettura delle cose.
Da ciò che abbiamo fin qui detto deriva che le competenze e i saperi del tutor e
del professionista non sono assolutamente sovrapponibili e si dislocano lungo
l’ambito esperienziale del tutor in maniera diversa a seconda dell’anzianità, delle
circostanze istituzionali in cui esso si trova ad operare, dalle sue disposizioni a
formare, cioè da come funzionano attualmente in lui i propri fantasmi formativi.
Ma le cose non sono così idilliache, come fin qui sono state esposte. A ben
vedere infatti l'attivazione dentro al soggetto (così come nell'immaginario
collettivo) del desiderio di formare implica anche la possibilità che si attivizzi il
negativo della formazione, e cioè la de\formazione. Alla costruzione corrisponde
la distruzione. Le ragioni che portano a formare sono le stesse che portano a
de\formare, a distruggere.
b - Vi può essere però un formatore che prende un rapporto con i discenti simile
a quello di una madre con il proprio bambino. Il formatore in questo caso
diventa, come dice Käes, o seno che contiene e che nutre, o bocca che bacia, o
mano che carezza, o sguardo in cui riflettersi, o voce che ammalia, o luce che
rischiara, oppure (invece di questi oggetti parziali di tipo materno) madre, con
tutte le accezioni che, su base culturale e personale, è possibile fare convergere
su questo termine.
Anche nel caso in cui di fronte non ci siano tanto un docente e la sua classe, ma
un tutor e il suo tirocinante questi quattro fantasmi formativi, questi quattro
personaggi della formazione, da cui siamo abitati, sono presenti con tutte le mille
e mille coniugazioni che ciascuno fa fra queste parti interne e le altre parti
presenti nel nostro mondo interno (parti giudicanti con più meno severità, parti
più o meno esigenti, etc.). Però la situazione di maggiore intimità prodotta dal
rapporto duale, specie se non temperata dalla contemporanea presenza di un
tutor d’aula e di una comunità di docenti, crea una serie di problemi aggiuntivi,
di ansie e di angosce nel tutor che rendono, se non più difficile, sicuramente più
specifica e intricata il suo vissuto di fronte al tirocinante. Cerchiamo ora di
vedere gli elementi diversità rispetto alla docenza, per poi rivedere come
possono funzionare i quattro fantasmi formativi nel caso del tutoring.
La situazione duale pone ben presto (sotto certi punti di vista ben prima che il
nuovo tirocinante arrivi, e cioè nelle fantasie che il tutor fa su di lui) il
tirocinante in una posizione che potremmo definire di ombra, di doppio, di
prolungamento del tutor, con tutte le fantasie e le angosce di tipo confusivo che
in questa situazione claustrale ben presto emergono. Il tutor sa, o meglio intuisce
che il percorso che il tirocinante deve compiere è quello che va dalla simbiosi
all’individuazione, ma ciò innanzitutto procede piano, necessita di cautela, ed in
quel mentre le angosce di tipo persecutorio che la presenza dell’ombra comporta
avanzano e rendono molto penoso spesso l’esordio e tutta la prima fase del
tirocinio, con oscillazioni rispetto al tirocinante che sono più o meno ampie a
seconda di come il tutor ha elaborato dentro di sé queste angosce.
Il rapporto con l’istituzione o l’azienda in cui il tutor opera così come con quella
formativa dalla quale il tirocinante proviene, che – come ci ha ricordato Mottana
– dovrebbero essere mediati per il meglio dal tutor, in una atmosfera di intimità
rischiano in ogni momento di andare in frantumi poiché ciò che realmente il
tutor pensa dell’istituzione appare da mille indizi.
Bibliografia
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Funzioni del tirocinio nel mercato del lavoro oggi, di
Stefano Laffi
L’ipotesi che sta alla base della presente riflessione è che il tirocinio oggi sia al
centro di un mutamento sociale attraversato da forze in direzioni diverse, la cui
risultante è difficile da disegnare. Quasi chiunque sperimenta infatti sul piano
personale una “stagione di vita” sempre più aperta rispetto alle sue traiettorie,
con gradi di libertà inediti e ignoti alla precedente generazione, ma al contempo
vive una condizione giovanile che sembra cooptata dalla società solo per
esercitare alcuni comportamenti (sostanzialmente di consumo), mentre
l’interlocutore cui si rivolge - il mercato del lavoro - diventa così dinamico da
lasciar disorientato chi vi si affaccia.
Eppure questa apoteosi della scelta è più ambigua di quanto si possa pensare: “si
sceglie o si è scelti?” è la provocazione in cui mi pare si sintetizzi la condizione
opaca dei giovani che si affacciano al mercato del lavoro e che più in generale
cercano un ruolo per partecipare alla società in cui vivono.
In una ricerca compiuta nel ‘97-’98 in occasione della tesi di dottorato, mi trovai
a studiare le transizioni critiche sul mercato del lavoro, attraverso 60 interviste a
persone che si erano rivolte al Centro Servizi all’Impiego della Provincia di
Varese perché disoccupate, in mobilità oppure in cerca di primo impiego. Dopo
una serie di colloqui preliminari coi responsabili dell’informazione, della
formazione e dell’orientamento di quel Centro, decisi di adottare come chiave
interpretativa l’idea di “transizioni psicosociali” elaborata da Murray Parkes, che
le definisce come “quei grossi cambiamenti dello spazio di vita che producono
effetti durevoli, che si determinano in un lasso di tempo relativamente breve e
che scuotono in maniera determinante la rappresentazione della realtà”. Così,
combinando il concetto di Lewin di “spazio di vita” - “quelle parti dell’ambiente
con cui il sé interagisce e in relazione alle quali si organizza il comportamento” -
e una particolare accezione del concetto di Cantril di “assunzioni sul mondo” -
“l’insieme delle assunzioni che costruiamo sulla base dell’esperienza passata per
perseguire i nostri scopi” - Parkes arrivò a circoscrivere i passaggi cruciali dei
corsi di vita.
L’afasia, rilevata sulla situazione attuale, è ancora più forte rispetto al futuro, in
cui è a maggior ragione più difficile proiettarsi. La perdita della traccia
biografica e della collocazione lavorativa nel presente privano le rotte individuali
del timone, inibiscono fortemente qualunque margine di progetto. Ma il
risarcimento è ambiguo, perché la rinuncia allo sbocco professionale del proprio
percorso di studi o alla continuità del proprio lavoro non viene ripagata con una
semplice offerta, circoscritta e stabile nell’indicazione di nuovi fabbisogni. Il
problema è che alle transizioni individuali si sommano quelle del contesto -
sistema produttivo, mercato del lavoro e servizi all’impiego - e da questo non
possono giungere input chiari e duraturi di domanda. Manca quindi anche un
effetto pull, cioè un mercato in grado di indicare tempestivamente e attrarre le
carriere individuali verso posizioni certe. L’orizzonte temporale dei singoli,
privati di progetto e con prospettiva indefinita, non può che esser schiacciato
sull’oggi e sul breve periodo: si costruisce una quotidianità di ricerca costante
senza ipotecare nulla sul futuro, qualunque investimento formativo tende ad
assottigliarsi per massimizzare l’efficacia - cogliere in tempo l’occasione del
posto di lavoro resosi disponibile - minimizzando lo sforzo - poiché si tratta di
studiare o prepararsi ad un lavoro che non rientra più nel progetto individuale, e
non è detto che lo si ottenga, o non occorra invece un altro corso per tentare
un’altra occasione.
Nei casi esaminati l’impressione è quella della perdita di una sintassi biografica,
cioè della connessione di senso fra segmenti e carriere nei percorsi di vita. Il
passato di studio, formazione o lavoro può non avere alcun nesso col mestiere
futuro e il presente è una cerniera debole, quasi sempre già consapevole del
distacco ma ancora in difficoltà emotiva ad accettare la perdita (del passato, del
progetto) o incapace cognitivamente di ricucire lo strappo. L’ingresso o il
reingresso nel mercato del lavoro è in questi casi un punto di discontinuità della
biografia, in cui ricostruire il proprio “discorso” - quale lavoro, in quale luogo,
con quali colleghi, in quale città, con quale stipendio, e quindi con quale tenore
di vita... - cambiando necessariamente l’incipit, che spesso non coincide col
diploma o la laurea, o la precedente qualifica.
E’ una forma di razionalità allo scopo perché le diverse azioni sono sempre
avviate per perseguire l’obiettivo occupazionale. Mancano tuttavia alcune
condizioni della razionalità strumentale e di quella procedurale: quasi nulla si
può dire della relazione fra azione ed esito (non solo la probabilità di successo
ma anche l’individuazione di quale esito e di quanto tempo di attesa) ed è spesso
abdicato a priori un ordinamento di preferenze, anche a causa del vuoto
informativo in cui ci si muove. Ciò che più colpisce è però l’impossibilità di
un’intelligenza: in mancanza della bussola di un progetto e di una storia, proprio
questa sospensione di giudizio cui si è costretti sull’efficacia e l’efficienza delle
diverse azioni portano ad esser poco selettivi, a privilegiare la perseveranza,
l’ostinazione, la disponibilità al sacrificio.
Questa relazione ambigua col mercato del lavoro va inscritta nel più generale
rapporto dei giovani con la società cui appartengono, rapporto non meno carico
di contraddizioni, di “doppi legami” fra quello che ti è chiesto di essere e quello
che puoi realmente fare. La mia riflessione in questo caso non parte da un
contesto locale di ricerca, ma dal tentativo di ritrarre in estrema sintesi la
pesantissima cornice di sistema vissuta da chi oggi ha vent’anni.
L’analisi dei possibili “modelli” del tirocinio viene effettuata nelle pagine
seguenti a un livello prevalentemente teorico, tenendo comunque conto della
vasta esperienza accumulata in materia da università e istituti postsecondari
europei di formazione delle diverse figure di operatore sociale. L'ipotesi dalla
quale partiamo è che si possano individuare con chiarezza almeno tre categorie
di modelli teorico - operativi di tirocinio, rispettivamente intitolabili, con
qualche inevitabile forzatura, ai concetti di separazione, di dipendenza, di
integrazione problematica.
La terza tipologia, infine, consente che lo studente venga inserito nel servizio-
intervento prevedendo che egli stesso conduca direttamente, almeno in certe
occasioni, alcune attività. Per certi versi, pertanto, questa modalità di
effettuazione del tirocinio rappresenta una variante di quella illustrata in
precedenza. I suoi aspetti più significativi sono
6. Il tutor di tirocinio
La prima fase di intervento del tutor riguarda la messa a punto del progetto
formativo. Parliamo di “messa a punto” perché gli enti che accolgono i
tirocinanti hanno già elaborato un progetto di tirocinio: in questa fase, attraverso
un incontro fra studente, tutore supervisore si tratta principalmente di precisare
gli obiettivi che a livello generale sono già presenti nel contratto, le modalità
organizzative, il tipo di registrazione - documentazione dell'attività che viene
richiesta.
Per quanto riguarda le conoscenze il tutor deve mettere lo studente in grado di:
c) analizzare l'agire quotidiano del proprio tutor con particolare riguardo agli
aspetti metodologici e deontologici;
b) mettersi alla prova nell'uso di strumenti e tecniche propri del ruolo, con
particolare riguardo all'elaborazione di un progetto di lavoro (che preveda tutte
le fasi, dall'analisi dei bisogni alla programmazione dell'intervento, alla sua
gestione e alla sua valutazione) e alla conduzione guidata di interventi relativi a
un'utenza individuale o di gruppo.
Il tutor, anche in questo caso, dovrà supportare lo studente nel suo lavoro di
riconoscimento, analisi, appropriazione degli strumenti e delle tecniche,
attraverso la predisposizione di una serie di osservazioni sistematiche, la
costruzione di griglie di sistematizzazione degli elementi più significativi del
percorso di lavoro, il monitoraggio degli interventi condotti dallo studente
stesso.
7. Il supervisore
Può rivelarsi utile condurre questo tipo di incontri anche per gruppi di studenti
che, seguiti dallo stesso supervisore, stanno effettuando esperienze diverse di
tirocinio: questo allo scopo di socializzare le esperienze, ricavarne le,
problematiche comuni, offrire un sostegno per l'im-patto emotivo che le
esperienze di tirocinio possono avere sullo studente.
Per quanto riguarda l'assistenza allo studente nella stesura della relazione finale è
opportu-no che la Commissione di tirocinio, identifichi uno o più schemi tipo di
relazione: una serie di punti che devono essere necessariamente sviluppati, per
garantire la confrontabilità delle relazioni e il loro valore documentario sia
rispetto al curricolo universitario, sia per gli enti presso cui si è svolto il
tirocinio. Una copia della relazione finale dovrebbe rimanere all'università (ove
potrebbe essere utilizzata come materiale di orientamento per gli studenti che
devono scegliere il proprio tirocinio) e una copia andrebbe inviata all'ente che ha
ospitato il tirocinante come documentazione dell'esperienza svolta e delle
riflessioni critiche che l'esperienza ha sollecitato.
Premessa
Questo non significa affatto che tale funzione abbia assunto una fisionomia
chiara e condivisa. Come è ovvio, anche in dipendenza dai molteplici contesti e
dalle differenti tipologie di occasioni formative all’interno dei quali è maturata
una sua emergenza, più o meno originaria, essa ha assunto volti diversi, talvolta
più solidi sul piano del loro fondamento organizzativo e formativo, talaltra, a
mio giudizio, più improbabile e precaria. Sull’argomento è oggi recuperabile una
ricca produzione di studi2 e dunque non intendo dilungarmi né in una rassegna
critica, né tantomeno in uno studio comparativo.
Per conto mio continuo a ritenere che, fatte salve le necessarie declinazioni che
ciascun contesto impone, i necessari aggiustamenti all’interno di percorsi che
hanno destinatari diversi sia per caratteristiche che per numero che per necessità
formative precipue, una teoria del ruolo del tutor non possa prescindere da una
riflessione teorica sulla funzione della tutorship, intesa, così come ho cercato di
esplicitare più di dieci anni or sono, come una dimensione strutturale, dunque
persistente, perlopiù o comunque spesso latente, e comunque agita, a prescindere
da una sua effettiva presa in carico e incarnazione organizzativo-funzionale, nel
processo formativo, quale che esso sia. E’ dunque mio parere che sintantoché
tale cogenza strutturale non venga assunta e dispiegata anche in termini di
eventuali ruoli deputati ad espletarla, nei limiti del possibile (tenendo conto che
si fatta di un elemento strutturale non pienamente riconducibile ad una serie di
procedure personalizzabili), le diverse idee sul tutor resteranno, per quanto
interessanti e talvolta anche rispondenti a singole esigenze organizzative e
formative, sostanzialmente carenti.
In tale processo si può ulteriormente individuare due grandi fasi coordinate e due
possibili livelli di funzionamento: chiameremo fase "esterna" o "di confine" la
fase completa di funzionamento della tutorship (connotata in senso affettivo
come "fathering" me dunque sostenuta prevalentemente da un codice affettivo di
tipo paterno) e fase "interna" la fase più tipicamente docente (connotata in senso
affettivo come "mothering", e dunque sostenuta prevalentemente da un codice
affettivo di tipo materno). In tal senso evidentemente intendo proporre una
distinzione significativa tra due funzioni (o sottofunzioni), quella di docenza e
quella di tutorship come due funzioni strutturalmente implicate in ogni
situazione formativa effettiva, due funzioni che andrebbero tenute distinte non
solo su un piano teorico, ma anche su quello operativo e di ruolo. Si può
evidenziare inoltre un altro livello di funzionamento processuale nei termini di
una funzione "agente" valida per tutte le fasi e di una funzione "agita" anch'essa
ipoteticamente valida per tutte le fasi in entrambe le aree della tutorship e della
docenza vera e propria, all'interno del complessivo "sistema insegnante".
La tutorship
L'analisi che seguirà cercherà di fare chiarezza, per quanto possibile, sulla
funzione di tutorship, lasciando sullo sfondo la funzione più tipicamente
docenziale (per l’approfondimento della quale, secondo questi riferimenti teorici,
rinvio al testo citato Formazione e affetti).Si tratta dunque di una funzione
"esterna", o, in termini sistemici, di una funzione di "confine"6,
fondamentalmente. Questo nella sua dimensione di "funziona agente". Ciò
significa che la tutorship "dovrebbe" essere attivata fondamentalmente nella
prima e nella quarta fase temporale del processo affettivo di apprendimento e
solo per emergenza nelle fasi intermedie. E' -questa "esterna"- un'area
tipicamente "istituzionale" all'interno della quale l'obiettivo fondamentale in
termini affettivi è quello di creare e di sciogliere il dispositivo di contenimento
del processo di modificazione intrinseco all'apprendimento. Nella prima fase è in
gioco la creazione di tale dispositivo, che definiremo "setting"7 o, ancor meglio,
"quadro"8 del processo.
Il quadro, il setting da tale punto di vista, vanno oltre ciò che la tutorship può
garantire attivamente, nel senso che investono anche la tipologia istituzionale, la
sua affidabilità simbolica, i sigilli gerarchici, il "rango" della situazione
formativa; tuttavia, una parte fondamentale di tale responsabilità può essere
svolta positivamente dalla tutorship: essa deve infatti garantire la "dimora" della
formazione e di questa deve possedere "il disegno e il controllo mentale". In tal
senso un’eventuale ruolo di tutor dovrebbe anche assumersi il compito di de-
cidere, anticipatamente e coerentemente, il “confine” dell’esperienza e
rendersene responsabile in maniera complessiva, senza tralasciare nulla di ciò
che una domus deve garantire (dalla strutturazione fisica alle cure fisiologiche al
contenimDeventodunqueemotivo)anzitutto. istituire uno spazio in cui possa
nidificare il processo formativo, uno spazio fisico e mentale, un'area
"potenziale": dunque una trama temporale regolare fatta di orari, di scansioni, un
reticolo normativo, un contratto esplicito sul percorso e sulle sue articolazioni,
un insieme di pratiche insomma che aiutino il formando a insediarsi nel
perimetro dell'esperienza di apprendimento.
E' in questo senso che, mutuando i"codici affettivi" di Fornari, si può tentare di
incorporare la tutorship in un'area di valori affettivi paterni definendola come
pratica del fathering, parafrasando Bion. Ciò proprio in senso fornariano9, in
quanto il tutor “bonificherebbe” l'area della genesi della formazione (e ogni
inizio richiama per analogia l'inizio per eccellenza, la nascita) dagli elementi
tipicamente paranoici che lo insidiano, i timori di insuccesso catastrofico, di
destabilizzazione, di metamorfosi e di perdita dell'identità. Attraverso le regolari
procedure di allestimento fisico e di contrattazione psicologica, viene garantita l'
abitabilità dell'esperienza formativa. In questa fase è anche necessario accettare e
assumere la responsabilità che deriva dall'innescare un primo transfert parentale
in cui è fondamentalmente in gioco, simbolicamente, l'affidamento appunto della
propria vita mentale (ma in taluni casi anche fisica, come nell' outdoor
development o per esempio nelle pratiche educative di avventura).
Qui è più che mai evidente anche il vero e proprio "ruolo" del tutor, come
inauguratore del processo e vera rappresentanza in situazione della "dimensione
istituzionale", che è poi la garanzia ultima, “inconscio dell'inconscio”, di ogni
riferimento culturale e simbolico. E' in tal senso che la credibilità istituzionale, a
prescindere da quella del singolo tutor, risulta fondamentale per determinare la
consistenza e la capacità di contenimento, l'attendibilità del setting formativo.
Non è un caso che la scuola attualmente riesca con fatica a promuovere i propri
obiettivi di apprendimento: è in gioco il prestigio e il senso stesso della sua
finalità istituzionale e della sua cultura (sfugge il suo orizzonte di senso, il che
vale più ancora che per gli allievi, per gli insegnanti ). Il setting risulta
determinante non solo perchè rende possibile la fiducia (e quindi la dipendenza)
del formando, ma anche per la sicurezza e l'autocomprensione professionale del
docente, che solo a partire da un setting ben configurato potrà elaborare la sua
competenza fino in fondo, potendo anch’egli soggiornare in una domus
adeguata.
E' chiaro che non è sempre strettamente necessario un tutor in carne ed ossa, ma
la sua assenza significherà un sovraccarico di responsabilità per il docente, che
dovrà comunque sopperire a tale carenza riferendosi ad altre figure istituzionali
spesso non preparate a giocare un tale ruolo e a coprire un tale ambito di
funzione.La formazione si svolgerà comunque dentro un’area di tutorship e
quanto meno essa sarà marcata e rappresentata, tanto maggiori saranno le
disfunzioni nella sua adeguatezza a realizzare un campo di esperienza di
apprendimento.
In tal senso, quanto più l'ingresso nell'"area potenziale" della formazione e poi il
recesso da questa viene ritualizzato e amplificato, attraverso un'articolazione di
figure (capi, direttori, responsabili ecc.) e di ambienti, tanto più a nostro giudizio
sarà garantita la solidità del setting e salavaguardata la possibilità del
cambiamento. Non nel senso di trasformare in un rito misterico il processo di
apprendimento, nè nel senso di istituzionalizzarlo oltremisura o in senso
autoritario, quanto richiamando, in una forma laicamente simbolica, le figure
affettive necessarie per imparare senza timori e per confidare in un dispositivo
pensato e valorizzato in modo sensibile e coerente. Si tratta insomma di
consolidare il "quadro" ed elaborare le resistenze, di rassicurare e di marcare
anche i confini di un'esperienza che gode di uno statuto proprio, tutt'altro che
banale, per importare più apprendimento della "Verità"12, e in cui la tutorship, si
risignifichi come dato costitutivo, come condizione di possibilità.
L’esperienza di Reggio Emilia insieme ad altre, pone in campo la figura
specifica del tutor di tirocinio, che assume poi nelle diverse sedi istituzionali
fisionomie differenti, dando vita anche a figure a incastro, come nel Diploma
Infermieristico dove si assiste talvolta all’intervento di più figure di tutor, dal
Tutor d’Area al Tutor clinico. In queste situazioni non muta fondamentalemente
il profilo della funzione né ciò che può essere esercitato dal tutor. Mutano
tuttavia i contesti e dunque determinate forme di azione. Come ha dimostrato
l’esperienza di riflessione effettuata attraverso un caso13 proposto ai
frequentanti del corso organizzato dall’AUSL di Reggio Emilia, i Tutor
responsabili di taluni servizi, specie in Area socio-sanitaria, hanno una funzione
soprattutto programmatica e di controllo. In tal senso la Tutorship rischia di
sovrapporsi esclusivamente al ruolo di Direzione del percorso formativo e di
perdere la sua componente di contenimento in corso d’opera.
1 - Milano, gennaio 2002 (riveduto sulla base di “La funzione di tutorship nel
processo affettivo di apprendimento , Skill, 1990)
2 - Cfr. tra gli altri Barrows A.H., Il processo tutoriale, Fondazione Smith Kline,
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sanitarie, Angeli, Milano 1997; De Vecchi Pellati D., Il tutor: dimensioni
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Università degli studi di Milano, 1996
12. nel senso in cui di apprendimento "Vero", di strutture di personalità che non
mentono a se stesse e che vogliono conoscere le cose e non simulare la
conoscenza, parlano per esempio D.Meltzer e M.Harris in Il ruolo educativo
della famiglia, trad.it., Torino, Centro Scientifico Torinese, 1986, passim
1.È noto che il più precoce ingresso nell’età adulta degli uomini del medioevo
rispetto agli individui dei giorni nostri implicasse nei primi una maggiore
propensione all’impulsività ed all’agito ed una minore capacità riflessiva rispetto
ai secondi.
2. Una delle frasi più tipiche nel momento del commiato dai nostri tirocinanti
è questa: sei arrivata qui come laureata, ora hai acquisito le prime capacità che ti
permettono di definirti una professionista.
Questi due esempi per introdurre i due paragrafi secondo i quali sarà scandita la
nostra argomentazione sul passaggio dagli ideali adolescenziali a quelli adulti.
E in questo processo l’abbattimento dei vecchi idoli, cioè dei vecchi modelli
ideali dell’infanzia è imposto dalle spinte puberali che colorano di nuovi
significati i legami endogamici, rivelandone il loro sottofondo incestuoso e
spingono verso quella vera e propria virata di centottanta gradi che implica
l’uscita dall’endogamia e l’accesso all’esogamia, con tutte le discontinuità e i
tutti i lutti che questa virata impone non solo nel preadolescente, ma in tutti
coloro che gli sono vicini, ed in special modo nei genitori, ma anche con tutti i
conti in sospeso che su questo piano sono stati aperti nella prima e seconda
infanzia e nella fanciullezza.
In psicoanalisi esiste una diatriba, non tanto sulla natura di questi personaggi, la
cui presenza è riscontrata da tutti, non tanto sulle funzioni da esse svolte che da
tutti vengono ritenute importantissime, quanto sui connotati che questi
personaggi eroici hanno e sulle loro ascendenze: è come se noi avessimo tracce
certe dell’esistenza di una persona, delle azioni da lui svolte, ma non
conoscessimo bene il suo profilo, non sapessimo come si chiama e di quale
famiglia egli Lafacciadiatribapartea. noi non interesserebbe in questa sede se non
fosse per qualche aspetto che risulta importante ai fini della individuazione della
natura delle problematiche attuali del rapporto tirocinante – tutor, e solo sotto
questo punto di vista ci avvicineremo ad essa, invitando chi volesse saperne di
più alla bibliografia.
La divaricazione innanzitutto è fra coloro che, come Blos, pensano che esista un
personaggio interno, l’Io Ideale, distinto dall’Ideale dell’Io, che è l’erede di quel
primissimo personaggio interno, figlio del narcisismo primario, che ci ha abitato
fin dagli esordi della nostra vita; tale personaggio ci
glio del narcisismo primario, che ci ha abitato fin dagli esordi della nostra vita;
tale personaggio ci accompagna per tutta la vita, che cresce insieme a noi e si
modifica in base al rapporto con realtà: l’Io ideale secondo costoro in
adolescenza assume un significato particolare poiché impone al ragazzo e alla
ragazza un confronto sia con gli introietti paterni che materni in maniera
sessuata, per cui le vicissitudini del personaggio maschile in adolescenza sono
diverse da quello femminile, ed in maniera individualizzata, per cui ogni
adolescente definisce un proprio percorso di confronto e di emancipazione da
questi personaggi interni ed esterni.
Pietropolli infine sottolinea la natura nuova dei rapporti fra genitori affettivi e
poco consistenti sul piano superegoico e figli adolescenti, pone in evidenza,
come del resto fa Jeammet, che da questo tipo di rapporti - che ovviamente si
strutturano ben prima che i figli diventino adolescenti - deriva l’emergere nei
giovani di strutture di personalità di tipo anaclitico: Da ciò l’importanza,
maggiore rispetto al passato, che in questo nuovo quadro assumono per i ragazzi
e per i giovani le influenze che vengono dall’esterno della famiglia, e cioè dai
media, dal gruppo, e dalla nuova coppia adolescenziale, nonché la necessità per
questi giovani analitici di sdraiarsi, di spalmarsi quasi, su queste istanze che
diventano più importanti che in passato nel definire l’ideale adolescenziale.
Detto questo veniamo ora ai percorsi maturativi in base ai quali, così come con
l’ingresso in adolescenza erano state messe in crisi le vecchie imago, i vecchi
personaggi eroici dell’infanzia, anche con il progredire del giovane verso l’età
adulta a poco a poco anche i personaggi eroici dell’adolescenza dovranno essere
sottoposti ad un’opera di limatura e di maturazione. Come avviene dentro al
giovane questo processo maturativo? Ancora una volta cerchiamo di fare un
esempio: dalla nostra clinica dei postadolescenti (dei giovani adulti, direbbe
Pietropolli) emergono a venti o venticinque anni un insieme di personaggi eroici,
più o meno integri, più o meno ammaccati, che spesso sono in relazione
gerarchica fra loro e che possono essere dialoganti o meno fra loro e con le altre
parti interne del soggetto: si determinano cioè come un insieme di ipotesi (A, B,
C etc.), di progetti per il futuro che già sono stati sottoposti alla prova di realtà,
che si sono perciò imborghesiti, che hanno smesso i panni più evidenti dell’eroe
adolescenziale, per diventare proponibile e raggiungibili nella prossima età
adulta.
Vogliamo dire cioè che se noi andiamo alla fine del processo troviamo una realtà
che, se le cose sono andate sufficientemente bene, è mutata non nel senso
dell’abbandono dei vecchi personaggi eroici, ma della loro trasformazione in
imago ideali adulte con cui mantenere un rapporto di tensione e, diremmo, di
emulazione.
Occorre dire della necessità di rispetto da parte degli adulti per quest’area in cui
sono gli ideali, le fantasie, i progetti, le creazioni adolescenziali? Pensiamo di si,
se è vero che uno degli elementi presenti nei miti e nelle fiabe sull’argomento è
proprio l’atteggiamento dell’adulto nei confronti di questo emergere di una
nuova generazione che avanza e che con il solo suo emergere rappresenta una
minaccia.
Un esempio derivante dalla nostra clinica: ci sono dei mestieri in cui non c’è il
tempo necessario per la elaborazione delle possibile perdite sul piano ideale. Il
calciatore, che a 16 \ 17 anni sa già se andrà in serie A, o se questo progetto, a
lungo inseguito, alla fine si rivela impossibile, se non ha dentro di sè, nel suo
background familiare la possibilità di elaborare la perdita, o un progetto di
riserva pronto per l’uso può andare in un breakdown evolutivo severo.
Gli attacchi da parte degli adulti agli ideali adolescenziali – attacchi quali
derisione, sminuizione, castrazione, circoscrizione fobica dell’ambiente (come
accade per quel personaggio di Ricomincio da tre che è rimasto a casa bambino a
fianco ad una madre – drago vorace e confusiva) - si risolvono spesso con la
costruzione di percorsi di falso sé, che hanno il significato di un ultimo tentativo
di elusione del dolore della perdita.
Fra i nostri intendimenti, nel proporre a colleghi della sanità, della scuola e del
sociale una riflessione sul significato del tirocinio c’erano: quello di cercare di
comprendere quali funzioni il tirocinio assuma oggi nel mercato del lavoro delle
professioni del welfare, e nei territori limitrofi in cui i processi di
aziendalizzazione sono più avanzati; quello di analizzare cosa accade fra
tirocinante e tutor durante il tirocinio, in questo luogo più intimo dell’aula e
meno connotato come scuola; come avviene in questo luogo il passaggio di
saperi e di competenze; come il giovane viene introdotto in esso e accompagnato
per tutto il percorso, da un particolare sacerdote officiante la cerimonia di
aggregazione, il tutor, in quella che sarà la sua ultima tappa prima dell’ingresso
nell’età adulta; come infine il rapporto fra tutor e tirocinante si dipana lungo
questo percorso, sia per ciò che attiene gli aspetti più propriamente professionali,
sia sul piano dei rapporti e dei sentimenti ambivalenti che intercorrono fra queste
due entità.
Ciò che ci proponiamo oggi è di elaborare una riflessione sulla forma che
assumono gli ideali giovanili in questo momento che abbiamo visto essere
contemporaneamente finale ed iniziale: - fase finale dell’adolescenza in cui il
lavoro di levigamento degli ideali è già iniziato da tempo, ma ora si approssima
il momento delicato del redde rationem che sancirà la distanza fra ciò che si può
effettivamente diventare e ciò cui, nonostante tutti i levigamenti, ancora si
aspira; - fase iniziale dell’età adulta in cui però, come ci ha ricordato Laffi, la
farraginosa immagine di sé che in questo momento il giovane ha rispetto al
lavoro, il fatto che egli non possa mai dire se veramente è entrato nel mercato del
lavoro o meno, gli impediscono in effetti di fare i conti fino in fondo con le sue
aspirazioni e rimandano sine die questo importante momento di verifica, che è
l’ultima tappa verso una effettiva dimensione adulta.
E’ indubbio che lungo il percorso del tirocinio il profilo del tirocinante muta, che
l’immagine che egli ha di sé si trasforma. Questa metamorfosi del tirocinante,
come ci hanno ricordato Mottana e Guerra, in Italia si ingigantisce poiché
l’ordinamento dei nostri studi separa la teoria dalla pratica e tende a svilire
quest’ultima ed a volte ad espellerla da ogni considerazione che l’accademia fa
circa la reale crescita che il tirocinante fa, o meno, nei luoghi del tirocinio.
Si determina così una divaricazione fra diploma e laurea da una parte e percorso
di tirocinio dall’altra. Ed il passaggio dall’aula al luogo del tirocinio, da un
sapere teorico a un sapere pratico, dalla laurea alla professione, da una parte
rappresentano un bagno di realtà, se le cose vanno sufficientemente bene (ma
Guerra ci ha fatto vedere quali siano i rischi di vanificiazione o di sminuizione di
quest’esperienza, ancora molto presenti in Italia). Dall’altra sono relegate nella
periferia della formazione, non ancora integrate nel curricolo di studi, anzi
vissute spesso come un inutile fardello.
Ciò implica una serie di difficoltà sia per il tutor legate alla sua ambivalenza nei
confronti del giovane, ambivalenza che si manifesta fenomenologicamente in
una serie di manifestazioni che oscillano, a volte paurosamente, fra pulsioni di
impossessamento e di soffocamento del giovane a pulsioni espulsive che
possono rappresentare per il giovane una pericolosa somiglianza con fantasmi
genitoriali e istanze più precoci attinenti l’area degli oggetti - Sè, con tutta una
gamma intermedia di sentimenti e di emozioni più mature ed emancipatorie.
Su questo piano, come abbiamo già visto, un grande spazio è occupato dai
fantasmi formativi del tutor che marcano l’accompagnamento, lo riempiono,
diremmo, degli odori del tutor. E il tirocinante deve fare ancora una volta un
percorso di aggregazione e di identificazione, di adeguamento e di smarcamento
che già aveva dovuto fare in adolescenza e che, come in adolescenza, sono
destinate a lasciare segni profondi, anche se a prima vista non evidenti,
nell’identità professionale di ciascun giovane.
Sul piano temporale, come ci diceva anche Guerra, il collocamento del tirocinio
in un percorso pre-diploma o pre-laurea, che la scuola può controllare ed
integrare, o post lauream in cui la scuola scompare è importante sia per le
ragioni cui abbiamo accennato sopra, ma anche per attivare quell’opera di
rifinitura delle imago ideali professionali che, come ci diceva sempre Guerra,
dovrebbero anche potere orientare il giovane all’inizio del percorso formativo
professionalizzante.
Altro rischio sul piano della temporalità è quello che il tempo del tirocinio
diventi un tempo che invece di avvicinare alla professione, allontana il giovane,
lo tiene fuori artificiosamente da essa, dal mercato del lavoro, di essere stato
pensato unicamente per allungare i tempi di stazionamento del giovane in un
luogo formativo inautentico, un luogo che in altri tempi, nel ’68, avevamo
definito: silos, cioè parcheggio del giovane, in base ad una concorrenza sleale
del vecchio, armato dei suoi poteri e dei suoi privilegi (fra i quali vanno
senz’altro collocati gli ordini professionali) nei confronti del giovane indifeso e
vessato spesso di inutili, costosi e fuorvianti percorsi di ulteriore
professionalizzazione (molti master spesso lo sono).
Bibliografia:
Val più la pratica della grammatica?: nei nostri corsi si svolgono 900 ore di cui
450 di teoria e 450 di stage, per condurre al meglio l’esperienza di tirocinio la
Tutor e la Coordinatrice attivano una serie di incontri (prima, durante e dopo)
con i servizi invitando le figure di riferimento in particolare l’ADB Tutor (Tutor
aziendale). Le/i corsiste/i sono informati di questo stretto rapporto che ha
l’obiettivo di condividere gli obiettivi formativi, gli strumenti di valutazione e di
cercare insieme soluzioni nel caso emergano problematiche. Inoltre nella
progettazione dei contenuti si cerca di adattare la teoria alla pratica e quindi ai
differenti contesti locali della rete dei servizi. Tutto questo lavoro di relazioni e
comunicazioni sta ala base del tirocinio. Quindi la domanda iniziale vuole essere
provocatoria: non dovrebbe esserci un gap tra queste due dimensioni in quanto
l’una perfeziona l’altra se si rinforzano attraverso il racconto dell’esperienza ed
attraverso il confronto. Inoltre teniamo presente che il turn over in questi servizi
è alto: chi oggi lavora con gli anziani domani potrebbe lavorare nella psichiatria
o in altri contesti nel sociale, quindi "la grammatica" non può accontentarsi di
dare mezzi, metodologie, strumenti "pronti all’uso" per il presente, ma deve
costituire una visione più ampia per il futuro, dove è importante imparare a
pensare, a lavorare in gruppo e per progetti, essere capace di far fronte agli
imprevisti e ai cambiamenti, acquisire capacità di problem solving.
Ma "Il punto è che la pratica è una grammatica. La rete di nervature delle
pratiche struttura e orienta potentemente il mondo, fa mondo…La pratica
costituisce il primo riferimento sul quale si incardina ogni determinazione di
significato. In essa inoltre si sedimenta la significazione riuscita, quella che ha
fatto presa sul mondo e che diventa senso comune, lo sfondo d’autorità dal quale
sempre si stagliano i successivi giudizi, e si formeranno le individuazioni. Anche
per questo strutturarsi della significazione è importante dare dei criteri per la
scelta dell’ADB Tutor, non solo che sia qualificata e con esperienza, ma
motivata al lavoro sociale e motivata ad essere formatrice, che possa in termini
di tempo e in termini cognitivi e relazionali condurre un affiancamento costante
e trasmettere non solo tecniche e metodologie ma anche valori, atteggiamenti,
etica.
Oltre a insegnare e valutare occorre che si stimolino capacità di esercitare
pensiero, giudizio, capacità di prendere decisioni ed autonomia e di confronto e
collaborazione nel lavoro di equipe. Quindi pratiche e tecniche sì, ma attenzione
a "che non si trasformino in un morto meccanismo che irrigidisce la fluidità del
movimento della vita, che non dimentichi la particolarità delle situazioni e dei
contesti in nome dell’universalità, che non possa fare a meno della persona in
carne ed ossa e delle loro relazioni"… "Un sapere pratico non vive da solo, non
si può fissarlo una volta per sempre, si trasmette personalmente con le forme
della tradizione, con la relazione diretta, viva, in presenza.. . Dargli autorità
significa dare autorità al sistema di relazioni che lo sostiene..".
la liminarità di questi luoghi di cura, il loro essere al riparo dallo sguardo adulto,
come dicevamo prima, in modo da predisporre un terreno nel quale sia garantita
una operosità discreta;
la delimitazione di un tempo per l’impegno che non sia molto intenso e che non
sia sovraccaricato di significati esterni a quelli che hanno spinto il giovane ad
impegnarsi;
la tutela del giovane volontario da parte di altri giovani solo un poco più esperti,
di modo che la responsabilità risulti diffusa e non concentrata in mani adulte che
di fatto esautorerebbero il giovane, lo ricondurrebbero a figlio o allievo;
la cura degli aspetti teorico-pratici che sono alla base dell’esperienza attraverso
le predisposizione di momenti formativi (cicli di conferenze, seminari, atelier)
che non partano dalla banalizzazione degli argomenti, ma al contrario da una
seria riflessione sui significati intrinseci delle cose;
la cura per gli aspetti relativi ai movimenti che il volontario deve compiere per
giungere nei luoghi della cura: non dimentichiamo che si tratta di giovanissimi
che spesso non sono pienamente autonomi sul piano degli spostamenti in città;
e, cosa più importante di tutte, l’estrema cura nel definire gli abbinamenti, nel
favorire i primi approcci, nel mantenere il rapporto con gli operatori della sanità
e della scuola.
Il ‘durante’ dell’accompagnamento, ovvero: accompagnamento e
discrezione
Nella pratica è difficile che i più anziani fra noi si relazionino direttamente con i
volontari.
In effetti ciò che accade è una specie di catena di Sant’Antonio in cui il ragazzo
a rischio è in relazione diretta con un volontario, che a sua volta è guidato da un
giovane tirocinante dell’ultima generazione, che ha agganci con altri giovani
tirocinanti della penultima generazione, che sono guidati a loro volta da giovani
psicologhe borsiste, che si relazionano con i più anziani in luoghi istituzionali
del tipo: supervisione, o del tipo: verifica e ri\programmazione.
Luoghi di relazione più diretta fra i più anziani e i giovani sono: il reclutamento,
il counselling individuale ad opera dei tutor istituenti, che avviene solo su
richiesta dei giovani volontari, e la formazione, che viene definita in un rapporto
dialettico fra esigenze espresse dai giovani e proposte che intuitivamente il
gruppo dei più anziani fa di tanto in tanto.
In questo modo viene tutelato il fare nella sua parte più nucleare e frontale, che
non è direttamente sotto lo sguardo adulto e perciò può diventare il luogo di
proposizione e di sperimentazione della cura, e soprattutto del nuovo che ci può
essere nella cura che giovani prestano ad altri giovani, di quegli elementi di
creatività, di informalità, di intimità, di scambio che solo la scarsa distanza
generazionale può far nascere e che uno sguardo adulto potrebbe
velocissimamente guastare.
Ciò è tanto vero che da qualche anno assistiamo al fenomeno di giovanissimi che
hanno partecipato ai workshop e che alla fine desiderano continuare svolgendo
per qualche tempo funzioni di assistenti volontari nella cura di cui fino all’anno
precedente erano stati oggetto.
Anche in una famiglia però la generazione dei genitori, ad un certo punto, deve
prendere atto che i figli crescono a vanno oltre i genitori, abbandonano il desco
familiare e pongono le basi per costruirsene uno proprio.
I giovani volontari passano e Gancio resta a disposizione dei nuovi venuti, come
l’ascia di Washington, che rimane se stessa nonostante non lo sia da un punto di
vista materiale.
E’ per questo che è difficile trasformare Gancio in una associazione; è per questo
che Gancio deve affrontare tutte le coniugazioni e tutte le separazioni che
derivano da questo continuo transito; è per questo che l’accompagnamento nelle
strutture di volontariato giovanile somiglia più ad una attraversata di un passo
alpino che ad un lungo viaggio.
La prospettiva del cambiamento: una minaccia o una
promessa? Considerazioni sull’esperienza del
cambiamento a partire da ciò che avviene in un gruppo di
volontariato giovanile: Gancio Originale1, di Deliana
Bertani
Allorché siamo stati avvisati dell’incontro odierno, sia voi che io, sia noi che gli
organizzatori dell’incontro abbiamo dovuto combattere delle piccole guerre
interne fra parti di noi che hanno vissuto bene quest’incontro e parti che invece
lo hanno temuto. Da questo conflitto interno derivano l’ansia e l’angoscia nei
confronti del nuovo, che possono variare da individuo a individuo, da
circostanza a circostanza, ma che ci prende tutti ogni volta che all’orizzonte c’è
qualcosa di Ansianuovo.e angoscia quindi hanno a che fare con il futuro, e non è
detto che siano solo elementi di disturbo nel definire il nostro atteggiamento nei
confronti del futuro, ma anzi – a saperle usare bene - possono essere trasformate
in potenti armi che ci permettono di programmare meglio il nostro futuro.
Nella casa natale di George Washington ancora è in bella vista l’ascia del primo
presidente degli USA. A coloro che chiedono coma abbia fatto quell’ascia a
giungere fino a noi gli addetti spiegano che è la stessa, ma che nel frattempo le
sono stati cambiati sei volte il manico e due volte il ferro.
Anche il nostro gruppo di volontariato è come l’ascia di Washington ed ogni
anno rinnova i suoi aderenti, pur rimanendo se stessa nel cambiamento.
Nel caso dell’ascia di Washington è l’aura che c’è intorno ad essa, cioè
quell’atmosfera incantata che i custodi della casa del grande presidente hanno
saputo creare e che fa si che il visitatore vede l’ascia e pensa immediatamente
alle mani del presidente che tanto tempo fa la strinsero.
Nel caso di Gancio Originale il fatto che per un insieme di circostanze i pochi
che rimangono ci tengono da una parte a mantenersi fedeli all’elemento fondante
dell’identità di Gancio, dall’altra la disposizione di questi ultimi di adattare
l’idea di Gancio e se stessi ai cambiamenti imposti sia dalle novità che ogni
nuovo bambino disabile seguito da noi ci pone, sia dall’identità e dalle
competenze dei nuovi volontari che nel frattempo siamo riusciti ad agganciare.
Infatti che cos’è un individuo che nel passaggio da una fascia di età ad un’altra
non è capace di ridefinire se stesso? Che cos’è un adolescente che una volta
diventato adulto non è capace di prendersi le sue responsabilità: un vitellone
destinato a rimanere ai margini dell’età adulta, una caricatura di un adulto.
Nell’incontro fra due identità diverse, come può essere quello fra due gruppi di
individui che, pur accomunati dallo stesso ideale, appartengono a generazioni
diverse vi è sempre una osmosi che nei casi estremi avviene a scapito dell’una o
dell’altra identità generazionale, nella maggioranza dei casi attraverso uno
scambio in base al quale è possibile crescere e collaborare.
So che a volte è difficile accettare quella specie di meticciato, cioè quella specie
di incrocio fra identità diverse che alla fine sono tutte le organizzazioni. Lo è
soprattutto allorché coloro che sono in esse da più tempo e che in esse si sono
spesi al massimo vedono arrivare gli ultimi, i più giovani che con furia mettono
mano a tutto ciò che la tradizione ha faticosamente costruito senza rispetto per i
più anziani. Ma se si vuole il cambiamento e non si ha paura di esso anche
questo va accettato, esattamente come in famiglia gli ardori dei giovani, la loro
voglia di ribellarsi ai padri è sintomo della loro crescente capacità di andare da
soli per il mondo.
Tutte le ansie e le angosce che sentiamo nei confronti del cambiamento, tutte le
resistenze che incontriamo in noi allorché ci apprestiamo a cambiare stanno a
significare che dentro di noi ci sono almeno due istanze che entrano in gioco in
queste circostanze.
Vi è una parte più pavida e circospetta dentro di noi che vive il cambiamento
come una minaccia. E, a fianco ad essa, una parte più coraggiosa, che a volte
può diventate sventata, che vive il cambiamento come una promessa.
La minaccia è quella che l’equilibrio a fatica raggiunto sia messo in crisi e che il
nuovo risulti troppo mostruoso, troppo diverso dall’oggi: di fronte a questa
minaccia la tentazione, come dicevamo prima, può essere quella di fare politica
dello struzzo, di mettere la testa sotto la sabbia sperando che nulla cambi nel
frattempo, o peggio di sabotare il cambiamento, ma anche quella di muoversi
verso il nuovo con circospezione e con un tasso di timore che non impedisce di
potere vedere le potenzialità presenti nel nuovo.
La promessa è quella che dal nuovo nasca qualcosa di bello che ci fa sentire
giovani, creativi, produttivi. Il nuovo in questo caso è visto come un lievito che
pervade il cambiamento e ci fa immaginare il futuro come gravido di cose
importanti che possono da noi essere pensate, programmate, fatte. Se il nuovo
viene sposato, però, in maniera acritica e senza alcuna manovra volta a vedere
cosa in effetti il nuovo significa può dar luogo a svolte improvvise, ad un
andamento a zig zag che, se persiste, può essere foriero non di un vero e
profondo cambiamento, ma di un procedere secondo le mode del momento.
In ogni caso è in base a queste due istanze, interne a noi individui e a noi
organizzazioni, che di fronte al cambiamento avviene come una lotta, a volte
senza esclusione di colpi fra voglia di cambiare e voglia di non cambiare, fra
parti coraggiose e parti pavide, fra parti eccessivamente preoccupate e parti
troppo ottimistiche di fronte al cambiamento.
Così che nell’individuo può succedere che le parti pavide sviluppino tutta una
serie di strategie psicologiche volte a sabotare il cambiamento: una malattia
psicosomatica, o una depressione dovuta al lutto per le parti vecchie che queste
parti nostalgiche di noi pensano di perdere nel cambiamento, una fobia, etc..
E’ chiaro che l’organizzazione non deve mai augurarsi che i gruppi arrivino a
questi livelli di distruttività, poiché di questo passo si arriva solo alla paralisi
operativa.
In questi casi ciò che accade è un dialogo che parte dal riconoscimento da parte
dei più audaci che in coloro che rappresentano le parti timorose vi può essere il
presentimento di pericoli reali nel nuovo, pericoli che vanno affrontati e non
sottovalutati; e - di converso - il riconoscimento, da parte dei più pavidi, che
coloro che più risolutamente vanno verso il cambiamento contengono la
rappresentazione di un nuovo punto di equilibrio futuro che può essere visto
anche da loro come perseguibile.
L’organizzazione cioè può trarre vantaggio sia dalle preoccupazioni degli uni,
sia dal coraggio degli altri per creare un impasto di azione e di riflessione, di
avanzamento verso il nuovo, ma anche di tutela delle cose più importanti della
tradizione, che possono garantire un cambiamento condiviso e realmente utile ed
efficace.
(Inviato, e non pubblicato, alla rivista dell'Ordine degli psicologi nel 1997)
C'è uno spettro che si aggira per l'Italia: quello del giovane psicologo. Ne
parlano con terrore sindacalisti delle corporazioni professionali e docenti delle
facoltà, psichiatri imbarcati nel Polo ed autorevoli membri dell'ordine,
corporativisti dell'ultima ora e falsi "liberisti" che alzano lodi al mercato solo
quando conviene a loro.
E' ora che i giovani, soprattutto quelli che ancora non sono dispersi nei mille
luoghi del tirocinio o a casa in attesa di un posto, ma che si incontrano, si
guardano in faccia, si studiano timorosi di vedere nell'amico, nel compagno di
studi di oggi il concorrente di domani, è ora che loro, insieme ai più accorti dei
loro colleghi più anziani facciano sentire la loro voce solidale!
Ed a loro vorrei rivolgermi soprattutto nel proporre i cinque punti che seguono
che vogliono essere un primo contributo per stimolare una riflessione che sfoci
nella espressione di quella parola che manca nel dibattito attuale sul destino della
nostra professione, la loro.
1. Alla fine del biennio iniziale degli studi, a mio avviso, sarebbe opportuno
distinguere fra coloro che hanno totalizzato, negli esami fondamentali, una
media superiore a tot\trentesimi e coloro che non l'hanno totalizzata: per i primi,
e solo per i primi, dovrebbe essere possibile iscriversi nell'indirizzo
sperimentale, quello dei futuri Proff. e ricercatori. In questo modo, a mio avviso
si potrebbe attutire quella tendenza da parte dei docenti dei primi anni a
richiedere narcisisticamente che lo studente di psicologia sia una specie di
fotocopia del proprio pensiero psicologico: questo va bene se la selezione che il
docente fa è quella di reperire coloro che perpetueranno ed innoveranno il suo
lavoro, non è per niente comprensibile per tutti gli altri. Togliamogli quest'ansia
e forse saranno meno carogne!
2. Anticipare il tirocinio fin dal primo anno di studi, facendo degli ampi
accordi (remunerati) soprattutto con le istituzioni pubbliche (Usl, etc.) e private
che hanno psicologi nei propri organici, oppure, sempre con forme di tutoring
esercitate da psicologi già patentati, in istituzioni che possono diventare terreno
di osservazione per giovani psicologi (penso agli asili nido ed alle scuole
materne, o alle scuole dell'obbligo, ad esempio).
4.Centrare l'esame di stato sul tirocinio, che diventerebbe così il momento finale
della formazione in situazione. Sono d'accordo con Michelin sul fatto che siano
gli ordini ad organizzare gli esami di stato, a patto che, però, le commissioni di
esame siano istituite con le norme di un qualsiasi concorso serio.
5. Promuovere la nascita, da parte delle università e dei privati di scuole di
specializzazione non solo in psicoterapia, ma in tutti i campi applicativi della
psicologia, fissando dei criteri di validazione dei curricoli e dei docenti che siano
discussi con i rappresentanti degli psicologi che già lavorano e che agiscano
sotto il controllo dell'ordine e dello stato.
Negli ultimi quattro anni del mio percorso formativo, che coincidono col triennio
universitario, connotato dalle EPG, e col tirocinio post-lauream, ho avuto la
fortuna di incontrare psicologi preoccupati non tanto di trasmettere conoscenze o
di promuovere un apprendimento nozionistico, quanto piuttosto di stimolare una
riflessione sull’ ‘essere-divenire’ psicologo e di far capire l’importanza della
dimensione del ‘pensiero’ in tale tipo di professione.
Nel corso dell’ EPG afferente a Psicologia dei Gruppi, ho verificato direttamente
che la conoscenza psicologica è ‘intrinsecamente dialogica’, poiché deriva dalla
condivisione delle riflessioni che ciascuno fa a riguardo della propria esperienza
della realtà: ho potuto constatare quanto la mia personale interpretazione fosse
arricchita dal confronto coi miei compagni di studio, confronto da cui è esitato
un ‘surplus’ di conoscenza che nessuno di noi, individualmente, sarebbe stato in
grado di produrre.
Ho appreso dunque che la conoscenza psicologica che apre alla complessità del
sociale è quella che si produce attraverso lo scambio dialogico, ma ho appreso
anche che tale conoscenza rimane parziale, poiché non esaurisce tutti i punti di
vista, ed è inevitabilmente provvisoria, in quanto processuale. Tale EPG mi ha
dato insomma la possibilità di ripensare alla funzione del sapere psicologico e di
capire che il rischio che corre un neopsicologo è quello di appesantirsi di un
bagaglio di nozioni che, se possono fortificare chi le possiede ed essere utilizzate
a tutela del proprio ruolo, servono ben poco per leggere la complessità del reale
e per incontrare realmente l’altro (senza cioè frapporre tra noi e lui tutte le nostre
conoscenze).
Dalla frequentazione del Servizio di Neuropsichiatria Infantile e Psicologia
Clinica dell’Età Evolutiva dell’ASL di Parma ho appreso che il sapere
psicologico è utile nel momento in cui riesce ad arricchire la nostra
comprensione della realtà, e che questo accade nel momento in cui ci si mostra
aperti a molteplici approcci teorici e metodologici, pur aderendo, personalmente,
ad un unico orientamento. Ho infatti conosciuto Psicologi-Psicoterapeuti che
cercano di leggere le situazioni problematiche assumendo contemporaneamente
un’ottica individuale, familiare, sociale e comunitaria, senza rinnegare il proprio
credo psicodinamico. Credo che le teorie abbiano una funzione importante nel
processo conoscitivo in atto, perché, partendo da queste, possiamo forse cogliere
dettagli più precisi nella realtà che ci circonda. L’errore si compie nel momento
in cui si privilegiano gli oggetti della propria teoria rispetto alle sfide poste dalla
situazione che si affronta.
Altra importante conclusione cui sono giunta grazie alle stimolanti provocazioni
del Dr. Kaneklin e a quanto ho visto presso il Servizio di Neuropsichiatria
Infantile, riguarda la natura e la funzione degli strumenti psicologici. Dal
momento che tali strumenti servono ad avviare una relazione con altre persone e
che l’esito del loro uso dipende dal rapporto che lo psicologo instaura con essi
(pensiamo al colloquio, all’intervista, al questionario semi-strutturato ecc.),
qualcuno li ha definiti
strumenti-relazione. Molto utile è stato per me riflettere sul possibile uso
difensivo di tali strumenti: esso può trasformarsi in un vero e proprio agito e
celare, ad esempio, il proprio bisogno di distanziarsi dalla sofferenza altrui.
Pensiamo ad esempio ai casi in cui si frappone all’autentico ascolto dell’altro la
tecnica e fredda somministrazione di un test. Inoltre, proprio per il fatto che il
risultato dell’utilizzo degli strumenti-relazione dipende dall’uso che se ne fa, essi
si presentano come ‘tecnologie deboli’. Lo psicologo, allora deve saper gestire
non soltanto l’ansia connessa alla consapevolezza della relatività del proprio
sapere, ma anche quella connessa alla consapevolezza della ‘debolezza’ degli
strumenti di cui dispone.
In conclusione, vorrei dire due parole sul ‘gruppo del mercoledì’, in cui i
tirocinanti dell’ASL di Parma hanno la possibilità di incontrarsi e di condividere
i loro vissuti connessi al ‘divenire psicologo’, sotto la supervisione della Dr.ssa
Mussi. Ricordo che un anno fa, quando dovevo decidere dove svolgere il mio
tirocinio, ho dubitato molto se rimanere a Milano, città in cui avevo studiato, o
se rivolgermi a Parma. Ciò che mi ha fatto decidere con entusiasmo per l’ASL di
Parma è stata la proposta di un’esperienza di in cui si sarebbe cercato di dare
molto spazio alla ‘riflessione su’. Ciò che più temevo infatti era il vivere
un’esperienza senza la possibilità di condividerne il significato con colleghi e
professionisti. Il ‘gruppo del mercoledì’ mi ha richiamata sistematicamente ad
un’attribuzione di senso, permettendomi di percepire la coerenza e la continuità
del mio percorso formativo, nonché di condividere le ansie inevitabilmente
connesse a questo momento di transizione con altri tirocinanti. Di fatto, grazie
agli incontri del mercoledì, il tirocinio si sta configurando per me come un vero
e proprio rito di passaggio che sostiene-accompagna-contiene il neopsicologo
alla ricerca della propria identità professionale.
Il tirocinio in psicologia: sperimentare e pensare nelle
relazioni. L’esperienza dell’AUSL di Parma, di Fabio
Vanni
Vorrei intanto esprimere il mio piacere nell’essere qui oggi a parlare con voi dei
tirocini in psicologia, e di ciò devo ringraziare innanzitutto Dino Angelini e
Deliana Bertani, per una ragione non retorica che vorrei enunciare.
Quando ho iniziato a fare il tutor, oramai otto o nove anni fa, mi aveva colpito
una contraddizione: da un lato l’esperienza di tutor e di formatore di laureati in
psicologia ed anche l’esperienza di tirocinante, per come la ricordavo e per come
me la descrivevano i tirocinanti stessi era, e ancor più poteva essere, un
‘esperienza di grande ricchezza;
d’altro canto, come dire, non si faceva pubblicamente parola di questa potenziale
ricchezza, nel senso che non vi era praticamente traccia, nella letteratura, ma
anche nei dibattiti interni al mondo degli psicologi, di questo argomento.
Anche negli anni successivi e, diciamolo, talvolta anche oggi, ciò che veniva
fatto con i tirocinanti era traducibile sostanzialmente in un “portarseli dietro
mentre si lavora”.
Era un po’ come se non vi fosse un gran pensiero possibile dietro al fare il tutor,
come se si trattasse di un’attività che non trovava uno spazio nel quale
rappresentarsi.
“Io posso anche fare il tutor ma non ci devo pensare”, si potrebbe dire, non
posso definire, affermare, magari, chissà, con legittimo orgoglio, questa parte del
mio ruolo professionale.
Tutto ciò mi pare abbia avuto, e abbia, un ovvio correlato nella mancanza di
esposizioni “pubbliche” sul tutoring in psicologia quali convegni, seminari,
momenti formativi per i tutors, ma anche discussione su come si fanno le cose:
zero o quasi.
Io non credo che questa modalità di formarsi sia la più indicata (sarebbe
probabilmente preferibile, almeno da un certo punto in avanti, un confronto
continuo e mirato con l’esperienza), credo invece che produca diversi possibili
esiti perversi: è evidente intanto il suo intento protettivo del sapere accademico
ma è anche palese l’enormità della richiesta che viene fatta al giovane laureato.
Abbiamo infatti ascoltato molte cose importanti in questi seminari sullo stato di
margine, sulle cose che accadono quando vi è un cambiamento, un passaggio di
status, ebbene la laurea può essere considerata un passaggio di questo tipo, forse
l’ultima prova di accesso all’età adulta: fino adesso mi sono ‘preparato per’,
potevo quindi sempre vedere un po’ lontano l’orizzonte della concretezza
operativa, adesso non più, è lì che mi aspetta, ci sono, posso/devo fare.
Fatto sta che il tirocinio giunge a questo punto, che è quindi un punto di crisi,
una crisi che è costituita dall’intrecciarsi di diverse dimensioni:
Una è la dimensione della relazione con l’oggetto reale esterno del tirocinio,
ovvero quella del rapporto con il paziente, il contesto organizzativo, il contesto
professionale: qui si tratta di mettere in contatto il mio sfaccettato sapere previo
con il dato fattuale e produrne una revisione che lo faccia diventare più concreto,
meno pregiudiziale, che tenga conto di più e meglio della realtà; Ma, intrecciata
con questa, vi è un’altra dimensione che è quella che riguarda la relazione con
quel particolare oggetto interno che è costituito dal ‘diventare psicologo’, ovvero
l’obiettivo reale interno del tirocinio, obiettivo che viene sancito socialmente con
il superamento dell’esame di stato e l’iscrizione all’albo.
D’altra parte e da un altro punto di vista, questa relazione fra ciò che sono e ciò
che voglio diventare, ‘l’idea di futuro’, direbbe Charmet, costituisce l’ambito, la
scena del manifestarsi dei fantasmi in ordine all’adultità e dunque
all’abbandono, l’ennesimo, dell’adolescenza.
Nel nostro modo d’intendere il tirocinio riteniamo che il tutor possa avere
un’importante funzione nell’accompagnare e punteggiare con pensieri e azioni
questo delicato passaggio, ma un’altra istanza, un altro livello di relazione,
quella con il gruppo dei colleghi di tirocinio, può arricchire utilmente
l’esperienza.
In questi anni la nostra riflessione (dico nostra perché condivisa con Antonella
Mussi, la collega che guida i gruppi, ma anche perché frutto del confronto con
altri colleghi tutors e con i tirocinanti ed ex tirocinanti stessi) ci ha portato a
progettare e poi a costruire un momento d’incontro periodico del gruppo dei
tirocinanti.
Ogni due settimane Antonella conduce il gruppo attraverso questo sentiero che
prova a mettere a fuoco quello che, per ognuno, è il divenire psicologo.
Attraverso un metodo che adatta in modo originale tecniche psicodrammatiche,
si aiuta ogni tirocinante a trovare uno spazio di pensiero sulla propria nascente
identità professionale: la possibilità di condividere alla pari le esperienze
provenienti dal proprio tirocinio, ma anche le letture che di esse vengono date
dal gruppo e dalla conduttrice consentono un arricchimento considerevole del
vissuto.
Consentitemi infine di fare alcune considerazioni sul tutoring dal punto di vista
del tutor.
La mia esperienza di tutor è stata, devo dire, assai diversificata: in alcuni casi era
chiaro che il tirocinio veniva vissuto come un pedaggio da pagare prima di
diventare psicologi, ma nella maggior parte dei casi ciò che mi sembra
caratterizzi il tirocinante in psicologia è la sua esperienza d’incompiutezza. , e
dunque il porsi in termini dubbiosi e interrogativi sul suo/nostro sapere.
Quando questo avviene, cioè in varia misura quasi sempre, il tutor è a sua volta
costretto ad interrogarsi sui fondamenti delle sue conoscenze e mi pare che,
riprendendo ciò che diceva Marianna Pattini, se c’è consapevolezza
dell’intrinseca debolezza epistemica del nostro sapere ed operare (debolezza che
non è fragilità) ciò costituisce uno stimolo vivificante e proficuo.
Va anche detto che c’è un altro livello di possibile sollecitazione reciproca fra le
due ‘generazioni professionali’ ed è quello appunto intergruppale, ovvero vi è
una relazione che il gruppo dei tirocinanti (da noi, di solito, costituito da 10-12
persone) intrattiene con il gruppo degli psicologi dell’azienda (poco più di una
trentina).
Vi abbiamo portato alcune copie degli atti dell’incontro che si è svolto a marzo
scorso a conclusione del seminario “Dalla domanda alla progettazione….”,
incontro nel quale il gruppo dei
E’ stata un’esperienza per tutti, credo, significativa che ha avuto, tra l’altro, per i
tirocinanti una valenza di rito d’ingresso in una comunità professionale.
Accenno solamente ad un ultimo aspetto del seminario che ha a che fare sempre
con la tipologia dei saperi:
Mi rendo conto di aver toccato molti temi, alcuni in modo appena accennato,
realizzando un discorso forse un po’ disomogeneo ma che spero ricco di
sollecitazioni e possibili approfondimenti.
In sintesi, ed in conclusione, se pensiamo al tirocinio in psicologia come ad una
fase di transizione fra un prima fortemente astratto ed idealizzato ed un dopo
maggiormente concreto, definito, orientato, ne consegue certamente l’esigenza
di offrire ai nostri giovani l’opportunità di cominciare a mettere ‘le mani in
pasta’ nel fare, ma, parallelamente, riteniamo di dover consentire ed ac-cogliere
uno spazio di ‘pensiero su’ ciò che si sta facendo, proprio quello che, mi sembra,
avete consentito a noi qui stamani.
Bibliografia:
Laffi S. (2001), Funzione del tirocinio nel mercato del lavoro oggi, relazione al
seminario “Il tirocinio come cerimonia di aggregazione”, Reggio Emilia, 7.5.01
Premessa
Trovo che iniziare le cose abbia una sua specifica difficoltà e potenzialità. Essa
si ritrova anche nello svolgere il ruolo di tirocinante, nel cominciare il primo
lavoro, così come in tante situazioni connotate dal cambiamento, dalla novità e
dall’esigenza di imparare. In questa relazione affronto in modo informale il tema
del tirocinio e utilizzo, in modo non del tutto sequenziale, la mia esperienza
diretta di tirocinante in psicologia e successivamente di tirocinante in
psicoterapia, posizione in cui mi trovo attualmente.
Questa relazione rappresenta un modo per cercare di dare un senso alla mia
esperienza a partire da una lettura psicodinamica del tirocinio, secondo il vertice
di osservazione gruppale/istituzionale. Mi piacerebbe verificare se le
interpretazioni che abbozzo sono condivise da altri. 1
Il tirocinante osservatore
Dal punto di vista interno del tirocinante, credo che l’inizio dell’esperienza di
tirocinio sia uno shock, essendo lui/lei invaso di curiosità, frustrazione,
delusione, paura, attesa, entusiasmo … e probabilmente una miriade di
sensazioni anche opposte tra loro difficilmente comprensibili all’inizio, così tutte
amalgamate.
Quando queste esigenze dell’équipe e del tirocinante sono così forti mi sembra
molto probabile che il nuovo arrivato, principiante osservatore, sia influenzato
dal gruppo verso la negazione delle proprie idee, come a fare il morto, negare la
sua stessa esistenza, in un esercizio collettivo di misconoscimento del suo ruolo
di persona in apprendimento, ma anche del ruolo di osservatore, che, pur
essendogli stato attribuito, non viene tematizzato ed elaborato.
In parte perché è difficile lasciarsi guardare. Non solo perché ciò suscita dei
sentimenti collegati all’idea di valutazione, che molto spesso è vissuta in modo
problematico nella nostra cultura, ma anche perché lasciarsi guardare attribuisce
al tempo che passa, allo spazio, all’incontro tra le persone che li condividono,
una tonalità del tutto diversa. La presenza del tirocinante vissuto come un
osservatore impone al gruppo di prendere in considerazione il proprio
osservatore interiore, e, a seconda di come questa figura viene percepita, impone
al gruppo di prendersi in carico, di valutarsi, di cambiare, di percepire la propria
inadeguatezza.
Credo che i gruppi, come gli individui singoli, abbiano bisogno di scegliere di
voler cambiare, di essere motivati da uno stato di bisogno o di insoddisfazione,
di poter utilizzare le proprie difese verso il cambiamento sino a che sono
necessarie per mettere ordine nella turbolenza della fase di transizione, in attesa
di trovarne altre. In altre parole, come si diceva all’inizio, i gruppi hanno
bisogno di poter riflettere e negoziare i cambiamenti a cui sono sottoposti,
mentre spesso non vengono coinvolti: non si sa se vogliono i tirocinanti
(quanti?) e perché.
Tuttavia, credo che a volte questa alleanza affettuosa tra tutor e tirocinante possa
ricadere negativamente sul tirocinio, nella misura in cui questa può assumere il
significato di una reazione del tutor a dinamiche tra colleghi, o il tirocinante
venga visto dall’equipe come un inviato speciale che sostiene il tutor che cerca
di somministrare il famigerato “cambiamento” di soppiatto. Addirittura il
tirocinante può essere visto come un emissario della Direzione, che mira a
influenzare il gruppo in una certa direzione.
Sotto certi aspetti, questa associazione tra l’essere giovani, tirocinanti, all’inizio
della professione, è una consuetudine che scomparirà presto, in quanto la
crescente mobilità impone frequenti cambi di lavoro, reinserimenti, formazione
continua, a cui i gruppi di lavoro italiani non sono abituati, specialmente quelli
all’interno delle aziende che offrono servizi di pubblica utilità. Mentre in altri
paesi europei è frequente trovare che il manager di una azienda anche grande ha
meno di trent’anni, questa mi sembra un’evenienza più rara in Italia, dove la
durata della carriera formativa così come era organizzata fino a poco tempo fa lo
rendeva praticamente impossibile, facilitando all’interno dei gruppi di lavoro il
consolidarsi di ruoli correlati al fattore “età” e “anzianità di permanenza
nell’organizzazione” in modo molto scontato: i più vecchi sono in posizioni
dirigenziali più dei giovani (anche se non sempre “hanno studiato”
specificatamente per questo) e sono considerati in generale più esperti dei
giovani (che tendono gradualmente a riscattarsi per la loro maggiore conoscenza
delle tecnologie informatiche). Chiunque sia tirocinante, giovane, appena entrato
nella professione, quest’ultimo quindi retribuito, con maggiore forza contrattuale
e portatore di un approccio più consolidato e più personalizzato, è soggetto a
rientrare nella categoria “giovane e inesperto”, a volte designato con l’epiteto di
“ragazza” o “ragazzo”.
Dalla consapevolezza precisa delle differenze di carriera professionale e delle
competenze acquisite discende invece una vita organizzativa diversa. E’ evidente
infatti che se i ruoli professionali sono distinti in base alle diverse competenze le
persone partecipano al lavoro apportando ognuno un contributo differente e
complementare a quello degli altri, in vista di un obiettivo comune, il cui
raggiungimento incide sul riconoscimento delle proprie capacità e sul sentimento
di efficacia. Inoltre, contribuisce a diminuire il timore di depersonalizzazione
che la partecipazione ad un gruppo sempre comporta, ancorando il soggetto
all’obiettivo del gruppo di lavoro piuttosto che ad altri scopi non dichiarati.
Per esempio, riprendendo quanto detto più sopra, mi sono a lungo chiesta con
estremo fastidio perché in un servizio dove ero tirocinante e dove lavoravo non
mi chiamassero per nome ma “ragazza”. Mi accorgo ora che in questo desiderio
legittimo di essere chiamata per nome sono insite in realtà ancora più trappole di
quelle che avrei voluto evitare rivendicando questo diritto. Spesso i miei colleghi
mi chiedevano che cosa c’era di male ad essere una “ragazza”, come se io mi
vergognassi di uno stato che loro ritenevano positivo o invidiavano. Più tardi ho
realizzato che la chiave di lettura della situazione in cui mi trovavo poteva essere
il fatto che entrambi stavamo colludendo, cioè stavamo usando la parte di me
che è una ragazza per motivi a lei estranei, senza in realtà voler condividere con
lei o starci insieme.
Parlando di intimità, tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza del tirocinio
ricorderanno i tanti momenti teneri, di soddisfazione, di affetto, di euforia, di
confronto. All’opposto di quanto esposto sopra, a volte si sviluppa tra tirocinante
e tutor all’interno dell’equipe un rapporto effettivamente molto stretto. Di più, in
certe fasi il rapporto può essere connotato da corteggiamento, seduzione e
desiderio sessuale, non infrequente tra persone di età diversa in rapporto di
apprendimento.
Conclusioni
– non è mai facile. Lo è tanto di meno quanto più questo ospite si mette molto
vicino a noi : non solo nella nostra nazione o nella nostra città o nel nostro
quartiere, ma proprio in casa nostra o nel nostro luogo abituale di lavoro, accanto
a noi.
I tirocinanti psicologi sono ospiti regolari e previsti ormai da anni nella nostra
Unità Operativa di Psicologia dell’Azienda Provinciale Sanitaria di Trento, un
servizio composto soltanto da psicologi ed il cui spettro di azione spazia
praticamente a 360° : dall’età evolutiva a quella adulta, dall'ambito
del consultorio familiare a quello dei reparti ospedalieri, dal lavoro con le scuole
per la Legge 104 alla collaborazione con i servizi sociali, senza tralasciare i
progetti specifici come quello più recente rivolto agli adolescenti.
Una vera manna per chi vuole (e deve) offrire opportunità di apprendimento e
formazione ai giovani colleghi : non c’è che l’imbarazzo della scelta.
Eppure non è facile accogliere questi ospiti particolari che sono i tirocinanti
psicologi, perché – anche se la deontologia professionale e la solidarietà ci
spingono a farlo volentieri – l’essere tutori di questi giovani colleghi in
formazione ci mette poco o tanto di fronte all’inevitabile confronto con l’esterno,
con colui che viene da fuori per capire il cosa, il come ed il perché di quello che
è il nostro modo quotidiano di lavorare e di essere servizio di psicologia .
Quando iniziano, i nostri tirocinanti psicologi sono per lo più piuttosto timidi e
silenziosi, spesso esitanti nel farci le domande. E tante di queste si fermano sulla
punta della loro lingua.
In realtà non solo in questo caso non esistono domande stupide, ma anche quelle
che sembrerebbero tali sono per noi occasione per fermarci a riflettere.
Lavorando da molto tempo (nel distretto dove opero io siamo tre psicologi, tutti
con anzianità di servizio superiore ai 20 anni), capita inevitabilmente di
sclerotizzarsi un pò. E quindi il tirocinante, con i suoi interrogativi, spesso ci
porta a riflettere su quello che a noi pare scontato ed ovvio, ma che non sempre è
davvero tale.
“Perché per questo paziente è più indicata una psicoterapia di gruppo?” “Il
sostegno psicologico può essere fatto anche dall’assistente sociale?”
“Ma quando uno psicologo parla con gli insegnanti di un ragazzo che non
conosce direttamente, come può dare dei suggerimenti?”
“Con che criteri decidete di discutere un caso nella riunione d’équipe?”
Come genitori di bambini nell’età dei “perché?”, noi tutor siamo portati non solo
a presentare ai tirocinanti un sapere teorico-tecnico, ma anche a confrontarci con
noi stessi e con la nostra modalità quotidiana di operare sia come singoli
professionisti sia come équipe di lavoro sia infine come servizio nel suo
complesso.
E questa è una grande opportunità per confrontarsi anche con i nostri inevitabili
accomodamenti, razionalizzazioni, compromessi metodologici e scorciatoie
operative. Tutte cose spesso storicamente giustificate, operativamente inevitabili
e tecnicamente comprensibili. Spesso, ma non sempre e non totalmente.
- 1
Gli eventuali tirocinanti lettori di questo nostro articolo non si offendano : se li
accostiamo ai bambini nell'età dei perché non è certo per una considerazione a
bassa definizione . Tutt'altro.
Il tirocinante "ingenuo" che fa tante domande può sembrare un involontario
intralcio ai lavori in corso. Ma in realtà può dare molto, proprio come stimolo
involontario ed inconsapevole alla capa-cità metacognitiva ed autoriflessiva del
singolo psicologo come dell'intero team professionale.
Stiamo parlando di qualcosa di più complesso che forse non accade spesso ma
che non è nemmeno così raro. E' qualcosa che può verificarsi più facilmente
quando il tirocinio si snoda sull'intero anno e prevede una partecipazione diretta
e continuativa dell'allievo al colloquio clinico. Ci riferiamo alla possibilità che il
tirocinante - senza saperlo e senza volerlo - possa svolgere una funzione di
supervisore del suo tutor o del gruppo di lavoro.
Come Patrick Casement nel suo bel libro "Apprendere dal paziente" ci ha
spiegato l'involontaria funzione didattica che può avere a volte chi si rivolge a
noi, così potremmo titolare questa particolare condizione "Apprendere dal
tirocinante".
Vorrei presentarvi, come esempio, un breve racconto clinico.
Alla fine del primo colloquio, lo psicologo fa solo un breve commento che
riprende il ricordo della consultazione di sei anni prima con la madre di Clara, di
una situazione estremamente difficile : "Dev'essere stato difficile per lei. Sua
sorella era al centro di tutte le attenzioni. Mi ricordo di essermi posto il problema
di come poteva stare lei, la sorella di Enrica; ma non avevo trovato modo e
spazio per parlarne con sua madre."
- 2
"Mi trovo qui, in questo ambulatorio, ma voi non ci siete. Al vostro posto c'è un
piccolo gruppo, sei persone, coordinate da un chirurgo il cui progetto è di abolire
la pena di morte. C'è una ragazza che sta male e nessuno presta attenzione alla
mia presenza. Nessuno sembra volermi ascoltare, io sono molto angosciata,
risentita e delusa. Cerco di farmi ascoltare e di protestare, ma il chirurgo mi
liquida dicendo vieni, vieni che devo operare". Mi fanno stendere su di un lettino
bianco ed accanto a me, immerso in una vasca, si trova un uomo malato di
tumore. Il medico mi infila un ago nel braccio per prendermi il sangue e darlo
all'altro."
Il sogno viene letto e restituito dallo psicologo in questa chiave : per lunghi anni
tutte le energie, l'attenzione e le preoccupazioni della famiglia sono state
convogliate sulla malattia della sorella e su altri problemi (recentemente la
madre di Clara è stata operata di iseterctomia per rimuovere dei fibromi uterini),
mettendo sistematicamente in secondo piano le esigenze affettive della paziente.
E' come se le avessero "tolto il sangue" rilegandola al ruolo della "figlia che sta
bene" e che quindi deve sopportare il peso di grandi responsabilità.
- 3
Questo resoconto clinico, seppur breve e parziale, dimostra non solo come sia
possibile che anche uno psicoterapeuta esperto possa a volte distrarsi ed
inciampare su qualcosa di molto evidente, ma anche che la presenza
apparentemente solo “passiva e discente” quale quella della psicologa tirocinante
possa invece diventare, seppur momentaneamente, molto “attiva e docente”
Idee per una ridefinizione del percorso di tirocinio degli
psicologi, di Susy Ammaini, Maria Mori, Simone Oliva
Fin dalla sua entrata nell’ambiente di lavoro, il tirocinante dovrebbe aver chiaro
a chi rivolgersi sempre in caso di bisogno, per qualsiasi motivo e per quali
attività è richiesta la sua partecipazione.
Deve esistere, dunque, un “tutor d’aula” che lo orienti all’interno del sistema in
base alle necessità del tirocinante e dei servizi, e che lo segua nei momenti di
difficoltà di qualsiasi tipo.
L’elaborato, inoltre, nelle mani del tutor è un buon indice della qualità del lavoro
svolto notando particolari nuovi tramite gli occhi del suo tirocinante e un
prezioso spunto per migliorare, eventualmente, il proprio metodo di tutoring per
il bene dei tirocinanti successivi. L’esperienza in-segna.
I tempi
I neo laureati interessati a svolgere tutto o parte del loro tirocinio annuale presso
l’azienda USL, dovranno far pervenire la loro richiesta entro il 10 febbraio/20
agosto, cioè un mese prima dalla data d’inizio.
Entro il 15 marzo/15 settembre verrà quindi fatta una griglia dei tutor, che
mostrerà in modo chiaro a quale tutor, per ciascun semestre, il ragazzo/ a è
stato/a assegnato/a.
Ad esempio:
Si inizia così una ulteriore fase, quella dell’orientamento, che terminerà alla fine
del mese, il 30 marzo/30 settembre. A questo scopo sono state pensate diverse
attività condotte ciascuna da differenti attori, tra cui il coordinatore ed il tutor
“d’aula” che sono i riferimenti principali per i giovani tirocinanti.
1° SEMESTRE 2° SEMESTRE
W ore Convegno cure palliative, supervisioni età evolutiva (Pietropolli),
supervisione work + gruppo tirocinanti
legenda:
X= att. monoprofessionali con il tutor
Y= att. poliprofess. nei primi 3 mesi del semestre
Z= att. poliprofess. negli ultimi 3 mesi del semestre
W= att. formative
Il coordinatore deve avere un continuo feedback con i referenti dei servizi a cui
accedono i tirocinanti. I servizi infatti hanno esigenze di personale che possono
mutare nel tempo. Nell’assegnazione egli deve tenere conto di queste necessità
in modo da non sovraccaricarli o privarli di tirocinanti. Prima dell’assegnazione,
ma anche in itinere, deve verificare con i referenti la effettiva disponibilità dei
servizi interessati a farsi carico della formazione dei tirocinanti. tutto dovrebbe
accadere ottemperando le esigenze del tirocinante e del servizio di autenticità e
di flessibilità del percorso di tirocinio.
A) Accoglienza
A questo punto, se il ragazzo sarà ritenuto idoneo, si procederà con
l’assegnazione del Tutor, annuale o semestrale. Inoltre gli saranno consegnati i
moduli da consegnare in Università per ufficializzare l’inizio del tirocinio.
B) Orientamento
C) La Scelta
E) Il Congedo
Alla fine di ogni semestre il tirocinante deve consegnare una relazione scritta
sulla esperienza svolta all’interno di ogni ambito da esso scelto. Dovrà così
indicare il suo grado di soddisfacimento dell’attività svolta nei servizi quanto
con il tutor. Gli elaborati saranno conservati dal coordinatore che in fase di
orientamento li metterà a disposizione dei nuovi tirocinanti.
Il tutor d’aula è una figura esterna alla struttura che, a cadenza mensile, incontra
tutti i tirocinanti (eventualmente in sedi separate ‘nuovi’ e ‘vecchi’) per
raccogliere le loro impressioni e le loro sensazioni sul lavoro che stanno
svolgendo nei diversi ambiti.
La figura del Tutor
La figura del tutor verrà assegnata prima della fase di orientamento in quanto il
tempo trascorso con questo non sarà la porzione maggiore del tempo totale. Il
percorso che il tirocinante farà con il Tutor sarà in linea con gli impegni dello
stesso Tutor. Seguirà alcuni colloqui e lo affiancherà nelle attività in cui sarà
richiesto il suo aiuto.
Il tutor del servizio deve essere in continuo contatto con il Coordinatore dei
tirocinanti per due motivi.
DATI ANAGRAFICI :
Cognome _________________________________
Nome ____________________________________
Residente in via
_________________________________________________________
prov. __________________
Tel.
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TITOLI DI STUDIO :
Maturità
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Laurea in
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conseguita presso
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Abstract
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ESPERIENZE FORMATIVE :
Esperienze di lavoro
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Eventuali approfondimenti in ambito universitario (seminari, convegni,
gruppi di lavoro...)
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Infanzia e latenza 0 1 2 3 4 5
Pre-adolescenza 0 1 2 3 4 5
Adolescenza - 0 1 2 3 4 5
Giovani adulti
Adulti 0 1 2 3 4 5
Anziani 0 1 2 3 4 5
Psichiatria Adulti 0 1 2 3 4 5
Neuropsichiatria 0 1 2 3 4 5
Infantile
SERT 0 1 2 3 4 5
Immigrazione 0 1 2 3 4 5
Disabilità 0 1 2 3 4 5
Disagio etàev. 0 1 2 3 4 5
Pensiero e 0 1 2 3 4 5
Linguaggio
Testistica 0 1 2 3 4 5
Psi Osdped 0 1 2 3 4 5