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Indice

Una premessa, di Luciano Arcuri

Ragioni e riflessioni iniziali che hanno condotto ai sei seminari sul rapporto
tirocinante – tutor ed alla nascita di questo testo, di Leonardo Angelini

1ª parte: Tirocinio, tutoring e professioni del welfare

Tirocinio e professioni del welfare ieri ed oggi, di Leonardo Angelini e


Deliana Bertani

La professione e la professione di tutor, di Leonardo Angelini e Deliana


Bertani

Funzioni del tirocinio nel mercato del lavoro oggi, di Stefano Laffi

2ª parte: Tirocinante e tutor nel processo formativo

Il tirocinio nel processo formativo, di Luigi Guerra

3ª parte: Verso l’età adulta

Dagli ideali adolescenziali a quelli adulti: metamorfosi del tirocinante, di


Leonardo Angelini e Deliana Bertani

Tirocinanti e tutor: riflessioni sui significati di una esperienza di tutoring, di


Angela Dardani

L’accompagnamento nei processi maturativi dei giovani: le funzioni del


tutoring nei confronti dei giovani volontari e tirocinanti, di Leonardo
Angelini

La prospettiva del cambiamento: una minaccia o una promessa?


Considerazioni sull’esperienza del cambiamento a partire da ciò che
avviene in un gruppo di volontariato giovanile: Gancio Originale1, di
Deliana Bertani
4ª parte: Sul tirocinio post-lauream in psicologia

Chi ha paura dei giovani psicologi? di Leonardo Angelini

La funzione riflessiva nel tirocinante in psicologia, di Marianna Pattini

Il tirocinio in psicologia: sperimentare e pensare nelle relazioni.


L’esperienza dell’AUSL di Parma, di Fabio Vanni

Il punto di vista di una psicoterapeuta tirocinante/giovane psicologa, di


Giuliana Nico

Il tirocinante psicologo : involontario stimolo, inconsapevole supervisore,


di Fabrizio Rizzi e Valentina Stenico

Idee per una ridefinizione del percorso di tirocinio degli psicologi, di Susy
Ammaini, Maria Mori, Simone Oliva

Scheda di auto-presentazione del candidato tirocinante, di Susy Ammaini,


Leonardo Angelini, Elena Manzini, Maria Mori, Simone Oliva, Laura
Panna

Gli autori (nel Settembre 2002):


Una premessa, di Luciano Arcuri

Il volume che vi è capitato in mano vede la luce in un momento cruciale per il


mondo della formazione superiore italiana: da circa un anno il sistema
universitario nazionale ha imboccato la strada del 3+2, ossia la nuova
organizzazione degli studi basata sulla articolazione di lauree di primo livello e
lauree specialistiche. Gli Atenei, talvolta in maniera agile, molto più spesso con
difficoltà, lentezza, perplessità diffuse, hanno ridisegnato la loro offerta
formativa e hanno iniziato a ripensare alla struttura interna delle attività
didattiche che ne costituiscono l’ossatura. Le migliaia di studenti che popolano
le aule e i laboratori delle Università italiane stanno sperimentando le
innumerevoli ambiguità, sfuocatezze, imprecisioni, indecisioni, che segnano
questo momento di passaggio. I più sfortunati sono coloro che entrati in un
sistema universitario che immaginavano come gli uffici di orientamento alla
scelta avevano loro descritto, hanno poi direttamente vissuto il cambiamento che
si stava operando, trovando regole nuove, criteri di valutazione profondamente
trasformati, confrontandosi quotidianamente con esperienze poco decifrabili e
con progetti di vita dagli orizzonti incerti.

Chi scrive queste righe di presentazione ha vissuto in maniera estremamente


sofferta questa fase di passaggio: responsabile delle attività di orientamento e
tutorato destinate ai più di 60.000 studenti dell’Università di Padova, ha
conquistato dal proprio Ateneo, proprio nell’anno di passaggio al nuovo
ordinamento degli studi, l’attivazione di un nuovo servizio di tutorato, realizzato
con l’obiettivo di intervenire in maniera molto precoce sugli studenti in ingresso
nel mondo dell’università, in modo da individuare situazioni di debito formativo
da pagare. Gli interventi erano stati pensati per realizzare consulenze
personalizzate capaci di favorire l’acquisizione del metodo di studio, la gestione
delle situazioni di apprendimento, la comprensione degli obiettivi formativi, il
rapporto con i docenti titolari dei corsi di base. In più, grossa novità per il
sistema universitario italiano, il decollo del progetto è avvenuto con il
reclutamento di 100 neolaureati con la funzione di tutor junior: provenendo dalle
13 Facoltà dell’Ateneo, sono stati selezionati sulla base della competenza e del
merito ed opportunamente formati da una équipe di esperti delle attività di tuto-
rato. Il progetto ha avuto un indubbio successo, ma i suoi obiettivi iniziali hanno
dovuto essere ridefiniti, alla luce dei problemi che via via emergevano: molti
neo-iscritti conoscevano poco o nulla del nuovo ordinamento degli studi e se
chiedevano notizie precise agli uffici di informazione, nelle presidenze, o ai
singoli docenti ottenevano risposte titubanti o dichiarazioni di non conoscenza.
Sono stati i tutor junior, fino a poco prima studenti essi stessi, a costituire la più
documentata e credibile interfaccia tra i dubbi delle matricole e le poche certezze
del mondo accademico. Ad essi, e non di rado solo ad essi, dobbiamo se tanti
inscritti hanno potuto superare momenti di assoluta difficoltà nell’interpretare un
nuovo dai contorni così imprecisi.

Il sistema universitario italiano ha questa strana vocazione a rendere difficile il


contatto con i propri utenti: come se una sorta di darwinismo sociale fosse
l’implicita e non dichiarata filosofia a cui tutti ci rapportiamo. In tanti Atenei che
vivono strutturalmente in maniera precaria, le difficoltà di funzionamento, la
scarsezza delle risorse, le carenze dei servizi finiscono per diventare lo scenario
di un vero campo di battaglia dove i più resistenti, i più motivati, i più capaci
riescono a sopravvivere, a testimoniare la propria adeguatezza ad affrontare i
campi di battaglia della vita professionale e lavorativa. Gli altri, il più delle volte
in maniera rassegnata e indolore, trovano soluzioni alternative capaci di
impegnare meno la propria autostima e di ridimensionare il livello di aspirazione
a cui puntavano. Ma è questa la funzione dell’Università? Quella, cioè, di
diventare unicamente una palestra in cui si anticipano gli scenari del mondo
professionale, della lotta per la valorizzazione delle proprie competenze e
abilità? O forse non è quella di costruire interessi, di sollecitare all’esplorazione
dell’ignoto, di suscitare il gusto dell’arricchimento culturale? In questo secondo
caso, non possiamo limitarci a fare la conta di chi vince e di chi perde, ma
dobbiamo porci l’obiettivo di individuare il terreno che farà crescere il grano
migliore, anche se apparentemente è un terreno arso e spinoso.

Quello dei tutor è un capitale umano da investire con un’ottica preventiva, prima
che i problemi diventino troppo complicati: i dati dei Nuclei di Valutazione degli
Atenei italiani ci dicono che è il primo periodo di inserimento nel mondo
dell’università quello che produce le più frequenti occasioni di insuccesso, crisi,
demotivazione. Se non siamo in grado di intervenire per prenderci carico delle
situazioni di carenza conoscitiva e delle difficoltà di gestione delle proprie abilità
di base che non pochi studenti presentano, corriamo il rischio di rendere ancora
più arso un terreno che potrebbe, se opportunamente trattato, diventare fertile e
produttivo.

Ho parlato del difficile momento di partenza del nuovo ordinamento degli studi
che caratterizza tutto il sistema universitario italiano per arrivare ad esprimere le
mie ambivalenti sensazioni a proposito del nuovo che ci attende, che
direttamente viene illustrato dal caso degli psicologi. In maniera estremamente
semplificata possiamo distinguere due visioni del mondo molto diverse a
proposito del modo in cui la formazione superiore e il mondo delle esperienze
professionali devono dialogare ed interagire. Secondo una impostazione
“tradizionale” che per tanto tempo ha segnato le scelte culturali del mondo
universitario, l’esperienza di formazione doveva concentrarsi sull’acquisizione
di conoscenze di base, di metodologie di tipo generale, sullo sviluppo di una
concezione critica rispetto ai modelli e agli approcci teorici, lasciando i problemi
della traduzione delle conoscenze acquisite e del senso critico maturato a fasi
successive, quelle del primo contatto con gli scenari del mondo delle pratiche
professionali, in preparazione all’esame di stato e all’ingresso nella “tribù” degli
psicologi. Ma da alcuni anni, sulla spinta di un complesso di fattori non sempre
coerenti, è maturata un a “nuova” impostazione, che privilegia un concetto di
formazione basato sulle precoci incursioni nel mondo del lavoro, nel panorama
dei problemi e delle pratiche professionali: sostanzialmente la logica è quella che
un percorso di formazione non può dirsi realizzato con successo se non ci si
prende carico non solo delle conoscenze ma anche delle concrete operazioni che
producono “azioni da psicologo”. Se il pericolo del primo approccio era quello
di coltivare esperienze culturali spesso inconsapevoli del mondo concreto
dell’operatività, il pericolo del secondo è quello di considerare la cultura
universitaria unicamente come un mezzo per raggiungere i traguardi “veri”,
quelli della piena realizzazione professionale. E questa è una concezione che ha
largo seguito tra i “nuovi” studenti, ma anche tra gli operatori professionali delle
realtà industriali e finanziarie in forte crescita. La richiesta è semplice e
convincente: “limitatevi a darci gli strumenti concettuali per interpretare la
realtà, quella fuori delle aule universitarie, a darci gli strumenti tecnici per
intervenire, e tutto funzionerà meglio”. La plausibile conclusione è che
l’esperienza universitaria è una sorta di “servizio militare” al quale nessuno può
sottrarsi perché obbligatorio, ma dal quale è opportuno uscire il più in fretta
possibile, perché “la vita è altrove”.

La riforma dell’ordinamento degli studi universitari che abbiamo appena


intrapreso è decisamente più in sintonia con questa seconda impostazione, tanto
da prevedere che alla fine del primo triennio il giovane laureato possieda le
tecniche per rendersi operativo nel mercato del lavoro, anche se con una limitata
autonomia decisionale. Ma abbiamo costruttivamente ragionato sulle
caratteristiche che uno psicologo deve possedere per esercitare con competenza
la professione e sui modi concreti con cui le abilità professionali possono essere
acquisite? Il problema non è banale tenuto conto che stiamo parlando di un
mercato del lavoro che sta diventando sempre più ampio e articolato, dato che lo
scenario non è più quello minutamente locale ma sta diventando quello
enormemente più vasto, segnato dai confini europei. Se vogliamo seriamente
rispondere alla domanda che ci siamo posti, non abbiamo molti riferimenti a cui
richiamarci: paradossalmente gli psicologi hanno attentamente studiato il lavoro
delle altre figure professionali ma hanno dedicato poca attenzione al loro
ambito.

Partiamo allora da una semplice definizione di Roe (2001) il quale afferma che”
lo psicologo è un professionista che ha avuto un’educazione accademica e che
aiuta i clienti a capire e a risolvere i problemi applicando le teorie e i metodi
della psicologia”. Da cui si evince che il percorso di formazione che porta alla
professione è l’educazione di tipo accademico. Una seconda implicazione è che
non esiste un’area generale di professionalità in psicologia. In una certa misura
tutti coloro che esercitano la professione lo fanno in qualità di specialisti.
Insomma gli psicologi assomigliano molto di più agli
ingegneriRtorniamocheaimedicialloradialbaseproblema. di descrivere gli aspetti
che qualificano la professione dello psicologo. Per fare questo, possiamo
concentrarci sull’analisi del percorso educativo che consente di raggiungere la
qualificazione per esercitare in maniera indipendente, ma possiamo anche
focalizzarci sulle competenze che uno psicologo deve possedere per incarnare in
maniera adeguata il proprio ruolo. Se scegliamo la prima via ci riferiamo ad una
idea di università di tipo “tradizionale”, se scegliamo la seconda abbiamo in
mente il modello di università che la riforma ci sta proponendo. In ambedue i
casi corriamo il rischio di limitare la nostra attenzione solo ad un corno del
dilemma. Abbiamo invece bisogno di una architettura più complessa ed
integrata, in cui la competenza sperimentata dal professionista nello scenario del
suo impegno di lavoro derivi da una combinazione non casuale di conoscenze,
abilità e atteggiamenti.

Mentre le conoscenze e le abilità possono svilupparsi anche in maniera isolata,


anche se la loro valutazione può essere effettuata separatamente, le competenze
con cui finiscono per interfacciarsi sono multiple e coordinateMa.questo lavoro
di connessione non può che realizzarsi se non nell’ambito di un progetto
coordinato, dove dallo stadio delle competenze di base (quelle acquisite nel
percorso interno di formazione) si passa alle competenze iniziali (quelle che
derivano da un impegno monitorato da un supervisore) fino alle competenze
avanzate (quelle che segnano il passaggio dalla condizione di psicologo junior a
quella di psicologo senior). Come è possibile intuire, se diventasse operante un
modello del genere, non ci sarebbe più la sostanziale frattura tra il periodo della
formazione e quello della costruzione delle competenze professionali, ma tutto si
inquadrerebbe nell’architettura dei passaggi graduali, monitorati, e coordinati. E
questo significherebbe una rivisitazione dei rapporti tra mondo della professione
e mondo dell’accademia, per il tramite dello strumento prezioso del tirocinio,
prima e dopo la laurea. La lettura dei capitoli che questo volume contiene può
essere un punto di partenza per prendere consapevolezza dello stato dell’arte
maturato alla fine del secolo scorso, ma può costituire un utile esercizio della
nostra immaginazione per rappresentarci scenari diversi realizzabili in questo
millennio, solo che i due mondi trovino un metodo civile ed intellettualmente
onesto per collaborare.
Ragioni e riflessioni iniziali che hanno condotto ai sei
seminari sul rapporto tirocinante – tutor ed alla nascita di
questo testo, di Leonardo Angelini

1. Due anni or sono un gruppo di psicologi che, a fianco alla propria attività
professionale nell’AUSL di Reggio Emilia ormai da vari anni svolgevano una
attività di tutoring rivolta ai giovani colleghi usciti dalle università
convenzionate (che allora erano Padova e Cesena, alle quali di recente si è
aggiunta Parma), si posero il problema del senso che poteva avere per loro e per
i loro tirocinanti quell’insieme speculare di attività di tutoring e di tirocinio, che
fino al quel punto avevano svolto in maniera certo soddisfacente, ma poco
ponderata.

2. Nacque così un gruppo di lavoro e di riflessione sul rapporto tutor –


tirocinante che comprese fin dall’inizio un cospicuo numero di giovani
psicologhe (ma anche di laureate in scienze dell’educazione e di neo-
specializzati in NPI), tirocinanti, ma anche ex tirocinanti con le quali avevamo
mantenuto nel tempo un rapporto che andava al di là dell’ambito puramente
professionale, un legame che aveva assunto le caratteristiche del rapporto
amicale o, in taluni casi, di tipo familiare, che rendeva estremamente dolorosa la
separazione e rischiava spesso di confondere i due piani dell’operatività e della
familiarità.

3. E certamente – ne eravamo coscienti fin dall’inizio – il tema della difficoltà


a separarsi, che accomunava queste due generazioni di psicologi e di
professionisti presenti e futuri del welfare, non fu ininfluente nel determinare la
nascita stessa del nostro gruppo di riflessione, che anzi fu da noi scherzosamente
visto (anche) come una ‘scusa’ per non separarsi.

4. Ciò faceva a pugni con la tendenza dell’università a proiettare fuori di sé e


sostanzialmente a non prendersi cura di questo importante momento di
professionalizzazione delle giovani colleghe. Momento che - secondo una
riflessione nata negli anni scorsi all’interno del nostro Consultorio Giovani
(OPEN G) - per la sua coincidenza con l’ultima fase dell’adolescenza, per il suo
essere alquanto cerimonializzato e per la presenza in esso di ‘sacerdoti’ (i tutor)
che svolgono la funzione di introdurre il neo-professionista nella professione -
può essere visto come una vera e propria cerimonia di aggregazione del giovane
professionista nella professione, del neoadulto nell’età alla quale ormai è
prossimo.

5. Nei nostri primi incontri cominciammo così a chiederci varie cose: - come
possa nascere e crescere dentro ai due attori presenti sulla scena del tirocinio, il
prossimo tirocinante e il tutor, la loro disposizione all’attività di tirocinio e di
tutoring; - come siano vissuti dal tirocinante i momenti di selezione (ed ancor
prima di autoselezione) dei luoghi di tirocinio; - come in effetti si dispiega il
rapporto tutor-tirocinante nel corso del tirocinio; secondo quali fasi si scandisce
il rapporto; quali siano i vissuti riguardo agli elementi della professione che
passano (o meno) dall’uno all’altro polo di questo particolare momento
formativo; quali le modalità del passaggio, le attese reciproche, le cose
effettivamente date e ricevute nello scambio fra queste due entità; - come
l’arrivo del tirocinante possa riverberarsi sui casi e le situazioni che gli vengono
affidate, o alle quali in ogni caso partecipa; - come viene affrontata ed elaborata
la separazione a fine tirocinio, sia sul versante del rapporto con il tutor sia su
quello del rapporto con i casi e le situazioni che ha visto il tirocinante
compartecipe, insieme al suo tutor e agli altri operatori istituzionali coinvolti.
Queste le nostre curiosità iniziali.

6. Il fatto poi che fin dall’inizio ai nostri incontri abbiano partecipato tutor e
giovani volontari delle strutture del volontariato europeo, nonché tutor e giovani
volontari della nostra struttura di volontariato ‘Gancio Originale’, ci ha permesso
di cogliere alcuni elementi di profonda similitudine che esistono all’interno di
ogni processo di formazione e di cura che i giovani fanno sul campo,
indipendentemente dal fatto che essi siano tirocinanti, volontari, o altro.

7. Abbiamo scoperto, continuando a vederci in questo contenitore iniziale che
ci comprendeva tutti (tutor, tirocinanti, volontari), ed in base ad una riflessione
fatta a partire dall’etimologia dei due termini: ‘tutor’ e ‘tirocinante’ che il primo
deriva dal latino tutor e sta per ‘colui che si prende cura di..’ (originariamente
“che è giunto a piena maturazione”), mentre il secondo, tirocinium, è di origine
militaresca e significa letteralmente “movimento delle reclute”: il che ci riporta
immedia-tamente in una atmosfera di disciplina, di obbedienza, di operatività.

8. Quindi, ci siamo detti, che, in base all’etimo, sulla scena del tirocinio e del
volontariato giovanile: - da una parte emerge una situazione di scambio
diseguale che allude molto da vicino allo scambio diseguale presente sulla scena
scolastica; - dall’altra un richiamo ad una atmosfera milita-resca e operativa,
proveniente dal termine ‘tirocinante’, che ci allontana dalla scuola, poiché
mentre la skholé è un luogo a parte di ‘non lavoro’ e di riposo, in cui cioè non
c’è alcuna impellenza di tipo produttivo, il tirocinio ed il volontariato rinviano
ad un movimento che va, molto più decisamente della scuola, verso il mondo
dell’operatività e della laboriosità. E immediatamente, a questo punto, la
discussione si è incentrata sulle modalità confusive con cui oggi si esce dal
mondo della scuola e si entra in quello del lavoro, per cui abbiamo deciso di
approfondire anche questo tema.

9. Nel momento in cui poi tornavamo, nella nostra discussione iniziale, alle
analogie fra scuola e tirocinio, abbiamo constatato, sulla scia di precedenti lavori
svolti con molti docenti reggiani negli anni scorsi , che le due figure del
tirocinante e del tutor, così come le due funzioni di tutorship e di apprendimento
sul campo, sono interdipendenti, esattamente come quelle del docente e del
discente. Ciò vuol dire che l’una è compresa nel rapporto con l’altra sia per
quanto riguarda l’aspetto dell’apprendimento secondario, e cioè delle capacità
professionali da passare e da ac-quisire, sia – e ancor più - per quello primario,
cioè per i processi di interiorizzazione e di agglutinamento dell’oggetto
protettore introiettato, responsabile del desiderio di essere formato e di formare,
che sulla scena del tirocinio sono ri-evocati in questo modo sia nel tirocinante
che nel tutor.

10. Abbiamo poi verificato, in base ai ricordi personali dei più anziani, come
fino ieri in Italia il processo di professionalizzazione fosse affidato, per tutte le
professioni del welfare (con rare eccezioni), ad una sorta di apprendimento in
itinere postumo, non curricolarizzato, che in realtà risultava importantissimo per
il singolo neoprofessionista della cura e dell’educazione. Un percorso di
apprendimento pratico basato essenzialmente sul precettorato e l’esempio in
base al quale i più anziani passavano le competenze ai più giovani all’interno di
un quadro in cui la gerarchia appariva strettamente legata all’anzianità.

Mentre oggi, nonostante tutti i limiti che contraddistinguono le strategie attuali


di tirocinio, questa attività e la speculare attività di tutoring, all’interno delle
professioni del welfare si vanno sempre più espandendo e meglio definendo
come parte integrante del processo formativo degli operatori del welfare attuale.
11. Abbiamo constatato, che il tirocinio - come i suoi equivalenti dell’area del
lavoro aziendale, l’apprendistato ed il master - sia che si accompagnino alla
lezione formale, sia che seguano ad essa (o che, come più di rado accade, la
precedano), rappresentano ormai modalità sufficientemente definite di ingresso
nel mondo del lavoro che completano e pongono ‘con i piedi per terra’ la
formazione.

Per cui ci siamo proposti di approfondire non solo gli aspetti che legano il
tirocinio all’oggi della scuola e dell’università, ma anche quali funzioni esso
assuma nei confronti del domani, ormai prossimo, in cui l’ormai ex-tirocinante
entrerà nel mercato del lavoro delle professioni del welfare, o nei territori
limitrofi in cui i processi di aziendalizzazione sono più avanzati, o presenti da
sempre.

12. Ed alla fine del nostro percorso ci siamo proposti, ritornando ai giovani
psicologi – cioè a coloro che per primi avevano fatto sorgere in noi il desiderio
di approfondire gli elementi che sono alla base del testo che ora il lettore ha sotto
gli occhi - di abbozzare una proposta di revisione del tirocinio post-lauream, che
non può non partire da una critica della collocazione post-lauream del tirocinio
degli psicologi. E ciò per vari motivi:

13. Innanzitutto la scissione fra apprendimento formale e tirocinio (attività che


in larga misura si basa sugli altri due perni dell’insegnamento, e cioè l’esempio
ed il precettorato) determina una pericolosa divaricazione fra teoria e pratica
poiché, da una parte, circoscrive l’università come un mondo a sè, collocato in
una specie di ‘iperuranio’ separato dall’esperienza, dall’altra riduce il terreno
stesso dell’esperienza a quello di una pratica venduta (sarebbe forse meglio dire
svenduta) al giovane come qualcosa che non merita tante attenzioni. Si pongono
così le premesse sulle quali si costruirà poi un enorme equivoco sul significato
che l’esperienza in generale, e l’esperienza pratica, in particolare, assumono nel
soggetto in formazione.

14. In secondo luogo con la collocazione post-lauream viene meno ciò che
proficuamente si è sviluppato da lunghissimo tempo nei paesi anglosassoni, e
che anche in Italia, in altri ambiti della formazione dei social worker, comincia a
funzionare bene. Pensiamo alla ormai consolidata esperienza di tirocinio tipico
della formazione degli assistenti sociali, e alle recenti disposizioni che pure in
ambito universitario si è data la facoltà di Scienze dell’Educazione. Pensiamo a
ciò che prevedono la maggior parte delle lauree brevi per i giovani che in esse si
impegneranno nei prossimi anni: e cioè la definizione del percorso di tirocinio
come momento costitutivo della professione e l’inquadramento dell’attività di
tutoring come importante punto di sutura nel rapporto fra più generazioni di
professionisti.

15. In terzo luogo viene meno ampiamente nel tirocinio post lauream
quell’importante supporto che il tutor può dare al proprio tirocinante nell’attutire
le ansie, le angosce e, più in generale, i problemi che lo studente – tirocinante
affronta nell’impatto sia con il luogo di tirocinio, sia, ancor prima (non
dimentichiamolo) nei confronti dell’istituzione università, alla quale lo studente
appartiene fino all’esame di stato. Altrimenti l’università diventa un luogo di
massacro dei giovani, che – abbandonati a se stessi – sono sottoposti a criteri di
selezione dei futuri professionisti a dir poco impropri (proviamo a chiedere ai
neolaureati non afflitti dalla Sindrome di Stoccolma nei confronti degli ex –
docenti cosa dicono dell’università di oggi).

16. Infine, attraverso il prolungamento di due anni della data di ingresso nel
mercato del lavoro, si determina un artificioso impedimento al lavoro, che forse
è l’unica vera ragione che ha spinto il legislatore all’invenzione del tirocinio post
lauream, ma ciò, in una società che si dice basata sul mercato, è un residuo
paleo, oltre che una invenzione perversa tendente a mortificare i giovani.
Qualcosa in ogni caso che non può vedere, ad esempio l’Ordine degli psicologi
schierato a difesa delle rendite di posizione già acquisite, poiché così la
professione è destinata a perire, o ad essere fortemente ridimensionata.

17. Il fatto che prima dell’inizio dei sei seminari sia stato possibile, grazie alla
mailing list Psico-Prof, comunicare in nostri propositi ad un nutrito gruppo di
colleghi psicologi operanti in Italia ci ha permesso di vedere ai nostri seminari
fino a 84 partecipanti, molto dei quali provenienti da altri luoghi del welfare.
Tracce di questa attiva partecipazione sono rilevabili nel presente testo.

18. Si può dire, anzi, che il rapporto con i colleghi di Parma, che fino all’anno
scorso erano a noi vicini territorialmente, ma estranei dal punto di vista
esperienziale, abbia visto in questi seminari un punto di partenza per l’intreccio
di ulteriori scambi e legami. Lo stesso pensiamo si possa dire nei confronti di
quei colleghi più lontani che ci proponiamo di coinvolgere, ogni volta che lo
riterremo utile ed opportuno, in altri momenti di scambio e di riflessione.

19. Riteniamo che anche sul piano più specificatamente reggiano i sei seminari
siano risultati utili per molti colleghi non psicologi operanti nei vari comparti del
welfare di casa nostra, che hanno avuto modo di riflettere con noi del rapporto
tirocinante tutor. Ed anche questa dimensione poliprofessionale del problema,
questo ritrovare tracce di una omogeneità di fondo all’interno dei processi
formativi di tutte le professionalità impegnate nella sanità, della formazione e del
sociale merita l’attenzione, a nostro avviso, di tutti coloro che hanno a cuore le
sorti del welfare italiano. Abbiamo potuto constatare infatti nei nostri seminari
come tutte queste professioni siano attraversate oggi, praticamente in egual
misura, da quella che ormai può essere definita come una vera e propria
impellenza formativa: la necessità di innovare immettendo nel circuito formativo
ambiti nuovi quali il tirocinio e di integrare tali ambiti all’interno del circuito più
tradizionale della formazione.

20. Infine un ringraziamento alla AUSL di Reggio Emilia ed alla Coop Nordest
che hanno creduto in noi e ci hanno permesso di svolgere questa esperienza
formativa e di pubblicare il testo che ora il lettore ha sotto gli occhi: speriamo
che dalla sua lettura egli possa trarre lo stesso piacere che abbiamo provato noi
durante i nostri sei seminari.
1ª parte: Tirocinio, tutoring e professioni del
welfare

Tirocinio e professioni del welfare ieri ed oggi, di Leonardo
Angelini e Deliana Bertani

Tirocinio e professioni del welfare ieri

Solo da pochissimi anni in Italia si è cominciato a parlare e a riflettere sul


tirocinio. Nella storia dell’università italiana il tirocinio è un illustre assente e
spesso anche le sedi formative degli operatori della sanità, dell’educazione e del
sociale sono ancor oggi caratterizzate dalla sostanziale assenza di riflessione sui
molteplici significati che il tirocinio assume per il giovane laureato o diplomato
che si appresta ad entrare nel mondo delle professioni della cura.

Nonostante l’assenza di luoghi ‘ufficiali’ del tirocinio e nonostante l’assenza di


una riflessione seria e conseguente sul rapporto fra sapere e saper fare, qualcosa
che assomiglia al tirocinio in Italia c’è sempre stato, anche agli inizi della storia
del welfare italiano. Per cui la prima cosa che ci proponiamo di fare, con questa
nostra relazione, è di tentare un ragionamento su come agli esordi del welfare
italiano (e cioè agli inizi degli anni ’70) sia stato affrontato all’interno del
welfare nascente il problema dell’immissione delle conoscenze e delle
competenze professionali, in una situazione in cui fra l’altro molti di questi
saperi e di queste pratiche avevano alle spalle iter formativi funzionali a logiche
teorico-pratiche affatto diverse dall’ambito di sperimentazione che in quegli anni
si andava facendo spesso in contrapposizione ed in polemica con i vecchi saperi
e le vecchie pratiche1.
E il punto di partenza non può non essere che l’analisi di quelle poche
professioni del welfare nascente che prevedevano il tirocinio, o qualcosa che
assomigliasse ad esso, all’interno dei propri percorsi formativi.

In questo gruppo sono comprese sicuramente le professioni dell’assistente


sociale, dell’infermiere, delle ostetriche e delle assistenti sanitarie.

Le ragioni in base alle quali fin dall’inizio gli assistenti sociali videro il tirocinio
collocarsi a buon diritto nel loro percorso formativo è sicuramente nel fatto che
la loro professione è giunta in Italia risentendo molto dell’impronta pratica che
questa professione aveva ricevuto negli USA e in Inghilterra a partire
rispettivamente dal New Deal e dalla prima significativa esperienza del welfare
inglese che risale ai governi laburisti dell’immediato dopoguerra.

Per quanto riguarda, invece, le professioni paramediche probabilmente le ragioni


che sono all’origine della definizione dei percorsi formativi secondo una
impronta tesa ad immergere la teoria nella pratica, ed a fondare una pratica in
una teoria discendono dalla necessità di ancorare queste professioni, che deve
prendersi cura molto da vicino del corpo, alla materialità di un percorso teorico-
pratico che al corpo sia legato fin dall’inizio dell’iter formativo.

Diverso a nostro avviso è il caso dei percorsi professionalizzanti del maestro e


dell’educatore per i quali, almeno apparentemente, in Italia da sempre stato
previsto un percorso pratico. Percorso però che relegava la pratica in un rito
vuoto, molto limitato nel tempo, privo di responsabilità e di valutazione.
Qualcosa che aveva caratteristiche di ciò che oggi chiameremmo una ‘visita
guidata’ e che traeva le sue origini nell’impostazione idealistica, non scientifica
che la pedagogia aveva al-lora nell’ordinamento universitario italiano, laddove la
pedagogia veniva vista come filosofia dell’educazione, e perciò distante dalle
esigenze concrete della cura dei bambini e dei giovani.

Questo l’universo delle professioni che alla fine degli anni ’60 prevedevano
all’interno degli iter formativi qualcosa che somigliasse al tirocinio. Molte altre
professioni, ad esempio quelle dello psichiatra, dello psicologo, del
neuropsichiatra infantile, della logopedista e anche quella di fisioterapista, in
quel periodo non prevedevano all’interno del proprio curriculum di studi alcuna
forma di tirocinio.

Le ragioni che sono all’origine di queste modalità formative così astratte e


lontane dalla sperimentazione e alla riflessione su di essa sono ovviamente
diverse.
Dice Guerra: “Alla loro base è possibile rintracciare motivazioni generali di
natura culturale….sul piano culturale, l’elemento fondamentale è legato alla
dominanza in ambiente italiano della cultura cattolica nell’intervento sociale.
Nelle interpretazioni più diffuse di questa cultura, della quale è comunque
necessario riconoscere i meriti, le dimensioni tecnico professionali
dell’operatore assumono un’importanza secondaria rispetto alla dimensione
dell’impegno e della disponibilità esistenziale. Gli innegabili risvolti tecnici del
ruolo dell’operatore vengono demandati ad una pretesa vocazione che
porterebbe l’operatore stesso ad essere tale : una vocazione ‘naturale’, la cui
assenza non potrebbe essere compensata da nessun competenza culturale, da
nessun tirocinio professionale”.

Ancora più netta appare la situazione se noi coniughiamo quanto detto qui sopra
da Guerra con il dato dell’enorme influenza esercitata dalla cultura idealista,
specialmente fino all’inizio degli anni ’70, sull’università e sulla scuola italiana.
Influenza così ampia – nonostante la vigorosa virata verso un approccio più
scientifico alla cura – da improntare ancora oggi in notevole misura la nostra
cultura e le nostre istituzioni formative. In base ai postulati dell’idealismo
l’oggettività del sapere non lascia spazio allo studio delle sue diverse possibilità
di mediazione. L’importanza della didattica viene così negata e la centralità
dell’essere dell’operatore, del formatore viene affermata a scapito della ricerca
delle sue specifiche competenze professionali.

In questo modo la pratica è ridotta a praticismo, la mente è separata dal corpo e


l’alto dal basso, secondo una logica di separazione e di distinzione gerarchica in
base alla quale viene negato ogni nesso dialettico fra questi due poli del
problema.
Il caso dei maestri - che si pone a metà strada dell’alternativa ‘pratica sì pratica
no - può essere considerato esemplare per comprendere le ragioni che
nell’ambito scolastico erano alla base della svalutazione della pratica.
Tutto ciò non significa che per queste professioni non ci sia mai stata la pratica,
ma solo che la pratica veniva rimandata ad un poi, ad un momento ‘secondo’ che
era costituito, per tutti, dai primi anni della propria carriera professionale. Si
definiva così un apprendimento in itinere postumo, non curricolarizzato, che in
realtà risultava importantissimo per il singolo professionista della cura e
dell’educazione sul piano dell’apprendimento.
In concreto, poi, le professioni della cura (il logopedista, il fisioterapista ecc.)
prevedevano un percorso di apprendimento pratico basato sul precettorato e
l’esempio (vedi prossima relazione) in base al quale i più anziani passavano le
competenze ai più giovani all’interno di un quadro in cui la gerarchia appariva
strettamente legata all’anzianità.
Per quanto riguarda invece le professioni più legate all’educazione il
confinamento del giovane maestro, del neodiplomato, del neolaureato all’interno
della propria classe, impedivano una piena possibilità di attuazione
dell’apprendimento tramite l’esempio e il precettorato, ed in questo modo il
giovane era buttato allo sbaraglio ed era di fatto costretto ad assumere come
modelli del proprio fare educativo quelli introiettati individualmente a casa e a
scuola.

Oggi: le professioni del welfare e il tirocinio

In Italia è di fatto mancato un disegno unitario del welfare state e, più in


generale, un progetto organico nazionale di politiche socio – sanitarie -
educative: la crescita dell’intervento pubblico e la regolazione dell’intervento
privato sono state infatti frammentarie e frutto di scelte scollegate.

Sul piano politico l’assenza del tirocinio dalla formazione dell’operatore


rimanda senz’altro alla complessiva condizione di arretratezza del sistema
dell’intervento socio sanitario nel nostro paese. Oggi ci troviamo di fronte a
servizi sanitari sociali ed educativi che sono nati e si sono sviluppati nel
trentennio scorso all’interno del welfare italiano che, come è noto, nasce in Italia
dopo il ’68 e si biforca in due grandi tronconi, lo stato assistenziale e lo stato
sociale.

Per stato sociale intendiamo il welfare dei servizi, cioè quel welfare che è
attecchito solo in talune regioni d’Italia e che è basato sullo sviluppo di servizi
alla persona e alla comunità dai quali si irradia una cultura specifica, figlia della
storia e del patrimonio di conoscenze accumulate lungo il percorso di crescita
delle singole strutture.

Per stato assistenziale intendiamo il welfare dei sussidi che utilizza le risorse che
provengono dalla fiscalità in generale non in termini di servizi, ma in termini di
assistenza alle persone e alle famiglie. E’ chiaro che in questo secondo alveo del
welfare non si sviluppa una cultura dei servizi e che il profilo delle singole
professioni assume significati e spessori diversi a seconda che i professionisti
abbiano agito nel primo o nel secondo tipo di welfare.

Fatta questa per noi importante distinzione va detto in secondo luogo che in
questi trent’anni abbiamo assistito alla crisi dell’idealismo crociano e gentiliano
che ha provocato importanti trasformazioni nella scuola e nell’università in base
alle quali la pratica e il tirocinio hanno assunto via via un’importanza sempre
maggiore anche se in questo processo di rivalutazione della pratica e di
collegamento fra pratica e teoria in alcuni settori la scuola è stata più
conseguente in altri meno.

Un terzo elemento importante è la nascita di nuove professioni: quella


dell’educatore della riabilitazione, dell’insegnante di sostegno, dell’OTA ecc.
che sono tutte accomunate dal fatto di essere nate nell’urgenza dei problemi
pratici che sul territorio si evidenziavano mano a mano che il welfare si
ramificava e si impiantava. Si può dire per queste professioni che le ragioni
pratiche che sono alla base della loro stessa nascita hanno permesso l’istituzione
di corsi di formazione e di apprendimento che vedono la pratica e il tirocinio
come momenti centrali del curricolo di studi. Ed è sintomatico che spesso siano
stati gli enti locali, le USL, i CFP privati che per primi hanno individuato il
bisogno e istituito, in accordo con le regioni e con lo stato, i primi corsi, mentre
la scuola e l’università sono intervenuti spesso dopo, in un secondo momento e
con un fare che ha a volte fatto da freno e svuotato di significati la pratica.

Questo ritardo della scuola e dell’accademia denota, nonostante il superamento


dell'approccio idealistico, la presenza ancora in questi ambiti formativi di un
problema di integrazione fra teoria e pratica in cui ancora la pratica e il tirocinio
vengono vissuti come i parenti poveri dell'apprendimento.

Ma anche nel mondo delle istituzioni del welfare esistono un insieme di


problemi sul piano della integrazione del tirocinio all’interno delle istituzioni che
si riflettono sia sui giovani tirocinanti sia sui professionisti che svolgono azioni
di tutoring e che hanno la loro origine in una mancata chiarezza dei significati
che il tirocinio e la tutorship hanno dentro le istituzioni.

Da una parte infatti è vero che le scuole e le università inviano e distribuiscono i
tirocinanti nelle varie sedi istituzionali spesso non chiedendo alcun rendiconto
sul piano valutativo del significato che il tirocinio ha assunto per il giovane
tirocinante. Ma è anche vero che nelle istituzioni del welfare non vi è ancora
alcuna selezione seria del tutor, alcun processo formativo che faccia sì che un
bravo professionista diventi anche un bravo tutor e quindi non vi è alcuna
coscienza delle differenze tra professione e professione tutor come abbiamo
visto nel precedente incontro con Mottana.
Tirocinio, apprendistato e cerimonie d’ingresso nell’età adulta

Ciò che a livello fenomenologico oggi sta avvenendo all’interno


dell’adolescenza è sotto gli occhi di tutti: il protrarsi dell’adolescenza ben oltre i
18\20 anni, dovuto essenzialmente alla dilatazione dei tempi della formazione
che prende un numero crescente di giovani.

Il fenomeno, almeno nelle aree metropolitane del mondo ha assunto proporzioni


così vaste da spingere gli scienziati sociali a individuare un nuovo periodo, un
nuovo spazio della vita, quello che va dai 18\20 ai 24\25 anni, occupato da un
nuovo soggetto, il postadolescente, che viene così a porsi in un’area che sta fra
quella occupata dall’adolescente vero e proprio e quella dell’adulto. Rispetto a
questo primo elemento per noi, in questa sede, è importante sottolineare che
questo nuovo spazio nasce precipuamente in base a nuove e più complesse
esigenze formative.

Ma, a fianco a questo, ci sono altri elementi che emergono da un’analisi della
fine dell’adolescenza nella società attuale e che - diciamo così - ci aiutano a
comprendere meglio di che cosa si tratta.

Intanto non si tratta solo di un prolungamento in termini temporali


dell’adolescenza, ma la definizione, in questo tempo, di procedure
professionalizzanti che contengono elementi di complessità tali per cui si può
dire che oggi ogni professione ha propri percorsi formativi accomunati dal fatto
che almeno verso la fine del loro iter viene prevista una qualche forma di stage,
di tirocinio, di accompagnamento da parte di un adulto per un periodo più o
meno lungo.

La non coincidenza fra maturazione biologica e maturazione intesa in termini


psicosociali diventa particolarmente evidente oggi, ed assume elementi di
criticità importanti allorché l’ingresso nell’età adulta viene procrastinato
fortemente, come abbiamo appena visto, per un numero crescente di giovani, per
i quali si va dilatando a dismisura quella specie di Isola che non c’è, il cosiddetto
stato di margine, stato di lontananza dal mondo del lavoro e della produzione,
che in tutte le culture precede le cerimonie di aggregazione del giovane nell’età
adulta e segue quelle di separazione del ragazzo dall’infanzia.
Una non perfetta coincidenza fra il polo biologico e quello psicosociale, secondo
Van Gennep, è riscontrabile in qualsiasi gruppo sociale, ma l’enorme dilatarsi
dello stato di margine ha fatto perdere di vista alla nostra società il duplice
significato che il passaggio assume per il giovane, come funzione di sostegno e
di ancoraggio alla sua identità in un momento di rapido cambiamento, e
all’adulto come funzione difensiva di fronte all’emergere di una nuova
generazione dagli incerti confini. Tutto ciò, come ha messo in evidenza Van
Gennep, viene solitamente affrontato attraverso la definizione di una triplice rete
di cerimonie: di separazione, di definizione dello stato di margine, di
aggregazione.


Nelle culture tradizionali, gli elementi di fondo che definivano la triplice ritualità
del passaggio consistevano: - in un alto tasso di cerimonializzazione, - nella
presenza di adulti che officiavano scientemente il passaggio, e nel fatto che tutti i
rituali si svolgevano palesemente di fronte alla comuNellanostraità. società
invece, come afferma Le Breton, il giovane affronta il passaggio sempre più solo
e senza il conforto di cerimonie sociali che attestino, agli occhi di tutta la società,
il suo ingresso nella comunità adulta. Questa cerimonia privata di passaggio,
questo rito intimo parallelo (Le Breton) da un lato testimonia l’importanza per il
giovane di dotarsi di segnali che attestino il cambiamento, anche in assenza di
cerimonie gruppali di passaggio, dall’altra ci lascia capire che la società adulta
oggi non sembra avere più al proprio interno quegli adulti officianti il passaggio
che nelle società tradizionali svolgevano l’importante funzione di rendere
sociale, e cioè condiviso da tutta la comunità, il passaggio stesso.

Afferma Vanni che oggi vi è una istituzione, la scuola, che attraverso il


passaggio da una classe all’altra, da un ciclo all’altro oggettivamente sancisce le
tappe della crescita, ma la scuola spesso non è cosciente di svolgere questa
importante funzione anche se è proprio in ambito formativo che avviene
quell’incontro finale, di cui parlavamo prima, fra adulti che svolgono funzioni di
tutoring e di accompagnamento e giovani che si apprestano a essere aggregati
alla comunità degli adulti.

La mancata messa a fuoco della pregnanza di significato che da un punto di vista


psicologico il tirocinio, l’apprendistato, e l’accompagnamento assumono per il
giovane impedisce così di comprendere le problematiche dell’ultima fase
dell’adolescenza, quella della aggregazione nel mondo degli adulti, quella cioè
in cui all’ordine del giorno vi è l’acquisizione da parte del giovane di un ruolo
sociale produttivo, che segna e sancisce la raggiunta autonomia, intesa qui in
termini etimologici, come capacità, nella vita e nella professione, di ‘darsi da sé
le proprie leggi’.

In questo modo si perpetua anche in questo ultimissimo periodo dell’adolescenza


lo stato di imperfetta conoscenza, da parte della nostra società, da una parte del
significato strutturante che il tirocinio assume per il giovane come tappa del
processo maturativo, dall’altra della importantissima funzione di
accompagnamento e di formazione alla vita e alla professione svolta dall’adulto
tutor durante il tirocinio.

Alcuni dati quantitativi sui tirocini in Emilia Romagna nel 1999

Il numero totale dei tirocini avviati durante il 1999, documentati presso l’ente
regionale, ammonta a 2.760 progetti. Si tratta di un dato aggiornato al mese di
Gennaio 2000.
Sono tirocini che riguardano soggetti più o meno in cerca di occupazione.
Le donne costituiscono il 61% del totale dei tirocinanti.
L’età media dei tirocinanti è di 26 anni.
Le fasce di età più frequenti sono quelle comprese dai 20 ai 30 anni.
Il 46,4 dei tirocinanti ha un diploma di scuola media superiore, mentre un 23% è
laureato.
Il numero di aziende coinvolte in attività di tirocinio è di 1359.
Di queste imprese però 362 (cioè 26%) promuovono ben il 63% di tutti i
progetti: questo probabilmente significa che, anche se in numero ancora esiguo,
le aziende hanno cominciato ad adottare il tirocinio come uno strumento di
politica aziendale avente finalità di formazione e di preselezione del personale.
Un altro dato interessante è che quasi la metà delle 1359 aziende riguarda
piccole realtà con meno di sei lavoratori.
L’incidenza maggiore di tirocini si registra in imprese operanti nelle province
“centrali” della regione: in ordine Modena (30%), Bologna, (17,5%)
Parma(14,2), Reggio ( 8%)
Il 37% delle 1359 aziende opera nel settore terziario.

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Bibliografia:
1. AA.VV., Istruzione, formazione, lavoro in Emilia e Romagna – Rapporto
2000, a cura della Regione Emilia e Romagna, Bologna, 2001
2. Alberoni F., Ferrarotti F., Calvaruso C., I giovani verso il duemila, Torino,
Edizioni Gruppo Abele, 1986.
3. Angelini A., Immagini del corpo e dello stigma: il tatuaggio fra i giovani
d’oggi. Una ricerca sul campo fra i giovani di Reggio Emilia, tesi di laurea,
Padova,, anno accad. 1998\99
4. Fofi G., Benché giovani. Crescere alla fine del secolo, Roma, edizioni E/O,
1993
5. Guerra L., Il tirocinio nella formazione universitaria dell’operatore
socioeducativo, in: Frabboni, Guerra, Lodini: Il tirocinio nella formazione
dell’operatore socioeducativo, Nuova Itali Sc., Roma, 1995
6. Jeammet Ph., Psicopatologia dell’adolescenza, Roma, Borla, 1992
7. Le Breton D., Passione del rischio, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1995
8. Laffi S., Il furto: mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del
mediterraneo Ed., Napoli, 1999
9. Mottana P., La funzione della tutorship nel processo affettivo di
apprendimento, in: SKILL, riv. dell’Enaip – Lombardia, N.4 del 1991
10. Mottana P., Formazione e affetti, Armando, Roma, 1993
11. Scabini E., Giovani in famiglia fra autonomia e nuove dipendenze, Vita e
Pensiero, Milano, 1997
12. Scanagatta S. (a cura di), Generazione virtuale: i giovani di un’area
emiliana tra benessere e ricerca dei valori, Roma, Carocci, 1999
13. Van Gennep A., I riti di passaggio, Torino¸ Bollati Boringhieri, 1988

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Note
1. Per quanto riguarda il conflitto fra vecchio e nuovo in ambito psicologico
Cfr.: Angelini L. “Una nuova figura professionale: lo psicologo nei servizi
pubblici, in ‘Simposio – Rivista di psicologi’, n.3, Firenze, 1995
La professione e la professione di tutor, di Leonardo
Angelini e Deliana Bertani

1.Tirocinio e tutoring nel corso degli studi

Il ritardo con cui in Italia il tirocinio va emergendo e si va intrecciando con gli


altri aspetti della formazione ha impedito finora una riflessione sistematica sui
significati di questo importante nodo di congiunzione fra teoria e pratica, ed anzi
– come afferma la Manoukian Olivetti – rischia in molti ambiti formativi di
rappresentare ancora un elemento svalutato della formazione: quello di una
pratica scissa dalla teoria e ridotta a praticismo acefalo.

Noi riteniamo anzi che il concreto intreccio che nei vari ambiti formativi si va
determinando fra tirocinio e altri momenti formativi possa essere visto come una
cartina di tornasole del concreto sforzo che la scuola italiana va facendo, o
meno, su questo piano. Di modo che è possibile intravedere punti di eccellenza
in cui il tirocinio è ben piantato all’interno del corso degli studi, e via via
soluzioni sempre meno felici che diradano verso punti di totale discrasia fra
tirocinio e resto del processo formativo, spesso indicatori del fatto che, in quei
luoghi il tirocinio non solo non è stato pensato dalla scuola, ma anzi sembra
essere stato espulso e messo lì come un atto dovuto.

La mancata integrazione del tirocinio nel corso degli studi non significa ipso
facto per il tirocinante che il tempo trascorso con i propri tutor sia una inutile
perdita di tempo, poiché, come vedremo fra un po’, molto dipende da come in
concreto questo tempo viene speso da entrambe le parti in causa: quella del
tirocinante e quella del tutor.

Certo è che il fatto che il tirocinio sia pensato e programmato dalla scuola pone
le premesse affinché il tirocinio assuma un pieno di significati che è ben altra
cosa rispetto alla semplice sommatoria di teoria più pratica, e sicuramente
tutt’altra cosa dal metterlo lì, magari alla fine del corso di studi, dopo il diploma
o la laurea (vedi psicologia), come un’aggiunta dovuta, come un fastidioso iter
non governato da alcuno e sul quale l’accademia non sente il bisogno di sapere
nulla, quasi fosse un fatto privato fra tirocinante e tutor e non un aspetto
fondante dell’ingresso nel mondo della professione.

Programmare il tirocinio da parte della scuola o dell’università vuol dire


presenza, a fianco al tutor di tirocinio, di un tutor d’aula, e cioè di una istanza
capace di predisporre il tirocinio pratico, di reperire il tutor di tirocinio e di
mantenere con esso un rapporto che spesso va al di là dell’esperienza del singolo
tirocinante, di prendersi cura sia del tirocinante che del tutor di tirocinio;
significa altresì che l’apprendimento ottenuto attraverso il tirocinio sia valutato e
pienamente compreso nel curricolo e, conseguentemente, che i tutor di tirocinio
siano visti come parte di un più generale processo formativo e come tali formati
essi stessi e curati dalla scuola come suoi propriQuestamembripluralità. di
posizioni che la scuola e l’accademia italiane dimostrano di avere rispetto al
tirocinio è indice, a nostro avviso, del fatto che stiamo attraversando un
momento di passaggio fra quella situazione iniziale del welfare italiano cui
abbiamo accennato prima nella precedente relazione e un nuovo assetto in cui,
dentro le istituzioni del welfare o fuori di esse, il tirocinio tenderà sempre più ad
assumere un significato centrale. Per cui, rispetto a questa linea di tendenza, ci
possono essere situazioni più avanzate e conseguenti in cui il processo di inte-
grazione fra tirocinio e resto del percorso formativo si va già cementando, ed
altre situazioni più arretrate in cui, più che di una integrazione, si può parlare di
una sommatoria più o meno sincrona di percorsi che ancora fanno fatica a
dialogare, nelle loro singole componenti, e che tendono a scaricare sul singolo
tirocinante lo sforzo necessario all’integrazione e al singolo tutor quello
derivante dall’assemblare, dentro di sé e nella pratica istituzionale o aziendale, il
mestiere col mestiere di tutor.

2.L’attività di tutor: qualcosa che si fa ma su cui non si riflette


Ancora pochi cioè sono disposti a riflettere sul significato del tirocinio, e ancor
meno sono coloro che riflettono sul significato del tutoring. Perché, se è vero che
da una parte la scuola ancora in molti ambiti non è in grado di pensare realmente
al tirocinio come una risorsa, è ancora più vero che né la scuola né le istituzioni
in cui il tirocinio solitamente avviene, né noi professionisti che pure svolgiamo
funzioni di tutorship siamo in grado di fare una riflessione seria e conseguente
sul significato che l’attività di tutor ha per noi stessi, per il tirocinante e per le
stesse istituzioni in cui insieme ad esso operiamo per un certo ambito temporale;
su quali siano i presupposti pedagogico-didattici su cui si fonda l’attività di
tutoring, su quali siano le disposizioni interiori che favoriscono o inibiscono
l’attività di tutor; su quali basi infine sia possibile passare da una conoscenza
intuitiva ad una di tipo razionale e trasformativo circa i contenuti e i metodi che
il candidato - tutor deve acquisire per potersi dire realmente e professionalmente
tutor.

Si può anzi affermare, a nostro avviso, che - se i livelli di integrazione del


tirocinio si possono disporre lungo una scala che, come dicevamo prima, va
dall’eccellenza al non pensato - la tutorship, in Italia almeno, non risulta pensata,
programmata, coltivata da alcuno, di modo che il tutor è un professionista che
spesso presta una parte del proprio tempo al giovane tirocinante nell’assenza di
consapevolezza dei particolari significati formativi che questa attività ha, delle
modalità pedagogico-didattiche che pure vengono da lui usate, degli strumenti
necessari ad un buon passaggio delle competenze. E tutto ciò in una situazione in
cui le caratteristiche di intimità e di non formalizzazione dei rapporti, perlopiù
duali, che il tutor va instaurando col suo tirocinante rendono del tutto particolare
questo momento.

Questa assenza di consapevolezza che sia le istituzioni invianti sia i contesti


lavorativi in cui avviene il tirocinio, sia gli stessi tutor mostrano di avere nei
confronti dei significati specifici dell’attività di tutoring e del fatto che l’attività
di tutor è cosa diversa dall’esercizio della professione dimostra quanto siamo
ancora lontani dall’attribuire a questa figura un contorno preciso e
Percondivisofareun. esempio che mostra, pensiamo a sufficienza, la distanza che
ci separa dal mondo anglosassone, in cui come è noto l’attività di tutoring è ben
presente da lungo tempo in ogni ordine di scuola, quando una collega ha cercato
nella legislazione scolastica inglese tracce giuridiche scritte in cui fosse
codificato cos’è e cosa fa un tutor ha scoperto con sorpresa che di scritto vi era
ben poco, ma per motivi opposti ai nostri: il fatto è che in Inghilterra la pratica
del tutoring è così chiara da non aver bisogno di particolari pietre miliari che la
evidenzino.

Spesso i percorsi pedagogico-didattici hanno bisogno in un primo tempo di


essere eseguiti, per poi essere istituiti ed infine interiorizzati a tal punto da non
richiedere più alcuna formalizzazione sul piano normativo. Un po’ come avviene
quando si fa un’operazione laddove prima bisogna tagliare, poi suturare e poi,
allorchè i punti si sutura non hanno più ragione di esserci, toglierli poiché i
tessuti si sono ricomposti. Ebbene, mentre in Inghilterra siamo a quest’ultimo
punto del processo di acquisizione del tutoring, in Italia siamo ancora nel primo.

3.Il mestiere del tutor

Molti di noi qui svolgono o hanno svolto, qualche volta nella loro vita, il
mestiere di tutor. Si può dire anzi che coloro che, come noi, lavorano da molto
tempo nelle istituzioni territoriali del welfare dei servizi lungo il proprio iter
professionale hanno dovuto fare continuamente un’opera di tutoring, attraverso
l’integrazione dei nuovi arrivati e la riqualificazione e la formazione in itinere
dei colleghi provenienti dagli enti disciolti e da altri ambiti esperienziali superati.

E ancor prima molti di noi più anziani, proprio per l’assenza di un iter di
tirocinio pratico ufficiale, collegato con i curricoli formativi scolastici e
accademici, sono stati tirocinanti, nei fatti affidati, agli albori della nostra
carriere professionale a colleghi più anziani che, in maniera informale si
disponevano nei nostri confronti come tutor. Ma anche i più giovani fra noi,
lungo l’iter di tirocinio (nell’autoaiuto fra pari), o immediatamente dopo (ad
esempio nella guida delle più giovani colleghe nei workshop) hanno potuto
sperimentare cosa significa il tutoring. Ciò permette a noi tutti di potere riflettere
sul tutoring a partire da un ambito di esperienza molto ampio e da una
prospettiva duplice, cioè con un doppio sguardo sul problema, quello del più
giovane ed inesperto, e quello del più anziano e competente.

Ebbene se noi riflettiamo un attimo sul significato che l’attività di tutor ha


assunto in questi anni per noi stessi, per i tirocinanti che ci sono stati affidati e
per le stesse istituzioni in cui insieme ad essi abbiamo operato e continuiamo a
farlo ancor oggi con sufficiente dedizione e attaccamento al lavoro, vediamo
innanzitutto che essa implica il possesso da parte del tutor di ciò che potremmo
chiamare un insieme di predisposizioni che un po’ si confondono con quelle del
docente, un po’ se ne distinguono. Come ci ha egregiamente spiegato Paolo
Mottana la volta scorsa potremmo definire la posizione del tutor a partire dalla
sua propensione a svolgere un insieme di funzioni insieme al docente, in quelle
situazioni in cui il docente si affianca al tutor, o da solo, allorchè il docente non è
compresente e in sincronia sulla scena formativa. Così come, afferma sempre
Mottana, il docente, se è solo, di fatto svolge funzioni di tutoring, pur senza
avvedersene, poiché docente e tutor sono come due facce di una stessa medaglia.
Se ricordate secondo Mottana sono quattro le funzioni che permettono al
formatore di definire il setting formativo e di tenerlo in piedi come tale nel
tempo e nello spazio sia per sé, sia per la propria udienza, che nel caso nella
situazione più canonica è la classe, per noi la diade tutor - tirocinante: la
funzione istituente, quella illudente, quella individualizzante, ed infine quella di
separazione.

La prima funzione, quella istituente, che secondo Mottana è di tipo paterno, va


vista essenzialmente come istituzione di luoghi, tempi e campi del fare
operativo, che nel nostro caso sono luoghi, tempi e campi del lavoro in comune
con il proprio tirocinante, ma ancor prima luoghi, tempi e campi istituiti come
adatti al tirocinio dalle istituzioni ufficiali che hanno convenuto nel
definirliLasecondacome funzionetali. è costituita dalla definizione di una
membrana (nel nostro caso duale) illudente in base alla quale non solo deve
convenire, col suo tirocinante, all'inizio di ogni singolo momento di tirocinio, sul
fatto che quel luogo e quel tempo siano effettivamente per il tirocinio, ma i due
devono anche condividere la stessa passione per l’argomento trattato, che nel
nostro caso è in quell’insieme di pratiche professionali che il primo ha deciso di
condividere con l’altro: momento materno poiché è in questo momento che
emergono le ansie e le angosce del tirocinante, il che spinge il tutor ad disporsi
di fronte ad esso in modo tale che quest’ultimo intuisca di trovarsi in un ambito
protetto, in cui il tutor si disponga all’aiuto di fronte alle esigenze di
elaborazione e di contenimento dell’ansia che il più giovane prova di fronte alla
novità, agli enigmi della professione, nonché rispetto al futuro.

La terza funzione, quella individualizzante, Ma una volta che il tutor abbia


espletato questa seconda funzione, non può non cominciare a nutrire ora nei
confronti del suo tirocinante un secondo tipo di preoccupazione di tipo materno,
quella che gli psicoanalisti francesi chiamano funzione di révérie (cioè di
immaginazione, di sogno su ciò che domani quel tirocinante potrà diventare). E
se in un primo tempo il tutor, come una madre sufficientemente buona, ha
cercato di dare senso e spessore al lavoro del tirocinante invogliandolo sul piano
dell'operatività e ad accogliere il sapere pratico che da lui proviene come un cibo
buono da introiettare, in un secondo tempo, in base alle modalità con cui il
tirocinante ha introiettato il sapere che da lui proveniva e ha cominciato a farlo
proprio, non può non cominciare a cogliere questa specificità acquisitiva. E’
questa attività che Mottana vede come l’erede della funzione materna di révérie
in base alla quale la madre, attraverso la propria attività interpretante dei segnali
che derivano dal bambino, comincia a vederlo, ad individuarlo, a delinearlo in
maniera univoca e specifica.

Infine la quarta funzione, quella di separazione, che Mottana definisce di tipo


paterno, ci ricorda che, come accade in ogni storia che si rispetti, anche quelle
che si raccontano sulla scena scolastica, e nel nostro caso sulla scena del
tirocinio finiscono e che occorre sapersi separare, alla fine di ogni giornata, così
come di ogni tirocinio affinché ognuno possa riprendere la propria membrana
individuale e non sentirsi oppresso dal tirocinio.

Qualora a fianco del tutor vi sia il docente, o una comunità di docenti,


solitamente, afferma sempre Mottana, le funzioni paterne sono quelle assunte dal
tutor, e quelle materne dai docenti. In assenza del docente è il tutor che fa da
docente, così come, in assenza del tutor, è il docente che fa l’altro mestiere.

E’ chiaro che le funzioni paterne e quelle materne assumono un significato molto


circoscritto allorché lo scambio diseguale fra docente e discente avviene non di
fronte ad una classe o a una comunità di discenti, ma in un luogo più intimo fra
due persone. Ma su questo punto ritorneremo alla fine di questa nostra
esplorazione.

4. I suoi strumenti formativi

Sulla falsa riga del rapporto fra genitori e figli, ma anche con tutte le distinzioni
derivanti dal fatto che il rapporto tirocinante – tutor si pone in un luogo e in
un’atmosfera operativa, pena lo sconfinamento in un ambito affettivo dal quale
possono derivare solo guai, il tutor per il tirocinante è un modello che, a seconda
delle caratteristiche personali di ciascuno, può essere un padre che definisce
confini, introduce in ambienti, dà un nome e una valenza al suo pupillo, una
madre che contiene e che fa sentire il tirocinante in una membrana duale
avvolgente e proteggente, una madre in grado di far emergere e lievitare le
vocazioni individuali del proprio tirocinante, di immaginarselo già grande e
realizzato, e perciò definito, circoscritto, ma non per questo sminuito, bensì
scolpito nelle sue fattezze, o infine un padre capace di separarsi e di dare una
piccola spinta affinché il tirocinante faccia da solo durante il tirocinio a alla fine
di esso.

Tutto ciò favorisce il flusso identificatorio che si instaura fra i due, fa si che la
visione delle cose dell’uno passi all’altro, con modalità diverse a seconda delle
caratteristiche personali del tutor. Attraverso questa strada è possibile per il
tirocinante passare lentamente, se le cose vanno sufficientemente bene, dalla
dipendenza all’autonomia.

Si tratta di un lavoro maieutico che implica da parte del tutor la propensione e gli
strumenti per tirare fuori quello che il tirocinante ha dentro, per scoprire le vere
vocazioni, quelle utili alla professione, ma anche quelle più in generale utili nella
vita, di tirare fuori le conoscenze che ciascun tirocinante ha dentro, ordinate o
meno, messe in fila nei precedenti percorsi della formazione, o in quelli che il
tirocinante sta facendo a lato e in concomitanza col tirocinio.

Il tutor poi è, come dicevamo nella precedente relazione, un sacerdote
dell’iniziazione, una guida di fronte alla quale, come nel rapporto fra Dante e
Virgilio, l’uno è debitore nei confronti dell’altro per aver appreso dall’altro “lo
bello stilo che m’ha fatto onore” che nel nostro caso è l’insieme delle modalità
professionali, delle pratiche, dell’etica, della filosofia che informano la
professione. Ed in questo rapporto poi il tutor, come ogni maestro deve
sopportare che gli allevi non solo vanno via, ma che possono superare il maestro,
e non per questo egli deve sentirsi invidioso di essi, poiché è proprio il sale che
lui è riuscito a dare loro che ha permesso poi agli ex allievi di affermarsi nella
vita.

E, come è possibile dedurre in base alla nostra esperienza due sono gli strumenti
didattici, in assenza della lezione formale, che il tutor usa per passare le proprie
competenze: il precettorato in base al quale poiché il tutor – grazie alla propria
esperienza - coglie le cose prima del tirocinante, mette a disposizione questo
acume e allena il più giovane e meno esperto a coglierle sempre più acutamente;
e l’esempio in base al quale il tutor rallenta a bella posta il proprio operare e fa
vedere al tirocinante come si fa.
A fianco di queste due modalità canoniche, riscontrabili in ogni mestiere, e che
sono alla base anche del rapporto maestro – apprendista, vi è nei mestieri della
cura la supervisione che consiste in un patto in base al quale il tirocinante porta i
suoi problemi sulle cose che gli sono state in precedenza affidate e il tutor vede
insieme al più giovane il problema, lavora sulle sue difficoltà, pone delle
coordinate nella lettura delle cose.

Da ciò che abbiamo fin qui detto deriva che le competenze e i saperi del tutor e
del professionista non sono assolutamente sovrapponibili e si dislocano lungo
l’ambito esperienziale del tutor in maniera diversa a seconda dell’anzianità, delle
circostanze istituzionali in cui esso si trova ad operare, dalle sue disposizioni a
formare, cioè da come funzionano attualmente in lui i propri fantasmi formativi.

In generale si può paragonare il rapporto fra competenze professionali e


competenze nell’attività di tutoring a quelle che devono avere un oratore e un
retore. Il professionista infatti può (oggi, magari ieri non era così) essere un buon
professionista, come un oratore può essere un buon oratore, e l’uno e l’altro
essere incapaci o non disponibili a passare le competenze, cioè a essere un buon
tutor o un buon retore.
Il professionista può anche (oggi, magari ieri non era così) essere un cattivo
professionista, ma capace e disponibile a passare le limitate competenze che lui
ha.
Nei casi più fortunati ci potrà essere una buona accoppiata fra competenze
professionali e competenze nell’attività di tutoring.

5. Fantasmi formativi nel tutor

Ma quali sono le disposizioni interiori che possono favorire o inibire l’attività di


tutor? Abbiamo visto in precedenza che una cosa sono le competenze utili allo
svolgimento della professione (di qualsiasi professione), un’altra la disposizione
a svolgere le funzioni di tutoring e che non è detto che il possesso di uno dei due
requisiti implichi il possesso anche dell’altro. Or cercheremo di approfondire
cosa significhi propensione a formare e quali sono i fantasmi formativi nel tutor.

Käes afferma che dentro ciascuno di noi esiste un particolare personaggio


interno, più o meno integrato la cui origine va ricercata nella nostra infanzia: per
un verso ai giochi infantili del tipo "maestro-allievo", ai giochi di modellaggio,
al gioco con la bambola, etc.; per un altro verso all'area dei sogni; per un altro
verso ancora a tutto lo sforzo di ricerca delle proprie origini, e quindi all'area in
cui si definiscono dapprima le cosiddette teorie sessuali infantili, ed in un
secondo tempo le pulsioni epistemofiliche sublimate.

Rispetto a quanto afferma Käes si potrebbe affermare (Angelini, 1998) che


l'ontogenesi del desiderio di formare, oltre alle componenti fin qui elencate, vada
ricercata all'interno dei processi di introiezione delle imago genitoriali allorché,
sul modello dei nostri primi educatori, che sono per l’appunto, i nostri genitori
reali e fantasmatici, si è andato definendo dentro ciascuno di noi un ideale di
formatore che poi per tutta la vita, a seconda del grado di confidenza che
ciascuno di noi ha con esso, o ha reclamato la propria presenza apparendo sotto
forma di vocazione, o ha continuato a sonnecchiare fino al momento in cui
l'accesso alla genitorialità o l'occasione di poter svolgere, in qualsiasi contesto,
funzioni educanti non lo hanno risvegliato.

Ma le cose non sono così idilliache, come fin qui sono state esposte. A ben
vedere infatti l'attivazione dentro al soggetto (così come nell'immaginario
collettivo) del desiderio di formare implica anche la possibilità che si attivizzi il
negativo della formazione, e cioè la de\formazione. Alla costruzione corrisponde
la distruzione. Le ragioni che portano a formare sono le stesse che portano a
de\formare, a distruggere.

Cerchiamo di vedere ora come funzionano questi personaggi della formazione


(Käes), come sono fatti questi introietti, di che natura è il loro desiderio. Nel fare
ciò vedremo innanzitutto ciò che avviene nella classe, ed in secondo luogo in
quel luogo più intimo che è il rapporto tutor ti-rocinante:-Ilprimo tipo di
personaggio interno della formazione è quello che Käes definisce come fantasma
narcisista. In questo caso la spinta alla formazione è data da un desiderio che, più
che di tipo formativo, potremmo definire di tipo con-formativo. Un desiderio
cioè di modulare l'oggetto libidicamente investito secondo una immagine di sé
che il formatore ha e che gli impone di conformare, appunto, l'altro, l’allievo, a
sé.

In questo moto ambivalente, qualora l'oggetto investito (il discente) si sottragga


alla spinta con-formativa, le angosce che emergono nel formatore sono quelle
tipiche che si riscontrano in tutti gli scenari narcisistici: la paura della differenza,
dell'alterità, la paura della storia, cioè del fatto che le cose abbiano uno sviluppo
temporale che evidenzia la marginalità del formatore, la paura della relatività
della sua potenza, etc.

b - Vi può essere però un formatore che prende un rapporto con i discenti simile
a quello di una madre con il proprio bambino. Il formatore in questo caso
diventa, come dice Käes, o seno che contiene e che nutre, o bocca che bacia, o
mano che carezza, o sguardo in cui riflettersi, o voce che ammalia, o luce che
rischiara, oppure (invece di questi oggetti parziali di tipo materno) madre, con
tutte le accezioni che, su base culturale e personale, è possibile fare convergere
su questo termine.

Le angosce sottostanti quando prevale in noi questo secondo tipo di fantasma


sono: il fatto che l'altro (il discente) cresce e se ne va, che abbandona la grande
formatrice, la quale perciò mette in atto tutta una serie di "trucchi" per negare
questa separazione.

c - Può accadere che nel formatore prevalga un desiderio di formare tutto


incentrato sull'istanza che controlla, che in lui, cioè, alberghi un vero e proprio
personaggio che controlla: il discente in questo caso deve crescere così come il
docente lo ha predisposto. Cosicché mentre nel caso in cui nel formatore
prevalga un personaggio narcisista il fatto più importante è che il "prodotto
finito" sia conforme al desiderio del formatore, nel caso in cui al suo interno
prevalga il personaggio che controlla, ciò che al formatore interessa è il
conformarsi del discente alle procedure formative, ai protocolli e alle modalità
da lui predisposte, e secondo le quali, a suo avviso, si deve imparare.

Le angosce sottostanti quando prevale questo tipo di desiderio di formare sono:


che l'altro (il discente) non sia conforme al modo con cui viene predisposto, che
emerga come qualcosa di mostruoso, di non riconducibile all’universo
cerimonializzato del docente.

d - Il formatore può essere abitato poi da un personaggio di tipo paterno che


dispensa il proprio sapere come questo fosse un seme capace di fecondare i suoi
discenti; ed allora le angosce sottostanti saranno quelle che il seme vada
disperso, che il "pene" ingravidante non sia sufficientemente in grado di
fecondare, etc.

Anche nel caso in cui di fronte non ci siano tanto un docente e la sua classe, ma
un tutor e il suo tirocinante questi quattro fantasmi formativi, questi quattro
personaggi della formazione, da cui siamo abitati, sono presenti con tutte le mille
e mille coniugazioni che ciascuno fa fra queste parti interne e le altre parti
presenti nel nostro mondo interno (parti giudicanti con più meno severità, parti
più o meno esigenti, etc.). Però la situazione di maggiore intimità prodotta dal
rapporto duale, specie se non temperata dalla contemporanea presenza di un
tutor d’aula e di una comunità di docenti, crea una serie di problemi aggiuntivi,
di ansie e di angosce nel tutor che rendono, se non più difficile, sicuramente più
specifica e intricata il suo vissuto di fronte al tirocinante. Cerchiamo ora di
vedere gli elementi diversità rispetto alla docenza, per poi rivedere come
possono funzionare i quattro fantasmi formativi nel caso del tutoring.

La situazione duale pone ben presto (sotto certi punti di vista ben prima che il
nuovo tirocinante arrivi, e cioè nelle fantasie che il tutor fa su di lui) il
tirocinante in una posizione che potremmo definire di ombra, di doppio, di
prolungamento del tutor, con tutte le fantasie e le angosce di tipo confusivo che
in questa situazione claustrale ben presto emergono. Il tutor sa, o meglio intuisce
che il percorso che il tirocinante deve compiere è quello che va dalla simbiosi
all’individuazione, ma ciò innanzitutto procede piano, necessita di cautela, ed in
quel mentre le angosce di tipo persecutorio che la presenza dell’ombra comporta
avanzano e rendono molto penoso spesso l’esordio e tutta la prima fase del
tirocinio, con oscillazioni rispetto al tirocinante che sono più o meno ampie a
seconda di come il tutor ha elaborato dentro di sé queste angosce.

La situazione di minore formalità, di maggiore intimità originata dal rapporto


diadico, la minore asimmetria rispetto alla classe (in fondo si tratta di accreditare
un giovane adulto e un giovane professionista come tali), ed infine l’assenza –
almeno in termini formali - della valutazione, o meglio spostamento della
valutazione in un altro luogo, danno origine a maggiori tentazioni sublimate sul
piano e dell’espressione dell’amore e di quello dell’aggressività. Ciò è più
evidente in quei momenti in cui le varie angosce, corrispondenti a vari fantasmi
formativi, sono impellenti: è in questi momenti che la perdita della giusta
distanza con tirocinante (identificazione operativa, cfr.: Bertani) spinge verso
situazioni di manipolazione o di identificazione totale.

Il rapporto con l’istituzione o l’azienda in cui il tutor opera così come con quella
formativa dalla quale il tirocinante proviene, che – come ci ha ricordato Mottana
– dovrebbero essere mediati per il meglio dal tutor, in una atmosfera di intimità
rischiano in ogni momento di andare in frantumi poiché ciò che realmente il
tutor pensa dell’istituzione appare da mille indizi.

E la separazione, infine, diventa spesso dolorosa o oscenamente liberatoria e


tende ad essere esorcizzata attraverso mille manovre elusive, fra le quali è
possibile forse mettere anche questi seminari.

Come vedete un approfondimento di questi temi permette di passare da una
conoscenza intuitiva dei problemi ad una di tipo razionale e trasformativo circa i
contenuti e i metodi che il professionista candidato - tutor deve acquisire per
potersi dire realmente e professionalmente tutor: noi pensiamo sia urgente
istituire presso tutte le istanze che utilizzano il tirocinio come momento
importante del processo formativo dei percorsi professionalizzanti per candidati
tutor.

Bibliografia

-Alberoni F., Ferrarotti F., Calvaruso C., I giovani verso il duemila, Torino,
Edizioni Gruppo Abele, 1986.
-Angelini L. Affabulazione e formazione, docenti e discenti come produttori e
fruitori di testi, Unicopli, Milano, 1998
-Angelini L., Dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista: l’adolescente
reggiano di oggi a
confronto con quello di ieri (e di avant’ieri), in: Atti del Seminario “Le stagioni
della vita, a cura
dell’Associazione per la saluta femminile “La Melagrana”, Reggio E., ott. dic.
1999, pp.33-51
-Bertani D., Uso della tecnica riabilitativa nel rapporto con il bambino, in
Pollicino, N.1, aut-inv
1984, pp.44-49
-Cahn R., Necessità e mipasse dell’illusione, ovvero: il destino delle concezioni
del mondo nell’adolescenza e sul finire dell’adolescenza, in: AA. VV.:
Diventare adulto? - Secondo convegno nazionale sulla postadolescenza,
Armando Ed.Roma,1998
-Castellucci A., Viaggi guidati: il tirocinio e il processo tutoriale nelle
professioni sociali e sanitarie, F.Angeli, Milano, 1997
-James H., Tutore e pupilla - Roma : Editori riuniti, 1987
-Gibeault A., La weltanschauung: i rimaneggiamenti dell’Ideale dell’Io e del
Super Io sul finire
dell’adolescenza, in: AA. VV.: Diventare adulto?, op.cit., Armando, Roma 1998
-Guerra L., Il tirocinio nella formazione universitaria dell’operatore
socioeducativo, in: Frabboni, Guerra, Lodini: Il tirocinio nella formazione
dell’operatore socioeducativo, Nuova Itali Sc., Roma, 1995
-Jeammet Ph., Psicopatologia dell’adolescenza, Roma, Borla, 1992
-Kaes R., Quattro studi sulla fantasmatica della formazione e sul desiderio di
formare, in: AA.VV., Desiderio e fantasma in psicoanalisi ed in pedagogia,
Armando, Roma 1981
-Laffi S., Il furto: mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del mediterraneo
Ed., Napoli, 1999
-Manoukian Olivetti, Per finire, a chi viaggia, in: Castellucci A., Viaggi guidati,
op.cit. pp.290-312
-Mottana P., La funzione della tutorship nel processo affettivo di apprendimento,
in: SKILL, riv. dell’Enaip – Lombardia, N.4 del 1991
-Mottana P., Formazione e affetti, Armando, Roma, 1993
-Quaglino G.P., Fare formazione - Bologna : Il Mulino, 1985
-Scandella O., La funzione tutoriale: esperienze nella scuola secondaria
superiore, in: Castellucci A., Viaggi guidati, op.cit. pp.272-284
Funzioni del tirocinio nel mercato del lavoro oggi, di
Stefano Laffi

L’ipotesi che sta alla base della presente riflessione è che il tirocinio oggi sia al
centro di un mutamento sociale attraversato da forze in direzioni diverse, la cui
risultante è difficile da disegnare. Quasi chiunque sperimenta infatti sul piano
personale una “stagione di vita” sempre più aperta rispetto alle sue traiettorie,
con gradi di libertà inediti e ignoti alla precedente generazione, ma al contempo
vive una condizione giovanile che sembra cooptata dalla società solo per
esercitare alcuni comportamenti (sostanzialmente di consumo), mentre
l’interlocutore cui si rivolge - il mercato del lavoro - diventa così dinamico da
lasciar disorientato chi vi si affaccia.

L'impressione più generale è che qui, in qualche modo, si veda la postmodernità


al lavoro, ma insieme ad essa si colga quanto di premoderno ancora oggi ci sia e
quale esito ambiguo lasci questa strana convivenza sul piano della libertà
personale: il tirocinante vive cioè una condizione comune dell'attore sociale, al
centro di uno spazio inedito - di riflessione, di dispiegamento di atteggiamenti e
di comportamenti, quindi di scelta e progetto - in corrispondenza di snodi
biografici un tempo univoci e "naturali", e oggi sdoppiati o sciolti in un
continuum che richiede una decisione. Nei percorsi di vita, soprattutto nei loro
primi tratti, sono infatti aumentati i bivi, le ramificazioni, sono comparse
domande nuove o sono emerse a galla ipotesi un tempo socialmente
stigmatizzate: proseguire o meno, e fino a quando, il corso di studi, entrare o
meno, e con che spirito, nel mercato del lavoro, convivere o sposarsi, procreare o
meno, e quando, e quanti figli...

Eppure questa apoteosi della scelta è più ambigua di quanto si possa pensare: “si
sceglie o si è scelti?” è la provocazione in cui mi pare si sintetizzi la condizione
opaca dei giovani che si affacciano al mercato del lavoro e che più in generale
cercano un ruolo per partecipare alla società in cui vivono.

In una ricerca compiuta nel ‘97-’98 in occasione della tesi di dottorato, mi trovai
a studiare le transizioni critiche sul mercato del lavoro, attraverso 60 interviste a
persone che si erano rivolte al Centro Servizi all’Impiego della Provincia di
Varese perché disoccupate, in mobilità oppure in cerca di primo impiego. Dopo
una serie di colloqui preliminari coi responsabili dell’informazione, della
formazione e dell’orientamento di quel Centro, decisi di adottare come chiave
interpretativa l’idea di “transizioni psicosociali” elaborata da Murray Parkes, che
le definisce come “quei grossi cambiamenti dello spazio di vita che producono
effetti durevoli, che si determinano in un lasso di tempo relativamente breve e
che scuotono in maniera determinante la rappresentazione della realtà”. Così,
combinando il concetto di Lewin di “spazio di vita” - “quelle parti dell’ambiente
con cui il sé interagisce e in relazione alle quali si organizza il comportamento” -
e una particolare accezione del concetto di Cantril di “assunzioni sul mondo” -
“l’insieme delle assunzioni che costruiamo sulla base dell’esperienza passata per
perseguire i nostri scopi” - Parkes arrivò a circoscrivere i passaggi cruciali dei
corsi di vita.

Quell’indagine mi portò a elaborare alcune riflessioni. Chi attraversa un


passaggio critico vive una situazione di spiazzamento - culturale e cognitivo,
sicuramente, a volte anche emotivo - perché muta lo spazio di vita, e in alcuni
casi con esso il sistema personale di assunzioni sul mondo. Seguendo un
movimento a fisarmonica, è una sorta di esilio da una dimensione sociale chiara
e condivisa, in attesa di riprendere una posizione definita, fosse anche quella di
disoccupato. Le condizioni di rientro sono poste dal mercato del lavoro, che in
questo si rivela un agente di risocializzazione severo ed esigente. Il prezzo
chiesto è in ultima analisi quello di un assottigliamento dell’identità, rimettendo
in discussione parte del percorso di vita fatto fino a quel punto.

La risocializzazione avviene per la verità su tutti i piani temporali. Il passato
perde peso, la propria traccia biografica può non avere alcuna continuità: conta
poco l’iter di studio perché fra carriera scolastica e lavorativa c’è spesso una
cesura netta, con piena consapevolezza degli interessati anche prima di
attraversarla; non conta quasi nulla come e con quali meriti si è affrontato lo
studio, perché sarà il luogo di lavoro a ridefinire cosa serve e come va fatto;
conta poco la famiglia d’origine, nel senso che laddove i destini individuali non
sono già decisi per privilegi di censo i genitori possono dare solo conforto
morale e motivazione alla ricerca, ma poco o nulla sul piano informativo e
cognitivo, perché il mercato del lavoro ha cambiato radicalmente le sue
coordinate di ingresso rispetto alla loro esperienza; ma conta poco anche il
precedente percorso professionale, sia esso di una vera carriera lavorativa -
perché a volte il lavoro che si è sempre fatto può non esistere più - sia esso solo
di qualche esperienza temporanea - perché spesso i passaggi avvengono fra
mansioni completamente diverse e non prefigurano alcuna linea continuativa.
Il presente resta indefinito. Il mercato del lavoro moltiplica le posizioni possibili,
le forme di ingresso, e gli intervistati non sanno come collocarsi, le carriere di
studio, formazione e lavoro si sfrangiano e si intrecciano, si perdono i confini
definitori, sicuramente se ne perde la percezione perché l’identificazione di un
periodo come studio o lavoro, come volontariato o prestazione professionale,
formazione in vista di un’assunzione o puro precariato è spesso possibile solo a
posteriori. La percezione di status è oggettivamente difficile, si capisce perché
gli intervistati non declinino mai un “noi” e mostrino una certa vulnerabilità a
forme di sfruttamento, soprattutto nella zona più grigia, quella intermedia della
formazione.

L’afasia, rilevata sulla situazione attuale, è ancora più forte rispetto al futuro, in
cui è a maggior ragione più difficile proiettarsi. La perdita della traccia
biografica e della collocazione lavorativa nel presente privano le rotte individuali
del timone, inibiscono fortemente qualunque margine di progetto. Ma il
risarcimento è ambiguo, perché la rinuncia allo sbocco professionale del proprio
percorso di studi o alla continuità del proprio lavoro non viene ripagata con una
semplice offerta, circoscritta e stabile nell’indicazione di nuovi fabbisogni. Il
problema è che alle transizioni individuali si sommano quelle del contesto -
sistema produttivo, mercato del lavoro e servizi all’impiego - e da questo non
possono giungere input chiari e duraturi di domanda. Manca quindi anche un
effetto pull, cioè un mercato in grado di indicare tempestivamente e attrarre le
carriere individuali verso posizioni certe. L’orizzonte temporale dei singoli,
privati di progetto e con prospettiva indefinita, non può che esser schiacciato
sull’oggi e sul breve periodo: si costruisce una quotidianità di ricerca costante
senza ipotecare nulla sul futuro, qualunque investimento formativo tende ad
assottigliarsi per massimizzare l’efficacia - cogliere in tempo l’occasione del
posto di lavoro resosi disponibile - minimizzando lo sforzo - poiché si tratta di
studiare o prepararsi ad un lavoro che non rientra più nel progetto individuale, e
non è detto che lo si ottenga, o non occorra invece un altro corso per tentare
un’altra occasione.

Nei casi esaminati l’impressione è quella della perdita di una sintassi biografica,
cioè della connessione di senso fra segmenti e carriere nei percorsi di vita. Il
passato di studio, formazione o lavoro può non avere alcun nesso col mestiere
futuro e il presente è una cerniera debole, quasi sempre già consapevole del
distacco ma ancora in difficoltà emotiva ad accettare la perdita (del passato, del
progetto) o incapace cognitivamente di ricucire lo strappo. L’ingresso o il
reingresso nel mercato del lavoro è in questi casi un punto di discontinuità della
biografia, in cui ricostruire il proprio “discorso” - quale lavoro, in quale luogo,
con quali colleghi, in quale città, con quale stipendio, e quindi con quale tenore
di vita... - cambiando necessariamente l’incipit, che spesso non coincide col
diploma o la laurea, o la precedente qualifica.

A partire da quei casi varesini mi sembra formulabile l’ipotesi della formazione


di una razionalità paratattica, intesa come logica reazione al disorientamento
indotto dal mercato del lavoro, con azioni coordinate ma non subordinate, cioè
tentativi paralleli tutti protesi allo stesso scopo ma deboli sul piano della regia e
del nesso dell’uno con l’altro, e di tutti con il soggetto che li persegue. Manca
infatti la sintassi biografica cui affidare per continuità e progetto la scelta del
lavoro e manca anche una linearità nella regolazione del mercato del lavoro, i cui
ingressi sono sempre meno decisi per via istituzionale e sempre più attraverso i
canali informali (proprio a proposito di quanto premoderno ci sia nel
postmoderno). Questi ultimi però non fanno che aumentare la casualità dei
percorsi, l’imprevedibilità degli esiti, perché le relazioni fiduciarie agiscono sulle
modalità di trasmissione delle informazioni ma non sui contenuti, cioè su quali
occasioni lavorative agevolano.

La regola procedurale propria di questa razionalità prevede che la linearità


temporale della traccia biografica diventi linearità spaziale della ricerca: si
mettono in atto moltissimi tentativi, si provano tutti i canali di cui si ha
disponibilità, privilegiando alla sintassi personale la paratassi di azioni
simultanee, non subordinate e spesso prive di una sequenza logica e temporale.
Non è facile dar torto a questa scelta: se non conta il passato ma l’occasione
colta al volo perché la domanda non dà più indicazioni certe e stabili dei
fabbisogni, se non conta l’ufficio di collocamento ma il passaparola di cui però
si ha una dotazione limitata e quindi la necessità di attivare tutti i propri deboli
anelli, allora appare ragionevole tentare, il più possibile.

E’ una forma di razionalità allo scopo perché le diverse azioni sono sempre
avviate per perseguire l’obiettivo occupazionale. Mancano tuttavia alcune
condizioni della razionalità strumentale e di quella procedurale: quasi nulla si
può dire della relazione fra azione ed esito (non solo la probabilità di successo
ma anche l’individuazione di quale esito e di quanto tempo di attesa) ed è spesso
abdicato a priori un ordinamento di preferenze, anche a causa del vuoto
informativo in cui ci si muove. Ciò che più colpisce è però l’impossibilità di
un’intelligenza: in mancanza della bussola di un progetto e di una storia, proprio
questa sospensione di giudizio cui si è costretti sull’efficacia e l’efficienza delle
diverse azioni portano ad esser poco selettivi, a privilegiare la perseveranza,
l’ostinazione, la disponibilità al sacrificio.

Questa relazione ambigua col mercato del lavoro va inscritta nel più generale
rapporto dei giovani con la società cui appartengono, rapporto non meno carico
di contraddizioni, di “doppi legami” fra quello che ti è chiesto di essere e quello
che puoi realmente fare. La mia riflessione in questo caso non parte da un
contesto locale di ricerca, ma dal tentativo di ritrarre in estrema sintesi la
pesantissima cornice di sistema vissuta da chi oggi ha vent’anni.

Se si scorre rapidamente l’indice della loro biografia generazionale si capiscono


gli ingredienti del loro “romanzo di formazione” e se ne coglie a colpo d’occhio
la specificità generazionale: assenza degli adulti (genitori sempre più al lavoro,
entrambi, e meno in casa), rarefazione demografica dei coetanei (fratelli, sorelle,
cugini e cugine), perdita del senso di condivisione a favore di quello di
competizione in classi sempre più di figli unici, perdita della casualità
dell’incontro a favore di relazioni sempre più intenzionali e preconfezionate
(sempre coi propri genitori, coi propri amici, con chi è uguale perché identico
target nel locale preferito), esplosione del potere di spesa familiare, clausura
domestica passata in compagnia di oggetti (merci) e sotto il veto dell’esperienza
diretta ma con l’overdose di quella indiretta (viaggi virtuali, amicizie
telematiche, sesso immaginato), esposizione quotidiana alla tv commerciale -
prima degli anni ‘80 non esisteva, ce ne siamo dimenticati - che diventa il primo
compagno di vita di bambini e ragazzi, black-out degli adulti nella trasmissione
di un progetto di vita, anzi trasmissione quotidiana via tg dell’orrore del mondo
(guerre e corruzione) creato dagli adulti.

La mia ipotesi è allora quella che il mercato - intercettando la solitudine


domestica dei piccoli, la loro straordinaria esposizione mediatica, la crisi di
tempo degli adulti, la loro necessità di risarcire assenza fisica e silenzio di valori
verso i figli con doni, attenzioni e denari, la fantastica estensione ai 30 anni della
fase di vita in cui poter non lavorare ma spendere, senza la coscienza critica
della fatica del guadagno - abbia arruolato le ultime generazioni ad una funzione
ben precisa, il consumo. Ma la pedagogia del consumo ha precetti ben precisi:
conta l’io e non il noi (meno che mai qualunque altro pronome), il qui ed ora, la
soddisfazione immediata del desiderio, il gusto e non il bisogno, l’uso e non la
creazione. Insomma, si instaura un regime di catene casuali brevi, quelle delle
merci - ciò che compro deve funzionare, subito, le istruzioni sono ormai di
troppo, non devo capire, non devo sapere, sono il terminale ultimo della filiera,
nata chissà dove e da quali mani - contro quelle lunghe dell’apprendimento
scolastico - fatto di manuali e di attese assolutamente “inattuali” nella nuova
cultura del presente - o della militanza, dove regnano invece i fogli di istruzione,
cioè il confronto infinito di idee, la fatica di una rielaborazione, di
comportamenti non istintivi e immediati ma coerenti con un’idea del mondo.
L’impegno politico tocca il minimo storico nell’orizzonte mentale di un 15-
30enne e se l’associazionismo funziona non è perché consente l’esercizio della
generosità e dell’amor del prossimo, ma in quanto è azione assai più che
riflessione, spesso fra coetanei (in cui l’amore e l’amicizia crescono all’ombra
rassicurante del far del bene) e soprattutto perché coincide col consumo in un
tratto essenziale: è una catena causale breve, di quello che fai vedi
immediatamente i risultati, concreti, non esige un pensiero sul mondo o la
verifica del tuo senso di appartenenza ad una comunità più larga della tua
piccola cerchia di familiari e amici.

In questo mutamento gli adulti hanno grosse responsabilità e i giovani hanno


spesso colluso per trarne il massimo beneficio: i genitori hanno risarcito la loro
assenza e il loro silenzio eliminando ogni traccia della fatica nella vita dei figli e
hanno cresciuto giovani che pensano già ad incassare senza aver fatto nulla, se il
solo fatto di “esser figli” frutta loro il potere di spesa che aveva il padre al suo
primo stipendio. Fra sé e la meta (di denaro, di successo) non c’è più niente in
mezzo, non c’è l’idea del lavoro e fra poco neanche quella dello studio, non c’è
la fatica e quindi neanche l’esperienza (di capire, di provarsi, di sbagliare, di
misurare capacità e talenti), finché si è stipendiati in famiglia per una
professione che si chiama consumo.

Ecco, il tirocinio va pensato allora anche rispetto a questa congiuntura -


congiura, mi verrebbe da dire - sociale, dove le mete professionali sono
apparentemente richieste ma rese poco praticabili, dove l’ingresso nella vita
adulta è ancora dichiarato come il compito dei giovani ma nessuno davvero lo
sollecita, perché nel frattempo è subentrato in modo strisciante un nuovo
mandato sociale, quello del consumo. In questa cornice il tirocinio deve arginare
alcuni pericolosi insegnamenti di quella pedagogia: deve, io credo, ridare
cittadinanza all’esperienza, devirtualizzare la conoscenza ricollocandola nelle
pratiche quotidiane di un lavoro, reinserire le singole azioni in un percorso di
apprendimento, allungare le catene causali divenute troppo corte allenando alla
visione di un obiettivo finale, rimettere la ricerca di senso accanto a quella oggi
dominante del piacere come movente alle scelte, risaldare - nell’esercizio iniziale
di un mestiere - il futuro e il passato alla dimensione del presente, reso totalitario
dal consumo, che chiede solo il qui ed ora. Deve, in ultima analisi, consentire di
perseguire la missione prima dell’età giovanile, cioè la scoperta del proprio
talento. Vale, in questo senso e al di là della pesantezza della cornice di sistema,
quella sfida che faceva intendere Gregory Bateson in uno dei suoi dialoghi
metalogici: «..una volta conoscevo in Inghilterra un ragazzino che chiese a suo
padre: "I padri sanno sempre più cose dei figli?" e il padre rispose: "Sì". Poi il
ragazzino chiese: "Papà, chi ha inventato la macchina a vapore?" e il padre:
"James Watt". E allora il figlio gli ribatté: "Ma perché non l'ha inventata il padre
di James Watt?".»
2ª parte: Tirocinante e tutor nel processo
formativo
Il tirocinio nel processo formativo, di Luigi Guerra

1. I modelli del tirocinio nella formazione dell’operatore sociale

L’analisi dei possibili “modelli” del tirocinio viene effettuata nelle pagine
seguenti a un livello prevalentemente teorico, tenendo comunque conto della
vasta esperienza accumulata in materia da università e istituti postsecondari
europei di formazione delle diverse figure di operatore sociale. L'ipotesi dalla
quale partiamo è che si possano individuare con chiarezza almeno tre categorie
di modelli teorico - operativi di tirocinio, rispettivamente intitolabili, con
qualche inevitabile forzatura, ai concetti di separazione, di dipendenza, di
integrazione problematica.

I modelli della separazione prevedono una distinzione strutturale fra il momento


della formazione all'interno dell'università e il momento dell'apprendimento sul
campo: il primo segue le linee curricolari, più o meno razionalmente intrecciate,
delle diverse discipline, il secondo ob-bedisce invece alle logiche dei singoli
servizi in cui avviene l'inserimento dello studente. In questo caso, è evidente
come l'inserimento del tirocinio nel percorso di formazione, quali che siano la
sua collocazione temporale e la sua durata, rappresenta una soluzione solo
formale al problema della professionalizzazione dello studente, in quanto non
mette in discussione l'assetto tradizionale degli studi, non comporta il
ripensamento del quadro di competenze che allo stesso devono essere garantite.

Operativamente, questi modelli possono prevedere diverse formulazioni, ognuna


delle quali caratterizza in modo particolare il rapporto tra formazione teorica e
formazione pratica. Quella più semplice teorizza una distinzione radicale tra i
due momenti: nella fase di studio all'interno dell'università si affrontano
contenuti solo di natura teorica, nella fase di tirocinio solo esperienze di tipo
pratico. Ma è facile che prevalgano altre impostazioni che, pur mantenendo
separati i due momenti, li vedano occupare campi formativi di confine. Questo
può avvenire, per esempio, quando l'insegnamento nelle aule universitarie arrivi
a toccare non marginalmente contenuti di natura metodologica, o quando
l'istituzione che gestisce il servizio - intervento sociale in cui avviene il tirocinio
intenda o pretenda fornire allo studente non soltanto esperienze, ma anche
sistemi di interpretazione teorica e metodologica dell'esperienza stessa. Ancora,
il peso dello scol-legamento fra i due momenti di formazione può farsi sentire in
modo differente in funzione delle diverse possibili collocazioni temporali del
tirocinio nel percorso formativo. E’ chiaro che i modelli della separazione
prevedono di norma una collocazione “terminale" del tirocinio: la sua
effettuazione, cioè, solo dopo la conclusione del percorso di studio ufficiale. In
questi stessi modelli non è comunque da escludersi, almeno in linea di principio,
l'effettuazione del tirocinio stesso “in parallelo": cioè in contemporanea rispetto
allo studio teorico.

In quest'ultimo caso, ma più complessivamente in ognuna delle possibili


soluzioni operative dei modelli della separazione, si presenta con evidenza un
rischio di vera e propria schizofrenia tra competenze teoriche ed esperienza
professionale. In altri termini, teorizzare la separazione fra i due momenti
significa, se tutto va bene, ipotizzare una formazione a due livelli non
comunicanti, solo ipocritamente componibili in un unico progetto formativo. Se
qualcosa non funziona, se cioè uno dei due momenti espande il suo raggio
d'azione, o se la compresenza delle due esperienze fa esplodere la contraddizione
legata alla rilevante diversità delle competenze perseguite, si apre il rischio della
reciproca delegittimazione: si opera uno scontro, il prezzo del quale rimane
completamente a carico dello studente. Ma questo normalmente non avviene, o
almeno non emerge in forme documentate e pubblicamente comunicate. Infatti,
l'innegabile possibilità di sopravvivenza di modelli così deboli sotto il profilo
formativo è garantita dal fatto che essi rappresentano potenzialmente una
soluzione di comodo: una soluzione in qualche misura conve-niente sia per gli
istituti di formazione universitaria, sia per i titolari dei servizi o interventi
sociali, laddove evita di mettere in discussione lo status quo e tende ad eliminare
ogni contraddizione tra gli uni e gli altri ratificando come necessaria l'esistenza
di uno scarto tra formazione teorica e pratica professionale.

Se come si è visto, i cosiddetti modelli della separazione costituiscono una sorta
di "collegamento simulato" tra formazione e professione, altrettanto non si può
dire per i modelli che abbiamo raggruppato nella categoria della “dipendenza".
Essi prevedono un collegamento strut-turale tra studio teorico ed esperienza
sociale concreta, interpretando in sostanza quest'ultima in termini dimostrativo -
applicativi rispetto alle teorie studiate e discusse all'università. In definitiva, i
modelli della dipendenza assegnano al tirocinio il compito di esemplificare sul
piano concreto le competenze teorico - metodologiche precedentemente o
parallelamente acquisite nel curricolo universitario. Questa stretta connessione
ovviamente è possibile soltanto laddove i servizi o interventi sociali nei quali lo
studente effettua il periodo di tirocinio siano stati preventivamente scelti in
modo oculato in funzione del loro non presentare alcun motivo evidente di
differenziazione, denuncia o rottura nei confronti della teorizzazione
accademica. La relazione di dipendenza culturale, ma obbligatoriamente almeno
in parte anche funzionale, nei confronti dell'università che questi modelli
presuppongono rischia di snaturare la realtà originaria dei servizi - interventi:
essi diventano tendenzialmente servizi per tirocinanti nei quali le contraddizioni
e i problemi corrono il pericolo di essere sterilizzati a fini didattici. Come dire
che la loro esemplarità, che li rende preziosi strumenti di comprensione
"applicata" delle diverse teorie, rischia di essere perseguita attraverso operazioni
di riduzione di quella complessità che caratterizza i servizi sociali reali.
Concretamente, i modelli della dipendenza possono prevedere tutte le variabili
temporali prima illustrate in relazione alla categoria della separazione: possono
pertanto consentire lo svolgimento del tirocinio al termine o anche durante il
corso di studi tradizionale. Ipotetiche soluzioni molto raffinate potrebbero anche
identificare specifici periodi di tirocinio da effettuarsi in funzione delle
particolari competenze fornite dalle singole discipline o da raggruppamenti
disciplinari omogenei. Comune a tutte queste soluzioni, oltre al potenziale
pericolo di semplifica-zione già ricordato, rimane il rischio di un non
riconoscimento di rilevante dignità formativa all'esperienza di tirocinio: essa può
assumere di fatto lo stesso significato, soltanto di ripetizione e consolidamento
della regola, che avevano i vecchi "compiti" rispetto alle lezioni nella scuola
tradizionale. Può quindi non aprire ad una reale attività di problem solving, da
effettuarsi sì sulla base delle competenze teoriche acquisite in precedenza, ma
anche con un autentico atteggiamento di ricerca e con la possibilità di
validare/invalidare le competenze stesse.

In conclusione, i modelli della dipendenza hanno sicuramente il pregio di


collegare organicamente elementi di teoria e situazioni di prassi sociale e
possono quindi consentire l'applicazione e il consolidamento significativo di
competenze in ambiente protetto. Possono però facilmente degenerare in
esperienze di falsa esposizione dei saperi alla realtà: falsa perché giocata su
realtà addomesticate e pastorizzate rispetto alle contraddizioni dell'intervento
sociale non protetto. Tali contraddizioni sono poi fatalmente destinate ad
esplodere al momento dell'inserimento professionale dell'operatore sociale nel
mercato "storico" dei servizi.
E’ importante ancora segnalare un altro aspetto, per ora non rilevabile in Italia,
ma fortemente presente (e in continua crescita) in altri paesi europei. In alcuni di
essi, il maggiore potere dei titolari dei servizi - interventi sociali, unitamente al
peso culturale e politico delle associazioni degli operatori, tende a far scattare
dipendenze opposte rispetto a quelle finora segnalate. In altre parole, sono le sedi
di formazione universitaria, indebolite sul piano finanziario da scelte drastiche di
contenimento della spesa statale e alla continua ricerca di entrate dirette, che
rischiano di aumentare progressivamente la loro dipendenza dal mercato dei
servizi. In questi casi, le università, a caccia di consenso presso gli enti (che con
le loro politiche di assunzione sono in grado di incentivare o disincentivare
l'iscrizione all'uno o all'altro istituto), rischiano di attivare meccanismi di
copertura ideologica nei loro confronti consacrandone culturalmente le scelte.

Rimane da esaminare l'ultima categoria di modelli, che abbiamo in precedenza


intitolato al concetto di "integrazione problematica". Può risultare evidente da
questa stessa intitolazione come tali modelli appaiano essere i più convincenti,
quelli in grado di garantire un inserimento del tirocinio nel curricolo di
formazione dell'operatore sociale di qualità adeguata. Essi, in definitiva, nascono
dalla consapevolezza della necessità di mantenere su di un piano costantemente
dialettico la relazione tra la "teoria" e la "prassi" dell'intervento sociale. Tale
consapevolezza consente, da un lato, di affermare l'esigenza di una compresenza
di tutti e due i livelli nel percorso di formazione dell'operatore sociale, dall'altro,
di rinunciare alla ricerca di un primato dell'uno sull'altro, evitando quindi sterili
contrapposizioni e gerarchizzazioni.

Da queste premesse scaturiscono due conseguenze che consentono di


sottolineare ulteriormente la superiorità dei modelli dell'integrazione
problematica su quelli della separazione e della dipendenza. La prima, dal punto
di vista dei titolari ufficiali della teoria, chiede all'università di fare i conti con la
realtà dei servizi e, in generale, con le logiche operative dell'intervento sociale.
Quindi, di programmare un percorso di competenza professionale in grado non
tanto di legittimare, quanto di illuminare (comprendere, analizzare, contestare
ecc.) le diverse forme concrete assunte da tale intervento. La seconda, dal punto
di vista dei titolari effettivi della prassi, domanda ai servizi di rendere trasparenti
le loro scelte fondative, di esplicitare le loro strumentazioni, di accettare la
messa in discussione delle loro dimensioni empiriche. Quindi, di interpretare il
tirocinante non tanto o non solo come un neofita da istruire, quanto come una
potenziale coscienza critica, come un positivo elemento di provocazione nei
confronti della realtà consolidata. In questa prospettiva, come meglio verrà
discusso nelle pagine seguenti, il tirocinio non appartiene né solo all'università
né solo agli enti: appartiene ad entrambi e per entrambi costituisce un importante
occasione di qualificazione. Operativamente, i modelli dell'integrazione
problematica prevedono soluzioni anche molto differenti accomunate,
comunque, da alcune scelte di fondo.

Innanzitutto, sul piano della collocazione temporale, rifiutano l'effettuazione del


tirocinio in momenti successivi rispetto al curricolo disciplinare: la cosiddetta
collocazione “terminale” rende infatti possibile un'integrazione solo burocratica,
impedendo il feedback tra esperienza concreta e formazione teorica. È quindi
necessario che il periodo di tirocinio sia effettuato dallo studente quando il suo
percorso di studio non è ancora completato, per consentirgli di riportare
all'università le domande, i contributi, le provocazioni rispetto alle diverse teorie
disciplinari raccolte nei servizi. Peraltro, è altrettanto chiaro che lo studente
tirocinante non deve trovarsi nella fase iniziale del suo percorso di formazione:
in questo caso non disporrebbe di competenze sufficienti per assumere un
atteggiamento consapevole e correttamente critico nei confronti dell'esperienza.
In definitiva, il suo sarebbe un apprendistato non un tirocinio.

In secondo luogo, i modelli dell'integrazione problematica prevedono tra


l'università e gli enti che mettono a disposizione i loro servizi - interventi un
rapporto che non si può esaurire nello “scambio" di operatori in formazione. In
altri termini, il peso dell'integrazione tra teoria e prassi non può essere
“scaricato" sugli studenti: deve al contrario essere accompagnato da una
relazione costante e di qualità elevata tra docenti universitari e responsabili -
operatori dei servizi. Tale relazione è necessaria nel momento
dell'individuazione della tipologia di esperienze da proporre allo studente
tirocinante, nelle fasi di inserimento dello studente stesso, al termine delle
singole esperienze per valutarne l'efficacia. Tale relazione deve consentire di
discutere e di arricchire reciprocamente le teorie e gli strumenti dell'una e
dell'altra parte. Tale relazione, infine, deve passare attraverso la definizione di
figure specifiche sia nell'università, sia nei singoli enti (per esempio, il "tutor" e
il "supervisore”), alle quali affidare il compito di accompagnare scientificamente
lo studente nell'esperienza di tirocinio.
2. Curricolo e tirocinio: l'analisi dei bisogni formativi

Programmare il tirocinio significa innanzitutto programmarne l'incardinamento


strutturale all'interno del curricolo formativo. Come si è già affermato in sede di
discussione teorica dell'argomento, questo traguardo può e deve essere ricercato
sul piano dell"'ingegneria istituzionale", ma deve anche essere perseguito sul
piano dell'individuazione dello specifico significato formativo assegnato al
tirocinio. In altre parole, non è sufficiente rendere obbligatorio il tirocinio e
definirne le modalità tecniche di effettuazione, è necessario stabilire
preventivamente il significato culturale che ad esso si intende riconoscere
all'interno dei contenuti del curricolo

Quindi, la programmazione del tirocinio nasce dall'analisi dei bisogni di


formazione ai quali il tirocinio stesso deve fornire adeguata risposta. Tali bisogni
possono in parte essere descritti su di un piano generale, in parte devono essere
puntualmente individuati all'interno del corso di diploma che prepara l’operatore
sociale. In altri termini, da un lato è senz'altro possibile definire alcune rilevanti
conoscenze e competenze, da assumersi attraverso il tirocinio, che devono
comunque appartenere alla formazione dell'operatore sociale, quale che sia la
sua specifica destinazione professionale, da un altro lato è necessario chiedersi
quali siano gli elementi formativi particolari, richiesti da singole professioni, che
possono trovare risposta nell'esperienza di tirocinio. Tutto questo senza
dimenticare che in nessun caso la formazione universitaria può essere appiattita
nella mera assunzione di singole pratiche professionali.

3. Gli strumenti: la predisposizione del tirocinio

Nell'impossibilità, quindi, di definire in assoluto la mappa dei bisogni formativi


caratteristica di ognuno dei potenziali percorsi di formazione dell'operatore
socioeducativo, ci limitiamo in queste pagine a ipotizzare le dimensioni di
conoscenza-competenza che potrebbero essere riconosciute all'esperienza di
tirocinio all'interno del curricolo universitario di formazione dell'operatore
sociale.
Per individuare tali dimensioni occorre elencare sinteticamente le dimensioni di
competenza professionale chiamate in campo nelle diverse fasi che
caratterizzano normalmente l'azione dell'operatore sociale. Tali fasi, secondo i
modelli di intervento sociale più attendibili, possono essere individuate nei
momenti dell’analisi, della programmazione, della conduzione e della
valutazione dell'intervento stesso. È facile dimostrare l'esistenza di una
connessione strutturale fra questi quattro momenti e la necessità di un buon
livello di competenza dell'operatore in ognuno di essi, per evitare (pur senza
negare l'utilità di eventuali specializzazioni) fenomeni di frantumazione
dell'intervento e ruoli socioeducativi da "idiota specializzato” che agisce senza
possedere tutte le coordinate della sua azione.

Ancora, è possibile sostenere che in realtà ognuno dei quattro momenti
costituisce una delle scansioni interne di un unico processo riassumibile nel
concetto generale di "programmazione". Fatte salve queste avvertenze, è
comunque utile, ai fini della costruzione puntuale della mappa dei bisogni
formativi dell'operatore sociale, analizzare separatamente ognuna delle fasi.

In particolare, il momento dell'analisi riguarda la rilevazione approfondita del


contesto complesso, delle condizioni del "campo" per il quale è previsto
l'intervento: una rilevazione che deve essere compiuta con strumenti di natura
pedagogica, sociologica, psicologica, ma anche giuridica ed economica. Il
momento della programmazione prevede la stesura del progetto teorico, cioè del
modello generale di intervento e l'elaborazione del conseguente programma di
fattibilità, effettuata avendo presenti tutte le sue componenti o comunque il
numero massimo di variabili in campo. Il momento della conduzione si ferisce
alla realizzazione operativa dell'intervento stesso, con l'utilizzazione delle
strategie e strumentazioni previste, ma anche con la necessaria flessibilità e
capacità di tener conto dei feedback provenienti dall'utenza e dal contesto di
lavoro. Infine, il momento della valutazione richiede la rilettura critica e
l'interpretazione dell'attività svolta, a partire dalla documentazione
necessariamente raccolta in itinere e da elementi specifici derivanti da adeguate
misurazioni e con l'utilizzazione di criteri il più possibile coerenti con le
intenzioni effettive delLaserealizzazioneviz. delle quattro fasi descritte, nella
loro specificità e nelle loro interconnessioni, presuppone una figura di operatore
in possesso di competenze di qualità differenziata. Esse possono essere
raggruppate in tre dimensioni di professionalità, rispettivamente relative alle
necessarie conoscenze, alle competenze, alle metacompetenze dell'operatore
stesso.
In sintesi, il piano delle conoscenze riguarda la padronanza degli alfabeti
strutturali fondamentali (knowledge) relativi alle varie fasi di un intervento
socioeducativo: il possesso della letteratura scientifica in argomento, la
conoscenza delle informazioni di base rese disponibili dalla ricerca nel settore.
La dimensione delle competenze si riferisce, da parte sua, alla capacità di
attivare direttamente e criticamente le competenze-abilità (skill) relative alle
varie fasi di un intervento so-cio-educativo. Non si tratta più di informazioni
teoriche, ma di padronanze attive direttamente utilizzabili nelle diverse
situazioni. Infine, il livello delle metacompetenze concerne l'assunzione delle
competenze complesse (comprensive degli orientamenti di valore - values - e
degli stili di comportamento richiesti dalla deontologia della professione e dai
contesti organizzativi) connesse alla capacità di concettualizzare e valutare
l'esperienza in corso, di controllare il proprio schema di decisione e di azione, di
"apprendere ad apprendere" nelle diverse situazioni professionali nella
prospettiva di una formazione permanente.

Ovviamente, anche la distinzione introdotta fra queste diverse dimensioni di


competenza professionale è in larga misura artificiosa. Tra di esse, prevale sulla
distinzione l'esigenza di integrazione e di utilizzazione contemporanea e
congiunta.

Agli incroci tra le fasi dell'intervento socioeducativo e le dimensioni della


professionalità dell'operatore si collocano i diversi nuclei di conoscenze,
competenze e metacompetenze che costituiscono la mappa dei bisogni formativi
che potrebbero trovare totale o parziale risposta nel tirocinio. All'interno di
ognuno di tali nuclei, possono essere individuate conoscenze-competenze sia di
natura generale, da inserirsi pertanto nel percorso di formazione di qualsiasi
categoria di operatore socioeducativo, sia di natura specifica, funzionali cioè alla
preparazione di figure professionali particolari, quale quella dell’operatore
sociale.

Da queste scelte preventive, di carattere culturale e formativo, discende il


disegno organizzativo del tirocinio: la sua strutturazione operativa in termini di
quantità delle esperienze previste, di calendario di collocazione delle stesse
all'interno del curricolo, di modalità "tecniche" di effettuazione, a partire dai
modi della individuazione dei tirocini da parte dell'università e degli studenti e
del controllo qualitativo e quantitativo da operarsi in sede orientativa, formativa
e sommativa.
Sulla quantità si possono avanzare alcune riflessioni. Innanzitutto, il tirocinio
dovrebbe consentire l'effettivo inserimento dello studente in un servizio o
comunque in un intervento socioeducativo. Questo comporta che l'esperienza
non può essere troppo breve, per non risolversi in una frettolosa e superficiale
"visita" a situazioni operative con effetti prevedibili di ribadimento dei
pregiudizi preesistenti nello studente, di sostanziale sfruttamento turistico-
formativo dei servizi, di potenziale mascheramento della realtà da parte dei
servizi stessi.

La proposta di un periodo di tirocinio non eccessivamente contenuto può inoltre


fornire risposta a un secondo risvolto del problema quantità: quello relativo al
numero di esperienze da effettuarsi all'interno del tirocinio stesso. Cioè, al
numero di interventi o servizi in cui svolgerlo. Anche per questo aspetto, occorre
fare attenzione alla diversa natura dei servizi o interventi socioeducativi. Ve ne
sono molti che, per la loro complessità o delicatezza, richiedono un tempo di
acclimatazione lungo: per i quali, quindi, non è pensabile che si possa scendere
al di sotto dei due-tre mesi di inserimento dello studente. È questo il caso, per
esempio, delle comunità per il recupero dei tossicodipendenti, degli interventi
sul tipo street-worker: in generale, dei progetti per la prevenzione e il recupero
della devianza. Altri programmi socioeducativi invece, sono per loro natura
servizi a tempo breve, funzionali a tirocini ridotti. Nei quali, tra l'altro, non è
pensabile che si realizzi una ric-chezza sufficiente di saperi nella prospettiva di
una figura complessa e articolata di operatore.

In definitiva, quindi, occorre saper far coesistere problematicamente l'esigenza di


fornire occasioni diversificate di formazione e la necessità di evitare l'effetto
globe-trotting: il rischio di viaggiare da un servizio all'altro rendendo
superficiale anche un'esperienza lunga di tirocinio. Sulla collocazione
dell'esperienza di tirocinio all'interno del curricolo, si devono ribadire le
argomentazioni di fondo già poste alla base di un modello problematico e
integrato di tirocinio. Se si prevedesse lo svolgimento dell'esperienza al termine
del percorso degli studi, se ne accentuerebbero le interpretazioni
professionalizzanti, con grave rischio di separazione tra dimensioni teoriche e
dimensioni operative della formazione. D'altra parte, se il tirocinio fosse
collocato nella prima parte dei corsi, troverebbe lo studente ancora privo delle
competenze necessarie per affrontarlo in modo critico e consapevole. È evidente
allora come la/le esperienze del tirocinio debbano essere previste in una fase
avanzata, ma non ancora terminale del percorso curricolare: con la possibilità di
ricadute reciproche tra teorie ed esperienze, tra cultura dell'uni-versità e cultura
dei servizi.

4. Le tipologie del tirocinio

Si è più volte affermato che la parola e il concetto di tirocinio possono definire


esperienze di quantità e qualità molto diversa. Uno degli elementi fondamentali
da chiarire, a fianco del dibattito sul "contenuto" formativo di tale esperienza,
riguarda le possibili diverse tipologie di approccio ai servizi-progetti di
intervento nei quali lo studente compie il tirocinio stesso. In altri termini, se il
tiro-cinio consiste nell'inserimento dello studente in una situazione sociale o
socioeducativa, è necessario discutere i possibili diversi modi e significati che
tale inserimento può assumere.

In definitiva, è evidente come non si possa programmare la collocazione del
tirocinio nel curricolo di formazione dell'operatore sociale senza identificare una
tipologia credibile di comporta-menti attesi da parte del tirocinante, formalmente
ad esso richiesti. La costruzione preventiva di tale tipologia costituisce tra l'altro
un elemento di chiarificazione anche nel rapporto con il servizio-progetto in cui
avviene l'inserimento, nel senso che contribuisce a difendere lo studente da
utilizzazioni non concordate, da possibili richieste di prestazioni prive di
significato rispetto al percorso formativo che sta compiendo. In linea teorica,
sono ipotizzabili almeno tre diverse tipologie di effettuazione operativa del
tirocinio, corrispondenti ad altrettanti approcci all'esperienza, con ricadute
formative alquanto diverse.

La prima tipologia, in un ordine solo funzionale, assolutamente non


gerarchizzato per qualità, può raccogliere i tirocini di natura "osservativa".
Prevede che lo studente svolga la sua esperienza nel servizio-progetto
compiendo una raccolta sistematica di dati oggettivi (documenti, materiali,
elementi di sviluppo storico e di anamnesi della situazione ecc.) e soggettivi
(protocolli osservativi raccolti con uso di tecniche e supporti differenziati) che lo
mettano in grado di conoscere e di descrivere il servizio stesso, o sue parti
significative, sul piano quantitativo e qualitativo. Nella sua formula più avanzata
(per esempio, nel caso di studenti che utilizzino il tirocinio per elaborare una tesi
di laurea "sperimentale") questa tipologia può contemplare la conduzione di una
vera e propria ricerca da parte dello studente, con finalità eventualmente non
solo descrittive, ma anche di monitoraggio e di elaborazione di proposte di
modificazione e/o sviluppo del servizio-progetto.

I pregi di questa prima modalità di effettuazione del tirocinio sono molteplici: la


relativa rapidità di esecuzione, che però va valutata in funzione della complessità
dei singoli servizi, consente allo studente di conoscere più situazioni.
L'approccio di ricerca permette di sperimentare strategie e strumenti di raccolta,
classificazione e interpretazione dei dati strettamente legati alle discipline del
corso di studi. I materiali raccolti ed elaborati dallo studente, oltre a consentire
una progressiva qualificazione (con elementi di qualità che approfondiscono i
dati ufficiali) della banca-dati delle offerte di tirocinio a disposizione
dell'università, possono costituire un notevole contributo per l'innovazione dei
servizi-progetti stessi.

Anche i limiti della tipologia osservativa sono sufficientemente chiari.


L'inserimento dello studente tirocinante nel servizio e/o progetto non può che
essere tendenzialmente limitato. La comprensione approfondita delle logiche di
fondo e delle diverse situazioni concrete del servizio-progetto può richiedere
tempi e strumenti non compatibili con la durata del tirocinio e con la
preparazione dello studente. Il pregiudizio o comunque il livello di conoscenza
precedente del servizio da parte dello studente rischia di non essere messo in
discussione nell'economia dei tempi a disposizione e di funzionare quindi come
occhiale ideologico nell'osservazione delle diverse si-

tuazioniLaseconda. tipologia prevede che lo studente venga inserito


strutturalmente nell'équipe degli operatori che stanno conducendo il servizio e/o
intervento e che quindi compia la sua esperienza affiancando in ogni momento
l'azione di personale già esperto. Le prospettive positive di questa
interpretazione del tirocinio sono evidenti. Lo studente non viene abbandonato a
se stesso e riproduce nel servizio le logiche di una bottega artigiana: al riparo da
frustrazioni derivanti dall’incompetenza, può essere accompagnato "per mano"
nella conoscenza di metodi e strumenti difficilmente oggetto di apprendimento
in sede teorica. Inoltre, un inserimento di questo tipo impedisce esperienze di
sfruttamento dello studente in quanto non ne contempla l'utilizzazione sostitutiva
rispetto a personale organico dell'istituzione che gestisce il servizio.

Sul fronte dei limiti di questa tipologia si colloca il rapporto potenzialmente
eccessivo di dipendenza che si viene ad instaurare tra tirocinante e operatori del
servizio. La loro azione può essere non sufficientemente qualificata e aprire ad
atteggiamenti imitativi acritici da parte dello studente: può verificarsi in questo
modo una pericolosa "schizofrenia" tra teoria e pratica. È possibile, quindi, che
si apprenda il mestiere (nelle sue manifestazioni più o meno raffinate) senza
comprenderne le epistemologie, le motivazioni, le finalità.

La terza tipologia, infine, consente che lo studente venga inserito nel servizio-
intervento prevedendo che egli stesso conduca direttamente, almeno in certe
occasioni, alcune attività. Per certi versi, pertanto, questa modalità di
effettuazione del tirocinio rappresenta una variante di quella illustrata in
precedenza. I suoi aspetti più significativi sono

rappresentati dalla maggiore possibilità offerta al tirocinante di misurarsi con la


realtà, impegnando e verificando di persona sia gli apprendimenti derivanti dai
corsi universitari, sia le conoscenze rile-vate nei momenti guidati del tirocinio.
In tal modo si prefigura la possibilità che anche in questo caso l'esperienza di
tirocinio diventi in effetti un vero percorso di ricerca (con le modalità della
ricerca-azione), eventualmente anche nell'ambito dell'elaborazione di una tesi di
laurea sperimentale.

I limiti di quest'ultima tipologia derivano prima di tutto dalla possibilità di una


degenerazione strumentale dell'utilizzazione dello studente all'interno del
servizio-progetto, laddove la sua collocazione sostitutiva rispetto a personale
specifico mascheri soltanto la volontà di risparmio dell'ente. Inoltre, si rischia in
certi casi di esporre il tirocinante ad insuccessi, con conseguente caduta
dell'autostima e limitazione delle aspettative, legati alla sua limitata
preparazione. 0 alla inadeguatezza oggettiva delle condizioni operative proposte
dal servizio. Ognuna delle tre tipologie evidenzia, come si è visto, pregi e limiti.
La prospettiva, allora, non è quella di individuare in assoluto la migliore, bensì
di analizzare studente per studente e servizio per servizio quella che può fornire
risultati formativi più significativi.

5. Gli strumenti a disposizione per l’esperienza sul campo


Per un proficuo svolgimento del tirocinio è necessario prevedere una serie di
strumenti a disposizione dello studente, che gli consentano di documentare il
lavoro che sta facendo, di riflettere su di esso, di comunicare i risultati che ha
raggiunto, di affrontare e risolvere eventuali difficoltàPer. quanto riguarda la
documentazione del tirocinio si può prevedere di fornire allo studente un libretto
di tirocinio diviso in due parti. La prima dovrebbe prevedere una serie di spazi
per la certificazione delle ore di presenza all'interno dell'istituzione e per la firma
del responsabile delegato dall'ente a svolgere questa funzione: un'ipotesi di
certificazione delle ore svolte potrebbe essere quella su base settimanale, salvo
casi particolari di organizzazione oraria del tirocinio. Nella seconda parte del
libretto si possono prevedere tre sezioni: la prima per la registrazione degli
incontri dello studente con il proprio supervisore; la seconda per una breve
relazione del tutor di tirocinio; la terza per l'espressione della valutazione finale
da parte del supervisore. L’attenzione dedicata a questi aspetti della
documentazione del tirocinio non deve apparire come un ennesimo esempio di
inutile burocratizzazione, quanto piuttosto la risposta ad una esigenza di serietà e
di trasparenza nello svolgimento di una esperienza formativa così importante
come il tirocinio.

Uno strumento importante per un proficuo svolgimento del tirocinio è


rappresentato dalla costruzione da parte dello studente della documentazione
della sua esperienza: di una sorta di diario che raccolga sistematicamente e
sinteticamente le annotazioni circa le osservazioni compiu-te, gli strumenti
utilizzati, i risultati conseguiti, i suggerimenti del tutor e del supervisore, le
riflessioni che vengono via via elaborate; di un dossier che raccolga i materiali
che lo studente riceve dal tutor o dal supervisore e quelli che autonomamente
ricerca ed elabora.

Le decisioni circa la qualità e la quantità della documentazione vanno prese di


comune accordo fra lo studente, il suo tutor di tirocinio e il suo supervisore
nell'incontro previsto nella fase iniziale dello svolgimento del tirocinio, in
relazione agli obiettivi che sono stati identificati all'interno del contratto. Va
comunque sottolineata l'importanza di sviluppare nello studente la capacità di
“registrare” azioni, eventi, osservazioni in vista di una successiva rielaborazione,
come strumento che lo aiuterà a riflettere sulla propria esperienza, a interpretarla,
a metterla in relazione con le proprie conoscenze e abilità. Registrare deve
dunque servire a ricordare con accuratezza fatti, eventi, osservazioni; a mettere
alla prova la capacità di riflettere sulla propria pratica; ad analizzare i propri
comportamenti e quelli degli altri identificando i fattori che hanno influenzato la
situazione.

Un terzo strumento utile per un corretto svolgimento dell'esperienza di tirocinio


è rappresentato dai servizi offerti dallo “sportello tirocinio”. Occorre prevedere
un luogo in cui siano presenti, in orari prestabiliti, sia personale che svolge
funzioni di segreteria sia, a turno, membri della Commissione di tirocinio e a cui
possano rivolgersi gli studenti, gli enti che li accolgono, i tutor e i supervisori per
segnalare problemi e difficoltà. In particolare, lo studente deve rivolgersi allo
sportello per comunicare e giustificare le sue assenze dal luogo di tirocinio, ma
lo può usare anche per segnalare difficoltà nello svolgimento del suo progetto: in
questo caso il servizio funzionerà da filtro, come una sorta di SOS pedagogico,
per esempio rimandando al supervisore o contattando direttamente l'ente o il
tutor. L'ente, il tutor del tirocinio e il supervisore si potranno rivolgere allo
sportello per segnalare eventuali inadempienze dello studente, che verrà
convocato dalla Commis-sione di tirocinio per trovare una soluzione ai problemi
emersi.

6. Il tutor di tirocinio

Il tutor è, come si è visto, la figura di riferimento per lo studente all'interno


dell'istituzione in cui viene svolto il tirocinio e ha il compito principale di aiutare
lo studente a conseguire gli obiettivi pre-visti dal contratto, creando le condizioni
che rendano possibile una pratica che è azione e continua riflessione sull'azione.
Già l'espressione “tutor di tirocinio” richiama l'attenzione sul fatto che il
soggetto prevalente del tirocinio non è la persona dello studente, ma il processo
di apprendimento rappresentato dal tirocinio stesso, da una esperienza connotata
dal “fare”, ma anche dal “riflettere” su quel che si sta facendo, in una
permanente integrazione di teoria e pratica.

Il tutor di tirocinio inserisce lo studente nel servizio - attività e lo “accompagna”,


mettendolo nelle condizioni di e fornendogli gli strumenti per:

- conoscere e riflettere sugli elementi essenziali delle conoscenze e delle


competenze del ruolo professionale di riferimento, così come si declinano nel
contesto istituzionale, organizzativo e relazionale del servizio - attività in cui si
svolge il tirocinio;

- identificare le teorie che sottendono alle scelte compiute nel contesto
operativo ed esercitarsi a tradurre le conoscenze apprese in azioni concrete,
coerenti e appropriate;

- controllare il proprio sistema di decisione e di azione, concettualizzando e


valutando l'esperienza in corso.

La prima fase di intervento del tutor riguarda la messa a punto del progetto
formativo. Parliamo di “messa a punto” perché gli enti che accolgono i
tirocinanti hanno già elaborato un progetto di tirocinio: in questa fase, attraverso
un incontro fra studente, tutore supervisore si tratta principalmente di precisare
gli obiettivi che a livello generale sono già presenti nel contratto, le modalità
organizzative, il tipo di registrazione - documentazione dell'attività che viene
richiesta.

Per quanto riguarda le conoscenze il tutor deve mettere lo studente in grado di:

a) conoscere l'organizzazione generale dell'ente in cui è inserito e la legislazione


relativa al suo ambito di appartenenza;

b) riconoscere e ricostruire la mappa organizzativa del servizio - progetto


(utenza, modalità di accesso, tipologia di risposta ecc.);

c) analizzare l'agire quotidiano del proprio tutor con particolare riguardo agli
aspetti metodologici e deontologici;

d) individuare lo specifico professionale del ruolo di riferimento, anche in


relazione con le altre figure professionali operanti all'interno del servizio-
progetto.

Per raggiungere questi obiettivi, il tutor dovrà seguire il lavoro di osservazione e


di analisi che lo studente condurrà sul contesto e sullo svolgimento delle
funzioni professionali, predisponendo materiali di documentazione
sull'organizzazione del servizio-progetto, griglie di analisi dell'organizzazione e
della professionalità, partecipazione alle riunioni di progettazione-verifica,
incontri con responsabili e operatori dell'ente.
Per quanto riguarda le abilità, il tutor dovrà mettere lo studente in grado di:

a) identificare e analizzare gli strumenti e le tecniche utilizzati dalla figura


professionale di riferimento, anche in relazione ai modelli teorici che ne
supportano l'uso;

b) mettersi alla prova nell'uso di strumenti e tecniche propri del ruolo, con
particolare riguardo all'elaborazione di un progetto di lavoro (che preveda tutte
le fasi, dall'analisi dei bisogni alla programmazione dell'intervento, alla sua
gestione e alla sua valutazione) e alla conduzione guidata di interventi relativi a
un'utenza individuale o di gruppo.

Il tutor, anche in questo caso, dovrà supportare lo studente nel suo lavoro di
riconoscimento, analisi, appropriazione degli strumenti e delle tecniche,
attraverso la predisposizione di una serie di osservazioni sistematiche, la
costruzione di griglie di sistematizzazione degli elementi più significativi del
percorso di lavoro, il monitoraggio degli interventi condotti dallo studente
stesso.

Per quanto riguarda le metacompetenze, il tutor ha il compito di aiutare lo


studente a saper identificare e valutare le tappe del proprio processo di
apprendimento rappresentato dal tirocinio e in particolare a:

a) ricostruire e rielaborare l'esperienza compiuta, anche nella direzione di


identificare i nodi problematici, di raccogliere le informazioni mancanti, di
ricercare il senso delle azioni compiute; b) identificare con chiarezza che cosa ha
appreso e come ha utilizzato gli apprendimenti;
c) autovalutare il proprio apprendimento in relazione sia alle conoscenze sia alle
competenze.

Il tutor deve sostenere lo studente nell'analisi delle azioni compiute in relazione


sia all'organizzazione del servizio-progetto sia all'utenza; nel ripercorrere, anche
attraverso per esempio diagrammi di flusso e sintesi per tappe significative, il
percorso formativo allo scopo di identificare i procedimenti adottati, le risposte
date, le soluzioni trovate e le possibili alternative alle scelte compiute;
nell'individuare indicatori che consentano la valutazione dell'efficacia e
dell'efficienza delle relazioni messe in atto con l'organizzazione del servizio, il
tutor ed even-tualmente l'utenza.
La relazione che il tutor stenderà sull'esperienza condotta con lo studente offrirà
un materiale di documentazione indispensabile per la valutazione finale del
tirocinio; tale relazione dovrebbe contenere una presentazione del percorso
formativo, una descrizione delle attività svolte dallo studente, una
documentazione delle valutazioni formative condotte.

Il tutor svolge un ruolo di grande importanza nella conduzione dell'esperienza di


tirocinio; non è sufficiente essere un buon operatore per essere anche un
buon tutor, occorre infatti assumere intenzionalmente una funzione formativa e
declinarla in relazione alle caratteristiche dello studente, delle sue esigenze
curricolari, delle potenzialità formative della situazione. L'assunzione esplicita di
questa funzione, la collaborazione con lo studente, i contatti periodici con il
supervisore rappresentano un'occasione importante di aggiornamento e di
autoformazione professionale del tutor. Può essere anche opportuno pensare a
interventi di formazione dei tutor, organizzati e gestiti dall'università, da sola o
in collaborazione con gli enti e le associazioni di categoria, che possono
rappresentare una sorta di contro-partita dell'impegno assunto dai vari enti nella
formazione dei futuri assistenti sociali.

7. Il supervisore

Il supervisore è, come si è visto, la figura di riferimento scientifico dello


studente, con compiti di
coordinamento e di valutazione degli aspetti qualitativi dell'esperienza di
tirocinio. È di norma un
docente universitario, a cui è affidata la responsabilità di assicurare il legame fra
curricolo
accademico ed esperienza di tirocinio, nella direzione di un progetto formativo
che metta in
relazione reciproca teoria e pratica.
Il supervisore ha il compito di:

a) definire in maniera operativa, assieme allo studente e al suo tutor, gli


obiettivi generali del tirocinio che sono indicati nel contratto;
b) concordare la qualità e la quantità della documentazione richiesta allo
studente e al tutor;
c) monitorare l'andamento dell'esperienza di tirocinio;
d) assistere lo studente nella stesura della relazione finale sul tirocinio;
e) valutare in itinere e alla fine l'esperienza di tirocinio dello studente e la sua
qualità formativa;
f) collegare l'esperienza di tirocinio con il successivo curricolo dello studente.

La definizione operativa degli obiettivi è operazione importante e delicata: la sua


corretta conduzione è, infatti, condizione necessaria per assicurare la qualità
formativa del tirocinio. Da un lato essa deve tenere conto dei bisogni formativi
dello studente, in relazione agli studi già compiuti, ma anche in funzione della
valenza formativa dell'intero curricolo formativo; dall'altro deve tenere conto
della cultura, professionale e non solo professionale, presente nel servizio-
progetto. Una esplicita definizione degli obiettivi formativi metterà lo studente
in grado di “controllare” via via la propria esperienza, nella direzione di un'auto-
valutazione del proprio apprendimento, e insieme consentirà al tutor di
predisporre le attività e gli strumenti ritenuti più funzionali al loro
raggiungimento.

Conoscenze, competenze, metacompetenze che a livello generale sono state


indicate a proposito dei compiti del tutor vanno precisate e contestualizzate,
perché possano diventare le linee-guida dell'esperienza del singolo studente
all'interno di un determinato servizio-progetto. La messa a punto degli obiettivi e
delle attività connesse potrà venire effettuata in un incontro fra supervisore, tutor
e studente, che potrà tenersi sia prima dell'inizio del tirocinio vero e proprio, sia
immediatamente dopo una breve fase di presenza dello studente, a scopo di
"orientamento", all'interno del servizio-progetto.

In questo primo incontro, vanno concordate anche le modalità di raccolta della


documentazione, la sua tipologia, la scansione temporale. Può essere utile
prevedere, come si è già visto, due differenti tipi di documentazione: il diario e il
dossier.

Il primo è uno strumento che consente di registrare a scadenze temporali definite


e ravvicinate (per esempio ogni settimana) le attività svolte e gli strumenti
eventualmente utilizzati; dovrebbe essere usato dallo studente con la funzione
principale di registrare gli elementi che consentiranno all'estensore la
ricostruzione accurata dello svolgimento del tirocinio e al supervis6re la
possibilità di monitorare tale svolgimento.

Il secondo tipo di strumento è utilizzabile dallo studente per raccogliere i


materiali che gli vengono forniti (dal supervisore e/o dal tutor) o che ha
personalmente individuato durante e in relazione all'esperienza condotta: ad
esempio materiale illustrativo del servizio-progetto, testi legislativi relativi
all'ambito, schede di analisi, griglie utilizzate, indicazioni bibliografiche di
approfondimento, materiali prodotti, risultati delle osservazioni compiute, piani
di lavoro, riflessioni ecc. Per evitare che la documentazione sia solamente
assemblata in maniera casuale o al massimo cronologica, è opportuno dare allo
studente alcune consegne, come per esempio quelle di indicare per ciascuno dei
materiali che compone il dossier la fonte (libri, riviste, materiali interni del
servizio-progetto, produzione e/o adattamento propri), l'uso in relazione agli
obiettivi formativi (mi è servito a...), la sua funzione anche al di là del contesto
specifico (può servire a...) -

Il dossier assolve per lo studente la funzione di documentare la propria


esperienza e di fornirgli gli elementi per una riflessione che vada anche nella
direzione di decontestualizzare l'esperienza stessa, identificando aspetti e
problemi che sono generalizzabili. Il supervisore può ricavare informazioni sia
sulle caratteristiche della situazione formativa del tirocinio, sia sulla capacità
dello studente. di documentarsi/documentare e di valutare le informazioni
raccolte, gli strumenti utilizzati, le riflessioni compiute. L'analisi della
documentazione prodotta dallo studente ed eventualmente dal tutor costituirà
una parte rilevante dell'azione di monitoraggio che il supervisore è chiamato a
svolgere.

Monitorare l'esperienza del tirocinio significa in primo luogo controllare la


qualità formativa del tirocinio stesso, per confermare che il servizio, progetto o
attività in cui lo studente è inserito consente di raggiungere gli obiettivi e offre le
opportunità richieste dal tirocinio o, in caso contrario, per prendere i necessari
provvedimenti; in secondo luogo, valutare l'andamento del lavoro dello studente
e del suo tutor e fornire le informazioni e gli strumenti utili a un proficuo
svolgimento del processo. Per monitorare il tirocinio il supervisore ha a
disposizione tre strumenti.

1. Incontri con lo studente e il tutor. Anche per non richiedere un impegno


eccessivamente gravoso al tutor di tirocinio, che continua a svolgere le proprie
funzioni professionali, si possono prevedere tre incontri di questo tipo:

- all'inizio, per la messa a punto degli obiettivi e della tipologia di
documentazione;

- a metà periodo per analizzare la documentazione raccolta e per effettuare


una valutazione formativa; per risolvere eventuali problemi e quindi confermare
o introdurre modifiche al progetto originario;
- alla fine per una prima valutazione dell'esperienza e per predisporre la
relazione finale.

2. Incontri con Io studente. Si possono prevedere due incontri,


orientativamente a metà fra il primo e il secondo e fra il secondo e il terzo
incontro tra supervisore, tutor e studente, per controllare l'andamento del lavoro,
anche attraverso l'uso di strumenti che servano a una valutazione formativa. A
questo proposito si possono richiedere allo studente relazioni da svolgere
secondo uno schema tipo (una serie di punti individuati dal supervisore) e con
lunghezza prefissata: si tratta di uno strumento che può servire anche ad abituare
lo studente a relazionare per iscritto su aspetti della propria esperienza.

Può rivelarsi utile condurre questo tipo di incontri anche per gruppi di studenti
che, seguiti dallo stesso supervisore, stanno effettuando esperienze diverse di
tirocinio: questo allo scopo di socializzare le esperienze, ricavarne le,
problematiche comuni, offrire un sostegno per l'im-patto emotivo che le
esperienze di tirocinio possono avere sullo studente.

Lo studente deve comunque, qualora lo ritenga necessario, poter contattare il


proprio supervisore in orari prestabiliti.

3. Visita al servizio-attività in cui è presente Io studente tirocinante. Il


supervisore può osservare direttamente lo studente nell'effettuazione dei compiti
affidatigli, le condizioni e il contesto in cui questo avviene, le modalità di
intervento del tutor.

Per quanto riguarda l'assistenza allo studente nella stesura della relazione finale è
opportu-no che la Commissione di tirocinio, identifichi uno o più schemi tipo di
relazione: una serie di punti che devono essere necessariamente sviluppati, per
garantire la confrontabilità delle relazioni e il loro valore documentario sia
rispetto al curricolo universitario, sia per gli enti presso cui si è svolto il
tirocinio. Una copia della relazione finale dovrebbe rimanere all'università (ove
potrebbe essere utilizzata come materiale di orientamento per gli studenti che
devono scegliere il proprio tirocinio) e una copia andrebbe inviata all'ente che ha
ospitato il tirocinante come documentazione dell'esperienza svolta e delle
riflessioni critiche che l'esperienza ha sollecitato.

Aiutare lo studente a collegare l'esperienza di tirocinio con il successivo


curricolo formativo è un altro dei compiti del supervisore, compito in cui si
realizza la funzione di legare la pratica alla teoria, che è uno dei momenti
fondamentali del tirocinio come processo di apprendimento. Sulla base della
conoscenza del tipo di esperienza che lo studente ha fatto in un determinato
ambito di lavoro e delle conoscenze e delle competenze acquisite,
dell'individuazione delle necessità formative che l'esperienza stessa di tirocinio
ha messo in evidenza, della valutazione delle opportunità offerte dal curricolo
universitario, il supervisore può svolgere molto utilmente una funzione di
tutorato per il restante percorso accademico dello studente, in particolare consi-
gliandolo per la stesura del suo piano di studio e per la scelta della sua tesi di
diploma.
La funzione di tutorship1, di Paolo Mottana

Premessa

Mi è occorso in questi anni diverse volte e in diversi contesti di programmare


sessioni di riflessione e di progettazione del ruolo di tutor con operatori di
servizi, con il personale di imprese, con educatori, psicologi e insegnanti. Da
quando ho scritto il mio articolo, nel 90, ad oggi, la funzione del tutor è entrata
con forza in moltissime strutture e servizi con obiettivi di formazione. Il che
significa che il modo in cui oggi i processi formativi si danno, le esigenze che
debbono fronteggiare e il tipo di struttura processuale con cui hanno a che fare in
un certo senso richiede una funzione di tutor.

Questo non significa affatto che tale funzione abbia assunto una fisionomia
chiara e condivisa. Come è ovvio, anche in dipendenza dai molteplici contesti e
dalle differenti tipologie di occasioni formative all’interno dei quali è maturata
una sua emergenza, più o meno originaria, essa ha assunto volti diversi, talvolta
più solidi sul piano del loro fondamento organizzativo e formativo, talaltra, a
mio giudizio, più improbabile e precaria. Sull’argomento è oggi recuperabile una
ricca produzione di studi2 e dunque non intendo dilungarmi né in una rassegna
critica, né tantomeno in uno studio comparativo.

Per conto mio continuo a ritenere che, fatte salve le necessarie declinazioni che
ciascun contesto impone, i necessari aggiustamenti all’interno di percorsi che
hanno destinatari diversi sia per caratteristiche che per numero che per necessità
formative precipue, una teoria del ruolo del tutor non possa prescindere da una
riflessione teorica sulla funzione della tutorship, intesa, così come ho cercato di
esplicitare più di dieci anni or sono, come una dimensione strutturale, dunque
persistente, perlopiù o comunque spesso latente, e comunque agita, a prescindere
da una sua effettiva presa in carico e incarnazione organizzativo-funzionale, nel
processo formativo, quale che esso sia. E’ dunque mio parere che sintantoché
tale cogenza strutturale non venga assunta e dispiegata anche in termini di
eventuali ruoli deputati ad espletarla, nei limiti del possibile (tenendo conto che
si fatta di un elemento strutturale non pienamente riconducibile ad una serie di
procedure personalizzabili), le diverse idee sul tutor resteranno, per quanto
interessanti e talvolta anche rispondenti a singole esigenze organizzative e
formative, sostanzialmente carenti.

E’ in questo senso che, in occasione della bella iniziativa dell’AUSL di Reggio


Emilia “Il tirocinio come cerimonia di aggregazione”, un corso di formazione
rivolto agli operatori in ambito sanitario sulla valorizzazione dell’esperienza del
tirocinio e sulla sua strutturazione formativa tra il 2000 e il 2001, mi sento di
riproporre, come elemento di riflessione, la mia teoria della funzione della
tutorship, che ha come sfondo lo studio psicodinamico realizzato sulla
processualità formativa presentato nel volume Formazione e affetti del 1993.
Rispetto al testo del 90, ho voluto revisionare solo alcune espressioni e riscrivere
qualche parte che, a seguito delle diverse esperienze seguite, ritengo non più
pienamente corrispondenti o anche semplicemente troppo contratte e opache. Mi
auguro che tale studio, che ha indubbiamente alcuni caratteri di rigidità, possa
comunque essere considerato un elemento di confronto con altre teorie che
intendano affrontare la funzione e il possibile (o i possibili) ruolo del tutor non
soltanto come un insieme di compiti sfuggiti di mano alle funzioni formative
ritenute essenziali (i docenti , i progettisti), ma come una parte irrinunciabile
anche se in parte rimuovibile (come a lungo è stato fatto, in larga misura
lasciandola assorbire alla dimensione istituzionale e alle sue ritualità e
procedure) di tutti i processi formativi orientati a conseguire un apprendimento
significativo.

La pensabilità della tutorship

Occorre innanzitutto poter pensare l'esistenza di uno spazio-tempo specifico


pertinente ad una funzione di tutorship3. Tale luogo deve essere immaginato
anzitutto come un dato strutturale, non necessariamente programmato
intenzionalmente, anzi presente comunque in ogni contingenza di carattere
formativo. La tutorship, in tal senso, come strutturalità funzionale orientata verso
il suo3 oggetto, e cioè il processo di apprendimento da intendersi come
fenomeno sia interpersonale che intrapersonale, accade dunque anche a
prescindere, spesso, dalla sua personificazione organizzativa. Si dà, in forma
manifesta oppure latente, "agita" oppure "agente", guidata oppure senza
comando, nella trama regolare di ogni evento formativo.
La tutorship è, su un piano funzionale e simultaneamente simbolico, la
condizione di possibilità implicitamente operante del processo di insegnamento-
apprendimento. Ciò che realizza il luogo della trasformazione e che lo riveste di
una sua specifica forma e che gli conferisce uno specifico significato. E’ questa
funzione che, resa visibile attraverso la nostra riflessione, permette che un
processo formativo si collochi nell’ambito dell’esperienza come un qualcosa di
delimitato e di dotato di forma e di significato.

Essa quindi, in quanto funzionante effettivamente a prescindere da una sua


incarnazione operativo-organizzativa, non richiede la figura reale di un tutor nè
si identifica necessariamente con essa. Funzionalmente, un ruolo di tutor può
tuttavia, è ovvio, presidiare l'area della tutorship. Si tratta di un esercizio
tutt'altro che scontato e di un'identificazione il più delle volte irrealizzata, poichè
la tutorship è fondamentalmente una funzione strutturale complessa di cui il
cosiddetto tutor può soltanto custodire una sezione di "operatività" e di
rappresentanza simbolica oppure curarne e regolarne l’elaborazione.

La tutorship è lo spazio-tempo fisico e mentale che consente a un formatore e a


un formando di incontrarsi perchè si produca un episodio di insegnamento-
apprendimento, o, meglio ancora, perchè si dia l'opportunità affinchè un episodio
di insegnamento fra un formatore e un formando possa verificarsi (formatore e
formando sono ovviamente definizioni neutre che possono indicare soggetti
singoli o multipli o anche funzioni interne alla persona).

La tutorship, se presidiata, è all'origine del processo affettivo di apprendimento (


e del suo scioglimento), in quanto è una funzione "istituente" (o "destituente") e
consente di creare l' "area potenziale" della formazione4. Ma questa funzione
appare spesso occultata e rimossa e talvolta può essere effettivamente
inoperante. Tale assenza può destabilizzare o rendere irrealizzabile la4 creazione
del territorio per un "apprendimento" in cui la dimensione cognitiva e quella
affettiva ,cioè l'"apprendere dall'esperienza", non vadano disgiunte 5.

Il processo affettivo di apprendimento


Per poterla "vedere", per registrarne l'emergenza, è necessario cogliere la
dinamica del processo formativo, quello che ho definito a suo tempo il "processo
affettivo dell'apprendimento"(In Formazione e affetti, p.131 sgg.). Tale processo
è strutturalmente presente ogni qualvolta si verifichi l'apprendimento di
"qualcosa" nel senso anzidetto di "apprendere dall'esperienza affettiva" (in tal
senso configura un'itinerario per così dire deontologico o strutturale del processo
di apprendimento). Ogni qualvolta il percorso sia di un tipo meno completo, cioè
in eccesso o in difetto di caratterizzazione affettiva e di attivazione del
trattamento conseguente (in difetto o in eccesso di componente di legame, per
dirla con Bion, interno o esterno), la dinamica del processo non è meno
funzionante ma può essere disturbata e disturbante. Infatti il processo, pur
accadendo sempre su un piano latente, è come detto frequentemente un puro
"dover essere" nelle situazioni formative per quanto riguarda un’assunzione della
sua complessità operativa e funzionale, in quanto non è riconosciuto, non è
concepito, non è compreso.

Il “processo” risulta scandito, o meglio, si può scandire analiticamente, secondo


il punto di accesso che ho cercato di introdurre, in quattro fasi: istituzione,
illusione, modulazione, scioglimento. In definitiva, ogni volta che si verifichi un
episodio di apprendimento, si succedono pressocchè regolarmente e linearmente
queste quattro fasi. Nello schema riportato(fig.1) sarà dato rintracciare il
coordinamento tra nodi processuali e dinamici , tipi di trattamento e codici
affettivi e funzionali richiamati nelle quattro fasi consecutive.

In tale processo si può ulteriormente individuare due grandi fasi coordinate e due
possibili livelli di funzionamento: chiameremo fase "esterna" o "di confine" la
fase completa di funzionamento della tutorship (connotata in senso affettivo
come "fathering" me dunque sostenuta prevalentemente da un codice affettivo di
tipo paterno) e fase "interna" la fase più tipicamente docente (connotata in senso
affettivo come "mothering", e dunque sostenuta prevalentemente da un codice
affettivo di tipo materno). In tal senso evidentemente intendo proporre una
distinzione significativa tra due funzioni (o sottofunzioni), quella di docenza e
quella di tutorship come due funzioni strutturalmente implicate in ogni
situazione formativa effettiva, due funzioni che andrebbero tenute distinte non
solo su un piano teorico, ma anche su quello operativo e di ruolo. Si può
evidenziare inoltre un altro livello di funzionamento processuale nei termini di
una funzione "agente" valida per tutte le fasi e di una funzione "agita" anch'essa
ipoteticamente valida per tutte le fasi in entrambe le aree della tutorship e della
docenza vera e propria, all'interno del complessivo "sistema insegnante".

Prima di soffermarci sull'area di responsabilità della tutorship va chiarito che il


termine di funzione "agente" è riferito a ciò che nella tutorship e nella docenza
"deve" essere fatto per presidiare la coerenza del processo affettivo orientato
verso un apprendimento "dall'esperienza". La funzione "agita" è ciò che di volta
in volta viene fatto nell'area della tutorship e della docenza per fronteggiare
l'imprevisto e che quindi travolge il profilo funzionale dei due ordini di
competenza, oppure i frequenti scambi di funzione dove uno dei due ruoli sia
assente o inoperante.

La tutorship

L'analisi che seguirà cercherà di fare chiarezza, per quanto possibile, sulla
funzione di tutorship, lasciando sullo sfondo la funzione più tipicamente
docenziale (per l’approfondimento della quale, secondo questi riferimenti teorici,
rinvio al testo citato Formazione e affetti).Si tratta dunque di una funzione
"esterna", o, in termini sistemici, di una funzione di "confine"6,
fondamentalmente. Questo nella sua dimensione di "funziona agente". Ciò
significa che la tutorship "dovrebbe" essere attivata fondamentalmente nella
prima e nella quarta fase temporale del processo affettivo di apprendimento e
solo per emergenza nelle fasi intermedie. E' -questa "esterna"- un'area
tipicamente "istituzionale" all'interno della quale l'obiettivo fondamentale in
termini affettivi è quello di creare e di sciogliere il dispositivo di contenimento
del processo di modificazione intrinseco all'apprendimento. Nella prima fase è in
gioco la creazione di tale dispositivo, che definiremo "setting"7 o, ancor meglio,
"quadro"8 del processo.

E' in questo quadro che il formando può depositare il proprio corpo


fantasmatico, che può sentire contenuti i propri nuclei più primitivi e ansiogeni, i
propri timori di manipolazione , di metamorfosi o di smembramento, ottenendo
una rassicurazione fisica e simbolica, ma soprattutto psichica, sulla possibilità di
un cambiamento non destabilizzante: qui egli deposita la proiezione della sua
simbiosi con il corpo materno. Ciò lo metterà in condizione di attivare i suoi
nuclei interni e di sciogliere la corazza della sua "soggettivazione" , cioè della
sua struttura esibita verso l'esterno (persona intermini junghiani), del soggetto
che vorrebbe apparire, in favore della possibilità di una apertura e di una
ristrutturazione. In tale quadro o confine ne va della consistenza e della
credibilità o agibilità di tutta la proposta formativa, poiché è essa a insediarsi nel
ricettacolo che il setting procura e promuove.

Il quadro, il setting da tale punto di vista, vanno oltre ciò che la tutorship può
garantire attivamente, nel senso che investono anche la tipologia istituzionale, la
sua affidabilità simbolica, i sigilli gerarchici, il "rango" della situazione
formativa; tuttavia, una parte fondamentale di tale responsabilità può essere
svolta positivamente dalla tutorship: essa deve infatti garantire la "dimora" della
formazione e di questa deve possedere "il disegno e il controllo mentale". In tal
senso un’eventuale ruolo di tutor dovrebbe anche assumersi il compito di de-
cidere, anticipatamente e coerentemente, il “confine” dell’esperienza e
rendersene responsabile in maniera complessiva, senza tralasciare nulla di ciò
che una domus deve garantire (dalla strutturazione fisica alle cure fisiologiche al
contenimDeventodunqueemotivo)anzitutto. istituire uno spazio in cui possa
nidificare il processo formativo, uno spazio fisico e mentale, un'area
"potenziale": dunque una trama temporale regolare fatta di orari, di scansioni, un
reticolo normativo, un contratto esplicito sul percorso e sulle sue articolazioni,
un insieme di pratiche insomma che aiutino il formando a insediarsi nel
perimetro dell'esperienza di apprendimento.
E' in questo senso che, mutuando i"codici affettivi" di Fornari, si può tentare di
incorporare la tutorship in un'area di valori affettivi paterni definendola come
pratica del fathering, parafrasando Bion. Ciò proprio in senso fornariano9, in
quanto il tutor “bonificherebbe” l'area della genesi della formazione (e ogni
inizio richiama per analogia l'inizio per eccellenza, la nascita) dagli elementi
tipicamente paranoici che lo insidiano, i timori di insuccesso catastrofico, di
destabilizzazione, di metamorfosi e di perdita dell'identità. Attraverso le regolari
procedure di allestimento fisico e di contrattazione psicologica, viene garantita l'
abitabilità dell'esperienza formativa. In questa fase è anche necessario accettare e
assumere la responsabilità che deriva dall'innescare un primo transfert parentale
in cui è fondamentalmente in gioco, simbolicamente, l'affidamento appunto della
propria vita mentale (ma in taluni casi anche fisica, come nell' outdoor
development o per esempio nelle pratiche educative di avventura).

Qui è più che mai evidente anche il vero e proprio "ruolo" del tutor, come
inauguratore del processo e vera rappresentanza in situazione della "dimensione
istituzionale", che è poi la garanzia ultima, “inconscio dell'inconscio”, di ogni
riferimento culturale e simbolico. E' in tal senso che la credibilità istituzionale, a
prescindere da quella del singolo tutor, risulta fondamentale per determinare la
consistenza e la capacità di contenimento, l'attendibilità del setting formativo.
Non è un caso che la scuola attualmente riesca con fatica a promuovere i propri
obiettivi di apprendimento: è in gioco il prestigio e il senso stesso della sua
finalità istituzionale e della sua cultura (sfugge il suo orizzonte di senso, il che
vale più ancora che per gli allievi, per gli insegnanti ). Il setting risulta
determinante non solo perchè rende possibile la fiducia (e quindi la dipendenza)
del formando, ma anche per la sicurezza e l'autocomprensione professionale del
docente, che solo a partire da un setting ben configurato potrà elaborare la sua
competenza fino in fondo, potendo anch’egli soggiornare in una domus
adeguata.

Simmetricamente, pertiene alla tutorship la responsabilità dello smantellamento


e della dismissione della dimora fisico-affettiva in cui avviene il processo
"temporaneo" (simbolicamente, giacchè nessun processo si arresta mai
veramente) di apprendimento. Si tratta di elaborare il momento della separazione
del formando dall'"area potenziale", il "taglio" che restituisce il soggetto alla
trama della propria "attualità". E' qui in gioco, ancora una volta in termini di
codice affettivo, una competenza di ordine paterno al cui centro si pone il
"gesto" simbolico dello scioglimento, del nodo che lega il formando al formatore
in una relazione dalla forte analogia con la dipendenza da un'area di valori
materni. Da un lato ciò corrisponde alla messa a fuoco della temporalità affettiva
del processo di apprendimento e quindi della sua provvisorietà, dall'altro alla
siglatura e ricomposizione, oggettivazione, dei contenuti percepibili di
mutamento interno e comportamentale. Ciò significa evidenziare la differenza
fra tempo della formazione e tempo della vita , fra uno spazio "in sicurezza" e
uno spazio in cui il contenimento non può essere delegato ma deve essere
garantito essenzialmente dalle proprie figure interne. Non importa quanto sia
lungo in realtà il tempo di questo processo, non importa se l'apprendimento dura
pochi minuti. Tutto ciò può verificarsi anche in un brevissimo arco di tempo
perchè si tratta fondamentalmente di un percorso simbolico 10.

Specifiche della tutorship


La funzione di tutorship, che pure deve esercitare il proprio controllo su eventi
ed oggetti reali, si esprime tra l’inizio e la fine del processo pressocchè
totalmente in termini simbolici, come "funzione-quadro". Nelle fasi intermedie
essa, pur potendo essere presente nella persona del "tutor", è fondamentalmente
"muta", cioè soggiacente, invisibile, oppure assume le vesti di un counselling
progettuale (vale a dire legato a riscontri individuali o gruppali inerenti il
rapporto con il percorso-progetto di insegnamento-apprendimento). Il solo
compito affettivo in queste fasi è quello del "contenimento" del docente: il tutor
può cioè, dove sia necessario, facilitare la fatica relazionale di chi si occupa della
pratica dell'insegnamento diretto attraverso l'ascolto e la revisione in un'area di
decompressione. In questo senso il tutor in queste fasi intermedie, ma anche
prima e dopo, "fa staff". A grandi linee questa tre aree di responsabilità
rappresentano il piano della "funzione agente" della tutorship. Chiunque abbia
fatto esperienza di questo ruolo tuttavia può facilmente verificare che il tutor
deve occuparsi di molto altro che travalica quanto detto. In particolare, e mi pare
che questa sia la dimensione più importante, il tutor è davvero il filtro affettivo
di tutto il processo, è per così dire il "buco nero" di ogni corso, o meglio ancora
la "pattumiera simbolica" del negativo, della "spazzatura affettiva" che ogni
percorso di cambiamento comporta .

A livello di funzione "agita", cioè di ciò che accade a prescindere da ogni


pianificazione processuale, il tutor può trovarsi a dover supplire il "mothering"
del docente quando questi va in crisi, può essere costretto a supplire carenze di
insegnamento, fornire consulenze metodologiche, rammen-dare, turare falle.
Cose queste che complicano il suo statuto di ruolo, rendendolo incerto, confuso e
a volte confusivo. Laddove si riesca per lo meno ad arginare tutto questo,
laddove cioè il docente faccia il suo mestiere ( o dove siano concettualmente
separate le due funzioni esistendo comunque una sola persona a rappresentarle),
non è possibile evitare ciò che D.Meltzer ha definito, a proposito del processo
relazionale e di transfert implicato nel setting psicoanalitico, la fase del "seno-
gabinetto"11: bonificare regolarmente il setting, con la sola funzione di ascolto,
anche senza restituzione, dai continui attacchi, reali e simbolici, di cui è fatto
oggetto.

"Esserci" a raccogliere scorie, insulti, piccole aggressioni o anche veri e propri


attacchi, resistendo, senza colludere e senza cedere. E' questo un compito quasi
sempre implicito in ogni situazione di cambiamento più o meno imposto, in cui
l’allievo tende a esportare il proprio vissuto negativo o anche semplicemente le
sue difficoltà sul piano istituzionale, sia per rassicurare la propria posizione
narcisistica, sia per mettere alla prova la solidità del contenitore (per intenderci,
il tutor è fatto bersaglio di attacchi, di critiche non necessariamente personali, ma
che riguardano più in generale il setting, secondo una tipica procedura
evacuativa: il suo compito è tollerare questi fenomeni proiettivi, dimostrando
così che la struttura è solida e che le ansie che determinano tali attacchi non sono
insostenibili; a volte le critiche sono reali o lo sembrano: la preoccupazione è
allora duplice, decodificare la dimensione simbolica del messaggio ma anche
apprestare un setting più sicuro). E' chiaro che il tutor o più in generale la
funzione di tutorship deve presidiare a questo proposito solo la "funzione-
quadro" e non il “contenimento primario” finalizzato all’apprendimento del
contenuto specifico che resta a carico della funzione docente. Come si è capito,
la funzione di tutorship contiene quella di docenza, che a sua volta contiene
quella di apprendimento in senso stretto dell’allievo ( e del docente insieme con
lui). In sostanza la tutorship si pone come condizione di possibilità del processo
di insegnamento-apprendimento, e il tutor è la figura che incarna una
responsabilità sopraordinata, in termini sistemici, a quella del/dei docente (cfr.
fig.2)

Questo è il quadro fondamentale delle responsabilità della tutorship, sia sul


piano che abbiamo definito forse impropriamente "agente" (meglio sarebbe stato
"da agire",ma era meno efficace) sia sul piano "agito". E' ovvio che tutto questo
può anche non essere effettuato, anche se è da ritenersi che comunque, anche
inconsapevolmente, qualcosa del genere accada. Ma la latitanza su questi aspetti
può insidiare notevolmente la buona evoluzione del processo e generare
distorsioni affettive serie al punto da compromettere la possibilità stessa
dell'apprendimento. Il processo può bloccarsi a causa di fantasie in eccesso, di
resistenze non elaborate, di giochi dell'immaginario o semplicemente di disturbi
della funzione di apprendimento non sufficientemente presi in considerazione
sul piano simbolico: chi ha, per storia personale, problemi ad apprendere ha
molto più bisogno di un "contenitore" adeguato (come dimostra la
fenomenologia dei soggetti considerati difficili).

E' chiaro che non è sempre strettamente necessario un tutor in carne ed ossa, ma
la sua assenza significherà un sovraccarico di responsabilità per il docente, che
dovrà comunque sopperire a tale carenza riferendosi ad altre figure istituzionali
spesso non preparate a giocare un tale ruolo e a coprire un tale ambito di
funzione.La formazione si svolgerà comunque dentro un’area di tutorship e
quanto meno essa sarà marcata e rappresentata, tanto maggiori saranno le
disfunzioni nella sua adeguatezza a realizzare un campo di esperienza di
apprendimento.

In tal senso, quanto più l'ingresso nell'"area potenziale" della formazione e poi il
recesso da questa viene ritualizzato e amplificato, attraverso un'articolazione di
figure (capi, direttori, responsabili ecc.) e di ambienti, tanto più a nostro giudizio
sarà garantita la solidità del setting e salavaguardata la possibilità del
cambiamento. Non nel senso di trasformare in un rito misterico il processo di
apprendimento, nè nel senso di istituzionalizzarlo oltremisura o in senso
autoritario, quanto richiamando, in una forma laicamente simbolica, le figure
affettive necessarie per imparare senza timori e per confidare in un dispositivo
pensato e valorizzato in modo sensibile e coerente. Si tratta insomma di
consolidare il "quadro" ed elaborare le resistenze, di rassicurare e di marcare
anche i confini di un'esperienza che gode di uno statuto proprio, tutt'altro che
banale, per importare più apprendimento della "Verità"12, e in cui la tutorship, si
risignifichi come dato costitutivo, come condizione di possibilità.

La tutorship nei tirocini


L’esperienza di Reggio Emilia insieme ad altre, pone in campo la figura
specifica del tutor di tirocinio, che assume poi nelle diverse sedi istituzionali
fisionomie differenti, dando vita anche a figure a incastro, come nel Diploma
Infermieristico dove si assiste talvolta all’intervento di più figure di tutor, dal
Tutor d’Area al Tutor clinico. In queste situazioni non muta fondamentalemente
il profilo della funzione né ciò che può essere esercitato dal tutor. Mutano
tuttavia i contesti e dunque determinate forme di azione. Come ha dimostrato
l’esperienza di riflessione effettuata attraverso un caso13 proposto ai
frequentanti del corso organizzato dall’AUSL di Reggio Emilia, i Tutor
responsabili di taluni servizi, specie in Area socio-sanitaria, hanno una funzione
soprattutto programmatica e di controllo. In tal senso la Tutorship rischia di
sovrapporsi esclusivamente al ruolo di Direzione del percorso formativo e di
perdere la sua componente di contenimento in corso d’opera.

Tuttavia mi è parso che la sensibilità a comprendere che il tutor, oltre che


programmare, oltre che registrare il processo sul piano relazionale, è soprattutto
il creatore e il manutentore dell’ “area potenziale” cioè dei luoghi in cui si
verifica il percorso, e sottolineo tutti i luoghi, e che ciò significa un raccordo
raffinato e complesso con tutte le figure che lo surrogano in situazione (per
esempio i tutor clinici, che potrebbero essere assimilati a funzioni docenti), sia
sufficientemente avvertito.

Il tutor è il responsabile della casa della formazione e deve preoccuparsi che


tutto in essa funzioni, e se qualcun altro lo sostituisce in determinate fasi, questo
altro deve essere consapevole che di tale funzionamento si tratta, e non per
esempio di un prevalente supporto psicologico o di una semplice attività
addestrativa14. Inoltre è chiaro che in situazioni di tirocinio le procedure di
monitoraggio, individuali e di gruppo, aumentano, e tale monitoraggio deve per
forza di cose essere diversificato rispetto alle figure che intervengono nella
processualità formativa - allievi, docenti, affiancatori - ma sempre nell’intento
precipuo di far funzionare il dispositivo che presiede, laddove sia correttamente
organizzato, ad un apprendimento significativo.

---- Note ----

1 - Milano, gennaio 2002 (riveduto sulla base di “La funzione di tutorship nel
processo affettivo di apprendimento , Skill, 1990)

2 - Cfr. tra gli altri Barrows A.H., Il processo tutoriale, Fondazione Smith Kline,
Cosmo, Milano 1980; Abbatt F.R., Teaching for better learning, W:H:O:,
Geneva, 1992; AAVV, Funzioni e itinerari formativi del tutor nell’università,
Atti del Convegno nazionale 25-26 ottobre 1991, Macerata; A.Sellini, Funzioni
del tutor nella valutazione degli studenti, degli specializzandi e nella formazione
permanente, “Pedagogia medica” , n.2, 1988, pp.105-107; AAVV, Il sistema
tutoriale nella formazione infermieristica universitaria, Atti del Seminario
residenziale, 1-3 novembre 1993, Istituto universitario Campus bio-medico,
Roma; M.G.Balice, S.Tosco, Le funzioni del tutor nella formazione
infermieristica universitaria: riflessioni e prospettive, in “Nursing oggi”, n.4,
1996; AAVV, Il tirocinio e il processo tutoriale nelle professioni sociali e
sanitarie, Atti del Convegno 20-21 novembre 1995, Bologna; A.Castellucci e al.,
Viaggi guidati: il tirocinio e il processo tutoriale nelle professioni sociali e
sanitarie, Angeli, Milano 1997; De Vecchi Pellati D., Il tutor: dimensioni
educative, sperimentazioni e realtà, Tesi di Laurea in Lettere moderne,
Università degli studi di Milano, 1996

3 - da intendersi fondamentalmente come "prendersi cura di", servire, secondo la


restrizione inglesizzata di un significante originariamente latino, ma anche
proteggere, preservare, secondo un etimo e un radicamento metaforico che
sconfina nella “tutela” e nel tutare…

4 - L’ “area potenziale” è appunto il luogo, la domus, intesa come realtà


specifica, strutturalmente determinata, sotto un profilo materiale, simbolico e
corporale, secondo una principale dimensione di protezione e di potenzialità
esperienziale, una radura ma anche un crogiolo in senso alchemico, capace di
propiziare, per molteplici aspetti, il dinamismo specifico e complesso
dell’apprendimento. Su questo tema rinvio per approfondimento a un precedente
articolo pubblicato sulla Rivista dell'Associazione Italiana Formatori: P.Mottana,
La formazione come area potenziale, in "Rivista AIF", n.8, 1990 e a Formazione
e affetti, cit.; inoltre a Riccardo Massa, Cambiare la scuola, Laterza, Bari 1997,
ma anche ai miei recenti studi sulla pedagogia immaginale, in corso di
pubblicazione su “Studi sulla formazione” e “Studium educationis”.
5. Per una definizione sufficientemente chiara di ciò che si intende con
"apprendimento dall'esperienza" in senso bioniano rinvio principalmente a
W.R.Bion, Apprendere dall’esperienza, trad.it. Armando, Roma… e a D.Meltzer
- M.Harris, Il ruolo educativo della famiglia.Un modello psicoanalitico dei
processi di apprendimento, trad.it., Centro Scientifico Torinese, 1986: si tratta
dell'apprendimento che comporta il "diventare ciò che si è" in senso bioniano.
Un apprendimento in cui non viene acquisita solo una capacità o un
comportamento ("apprendimento secondario") ma anche l'interiorizzazione delle
modalità affettivo-cognitive utilizzate ("apprendimento primario")
nell'apprenderli. Tale apprendimento è condizionato dal possesso di un “oggetto
interno buono” ed è legato al meccanismo dell'"identificazione introiettiva", cioè
della capacità di elaborare internamente l'incertezza dello sconosciuto attraverso
la "modulazione dell'oggetto protettore introiettato”: c'è quindi una buona coppia
genitoriale che, all'interno della mente, aiuta a sopportare la sofferenza di
pensare e capire le cose. Tale coppia può però essere non solo interna, ma anche
esterna, nel setting formativo ( e la tutorship ne è una parte).

6. cfr. a questo proposito il contributo di M.Bruscaglioni Gli elementi di


processo nella formazione in M.Bruscaglioni, La gestione del processo nella
formazione degli adulti, Milano, AIF-Angeli, 1991

7 . il termine "setting", di derivazione psicoanalitica, indica la


contestualizzazione specifica, spazio-temporale, normativa e simbolica
all'interno della quale si realizza il processo formativo; per questo ordine di
significato del termine "setting" cfr. R.Massa, Le tecniche e i corpi, Milano,
Unicopli, 1986

8 . La nozione di "quadro", come invariante del processo analitico e, per


traduzione analogica, formativo, proviene da J.Bléger, Psychanalyse du cadre
psychanalytique,in AAVV, Crise, rupture et depassement, Paris, Dunod, 1979;
anche in trad.it. in C.Genovese (a cura di), Setting e processo psicoanalitico,
Milano, Cortina,1988.

9. cfr.F.Fornari, Il codice vivente. Femminilità e maternità nei sogni delle madri


in gravidanza, Torino, Boringhieri, 1981

10 .Anche se il tipo di percorso, la sua lunghezza, l'obiettivo di apprendimento,


possono determinare la qualità dell'area transizionale, nel senso di una maggiore
o minore profondità, di una maggiore o minore esigenza di "stacco" emotivo e
esistenziale: un T-Group e un corso di botanica nel tempo libero pongono
problemi di tutorship differenti, anche se analoghi.

11 . cfr. D.Meltzer, Il processo psicoanalitico, trad.it., Roma, Armando, 1981,


pp.54 e sgg.

12. nel senso in cui di apprendimento "Vero", di strutture di personalità che non
mentono a se stesse e che vogliono conoscere le cose e non simulare la
conoscenza, parlano per esempio D.Meltzer e M.Harris in Il ruolo educativo
della famiglia, trad.it., Torino, Centro Scientifico Torinese, 1986, passim

13 - Il caso sottoposto al gruppo dei partecipanti è stato il seguente: IL


TIROCINIO BRILLANTE -- Astrid, 21 anni, frequenta il secondo anno del
Corso di Diploma Universitario per infermieri professionali e sta effettuando il
suo tirocinio pratico presso l'Azienda Sanitaria di Sempretardi dove ha
manifestato fin dall'inizio grande entusiasmo e vivacità suscitando reazioni di
apprezzamento e incoraggiamento da parte di tutti gli operatori. Fino ad ora
Astrid ha lavorato in Medicina, Chirurgia e Oncologia dove, grazie alla sua
intraprendenza, disponibilità e desiderio di rendersi utile è stata accolta
positivamente dal gruppo degli infermieri, ha ricevuto conferme ed
incitamenti da parte della caposala ed ha ottenuto ottimi giudizi da parte
dei tutor clinici incaricati di seguirla. Al momento di ingresso in un nuovo
reparto Modesto, il tutor responsabile del tirocinio concorda con ogni
allievo obiettivi, programma di apprendimento e modalità di
svolgimento dell’esperienza in funzione delle particolarità del re-parto, delle
occasioni di apprendimento offerte e del livello di preparazione del tirocinante.
Modesto tiene inoltre colloqui quindicinali individuali con tutti gli allievi per
verificare i risultati ottenuti, ridefinire obiettivi, tempi e modalità degli
affiancamenti, discutere dei problemi incontrati e per concordare eventuali
cambiamenti nel percorso di apprendimento. Nei confronti del personale dei
reparti il tutor responsabile organizza un incontro annuale di presentazione e
discussione della programmazione e in seguito offre la sua disponibilità su
richiesta per problemi particolari relativi al rapporto con gli allievi.
Considerando Astrid un soggetto ricettivo, responsabile, capace di gestirsi
autonomamente e senza particolari problemi, Modesto le ha affidato il
programma degli affiancamenti, ha discusso rapidamente con lei gli obiettivi
dell'esperienza del tirocinio e parla con lei telefonicamente ogni volta che
emerge un problema o Astrid desidera avere qualche chiarimento. In generale la
lascia piuttosto libera di organizzarsi, di concordare con la caposala e con il tutor
clinico le occasioni di apprendimento che ritiene più significative, valorizza il
suo impegno e incoraggia la sua intraprendenza. Nel periodo precedente
l’episodio Astrid non si è più rivolta a Modesto per problemi che tende a
risolvere con il tutor clinico o comunque all’interno del reparto.
Il tutor responsabile organizza anche incontri mensili collettivi con tutti i
tirocinanti coinvolti e, nell’ultimo incontro, svoltosi circa tre settimane prima
dell’episodio, ha notato che Astrid è diventata un po' leader del gruppo e, tranne
in qualche caso isolato, è piuttosto ammirata, apprezzata o comunque rispettata.
l tirocinio di Astrid nelle aree ad alta specialità incomincia nel reparto di dialisi
dove la ragazza brucia rapidamente le tappe e, dopo una sola settimana affianca
già gli infermieri in diverse operazioni: preparazione delle macchine, assistenza
ai malati durante la seduta e, una o due volte ha anche staccato i pazienti alla
fine del trattamento. Lunedì mattina si verifica una situazione di emergenza
improvvisa perché due infermieri restano contemporaneamente a casa per
problemi di salute. Inoltre arriva in reparto un paziente acuto e si crea una
situazione di grande caos. La caposala spiega ai pazienti in attesa che l'assistenza
verrà garantita a tutti nei tempi necessari e, mentre due infermieri più esperti
gestiscono l'urgenza, gli altri due cominciano ad effettuare le dialisi
programmate per la mattinata accordando la priorità ai pazienti più anziani e
problematici. Mentre le operazioni procedono con una certa lentezza, uno dei
pazienti più giovani, dopo una lunga attesa, chiede ad Astrid di attaccarlo alla
Astridmacchinareagisce. dicendo che non ha mai punto, ma poi, dopo aver
pensato che la situazione può andare per le lunghe decide di effettuare
l'operazione anche perchè l'ha visto fare più volte e il paziente è giovane e senza
particolari problemi. Nessuno se ne accorge poiché tutti sono estremamente
impegnati e il fatto si svolge in una delle stanze a due letti del reparto. Dopo aver
preparato la macchina, Astrid prova ad effettuare l'attacco, ma dopo aver tentato
per cinque volte, si rende conto di non riuscire ad inserire correttamente l'ago
nella fistola del giovane che comincia a sanguinare. A questo punto, spaventata,
chiama un'infermiera che è però impegnata altrove e non può allontanarsi dal suo
paziente. Arriva allora di corsa la caposala che aggredisce Astrid richiamandola
violentemente per non aver effettuato l'operazione con l'assistenza di qualcuno e
soprattutto senza autorizzazione. A questo punto ritorna anche l'infermiera che
avrebbe dovuto attaccare il giovane che viene anch'essa richiamata. Astrid
reagisce apparentemente con calma, poi si innervosisce, si arrabbia e abbandona
il reparto. Per due giorni non si farà più vedere al tirocinio. Modesto, avvisato il
giorno stesso dell'incidente, convoca Astrid per un colloquio individuale. Lei si
Cheprsentacosa diceilterzoiltutorginonel. colloquio con Astrid? Che cosa
avrebbe dovuto fare?
Che cosa deve fare ora?
(La discussione del caso, da parte di partecipanti esperti e formati da un corso
molto articolato sulla funzione di tutor nei tirocini, è apparsa molto precisa e e
ben orientata e ha saputo cogliere nella mancanza di una sufficiente attenzione
per le attività di disposizione anticipata degli eventi e del loro monitoraggio una
delle principali carenze nel comportamento del tutor, ancor più che un’eventuale
trasandatezza relazionale o un eccesso di fiducia (che indubbiamente tuttavia ha
rafforzato il Sé grandioso della partecipante)

14 . Con ciò non si intende minimamente sottovalutare le funzioni indicate da


Luisa Saiani di orientamento (professionale), di tutela (assimilabile alla funzione
descritta), di sostegno e le caratteristiche dall’autrice delineate rispetto al
“processo tutoriale” nell’importante saggio Il tirocinio nelle professioni socio-
sanitarie ed educative, in A.Castellucci e al. (a cura di), Viaggi guidati: il
tirocinio e il processo tutoriale nelle professioni sociali e sanitarie, Angeli,
Milano 1997. Semmai di rilevarne la dipendenza da una superiore funzione-
quadro di tipo strutturale.
3ª parte: Verso l’età adulta
Volontariato e tirocinio come cerimonie di aggregazione
Dagli ideali adolescenziali a quelli adulti: metamorfosi del
tirocinante, di Leonardo Angelini e Deliana Bertani

Vorremmo cominciare con due esempi:

1.È noto che il più precoce ingresso nell’età adulta degli uomini del medioevo
rispetto agli individui dei giorni nostri implicasse nei primi una maggiore
propensione all’impulsività ed all’agito ed una minore capacità riflessiva rispetto
ai secondi.

2. Una delle frasi più tipiche nel momento del commiato dai nostri tirocinanti
è questa: sei arrivata qui come laureata, ora hai acquisito le prime capacità che ti
permettono di definirti una professionista.

Questi due esempi per introdurre i due paragrafi secondo i quali sarà scandita la
nostra argomentazione sul passaggio dagli ideali adolescenziali a quelli adulti.

1.Dagli ideali adolescenziali a quelli adulti

Uno degli elementi che caratterizza l’adolescenza è il marcato processo


confronto e di emancipazione del ragazzo, prima, e del giovane, poi, dalle
vecchie imago ideali dell’infanzia. Questa metamorfosi degli ideali, tipica di
tutte le adolescenze, è parte integrante della seconda individuazione (Blos)
ovvero di quel processo di disidentificazione (Octave Mannoni) che è
l’architrave sul quale ogni giovane potrà costruire alla fine, se le cose vanno
sufficientemente bene, il proprio profilo adulto, la propria visione del mondo, il
proprio progetto.

La seconda individuazione consiste in un complesso confronto - scontro con le


vecchie imago infantili che spinge l’adolescente a rivedere ogni aspetto del suo
mondo interno, così come ogni rapporto con le figure reali importanti
dell’adolescenza.

E in questo processo l’abbattimento dei vecchi idoli, cioè dei vecchi modelli
ideali dell’infanzia è imposto dalle spinte puberali che colorano di nuovi
significati i legami endogamici, rivelandone il loro sottofondo incestuoso e
spingono verso quella vera e propria virata di centottanta gradi che implica
l’uscita dall’endogamia e l’accesso all’esogamia, con tutte le discontinuità e i
tutti i lutti che questa virata impone non solo nel preadolescente, ma in tutti
coloro che gli sono vicini, ed in special modo nei genitori, ma anche con tutti i
conti in sospeso che su questo piano sono stati aperti nella prima e seconda
infanzia e nella fanciullezza.

Ma su quali basi si definiscono i nuovi ideali che intervengono nell’adolescente


a questo punto? Ognuno di noi ha vissuto quel momento in cui nuovi modelli –
diventare un calciatore famoso, o una attrice – intervengono o si accendono di
contenuti molto più vividi di quelli della fanciullezza. Ognuno di noi quindi può
essere testimone della presenza di personaggi ideali, di personaggi eroici, che ci
hanno abitato e che per noi hanno assunto per un certo periodo una importanza
particolare.

In psicoanalisi esiste una diatriba, non tanto sulla natura di questi personaggi, la
cui presenza è riscontrata da tutti, non tanto sulle funzioni da esse svolte che da
tutti vengono ritenute importantissime, quanto sui connotati che questi
personaggi eroici hanno e sulle loro ascendenze: è come se noi avessimo tracce
certe dell’esistenza di una persona, delle azioni da lui svolte, ma non
conoscessimo bene il suo profilo, non sapessimo come si chiama e di quale
famiglia egli Lafacciadiatribapartea. noi non interesserebbe in questa sede se non
fosse per qualche aspetto che risulta importante ai fini della individuazione della
natura delle problematiche attuali del rapporto tirocinante – tutor, e solo sotto
questo punto di vista ci avvicineremo ad essa, invitando chi volesse saperne di
più alla bibliografia.

La divaricazione innanzitutto è fra coloro che, come Blos, pensano che esista un
personaggio interno, l’Io Ideale, distinto dall’Ideale dell’Io, che è l’erede di quel
primissimo personaggio interno, figlio del narcisismo primario, che ci ha abitato
fin dagli esordi della nostra vita; tale personaggio ci

glio del narcisismo primario, che ci ha abitato fin dagli esordi della nostra vita;
tale personaggio ci accompagna per tutta la vita, che cresce insieme a noi e si
modifica in base al rapporto con realtà: l’Io ideale secondo costoro in
adolescenza assume un significato particolare poiché impone al ragazzo e alla
ragazza un confronto sia con gli introietti paterni che materni in maniera
sessuata, per cui le vicissitudini del personaggio maschile in adolescenza sono
diverse da quello femminile, ed in maniera individualizzata, per cui ogni
adolescente definisce un proprio percorso di confronto e di emancipazione da
questi personaggi interni ed esterni.

A fianco a queste posizioni ce ne sono altre, ad esempio quelle della Schasseguet


Smirgel, che negano l’esistenza dell’Io Ideale e sostengono che è l’Ideale
dell’Io, cioè l’istanza interna erede della introiezione delle imago genitoriali
ideali e più o meno capace di stima e di autostima, che presiede a questa opera di
confronto in adolescenza.

Più interessanti, poiché più attuali ci sembrano le posizioni di Jeammet e di


Pietropolli Scharmet. Il primo distingue fra Io Ideale ed Ideale dell’Io, e
attribuisce all’Io Ideale le funzioni primordiali di assicurazione di un buon
equilibrio narcisistico allorchè non si è ancora instaurata nel soggetto distinzione
fra me e non me, allorché cioè il rapporto con l’oggetto primario è ancora basato
su una situazione di fusione indistinta; mentre l’Ideale dell’Io, che rappresenta
per Jeammet lo sviluppo dell’Io Ideale, diventa per Jeammet una istanza che può
instaurarsi nel soggetto a fianco all’Io Ideale da un certo punto in poi, e
precisamente dal momento in cui diventa possibile per il soggetto viversi come
una entità ‘separata, sola e nuda’ (direbbe Winnicott): da quel momento in base
al modello rappresentato dall’Ideale dell’Io si instaurano nel soggetto
identificazioni secondarie che provengono dalle imago parentali ideali più
mature. La riattivazione in adolescenza di queste parti più mature o dell’Io Ideale
primario rappresenta le possibilità del soggetto di individualizzarsi o meno, cioè
o le possibilità di accedere ad un proprio profilo adulto, nato sul modello
genitoriale e contemporaneamente in polemica con esso, oppure l’arresto e lo
sprofondare dell’adolescente in situazioni di confusività con l’oggetto primario
che può essere vissuta come un claustrum in cui essere costretti o dal quale
fuggire.

Pietropolli infine sottolinea la natura nuova dei rapporti fra genitori affettivi e
poco consistenti sul piano superegoico e figli adolescenti, pone in evidenza,
come del resto fa Jeammet, che da questo tipo di rapporti - che ovviamente si
strutturano ben prima che i figli diventino adolescenti - deriva l’emergere nei
giovani di strutture di personalità di tipo anaclitico: Da ciò l’importanza,
maggiore rispetto al passato, che in questo nuovo quadro assumono per i ragazzi
e per i giovani le influenze che vengono dall’esterno della famiglia, e cioè dai
media, dal gruppo, e dalla nuova coppia adolescenziale, nonché la necessità per
questi giovani analitici di sdraiarsi, di spalmarsi quasi, su queste istanze che
diventano più importanti che in passato nel definire l’ideale adolescenziale.

Infine pensiamo che non vada sottovalutata l’immagine junghiana dell’Eroe e


tutte le sue declinazioni che vanno dal Orfano, al Martire, al Viandante, al
Guerriero, al Mago ed infine all’Innocente, unica di queste figure che non si
pone obiettivi di crescita e di maturazione.

Detto questo veniamo ora ai percorsi maturativi in base ai quali, così come con
l’ingresso in adolescenza erano state messe in crisi le vecchie imago, i vecchi
personaggi eroici dell’infanzia, anche con il progredire del giovane verso l’età
adulta a poco a poco anche i personaggi eroici dell’adolescenza dovranno essere
sottoposti ad un’opera di limatura e di maturazione. Come avviene dentro al
giovane questo processo maturativo? Ancora una volta cerchiamo di fare un
esempio: dalla nostra clinica dei postadolescenti (dei giovani adulti, direbbe
Pietropolli) emergono a venti o venticinque anni un insieme di personaggi eroici,
più o meno integri, più o meno ammaccati, che spesso sono in relazione
gerarchica fra loro e che possono essere dialoganti o meno fra loro e con le altre
parti interne del soggetto: si determinano cioè come un insieme di ipotesi (A, B,
C etc.), di progetti per il futuro che già sono stati sottoposti alla prova di realtà,
che si sono perciò imborghesiti, che hanno smesso i panni più evidenti dell’eroe
adolescenziale, per diventare proponibile e raggiungibili nella prossima età
adulta.

Vogliamo dire cioè che se noi andiamo alla fine del processo troviamo una realtà
che, se le cose sono andate sufficientemente bene, è mutata non nel senso
dell’abbandono dei vecchi personaggi eroici, ma della loro trasformazione in
imago ideali adulte con cui mantenere un rapporto di tensione e, diremmo, di
emulazione.

A guardar bene il processo di disidentificazione, che tanta importanza ha avuto


per tutta l’adolescenza, in buona parte si è rivelato alla fine molto al di sotto
delle pretese di distinzione stizzosa, angosciata, etc. di quel tempo, e fra le
pieghe delle nuove imago ideali è possibile riscontrare molte più tracce di quante
a prima vista se ne vedono delle influenze modulatrici delle vecchie imago
adolescenziali (ed infantili).
Certo è che il passaggio o meno dalla fantasia al progetto è la pietra di paragone
che permette di comprendere se su quelle imago adolescenziali è stato possibile
per il neoadulto fare un’opera di limatura e di innesco di filoni più o meno
flessibili di dialogo interno.

Ciò significa che nel processo di trasformazione degli ideali adolescenziali ci


deve essere l’instaurazione dentro di sé non di una sola fantasia, ma di varie
fantasie e di vari progetti in base ai quali più ipotesi (A, B, C, etc.) possono
essere fatte e verificate sotto il fuoco della prova di realtà.

Ciò significa conseguentemente che il ragazzo e il giovane si trovano per tutto


questo periodo nella necessità di avere tempo, laddove il tempo è quello
derivante dalla occorrenze che la prova di realtà impone. Si definiscono così
luoghi di sperimentazione, che – come dice Pietropolli – sono spesso anche
luoghi in cui il nuovo adolescente possa sdraiarsi per sperimentare insieme ed al
riparo dalle imago confusive più arcaiche, ma anche dalla solitudine che per le
personalità anaclitiche risulta essere ugualmente angosciante. Ed anche la
creatività giovanile, con tutti i suoi contenuti generativi specifici, andrebbe
rivista sotto quest’ottica.

Occorre dire della necessità di rispetto da parte degli adulti per quest’area in cui
sono gli ideali, le fantasie, i progetti, le creazioni adolescenziali? Pensiamo di si,
se è vero che uno degli elementi presenti nei miti e nelle fiabe sull’argomento è
proprio l’atteggiamento dell’adulto nei confronti di questo emergere di una
nuova generazione che avanza e che con il solo suo emergere rappresenta una
minaccia.

Per il giovane i problemi per tutto questo periodo sono: - la necessità di


affrontare la frustrazione, la depressione e il lutto derivante dalla sensazione di
perdita, allorché questi progetti risultino irrealizzabili così come erano stati
pensati; - la necessità di distinguersi e di non essere risucchiati in progetti altrui
che riguardino la loro psiche ed il loro corpo; - ed ancor di più la necessità di
non essere risucchiati, come dicevamo prima, in un claustrum senza via d’uscita
che non sia la confusività dei corpi e degli spiriti.

Un esempio derivante dalla nostra clinica: ci sono dei mestieri in cui non c’è il
tempo necessario per la elaborazione delle possibile perdite sul piano ideale. Il
calciatore, che a 16 \ 17 anni sa già se andrà in serie A, o se questo progetto, a
lungo inseguito, alla fine si rivela impossibile, se non ha dentro di sè, nel suo
background familiare la possibilità di elaborare la perdita, o un progetto di
riserva pronto per l’uso può andare in un breakdown evolutivo severo.

Così come, al contrario, la possibilità di giostrare flessibilmente su una serie di


ipotesi può far si che esse alla fine risultino non alternative, ma complementari e
capaci di rafforzarsi l’una dall’altra. C’è poi la possibilità di un mancato
passaggio dalla fantasia al progetto, o addirittura l’assenza di tensione fantastica
(l’immagine junghiana dell’Innocente, che non ha obiettivi, né timori di
sconfitta, poiché è rimasto nello stadio in cui non c’è mancanza e tutto gli è
dovuto). In questi casi non c’è prova di realtà che faccia da contraltare alla
fantasia, di modo che quest’ultima immobilizza il soggetto, lo porta ad eludere
l’esperienza della perdita, o nella impossibilità di ogni tentativo di elusione in
una situazione di lutto che in questi casi appare come difficilmente elaborabile.

Gli attacchi da parte degli adulti agli ideali adolescenziali – attacchi quali
derisione, sminuizione, castrazione, circoscrizione fobica dell’ambiente (come
accade per quel personaggio di Ricomincio da tre che è rimasto a casa bambino a
fianco ad una madre – drago vorace e confusiva) - si risolvono spesso con la
costruzione di percorsi di falso sé, che hanno il significato di un ultimo tentativo
di elusione del dolore della perdita.

Quello che abbiamo definito come imborghesimento degli ideali, in ultima


istanza potrebbe essere definito come possibilità di un raggiungimento della
riparazione, cioè costruzioni di ipotesi altre che possono essere o del tipo a1, a2,
a3, oppure del passaggio a quelle che in un primo tempo apparivano come
ipotesi b, o anche ad un mix dinamico fra ipotesi primarie, secondarie, etc.-

2.Metamorfosi del tirocinante

Il tirocinante è spesso un postadolescente o, come alcuni dicono, un giovane


adulto cioè un giovane che è vicino all’ultima fase dell’adolescenza odierna, se
si vogliono sottolineare le parentele fra la postadolescenza e l’adolescenza
propriamente detta, o – se invece si vuole sottolineare l’allontanamento del
giovane dalla fase precedente - di quella specie di preludio all’età adulta che è
ormai la vita fra i 20 e i 30 anni di molti giovani di oggi.

Fra i nostri intendimenti, nel proporre a colleghi della sanità, della scuola e del
sociale una riflessione sul significato del tirocinio c’erano: quello di cercare di
comprendere quali funzioni il tirocinio assuma oggi nel mercato del lavoro delle
professioni del welfare, e nei territori limitrofi in cui i processi di
aziendalizzazione sono più avanzati; quello di analizzare cosa accade fra
tirocinante e tutor durante il tirocinio, in questo luogo più intimo dell’aula e
meno connotato come scuola; come avviene in questo luogo il passaggio di
saperi e di competenze; come il giovane viene introdotto in esso e accompagnato
per tutto il percorso, da un particolare sacerdote officiante la cerimonia di
aggregazione, il tutor, in quella che sarà la sua ultima tappa prima dell’ingresso
nell’età adulta; come infine il rapporto fra tutor e tirocinante si dipana lungo
questo percorso, sia per ciò che attiene gli aspetti più propriamente professionali,
sia sul piano dei rapporti e dei sentimenti ambivalenti che intercorrono fra queste
due entità.

Ciò che ci proponiamo oggi è di elaborare una riflessione sulla forma che
assumono gli ideali giovanili in questo momento che abbiamo visto essere
contemporaneamente finale ed iniziale: - fase finale dell’adolescenza in cui il
lavoro di levigamento degli ideali è già iniziato da tempo, ma ora si approssima
il momento delicato del redde rationem che sancirà la distanza fra ciò che si può
effettivamente diventare e ciò cui, nonostante tutti i levigamenti, ancora si
aspira; - fase iniziale dell’età adulta in cui però, come ci ha ricordato Laffi, la
farraginosa immagine di sé che in questo momento il giovane ha rispetto al
lavoro, il fatto che egli non possa mai dire se veramente è entrato nel mercato del
lavoro o meno, gli impediscono in effetti di fare i conti fino in fondo con le sue
aspirazioni e rimandano sine die questo importante momento di verifica, che è
l’ultima tappa verso una effettiva dimensione adulta.

E’ indubbio che lungo il percorso del tirocinio il profilo del tirocinante muta, che
l’immagine che egli ha di sé si trasforma. Questa metamorfosi del tirocinante,
come ci hanno ricordato Mottana e Guerra, in Italia si ingigantisce poiché
l’ordinamento dei nostri studi separa la teoria dalla pratica e tende a svilire
quest’ultima ed a volte ad espellerla da ogni considerazione che l’accademia fa
circa la reale crescita che il tirocinante fa, o meno, nei luoghi del tirocinio.

Si determina così una divaricazione fra diploma e laurea da una parte e percorso
di tirocinio dall’altra. Ed il passaggio dall’aula al luogo del tirocinio, da un
sapere teorico a un sapere pratico, dalla laurea alla professione, da una parte
rappresentano un bagno di realtà, se le cose vanno sufficientemente bene (ma
Guerra ci ha fatto vedere quali siano i rischi di vanificiazione o di sminuizione di
quest’esperienza, ancora molto presenti in Italia). Dall’altra sono relegate nella
periferia della formazione, non ancora integrate nel curricolo di studi, anzi
vissute spesso come un inutile fardello.

Inoltre, come afferma la Manoukian Olivetti, in Italia l’immagine grandiosa di sé


che l’università ha e per la scarsa capacità contrattuale delle istituzioni in cui
solitamente si fa tirocinio non aiutano certo a colmare questi squilibri, ed anzi
solitamente li accentuano: basti pensare che in molte situazioni non c’è una reale
valutazione finale del tirocinio (non parliamo di quella in itinere!), che non
esistono corsi di formazione di tutor, per cui – come ci ricordava anche Guerra –
questo mestiere viene fatto basandosi spesso a partire da esigenze e
dell’istituzione e del tutor che risultano altre rispetto alla formazione del
tirocinante.

Nonostante questi vincoli, queste sminuizioni e questi impedimenti il tirocinio


spesso è un momento importante per il giovane sotto molti punti di vista e
soprattutto ai fini di una ridefinizione dei propri ideali professionali ed umani. Il
tirocinio, allorchè il fare quotidiano abbia un senso, è anzi un momento delicato
di passaggio dalla fantasia al progetto. Tale passaggio - che già nella scelta della
facoltà, del corso di studi e nella inevitabile riduzione di più opzioni, fra più
possibilità di professionalizzazione ad una sola, aveva visto un momento di
importante di ri\dimensionamento di se stessi – ora trova nel fare e nel riflettere
sul fare fatto insieme al tutor un ulteriore momento che aiuta il giovane a toccare
con mano i limiti e le possibilità (a volte impreviste) insite in se stesso: poiché è
vero che con il tirocinio si ripropone il tema dello scarto fra chi si è chi si
vorrebbe essere, ma è vero anche che la vicinanza che in questo momento è
possibile sperimentare con i problemi, con la conoscenza e la padronanza delle
strategie personali, prima che professionali, con cui tali problemi possono essere
affrontati e risolti, la coniugazione fra la nuova generazione e la vecchia che in
questo momento si verifica, sono tutte esperienze che solo nel tirocinio possono
essere organicamente e, diremmo, statutariamente pianificate. Come dicevamo
allorchè abbiamo tentato di fare una storia del tirocinio in Italia, anche senza
tirocinio tutta la fase iniziale del lavoro per molti di noi anziani è stata
professionalizzante, per gli stessi motivi cui alludevamo sopra, ma la differenza
è che nel tirocinio, e solo nel tirocinio ciò che in altri luoghi dell’apprendimento
alla professione è lasciato al caso, può essere pianificato e valutato appieno.
Entrando poi nel merito dei problemi delle modalità concrete secondo le quali
viene scandito il tempo del tirocinio e vengono utilizzate in quel tempo le
energie che in questo luogo sono spese non possiamo non evidenziare una
particolarità: la vicinanza al tirocinante di un adulto che lo accompagna, il tutor,
circoscrive una modalità di rapporto del tutto specifica che abbiamo definito
accompagnamento.

Accompagnare significa letteralmente ‘mangiare lo stesso pane’ ed allude, come


abbiamo già visto ad un’area di intimità fra pochi attori, spesso solo due, che per
un tempo spesso piuttosto lungo sono molto vicine ed in comunicazione fra loro.

Ciò implica una serie di difficoltà sia per il tutor legate alla sua ambivalenza nei
confronti del giovane, ambivalenza che si manifesta fenomenologicamente in
una serie di manifestazioni che oscillano, a volte paurosamente, fra pulsioni di
impossessamento e di soffocamento del giovane a pulsioni espulsive che
possono rappresentare per il giovane una pericolosa somiglianza con fantasmi
genitoriali e istanze più precoci attinenti l’area degli oggetti - Sè, con tutta una
gamma intermedia di sentimenti e di emozioni più mature ed emancipatorie.

Ma anche per il tirocinante il discorso dell’ambivalenza si impone, se non altro


come reazione alle oscillazioni del tutor, reazione che si esprime nelle pulsioni a
conformarsi e a perdersi quasi nell’area indistinta degli oggetti - Sè, nelle voglie
di ribellarsi e di disidentificarsi, nei travagli di gestazione del vero sé
professionale cui per fortuna spesso il tirocinio allude.

Il modello dell’accompagnamento, con le sue pressanti e ravvicinate


sollecitazioni, impone spesso al neoadulto di rivedere le posizioni ribellistiche
nei confronti dei vecchi idoli e di accettare, a volte ob torto collo, le mediazioni
che il modello di integrazione nella professione proposta dal tutor, le sue
ascendenze scientifiche, i suoi stili di approccio e di risoluzione dei problemi
impongono.

Su questo piano, come abbiamo già visto, un grande spazio è occupato dai
fantasmi formativi del tutor che marcano l’accompagnamento, lo riempiono,
diremmo, degli odori del tutor. E il tirocinante deve fare ancora una volta un
percorso di aggregazione e di identificazione, di adeguamento e di smarcamento
che già aveva dovuto fare in adolescenza e che, come in adolescenza, sono
destinate a lasciare segni profondi, anche se a prima vista non evidenti,
nell’identità professionale di ciascun giovane.

Sul piano temporale, come ci diceva anche Guerra, il collocamento del tirocinio
in un percorso pre-diploma o pre-laurea, che la scuola può controllare ed
integrare, o post lauream in cui la scuola scompare è importante sia per le
ragioni cui abbiamo accennato sopra, ma anche per attivare quell’opera di
rifinitura delle imago ideali professionali che, come ci diceva sempre Guerra,
dovrebbero anche potere orientare il giovane all’inizio del percorso formativo
professionalizzante.

Altro rischio sul piano della temporalità è quello che il tempo del tirocinio
diventi un tempo che invece di avvicinare alla professione, allontana il giovane,
lo tiene fuori artificiosamente da essa, dal mercato del lavoro, di essere stato
pensato unicamente per allungare i tempi di stazionamento del giovane in un
luogo formativo inautentico, un luogo che in altri tempi, nel ’68, avevamo
definito: silos, cioè parcheggio del giovane, in base ad una concorrenza sleale
del vecchio, armato dei suoi poteri e dei suoi privilegi (fra i quali vanno
senz’altro collocati gli ordini professionali) nei confronti del giovane indifeso e
vessato spesso di inutili, costosi e fuorvianti percorsi di ulteriore
professionalizzazione (molti master spesso lo sono).

Il tirocinio, infine, allorchè è fatto in maniera decente è un luogo di


deidealizzazione, in cui di fronte alle innumerevoli prove di realtà cui il giovane
è sottoposto, avvengono tanti microlutti quotidiani, nella cui elaborazione l’aiuto
del tutor è decisivo.

E, da questo punto di vista, la natura discreta dell’accompagnamento che il tutor


esercita nei confronti del tirocinante, la sua dimensione particolare che esula sia
dall’ammaestramento che dall’anarchia, fanno si che il tirocinio diventi un’area
transizionale in cui si passa dalla dipendenza alla individuazione, in cui teoria e
pratica si coniugano, in cui ci può essere uno scambio fra generazioni di
professionisti, di modo che il nuovo nasca dal vecchio, se non altro in polemica
con esso e non come un fungo strano che non si capisce dove trovi la propria
linfa vitale.

Ed in questo percorso arrivare a definire progressivamente un’immagine di sé


realistica in cui la tensione fra ciò che sono e ciò che vorrei essere rimanga
sempre in piedi, in cui ciò che passi sia in fondo un’immagine di perfettibilità, e
cioè il socratico ‘io so di non sapere’, diventa il vero messaggio che il tutor può
dare al tirocinante, ed il tirocinante può raccogliere per continuare con
convinzione lungo un percorso di crescita che nelle professioni di cura no finisce
mai.

Bibliografia:

Angelini L., Dall’etica padana del lavoro all’estetica consumista: l’adolescente


reggiano di oggi a confronto con quello di ieri (e di avant’ieri), La Melagrana,
Reggio E., 2000

Bergeret J, Personalità normale e patologica, Cortina, Mi, 1984 Blos P.,


L’adolescenza, F. Angeli, Milano, 1980
Jeammet Ph., Psicopatologia dell’adolescenza, Roma, Borla, 1992
Laufer M. e M.E., Adolescenza e breakdown evolutivo, Boringhieri, Torino,
1986

Laffi S., Il furto: mercificazione dell’età giovanile, L’ancora del mediterraneo


Ed., Napoli, 1999 Manoukian Olivetti , Per finire: a chi viaggia, in: AA.VV.
Viaggi guidati – Il tirocinio ed il processo tutoriale nelle professioni sociali e
sanitarie, F. Angeli, Milano, 1997, pp.290-312

Mannoni O., La disidentificazione, Pratiche Ed., Parma Pearson C., L’eroe


dentro di noi, L’astrolabio, Roma, 1990 Pietropolli Charmet G., I nuovi
adolescenti, R. Cortina, Milano, 2000

Winnicott D.W., Adolescenza: il dibattersi nella bonaccia, in: La famiglia e lo


sviluppo dell’individuo, Armando, Roma, 1968 (cap.10°)
Tirocinanti e tutor: riflessioni sui significati di una
esperienza di tutoring, di Angela Dardani

Ruolo dell’esperienza: mi sto chiedendo perché nonostante la mia esperienza di


quattro, cinque anni nella funzione di tutor, sia così difficile iniziare a parlarne…
Ma questa domanda, mi rimanda all’importanza di tenere conto, nel processo
formativo, dell’esperienza degli/delle altri/e: indipendentemente dall’età, dal
titolo di studio, dal lavoro svolto, chi arriva a frequentare i corsi deve avere la
possibilità di esprimere, raccontare, condividere la sua storia. Non è solo una
modalità per far nascere il "gruppo classe", ma "la cura di sé come narrazione
riscatta la paura della solitudine e ci autorizza a trasformarla in conquista". Il
ruolo del/della Tutor può favorire o meno relazioni concrete fondate sullo
scambio di parola,(lavoro di gruppo, colloqui individuali) nell’utilizzo di
differenti strumenti per la scrittura (in forma di diario, autobiografia, biografie,
schede osservative, schede di autovalutazione e di valutazione). La parola
permette uno scambio da cui nasce sapere. "Possiamo, anzi dobbiamo dare
valore alla dimensione del sapere dell’esperienza, pensarla, farne discorso,
riconoscerla e dargli forza e autorità…. Nei corsi per Addetto/a

all’Assistenza di Base che seguo, l’interrogare, riflettere sulla esperienza


soggettiva e collettiva, come uomo/donna nella cura (ambito familiare ed ambito
lavorativo o di stage) diventa ancor più indispensabile. Alla domanda : "Quale
sapere viene dall’esperienza?" prendo a prestito questa risposta: "Si può dire di
essere di fronte ad un sapere che nasce dall’esperienza quando le idee e le
strategie che lo strutturano costituiscono la forma emergente di una pratica di
riflessione intorno al proprio vissuto. Il vissuto è l’accadere delle cose che
ciascuno vive; l’esperienza c’è laddove il vissuto è accompagnato dal pensiero.
Il sapere che viene dall’esperienza è quindi, quello di chi si mantiene in un
rapporto di pensosità rispetto all’accadere delle cose, di chi non accetta di stare
nel mondo secondo i criteri di significazione già dati, ma è alla ricerca di una sua
misura." . Con particolare riferimento all’ambito dei nostri corsi dove
l’esperienza del dare e ricevere cura è un’esperienza esistenziale ancor prima che
professionale, che parte da un sapere quotidiano femminile che si costituisce a
partire dal legame con la madre. Allora valorizzare l’origine materna,
l’esperienza ,si traduce nel valorizzare la soggettività di chi si forma e di chi
lavora nei servizi, nel cercare di dare visibilità, consapevolezza anche alla
dimensione sessuata, alle identità corporee sia di chi dà, sia di chi riceve cura.

Rapporto tra Tutor e Tirocinante: la relazione permette l’avvicinamento, la


curiosità, il superamento delle proprie difese (da parte di entrambi), è un tipo di
rapporto che definirei piuttosto più vicino allo scambio. Certo, io come Tutor
d’aula o Tutor di tirocinio, oppure come Docente, occupo una posizione
differente per le competenze che già possiedo e, come nella relazione d’aiuto,
offro un dare, un istruire, trasferisco risorse, conoscenze "tecniche" ma anche
valori, facilito un apprendimento, stimolo la formazione di atteggiamenti
cognitivi, operativi, di ricerca e relazionali, guido all’acquisizione di
metodologie, del saper leggere il contesto, del saper cooperare, negoziare, della
capacità di assumersi responsabilità e della capacità di progettare, e questo
rapporto è di tipo complementare, asimmetrico. Non dimentico comunque l’altra
dimensione, anch’essa presente nella relazione d’aiuto : verticale, in quanto c’è
una certa dipendenza reciproca che ci consente di mantenere e ricostruire
l’identità, c’è un senso di uguaglianza di posizioni, entrambe titolari di diritti,
coinvolte in emozioni, rispecchiamenti, in temute esplorazioni o in fiduciose e
generose aperture.
Questa condivisione, che ci mette nel vivo dei nostri limiti, delle nostre
inadeguatezze, delle nostre paure, così come con le nostre autorevoli forze e
conoscenze - esperienze – risorse ci rinnova. "Orizzontale e verticale: insieme si
sostengono a vicenda: l’uno è frutto dell’altra. Insieme, costituiscono complessi
intrecci comunicativi dai quali a nessuna delle parti in gioco è dato di uscire. Le
identità personali e collettive, le conoscenze e le competenze che ciascuna delle
parti immette in quell’intreccio, entrano fin da subito in un più ampio processo,
ogni volta unico e irripetibile, di reciproca ridefinizione e riposizionamento".
Anch’io Tutor o Docente imparo, faccio sì che anche l’imprevisto, l’inatteso
prenda il suo spazio, faccio spazio all’incontro (incontri di ammirazione, di
alleanze e comprensioni, ma anche di rifiuto, di critica e di chiarificazione che
necessita di ferma autorevolezza).E’ difficile stare in questo luogo dove devono
convivere regole e libertà, controllo e rispetto, necessità del gruppo e
dell’organizzazione con necessità soggettive e contingenti, "neutralità" come
garanzia di pari opportunità e simpatia, relazioni privilegiate.
Così come scrivono Vita Cosentino e Giannina Longobardi alcuni ragazzi e
ragazze "portano nelle scuole una domanda ineludibile di cambiamento:..
scardinano il rapporto convenzionale,… fanno apparire nella loro reale miseria
gli armamentari del potere scolastico,…ma ho potuto sperimentare come anche
il maternage sia una finta risposta, si presta ad essere usato strumentalmente da
entrambe le parti…portano a scuola anche un bisogno di relazioni sociali…il
senso solo mercantile della scuola appare ai loro occhi nella sua irrealtà e non
può bastare… non possono rimandare al futuro, la scuola deve avere senso nel
loro presente… nei fatti una scuola in cui si insegna una cultura legata alla
vita…essere spazio comune che vive di quanto in prima persona agiamo di
desideri ,di passioni di intelligenza delle cose…Curiosità e passioni nascono
quando si vede che ciò che insegni ti tocca, che c'è relazione tra te e la cosa che
dici.
La loro soggettività trova lo spazio di crescere e di esprimersi solo se tu mostri
soggettività ed apertura all’ascolto. Sicuramente il/la Docente o/e Tutor tengono
presente gli obiettivi ed i contenuti formativi, lo sviluppo delle cosiddette
competenze di base, trasversali e professionali, l’individuazione del
collegamento tra identità personale e ruolo professionale, ma il lavoro di cura ci
insegna (e si insegna) a mettere al centro le relazioni. E’ nella relazione che
misuriamo la nostra possibilità di influenzare la realtà, la nostra capacità di agire,
di cambiamento. In particolare per chi ha lavorato da anni nel sociale, c’è la
sensazione che "i saperi tecnico-specialistici e le procedure aziendali
efficientiste" debbano essere accompagnati da valori, perché no, anche
"dall’utopia di dare / di lavorare con "agio, benessere", evitando la
spersonalizzazione e sottolineando che oltre alle prestazioni, agli interventi
insieme viene scambiata la qualità di esseri umani, qualcuna lo chiamerebbe
"agire simbolico": "Accettare la disparità del nostro rapporto con il reale non
significa però rinunciare a indicare la direzione verso la quale vogliamo
muoverci" .

Un altro concetto che mi richiama la relazione (quindi anche la relazione d’aiuto


e la relazione tra Tutor e Tirocinante), è l’empatia. Empatia come "forma di
accesso al mondo mediante la relazione con l’alterità", scrivono
nell’introduzione Laura Boella e Annarosa Buttarelli ."contro molte concezioni
dell’empatia come immedesimazione o immediata partecipazione emotiva, la
separazione, anzi la discontinuità tra me e l’altra, l’altro, vuol dire una cosa
molto importante: prima ancora della partecipazione, anzi per darle la sua piena
verità, conta entrare in relazione. L’empatia ha tutta l’intensità del sentire, non è
una forma di conoscenza intellettuale. Il suo valore cognitivo è il rendersi conto
dell’essere in relazione, ossia una comprensione che è viversi come non
autosufficienti, come limitati e aperti a qualcosa d’altro."
Come io Tutor o /e Docente traduco tutto questo in un "patto formativo"? Questa
è la sfida che ogni volta ci attende: passando dalla strada dell’ascolto, dalla
valorizzazione delle esperienze, dalla costruzione di reciprocità e fiducia, del
rispetto, mettendo in circolo le differenze e le diverse rappresentazioni sociali
(pensiamo al numero crescente di persone migranti in questo ambito lavorativo e
formativo) inoltre non negando che l’incontro può anche essere conflitto con
altro/altra. Mi preme soffermarmi su questo aspetto perché ritengo che, a tutti i
livelli, la gestione del conflitto debba entrare a peno titolo tra i saperi ed i
contenuti formativi.
Credo che in particolare le esperienze e le politiche della differenza di genere
abbiano da insegnare rispetto alla mediazione. Mediazione che è costituta di
senso di appartenenza ma anche di differenza, di saper ascoltare attivamente ma
anche di saper argomentare, del saper comunicare non esclusivamente con il
registro verbale, di saper fare critiche ma anche di saper ricevere critiche, del
saper valutare ma anche del saper autovalutare, dell’accogliere punti di vista
differenti senza troppo rinunciare a sé…Nel lavoro di gruppo in aula, nel lavoro
quotidiano di equipe (o durante lo stage / tirocinio), così come nella relazione
Tutor-Tirocinante, occorre promuovere la mediazione (anche per la costruzione
reale di "reti di comunità" e per servizi meno autoreferenziali).

Altro nodo che mi richiama la relazione è il ruolo dell’errore : insegnare ed


imparare a trovare noi (tutti/e) la misura del nostro agire ci forma alla
responsabilità. E non sempre pur assumendoci questa responsabilità troviamo
soluzioni adeguate: "Costitutive di ogni sapere sono non solo gli elementi di
incertezza ma anche delle zone d’ombra. Un sapere che si dice con lealtà non
può non fare posto anche ai sui lati oscuri, alle zone intessute di incertezze e di
contraddizioni laceranti. Del resto è proprio il mantenere lo sguardo attento ai
vuoti di sapere e alle sue contraddizioni che genera la disposizione ad interrogare
l’esperienza". Esperienza nostra e dell’altro, dell’altra. Esperienza dei limiti
nostri prima ancora che altri.

Convergo quindi alla visione di Angelini su un ampliamento rispetto ai limiti del


patto formativo, la difficoltà sta nel dare visibilità e dignità, far passare tutto ciò
come "esempio consapevole", metodo, valore.

Val più la pratica della grammatica?: nei nostri corsi si svolgono 900 ore di cui
450 di teoria e 450 di stage, per condurre al meglio l’esperienza di tirocinio la
Tutor e la Coordinatrice attivano una serie di incontri (prima, durante e dopo)
con i servizi invitando le figure di riferimento in particolare l’ADB Tutor (Tutor
aziendale). Le/i corsiste/i sono informati di questo stretto rapporto che ha
l’obiettivo di condividere gli obiettivi formativi, gli strumenti di valutazione e di
cercare insieme soluzioni nel caso emergano problematiche. Inoltre nella
progettazione dei contenuti si cerca di adattare la teoria alla pratica e quindi ai
differenti contesti locali della rete dei servizi. Tutto questo lavoro di relazioni e
comunicazioni sta ala base del tirocinio. Quindi la domanda iniziale vuole essere
provocatoria: non dovrebbe esserci un gap tra queste due dimensioni in quanto
l’una perfeziona l’altra se si rinforzano attraverso il racconto dell’esperienza ed
attraverso il confronto. Inoltre teniamo presente che il turn over in questi servizi
è alto: chi oggi lavora con gli anziani domani potrebbe lavorare nella psichiatria
o in altri contesti nel sociale, quindi "la grammatica" non può accontentarsi di
dare mezzi, metodologie, strumenti "pronti all’uso" per il presente, ma deve
costituire una visione più ampia per il futuro, dove è importante imparare a
pensare, a lavorare in gruppo e per progetti, essere capace di far fronte agli
imprevisti e ai cambiamenti, acquisire capacità di problem solving.
Ma "Il punto è che la pratica è una grammatica. La rete di nervature delle
pratiche struttura e orienta potentemente il mondo, fa mondo…La pratica
costituisce il primo riferimento sul quale si incardina ogni determinazione di
significato. In essa inoltre si sedimenta la significazione riuscita, quella che ha
fatto presa sul mondo e che diventa senso comune, lo sfondo d’autorità dal quale
sempre si stagliano i successivi giudizi, e si formeranno le individuazioni. Anche
per questo strutturarsi della significazione è importante dare dei criteri per la
scelta dell’ADB Tutor, non solo che sia qualificata e con esperienza, ma
motivata al lavoro sociale e motivata ad essere formatrice, che possa in termini
di tempo e in termini cognitivi e relazionali condurre un affiancamento costante
e trasmettere non solo tecniche e metodologie ma anche valori, atteggiamenti,
etica.
Oltre a insegnare e valutare occorre che si stimolino capacità di esercitare
pensiero, giudizio, capacità di prendere decisioni ed autonomia e di confronto e
collaborazione nel lavoro di equipe. Quindi pratiche e tecniche sì, ma attenzione
a "che non si trasformino in un morto meccanismo che irrigidisce la fluidità del
movimento della vita, che non dimentichi la particolarità delle situazioni e dei
contesti in nome dell’universalità, che non possa fare a meno della persona in
carne ed ossa e delle loro relazioni"… "Un sapere pratico non vive da solo, non
si può fissarlo una volta per sempre, si trasmette personalmente con le forme
della tradizione, con la relazione diretta, viva, in presenza.. . Dargli autorità
significa dare autorità al sistema di relazioni che lo sostiene..".

Concordo sulle opinioni che affermano che "è in atto un pericolosissimo


processo di mistificazione, che fa di tutto per proporci come antitetici esercizio
della critica e formazione professionale".
L’accompagnamento nei processi maturativi dei giovani:
le funzioni del tutoring nei confronti dei giovani volontari
e tirocinanti, di Leonardo Angelini

Nell’anno scorso, come OPEN G e come Gancio Originale, abbiamo avviato un


insieme di seminari, che si concluderanno il 12.12 ps., sul rapporto fra
tirocinante e tutor, fra giovani volontari e tutor.

Vi è infatti più un elemento che accomuna il giovane volontario al giovane


tirocinante che cominciano a svolgere la loro opera nei mestieri della cura:
entrambi svolgono un lavoro non remunerato; entrambi svolgono un doppio
lavoro: sugli altri, cioè su coloro che hanno bisogno di cure, ma anche su se
stessi, sul flusso di emozioni e di sentimenti che nascono nella cura, sulle
trasformazioni che lungo questo operare avviene dentro ciascuno di loro;
entrambi quindi svolgono un lavoro non remunerato che richiede un
accompagnamento, se non si vuole che il giovane sia travolto dalla cura;
entrambi hanno bisogno che il loro operare avvenga in contenitori che, prima
ancora del loro disporsi verso la cura si attualizzi, siano adatti o siano stati
adattati da altri, più adulti di loro, alle disposizioni personali di ciascuno;
entrambi devono potere vivere questa esperienza come un passaggio, o meglio
come un momento del loro passaggio all’età adulta, e quindi devono sentirsi
sospinti ad andare oltre, a non rimanere lì, e soprattutto devono sentirsi liberi e
non oppressi dalla colpa e dal ricatt
entrambi in definitiva si trovano nella situazione in cui una serie di elementi che
indicano il percorso verso l’età adulta sono presenti e richiedono un certo tasso
di cerimonializzazione, nonché dei sacerdoti del passaggio in grado di aiutare il
giovane lungo questo per noi lunghissimo percorso con tutta la discrezione e la
cautela che quest’età richiede agli adulti che accompagnano i giovani, i
cosiddetti tutor.

L’esperienza dell’accompagnamento: due tipi di tutor


Nelle esperienze di tirocinio che sono svolte in concomitanza con altri momenti
formativi svolti in aula (cioè con le lezioni) nella pratica pedagogica anche da
noi si vanno evidenziando due figure preposte all’accompagnamento: il tutor
d’aula e il tutor di tirocinio.

Il tutor d’aula cura il reperimento delle sedi di tirocinio, l’adattamento questi


luoghi alle esigenze dei prossimi tirocinanti, l’individuazione dei tutor di
tirocinio, l’analisi delle propensioni individuali di modo che sia possibile fare dei
buoni abbinamenti, il rapporto con i docenti d’aula, l’ascolto in itinere dei
tirocinanti circa le difficoltà che incontrano durante il tirocinio, la gestione della
valutazione finale del tirocinio effettuato.

Il tutor di tirocinio invece, attraverso gli strumenti pedagogici dell’esempio e del


precettorato, più che con la lezione frontale, mostra al tirocinante, cerca di far
passare in lui le competenze necessarie affinché impari a operare, e con la sua
osservazione partecipe esprime delle valutazioni sull’operato del tirocinante a lui
assegnato.

Il volontario, così come il tirocinante che svolge la sua opera in un momento


post diploma o post lauream, apparentemente non hanno un tutor d’aula: in
effetti, almeno nel caso di Gancio originale, vi è una figura per noi
importantissima in sede centrale, e spesso anche in scuola sono presenti figure
che svolgono tutte le funzioni tipiche del tutor d’aula che prima abbiamo
elencato. Queste figure potrebbero essere denominate tutor istituenti anche se la
loro funzione va al di là di quelle, pur importantissime di precostituzione di spazi
adatti e di abbinamento ottimale.

Ma anche nei luoghi in cui concretamente si svolge l’opera di volontariato sono
presenti tutor di tirocinio che svolgono opera di guida nei confronti dei più
giovani, di valutazione del loro operato al fine di un miglioramento dell’opera
svolta.

Il ‘prima’ dell’accompagnamento: predisporre dei contenitori adatti al


giovane volontario
Si tratta di un lavoro che impegna non solo lo staff di Gancio Originale, ma tutte
le scuole medie inferiori della città e buona parte ormai delle superiori.
Le caratteristiche che ritroviamo in tutti questi contenitori sono:

la liminarità di questi luoghi di cura, il loro essere al riparo dallo sguardo adulto,
come dicevamo prima, in modo da predisporre un terreno nel quale sia garantita
una operosità discreta;

la delimitazione di un tempo per l’impegno che non sia molto intenso e che non
sia sovraccaricato di significati esterni a quelli che hanno spinto il giovane ad
impegnarsi;

la tutela del giovane volontario da parte di altri giovani solo un poco più esperti,
di modo che la responsabilità risulti diffusa e non concentrata in mani adulte che
di fatto esautorerebbero il giovane, lo ricondurrebbero a figlio o allievo;

la predisposizione del luogo di apprendimento scolastico, ma come ‘luogo di


restaurazione’: questo risulta di difficile comprensione non per i nostri volontari,
ma per quegli spezzoni di scuola che non vivono un rapporto diretto con Gancio,
ma si limitano ad inviarvi i bambini i ragazzi in difficoltà poiché vivono questi
luoghi come una sorta di doposcuola;

la cura degli aspetti teorico-pratici che sono alla base dell’esperienza attraverso
le predisposizione di momenti formativi (cicli di conferenze, seminari, atelier)
che non partano dalla banalizzazione degli argomenti, ma al contrario da una
seria riflessione sui significati intrinseci delle cose;

la cura per gli aspetti relativi ai movimenti che il volontario deve compiere per
giungere nei luoghi della cura: non dimentichiamo che si tratta di giovanissimi
che spesso non sono pienamente autonomi sul piano degli spostamenti in città;

e, cosa più importante di tutte, l’estrema cura nel definire gli abbinamenti, nel
favorire i primi approcci, nel mantenere il rapporto con gli operatori della sanità
e della scuola.
Il ‘durante’ dell’accompagnamento, ovvero: accompagnamento e
discrezione

Nella pratica è difficile che i più anziani fra noi si relazionino direttamente con i
volontari.

In effetti ciò che accade è una specie di catena di Sant’Antonio in cui il ragazzo
a rischio è in relazione diretta con un volontario, che a sua volta è guidato da un
giovane tirocinante dell’ultima generazione, che ha agganci con altri giovani
tirocinanti della penultima generazione, che sono guidati a loro volta da giovani
psicologhe borsiste, che si relazionano con i più anziani in luoghi istituzionali
del tipo: supervisione, o del tipo: verifica e ri\programmazione.

Luoghi di relazione più diretta fra i più anziani e i giovani sono: il reclutamento,
il counselling individuale ad opera dei tutor istituenti, che avviene solo su
richiesta dei giovani volontari, e la formazione, che viene definita in un rapporto
dialettico fra esigenze espresse dai giovani e proposte che intuitivamente il
gruppo dei più anziani fa di tanto in tanto.

In questo modo viene tutelato il fare nella sua parte più nucleare e frontale, che
non è direttamente sotto lo sguardo adulto e perciò può diventare il luogo di
proposizione e di sperimentazione della cura, e soprattutto del nuovo che ci può
essere nella cura che giovani prestano ad altri giovani, di quegli elementi di
creatività, di informalità, di intimità, di scambio che solo la scarsa distanza
generazionale può far nascere e che uno sguardo adulto potrebbe
velocissimamente guastare.

Ciò è tanto vero che da qualche anno assistiamo al fenomeno di giovanissimi che
hanno partecipato ai workshop e che alla fine desiderano continuare svolgendo
per qualche tempo funzioni di assistenti volontari nella cura di cui fino all’anno
precedente erano stati oggetto.

La fase finale dell’accompagnamento, ovvero: mangiare lo stesso pane e


separarsi
'Accompagnare' significa mangiare lo stesso pane.

E l’atto del mangiare lo stesso pane rimanda all’immagine di un desco comune


intorno al quale tutti mangiano lo stesso pane: insomma all’immagine di
appartenenza ad una stessa famiglia.

Anche in una famiglia però la generazione dei genitori, ad un certo punto, deve
prendere atto che i figli crescono a vanno oltre i genitori, abbandonano il desco
familiare e pongono le basi per costruirsene uno proprio.

Questa tendenza ad abbandonare il desco ed andare oltre è ancora più accentuato


nei luoghi del volontariato giovanile. Non per niente ci è venuta in mente l’ascia
di Washington quando abbiamo compreso questo: ascia ancora là, in bella vista,
anche se nel frattempo le sono stati cambiati sei volte il manico e due volte il
ferro.

I giovani volontari passano e Gancio resta a disposizione dei nuovi venuti, come
l’ascia di Washington, che rimane se stessa nonostante non lo sia da un punto di
vista materiale.

E’ per questo che è difficile trasformare Gancio in una associazione; è per questo
che Gancio deve affrontare tutte le coniugazioni e tutte le separazioni che
derivano da questo continuo transito; è per questo che l’accompagnamento nelle
strutture di volontariato giovanile somiglia più ad una attraversata di un passo
alpino che ad un lungo viaggio.
La prospettiva del cambiamento: una minaccia o una
promessa? Considerazioni sull’esperienza del
cambiamento a partire da ciò che avviene in un gruppo di
volontariato giovanile: Gancio Originale1, di Deliana
Bertani

1.L’accompagnamento come elemento che attutisce le ansie e le angosce che


intervengono nell’imminenza del cambiamento

Nell’imminenza di un cambiamento in tutti gli individui, e non solo in coloro


che sono o paiono più fragili, si accentuano le ansie e le angosce con le quali
solitamente conviviamo.

Allorché siamo stati avvisati dell’incontro odierno, sia voi che io, sia noi che gli
organizzatori dell’incontro abbiamo dovuto combattere delle piccole guerre
interne fra parti di noi che hanno vissuto bene quest’incontro e parti che invece
lo hanno temuto. Da questo conflitto interno derivano l’ansia e l’angoscia nei
confronti del nuovo, che possono variare da individuo a individuo, da
circostanza a circostanza, ma che ci prende tutti ogni volta che all’orizzonte c’è
qualcosa di Ansianuovo.e angoscia quindi hanno a che fare con il futuro, e non è
detto che siano solo elementi di disturbo nel definire il nostro atteggiamento nei
confronti del futuro, ma anzi – a saperle usare bene - possono essere trasformate
in potenti armi che ci permettono di programmare meglio il nostro futuro.

In effetti, come sa qualsiasi studente che si appresta a fare un esame, un certo


tasso di ansia (non eccessivo e paralizzante) nei confronti dell’esame, cioè ciò
che solitamente viene chiamata ‘la paura dell’esame’ è una potente arma che ci
permette di rimanere concentrati sull’esame e di superarlo, ed al contrario
l’assenza di ansia spesso ci porta a sottovalutare lo sforzo occorrente per
affrontare l’esame, ed infine a ‘saltare l’esame’.
Di fronte al cambiamento il problema non è quello di fare la politica dello
struzzo, ma di usare per il meglio se stessi e l’organizzazione in cui si è inseriti
per trasformare l’ansia e l’angoscia che inevitabilmente sorgono in queste
occasioni in elementi che permettono di non farsi travolgere dal cambiamento,
ma di governarlo, di programmarlo.

L’accompagnamento è una delle strategie più efficaci per governare il


cambiamento allorché, come avviene in Gancio Originale, sulla scena
organizzativa vi siano più generazioni di operatori poiché permette a tutti gli
attori di ricollocarsi l’uno rispetto all’altro in modo coordinato e complementare,
e di trasformare così le ansie in elementi di programmazione e di cooperazione
intergenerazionale.

Da noi avviene che i bambini e i ragazzi a rischio siano seguiti da giovani delle
superiori che a loro volta, come in una catena di Sant’Antonio
dell’accompagnamento, sono seguiti da giovani psicologi tirocinanti, che sono
supervisionati da psicologi più anziani, che a loro volta sono supervisionati da
un esperto esterno (che forse avrà da qualche parte una persona più saggia che lo
aiuta di tanto in tanto).

Accompagnare significa letteralmente “mangiare lo stesso pane”, cioè diventare


parte della stessa famiglia: qualcosa che ha un profondo significato e da un
punto di vista laico (compagni!) e da quello religioso (‘prendete e mangiate..’).

Accompagnare significa introdurre nella verticalità di un raffronto


intergenerazionale degli elementi di compartecipazione e di condivisione che
attutiscono le distanze e ci fanno sentire più vicini.

2.L’ascia di Washington: rimanere se stessi nel cambiamento

Nella casa natale di George Washington ancora è in bella vista l’ascia del primo
presidente degli USA. A coloro che chiedono coma abbia fatto quell’ascia a
giungere fino a noi gli addetti spiegano che è la stessa, ma che nel frattempo le
sono stati cambiati sei volte il manico e due volte il ferro.
Anche il nostro gruppo di volontariato è come l’ascia di Washington ed ogni
anno rinnova i suoi aderenti, pur rimanendo se stessa nel cambiamento.

Rimanere se stessi nel cambiamento: cos’è che fa si che avvenga questo


fenomeno? Cos’è che permette agli individui a alle organizzazioni continuare a
riconoscere se stessi, pur di fronte a grandi cambiamenti?

Nel caso dell’ascia di Washington è l’aura che c’è intorno ad essa, cioè
quell’atmosfera incantata che i custodi della casa del grande presidente hanno
saputo creare e che fa si che il visitatore vede l’ascia e pensa immediatamente
alle mani del presidente che tanto tempo fa la strinsero.

Nel caso di Gancio Originale il fatto che per un insieme di circostanze i pochi
che rimangono ci tengono da una parte a mantenersi fedeli all’elemento fondante
dell’identità di Gancio, dall’altra la disposizione di questi ultimi di adattare
l’idea di Gancio e se stessi ai cambiamenti imposti sia dalle novità che ogni
nuovo bambino disabile seguito da noi ci pone, sia dall’identità e dalle
competenze dei nuovi volontari che nel frattempo siamo riusciti ad agganciare.

Rimanere se stessi nel cambiamento: un compito che per gli individui e le


organizzazioni è di vitale importanza.

Infatti che cos’è un individuo che nel passaggio da una fascia di età ad un’altra
non è capace di ridefinire se stesso? Che cos’è un adolescente che una volta
diventato adulto non è capace di prendersi le sue responsabilità: un vitellone
destinato a rimanere ai margini dell’età adulta, una caricatura di un adulto.

Allo stesso modo un’organizzazione che non è capace realizzare il paradosso


apparente di trasformarsi pur rimanendo se stessa, di mantenere i connotati
originali della propria mission sapendoli adattare alle mutate circostanze alla fine
rischia di diventare la caricatura di se stessa o di irrigidirsi in rituali che piano
piano perdono i loro significati originari per diventare altra cosa.

Nell’incontro fra due identità diverse, come può essere quello fra due gruppi di
individui che, pur accomunati dallo stesso ideale, appartengono a generazioni
diverse vi è sempre una osmosi che nei casi estremi avviene a scapito dell’una o
dell’altra identità generazionale, nella maggioranza dei casi attraverso uno
scambio in base al quale è possibile crescere e collaborare.
So che a volte è difficile accettare quella specie di meticciato, cioè quella specie
di incrocio fra identità diverse che alla fine sono tutte le organizzazioni. Lo è
soprattutto allorché coloro che sono in esse da più tempo e che in esse si sono
spesi al massimo vedono arrivare gli ultimi, i più giovani che con furia mettono
mano a tutto ciò che la tradizione ha faticosamente costruito senza rispetto per i
più anziani. Ma se si vuole il cambiamento e non si ha paura di esso anche
questo va accettato, esattamente come in famiglia gli ardori dei giovani, la loro
voglia di ribellarsi ai padri è sintomo della loro crescente capacità di andare da
soli per il mondo.

Di modo che il vecchio e il nuovo insieme affrontino risolutamente le sfide che


l’oggi pone.

3. Il cambiamento come una minaccia e come una promessa

Tutte le ansie e le angosce che sentiamo nei confronti del cambiamento, tutte le
resistenze che incontriamo in noi allorché ci apprestiamo a cambiare stanno a
significare che dentro di noi ci sono almeno due istanze che entrano in gioco in
queste circostanze.

Vi è una parte più pavida e circospetta dentro di noi che vive il cambiamento
come una minaccia. E, a fianco ad essa, una parte più coraggiosa, che a volte
può diventate sventata, che vive il cambiamento come una promessa.

La minaccia è quella che l’equilibrio a fatica raggiunto sia messo in crisi e che il
nuovo risulti troppo mostruoso, troppo diverso dall’oggi: di fronte a questa
minaccia la tentazione, come dicevamo prima, può essere quella di fare politica
dello struzzo, di mettere la testa sotto la sabbia sperando che nulla cambi nel
frattempo, o peggio di sabotare il cambiamento, ma anche quella di muoversi
verso il nuovo con circospezione e con un tasso di timore che non impedisce di
potere vedere le potenzialità presenti nel nuovo.

La promessa è quella che dal nuovo nasca qualcosa di bello che ci fa sentire
giovani, creativi, produttivi. Il nuovo in questo caso è visto come un lievito che
pervade il cambiamento e ci fa immaginare il futuro come gravido di cose
importanti che possono da noi essere pensate, programmate, fatte. Se il nuovo
viene sposato, però, in maniera acritica e senza alcuna manovra volta a vedere
cosa in effetti il nuovo significa può dar luogo a svolte improvvise, ad un
andamento a zig zag che, se persiste, può essere foriero non di un vero e
profondo cambiamento, ma di un procedere secondo le mode del momento.

In ogni caso è in base a queste due istanze, interne a noi individui e a noi
organizzazioni, che di fronte al cambiamento avviene come una lotta, a volte
senza esclusione di colpi fra voglia di cambiare e voglia di non cambiare, fra
parti coraggiose e parti pavide, fra parti eccessivamente preoccupate e parti
troppo ottimistiche di fronte al cambiamento.

Così che nell’individuo può succedere che le parti pavide sviluppino tutta una
serie di strategie psicologiche volte a sabotare il cambiamento: una malattia
psicosomatica, o una depressione dovuta al lutto per le parti vecchie che queste
parti nostalgiche di noi pensano di perdere nel cambiamento, una fobia, etc..

Nelle organizzazioni spesso accade che ci si divida in gruppi e che alcuni


individui, di fronte al cambiamento, assumano su di sè tutti timori e si strutturino
come gruppo contrario al cambiamento, mentre altri assumano su di sè, come
gruppo, il coraggio di cambiare e che le cose si mettano pericolosamente sul
piano di una lotta fra gruppi contrapposti che spesso è l’anticamera della perdita
di operatività del gruppo e del suo degradare verso modi ci convivenza di tipo
familiare e non operativo, per cui le cose si fanno solo ‘se tu mi vuoi bene’ se
appartieni al mio stesso clan, e non perché servono all’organizzazione: ciò
avviene se non c’è dialogo all’interno dei vari gruppi e se non si è disposti a
decentrarsi e ad ascoltare le ragioni degli altri.

E’ chiaro che l’organizzazione non deve mai augurarsi che i gruppi arrivino a
questi livelli di distruttività, poiché di questo passo si arriva solo alla paralisi
operativa.

Fortunatamente il più delle volte si arriva ad un compromesso fra i vari gruppi e


fra i vari operatori che salva l’operatività e che permette a tutti di continuare a
sentirsi come parte di un tutto.

In questi casi ciò che accade è un dialogo che parte dal riconoscimento da parte
dei più audaci che in coloro che rappresentano le parti timorose vi può essere il
presentimento di pericoli reali nel nuovo, pericoli che vanno affrontati e non
sottovalutati; e - di converso - il riconoscimento, da parte dei più pavidi, che
coloro che più risolutamente vanno verso il cambiamento contengono la
rappresentazione di un nuovo punto di equilibrio futuro che può essere visto
anche da loro come perseguibile.

L’organizzazione cioè può trarre vantaggio sia dalle preoccupazioni degli uni,
sia dal coraggio degli altri per creare un impasto di azione e di riflessione, di
avanzamento verso il nuovo, ma anche di tutela delle cose più importanti della
tradizione, che possono garantire un cambiamento condiviso e realmente utile ed
efficace.

1.(Relazione tenuta al meeting dei soci Coop Nordest – Salsomaggiore,


10.11..2001)
4ª parte: Sul tirocinio post-lauream in
psicologia
Chi ha paura dei giovani psicologi? di Leonardo Angelini

(Inviato, e non pubblicato, alla rivista dell'Ordine degli psicologi nel 1997)

C'è uno spettro che si aggira per l'Italia: quello del giovane psicologo. Ne
parlano con terrore sindacalisti delle corporazioni professionali e docenti delle
facoltà, psichiatri imbarcati nel Polo ed autorevoli membri dell'ordine,
corporativisti dell'ultima ora e falsi "liberisti" che alzano lodi al mercato solo
quando conviene a loro.

Sostanzialmente le proposte avanzate da tutte le parti che hanno voce in capitolo


sono di erigere steccati, vere e proprie barriere doganali a difesa degli orticelli
appena appoderati, moltiplicare gli esami, diversificare gli sbocchi, squalificare i
corsi di studio, tenere in una situazione di marginalità le scuole non asservite
all'accademia, e, nello stesso tempo, creare delle sine cura destinate a formare,
sul preclaro esempio di molte facoltà e professioni già corporativizzate, nipoti,
parenti, compari e comparielli.
E' ora di dire basta a chi fa scempio dell'impegno dei giovani!

E' ora che i giovani, soprattutto quelli che ancora non sono dispersi nei mille
luoghi del tirocinio o a casa in attesa di un posto, ma che si incontrano, si
guardano in faccia, si studiano timorosi di vedere nell'amico, nel compagno di
studi di oggi il concorrente di domani, è ora che loro, insieme ai più accorti dei
loro colleghi più anziani facciano sentire la loro voce solidale!

Ed a loro vorrei rivolgermi soprattutto nel proporre i cinque punti che seguono
che vogliono essere un primo contributo per stimolare una riflessione che sfoci
nella espressione di quella parola che manca nel dibattito attuale sul destino della
nostra professione, la loro.

1. Alla fine del biennio iniziale degli studi, a mio avviso, sarebbe opportuno
distinguere fra coloro che hanno totalizzato, negli esami fondamentali, una
media superiore a tot\trentesimi e coloro che non l'hanno totalizzata: per i primi,
e solo per i primi, dovrebbe essere possibile iscriversi nell'indirizzo
sperimentale, quello dei futuri Proff. e ricercatori. In questo modo, a mio avviso
si potrebbe attutire quella tendenza da parte dei docenti dei primi anni a
richiedere narcisisticamente che lo studente di psicologia sia una specie di
fotocopia del proprio pensiero psicologico: questo va bene se la selezione che il
docente fa è quella di reperire coloro che perpetueranno ed innoveranno il suo
lavoro, non è per niente comprensibile per tutti gli altri. Togliamogli quest'ansia
e forse saranno meno carogne!

2. Anticipare il tirocinio fin dal primo anno di studi, facendo degli ampi
accordi (remunerati) soprattutto con le istituzioni pubbliche (Usl, etc.) e private
che hanno psicologi nei propri organici, oppure, sempre con forme di tutoring
esercitate da psicologi già patentati, in istituzioni che possono diventare terreno
di osservazione per giovani psicologi (penso agli asili nido ed alle scuole
materne, o alle scuole dell'obbligo, ad esempio).

Si potrebbe prevedere un crescendo di impegno che da un minimo di ore di


tirocinio nel primo anno, vada a definire, nel secondo triennio un monte ore che
alla fine consenta di eliminare l'odioso anno di tirocinio e di accedere all'esame
di stato subito dopo la laurea.

Ciò consentirebbe al giovane futuro collega di vedere de visu che cos'è la


professione, all'anziano di esprimere, con una valutazione di fine anno, un voto
sulla capacità del giovane di procedere, ed un parere sulle difficoltà
eventualmente incontrate. Parere che potrebbe essere discusso il sede
accademica con i responsabili accademici del tirocinio e che potrebbe
concludersi anche con la raccomandazione di cambiare aria (specie nei primi due
anni).

3.Centrare la tesi di laurea sull'indirizzo scelto dal giovane e prevedere la


possibilità che, insieme al relatore possa esserci anche un correlatore esterno
all'università.
Accettare proposte di tesi esterne agli esami di indirizzo solo se motivate dal
giovane.
Questo per minimizzare il rischio che il grande sforzo fatto in questo momento
finale della formazione accademica sia fatto a vuoto.

4.Centrare l'esame di stato sul tirocinio, che diventerebbe così il momento finale
della formazione in situazione. Sono d'accordo con Michelin sul fatto che siano
gli ordini ad organizzare gli esami di stato, a patto che, però, le commissioni di
esame siano istituite con le norme di un qualsiasi concorso serio.
5. Promuovere la nascita, da parte delle università e dei privati di scuole di
specializzazione non solo in psicoterapia, ma in tutti i campi applicativi della
psicologia, fissando dei criteri di validazione dei curricoli e dei docenti che siano
discussi con i rappresentanti degli psicologi che già lavorano e che agiscano
sotto il controllo dell'ordine e dello stato.

Questo, a mio parere è l'unica possibilità concreta che la miriade di colleghi


sopravvissuti alla selezione fatta da parte dell'università si distribuisca in
maniera oculata nel mondo del lavoro e vi acceda con il massimo di competenza
e di autoconsapevolezza di ciò che li attende ed è a loro richiesto, non tanto dalla
scienza quanto dalla professione.

E che il mercato poi faccia il resto.


La funzione riflessiva nel tirocinante in psicologia, di
Marianna Pattini

Vorrei sottolineare innanzitutto che ho accolto con molto piacere la proposta di


relazionare a riguardo della mia esperienza di tirocinio. Infatti, per quanto
faticoso sia ripensare alla propria esperienza e soprattutto verbalizzarla ad altri,
cercando di seguire un ordine più o meno logico, ho vissuto tale proposta come
un’ottima occasione per sospendere temporaneamente l’azione e dare spazio al
pensiero. Credo che la ricerca di significato nella propria pratica, sia essa
lavorativa o di tirocinante, sia fondamentale per una costituzione
sufficientemente consapevole della propria identità professionale. D’altra parte,
ritengo che solo un’attenta riflessione sul proprio percorso formativo e
professionale permetta di riscoprire l’unità e la coerenza che lo connotano, al di
là della molteplicità delle esperienze che si vivono o degli ambiti in cui ci si
trova ad operare o formare. In particolare, per un giovane che sta per entrare nel
mondo del lavoro e che presto si troverà di fronte ad una, direi ‘esasperata’,
molteplicità di campi applicativi in cui potersi inserire, credo sia fondamentale
usufruire di ‘spazi’ che lo stimolino a ricordare continuamente a se stesso le sue
aspirazioni più profonde, per non correre il rischio di lasciarsi ‘scegliere’ dagli
altri o, per lo meno, per farlo in modo consapevole.

Negli ultimi quattro anni del mio percorso formativo, che coincidono col triennio
universitario, connotato dalle EPG, e col tirocinio post-lauream, ho avuto la
fortuna di incontrare psicologi preoccupati non tanto di trasmettere conoscenze o
di promuovere un apprendimento nozionistico, quanto piuttosto di stimolare una
riflessione sull’ ‘essere-divenire’ psicologo e di far capire l’importanza della
dimensione del ‘pensiero’ in tale tipo di professione.

Da loro ho appreso che l’esperienza, per tramutarsi in conoscenza, necessita di


una ‘riflessione su’, per cui diviene fondamentale la continua interazione tra
esperienza diretta ed elaborazione concettuale.

Nel corso dell’ EPG afferente a Psicologia dei Gruppi, ho verificato direttamente
che la conoscenza psicologica è ‘intrinsecamente dialogica’, poiché deriva dalla
condivisione delle riflessioni che ciascuno fa a riguardo della propria esperienza
della realtà: ho potuto constatare quanto la mia personale interpretazione fosse
arricchita dal confronto coi miei compagni di studio, confronto da cui è esitato
un ‘surplus’ di conoscenza che nessuno di noi, individualmente, sarebbe stato in
grado di produrre.
Ho appreso dunque che la conoscenza psicologica che apre alla complessità del
sociale è quella che si produce attraverso lo scambio dialogico, ma ho appreso
anche che tale conoscenza rimane parziale, poiché non esaurisce tutti i punti di
vista, ed è inevitabilmente provvisoria, in quanto processuale. Tale EPG mi ha
dato insomma la possibilità di ripensare alla funzione del sapere psicologico e di
capire che il rischio che corre un neopsicologo è quello di appesantirsi di un
bagaglio di nozioni che, se possono fortificare chi le possiede ed essere utilizzate
a tutela del proprio ruolo, servono ben poco per leggere la complessità del reale
e per incontrare realmente l’altro (senza cioè frapporre tra noi e lui tutte le nostre
conoscenze).
Dalla frequentazione del Servizio di Neuropsichiatria Infantile e Psicologia
Clinica dell’Età Evolutiva dell’ASL di Parma ho appreso che il sapere
psicologico è utile nel momento in cui riesce ad arricchire la nostra
comprensione della realtà, e che questo accade nel momento in cui ci si mostra
aperti a molteplici approcci teorici e metodologici, pur aderendo, personalmente,
ad un unico orientamento. Ho infatti conosciuto Psicologi-Psicoterapeuti che
cercano di leggere le situazioni problematiche assumendo contemporaneamente
un’ottica individuale, familiare, sociale e comunitaria, senza rinnegare il proprio
credo psicodinamico. Credo che le teorie abbiano una funzione importante nel
processo conoscitivo in atto, perché, partendo da queste, possiamo forse cogliere
dettagli più precisi nella realtà che ci circonda. L’errore si compie nel momento
in cui si privilegiano gli oggetti della propria teoria rispetto alle sfide poste dalla
situazione che si affronta.

Altra importante conclusione cui sono giunta grazie alle stimolanti provocazioni
del Dr. Kaneklin e a quanto ho visto presso il Servizio di Neuropsichiatria
Infantile, riguarda la natura e la funzione degli strumenti psicologici. Dal
momento che tali strumenti servono ad avviare una relazione con altre persone e
che l’esito del loro uso dipende dal rapporto che lo psicologo instaura con essi
(pensiamo al colloquio, all’intervista, al questionario semi-strutturato ecc.),
qualcuno li ha definiti

strumenti-relazione. Molto utile è stato per me riflettere sul possibile uso
difensivo di tali strumenti: esso può trasformarsi in un vero e proprio agito e
celare, ad esempio, il proprio bisogno di distanziarsi dalla sofferenza altrui.
Pensiamo ad esempio ai casi in cui si frappone all’autentico ascolto dell’altro la
tecnica e fredda somministrazione di un test. Inoltre, proprio per il fatto che il
risultato dell’utilizzo degli strumenti-relazione dipende dall’uso che se ne fa, essi
si presentano come ‘tecnologie deboli’. Lo psicologo, allora deve saper gestire
non soltanto l’ansia connessa alla consapevolezza della relatività del proprio
sapere, ma anche quella connessa alla consapevolezza della ‘debolezza’ degli
strumenti di cui dispone.

Spesso il neolaureato inizia l’esperienza di tirocinio con l’aspettativa di


conoscere, finalmente, un modello ideale di professionalità, una sorta di
‘ricettario’ di consigli per divenire un bravo psicologo. Per quanto io stessa sia
tentata di ascoltare il desiderio di apprendere ‘tecniche’, di imparare un ‘come si
fa’, riconosco che sia fondamentale, nel corso del tirocinio, scoraggiare sia la
ricerca di un modello sia quella di tecniche e creare invece spazi in cui il
neolaureato possa riflettere sull’uso dei saperi e degli strumenti psicologici. Il
bisogno, da parte del giovane psicologo, di acquisire un ‘saper fare’ potrebbe
essere l’espressione della sua esigenza di sentirsi più competente e di mostrare
anche agli altri le capacità acquisite in anni di studio. Occorre aiutarlo a prendere
contatto coi propri vissuti di inadeguatezza e col proprio istintivo bisogno di
colludere con le aspettative di chi guarda allo psicologo dall’esterno, magari con
un po’ di scetticismo.
Per questo si dovrebbe costantemente ricordare al tirocinante come provare un
‘vissuto di incertezza’ non sia necessariamente indice di incompetenza, quanto
piuttosto della disponibilità a lasciarsi interrogare dalla complessità delle
situazioni, che richiedono sempre una lettura caleidoscopica e processuale.
Altrettanto importante sarebbe, per un tirocinante, potersi interrogare sulle
aspettative altrui circa lo ‘psicologo’ e sui propri vissuti a riguardo.
Quotidianamente, anche un semplice studente, si scontra con la convinzione
diffusa che lo psicologo sia il depositario delle spiegazioni ultime del
comportamento umano, il decifratore dei misteri insondabili presenti nella mente
degli uomini.
Negli ultimi anni della mia formazione ho appreso che lo psicologo, lungi dal
corrispondere a tale aspettativa, emettendo, dall’alto della sua posizione,
interpretazioni assolute, dovrebbe riconoscere la complessità delle situazioni
sulle quali è chiamato ad esprimersi e mirare ad una lettura articolata delle
stesse. In qualsiasi contesto operi, lo psicologo, prima di agire ‘un’azione o
un’interpretazione’, dovrebbe infatti ‘apprendere da quell’incertezza’ che è
inevitabilmente connessa alla consapevolezza di non poter far riferimento a leggi
universali o a protocolli creati a priori che permettano di conoscere una specifica
situazione.
All’incertezza si può rispondere con due modalità contrapposte: o attraverso un
agito, che non è guidato dal pensiero e che mira a placare l’ansia ‘del non
sapere’, o attraverso una riflessione ‘faticosa’, da cui però spesso esitano
soluzioni creative. Mi hanno insegnato che solo sospendendo momentaneamente
l’azione ed agendo nella palestra sperimentale della propria mente si può
giungere ad un’interpretazione corretta della realtà ed articolare interventi che
consentano di operare in modo adeguato su di essa.
Durante i primi sei mesi di tirocinio ho potuto affiancare psicologi e
neuropsichiatri nei primi colloqui psicodiagnostici e ho colto, talvolta con
stupore, la loro capacità di aspettare che il processo conoscitivo compisse il suo
corso, senza la preoccupazione di individuare, sin da subito, una categoria
diagnostica appropriata o di giungere ad una spiegazione esaustiva dei casi. C’è
sempre stato lo spazio per il ‘non ancora chiaro’, per ‘l’ancora aperto’, per
‘l’irrisolto’, c’è sempre stata la possibilità di dirsi ‘il non riuscire a capire fino in
fondo’ e la capacità di accogliere dentro di sé il ‘non compreso’.

Questi sei mesi di tirocinio si sono rivelati per me particolarmente preziosi anche
per divenire più consapevole circa il mio stile personale di vedere, di leggere e
decodificare le situazioni, di entrare in relazione e di comunicare con l’altro, di
cogliere difficoltà ed emozioni in me stessa e nell’altra persona. Pur non avendo
mai affrontato un colloquio da sola, ho affiancato altri professionisti ed ho
potuto saggiare la mia capacità di ascoltare ed osservare, di cogliere le
informazioni importanti, di fare domande adeguate, di identificarmi con l’altro e
nello stesso tempo differenziarmi da lui. Inoltre, poter osservare diversi
professionisti (psicologi e neuropsichiatri) mi ha permesso di verificare che il
condividere un determinato orientamento (psicodinamico) non significa
rinunciare ad un proprio stile personale.
Queste persone sono state vissute da me come oggetti di identificazione da cui
poter derivare la mia identità professionale: riconoscendomi ora nell’uno ora
nell’altro, mi sono interrogata sullo psicologo che vorrei-potrei diventare, sul
tipo di utente per cui sarei più adeguata, sulle problematiche che susciterebbero
maggiormente il mio interesse e sull’attività per cui sarei più portata (diagnosi,
terapia, ricerca). Sostanzialmente, frequentare il Servizio di Neuropsichiatria
Infantile ha significato e significa per me cominciare a sperimentarmi nei panni
dello psicologo, in un contesto estremamente protetto dove l’assunzione di ruolo
non si accompagna a quella di responsabilità e dove c’è ancora molto spazio per
‘giocarsi su un piano meramente simbolico’. Il prevalere della dimensione del
‘fantasticarsi come psicologo’ rispetto a quella dell’ ‘essere psicologo’ o del
‘fare lo psicologo’, lungi dal ridurre il valore dell’esperienza di tirocinio, ne è il
suo punto di forza. Il neolaureato ha infatti bisogno di un’area intermedia tra il
mondo universitario e quello lavorativo in cui poter confrontare l’immagine di
psicologo che si è costruito negli anni di studio con lo psicologo ‘reale’, quello
che opera quotidianamente, in un contesto specifico, con delle persone concrete.
Non dimentichiamo peraltro che ‘fare lo psicologo’, specie se clinico, richiede,
un’alta competenza emotiva, competenza che il tirocinante spesso non possiede.
Occorre quindi offrirgli un contesto protetto in cui cominciare a prendere
contatto con la propria dimensione emotiva ed imparare a gestirla: una sorta di
‘palestra emotiva’.

Durante il tirocinio ho anche potuto mettere in relazione me stessa con temi e


problemi strettamente connessi alla professionalità dello psicologo:
l’imprescindibilità del contesto in cui si opera, la relazione interpersonale come
matrice della conoscenza stessa, la comunicazione intrap-sichica, cioè il
continuo dialogo con se stessi, come strumento per monitorare e rielaborare
condotte e pensieri. Riprendere queste tematiche, già affrontate in alcuni corsi
universitari, durante lo svolgimento del tirocinio, ha significato rivitalizzarle,
‘farle più mie e più vere’.

In conclusione, vorrei dire due parole sul ‘gruppo del mercoledì’, in cui i
tirocinanti dell’ASL di Parma hanno la possibilità di incontrarsi e di condividere
i loro vissuti connessi al ‘divenire psicologo’, sotto la supervisione della Dr.ssa
Mussi. Ricordo che un anno fa, quando dovevo decidere dove svolgere il mio
tirocinio, ho dubitato molto se rimanere a Milano, città in cui avevo studiato, o
se rivolgermi a Parma. Ciò che mi ha fatto decidere con entusiasmo per l’ASL di
Parma è stata la proposta di un’esperienza di in cui si sarebbe cercato di dare
molto spazio alla ‘riflessione su’. Ciò che più temevo infatti era il vivere
un’esperienza senza la possibilità di condividerne il significato con colleghi e
professionisti. Il ‘gruppo del mercoledì’ mi ha richiamata sistematicamente ad
un’attribuzione di senso, permettendomi di percepire la coerenza e la continuità
del mio percorso formativo, nonché di condividere le ansie inevitabilmente
connesse a questo momento di transizione con altri tirocinanti. Di fatto, grazie
agli incontri del mercoledì, il tirocinio si sta configurando per me come un vero
e proprio rito di passaggio che sostiene-accompagna-contiene il neopsicologo
alla ricerca della propria identità professionale.


Il tirocinio in psicologia: sperimentare e pensare nelle
relazioni. L’esperienza dell’AUSL di Parma, di Fabio
Vanni

Vorrei intanto esprimere il mio piacere nell’essere qui oggi a parlare con voi dei
tirocini in psicologia, e di ciò devo ringraziare innanzitutto Dino Angelini e
Deliana Bertani, per una ragione non retorica che vorrei enunciare.

Quando ho iniziato a fare il tutor, oramai otto o nove anni fa, mi aveva colpito
una contraddizione: da un lato l’esperienza di tutor e di formatore di laureati in
psicologia ed anche l’esperienza di tirocinante, per come la ricordavo e per come
me la descrivevano i tirocinanti stessi era, e ancor più poteva essere, un
‘esperienza di grande ricchezza;

d’altro canto, come dire, non si faceva pubblicamente parola di questa potenziale
ricchezza, nel senso che non vi era praticamente traccia, nella letteratura, ma
anche nei dibattiti interni al mondo degli psicologi, di questo argomento.

Ricordo che quando mi fu assegnata la mia prima tirocinante chiesi a colleghi


più esperti qualche indicazione su come si faceva il tutor, ma le risposte furono
assai evasive.

Anche negli anni successivi e, diciamolo, talvolta anche oggi, ciò che veniva
fatto con i tirocinanti era traducibile sostanzialmente in un “portarseli dietro
mentre si lavora”.

Era un po’ come se non vi fosse un gran pensiero possibile dietro al fare il tutor,
come se si trattasse di un’attività che non trovava uno spazio nel quale
rappresentarsi.

“Io posso anche fare il tutor ma non ci devo pensare”, si potrebbe dire, non
posso definire, affermare, magari, chissà, con legittimo orgoglio, questa parte del
mio ruolo professionale.
Tutto ciò mi pare abbia avuto, e abbia, un ovvio correlato nella mancanza di
esposizioni “pubbliche” sul tutoring in psicologia quali convegni, seminari,
momenti formativi per i tutors, ma anche discussione su come si fanno le cose:
zero o quasi.

Non è quindi affatto retorico per me ringraziare dell’occasione di essere qui,


luogo nel quale si parla e si pensa di tirocini.

Occuparsi di questo tema infatti significa occuparsi di un’area, a mio parere,


nodale della professione; proverò a mettere insieme alcuni pensieri ancora
parzialmente nuovi per me ma che mi pare trovino anche alcuni punti di coagulo.

Inizierei intanto argomentando che il tirocinio in psicologia vive su un peculiare


parallelismo:

sul piano personale vi è l’opportunità di svolgere un compito evolutivo specifico


che ha a che fare con l’appropriarsi di una visione più realistica di sé e
dell’oggetto;

sul piano professionale vi è la possibilità di ridefinire le proprie competenze in


termini meno astratti e idealizzati e dunque più aderenti al reale.

Consentitemi una citazione, a mio parere assai efficace:

“la separazione accademica tra psicologia e psicologia applicata esprime ancora


oggi l’assunto secondo cui la psicologia dovrebbe avere i connotati una volta
auspicati per la sposa veneta: ‘che piasa, che tasa, che staga in casa’. Così la
psicologia pura consiste in ricerche molto belle, fatte bene (che piasa), non
prende posizione né mette in discussione problemi socialmente rilevanti (che
tasa), non si allontana dai laboratori né instaura significative relazioni
extrauniversitarie (che staga in casa). E, per differenza, la psicologia applicata,
impura, sembra una meretrice più che una sposa, una psicologia serva, più che
una psicologia che serve.” (M. Bellotto, 2000)

Vi è quindi un problema di tipo epistemico, ovvero legato ai fondamenti


conoscitivi della disciplina: il sapere che viene trasmesso all’università è, in
qualche modo, un sapere che si chiede di assumere senza esperienza; ciò che
viene proposto è un insieme di conoscenze che erano, e mi pare siano spesso
ancora oggi, ben lontane dal costituire un corpus omogeneo ancorché articolato
di teorie e di tecniche; ciò che veniva e viene proposto è un panorama che è poco
l’esito di una sintesi di saperi, ma sembra piuttosto più vicino ad un catalogo di
saperi, talvolta neanche tanto completo ed aggiornato.

Uscire da un corso di laurea in psicologia quindi, significa ancora oggi, mi pare,


trovarsi per la prima volta davanti ad una realtà studiata ‘in vitro’ senza poter
avere però idee molto chiare, ancorché previe, su com’è questa realtà.

Nel tirocinio il neolaureato ha possibilità di cominciare a confrontare questo


sfaccettato e contraddittorio sapere con le persone, i gruppi, i contesti
organizzativi, le relazioni: ho studiato dei nomi, posso vedere delle cose e posso
provare a mettere insieme le due parti.

Questa congiunzione però è tutt’altro che automatica a ‘applicativa’, per così


dire, anzi, sarebbe un’impresa, se condotta da soli, di quelle da far tremare le
vene ai polsi.

C’è da dire che l’attuale collocazione dei tirocini in psicologia, post-lauream,


collocazione, come noto, in via di parziale superamento, rende questa cesura fra
sapere teorico e sapere pratico particolarmente netta e drammatica.

Prima della laurea vi sono pochissime possibilità di verificare, di confrontare con


la realtà, di comprendere la reale portata in definitiva, di ciò che viene proposto;
d’un tratto è, non solo possibile, ma diviene ‘doveroso’ farlo, un imperativo
generazionale, ed inizia quindi un processo di ri-costruzione del sapere che
inevitabilmente ha due direzioni: una di ‘appropriazione’, concretizzazione del
sapere stesso, ed una di verifica.

Ma ciò che mi sembra importante sottolineare è che questa operazione avviene


in una sorta di vuoto di status: non sono più uno studente, non sono più
all’interno dell’università, sono solo, fra poco sarò un professionista ma prima
devo imparare come sono fatte e come si affrontano le cose in concreto.

Io non credo che questa modalità di formarsi sia la più indicata (sarebbe
probabilmente preferibile, almeno da un certo punto in avanti, un confronto
continuo e mirato con l’esperienza), credo invece che produca diversi possibili
esiti perversi: è evidente intanto il suo intento protettivo del sapere accademico
ma è anche palese l’enormità della richiesta che viene fatta al giovane laureato.

Abbiamo infatti ascoltato molte cose importanti in questi seminari sullo stato di
margine, sulle cose che accadono quando vi è un cambiamento, un passaggio di
status, ebbene la laurea può essere considerata un passaggio di questo tipo, forse
l’ultima prova di accesso all’età adulta: fino adesso mi sono ‘preparato per’,
potevo quindi sempre vedere un po’ lontano l’orizzonte della concretezza
operativa, adesso non più, è lì che mi aspetta, ci sono, posso/devo fare.

Per la professione di psicologo il legislatore, forse preoccupato, chissà, ha


previsto che però prima di ‘fare’ bisognava attraversare questo guado costituito
dal tirocinio, ed ha ritenuto che non lo si potesse fare da soli, ma che si dovesse
essere accompagnati da un tutor, un professionista esperto, che inoltre non fosse
un professionista ‘single’, ma fosse collocato in un contesto
organizzatoChissà,forse. il legislatore stesso avvertiva la pregnanza relazionale
della nostra professione e riteneva di doverla ‘contenere’ all’interno di
un’istituzione.

Fatto sta che il tirocinio giunge a questo punto, che è quindi un punto di crisi,
una crisi che è costituita dall’intrecciarsi di diverse dimensioni:

Una è la dimensione della relazione con l’oggetto reale esterno del tirocinio,
ovvero quella del rapporto con il paziente, il contesto organizzativo, il contesto
professionale: qui si tratta di mettere in contatto il mio sfaccettato sapere previo
con il dato fattuale e produrne una revisione che lo faccia diventare più concreto,
meno pregiudiziale, che tenga conto di più e meglio della realtà; Ma, intrecciata
con questa, vi è un’altra dimensione che è quella che riguarda la relazione con
quel particolare oggetto interno che è costituito dal ‘diventare psicologo’, ovvero
l’obiettivo reale interno del tirocinio, obiettivo che viene sancito socialmente con
il superamento dell’esame di stato e l’iscrizione all’albo.

Il tirocinio costituisce d’altra parte, in questo modo, un vero laboratorio di


apprendistato professionale mettendo appunto insieme la dimensione della
competenza sull’oggetto ed il suo funzionamento, sulla relazione diretta con esso
con le implicazioni su di sé del proprio esperire la relazione stessa.
Come dire forse il nocciolo, o uno dei principali noccioli, del nostro lavoro.

D’altra parte e da un altro punto di vista, questa relazione fra ciò che sono e ciò
che voglio diventare, ‘l’idea di futuro’, direbbe Charmet, costituisce l’ambito, la
scena del manifestarsi dei fantasmi in ordine all’adultità e dunque
all’abbandono, l’ennesimo, dell’adolescenza.

Il peculiare compito di sviluppo del tirocinante consiste dunque nel passare da


un ‘andamento verso’ ad un ‘essere concretamente’.

Nel nostro modo d’intendere il tirocinio riteniamo che il tutor possa avere
un’importante funzione nell’accompagnare e punteggiare con pensieri e azioni
questo delicato passaggio, ma un’altra istanza, un altro livello di relazione,
quella con il gruppo dei colleghi di tirocinio, può arricchire utilmente
l’esperienza.

In questi anni la nostra riflessione (dico nostra perché condivisa con Antonella
Mussi, la collega che guida i gruppi, ma anche perché frutto del confronto con
altri colleghi tutors e con i tirocinanti ed ex tirocinanti stessi) ci ha portato a
progettare e poi a costruire un momento d’incontro periodico del gruppo dei
tirocinanti.

Ogni due settimane Antonella conduce il gruppo attraverso questo sentiero che
prova a mettere a fuoco quello che, per ognuno, è il divenire psicologo.

Attraverso un metodo che adatta in modo originale tecniche psicodrammatiche,
si aiuta ogni tirocinante a trovare uno spazio di pensiero sulla propria nascente
identità professionale: la possibilità di condividere alla pari le esperienze
provenienti dal proprio tirocinio, ma anche le letture che di esse vengono date
dal gruppo e dalla conduttrice consentono un arricchimento considerevole del
vissuto.

Il gruppo facilita poi la costruzione di una rappresentazione dell’esperienza di sé


nel tempo della formazione che ha interessanti assonanze con la funzione del
gruppo adolescenziale, come una palestra di identificazioni incrociate che
consentono d’individuare possibili modi d’interpretare il nascente ruolo
professionale.

Consentitemi infine di fare alcune considerazioni sul tutoring dal punto di vista
del tutor.

Talvolta accade, di rado per fortuna, d’incontrare colleghi che si rappresentano il


tutoring, ma io direi la formazione in generale, come un’operazione
sostanzialmente unidirezionale di trasmissione di sapere da A a B, e dunque si
sentono spesso oppressi, derubati, prosciugati dai ti-rocinanti, dagli
specializzandi, dagli studenti, etc.

Queste persone possono essere forse ottimi psicologi ma saranno probabilmente


pessimi tutor.

La mia esperienza di tutor è stata, devo dire, assai diversificata: in alcuni casi era
chiaro che il tirocinio veniva vissuto come un pedaggio da pagare prima di
diventare psicologi, ma nella maggior parte dei casi ciò che mi sembra
caratterizzi il tirocinante in psicologia è la sua esperienza d’incompiutezza. , e
dunque il porsi in termini dubbiosi e interrogativi sul suo/nostro sapere.

Quando questo avviene, cioè in varia misura quasi sempre, il tutor è a sua volta
costretto ad interrogarsi sui fondamenti delle sue conoscenze e mi pare che,
riprendendo ciò che diceva Marianna Pattini, se c’è consapevolezza
dell’intrinseca debolezza epistemica del nostro sapere ed operare (debolezza che
non è fragilità) ciò costituisce uno stimolo vivificante e proficuo.

Quando ambedue, tirocinante e tutor, si sollecitano reciprocamente al pensiero


sul proprio, più o meno evoluto e maturo, agire professionale, credo che
l’esperienza della relazione possa diventare tras-formativa per entrambi.

Va anche detto che c’è un altro livello di possibile sollecitazione reciproca fra le
due ‘generazioni professionali’ ed è quello appunto intergruppale, ovvero vi è
una relazione che il gruppo dei tirocinanti (da noi, di solito, costituito da 10-12
persone) intrattiene con il gruppo degli psicologi dell’azienda (poco più di una
trentina).

Il momento formale d’incontro fra i due gruppi è costituito dal Seminario


Clinico, che si svolge a mercoledì alterni con il Gruppo eterocentrato, e che si
caratterizza per un tema d’interesse trasversale ai vari servizi nonché per una
partecipazione altrettanto trasversale degli psicologi come relatori.
Negli ultimi anni gli argomenti trattati sono stati:

“Dalla domanda alla progettazione dell’intervento clinico in psicologia” “La


dimensione evolutiva in psicologia”
“La tutela dei minori fra psicologia clinica e sociale”, che è l’argomento di
questo semestre.
Devo dire che, mentre individualmente ho potuto constatare una certa
disponibilità dei relatori, vi è stata una considerevole difficoltà a connettere i
vari contributi fra loro e dunque, si potrebbe dire, a costituirsi, da parte del
gruppo degli psicologi, come un’entità che assume su di sé funzioni ed obiettivi
formativi.

Vi abbiamo portato alcune copie degli atti dell’incontro che si è svolto a marzo
scorso a conclusione del seminario “Dalla domanda alla progettazione….”,
incontro nel quale il gruppo dei

tirocinanti ha restituito alla comunità degli psicologi dell’Azienda, e non solo,


quanto avevano ricevuto: una mattinata seminariale nella quale i tirocinanti
erano i relatori e ‘gli adulti’ ascoltavano ed integravano.

E’ stata un’esperienza per tutti, credo, significativa che ha avuto, tra l’altro, per i
tirocinanti una valenza di rito d’ingresso in una comunità professionale.

Non mi dilungo, anche perché eventualmente ci torneremo sopra nel dibattito,


essendo oltretutto questo del seminario clinico un argomento del quale si è
ultimamente discusso con i colleghi e con i tirocinanti apportando anche, proprio
da questo semestre, alcuni significativi correttivi.

Accenno solamente ad un ultimo aspetto del seminario che ha a che fare sempre
con la tipologia dei saperi:

il seminario clinico è un luogo nel quale è possibile, per il tirocinante, prendere


contatto con un tipo di conoscenza molto diffuso nei nostri servizi ma poco
presente nel percorso di studio universitario, una conoscenza che è molto
radicata nella pratica e nel contesto e dunque molto ‘vissuta’ ed ‘operativa’.

Il mandato per i relatori, viceversa, è quello di cogliere l’occasione per una


migliore coniugazione di questo livello conoscitivo con la teoria e quindi di
utilizzare questa occasione per approfondire ed elevare la formalizzazione e la
trasmissibilità del proprio sapere.

Mi rendo conto di aver toccato molti temi, alcuni in modo appena accennato,
realizzando un discorso forse un po’ disomogeneo ma che spero ricco di
sollecitazioni e possibili approfondimenti.
In sintesi, ed in conclusione, se pensiamo al tirocinio in psicologia come ad una
fase di transizione fra un prima fortemente astratto ed idealizzato ed un dopo
maggiormente concreto, definito, orientato, ne consegue certamente l’esigenza
di offrire ai nostri giovani l’opportunità di cominciare a mettere ‘le mani in
pasta’ nel fare, ma, parallelamente, riteniamo di dover consentire ed ac-cogliere
uno spazio di ‘pensiero su’ ciò che si sta facendo, proprio quello che, mi sembra,
avete consentito a noi qui stamani.

Bibliografia:

ARDSU di Ferrara, ARESTUD di Modena e Reggio Emilia (2000), Tirocini per


laureandi e laureati Bellotto M (2000), Sulla formazione universitaria degli
psicologi, in SIFORP (a cura di) “La Formazione psicologica”, Franco Angeli,
Milano,

Castellucci A.,Saiani L., Sarchielli G., Marletta L. (1997),Viaggi guidati: il


tirocinio ed il processo tutoriale nelle professioni sociali e sanitarie, Franco
Angeli, Milano

Charmet G.P. (2000), I nuovi adolescenti: padri e madri di fronte a una sfida,
Raffaello Cortina Editore, Milano

Collautti C. (2000), La tutorship nei percorsi di apprendimento, in SIFORP (a


cura di) “La Formazione psicologica”, Franco Angeli, Milano

Laffi S. (2001), Funzione del tirocinio nel mercato del lavoro oggi, relazione al
seminario “Il tirocinio come cerimonia di aggregazione”, Reggio Emilia, 7.5.01

Mottana P. (1991), La funzione della tutorship nel processo affettivo di


apprendimento, in Skill, n°4/91

Sarchielli G. (1997), L’incontro con il lavoro, in Polmonari A. “Psicologia


dell’adolescenza”, Il Mulino, Bologna.
Il punto di vista di una psicoterapeuta tirocinante/giovane
psicologa, di Giuliana Nico

Premessa

Trovo che iniziare le cose abbia una sua specifica difficoltà e potenzialità. Essa
si ritrova anche nello svolgere il ruolo di tirocinante, nel cominciare il primo
lavoro, così come in tante situazioni connotate dal cambiamento, dalla novità e
dall’esigenza di imparare. In questa relazione affronto in modo informale il tema
del tirocinio e utilizzo, in modo non del tutto sequenziale, la mia esperienza
diretta di tirocinante in psicologia e successivamente di tirocinante in
psicoterapia, posizione in cui mi trovo attualmente.

Un aspetto che ho osservato all’inizio del mio tirocinio come specializzanda in


psicoterapia è stata la mia difficoltà a fronteggiare le dinamiche del gruppo di
lavoro nel quale mi inserivo e capire il mio ruolo nell’istituzione. Al contempo,
da borsista presso un servizio dell’Ausl, altra funzione che svolgo attualmente,
mi è sorto il dubbio che, in parte, i due ruoli si assomiglino nella mente delle
persone.

Questa relazione rappresenta un modo per cercare di dare un senso alla mia
esperienza a partire da una lettura psicodinamica del tirocinio, secondo il vertice
di osservazione gruppale/istituzionale. Mi piacerebbe verificare se le
interpretazioni che abbozzo sono condivise da altri. 1

Inserirsi ed essere nuovi in una organizzazione

Ogni persona nuova che giunge in un gruppo comporta una destabilizzazione.


Chiunque voglia fare appello alle proprie inevitabilmente molteplici esperienze
di appartenenza a gruppi troverà con facilità elementi che confermano questa
idea. Tuttavia, la qualità della destabilizzazione vissuta dai membri senior del
gruppo necessita di analisi e approfondimento.

La destabilizzazione cambia in quantità a seconda che al momento


dell’introduzione della persona nuova si verifichino alcune condizioni di base
(più avanti faccio un esempio), e a seconda della modalità di funzionamento
dell’équipe come gruppo di lavoro2. Mentre alcune azioni áncorano l’agire
dell’équipe al funzionamento di un gruppo di lavoro, viceversa la loro mancanza
facilita l’insorgere (o semplicemente l’emergere) di difficoltà che aumentano la
probabilità che la persona nuova sia vista attraverso una particolare lente
emotiva seguendo il meccanismo della identificazione proiettiva3.

Agli occhi dell’equipe che si accinge ad accogliere la persona nuova, la sua


qualità più caratteristica è l’ambiguità: il gruppo non la conosce personalmente,
non si conoscono le sue nascenti competenze psicologiche, non si sa che cosa
imparerà e se sarà in grado di portare avanti i compiti di responsabilità che le
vengono assegnati, perché il processo di apprendimento è per sua natura un
cambiamento sconosciuto. A queste si sommano le più tipiche incertezze relative
alle relazioni che il nuovo arrivato avvierà con i membri e con il tutor e al modo
in cui queste si inseriranno nell’equipe. Se l’adozione nel gruppo di una persona
nuova mette sempre in evidenza i sentimenti legati al rischio e alla novità
(piacevoli o spiacevoli che siano), a maggior ragione ciò avverrà all’ingresso di
un tirocinante, la cui professionalità in formazione accentua nelle persone
intorno il sentimento di incertezza legato al suo ruolo e alla natura del
coinvolgimento richiesto.

1 Sono debitrice di molte riflessioni verso il mio tutor e la mia supervisora.


2 Alludo al concetto di Bion citato in “Esperienze nei gruppi”, Astrolabio.
3 Cioè le si attribuiscono particolari caratteristiche, intenzioni, sentimenti in
modo da indurla a comportarsi come se fossero suoi, mentre invece convergono
su di lui da parte del gruppo.

Spesso il processo di inserimento avviene in un modo singolare, per esempio il
nuovo (la persona, ma anche il cambiamento che questa comporta) viene in un
certo senso “avvolto” di proiezioni, di pre-giudizi; in un modo assolutamente
specifico, contingente, intrigante.

Di seguito propongo alcuni modi di vedere i tirocinanti/giovani professionisti


che a me sembrano abbastanza attuali e che ho sperimentato in prima persona
oppure osservato in modo indiretto.

Il tirocinante osservatore

In alcuni casi mi è sembrato che il tirocinante come nuovo membro giocasse il


ruolo di osservatore, come se i membri senior e il tirocinante stesso si sentissero
in questo modo più sicuri Nellatutelatimia. esperienza, l’impatto di un
osservatore su di un gruppo solitamente stimola delle reazioni paranoiche,
generalmente stemperate dal tempo e dall’abitudine. Il processo è relativamente
veloce e indolore quanto più l’osservatore designato si astiene dall’intervenire,
nel nostro caso, cioè, quanto più il tirocinante impersona effettivamente il ruolo
attribuitogli.

In quelle occasioni, mi sembrava che il gruppo richiedesse al tirocinante di


stipulare un patto implicito, che dal punto di vista dell’équipe sembrava un patto
di non invadenza, ma che agli occhi del tirocinante poteva essere declinato nei
modi più diversi. La capacità di impersonare il ruolo di osservatore richiede
infatti capacità molto evolute, che si possono riassumere sotto la definizione di
capacità negativa, cioè di stare in situazioni di mancanza, di frustrazione, di
imperfezione, cercando di capire i propri e gli altrui sentimenti senza agirli. La
persona tirocinante mi sembra costitutivamente in difficoltà su questi punti,
perché il lungo percorso di studio che ha appena concluso la porta a voler
sperimentare il più possibile, senza tuttavia la piena consapevolezza del fatto che
ciò significa in prima istanza sentire la sofferenza che “le cose che non vanno”
generano al suo interno.

In effetti, lo stesso percorso di formazione per diventare psicologi ha racchiuso


finora questa trappola, prima idealizzante e poi deludente: un lungo periodo di
solo studio seguito da un praticantato palesemente insufficiente a produrre la
professionalità richiesta. Così, diventa particolarmente difficile capire che si sta
lavorando duramente quando si osserva, e che osservare non coincide con la
mancanza di attività, con la mancanza di capacità e di idee. Osservare non
assomiglia a morire, ma ad acuire la capacità di sentire. Per quanto mi riguarda,
per esempio, ci ho messo molto a realizzare che quando non capisco qualcosa sto
lavorando lo stesso, oppure che aspettare e non soverchiare l’altro con esigenze
mie è duro lavoro.

Dal punto di vista interno del tirocinante, credo che l’inizio dell’esperienza di
tirocinio sia uno shock, essendo lui/lei invaso di curiosità, frustrazione,
delusione, paura, attesa, entusiasmo … e probabilmente una miriade di
sensazioni anche opposte tra loro difficilmente comprensibili all’inizio, così tutte
amalgamate.

Dal punto di vista del gruppo-équipe, generalmente il tirocinante non viene


ritenuto affar proprio, ma del tutor, che ha il compito di mediare tra il nuovo
arrivato e ciò che gli accade all’esterno, e di trasformare la realtà in qualcosa
oggetto di apprendimento, incluse le riunioni d’équipe.

Così, tirocinante e gruppo a volte sembrano accordarsi implicitamente, non tanto


sull’opportunità che il tirocinante impari ad osservare, bensì sulla opportunità
che taccia. Per esempio che non faccia alla équipe domande su quello che
avviene, in quanto rafforzerebbero l’idea di essere invasi, di essere derubati di
un’esperienza o dello scarso tempo a disposizione, oppure di essere,
effettivamente, sotto osservazione.

Quando queste esigenze dell’équipe e del tirocinante sono così forti mi sembra
molto probabile che il nuovo arrivato, principiante osservatore, sia influenzato
dal gruppo verso la negazione delle proprie idee, come a fare il morto, negare la
sua stessa esistenza, in un esercizio collettivo di misconoscimento del suo ruolo
di persona in apprendimento, ma anche del ruolo di osservatore, che, pur
essendogli stato attribuito, non viene tematizzato ed elaborato.

In effetti, l’osservazione è un processo del tutto particolare in una


organizzazione, ricco di risorse e difficoltà che difficilmente vengono
contemplate al momento del suo inizio. Le potenzialità positive attengono al
cambiamento: anche la sola presenza dell’osservatore induce gli altri ad
osservarsi e, in parte, a modificare la loro condotta nella direzione da loro
percepita come più soddisfacente. Benché sia noto che, anche se la realizzazione
del “cambiamento” sia desiderata da tutti soprattutto nelle professioni d’aiuto,
dove il lavoro per il cambiamento è stato “professionalizzato”, non è semplice
tollerare anche la più infima possibilità che il cambiamento possa effettivamente
avere luogo.

In parte perché è difficile lasciarsi guardare. Non solo perché ciò suscita dei
sentimenti collegati all’idea di valutazione, che molto spesso è vissuta in modo
problematico nella nostra cultura, ma anche perché lasciarsi guardare attribuisce
al tempo che passa, allo spazio, all’incontro tra le persone che li condividono,
una tonalità del tutto diversa. La presenza del tirocinante vissuto come un
osservatore impone al gruppo di prendere in considerazione il proprio
osservatore interiore, e, a seconda di come questa figura viene percepita, impone
al gruppo di prendersi in carico, di valutarsi, di cambiare, di percepire la propria
inadeguatezza.

Credo che i gruppi, come gli individui singoli, abbiano bisogno di scegliere di
voler cambiare, di essere motivati da uno stato di bisogno o di insoddisfazione,
di poter utilizzare le proprie difese verso il cambiamento sino a che sono
necessarie per mettere ordine nella turbolenza della fase di transizione, in attesa
di trovarne altre. In altre parole, come si diceva all’inizio, i gruppi hanno
bisogno di poter riflettere e negoziare i cambiamenti a cui sono sottoposti,
mentre spesso non vengono coinvolti: non si sa se vogliono i tirocinanti
(quanti?) e perché.

Sarebbe interessante invece redarre all’inizio del tirocinio un vero e proprio


contratto di formazione o di collaborazione pubblico, che esplicitasse gli
obiettivi di apprendimento, le modalità e i mezzi per il loro raggiungimento. In
questo modo sarebbe chiaro ad ognuno il ruolo del tirocinante e le sue finalità,
che cosa offre e che cosa chiede al gruppo. Pur nella mia limitata esperienza,
questo apparentemente banale accorgimento mi sembra di portata fondamentale,
in quanto espliciterebbe come gli accordi all’interno delle organizzazioni non
sono solo accordi tra singoli ma accordi collettivi, che i soggetti hanno comune
interesse ad esplicitare come parte di una pratica organiz-zativa.

Il tirocinante inviato speciale

Per quanto mi stato dato di osservare, la decisione di coinvolgere uno o più


tirocinanti nel servizio è invece solitamente una decisione presa dal tutor sulla
base di convinzioni tra le più diverse, raramente comunicate agli altri membri
dell’equipe. Il tutor può pensare che sia giusto, che desidera contribuire alla
formazione di una persona alla professione di psicologo/psicoterapeuta, che il
tirocinante offra un servizio utile, che desidera comunicare strettamente con una
persona più disponibile di altri colleghi dell’equipe, che il tirocinante offra la
possibilità di intrattenere contatti con una istituzione con cui non ci sono
sufficienti legami al momento, che il tirocinante sia occasione di stimolo alla
riflessione, ecc. Sono tutte motivazioni legittime, tuttavia si agisce come se gli
altri membri del servizio in effetti “non c’entrassero”. Forse per il tutor è
scontato che si debba/possa appartare con il suo tirocinante, forse vuole offrirgli
un riparo dalle dinamiche d’equipe faticose anche per lui, valorizzando le sue
domande ingenue all’interno di un contesto più protetto, raccogliendo i suoi
sorrisi di gratitudine, cogliere meglio gli eventuali spunti di riflessione.

Tuttavia, credo che a volte questa alleanza affettuosa tra tutor e tirocinante possa
ricadere negativamente sul tirocinio, nella misura in cui questa può assumere il
significato di una reazione del tutor a dinamiche tra colleghi, o il tirocinante
venga visto dall’equipe come un inviato speciale che sostiene il tutor che cerca
di somministrare il famigerato “cambiamento” di soppiatto. Addirittura il
tirocinante può essere visto come un emissario della Direzione, che mira a
influenzare il gruppo in una certa direzione.

Da parte sua, il tirocinante a volte adotta volentieri le vesti di inviato speciale a


cui è tristemente condannato, anche se fortunatamente è innocuo per tutti tranne
che per se stesso. Personalmente mi sono esercitata spesso in discutibili esercizi
di valutazione tentando di essere imparziale, ma mettendo in atto in realtà la più
violenta negazione delle mie emozioni, salvo indirizzarle poi verso le persone
che osservavo con atroce sadismo. Accarezzavo interiormente il dubbio di avere
idee migliori, se solo avessi potuto dimostrarlo, come se la concretizzazione di
un intervento non contemplasse anche il fatto di decidere e di scartare una
alternativa, e quindi andare verso l’imperfezione, la precarietà, la mancanza, e
quindi la perfettibilità.

Giovani, tirocinanti, inesperti

Il ruolo attribuito al tirocinante è generalmente anche molto influenzato dalle


rappresentazioni dell’equipe e del soggetto relative alle differenze d’età, perché
la persona di cui stiamo parlando è generalmente più giovane dei membri già
appartenenti al gruppo ed è spesso considerata più inesperta non solo della
professione, ma della vita.

Sotto certi aspetti, questa associazione tra l’essere giovani, tirocinanti, all’inizio
della professione, è una consuetudine che scomparirà presto, in quanto la
crescente mobilità impone frequenti cambi di lavoro, reinserimenti, formazione
continua, a cui i gruppi di lavoro italiani non sono abituati, specialmente quelli
all’interno delle aziende che offrono servizi di pubblica utilità. Mentre in altri
paesi europei è frequente trovare che il manager di una azienda anche grande ha
meno di trent’anni, questa mi sembra un’evenienza più rara in Italia, dove la
durata della carriera formativa così come era organizzata fino a poco tempo fa lo
rendeva praticamente impossibile, facilitando all’interno dei gruppi di lavoro il
consolidarsi di ruoli correlati al fattore “età” e “anzianità di permanenza
nell’organizzazione” in modo molto scontato: i più vecchi sono in posizioni
dirigenziali più dei giovani (anche se non sempre “hanno studiato”
specificatamente per questo) e sono considerati in generale più esperti dei
giovani (che tendono gradualmente a riscattarsi per la loro maggiore conoscenza
delle tecnologie informatiche). Chiunque sia tirocinante, giovane, appena entrato
nella professione, quest’ultimo quindi retribuito, con maggiore forza contrattuale
e portatore di un approccio più consolidato e più personalizzato, è soggetto a
rientrare nella categoria “giovane e inesperto”, a volte designato con l’epiteto di
“ragazza” o “ragazzo”.

Dalla consapevolezza precisa delle differenze di carriera professionale e delle
competenze acquisite discende invece una vita organizzativa diversa. E’ evidente
infatti che se i ruoli professionali sono distinti in base alle diverse competenze le
persone partecipano al lavoro apportando ognuno un contributo differente e
complementare a quello degli altri, in vista di un obiettivo comune, il cui
raggiungimento incide sul riconoscimento delle proprie capacità e sul sentimento
di efficacia. Inoltre, contribuisce a diminuire il timore di depersonalizzazione
che la partecipazione ad un gruppo sempre comporta, ancorando il soggetto
all’obiettivo del gruppo di lavoro piuttosto che ad altri scopi non dichiarati.

Il ragazzo interno del tirocinante, del tutor, dell’équipe

Da quanto detto, un aspetto fondamentale dei tirocini e dell’inserimento di


giovani professionisti nelle organizzazioni sembra legato a come si vivono le
differenze generazionali. Qual è l’idea che il tutor ha dell’essere “giovani e
inesperti” e della relazione tra questo e l’essere un “professionista esperto”?
Cosa pensa il tirocinante sullo stesso argomento? L’incontro tra i due è forse
avvenuto sulla base di messaggi in codice sui modi di trattare le differenze
generazionali, che tutor e tirocinante si sono trasmessi e sui quali sono entrati in
risonanza? E cosa pensa l’equipe?

Per esempio, riprendendo quanto detto più sopra, mi sono a lungo chiesta con
estremo fastidio perché in un servizio dove ero tirocinante e dove lavoravo non
mi chiamassero per nome ma “ragazza”. Mi accorgo ora che in questo desiderio
legittimo di essere chiamata per nome sono insite in realtà ancora più trappole di
quelle che avrei voluto evitare rivendicando questo diritto. Spesso i miei colleghi
mi chiedevano che cosa c’era di male ad essere una “ragazza”, come se io mi
vergognassi di uno stato che loro ritenevano positivo o invidiavano. Più tardi ho
realizzato che la chiave di lettura della situazione in cui mi trovavo poteva essere
il fatto che entrambi stavamo colludendo, cioè stavamo usando la parte di me
che è una ragazza per motivi a lei estranei, senza in realtà voler condividere con
lei o starci insieme.

C’era insomma il bisogno di un addomesticamento reciproco, di


infantilizzazione, una difficoltà a gestire un ruolo intermedio: come verso un
adolescente, con il corpo di un grande e la mente di un piccolo, non si sa se
bisogna trattarlo da adulto o da bambino, se si può entrare in conflitto, se si può
entrare in intimità, se si deve insegnargli tutto, proteggerlo.

Spesso anche il tirocinante collude, usa il ragazzo: invece di godere


dell’ingenuità, della leggerezza, dell’entusiasmo, della voglia di scherzare, della
seduttività del ragazzo, egli fa il ragazzo quando non ha il coraggio di fare
l’adulto, quello più assertivo, che affronta il conflitto, che mette in gioco le sue
idee, anticipa gli eventi e non si stupisce di tutto. E così anche per i membri
dell’equipe: si può gioire del vedere un ragazzo, farsi un po’ contagiare e forse
identificarsi con i suoi innamoramenti e delusioni (della teoria? di un paziente?
del servizio? del tutor? dell’idea di Sé futura?), cioè ritrovarli un po’ anche
dentro di sé; oppure si può richiamare “il ragazzo” quando c’è una difficoltà
nella relazione, che si cerca di appianare proponendo un livello di rapporto meno
responsabilizzato. Un po’ come se tirocinante ed equipe avessero bisogno di
distanziarsi dalla posizione di chi apprende, e cercassero a volte di attribuivi una
posizione infantile, a volte di evitare l’intimità, l’imbarazzo, la problematicità di
relazione che il lavoro tra adulti può comportare.

Parlando di intimità, tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza del tirocinio
ricorderanno i tanti momenti teneri, di soddisfazione, di affetto, di euforia, di
confronto. All’opposto di quanto esposto sopra, a volte si sviluppa tra tirocinante
e tutor all’interno dell’equipe un rapporto effettivamente molto stretto. Di più, in
certe fasi il rapporto può essere connotato da corteggiamento, seduzione e
desiderio sessuale, non infrequente tra persone di età diversa in rapporto di
apprendimento.

A volte questi sentimenti insorgono improvvisamente e diventano inabilitanti al


lavoro, tali da far pensare di essere anch’essi collusivi. Ho osservato infatti che
in alcune situazioni queste emozioni sembravano legate ad un momento di
difficoltà del percorso formativo che non si riusciva ad affrontare se non
cercando di accorciare le distanze tra le persone e sviluppando una relazione più
“calda”, in grado di sostituire in questo modo la mancata soddisfazione derivante
dalla eventualità di un fallimento dell’insegnamento/apprendimento. In altre
situazioni, il tentativo di seduzione era legato invece alla difficoltà di rielaborare
i vissuti aggressivi emersi all’interno della relazione, allorquando il sentimento
di frustrazione e inadeguatezza a soddisfare l’ideale professionale di tutor e
tirocinante era a un tratto diventato bruciante.

L’adulto interno del tirocinante, del tutor, dell’équipe

Così come quella del “ragazzo” è una posizione facilmente strumentalizzata,


anche quella dell’adulto può subire lo stesso trattamento. Alcuni servizi sono
adultocentrici, ma non sempre sostengono la positività dell’essere adulti. Per
quanto mi riguarda, mi rendo conto che ho spesso assecondato la cultura diffusa
che vede l’essere adulti come una fase in cui si è “arrivati”, sicuri, la si sa più
lunga, si è al sicuro da idealizzazioni e se ne prova nostalgia, si è “neutrali” e più
di-staccati, non si hanno colpi di testa, si è pacati.

Credo che alcuni tirocinanti condividessero la mia idea e avessero trovato


temporaneo riposo dalle intemperie dell’inizio delle relazioni con i pazienti
impersonando il ruolo dell’adulto neutrale e distaccato.
Altri tirocinanti sono particolarmente vigili, si tutelano, pensano al loro futuro
come non eccessivamente condizionato dall’esperienza in corso, aderiscono a
mille diversi progetti come a nessuno in particolare, per vedere quale ha più
probabilità di realizzarsi e di conseguenza dosare le energie sulla base di un
calcolo costi-benefici. Come se avessero imparato a non essere dei “ragazzi”, nel
senso scanzonato, gratuito, graffiante, scherzoso, ingenuo del termine.

Nella mia esperienza le differenze generazionali hanno influenzato molto anche


il lavoro con l’utenza. Mi vengono in mente alcuni episodi dove io mi sentivo
rigida nella corazza di severità che un paziente diciassettenne mi aveva, con il
mio consenso, messo addosso, e ho reagito tirando fuori “la ragazza”, come in
un gioco dove io avrei voluto essere più giovanile del mio stesso paziente e
dimostrargli che sono, si, più vecchia, ma non per questo severa, rigida,
annoiata, accusatoria.

Conclusioni

Condivido l’idea di chi ha paragonato il tirocinio ai riti di passaggio, perché mi


sembra che tutte le persone coinvolte nel processo esprimano, volenti o nolenti, i
loro vissuti rispetto a quella che si presenta come una fase di transizione in
prospettiva di un trapasso.
Vorrei finire con un desiderio legato ai passaggi, che intravedo in una famosa
parabola Zen:
Un uomo, tallonato da una tigre, correva. Si spinse sino ad un precipizio e si
lasciò penzolare oltre l’orlo aggrappandosi ad una vite selvatica, quando,
tremando, si accorse che anche sotto lo aspettava una tigre, e che due topolini
stavano cominciando a rosicchiare la radice della pianta. L’uomo scorse accanto
a sé una bellissima fragola; afferrandosi alla vite con una mano sola, con l’altra
spiccò la fragola: com’era dolce!
Il tirocinante psicologo : involontario stimolo,
inconsapevole supervisore, di Fabrizio Rizzi e Valentina
Stenico

Accogliere qualcuno che viene da fuori – anche se si tratta di un’accoglienza


voluta e temporanea:

– non è mai facile. Lo è tanto di meno quanto più questo ospite si mette molto
vicino a noi : non solo nella nostra nazione o nella nostra città o nel nostro
quartiere, ma proprio in casa nostra o nel nostro luogo abituale di lavoro, accanto
a noi.

I tirocinanti psicologi sono ospiti regolari e previsti ormai da anni nella nostra
Unità Operativa di Psicologia dell’Azienda Provinciale Sanitaria di Trento, un
servizio composto soltanto da psicologi ed il cui spettro di azione spazia
praticamente a 360° : dall’età evolutiva a quella adulta, dall'ambito

del consultorio familiare a quello dei reparti ospedalieri, dal lavoro con le scuole
per la Legge 104 alla collaborazione con i servizi sociali, senza tralasciare i
progetti specifici come quello più recente rivolto agli adolescenti.

Una vera manna per chi vuole (e deve) offrire opportunità di apprendimento e
formazione ai giovani colleghi : non c’è che l’imbarazzo della scelta.

Eppure non è facile accogliere questi ospiti particolari che sono i tirocinanti
psicologi, perché – anche se la deontologia professionale e la solidarietà ci
spingono a farlo volentieri – l’essere tutori di questi giovani colleghi in
formazione ci mette poco o tanto di fronte all’inevitabile confronto con l’esterno,
con colui che viene da fuori per capire il cosa, il come ed il perché di quello che
è il nostro modo quotidiano di lavorare e di essere servizio di psicologia .

Quando iniziano, i nostri tirocinanti psicologi sono per lo più piuttosto timidi e
silenziosi, spesso esitanti nel farci le domande. E tante di queste si fermano sulla
punta della loro lingua.
In realtà non solo in questo caso non esistono domande stupide, ma anche quelle
che sembrerebbero tali sono per noi occasione per fermarci a riflettere.

Lavorando da molto tempo (nel distretto dove opero io siamo tre psicologi, tutti
con anzianità di servizio superiore ai 20 anni), capita inevitabilmente di
sclerotizzarsi un pò. E quindi il tirocinante, con i suoi interrogativi, spesso ci
porta a riflettere su quello che a noi pare scontato ed ovvio, ma che non sempre è
davvero tale.

“Perché per questo paziente è più indicata una psicoterapia di gruppo?” “Il
sostegno psicologico può essere fatto anche dall’assistente sociale?”

“Ma quando uno psicologo parla con gli insegnanti di un ragazzo che non
conosce direttamente, come può dare dei suggerimenti?”
“Con che criteri decidete di discutere un caso nella riunione d’équipe?”

Ecco dei buoni esempi di buone domande.

Come genitori di bambini nell’età dei “perché?”, noi tutor siamo portati non solo
a presentare ai tirocinanti un sapere teorico-tecnico, ma anche a confrontarci con
noi stessi e con la nostra modalità quotidiana di operare sia come singoli
professionisti sia come équipe di lavoro sia infine come servizio nel suo
complesso.

E questa è una grande opportunità per confrontarsi anche con i nostri inevitabili
accomodamenti, razionalizzazioni, compromessi metodologici e scorciatoie
operative. Tutte cose spesso storicamente giustificate, operativamente inevitabili
e tecnicamente comprensibili. Spesso, ma non sempre e non totalmente.

- 1


Gli eventuali tirocinanti lettori di questo nostro articolo non si offendano : se li
accostiamo ai bambini nell'età dei perché non è certo per una considerazione a
bassa definizione . Tutt'altro.
Il tirocinante "ingenuo" che fa tante domande può sembrare un involontario
intralcio ai lavori in corso. Ma in realtà può dare molto, proprio come stimolo
involontario ed inconsapevole alla capa-cità metacognitiva ed autoriflessiva del
singolo psicologo come dell'intero team professionale.

Ma c'è un altro aspetto su cui vorremmo soffermarci. Il tirocinante può essere


qualcosa di più ancora che un utile stimolo, può essere una risorsa preziosa che
non solo riceve (se ha la fortuna di fare un buon tirocinio) ma anche dà.

Stiamo parlando di qualcosa di più complesso che forse non accade spesso ma
che non è nemmeno così raro. E' qualcosa che può verificarsi più facilmente
quando il tirocinio si snoda sull'intero anno e prevede una partecipazione diretta
e continuativa dell'allievo al colloquio clinico. Ci riferiamo alla possibilità che il
tirocinante - senza saperlo e senza volerlo - possa svolgere una funzione di
supervisore del suo tutor o del gruppo di lavoro.

Si tratta ovviamente di una funzione e non di un ruolo (altrimenti sarebbe un


caso estremo di "role reversal" come ne vediamo nella genitorialità patologica) e
di una funzione che comunque, quando esiste, è assolutamente momentanea oltre
che inconsapevole.

Come Patrick Casement nel suo bel libro "Apprendere dal paziente" ci ha
spiegato l'involontaria funzione didattica che può avere a volte chi si rivolge a
noi, così potremmo titolare questa particolare condizione "Apprendere dal
tirocinante".
Vorrei presentarvi, come esempio, un breve racconto clinico.

Si tratta di una consultazione con Clara, una studentessa universitaria di 21 anni


la cui sorella minore Enrica è stata a suo tempo gravemente anoressica. Per la
sua strenua opposizione, Enrica non fu mai vista né dal nostro servizio né da altri
psicologi; tuttavia la madre ebbe all'epoca - sei anni fa - alcuni colloqui con
questo stesso psicologo che ora la ragazza si trova davanti. Questa di Clara è una
prima consultazione psicologica e viene per una sintomatologia ansiosa con
somatizzazioni plurime, in particolare delle parestesie ed un quadro di
fibromialgia. Notiamo subito che Clara, nel suo discorso spontaneo, va ben oltre
la mera elencazione dei sintomi e del disagio che questi le provocano. Ci parla
della sua storia familiare, dei genitori separati da anni, della ti-rannia imposta a
tutta la famiglia da una sorella gravemente disturbata e disturbante, della madre
troppo succube di questa tirannia, del padre evanescente e sul quale nutre il
dubbio di un orientamento omosessuale. Racconta di una coppia genitoriale in
contrasto perenne e della sua attuale relazione di coppia, apparentemente
soddisfacente ma che le lasca delle incertezze che non sa ancora ben spiegare.
Oltre alle coppie di cui parla - la sua e quella dei suoi genitori - Clara ha di
fronte un'altra coppia ancora : una giovane psicologa tirocinante ed un più
anziano collega che conduce il colloquio. Lo sguardo della ragazza si
distribuisce su entrambi, ma - in certi momenti e passaggi probabilmente non
casuali - questo sguardo si sofferma di più sulla giovane collega, quasi a cercare
un contatto sentito più facile o più riconoscibile.

Alla fine del primo colloquio, lo psicologo fa solo un breve commento che
riprende il ricordo della consultazione di sei anni prima con la madre di Clara, di
una situazione estremamente difficile : "Dev'essere stato difficile per lei. Sua
sorella era al centro di tutte le attenzioni. Mi ricordo di essermi posto il problema
di come poteva stare lei, la sorella di Enrica; ma non avevo trovato modo e
spazio per parlarne con sua madre."

Al secondo successivo colloquio, Clara dice di essersi sentita insoddisfatta per il


suo contributo dato la volta precedente : "Ho dipinto troppo di scuro la figura di
mio padre:" Tuttavia poco dopo ripete che suo padre sente lei parlare, ma in
realtà non la ascolta davvero, proprio come - spiega - a volte fa anche il suo
ragazzo.

- 2

Subito a ruota aggiunge che, durante il colloquio precedente, ha notato lo


psicologo stropicciarsi ripetutamente gli occhi e s'era chiesta se lui fosse
annoiato e stanco. Non c'è tempo per particolari commenti perché Clara dice
ancora di aver fatto un sogno, che ci racconta.

"Mi trovo qui, in questo ambulatorio, ma voi non ci siete. Al vostro posto c'è un
piccolo gruppo, sei persone, coordinate da un chirurgo il cui progetto è di abolire
la pena di morte. C'è una ragazza che sta male e nessuno presta attenzione alla
mia presenza. Nessuno sembra volermi ascoltare, io sono molto angosciata,
risentita e delusa. Cerco di farmi ascoltare e di protestare, ma il chirurgo mi
liquida dicendo vieni, vieni che devo operare". Mi fanno stendere su di un lettino
bianco ed accanto a me, immerso in una vasca, si trova un uomo malato di
tumore. Il medico mi infila un ago nel braccio per prendermi il sangue e darlo
all'altro."

Il sogno viene letto e restituito dallo psicologo in questa chiave : per lunghi anni
tutte le energie, l'attenzione e le preoccupazioni della famiglia sono state
convogliate sulla malattia della sorella e su altri problemi (recentemente la
madre di Clara è stata operata di iseterctomia per rimuovere dei fibromi uterini),
mettendo sistematicamente in secondo piano le esigenze affettive della paziente.
E' come se le avessero "tolto il sangue" rilegandola al ruolo della "figlia che sta
bene" e che quindi deve sopportare il peso di grandi responsabilità.

Si tratta, come ben si può notare, di un commento interpretativo molto parziale,


che coglie solo un aspetto della rappresentazione onirica, escludendo
completamente il versante transferale nonostante la sua particolare evidenza. Lo
psicologo, infatti, nulla commenta e nulla dice a proposito di quel chirurgo che -
come il padre reale - non ascolta e non si interessa veramente a Clara. E non si
tratta di una omissione consapevole, collegata una scelta voluta di non
interpretare un transfert in un momento così iniziale del rapporto terapeutico. Si
tratta di una momentanea ma significativa rimozione dello psicologo che,
disturbato da questa immagine di un chirurgo vampiro, sorvola allegramente
qualcosa di assai vistoso.

Ma l'aspetto transferale non sfugge invece all'attenzione della giovane collega


tirocinante. Il sogno ha su di lei un grande impatto, le assorbe i pensieri per tutta
la durata del colloquio e, nella sua posizione di ascolto silenzioso, affiorano le
altre possibili interpretazioni che il tutor non nomina nemmeno vagamente. Sì :
il chirurgo potrebbe essere lo psicologo, verso il quale sono già in atto
movimenti transferali ambivalenti di abbandono e reticenza all'abbandono, di
fiducia e di resistenza. Nel primo incontro è stato offerto alla paziente di
rientrare nella ricerca chiamata "Progetto adolescenti" che comporta la
possibilità di quattro colloqui gratuiti e, alla giovane psicologa, sembra di
scorgere nel sogno un derivato simbolico di questa proposta nell'intento del
chirurgo di abolire la pena di morte. Il "progetto adolescenti" diventa "il progetto
di abolire la pena di morte" : entrambi sono per lei qualcosa di buono ma anche
di astratto, di impalpabile, che ancora non si capisce se la riguarda direttamente.
C'è forse il timore di essere, anche in questo caso, una lente trasparente che viene
usata per osservare qualcos'altro, come accadeva nei colloqui dello psicologo
con la madre, sei anni prima. Colloqui in cui lei, Clara, perdeva la sua identità
piena per essere solo "la sorella in salute di Enrica malata d'anoressia". Il fatto
poi che sua madre a suo tempo abbia fatto tali colloqui con lo stesso suo attuale
psicologo, le fa temere di non potersi conquistare il suo spazio nel setting
terapeutico. Tale paura, indicibile a livello consapevole, si manifesta con il
linguaggio del sogno.

Nella discussione con il tutor dopo il colloquio, la tirocinante ha modo di


verbalizzare questa sua interpretazione ben più completa ed articolata rispetto a
quella del collega. Quest'ultimo, ascoltandola, si rende conto della massiccia
rimozione che è avvenuta in lui e così si spiega il vissuto di inadeguatezza con
cui aveva appena concluso la seduta : una specie di sensazione di distrazione
macroscopica di cui però non sapeva dare compiuta ragione.

- 3

Le osservazioni che emergono da questo confronto, proprio grazie all'aiuto dato


dalla lettura della tirocinante quale spettatrice presente ma meno coinvolta
direttamente nel transfert, si riveleranno molto utili anche nelle sedute
successive favorendo una buona evoluzione del percorso terapeutico.

Questo resoconto clinico, seppur breve e parziale, dimostra non solo come sia
possibile che anche uno psicoterapeuta esperto possa a volte distrarsi ed
inciampare su qualcosa di molto evidente, ma anche che la presenza
apparentemente solo “passiva e discente” quale quella della psicologa tirocinante
possa invece diventare, seppur momentaneamente, molto “attiva e docente”
Idee per una ridefinizione del percorso di tirocinio degli
psicologi, di Susy Ammaini, Maria Mori, Simone Oliva

I contenuti del percorso di tirocinio

L’ambiente in cui il neolaureato si trova a dover affrontare il percorso di


tirocinio post lauream è ricco di possibilità di apprendimento e perfezionamento
delle proprie capacità.

Tale ricchezza e varietà rimane inutile ed inefficace, però, se non viene


correttamente mostrata e messa a disposizione del tirocinante, il quale, non
conoscendo il sistema in cui viene inserito, non può avere un quadro completo
per poter scegliere ed utilizzare al meglio le aree di lavoro.

Tutto è talmente nuovo e diverso dall’ambiente universitario che il tirocinante


rischia di rimanere spaesato ed emarginato dalle attività per molto tempo prima
di riuscire ad ambientarsi e inserirsi nel servizio.

Fondamentale, quindi, si rivela la presenza di alcuni punti di riferimento su cui il


tirocinante possa basarsi per orientarsi il più possibile.

Tali punti di riferimento, in generale, consistono in professionisti che già


lavorano nel sistema da oltre cinque anni e lo conoscono in modo approfondito e
chiaro, nonché in attività ben precise, stabili e rivolte particolarmente ai
tirocinanti.

Fin dalla sua entrata nell’ambiente di lavoro, il tirocinante dovrebbe aver chiaro
a chi rivolgersi sempre in caso di bisogno, per qualsiasi motivo e per quali
attività è richiesta la sua partecipazione.

Deve esistere, dunque, un “tutor d’aula” che lo orienti all’interno del sistema in
base alle necessità del tirocinante e dei servizi, e che lo segua nei momenti di
difficoltà di qualsiasi tipo.

Ma è necessaria anche la presenza di un tutor ufficiale che si occupi della


formazione pratica, professionale del tirocinante accogliendolo in alcune attività
proprie del suo ruolo per i servizi. Un tutor a cui poter sempre fare riferimento
per le attività da svolgere e che rappresenta la parte più consistente
dell’esperienza di tirocinio.

Deve rimanere, però, tempo sufficiente al tirocinante per partecipare a momenti


di lavoro mono e poliprofessionali in équipe del dipartimento di salute mentale,
a momenti di formazione e aggiornamento tenuti da esperti esterni con
l’eventuale rilascio di attestati di partecipazione e momenti di supervisione dei
casi clinici affrontati dal servizio da parte di professionisti esterni all’azienda, o
esterni almeno rispetto ai compiti più precisi di tutoring.

Sono utili, inoltre, incontri di supervisione rivolti specificamente ai tirocinanti,


in modo che abbiano un parere clinico professionale sulla loro personale attività
e i loro vissuti durante il percorso di tirocinio.

Per vivere al meglio l’anno di tirocinio e talmente importante considerare i


pensieri e i vissuti del tirocinante che sarebbe bene creare la possibilità di uno
scambio e un confronto regolari e ricorrenti anche tra i tirocinanti; sia quelli
dello stesso periodo di tirocinio, sia quelli di periodi diversi, cioè di altre
generazioni di tirocinio, soprattutto le più vicine alla propria, in modo che il
tirocinante riesca ad elaborare meglio le esperienze affrontate arricchendosi di
pareri e punti di vista diversi dai suoi.

Sappiamo, inoltre, che la condivisione di pensieri, gioie, preoccupazioni in un


gruppo di pari o individui nelle stesse condizioni fa sembrare tutto più semplice
e talvolta più interessante. Si crea un clima di solidarietà molto importante per
sentirsi più sicuri nell’affrontare il nuovo e di conseguenza svolgere meglio le
attività.

Infine, perché l’anno di tirocinio sia completo ed efficace fino in fondo, è da


sottolineare l’importanza di una valutazione finale che ripercorra tutti i contenuti
incontrati, una specie di restituzione, così come la si trova in tutti i buoni
percorsi terapeutici o di consultazione che più persone svolgono insieme.

Questo sia da parte del tutor che, se ha seguito in modo sufficientemente


continuo e attento il tirocinante, ha i mezzi per comprendere e giudicare il lavoro
svolto, sia da parte del tirocinante che può e deve aumentare il valore e
l’efficacia dell’anno di tirocinio per mezzo di un’elaborazione approfondita e
regolare delle proprie esperienze.

Può essere d’aiuto, in questo, la stesura di una relazione delle principali


esperienze ed attività, in cui il tirocinante è spronato a riflettere ed organizzare i
propri pensieri ed impressioni.

L’elaborato, inoltre, nelle mani del tutor è un buon indice della qualità del lavoro
svolto notando particolari nuovi tramite gli occhi del suo tirocinante e un
prezioso spunto per migliorare, eventualmente, il proprio metodo di tutoring per
il bene dei tirocinanti successivi. L’esperienza in-segna.

I tempi

I neo laureati interessati a svolgere tutto o parte del loro tirocinio annuale presso
l’azienda USL, dovranno far pervenire la loro richiesta entro il 10 febbraio/20
agosto, cioè un mese prima dalla data d’inizio.

Al momento della domanda verrà consegnato ad ognuno di loro una scheda di


auto-presentazione del candidato tirocinante (vedi), riguardante sia le loro
aspirazioni, gli interessi, gli obiettivi sia le attitudini, le disponibilità e la
propensione personale verso i differenti ambiti del settore clinico, sociale e di
comunità. Tale scheda ha lo scopo d’individuare chi può essere accettato
dall’azienda sanitaria e chi no, effettuando, pertanto, una selezione tra le persone
in-teressateIfuturi. tirocinanti verranno quindi invitati ad un colloquio, condotto
dal coordinatore dei tirocinanti, dal quale estrapolare quante più informazioni
possibili sulle preferenze del ragazzo o della ragazza richiedenti, al fine di
assegnargli/le i tutor più adatti.

Entro il 15 marzo/15 settembre verrà quindi fatta una griglia dei tutor, che
mostrerà in modo chiaro a quale tutor, per ciascun semestre, il ragazzo/ a è
stato/a assegnato/a.

Ad esempio:

Si inizia così una ulteriore fase, quella dell’orientamento, che terminerà alla fine
del mese, il 30 marzo/30 settembre. A questo scopo sono state pensate diverse
attività condotte ciascuna da differenti attori, tra cui il coordinatore ed il tutor
“d’aula” che sono i riferimenti principali per i giovani tirocinanti.

L’orientamento prevede: visite guidate ai dipartimenti dell’AUSL nei quali è


possibile fare attività di tirocinio, presentazione delle attività dei tutor,
illustrazione di tutti i servizi che offre l’azienda agli utenti, scambio di
esperienze tra nuovi e vecchi tirocinanti. Al termine di questo percorso sarà
compito del coordinatore, insieme al tirocinante, costruire una seconda griglia
delle attività che il neo-tirocinante svolgerà nei vari servizi durante l’anno. Sarà
questo uno strumento che aiuterà ad individuare immediatamente il tipo di
esperienza che ogni tirocinante farà e, a livello pratico, aiuta a distinguere i
servizi già impegnati da quelli disponibili ad accogliere uno o più tirocinanti.

Ad esempio: scheda Susy

1° SEMESTRE 2° SEMESTRE

X ore Colloqui con pz. CUP



Y ore Equipe di neuropsichiatria Esperienze disabili

Z ore Workshop elem Workshop nelle medie


W ore Convegno cure palliative, supervisioni età evolutiva (Pietropolli),
supervisione work + gruppo tirocinanti

legenda:
X= att. monoprofessionali con il tutor
Y= att. poliprofess. nei primi 3 mesi del semestre
Z= att. poliprofess. negli ultimi 3 mesi del semestre
W= att. formative

Al termine di ogni semestre il/la tirocinante è tenuto a svolgere un breve


elaborato scritto relativo alle esperienze fatte, un resoconto che dovrà essere
riflessione e bilancio di ciò che è an-dato o non è andato, una valutazione sulle
attività oltre che sulle persone con le quali si è collabo-rato. Tali lavori dovranno
essere consegnati al coordinatore entro il 5 del mese successivo alla data di
termine del tirocinio (5 aprile/5 ottobre) che lo conserverà come prezioso
contributo per una costante tendenza al miglioramento.

La figura del Coordinatore dei Tirocinanti


I compiti del Coordinatore dei Tirocinanti sono di accogliere e orientare i nuovi
tirocinanti. Comunque, iniziato il tirocinio, rimane sempre un tramite
informativo tra la struttura e il tirocinante che già sta svolgendo il proprio
servizio.

Il coordinatore deve avere un continuo feedback con i referenti dei servizi a cui
accedono i tirocinanti. I servizi infatti hanno esigenze di personale che possono
mutare nel tempo. Nell’assegnazione egli deve tenere conto di queste necessità
in modo da non sovraccaricarli o privarli di tirocinanti. Prima dell’assegnazione,
ma anche in itinere, deve verificare con i referenti la effettiva disponibilità dei
servizi interessati a farsi carico della formazione dei tirocinanti. tutto dovrebbe
accadere ottemperando le esigenze del tirocinante e del servizio di autenticità e
di flessibilità del percorso di tirocinio.

Scendiamo nei dettagli per vedere in che modo questo


accompagnamento avviene.

A) Accoglienza

Periodo: 10 febbraio-10 marzo


20 agosto- 10 settembre

Il tirocinante che si presenterà all’ente, convenzionato per il tirocinio, dovrà


avere come riferimento la figura del coordinatore dei tirocinanti. Quest’ultimo
consegnerà all’aspirante tirocinante un questionario costruito ‘ad hoc’ per
saggiare le attitudini, le aspettative e le esperienze di lavoro già svolte.
Successivamente alla restituzione del questionario si fisserà un colloquio.


A questo punto, se il ragazzo sarà ritenuto idoneo, si procederà con
l’assegnazione del Tutor, annuale o semestrale. Inoltre gli saranno consegnati i
moduli da consegnare in Università per ufficializzare l’inizio del tirocinio.
B) Orientamento

Periodo: 15 marzo-30 marzo


15 settembre-30 settembre

Una volta che il tirocinante è stato accettato dall’ente comincerà il lavoro di


orientamento. Questo è propedeutico alla scelta delle attività da affiancare
durante il semestre. Il Coordinatore dei tirocinanti dovrà strutturare:
- Visite guidate all’interno dei servizi
- Incontri con i tirocinanti di ‘Vecchia generazione’
- Consegnare elaborati-valutazione (vedi punto E) che avrà raccolto dagli
altri tirocinanti.

C) La Scelta

Periodo: entro 30 marzo-30 settembre

Il Coordinatore dei tirocinanti dovrà, a questo punto, far incontrare le aspettative


dei tirocinanti alle possibilità dei servizi dell’ente. In questo modo darà spazio
agli interessi del giovane e permetterà un utilizzo adeguato, da parte dell’ente,
della sua forza lavoro.

Si costruirà così uno tabella organizzativa individualizzata che coprirà le ore di


lavoro del ragazzo.
Il tempo del servizio sarà ripartito in quattro macro contenitori.

- Attività di affiancamento diretto con il Tutor, assegnato già in fase di


accoglienza.

- Esperienze specifiche professionali, visionate nella fase di orientamento


presso i servizi dell’ente.
- Partecipazione a convegni, seminari, supervisioni, formazione…(vedi punto
D)
- Incontri con Tutor d’aula.

D) Il Coordinatore durante il semestre

L’ufficio del Coordinatore deve assomigliare ad un ‘InformaGiovani’. Infatti


egli deve avere tutte le notizie che riguardano gli avvenimenti che interessano la
struttura in cui opera e gli enti vicini. In questo modo tutte le informazioni
convoglieranno in quell’unico ufficio ed i tirocinanti potranno avere notizie utili
per pianificare le proprie ore adibite alla partecipazione di convegni, seminari,
supervisioni…

E) Il Congedo

Alla fine di ogni semestre il tirocinante deve consegnare una relazione scritta
sulla esperienza svolta all’interno di ogni ambito da esso scelto. Dovrà così
indicare il suo grado di soddisfacimento dell’attività svolta nei servizi quanto
con il tutor. Gli elaborati saranno conservati dal coordinatore che in fase di
orientamento li metterà a disposizione dei nuovi tirocinanti.

La figura del Tutor d’Aula

Il tutor d’aula è una figura esterna alla struttura che, a cadenza mensile, incontra
tutti i tirocinanti (eventualmente in sedi separate ‘nuovi’ e ‘vecchi’) per
raccogliere le loro impressioni e le loro sensazioni sul lavoro che stanno
svolgendo nei diversi ambiti.
La figura del Tutor

La figura del tutor verrà assegnata prima della fase di orientamento in quanto il
tempo trascorso con questo non sarà la porzione maggiore del tempo totale. Il
percorso che il tirocinante farà con il Tutor sarà in linea con gli impegni dello
stesso Tutor. Seguirà alcuni colloqui e lo affiancherà nelle attività in cui sarà
richiesto il suo aiuto.

Il tutor del servizio deve essere in continuo contatto con il Coordinatore dei
tirocinanti per due motivi.

Il primo riguarda l’andamento del tirocinio del ragazzo. Comunicherà eventuali


problemi che possono essersi verificati.

Il secondo riguarda le necessità del servizio. Infatti il Coordinatore dei


tirocinanti deve avere un referente all’interno di ogni servizio in modo da tenere
una rete di contatti che gli permetta di essere sempre aggiornato sulle loro
effettiva necessità.
Scheda di auto-presentazione del candidato tirocinante, di
Susy Ammaini, Leonardo Angelini, Elena Manzini, Maria
Mori, Simone Oliva, Laura Panna

1^ parte - AREA GENERALE

DATI ANAGRAFICI :

Cognome _________________________________

Nome ____________________________________

Nato/a il _________________ a ___________________________________

Residente in via
_________________________________________________________

nel comune di ___________________________________

prov. __________________

Tel.
___________________________________________________________________

TITOLI DI STUDIO :

Maturità
_______________________________________________________________

Laurea in
______________________________________________________________

conseguita presso
______________________________________________________

Titolo della Tesi


_________________________________________________________

Abstract
______________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
_________________________________________________________

ESPERIENZE FORMATIVE :

Esperienze formative non scolastiche (volontariato, scout,


hobbies..)_________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
__________________________________________________

Esperienze di lavoro
______________________________________________________

____________________________________________________________________________

____________________________________________________________________________
_________________________________________________________

Aspettative professionali per il futuro


__________________________________________
____________________________________________________________________________
____________________________________________________________________________
_________________________________________________________
2^ parte - TIROCINIO

Indirizzo universitario scelto


________________________________________________
Perché ?
_______________________________________________________________

___________________________________________________________________________
________________________________________________________________
Eventuali approfondimenti in ambito universitario (seminari, convegni,
gruppi di lavoro...)

___________________________________________________________________________

___________________________________________________________________________

___________________________________________________________________________
__________________________________________________

Quali di questi ambiti di tirocinio ti vedrebbe soddisfatto/a ? (Rispondere a tutte


le possibilità : 0 per niente ; 5 Moltissimo ; )

Infanzia e latenza 0 1 2 3 4 5
Pre-adolescenza 0 1 2 3 4 5
Adolescenza - 0 1 2 3 4 5
Giovani adulti
Adulti 0 1 2 3 4 5
Anziani 0 1 2 3 4 5
Psichiatria Adulti 0 1 2 3 4 5
Neuropsichiatria 0 1 2 3 4 5
Infantile
SERT 0 1 2 3 4 5
Immigrazione 0 1 2 3 4 5

Disabilità 0 1 2 3 4 5
Disagio etàev. 0 1 2 3 4 5
Pensiero e 0 1 2 3 4 5
Linguaggio
Testistica 0 1 2 3 4 5
Psi Osdped 0 1 2 3 4 5

In quali ambiti tra quelli descritti precedentemente non lavoreresti assolutamente


? Riesci a spiegare il perché ?
Gli autori (nel Settembre 2002):

- Susy Ammaini, psicologa tirocinante, Reggio Emilia

- Leonardo Angelini, psicologo – psicoterapeuta, Responsabile dell'OPEN G,


il Consultorio Giovani dell'AUSL di Reggio Emilia

- Luciano Arcuri, Ordinario di Psicologia delle comunicazioni sociali presso


l'Università degli studi di Padova

- Deliana Bertani, psicologa – psicoterapeuta, Responsabile dell'Unità


Operativa di Psicologia clinica dell'AUSL di Reggio Emilia

- Mariella Cantini, referente e tutor di Gancio Originale, la struttura di


Volontariato dell’U.O. di Psicologia Clinica dell'AUSL di Reggio Emilia

- Angela Dardani, assistente sociale, tutor del Consorzio Forma Futuro di


Parma

- Luigi Guerra, pedagogista, Presidente del Consiglio del Corso di Laurea


della Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna

- Stefano Laffi, sociologo, ricercatore, Milano

- Elena Manzini, psicologa tirocinante, Reggio Emilia

- Maria Mori, psicologa tirocinante, Reggio Emilia

- Paolo Mottana, pedagogista, docente di pedagogia presso l'Università degli


Studi di Milano-Bicocca

- Giuliana Nico, psicologa tirocinante, Specializzanda in Psicoterapia ad


indirizzo psicosocioanalico

- Simone Oliva, psicologo tirocinante, Reggio Emilia

- Laura Panna, psicologa tirocinante, Reggio Emilia


- Marianna Pattini, psicologa tirocinante, Parma

- Marcella Paterlini, psicologa tirocinante, Reggio Emilia

- Fabrizio Rizzi, psicologo – psicoterapeuta, dirigente dell'U.O. di Psicologia


dell'Azienda Sanitaria di Trento

- Valentina Stenico, psicologa tirocinante, Trento

- Fabio Vanni, psicologo – psicoterapeuta, Responsabile della formazione in


psicologia e in psicoterapia dell’AUSL di Parma

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