You are on page 1of 55

Università degli Studi della Tuscia

Appunti di Economia Politica

Luciano Palermo
IL SISTEMA ECONOMICO

1. Che cos’è un sistema economico.

Molti studiosi hanno definito l’economia come l’arte di riuscire a combinare al


meglio la limitatezza delle risorse disponibili con l’ampiezza costantemente crescente
delle esigenze umane. Ebbene, l’esperienza di migliaia di anni di attività umana ha di-
mostrato che il modo migliore e più redditizio di produrre e di consumare beni e servizi
è quello che scaturisce dall’associarsi degli uomini tra loro. La figura di un Robinson
Crusoe, che sbarca solitario in un’isola lontana e trova da solo il modo di sopravvivere e
di crescere, andava di moda nel XVIII secolo, quando gli intellettuali europei scopri-
vano il ruolo importantissimo anche in economia dell’individualismo e della libertà; ma
si trattava appunto di un mito: da solo e senza strumenti tecnici Robinson sarebbe morto
nel giro di qualche giorno. Gli uomini e le donne associandosi, invece, tra loro hanno
dato vita, nel corso del tempo, a modelli anche assai complessi di relazioni economiche,
e ciò ha permesso loro di produrre quantità sempre crescenti di beni e di servizi a costi
sempre minori rispetto alla loro qualità. Questo insieme di relazioni costituisce ciò che
gli studiosi chiamano un sistema economico.
Un sistema economico è, dunque, fondamentalmente una organizzazione sociale,
cioè una organizzazione di uomini e donne che in un dato momento storico risultano as-
sociati tra loro per produrre e consumare beni e servizi e per dare così la massima soddi-
sfazione possibile alla proprie esigenze. Per ottenere questo risultato ogni sistema eco-
nomico deve svolgere alcune funzioni basilari, e anzi esiste e rimane in vita proprio fin-
ché è in grado di svolgere in modo efficace queste funzioni.

2. Le funzioni del sistema economico.

La prima funzione dell’organizzazione sociale che definiamo sistema economico


è quella della produzione: esso deve anzitutto riuscire a produrre tutti i beni e i servizi
necessari agli individui che di esso fanno parte; per raggiungere questi obbiettivi il si-

1
stema utilizza ciò che gli studiosi chiamano fattori della produzione. Già nel XVIII se-
colo gli economisti avevano individuato i fondamentali fattori della produzione e li ave-
vano definiti: terra, capitale e lavoro. Per comprendere il significato di questi termini
immaginiamo ciò che è necessario per mettere in piedi una qualsiasi attività di produ-
zione. Anzitutto ci deve essere un luogo fisico su cui far sorgere la struttura produttiva e
il fabbricato in cui essa deve svolgersi (e ciò è appunto la terra); poi ci deve essere un
insieme di beni costituito da risorse monetarie e finanziarie, salari da dare ai lavoratori,
macchinari, strumenti di ogni genere (sia intellettuali che materiali) che gli economisti
definiscono mezzi di produzione, prodotti finiti, depositi di merci e altro ancora (e tutto
ciò è appunto il capitale); per avviare ogni processo di produzione, infine, è del tutto in-
dispensabile che ci sia l’uomo con la sua intelligenza e con la sua energia fisica e men-
tale applicata alle macchine e agli altri mezzi di produzione (e questo è appunto il lavo-
ro). La produzione scaturisce, dunque, sempre dalla combinazione dei fattori, e rapporti
di produzione sono appunto definite le relazioni economiche che collegano tra loro i
proprietari dei tre fattori della produzione, ognuno dei quali immette nel processo pro-
duttivo il fattore di cui è titolare in vista del vantaggio che può ricavarne. Ora, una com-
binazione di fattori può essere più o meno produttiva, dipende da come è organizzata,
dunque l’organizzazione della produzione non è un dato irrilevante ai fini dei risultati
che si vogliono ottenere. Nelle età più antiche, come anche fino a non molto tempo fa, il
compito di dare una organizzazione alla produzione era in genere assunto dai titolari del
fattore dominante, i proprietari terrieri prima, i proprietari del capitale in seguito; questi
proprietari finirono assai spesso per assumere anche compiti di guida politica delle so-
cietà da essi dominate. Oggi le cose sono profondamente mutate e complicate, e la pro-
prietà del capitale si affida sempre ad un manager, cioè ad uno specialista del
management, dell’organizzazione della produzione, capace di garantire il raggiungimen-
to dei risultati migliori. Ed è bene ancora aggiungere che nelle economie contemporanee
anche il fattore terra è ormai considerato e trattato a tutti gli effetti come un bene capita-
le.
La seconda funzione tipica di un sistema economico è quella della distribuzione
del reddito: ciascun individuo che partecipa alla produzione dei beni lo fa perché si a-
spetta di essere in qualche modo remunerato: il proprietario del fattore terra (che, ripe-
tiamo, può essere rappresentato anche da un fabbricato o da un appartamento in città)

2
avrà il proprio reddito sotto forma di rendita; il proprietario del fattore capitale sotto
forma di profitto, il proprietario della forza di lavoro sotto forma di salario. Rendita,
profitto e salario sono, dunque, tre basilari forme di reddito. La distribuzione di tali
redditi consente ai produttori di accedere al mercato e procurarsi tutto ciò che essi non
sono in grado di fabbricarsi da sé, come anche consente loro di fornire beni e servizi a
coloro che sono necessariamente esclusi dalla partecipazione diretta ai processi produt-
tivi (i bambini, i pensionati, i disoccupati e così via). E se abbiamo osservato che nelle
complesse economie contemporanee il fattore terra è ormai trattato alla stregua di un
bene capitale, è altrettanto chiaro, di conseguenza, che anche la rendita tende a schiac-
ciarsi sul profitto e a diventare insieme a quest’ultimo un’unica e più complessa forma
di reddito.
La terza funzione è quella dello scambio. Nel corso della storia non si sono in
pratica mai avute società nelle quali ciascun individuo fosse in grado di produrre da sé
tutto ciò di cui avesse bisogno: nell’ambito di ogni sistema economico è, dunque, neces-
sariamente presente una divisione di compiti e di ruoli, la cosiddetta divisione sociale
del lavoro, e sorge di conseguenza un sistema di scambi incrociati di beni e servizi: il
mercato. Quanto maggiore è il tasso di divisione del lavoro, in un sistema economico,
tanto maggiore è il livello e il volume degli scambi in esso presenti. E questo accade per
due motivi tra loro collegati: a) una accentuata divisione del lavoro spinge verso forme
altrettanto forti di specializzazione produttiva, e di conseguenza ogni produttore ha
sempre più bisogno di chiedere agli altri i beni che gli servono ma che non produce da
sé; b) la divisione del lavoro e la specializzazione accrescono anche la produttività glo-
bale del sistema (cioè si produce una quantità maggiore di beni con la stessa quantità di
lavoro e nello stessa unità di tempo), di conseguenza aumenta il sovrappiù di beni che
ciascun produttore può avviare al mercato per prendere in cambio ciò di cui ha bisogno.
Noi possiamo, certo, immaginare una società in cui gli scambi siano ridotti al
minimo e nella quale, dunque, ogni produttore tenda all’autoconsumo, cioè a consumare
direttamente ciò che egli stesso ha prodotto. In alcuni luoghi dell’Europa alto medioeva-
le le economie agricole funzionavano in qualche misura così. E tuttavia non si è mai ve-
rificato nella storia un sistema che funzioni senza scambi, cioè completamente senza
mercato. Nelle economie sviluppate contemporanee la divisione sociale del lavoro è ai

3
massimi livelli possibili e tutto è, dunque, chiaramente prodotto in funzione del merca-
to; nessun bene o servizio, cioè, è mai fatto per essere autoconsumato.
Il mercato, a sua volta, presuppone che ci sia chi offra beni o servizi e ci sia che
li domandi; questo pone il problema di dare un valore ai beni che sono oggetto della
domanda e dell’offerta. Gli economisti hanno sempre distinto il valore d’uso di un bene,
consistente nella sua immediata utilità per l’uomo (l’acqua serve per dissetare) dal suo
valore di scambio, che invece è il valore di mercato (quanto dei miei beni sono disposto
a cedere per una bottiglia d’acqua?); quest’ultimo è niente altro che il prezzo, cioè il vo-
lume delle risorse che devono essere trasferite da chi domanda a chi offre perché
l’operazione di scambio possa essere effettuata con piena soddisfazione di entrambi.
Ora, il prezzo indica generalmente il valore di un bene in termini di un altro bene
(quante pecore ci vogliono per avere una coppia di buoi?). Questo non poneva problemi
in una società di tipo fortemente primitivo, in cui lo scambio era relativamente raro e
basato sul baratto, cioè sulla cessione di un bene in cambio di un altro bene (ti servono
le mie pecore, dammi la tua coppia di buoi!). Ma in società appena più evolute, quali già
erano, ad esempio, quelle del mondo antico greco o romano, questa forma di scambio
era assolutamente insufficiente: sorse pertanto, nel corso del tempo e in seguito a vari
tentativi, quella speciale merce che va sotto il nome di moneta (generalmente un tondino
d’oro o d’argento timbrato sui due lati dalla autorità politiche per garantire il peso e la
qualità del metallo e per far pagare una tassa a chi lo utilizzava), con l’obbiettivo di
semplificare e rendere più veloce ed agevole il sistema degli scambi.
La moneta presentò fin dall’inizio alcuni notevoli vantaggi per chi accedeva al
mercato: a) permetteva di assegnare rapidamente un valore di scambio, dunque un prez-
zo espresso in termini monetari, ai beni destinati alla compravendita; b) facilitava enor-
memente il flusso degli scambi perché era un bene immediatamente accettato da tutti in
cambio di qualsiasi altra merce, e viceversa poteva immediatamente acquistare a sua
volta qualsiasi altra merce; c) mentre le altre merci erano deperibili, la moneta, che era
costituita da un pezzo di metallo prezioso, poteva conservare a lungo nel tempo il pro-
prio valore e poteva essere spesa al momento più opportuno; poteva, dunque, sia pure
con qualche rischio, essere tesaurizzata. Queste tre funzioni della moneta gli economisti
le definiscono rispettivamente: misura del valore, acceleratore degli scambi e riserva di
valore.

4
E dal momento che anche la moneta in sé è una merce, sia pure garantita nel suo
valore dallo stato, essa stessa può essere comprata e venduta in speciali mercati, quali
sono appunto il mercato monetario e il mercato del credito; di questi mercati i protago-
nisti nel mondo moderno e contemporaneo sono soprattutto gli istituti bancari. Il credito
è appunto l’atto di fiducia (questo, infatti, è il significato della parola) con il quale chi
possiede moneta la offre a chi se ne deve servire o per consumare beni (credito al con-
sumo) o per avviare attività produttive di beni e servizi (credito d’esercizio), nel-
l’aspettativa naturalmente della sua restituzione. L’acquirente della moneta, il debitore,
si impegna a sua volta a restituire al prestatore in un certo tempo una somma superiore a
quella ricevuta in prestito, questa differenza è appunto l’interesse, ed è in qualche modo
il prezzo che si paga per la moneta acquistata.
Stando così le cose, è evidente che un sistema economico che sia dotato di una
buona offerta e circolazione di moneta e di un fluido mercato del credito, possiede an-
che una veloce ed efficace gestione degli scambi e presenta tendenzialmente un grado
più elevato di sviluppo.
La quarta funzione che deve essere realizzata nell’ambito di un sistema eco-
nomico è ancora fondamentale, ed è quella del consumo. Questo può essere anzitutto in-
teso come consumo diretto, cioè come utilizzazione immediata di un bene e sua distru-
zione nell’atto del suo godimento. Ad esempio, nel momento in cui un uomo mangia un
pezzo di pane, il bene in questione esaurisce se stesso e le sue funzioni nell’atto stesso
della nutrizione e scompare, ma in quell’atto è il suo valore, perché ha dato energia
all’individuo che lo ha consumato; dunque, il consumo diretto serve in linea di massima
a reintegrare le esigenze immediate della sopravvivenza o del benessere degli individui.
Ma esiste un’altra importantissima forma di consumo, il consumo indiretto o
rinviato nel tempo, ovvero l’investimento, che alcuni studiosi considerano come una
funzione a sé stante del sistema economico. In sostanza, nessuna società può permettersi
il lusso di consumare immediatamente tutto ciò che è riuscita a produrre in un ciclo e-
conomico, se facesse ciò non avrebbe più risorse da investire, cioè da utilizzare per av-
viare un nuovo ciclo produttivo. Se, ad esempio, tutto il grano prodotto da un campo
fosse consumato o venduto dall’agricoltore, questi resterebbe privo della semenza per
avviare la successiva annata agricola. Una parte delle risorse, dunque, va risparmiata,
cioè conservata per l’utilizzazione futura; è un sacrificio momentaneo, che limita il con-

5
sumo immediato e diretto dei beni, ma è assolutamente indispensabile per il rinnovo dei
processi di produzione. Si potrebbe supporre che quanto più alto è il tasso di risparmio,
cioè la quota parte di risorse non immediatamente consumate sulla totalità dei beni pro-
dotti, tanto più alta dovrebbe essere la propensione ad investire; questo è generalmente
vero, ma non sempre, perché sono infinite le circostanze e le aspettative che possono
motivare la decisione di un imprenditore ad investire le sue risorse o a destinare
all’investimento risorse aggiuntive. E tuttavia, in termini macroeconomici (cioè tenendo
conto dei dati complessivi aggregati dell’economia di un sistema) si è potuto giungere a
definire la massa totale del risparmio come in pratica equivalente alla massa totale de-
gli investimenti.

3. Nessun sistema economico è eterno.

Dunque, in sintesi, un sistema economico funziona a pieno regime quando è in


grado di produrre beni e servizi in quantità e qualità adeguate alla domanda; quando rie-
sce a distribuire un reddito appropriato a coloro che hanno preso parte ai processi pro-
duttivi; quando favorisce lo scambio dei beni attraverso la formazione di un mercato
fluido e corretto; quando consente un buon livello di consumo diretto e immediato dei
beni necessari agli individui; infine, quando riesce a incrementare in modo significativo
il risparmio delle risorse che devono essere investite per dare l’avvio ad una nuova fase
di produzione. Quando queste funzioni vengono realizzate con soddisfazione degli indi-
vidui che lo compongono e gli danno vita, allora il sistema procede nel tempo e tende ad
espandersi nello spazio geografico; quando queste funzioni non sono, invece, portate a
termine in modo soddisfacente, il sistema entra in stato di sofferenza e gli individui che
lo compongono cominciano a valutare le possibili modificazioni che devono essere ap-
portate.
L’economia è la scienza che studia appunto come nel corso del tempo i modi di
produrre beni e servizi, di distribuire ricchezza, di scambiare, consumare ed investire ri-
sorse si siano andati strutturando e modificando; essa studia, cioè, come i sistemi eco-
nomici si trasformino e, il più delle volte, si adattino continuamente sotto la spinta di
nuove esigenze o per il sopraggiungere di migliori metodi di produzione e di consumo.

6
Nessun sistema economico dura in eterno: la necessità di produrre, consumare, scambia-
re è certamente costante nel tempo e si ritrova in tutte le epoche, ma i modi con i quali si
produce, si consuma, si scambia variano continuamente; generalmente queste modalità
tendono a migliorare nel corso dei secoli, ma non mancano casi assai gravi anche di in-
voluzione e di regresso. La storia economica studia, appunto, queste variazioni e si pone
il problema di spiegarne le ragioni.
Abbiamo detto che in generale un sistema economico entra in crisi e va incontro
a trasformazioni quando gli individui che lo costituiscono cominciano ad essere insod-
disfatti dei redditi prodotti dal loro lavoro o dai loro investimenti in beni capitali, in al-
tre parole quando i salari diventano insufficienti e i profitti nulli. Ma la storia millenaria
dell’umanità ci fa capire che le fasi di trasformazione e di adeguamento di un sistema
sono sempre molto conflittuali. Ed infatti, quando un modello produttivo o di scambio
entra in crisi, il malessere economico non colpisce tutti indistintamente: in realtà in ogni
crisi c’è chi diventa più ricco (e in genere si tratta di una minoranza) e c’è chi diventa
più povero (e questi sono invece i più). Ogni malessere economico genera, dunque, con-
flitti tra coloro che non vorrebbero modificare la situazione precedente, perché permette
loro di continuare ad arricchirsi, e coloro che invece tenderebbero a trasformarla perché
fornisce loro un reddito minore o comunque insufficiente. E queste esigenze, come ve-
dremo meglio più avanti, hanno sempre avuto dei precisi risvolti politici: da un lato
hanno prodotto partiti e ideologie utili per cambiare o rivoluzionare il funzionamento
del sistema, dall’altro partiti e ideologie diretti a conservarlo identico a se stesso il più a
lungo possibile. Ci sono stati dei casi nella storia in cui un sistema economico è andato
incontro a rapide e radicali modificazioni attraverso attività rivoluzionarie dotate di am-
pio respiro e di forti consensi (si pensi alla rivoluzione francese del 1789 o alla rivolu-
zione russa del 1917); ma nella maggior parte dei casi le trasformazioni sono state sem-
pre lente e graduali, anche se non per questo sono state meno incisive.

4. I sistemi economici si succedono nella storia.

Nel percorso storico dell’umanità ci sono stati numerosi modelli di sistemi eco-
nomici generali che si sono succeduti l’uno all’altro nel corso dei secoli e che sono più

7
agevolmente individuabili. Parliamo di sistemi generali, perché il loro modello di fun-
zionamento è durato a lungo nel tempo ed è facilmente riscontrabile in tutti i microsi-
stemi ad essi collegati o da essi dipendenti. Un microsistema può essere costituito da
una economia urbana; ma anche una famiglia costituisce un microsistema; ora, è evi-
dente che il funzionamento di una città, o la qualità della vita di una famiglia che in essa
abita, devono necessariamente risentire dell’andamento generale dell’economia dello
stato a cui la città appartiene o addirittura dell’economia mondiale, in un’epoca di glo-
balizzazione dei mercati qual è la nostra. Dunque, se anche non è possibile e opportuno
fare inutili elenchi di sistemi e microsistemi, si può invece realisticamente supporre che
nella storia siano apparsi alcuni grandi modelli generali di sistemi economici, e proprio
questi possono essere utilmente studiati, perché hanno lasciato ampie tracce di sé nelle
vicende storico-economiche, perché hanno condizionato a lungo la vita dell’umanità e
perché possono essere collocati con buona certezza nel tempo storico e nello spazio ge-
ografico.
Questi grandi modelli generali sono stati quasi sempre individuati e distinti l’uno
dall’altro dagli storici prendendo soprattutto in considerazione il modo in cui in essi ve-
nivano usati i fattori della produzione e veniva organizzata la produzione dei beni, ma è
utile aggiungere che anche le stesse modalità con le quali i beni venivano domandati,
scambiati o consumati hanno spesso dato la misura di importanti distinzioni storiche tra
i sistemi.
Quali sono stati, dunque, i principali modelli generali di sistema economico cui
si può far riferimento? È il caso qui di ricordarne alcuni, perché di essi avremo modo di
parlare in modo più dettagliato nel corso dello studio.
Il primo sistema è il più antico e durò per diverse migliaia di anni, dagli inizi
della civiltà mediterranea (ad esempio, dai tempi degli antichi egiziani) fino alla caduta
dell’Impero Romano: si tratta del sistema schiavistico, così definito perché era basato su
un modo di produzione che faceva largamente uso degli schiavi. Per migliaia di anni di
seguito, nelle terre che si affacciavano sul bacino del Mediterraneo, ma anche in tantis-
simi altre regioni nel mondo, i processi produttivi ebbero due protagonisti, certo non u-
nici ma assolutamente dominanti: da un lato i proprietari della terra e da un altro lato la
forza di lavoro fornita da esseri umani ridotti in schiavitù. Solo verso i secoli finali del
mondo antico la produzione schiavistica cominciò a declinare. E la sua scomparsa non è

8
dovuta a motivi etici ma a una fondamentale ragione economica: il lavoro dello schiavo
era assai scarsamente produttivo; ed infatti, là dove questo modo di trattare l’uomo ap-
pariva ancora produttivo la schiavitù in realtà fu mantenuta a lungo in piedi (si pensi al-
la presenza di schiavi neri alla metà dell’Ottocento nelle piantagioni di cotone dei civi-
lissimi stati del sud degli USA).
La fine del sistema schiavistico lasciò spazio ad un nuovo modello economico,
largamente dominante in Europa dai secoli della caduta dell’Impero Romano fino a tutto
il Medioevo e anche oltre: il sistema signorile, così definito perché l’elemento dominan-
te era il signore della terra, generalmente un esponente della nobiltà dell’epoca, che de-
teneva la terra o come proprietario o come possessore temporaneo di essa. All’interno di
questo sistema i rapporti di produzione e i processi produttivi assunsero nel corso dei
secoli forme anche assai diverse, e tuttavia erano quasi sempre basati sul rapporto che
sussisteva tra i proprietari, o comunque i possessori della terra, sempre loro, da un lato,
e dall’altro lato dalla forza di lavoro fornita non più da schiavi, ma da uomini semiliberi
(ad esempio, i servi della gleba), o da uomini liberi legati da contratti più o meno libe-
ramente accettati. Il vantaggio enorme, rispetto al precedente sistema schiavistico, con-
sisteva nel fatto che questa manodopera semilibera o libera era maggiormente motivata
a lavorare e dunque era dotata di una superiore capacità produttiva.
In questa stessa fase e all’interno di questo generale modello signorile, sorse in
Europa anche il sistema feudale vero e proprio; il feudalesimo con tutte le regole, le i-
deologie e la cultura che gli sono proprie, resta nella sua essenza un modello economico
basato appunto sul feudo, cioè su una superficie di terra (nel caso più diffuso, ma poteva
trattarsi di qualsiasi altra struttura produttiva) concessa da un signore ad un suo vassallo.
Il feudo, come vedremo meglio a suo tempo, era, dunque, una speciale unità politica e
produttiva insieme, e vedeva ancora come fattori della produzione dominanti la terra, da
un lato, e il lavoro servile, più o meno libero, dall’altro.
Questi modelli economici generali, fin qui ricordati, hanno in comune, come si
vede, il dato della prevalenza del fattore terra e della sottomissione ad essa del fattore
lavoro. Se la terra e il lavoro servile erano i due fondamentali assi della combinazione
produttiva, il terzo fattore, quello che definiamo capitale, non era ovviamente assente (e
anzi sulla sua presenza insisteremo a lungo a suo tempo), ma era relativamente scarso, e
questo rendeva comunque il sistema della produzione scarsamente redditizio e impediva

9
l’avvio di una crescita economica significativa e costante. Ma con la fine del sistema
feudale e con l’inizio del mondo moderno (più o meno a partire dalla fase delle grandi
scoperte geografiche rinascimentali), questa situazione cominciò a capovolgersi e il fat-
tore capitale diede inizio ad una lunga rincorsa che lo portò ai vertici della vita econo-
mica mondiale. Sorsero, pertanto, dei sistemi di forma più accentuatamente capitalistica,
basati cioè sulla combinazione prevalente del fattore capitale con il lavoro salariato.
Anche il fattore terra continuò ovviamente ad essere sempre ben presente, e spesso in
modo preponderante, ma anche esso cominciava ormai ad essere trattato a tutti gli effetti
alla stregua di un bene capitale.
Dapprima si sviluppò, sempre a partire dall’Europa occidentale, un sistema che
possiamo definire di capitalismo mercantile, basato, come si intuisce immediatamente
dal nome, sui crescenti investimenti del capitale mercantile, cioè del capitale destinato
ad accrescersi e a produrre profitti attraverso la compravendita delle merci e del denaro.
Le prime tracce importanti dell’avvento di questo modello si hanno già nel basso Me-
dioevo, quando, ad esempio, le città mercantili italiane erano in grado di contrapporsi
con successo ai grandi signori della nobiltà terriera feudale; ma il suo predominio si svi-
luppò lungo tutta l’età moderna, fino almeno al XVIII e in molti casi al XIX secolo, in
fasi storiche in cui i grandi mercanti e i grandi banchieri erano in grado di condizionare
le economie di interi stati e sottomettevano ai propri interessi le stesse produzioni agri-
cole e manifatturiere.
Lo sviluppo dei sistemi produttivi industriali, in Inghilterra dal XVIII secolo e
nel resto del mondo nel XIX e nel XX secolo, portò quindi al predominio economico di
un’altra forma del capitale, e precisamente del capitale industriale, cioè del capitale de-
stinato ad accrescersi e a produrre profitti attraverso l’investimento in strutture produt-
tive tecnologicamente sempre più avanzate. Il capitalismo industriale è appunto il si-
stema nel quale oggi noi ancora largamente viviamo. Esso in circa due secoli di storia
ha completamente rivoluzionato la capacità produttiva e la qualità della vita dell’uomo
sulla terra, ed ha talmente accentuato, in quantità mai prima neppure immaginabile, la
sua capacità di produrre e consumare beni e servizi, da porre dei seri problemi di so-
pravvivenza allo stesso ambiente naturale ereditato dal mondo preindustriale. E già al-
cuni studiosi hanno cominciato ad individuare il sopraggiungere di un ulteriore sistema,
di tipo postindustriale, dominato dal settore terziario, cioè dalla produzione dei servizi,

10
ma sulle caratteristiche di questo nuovo modello emergente e sul ruolo che in esso ha
l’attuale rivoluzione informatica il discorso è ancora del tutto aperto.
Quasi del tutto racchiuse all’interno dei confini del XX secolo sono invece le vi-
cende di un altro modello di produzione e di scambi, il sistema socialista, sorto nel 1917
sulle ceneri della Russia zarista e dotato di una forte carica espansiva che lo ha portato
ad estendersi su buona parte dell’Asia, compresa la attuale Repubblica Cinese. Era un
sistema che nelle sue forme più estreme, in realtà quasi mai realizzate, prevedeva la
proprietà pubblica dei mezzi di produzione della ricchezza e in generale di tutti i beni
capitali e l’eliminazione del prezzo di mercato per i beni prodotti, che in tal modo dove-
vano essere distribuiti in assenza di un vero e proprio sistema di scambi. Come vedremo
meglio a suo luogo, malgrado la indubbia aspirazione alla giustizia sociale di cui questo
sistema era portatore, per il principio di una equa distribuzione dei redditi che esso pro-
pugnava, il suo declino fu inevitabile ed è in larga misura da attribuire alla sua impossi-
bilità di reggere la concorrenza dei ritmi produttivi e di consumo ai quali contempora-
neamente arrivava il sistema del capitalismo industriale.
Se osserviamo, adesso, questi stessi passaggi storici dal punto di vista particolare
di coloro che offrono ai processi produttivi il contributo della propria forza di lavoro,
possiamo facilmente osservare che il sopraggiungere dei sistemi di tipo capitalistico ha
completamente rivoluzionato il ruolo del lavoro umano. I sistemi più antichi, quelli ba-
sati sulla combinazione prevalente di terra e lavoro servile, vedevano i lavoratori in sta-
to di sudditanza legale, al limite in stato di schiavitù, di fronte ai proprietari della terra;
in questi casi il lavoro era fornito perché era in qualche modo dovuto o addirittura ob-
bligatorio, e il lavoratore era in sostanza parte organica della struttura produttiva agrico-
la, alla quale non poteva sottrarsi se non con la fuga.
Con l’avvento dei sistemi basati sulla crescita dell’impiego del fattore capitale,
la distinzione tra le due componenti della combinazione produttiva divenne assai più
netta: il capitalista era ormai solo il proprietario dei mezzi di produzione della ricchezza
(la terra e il capitale), e tendeva alla realizzazione del massimo profitto possibile; dun-
que il suo reddito dipendeva non dal suo lavoro, ma esclusivamente dall’impiego pro-
duttivo dei beni capitali in suo possesso. Al contrario, i lavoratori cominciarono a carat-
terizzarsi come esseri umani privi di qualsiasi altra proprietà che non fosse la propria
energia fisica o mentale, da vendere per un certo numero di ore al giorno in cambio del

11
salario. In conseguenza di tutto ciò cominciò a formarsi il mercato del lavoro, cioè un
sistema di libera domanda e offerta di lavoro (è importante sottolineare che in senso
proprio l’imprenditore domanda lavoro e il lavoratore lo offre). In particolare i lavorato-
ri, proprietari esclusivamente della propria forza di lavoro, fisica o intellettuale, comin-
ciarono ad essere liberi di offrire la propria capacità di lavorare al migliore offerente,
cioè all’imprenditore disposto a dare loro il salario più alto. Ma anche l’imprenditore,
dal canto suo, poté cominciare a domandare lavoro a chi era disposto ad accettare un sa-
lario più basso. Si andarono così formando i due pilastri fondamentali dei rapporti di
produzione nel mondo del capitalismo mercantile e industriale: la libertà di lavoro e la
dialettica tra gli interessi contrapposti. Nelle società sviluppate contemporanee lo scon-
tro tra gli interessi opposti non è più, tuttavia, abbandonato a se stesso e agli eccessi che
ne potrebbero derivare; il sorgere delle organizzazioni sindacali, sia dei detentori del
capitale che dei lavoratori, come anche la stabilizzazione di relazioni industriali da tutti
accettate e rispettate, tendono anche a comporre i conflitti nel quadro complessivo della
ricerca del bene comune.

5. Cicli economici, sviluppo e sottosviluppo.

Abbiamo detto che un sistema economico viene meno alle sue funzioni quando
non riesce più a soddisfare i livelli di produzione e di consumo di beni e servizi necessa-
ri per gli individui che lo compongono. Questi processi di esaurimento di un modo di
funzionare dell’economia sono stati sempre abbastanza lenti e graduali, e anche nel caso
di rivoluzioni apparentemente rapide in realtà i processi di preparazione dei cambiamen-
ti erano già certamente avviati da tempo. Non esiste, dunque, un istante storico nel quale
un sistema finisce e un altro comincia. Gli storici parlano piuttosto di processi di transi-
zione da un sistema all’altro, e ogni fase di transizione può essere più o meno lunga e
più o meno complessa.
Un ragionamento del tutto simile può essere fatto a proposito dello spazio geo-
grafico sul quale un sistema si estende. Come è assurdo tentare di individuare l’istante
del tempo in cui un sistema comincia a funzionare o finisce di esistere, perché tutto ap-
punto si evolve, così è altrettanto incerto tentare di dare dei confini geografici certi

12
all’espansione di un sistema. I confini geografici dell’Impero Romano, ad esempio, pos-
sono essere considerati i confini stessi del sistema economico imperiale? Certamente
no, perché le relazioni economiche dell’impero andavano ben al di là del territorio sot-
tomesso alla sua amministrazione civile o militare e gli scambi di merci e monete rag-
giungevano in piena età romana anche le regioni e le città dell’India e dell’estremo O-
riente.
Un sistema economico si evolve, dunque, continuamente nel tempo e nello spa-
zio, e questi processi di evoluzione e di involuzione sono stati definiti dagli economisti
con l’espressione ciclo economico, proprio a significare che l’andamento quasi normale
dell’economia è quello che vede i dati quantitativi di un sistema (ad esempio: i prezzi, la
quantità dei beni prodotti o consumati, il volume e il valore dei beni scambiati, il nume-
ro degli individui viventi) salire e scendere con un andamento ciclico ripetitivo. Un ci-
clo economico è sempre costituito da quattro fasi fondamentali: a) una fase espansiva,
che può essere definita di crescita, se si pensa alle variazioni quantitative del sistema, o
di sviluppo, se si considera la qualità del cambiamento; b) una fase di crisi, che inter-
viene al culmine dello sviluppo, e che segna l’inversione della tendenza economica dal-
la crescita al declino; c) una fase di caduta dei dati quantitativi, come conseguenza della
crisi; d) infine, una fase di ristagno, che prepara di nuovo l’inversione di tendenza verso
la ripresa.
La fase della crisi è sempre apparsa agli economisti come uno degli elementi es-
senziali di questo processo ciclico, perché nella crisi sono presenti le ragioni che impe-
discono ad un sistema di espandersi in modo continuo e senza interruzioni. Normalmen-
te una crisi economica non è necessariamente distruttiva del modo di funzionare di un
sistema, anzi può essere un momento di razionalizzazione del modo di produrre o di
consumare; in questo caso il sistema si modifica gradualmente e si adatta alle nuove si-
tuazioni: il sistema non muore ma non neppure rimane uguale a prima, piuttosto si adat-
ta. Naturalmente, quanto più grave è il livello della crisi, tanto più pesante sarà la sua
influenza nel modificare il funzionamento di un sistema; e nella storia vi sono state fasi
di crisi fortemente distruttive, che sono giunte fino alla instaurazione di un vero e pro-
prio processo di transizione: in questo caso nel volgere di un periodo più o meno lungo
di tempo le trasformazioni apportate sono tali che lo storico può affermare che il sistema
si è totalmente modificato, e in realtà ne è nato uno nuovo.

13
Anche la fase della crescita o dello sviluppo è sempre apparsa determinante ai
fini del funzionamento del sistema. Ma mentre i dati quantitativi della crescita (come
anche quelli contrapposti della caduta) sono in genere abbastanza facilmente verificabili
con metodi statistici, il concetto di sviluppo si presenta in modo molto più complesso.
Un processo di sviluppo, infatti, è rivelato non solo dai dati quantitativi, ma fondamen-
talmente dai dati qualitativi, dunque esso è relativo non solo a quanto si produce, ma
soprattutto a come si produce e a come sono organizzati i rapporti di produzione.
In linea di massima possiamo affermare che un sistema è in fase di sviluppo non
tanto e non solo quando è in grado di far crescere la produzione dei beni e dei servizi,
ma piuttosto quando è in grado di accrescere la produttività del lavoro; mentre, infatti,
la produzione è un dato assoluto e indica la quantità dei beni prodotti, la produttività è
un dato relativo e indica la capacità di produrre da parte di una unità produttiva in una
unità di tempo. In altre parole: se cento lavoratori producono in un anno una tonnellata
di grano e l'anno dopo duecento lavoratori ne producono due tonnellate, non si ha svi-
luppo economico perché la quantità di beni prodotti da ciascun individuo con la stessa
quantità di lavoro non è mutata da un anno all’altro. Ma se, invece, nel secondo anno gli
stessi cento lavoratori, attuando nuove tecniche produttive, riuscissero a produrre le due
tonnellate dell’esempio precedente, allora sì, questo sarebbe un caso di sviluppo eco-
nomico, perché la produttività di ciascun addetto alla produzione risulterebbe raddop-
piata, e ciascun individuo alla fine del ciclo produttivo avrebbe il doppio di beni dispo-
nibili per il suo consumo o per scambiarli con altri di cui avesse necessità. Il segreto
dello sviluppo è, dunque, quasi sempre nella crescita della capacità di produrre: si svi-
luppa prima o di più chi riesce meglio ad integrare il lavoro umano con tecnologie inno-
vative, che permettano di accrescere la qualità e la quantità di beni prodotti e contempo-
raneamente di contrarre i costi relativi della produzione.
Nel mondo antico e in quello medioevale i sistemi economici erano dominati
dalla produzione agricola. Questo impediva che si potessero realizzare fasi di sviluppo
particolarmente lunghe e significative, perché nell’agricoltura di quelle epoche preva-
levano quasi sempre forme abitudinarie e tradizionali di produzione. La mancata cresci-
ta della produttività del lavoro agricolo circoscriveva, a sua volta, l’espansione numeri-
ca della popolazione e limitava la formazione di un sovrappiù di prodotto da destinare
allo scambio o da conservare per il futuro investimento. Dunque, l’intero sistema agri-

14
colo, basilare nelle economie di quelle epoche, risultava incapace di espandersi in modo
costante e significativo. E ciò malgrado, anche nell’età preindustriale vi sono stati mo-
menti indubbiamente significativi di crescita e di sviluppo.
Nel mondo moderno e contemporaneo le trasformazioni dei sistemi economici
hanno condotto, come si è detto, alla crescita del ruolo produttivo dei beni capitali, sia
sotto la forma di capitale mercantile, sia sotto la forma di capitale industriale. Mentre
nel settore agricolo la crescita della produttività era sempre stata ostacolata dalla len-
tezza delle innovazioni, e a ciò si era sempre aggiunta l’obbiettiva difficoltà di rendere
più produttivi i suoli coltivati, nel settore manifatturiero e industriale apparve invece
quasi subito chiaro, già verso la fine del Settecento, che non vi erano altri limiti alla ca-
pacità espansiva della produzione, se non quelli di carattere economico e culturale: i li-
miti dipendevano, cioè, dalla quantità di capitale disponibile e dal livello della ricerca
scientifica e tecnologica applicata alla produzione. Questa consapevolezza ha permesso
l’avvio di una fase costante di espansione economica in quei paesi, soprattutto europei
occidentali e nord americani, che hanno avuto le risorse necessarie per sviluppare le
nuove tecnologie e hanno avuto l’opportunità di trasformarle in innovazione produttiva.
Nessuna invenzione tecnica si trasforma, infatti, automaticamente in innovazione pro-
duttiva, perché questo avvenga è necessario che si creino le opportune condizioni eco-
nomiche. Alcune invenzioni, come il mulino ad acqua, risalgono all’antichità, ma la lo-
ro diffusione su vasta scala si ebbe solo nel corso del medioevo, quando le mutate con-
dizioni economiche permisero all’invenzione di trasformarsi in effettiva innovazione.
Un ragionamento del tutto simile può essere fatto a proposito della energia del vapore,
che trasformò il modo di vivere e di lavorare in Europa nell’Ottocento, o dell’energia
elettrica che ha modificato radicalmente le strutture produttive del mondo intero nel cor-
so del XX secolo.
Uno dei problemi più importanti che storici ed economisti oggi tentano di af-
frontare consiste nel comprendere le ragioni per le quali questo modello di sviluppo di
tipo capitalistico industriale si sia concentrato solo in alcune aree del mondo, general-
mente nell’emisfero settentrionale, e abbia, per converso contribuito a creare immense
fasce di povertà nei paesi del cosiddetto terzo mondo, definiti talvolta ottimisticamente
paesi in via di sviluppo. E a questo si aggiunge un ulteriore problema, collegato al pre-
cedente, ed è la ricerca dei motivi per i quali anche tra i paesi del sottosviluppo alcuni

15
siano riusciti ad avviare un certo decollo economico, talvolta anche con successo come
è il caso del sud est asiatico, mentre in altre aree del mondo, e questo è il caso soprattut-
to dei paesi dell’Africa nera, le condizioni del sottosviluppo sembrano essere inamovi-
bili. La soluzione a questi problemi è probabilmente ancora lontana, e tuttavia è già si-
gnificativo che queste ricerche costituiscano alcuni dei più significativi punti di arrivo
delle indagini comuni degli economisti e degli storici economici.

6. Le ideologie, le istituzioni, lo stato.

In quanto associazione di uomini e donne, il sistema economico non è mai ap-


parso nella storia come un dato semplicemente tecnico ed economico, esso si è sempre
presentato sotto forme assai complesse di rapporti sociali, politici e culturali, a loro vol-
ta strettamente connessi a quelli propriamente economici. Per qualche tempo è andato di
moda affermare che le relazioni economiche costituissero la struttura di un sistema,
mentre le relazioni politiche, culturali e ideologiche ne costituissero la sovrastruttura;
oggi invece appare sempre più chiaro che i due aspetti del problema sono tra loro stret-
tamente connessi, e che solo nel loro insieme essi sono in grado di produrre il modo
complessivo di funzionare di quella forma di società umana che chiamiamo sistema e-
conomico. Le ideologie e la politica sono, dunque, parte integrante del sistema nel suo
complesso.
Se vogliamo alcuni esempi di questi modelli ideologici, possiamo cominciare ad
osservare che nell’antichità il principio basilare che sorreggeva l’intero sistema produt-
tivo era quello della diseguaglianza tra gli uomini; questo principio giustificava la ridu-
zione degli esseri umani in schiavitù e la loro utilizzazione come macchine. Questa vi-
sione dell’uomo e, in generale, tutte le altre concezioni dell’economia e delle stesse nor-
me giuridiche tipiche di quelle epoche avevano quasi sempre alla loro base delle giusti-
ficazioni ideologiche, o più propriamente religiose. L’identificazione tra le leggi delle
religioni e quelle della politica e dello stato, un fenomeno che oggi definiremmo fonda-
mentalismo, era pressoché totale. Tutti i legislatori emanavano le proprie leggi affer-
mando di essere stati ispirati da un dio. Nell’antico Egitto, ad esempio, il faraone era il
dio vivente sulla terra, e le norme che egli emanava relativamente alla forma della pro-

16
prietà della terra e del lavoro schiavistico erano ovviamente leggi divine; chi si fosse
opposto a quella forma di distribuzione della ricchezza si sarebbe opposto, dunque, non
ad un potere umano ma alla stessa volontà divina. Perfino nella illuminata Atene, sede
di straordinarie scuole filosofiche, e nella Roma monarchica e poi repubblicana, patria
del diritto razionale, il principio della origine divina delle leggi rimase a lungo un cardi-
ne delle ideologie dominanti. La sacralità della legge era evidentemente uno dei punti di
forza dell’obbligo di rispettarla. D’altra parte, quelli fin qui ricordati (con l’eccezione
parziale del caso ebraico) erano tutti sistemi che prevedevano che la terra fosse di-
stribuita tra gruppi sociali assai ristretti di proprietari, mentre la gran parte della popola-
zione era condannata ad essere esclusa dalla proprietà di questo fattore: dunque era ne-
cessaria una forte carica ideologica e religiosa, oltre che giuridica, per imporre questo
modello così distorto di distribuzione della ricchezza e per difendere la proprietà dagli
eventuali tentativi di rivolta.
Una medesima forte carica ideologica e religiosa, dovuta alla capillare diffusione
nell’intera Europa della religione cristiana, sorresse anche i sistemi economici apparsi
nel mondo occidentale in età medioevale. Il principio presente negli scritti di Paolo di
Tarso, forse il massimo fondatore del pensiero religioso cristiano, relativo al fatto che
omnis potestas a Deo, cioè che ogni autorità ha in Dio il suo fondamento, giustificava
ancora mille anni dopo la morte del loro autore, in pieno medioevo, una visione gerar-
chica della società, e assegnava a chi deteneva il potere un compito e un ruolo che an-
davano al di là delle funzioni politiche o economiche perché investivano direttamente il
mondo dell’etica, cioè delle scelte morali.
Anche questo atteggiamento costituiva, in realtà, un obbiettivo sostegno al fun-
zionamento del sistema, poiché il potere diveniva in qualche modo sacro se aveva come
obbiettivo non solo la realizzazione dell’utile, ma soprattutto del bene. Le incoronazioni
degli imperatori medioevali da parte dei papi erano la sintesi di questa investitura: chi
era re o imperatore per volontà di Dio non solo doveva governare in modo da realizzare
l’utile per il proprio popolo, ma soprattutto in modo da realizzare il bene. Ma questo
modello ideologico si presentava, tuttavia, come un’arma a doppio taglio, perché quan-
do il bene entrava in contrasto con l’utile, il conflitto diveniva dirompente. L’esempio
più classico di questa conflittualità è certamente quello rappresentato dall’affermazione,
presente in tutti i teologi e giuristi dell’età medioevale, che ogni interesse riscosso su un

17
capitale prestato rappresenta, per quanto basso, una forma di usura, e come tale va forte-
mente condannato. Ma il principio etico e l’ideale cristiano del prestito gratuito si scon-
travano con la realtà di un mercato già sviluppato della moneta e del credito, che invece
richiedeva che ogni cessione di capitali monetari fosse giustificata dall’aspettativa della
riscossione di un interesse. Quale mercante o banchiere avrebbe altrimenti acconsentito,
già nel medioevo, a prestare a titolo gratuito il proprio denaro? Eppure essi erano nella
maggior parte dei casi cristiani normalmente osservanti. Molti studiosi hanno ritenuto
che questo contrasto abbia ritardato la formazione di un sistema bancario di tipo moder-
no, ma anche se questo non è del tutto vero, resta il fatto che un principio ideologico era
in grado di esercitare una influenza enorme sulla realtà del sistema economico ed era in
grado di condizionarlo fortemente, nel bene come nel male.
Con l’avvento dei sistemi basati sulla combinazione tra capitale e forza di lavoro
salariata, i principi ideologici dominanti cominciarono a sganciarsi dai presupposti reli-
giosi, ma non per questo divennero meno importanti ai fini del funzionamento del si-
stema. Nella fase del capitalismo mercantile si sviluppò, ad esempio, l’idea dell’utilità
dell’intervento pubblico in economia; sorsero, perciò, alcuni principi fondamentali:
l’interventismo (lo stato deve intervenire direttamente nei processi economici come
soggetto attivo e protagonista); il dirigismo (lo stato deve guidare dall’alto e indirizzare
ai suoi scopi i processi economici); il protezionismo (lo stato deve proteggere la produ-
zione e il mercato nazionale, imponendo dazi sulle merci provenienti dall’estero). E tut-
to questo accadeva, naturalmente, agli inizi dell’età moderna, nelle stesse epoche cioè in
cui sorgevano i grandi stati nazionali europei, guidati da sovrani assoluti. Cominciò,
dunque, a prevalere l’idea che l’economia dovesse essere guidata dalla politica e dai fini
che questa si proponeva di raggiungere; e dal momento che la politica era una delle ma-
nifestazioni dell’esistenza dello stato assoluto moderno, l’economia divenne uno stru-
mento sottomesso ai fini che lo stato e i suoi governanti ritenevano opportuno realizza-
re. Se lo stato aveva bisogno di navi, di soldati e di cannoni per realizzare la sua politica
di potenza, l’economia aveva il compito di produrre le risorse necessarie.
Questi principi furono, invece, totalmente capovolti dall’avvento del capitalismo
industriale, che per raggiungere i suoi obbiettivi di massimizzazione dei profitti aveva
invece bisogno della massima libertà e autonomia possibile. Già nel 1776 Adam Smith
scriveva che l’intervento dello stato in economia o è inutile (quando le cose vanno bene)

18
o è dannoso (quando le cose vanno male, perché lo stato non può che peggiorarle). Si
trattava di una posizione estrema, ma introduceva il principio del liberismo, cioè della
libertà di iniziativa economica del singolo individuo, che a sua volta accompagnava il
sorgere del principio del liberalismo, cioè della libertà della rappresentanza politica,
s’intende del ceto dei benestanti.
Ora, interventismo e liberismo sono certamente due modelli di politica economi-
ca del tutto antitetici e presuppongono opposte visioni dell’uomo e delle attività umane,
e tuttavia a guardare da vicino le cose ci si accorge che le loro finalità non sono affatto
dissimili: si tratta, infatti, in tutti e due i casi di ideologie funzionali allo sviluppo eco-
nomico. Nel mondo del capitalismo mercantile, dunque nei secoli iniziali dell’età mo-
derna, il profitto generalmente scaturiva dal privilegio e dal monopolio, e l’intervento
pubblico diretto a proteggere i mercati e le capacità produttive interne, e a bloccare vi-
ceversa il più possibile il sopraggiungere di prodotti esteri, era una delle condizioni per
il successo di un sistema economico nazionale. Nel mondo contemporaneo del capitali-
smo industriale, invece, la moltiplicazione semplicemente enorme delle capacità produt-
tive ha richiesto l’apertura dei mercati e la libera circolazione delle merci, per cui il pro-
fitto scaturisce piuttosto dalla libertà di iniziativa economica e dall’assenza di impedi-
menti politici o giuridici. Tutto ciò richiede libertà di movimento per le merci, per gli
uomini, per i capitali, come anche richiede la presenza di un potere politico rispettoso di
queste libertà e anzi in qualche modo custode e garante di esse. Oggi si è arrivati al pun-
to di ritenere che la democrazia politica sia un elemento basilare dello sviluppo econo-
mico, e non c’è piano di aiuti internazionali ai paesi in via di sviluppo che non richieda
preliminarmente a quei paesi cambiamenti politici in senso democratico; si tratta del
punto di arrivo di un lungo processo di progressivo sganciamento dell’economia dalla
sudditanza alla politica.
È bene ricordare, tuttavia, che libertà economica non vuol dire assenza dello sta-
to, anzi l’assenza dello stato rappresenterebbe un forte ostacolo allo sviluppo. Lo stato,
infatti, è tenuto a fornire le regole del funzionamento del sistema, regole che devono es-
sere il più possibile astratte, cioè tali che nel loro rispetto l’individuo sia tuttavia libero
di attivarsi economicamente. In una situazione in cui mancasse un potere pubblico in
grado di garantire il rispetto delle regole, dunque in presenza di un caos amministrativo
e giudiziario, gli investitori porterebbero via immediatamente i propri capitali. Lo stato

19
ancora oggi ha, dunque, delle funzioni essenziali per il buon funzionamento del sistema
economico: l’imposizione e il rispetto delle regole del giusto funzionamento del merca-
to; il mantenimento della compatibilità tra sviluppo e ambiente naturale; il monopolio
nell’offerta di moneta e la garanzia del suo valore; la creazione di infrastrutture di tra-
sporto e di comunicazione efficienti o almeno la forte vigilanza sul loro funzionamento;
la creazione di un apparato giudiziario che permetta di colpire rapidamente gli abusi e-
conomici; una politica fiscale adatta allo sviluppo; una politica di sostegno dei redditi
dei meno abbienti per sostenere la loro domanda di beni e servizi; queste e infinite altre
possono essere le forme di intervento pubblico a favore dello sviluppo. Da un lato, dun-
que, lo stato deve essere rispettoso della libertà di iniziativa economica dei singoli indi-
vidui, ma dall’altro deve anche essere determinato a imporre delle norme comuni che
tutti i soggetti economici devono accettare e seguire. Questa presenza, limitata ma forte,
è ciò che serve ad evitare che il sistema economico si trasformi in una lotta senza quar-
tiere e senza regole, nella quale in realtà le regole ci sarebbero ugualmente, ma sarebbe-
ro solo quelle dettate dai più forti a proprio esclusivo vantaggio.

20
IL CICLO ECONOMICO, LE CRISI E LE POLITICHE KEYNESIANE

1. La teoria del ciclo economico.

Nel corso dell’Ottocento e fino alla prima guerra mondiale la crescita del siste-
ma del capitalismo nelle aree più evolute dell’emisfero settentrionale apparve inarresta-
bile; un imponente elemento di modernizzazione economica, sociale e culturale era ap-
parso nella storia, e in poco più di un secolo aveva rivoluzionato in molti luoghi della
terra modi di produrre e di consumare antichi di millenni. Ma già nello stesso secolo gli
studiosi di economia politica cominciarono ad accorgersi che l’affermazione del model-
lo capitalistico della produzione e dello scambio, anche nelle situazioni più positive,
presentava sempre e comunque alcune contraddizioni interne che impedivano al sistema
di crescere in modo lineare e progressivo. Gli economisti si accorsero che queste con-
traddizioni, che provocavano gravi squilibri sociali, erano di tipo propriamente econo-
mico e provocavano una forte discontinuità nel funzionamento dell’economia: la storia
dello sviluppo industriale e della espansione dei mercati era costituita da un susseguirsi
di momenti di forte crescita della produzione e dei redditi, cui seguivano fasi di ripie-
gamento e di caduta dei profitti e degli investimenti. Questo sviluppo non lineare ma ca-
ratterizzato piuttosto da un andamento ad ondate aveva interessato tutti i paesi che si e-
rano avviati alla modernizzazione e all’industrializzazione.
L’osservazione di queste fasi di accelerazione e di rallentamento dello sviluppo e
la ricerca delle ragioni che le producevano spinsero gli studiosi ad elaborare il concetto
di ciclo economico. Ci si accorse, cioè, che ogni fase di crescita degli investimenti, della
produzione, del consumo e del volume degli scambi raggiungeva sempre e inevitabil-
mente un momento culminante, definito crisi, che segnava l’inversione della tendenza;
la crisi era a sua volta seguita da una fase di caduta dei dati economici e quindi da
un’altra ancora di ristagno. Il periodo di ristagno o di depressione preparava a sua volta
una nuova fase di crescita, e il ciclo tendeva così a riprodursi continuamente, perché
queste fasi non si succedevano semplicemente l’una dopo l’altra, ma erano l’una causa
dell’altra. In altre parole, la fase di crescita aveva in sé le ragioni del sopraggiungere

21
della crisi, e il periodo di ristagno aveva in sé le condizioni che preparavano la nuova
fase di sviluppo.
Nella seconda metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento questo an-
damento ciclico dell’economia fu oggetto di importanti dibattiti, nel tentativo di com-
prendere i meccanismi che agivano in esso, e con lo scopo di intervenire per attenuare
gli aspetti dolorosi delle fasi di crisi. Il cambiamento della cultura economica e soprat-
tutto il sorgere di una mentalità statistica, ovvero l'idea che lo studio dell'economia po-
tesse raggiungere livelli di maggiore scientificità mediante una raccolta organica e ordi-
nata di dati economici, metteva inoltre gli economisti in condizione di misurare i livelli
di questi continui ondeggiamenti del sistema. Si cominciò a calcolare, ad esempio,
quanti beni venissero prodotti e quanti consumati in un dato periodo di tempo, e ciò co-
stituiva già un buon criterio per stabilire il succedersi di fasi espansive e di altre recessi-
ve; ma lo strumento migliore di misurazione della realtà economica era certamente quel-
lo costituito dall’osservazione dei prezzi. L’andamento dei prezzi era, infatti, il segnale
più evidente delle variazioni che intervenivano di volta in volta nel funzionamento del
sistema: cominciarono ad essere presi in considerazione e misurati non solo i prezzi del-
le merci, ma anche quello del lavoro, cioè il salario, e il costo del denaro, cioè il tasso
di interesse applicato alle operazioni di credito. Anche questi valori avevano un anda-
mento oscillante e dai loro dati si poteva ugualmente dedurre l’esistenza di fasi alterne
di sviluppo e di regresso.
Di fronte all’andamento ciclico dell’economia dei paesi industriali, gli studiosi
presero posizioni assai diverse. Alcuni economisti che si richiamavano ai principi della
scuola classica inglese, e che perciò vennero definiti neoclassici (tra questi gli inglesi
Alfred Marshall e William Jevons, il francese Léon Walras, l’italiano Vilfredo Pareto),
ignorarono in realtà quasi del tutto il concetto di ciclo e di crisi economica e affermaro-
no che il sistema del capitalismo sarebbe riuscito a trovare spontaneamente un suo equi-
librio; anche per questo motivo essi in politica economica predicavano quasi sempre il
classico principio del laissez-faire (in francese: “lasciate fare”), riprendendo le idee di
Adam Smith sulla assoluta necessità e convenienza del non intervento dello Stato in ma-
teria economica.
Nella seconda metà dell’Ottocento, Karl Marx fu, invece, tra i primi ad osservare
e descrivere l’andamento ciclico dell’economia come un fatto normale e costante, pre-

22
sente non solo nel sistema del capitalismo ma anche in qualsiasi altro sistema economi-
co, anche di tipo preindustriale. Secondo Marx, dunque, la presenza di una fase di crisi
non rappresentava un'anomalia, ma piuttosto la normalità del funzionamento
dell’economia; per di più la crisi risultava estremamente utile, perché spingeva a rinno-
vare il funzionamento del sistema. Dopo Marx, uno dei più acuti studiosi del ciclo eco-
nomico fu certamente Joseph Schumpeter che nei primi anni del Novecento elaborò una
teoria dello sviluppo economico che aveva il suo fondamento nel concetto di ciclo eco-
nomico e nella funzione delle innovazioni. Semplificando il suo pensiero, si può dire
che secondo Schumpeter quando un imprenditore riesce ad innovare la tecnologia pro-
duttiva, riesce di conseguenza a contrarre i costi di produzione e va incontro ad una fase
di raccolta di profitti; tutto ciò accresce la propensione ad investire e spinge in avanti lo
sviluppo economico. Ma quando la stessa tecnologia si è ormai diffusa e dunque non c’è
più il vantaggio comparato (cioè il vantaggio di un imprenditore o di un settore produt-
tivo rispetto agli altri) derivato dal saper produrre a costi minori, allora cadono i profitti
e diminuisce la propensione ad investire. In questo caso il funzionamento del sistema
entra in una fase di crisi; da questa si esce al sopraggiungere di un'ulteriore ondata di
innovazioni che rechi nuovi profitti, e così via ciclicamente. Sia per Marx che per
Schumpeter, dunque, le ragioni del continuo sopraggiungere delle crisi risiedevano non
in qualcosa che dall’esterno veniva a turbare l’equilibrio economico, ma negli stessi
meccanismi del funzionamento e nelle stesse modalità dello sviluppo del sistema capita-
listico.

2. Il mercato monopolistico e le crisi economiche.

L’andamento ciclico dell’economia, caratterizzato a scadenze abbastanza costan-


ti e prevedibili da fasi di crisi, accompagnò dunque il sistema del capitalismo fin dal suo
sorgere e interessò tutti i paesi che si avviarono alla modernizzazione. Il segnale
dell’insorgere della crisi era quasi sempre dato dal cattivo funzionamento del mercato,
sia interno che internazionale: in esso si verificava una forte caduta della domanda, che
portava al blocco della produzione e al conseguente licenziamento degli operai. Il fe-
nomeno della disoccupazione di massa fece, dunque, il suo ingresso nella storia già nel

23
corso del XIX secolo e si rafforzò ancora di più nel corso del Novecento, quando diven-
ne, come vedremo, il simbolo stesso del sopraggiungere di una fase di crisi. In una so-
cietà preindustriale di tipo ancora prevalentemente agricolo, la disoccupazione era un
fatto ignoto o assai marginale: la popolazione era sempre scarsa e il lavoro agricolo ri-
chiedeva le braccia di intere e numerose famiglie insediate sulla terra. Nella società in-
dustriale di massa dei paesi più avanzati, con la popolazione crescente di numero e
sempre più concentrata nelle città, la caduta della produzione, la chiusura delle fabbri-
che o degli uffici, la cessazione delle attività commerciali o artigianali, erano tutti fe-
nomeni che avevano ripercussioni immediate sui redditi degli individui: cadevano certo
i profitti, ma le conseguenze più disastrose si riversavano soprattutto sui lavoratori di-
pendenti, i quali, venendo licenziati, perdevano il salario, che rappresentava quasi sem-
pre la loro unica forma di reddito disponibile. E quando le crisi economiche erano di
una certa gravità, il fenomeno della disoccupazione andava a colpire masse sempre più
numerose di lavoratori.
Quali erano le ragioni del fatto che la produzione si bloccava a scadenze cicliche
abbastanza costanti, creando crisi economica e disoccupazione? Riprendendo alcuni e-
lementi già individuati da David Ricardo, e in seguito ripresi dallo stesso Marx e poi da
Schumpeter, gli economisti si accorsero che in un mercato concorrenziale, cioè in un
mercato caratterizzato dal fatto che molti imprenditori offrono i propri beni in una situa-
zione di rivalità reciproca, il saggio del profitto, cioè la resa del capitale investito, tende
inesorabilmente a diminuire, e ciò accade perché ogni imprenditore per vendere di più
deve presentare prodotti di qualità crescente a prezzi più bassi possibili. I prezzi bassi
limitano il profitto cosicché sopraggiunge un momento in cui non è più conveniente al-
largare gli investimenti perché il rendimento atteso sarebbe troppo basso. Per investire
sempre di più e mantenere il più possibile inalterati i livelli del loro profitto, gli impren-
ditori possono allora ricorrere a tre meccanismi economici fondamentali: a) possono in-
vestire in tecnologie e macchinari, che contraggano i costi della produzione, potenzian-
do la produttività del lavoro degli operai, e permettano così di ottenere gli stessi risultati
utilizzando una minore quantità di forza lavoro; b) possono cercare di far scendere diret-
tamente il costo del lavoro, tentando di mantenere più bassi possibili i livelli dei salari;
c) possono creare aziende sempre più grandi o accorpare varie aziende in un unico si-
stema produttivo; in altre parole, possono cercare di dominare il mercato creando un

24
monopolio dell’offerta di un determinato bene: in tal modo risparmiano sui costi genera-
li di produzione e impongono ad un mercato monopolistico, cioè totalmente controllato
da un unico produttore, i prezzi per loro più convenienti. Ma questi rimedi sono in qual-
che misura peggiori del male che vogliono curare; ed infatti essi provocano i seguenti
fenomeni: a) gli investimenti in nuove tecnologie accrescono la capacità produttiva e
fanno aumentare il numero dei beni prodotti e offerti al mercato; b) la diminuzione dei
salari e la conseguente stagnazione della loro capacità di acquisto, in assenza di una si-
gnificativa esportazione di beni verso l’estero, rende, al contrario, impossibile la crescita
parallela della domanda di beni di consumo; c) la creazione di un monopolio produttivo,
eliminando la libera concorrenza, spinge a sua volta a mantenere alti i livelli dei profitti
quasi esclusivamente tenendo alti i livelli dei prezzi. Si viene a creare, dunque, una si-
tuazione in cui l’offerta è sempre più potenziata, e la domanda è sempre più indebolita,
e i prezzi di conseguenza tendono a cadere; tutto ciò spinge gli imprenditori, e soprattut-
to i monopolisti, a bloccare la produzione e a licenziare la forza lavoro. Da ciò si deduce
che in un sistema di tipo capitalistico la fase critica è destinata a insorgere ciclicamente
come conseguenza dello squilibrio che inesorabilmente si crea tra la capacità crescente
di produrre e di offrire beni al mercato (sostenuta dall’espansione degli investimenti e
della tecnologia) e la capacità stagnante di domandare e consumare gli stessi beni da
parte di salariati, la cui capacità di acquisto, cioè il salario, cresce in misura costante-
mente minore della crescita della produttività. Si tratta, dunque, in linea di massima, di
una crisi da sovrapproduzione, cioè dovuta ad una capacità di produrre troppo forte e ad
una produzione effettiva troppo abbondante rispetto alla domanda di beni di consumo; e
quando l'offerta è troppo più alta della domanda, i prezzi cadono, i profitti scompaiono e
gli imprenditori smettono di investire. Naturalmente quando diminuiscono gli investi-
menti, la produzione si ferma e non vengono più distribuiti salari, con conseguenti li-
cenziamenti e disoccupazione.
Nel corso dell’Ottocento gravi crisi di sovrapproduzione si realizzarono ciclica-
mente in tutti i paesi industrializzati o avviati all’industrializzazione, ma i ritmi di cre-
scita complessiva del sistema erano talmente forti che il mercato da solo quasi sempre
riusciva prima o poi ad assorbire la disoccupazione che si veniva a creare, in modo tale
che il numero dei senza lavoro restava ragionevole, cioè non pericoloso per il funzio-
namento del sistema. Quando, ad esempio, gli operai inglesi nei primi decenni del XIX

25
secolo distruggevano i nuovi macchinari (fenomeno che prese il nome di luddismo, dal
nome del tessitore inglese Ned Ludd che nel 1799 aveva distrutto un telaio meccanico),
lo facevano perché ritenevano che essi togliessero posti di lavoro a numerosi individui;
ma in quell’epoca i loro timori non erano giustificati perché i ritmi dell’espansione degli
investimenti erano talmente forti che coloro che venivano licenziati in un settore trova-
vano quasi subito lavoro in un altro. Se questo non accadeva, subentrava il fenomeno
dell’emigrazione di massa a raffreddare la pressione dei disoccupati. Si può dire, in-
somma, che nel corso del XIX secolo, per molti decenni la dinamicità dell’economia in-
dustriale è stata tale da consentire al mercato di assorbire gli squilibri, talora anche forti,
che pure di volta in volta si producevano nelle nazioni più avanzate, e di rilanciare la
crescita degli investimenti.
Ma fra la fine del XIX secolo e l’inizio del primo conflitto mondiale, durante la
cosiddetta belle époque – l’«epoca bella», appellativo giustificato dal benessere di cui
godeva solo la florida borghesia europea e americana –, il livello delle contraddizioni
sia sociali che economiche cominciò pericolosamente a crescere e l’intervento dello Sta-
to in economia cominciò ad apparire sempre più un elemento indispensabile di ricosti-
tuzione dell’equilibrio messo in crisi.

3. La crisi del 1929.

Ai primi del Novecento e durante la prima guerra mondiale (1914-1918), un im-


portante elemento intervenne a bilanciare lo squilibrio crescente tra offerta e domanda:
il bisogno che i governi avevano di potenziare e armare gli immensi eserciti che si pre-
paravano a scontrarsi sui campi di battaglia. La corsa agli armamenti e la guerra che
immediatamente scoppiò riuscirono ad evitare la crisi di sovrapproduzione, perché le
spese militari costituivano una grande occasione di potenziamento dei consumi. Tutto
questo vale naturalmente sul piano astratto del ragionamento economico, perché la guer-
ra ha un tale costo in termini di sofferenze e di tragedie umane, che non può neanche es-
sere presa in considerazione neanche in teoria come soluzione dei problemi economici.
Nel 1918 e negli anni appena successivi, la fine della fase di intensi consumi
provocata dalla guerra riaprì per le strutture economiche del mondo industrializzato, e

26
soprattutto d'Europa e d'America, il problema delle crisi economiche cicliche. Le indu-
strie che avevano lavorato a pieno ritmo per rifornire gli eserciti combattenti dovettero
essere riconvertite alla produzione di nuovi beni non militari; questo voleva dire per la
maggior parte degli imprenditori il ritorno ad un libero mercato senza la comoda prote-
zione della domanda pubblica; non tutti vi riuscirono e molte aziende cominciarono a
fallire, e spesso i fallimenti delle imprese portavano al fallimento delle banche che le
avevano finanziate e che non riuscivano a far rientrare i capitali prestati. A sua volta la
massa dei soldati che erano stati mobilitati (si trattava di molti milioni di uomini) ritor-
nava alla vita pacifica e si trasformava in un esercito di disoccupati in cerca di una pos-
sibile sistemazione. La situazione era aggravata dal fatto che tutti i paesi europei, anche
i vincitori, uscirono dalla guerra economicamente stremati e tutti più o meno fortemente
indebitati nei confronti degli Stati Uniti d’America, la cui crescente potenza economica
aveva di fatto finanziato gli sforzi bellici dell’Inghilterra, della Francia e dell’Italia. Ne-
gli anni venti del Novecento, dunque, mentre i paesi sviluppati europei si avviavano ad
una ripresa economica assai lenta e difficile, le strutture industriali americane conobbero
una crescita produttiva vertiginosa senza precedenti. Facendo propri i principi del taylo-
rismo, le grandi imprese americane erano ormai indirizzate verso la produzione in serie
di beni di consumo: automobili ed elettrodomestici come frigoriferi, aspirapolvere e so-
prattutto apparecchi radio (alla fine degli anni venti ne erano stati venduti 10 milioni nei
soli Stati Uniti) si andavano ormai diffondendo in ogni casa del ceto medio. L'aumento
costante dei consumi faceva apparire inarrestabile il processo di crescita dell'industria
americana. In tal modo gli Stati Uniti avevano ormai di fatto soppiantato l’Inghilterra
nel ruolo di potenza regolatrice e guida delle economie internazionali, anche se presero
coscienza troppo lentamente del ruolo che la storia stava loro assegnando.
Ma la fase bellica aveva provocato dei forti cambiamenti non soltanto nella col-
locazione internazionale delle strutture produttive, nelle quali gli Stati Uniti ormai, co-
me si è detto, primeggiavano, ma anche nel peso che i singoli paesi avevano nel sistema
internazionale degli scambi e negli stessi mercati finanziari. Per quanto riguarda il
commercio internazionali, sia delle merci che delle materie prime, gli Stati Uniti acqui-
starono sempre più un ruolo di paese esportatore, e cominciarono a rifornire sia di beni
di consumo che di capitali, i paesi europei che avevano subito nei propri territori la
guerra e che ne erano usciti stremati e impoveriti. Una consistente quota di aiuti e di fi-

27
nanziamenti statunitensi, quasi sempre composta da capitali privati, si riversò in partico-
lare sulla Germania, in vista dei profitti attesi dalla ricostruzione dell’economia tedesca.
Questo flusso si interruppe attorno al 1928, quando in Germania cominciarono a sorgere
i primi segnali di una fase di crisi, e questa stessa interruzione provocò l’ulteriore ag-
gravamento della crisi. Per di più questi capitali non più inviati in Europa si riversarono
sulla borsa di New York, contribuendo alla formazione della bolla speculativa destinata
a scoppiare nel 1929.
Per comprendere questi passaggi, è necessario tener conto che in questo stesso
periodo un altro aspetto dell’economia mondiale cominciava a modificarsi profonda-
mente, quello dei mercati finanziari. Nei paesi capitalistici avanzati l’economia finan-
ziaria, basata sulle operazioni speculative, cioè sull'investimento di capitali nell'acquisto
e nella vendita di azioni di società quotate in borsa – le società per azioni, appunto – di-
veniva sempre più potente e si avviava a esercitare il predominio sulle strutture produt-
tive industriali, cioè sulla cosiddetta economia reale. Si trattava di un fenomeno assai
importante, che era destinato in seguito a rafforzarsi sempre di più. Tra le caratteristiche
fondamentali dell’economia finanziaria bisogna ricordare: a) che si presta ad operazioni
estremamente veloci, a causa della forte mobilità dei capitali che possono facilmente es-
sere spostati da un settore all’altro, al contrario delle strutture produttive che solo con
difficoltà possono essere riconvertite; b) che può facilmente attivare operazioni di tipo
speculativo, cioè produttrici di profitto nel breve periodo, al contrario di una struttura
industriale che richiede tempo e notevoli capacità organizzative per produrre redditi.
Il movimento dei capitali aveva già da molti secoli nella borsa valori un mercato
estremamente rapido di collocamento e di investimento, e tutte le grandi capitali euro-
pee e americane avevano già una borsa, cioè un luogo dove era possibile acquistare o
vendere rapidamente e facilmente sia le azioni come anche i titoli di credito emessi dal-
lo Stato o dagli altri enti pubblici (ad esempio i titoli del debito pubblico, cioè i certifi-
cati che danno diritto alla restituzione dei capitali che i privati cittadini hanno prestato
allo Stato e consentono di riscuotere i relativi interessi). Negli anni venti del Novecento
ci fu negli Stati Uniti, e in parte anche in Europa, una vera esplosione degli investimenti
in borsa, dovuta principalmente a ragioni di speculazione; in altre parole, si acquistava-
no le azioni non per riscuotere al momento opportuno i dividendi, cioè la parte spettante
ad ogni azione del profitto globalmente prodotto dall’attività dell’impresa, ma quasi e-

28
sclusivamente nella speranza di poterle rivendere al più presto ad un prezzo maggiore e
lucrare quindi sulla differenza tra valore d’acquisto e valore di vendita. Il valore delle
azioni è infatti sottoposto alle leggi della domanda e dell’offerta: cresce con la pressione
della domanda e viceversa si abbassa quando prevale l’offerta di chi vuole vendere. Co-
sì, nel corso degli anni venti, quasi tutti i capitali prodotti in eccesso negli Stati Uniti fu-
rono convogliati verso il mercato borsistico, furono cioè diretti all’acquisto di azioni
delle imprese americane, e il valore delle azioni, sotto la spinta di una crescente doman-
da, salì progressivamente a livelli che non avevano più nulla a che fare con il valore rea-
le delle aziende e con la loro concreta possibilità di produrre profitti; e la bolla specula-
tiva, cioè il rigonfiamento artificioso dei prezzi, era pronta a scoppiare da un momento
all’altro.
Nel 1929 entrambi i nodi non sciolti del sistema capitalistico in atto, quello
dell’economia reale e quello dei mercati finanziari, provocarono la grande crisi, come
fu subito definita dagli osservatori. Il valore delle azioni, gonfiato solo dalla speculazio-
ne, cominciò necessariamente a diminuire, e la corsa alla vendita che immediatamente si
scatenò (perché si tentava di dar via le azioni prima che perdessero troppo valore) lo fe-
ce crollare ancora di più, gettando nel panico milioni di piccoli azionisti americani che
nel giro di alcuni giorni, tra il 24 e il 29 ottobre 1929, persero tutti i loro risparmi. Ma a
monte di questo fenomeno le ragioni della crisi finanziaria vanno rintracciate nel blocco
dell’economia reale provocato dalla crisi di sovrapproduzione: le strutture produttive
industriali americane erano troppo forti rispetto alla capacità che il mercato interno ave-
va di assorbire i loro prodotti, a causa della crisi in atto nel settore agricolo che diminui-
va la capacità di acquisto dei ceti rurali. Va aggiunto, inoltre, che la ripresa economica
europea, funzionale alla crescita del mercato americano che trovava nei paesi d'oltreo-
ceano uno sbocco ulteriore per i propri prodotti, era finanziata da ingenti prestiti e inve-
stimenti di capitale americano. Quando gli investitori statunitensi si rivolsero verso le
più redditizie operazioni borsistiche anche il tasso di crescita dell'economia europea su-
bì una battuta d'arresto e le importazioni dei prodotti dell'industria americana diminui-
rono sensibilmente.
La debolezza della domanda provocò allora tutte le conseguenze disastrose ca-
ratteristiche della crisi di sovrapproduzione: il crollo del valore delle azioni, che colpì i
piccoli risparmiatori, fu accompagnato dalla caduta a picco dei prezzi agricoli e indu-

29
striali, e naturalmente anche di quelli delle materie prime non più richieste dalle struttu-
re produttive; questo da un lato gettò nella miseria milioni di piccoli coltivatori e
dall’altro portò al fallimento un altissimo numero di imprese produttrici di manufatti. Le
imprese fallite ovviamente licenziarono le maestranze, cioè smisero di distribuire salari,
e questo a sua volta indebolì ancora di più la domanda, aggravando ulteriormente le
condizioni critiche dell’economia.
Il culmine di questo processo fu rapidamente raggiunto quando i tentacoli della
crisi raggiunsero le banche. Negli Stati Uniti, accanto ad alcune grandi banche naziona-
li, vi era un altissimo numero di banche locali o regionali che finanziavano la produzio-
ne agricola dei piccoli coltivatori o quella industriale delle imprese di interesse locale;
tutto questo apparato creditizio entrò in uno stato di forte sofferenza (sofferenze è il ter-
mine con il quale le banche designano i crediti non riscossi) perché i debitori falliti non
erano più in grado di restituire alle banche i capitali ricevuti in prestito. Il fallimento
delle banche aveva a sua volta un altissimo impatto sociale, perché colpiva la massa dei
semplici risparmiatori, cioè di coloro che non avevano acquistato azioni e che quindi si
sentivano al riparo dal rischio. Infatti, in quelle epoche le banche erano considerate a
tutti gli effetti imprese come tutte le altre, e quindi il risparmio non era ancora protetto
da speciali leggi, per cui il fallimento di un istituto di credito portava alla pura e sempli-
ce perdita dei fondi conferiti dai risparmiatori, senza alcuna possibilità di restituzione o
di rimborso. I nuovi poveri si aggiunsero ai milioni di disoccupati creati dall’interru-
zione delle attività produttive, e le città americane cominciarono ad essere punteggiate
da lunghe file di individui ormai privi di lavoro e di qualsiasi altra fonte di reddito che
attendevano di essere nutriti dalle istituzioni della assistenza pubblica o religiosa.
Insieme alle strutture produttive e agli istituti di credito entrò in crisi anche il si-
stema degli scambi internazionali. Il volume e il valore dei beni trasportati e scambiati
fu fortemente ridimensionato dalla caduta del credito al commercio, dalla diminuite ne-
cessità di materie prime da parte delle strutture produttive e in generale dalla diminu-
zione dei redditi dei consumatori. Il mercato americano si rinchiuse in se stesso e con
una legislazione fortemente protezionistica bloccò l’arrivo di prodotti provenienti dalle
industrie europee, inducendo i governanti europei ad adottare le stesse misure per pro-
teggere il proprio mercato. Anche per questa via la crisi economica giunse in Europa,
con gli stessi effetti deleteri che abbiamo osservato negli Stati Uniti: la debolezza della

30
domanda provocò anche in Europa la caduta a picco della produzione, che nel periodo
compreso tra il 1929 e il 1932 diminuì complessivamente di oltre il 30 per cento. La
perdita di ingenti profitti industriali ebbe conseguenze altrettanto distruttive sui sistemi
bancari dei principali paesi del vecchio continente. Andarono incontro a fallimenti o a
grandi disagi sia gli istituti di credito che finanziavano il commercio sia le banche che
avevano conferito grandi quantità delle proprie risorse alle imprese industriali: i capitali
così immobilizzati furono, infatti, rapidamente perduti a causa dei fallimenti industriali e
in generale per la caduta dei profitti delle aziende in precedenza finanziate.

4. La risposta alla crisi: l’economia keynesiana.

Di fronte al sopraggiungere della crisi i governi dei grandi paesi occidentali non
si resero conto immediatamente che era necessario ricorrere a misure straordinarie di
politica economica e monetaria. I principi teorici classici erano sempre dominanti, e in
particolare si pensava: a) che la moneta nazionale dovesse essere tenuta ad un livello
stabile di valore di fronte all’oro e di fronte alle altre monete; b) che il bilancio dello
Stato dovesse essere mantenuto in pareggio. Si trattava di due principi basilari
dell’economia classica, sui quali tradizionalmente si misuravano la solidità e
l’affidabilità di una nazione; ma nelle condizioni create dalla grande crisi del 1929, era-
no divenuti invece due forti ostacoli alla ripresa della produzione e alla rinascita
dell’economia.
Nell’ottobre del 1929, quasi tutte le nazioni occidentali erano ormai tornate, do-
po l’intervallo della guerra, a mantenere il valore della propria moneta ancorato all’oro:
il cosiddetto gold standard. La stabilità del valore di tutte le monete di fronte all’oro,
cioè la certezza di poter convertire la propria moneta in una quantità prefissata e costan-
te di oro, portava di conseguenza, come si è detto, ad un sistema di cambi altrettanto
stabili tra una moneta e l’altra (e infatti si parlava più propriamente di gold exchange
standard, per indicare la finalità di un rapporto stabile nel cambio tra le monete). In una
situazione di normale crescita economica tutto ciò favoriva gli scambi internazionali,
perché eliminava il rischio del cambio; ma in una fase di crisi il mantenimento del gold
standard, che richiedeva forti politiche di difesa della moneta contro l’inflazione, cioè

31
contro la perdita della capacità di acquisto della moneta, danneggiava ulteriormente la
situazione. Infatti, per difendere la capacità di acquisto della moneta in termini di oro le
banche centrali alzavano il tasso di sconto, cioè il tasso di interesse con il quale il dena-
ro veniva prestato dalla banca centrale alle altre banche; ma in questo modo il denaro
veniva a costare di più e gli imprenditori investivano di meno e smettevano di assumere
salariati: anche per questa via, dunque, la disoccupazione tendeva ad aumentare. Si in-
staurava in questo caso una situazione di deflazione, cioè di valore troppo alto della mo-
neta rispetto agli altri beni, che aggravava la situazione della crisi economica. Alla crisi
di sovrapproduzione si aggiungeva, quindi, una crisi di deflazione. La definizione di
questo concetto è molto importante perché in esso sono riassunti gli elementi essenziali
della situazione critica che si era andata creando nell'economia occidentale: bassi salari
e disoccupazione, e conseguente insufficienza della domanda; alti tassi di interesse che
producono il crollo degli investimenti; alto valore della moneta che conduce alla caduta
dei prezzi.
Negli Stati Uniti d’America, paese che ormai era diventato il leader dell’econo-
mia occidentale, tra il 1929 e il 1932 il presidente Hoover, esponente del partito repub-
blicano, cercò di governare la fase di depressione, caratterizzata da punte di 14 milioni
di disoccupati (in Europa raggiunsero i 15 milioni), appunto con i provvedimenti
dell’economia classica: la difesa della capacità di acquisto della moneta, il pareggio del
bilancio, il non intervento dello Stato. I risultati furono inconsistenti. Ma nel 1933 di-
venne presidente un esponente del partito democratico che intendeva introdurre impor-
tanti innovazioni nella politica economica, Franklin Delano Roosevelt. Questi intuì che
la situazione era talmente grave che il mercato da solo non avrebbe mai potuto risolvere
le grandi contraddizioni in cui il sistema era caduto, e decise di sviluppare un forte in-
tervento dello Stato a sostegno della domanda. Fu elaborato, pertanto, un New Deal
(«nuovo corso» o «nuovo patto») che in sostanza consisteva in un insieme di provvedi-
menti con i quali lo Stato entrava nella vita economica e la guidava pesantemente. Anzi-
tutto il dollaro fu abbandonato alla svalutazione: la moneta americana perse molta della
sua capacità di acquisto, ma questo rese i prodotti statunitensi meno costosi all’estero e
favorì la ripresa delle esportazioni. Il sistema bancario fu riorganizzato: la ristruttura-
zione, quando era necessario, fu finanziata con denaro pubblico, e questo diede nuova
fiducia ai risparmiatori. Fu messa in circolazione una notevole quantità di moneta: come

32
sussidio ai disoccupati, ma anche soprattutto sotto forma di prestiti a tassi agevolati a
favore dei cittadini indebitati verso le banche o verso le società edilizie, e in tal modo
anche queste aziende venivano rifinanziate. Furono emanati provvedimenti di riorganiz-
zazione della produzione agricola, cercando di limitarla proprio per evitare nuove forme
di sovrapproduzione che avrebbero depresso i prezzi. Furono inoltre varate importanti
riforme fiscali e di sicurezza sociale. Si dette avvio anche ad un vasto programma di la-
vori pubblici che creavano nuovi posti di lavoro e assorbivano parte della produzione
industriale. In sostanza lo Stato interveniva là dove la capacità di acquisto dei privati era
scarsa o nulla; in tal modo aumentava il numero dei consumatori, si rinforzava cioè la
domanda di salute, di istruzione, di consumi di base o voluttuari e così via. Tutto questo
implicava che la spesa pubblica crescesse molto e che il bilancio dello Stato non fosse
più in pareggio; ma i risultati economici erano tali da controbilanciare con gli enormi
vantaggi della ripresa della produzione l’eventuale crescita dell’indebitamento pubblico.
La svalutazione del dollaro e l’espansione dell’offerta di moneta portarono ovviamente
ad una situazione di leggera inflazione; ma questo si rivelò un dato ulteriormente positi-
vo, perché permetteva di superare la crisi di deflazione: i prezzi cominciarono a risalire
e gli imprenditori furono nuovamente stimolati ad investire.
Dunque, con il rafforzamento dell’intervento pubblico, venne eliminata la causa
stessa della crisi e della successiva depressione, cioè la debolezza della domanda. Ed è
importante sottolineare che questa politica congiungeva la ripresa economica ad una se-
rie di importanti riforme sociali, perché il rafforzamento della domanda avveniva mi-
gliorando la qualità della vita, cioè il livello dei consumi, delle classi meno abbienti.
Tali provvedimenti ebbero una notevole ripercussione sulla produzione indu-
striale. In questo settore gli Stati Uniti avevano conquistato il primato mondiale già
prima della guerra del ‘14-18; durante il conflitto e negli anni successivi questo primato
si era andato rafforzando, anche perché il territorio americano non aveva subito alcun
danno non essendo stato teatro di battaglia; soltanto il sopraggiungere della crisi aveva
bloccato la crescita della produzione. Nel corso degli anni trenta la ripresa della doman-
da, finanziata dall’intervento pubblico, spinse di nuovo in avanti i livelli della produzio-
ne e il mercato americano fu letteralmente inondato da prodotti industriali utili per mi-
gliorare il benessere e la qualità della vita. I settori che andarono incontro alla maggiore
espansione furono quello dell’automobile (nel 1938 negli USA le vetture circolanti rag-

33
giunsero il numero di 30 milioni), dell’edilizia, degli elettrodomestici (è l’epoca in cui
cominciarono a diffondersi il frigorifero, lo scaldabagno, le cucine a gas, la radio). Eb-
bero inoltre un significativo incremento l’industria cinematografica, che era già sorta
prima della guerra, ma che negli anni Trenta divenne un fenomeno anche culturale di
massa; l’industria aeronautica, che era stata in realtà poco utile negli anni del conflitto,
ma che si sviluppò enormemente quando cominciò a produrre aerei civili in grado di at-
traversare l’Atlantico e collegare gli USA con il vecchio continente.
Ciò che accadeva contemporaneamente in Francia e in Inghilterra confermava
l’esistenza dei meccanismi economici fin qui descritti. In Francia la crisi economica
giunse in ritardo rispetto al resto del mondo; la banca centrale francese aveva fortissime
riserve di oro e questo le permise di difendere a lungo la convertibilità del franco senza
che fosse necessario prendere provvedimenti speciali di politica monetaria, ma alla fine
di una lunga serie di tentativi di resistenza, nel 1937, anche la Francia dovette svalutare
la propria moneta. Anche in Gran Bretagna si cercò inizialmente di fronteggiare la crisi
con i metodi, qui sopra esaminati, delle politiche economiche classiche; ma ben presto
prevalse il pragmatismo economico britannico, e già nel 1931 la sterlina fu fatta uscire
dal gold standard e svalutata. Questo diede il segnale dell’inizio dell’inversione di ten-
denza e il Regno Unito uscì rapidamente dalla situazione critica. A queste manovre mo-
netarie si aggiunse l’introduzione, nello stessa Gran Bretagna, delle politiche di Welfare
State, cioè di uno stato che promuove il «benessere» — welfare in inglese — generaliz-
zato attraverso una serie di riforme sociali che garantiscano il cittadino a livello salaria-
le, sanitario, pensionistico, con caratteristiche simili a quelle già esaminate per gli Stati
Uniti. Anche in questo caso, infatti, lo Stato interveniva pesantemente nel mercato e, at-
traverso la riforma delle pensioni, l’assistenza medica gratuita, l’istituzione dell’istru-
zione pubblica, e così via, finiva per sostenere la capacità di acquisto dei ceti meno for-
tunati, dei disoccupati, dei pensionati. La produzione industriale inglese divenne imme-
diatamente più competitiva e la ripresa fu avviata, anche se c’è da aggiungere che ciò fu
ulteriormente favorito dal fatto che l'Inghilterra possedeva un mercato di sbocco privile-
giato, quello costituito dal Commonwealth, cioè dall’insieme dei mercati dei paesi colo-
niali ed ex coloniali collegati da accordi commerciali stretti e privilegiati, istituito nel
1926 nella Conferenza imperiale di Londra.
Il paese europeo in cui gli effetti della crisi si fecero sentire più pesantemente fu

34
la Germania, che era anche gravata dall'onere delle riparazioni, cioè di risarcimenti in
denaro nei confronti dei paesi aggrediti durante la prima guerra mondiale. Il sistema e-
conomico tedesco andò incontro alla fase critica già a partire dal 1928, e ciò che accad-
de l’anno successivo non fece che aggravare una situazione già precaria. Invece che con
un aumento della spesa pubblica, il governo tedesco tentò di superare la crisi economica
con una politica di sacrifici che ebbe come conseguenza un ulteriore peggioramento del-
la situazione ed un vertiginoso aumento del numero dei disoccupati, che andò ad ina-
sprire le tensioni sociali già innescate dalla sconfitta subita in guerra.
Il grande teorico delle politiche di intervento pubblico a sostegno alla domanda,
come strumento per battere le crisi cicliche del capitalismo industriale, fu l’inglese John
Maynard Keynes. In due importanti volumi usciti rispettivamente nel 1930 (Trattato
della moneta) e nel 1936 (La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della
moneta), Keynes segnava una svolta teorica e pratica nell’analisi del sistema del capita-
lismo. Egli riprendeva da Marx e da Schumpeter l’idea che la crisi ciclica fosse una
componente strutturale in un sistema produttivo di tipo capitalistico, e nello stesso tem-
po si accorgeva dell'astrattezza del principio neoclassico che assegnava al mercato il
compito di ricostituire spontaneamente l’equilibrio temporaneamente perduto. L’equi-
librio, cioè la piena occupazione della forza di lavoro, non era concepibile in un sistema
capitalistico, e dunque era compito dello Stato intervenire, governare la situazione di
squilibrio, impedire la distruzione del sistema. Questo doveva accadere, appunto, attra-
verso il sostegno pubblico alla domanda: Keynes teorizzava ciò che in America e in
Gran Bretagna già si cominciava a realizzare.
La grande crisi del 1929 e la necessità di uscirne segnava, dunque, anche teori-
camente la fine del capitalismo liberista o "selvaggio" e il prevalere di un nuovo model-
lo di capitalismo, nel quale lo stato non era affatto assente e il mercato non era abban-
donato a se stesso: era sempre libero, ma regolamentato. Non era certo compito dello
Stato, e soprattutto di uno Stato democratico, dirigere l’economia, ma le pubbliche auto-
rità potevano e dovevano imporre le regole del gioco, in modo tale che non si creassero
situazioni di predominio economico di gruppi organizzati. Cominciò, dunque, a sorgere
il principio che un mercato tanto più è libero quanto più la libertà degli operatori eco-
nomici è regolamentata dalle leggi. Sorgeva, inoltre, la consapevolezza che il benessere
dei cittadini-consumatori, ovvero la possibilità che anche le classi più umili disponesse-

35
ro finalmente di beni di consumo sufficienti e di una qualità della vita decorosa in ter-
mini, ad esempio, di istruzione o di cure mediche, non costituisse un dono fatto ai pove-
ri e ai disoccupati dalla generosità dello Stato e delle classi ricche, ma fosse invece una
impellente necessità economica, perché la crescita dei consumi era la condizione della
stessa ripresa e dello sviluppo dell’economia.
C’è da considerare, infine, che l’intervento pubblico di tipo keynesiano si conci-
liava assai bene, nei paesi occidentali fin qui esaminati, con un'impostazione della vita
politica basata sulla libera elezione dei gruppi dirigenti, e con un sistema economico ba-
sato sul principio della libertà di iniziativa. Si trattava, insomma, pur con le varianti di
ogni singola situazione, di un modello di tipo liberale-democratico, che aveva il suo
protagonista nel cittadino-elettore. Il benessere di questo cittadino, che oltre ad essere
elettore era anche consumatore, doveva dunque essere il primo pensiero dei gruppi diri-
genti politici, perché dal grado di realizzazione di questo benessere dipendeva il giudi-
zio sulle loro capacità di continuare a guidare lo Stato.

36
IL MERCATO GLOBALE NEL MONDO CONTEMPORANEO

1. Il commercio internazionale e lo sviluppo economico.

Il ruolo del commercio internazionale in un processo di sviluppo economico ha


sempre costituito un importante tema di riflessione tra gli economisti e gli storici
dell’economia. Agli inizi della fase espansiva del capitalismo mercantile, soprattutto nel
corso del XVI secolo, i teorici delle politiche economiche del mercantilismo già pensa-
vano che fosse possibile mantenere e incrementare la ricchezza di un mercato nazionale
(allora il concetto di sviluppo era ancora ignoto) attraverso gli strumenti forniti dal
commercio internazionale, e più precisamente ritenevano che un sistema economico na-
zionale dovesse mantenere in attivo la bilancia degli scambi commerciali con l’estero,
perché questo avrebbe portato all’accumulazione di capitali monetari e alla crescita de-
gli investimenti.
Il sorgere dell’industrializzazione nell’Inghilterra del Settecento ha in seguito
radicalmente mutato i termini del problema. Adam Smith nel 1776 dimostrava che solo
il libero scambio, nel contesto di un sistema di libero mercato, era in grado di garantire
la migliore allocazione possibile dei capitali (cioè la migliore collocazione degli inve-
stimenti nei settori più convenienti) e quindi potevano creare occasioni di progresso e-
conomico per tutti. Per raggiungere questo scopo non era affatto necessaria una bilancia
dell’interscambio con l’estero in attivo, perché la semplice organizzazione di un sistema
di scambi costituiva già di per sé una occasione di arricchimento e di progresso per tutti
coloro che vi partecipavano.
Su questa stessa linea si collocava, qualche decennio dopo Smith, sempre in In-
ghilterra, anche il pensiero di David Ricardo, che in un fondamentale trattato di econo-
mia, intitolato Sui principi dell’economia politica e della tassazione, pubblicato nel
1817, studiava le ragioni che rendevano la libertà del commercio uno strumento indi-
spensabile per realizzare il progresso economico. Lo studio di Ricardo ha costituito un
momento essenziale nelle elaborazioni attorno al significato economico del commercio
internazionale, soprattutto perché a lui si deve la formulazione più famosa della cosid-

37
detta teoria dei costi comparati. Si tratta di una teoria basata sul dato evidente che una
stessa tipologia di merce non è mai prodotta a costi uguali nei diversi paesi del mondo:
c’è sempre un paese che riesce a produrre la stessa merce a costi inferiori rispetto agli
altri e che quindi la può vendere a prezzi più bassi; perciò sarà interesse di tutti acqui-
starla là dove essa costa di meno, senza che lo Stato intervenga a distorcere il mercato
imponendo dazi e gabelle sull’importazione o sull’esportazione.
Sia Smith che Ricardo immaginavano, insomma, una divisione internazionale
del lavoro tra le varie nazioni, ognuna delle quali forniva alle altre i beni che riusciva a
produrre a costi minori e a vendere a prezzi più bassi con conseguente vantaggio di tutti.
La crescita della divisione del lavoro avrebbe a sua volta potenziato il sistema degli
scambi e avrebbe accresciuto il volume e il valore dei beni scambiati. Sulla base di que-
ste premesse, dunque, l’intervento dello Stato e l’imposizione di eventuali dazi doganali
divenivano elementi di distorsione e di stravolgimento dell’andamento dei processi eco-
nomici: in altre parole, ponendo un dazio doganale sull’importazione di un certo bene lo
Stato creava sempre una situazione di privilegio che favoriva i produttori interni di quel
bene, ma che però danneggiava tutti gli altri cittadini, costretti a spendere di più per ac-
quistarlo.
Nel corso dell’Ottocento e poi ancora nella prima metà del XX secolo, la teoria
economica del commercio estero fece enormi progressi, ma alla base di ogni possibile
scelta politica rimaneva sempre l’alternativa tra il liberoscambismo e il protezionismo,
cioè tra il lasciare o il non lasciare la possibilità ai soggetti economici di commerciare e
di scambiare liberamente le merci sui mercati internazionali, e la discussione verteva sul
livello di libertà che era possibile o opportuno accordare ai singoli settori merceologici.
Soltanto con la fine della seconda guerra mondiale cominciò ad affermarsi sempre più il
principio che il libero scambio fosse di per sé uno strumento insostituibile di sviluppo; e
questo principio si è andato sempre più imponendo da un lato con il sorgere del GATT e
da un altro lato con il mancato sviluppo dei sistemi economici socialisti, basati proprio
sull’assenza della libertà del mercato. Le statistiche relative al movimento commerciale
internazionale del secondo Novecento rivelano che in effetti si andò incontro ad una fa-
se di crescita del volume e del valore dei beni scambiati, anche se da questi accordi re-
stavano tagliati fuori i paesi del blocco comunista.

38
Negli ultimi due decenni del secolo, sopraggiunsero altri due elementi destinati a
rendere sempre più irreversibile la scelta a favore della libertà degli scambi. Il primo era
costituito dall’abbattimento dei costi di trasporto, di comunicazione e di scambio, cioè
dei costi che potevano rendere difficile o non conveniente il trasferimento di idee, paro-
le, immagini, merci, servizi, uomini o capitali da un mercato all’altro; questo fatto, da
un lato, aumentò enormemente la quantità dei beni scambiabili, dei beni, cioè, che erano
in grado di sopportare economicamente i costi di un lungo viaggio di trasferimento; da
un altro lato, rese sempre più difficile e antiquata l’idea di governare il commercio at-
traverso le dogane (come si fa, ad esempio, a tassare un servizio che viaggia su
internet?). Il secondo elemento di trasformazione era rappresentato dalla fine
dell’esperimento economico socialista; l’abbattimento della cortina di ferro e la fine del-
la guerra fredda hanno migliorato ulteriormente il sistema internazionale degli scambi e
hanno recuperato alla possibilità di commerciare liberamente notevoli quote di popola-
zioni e vaste estensioni di aree regionali o continentali. Anche in questi processi politici
la facilità e l’economicità delle vie di comunicazione e di scambio hanno avuto un ruolo
fondamentale. Come può un governo impedire, ad esempio, la penetrazione nel proprio
territorio di notizie trasmesse attraverso le antenne paraboliche televisive o attraverso la
diffusione della telefonia e degli altri strumenti di comunicazione di massa? Può certo
tentare di farlo, ma le difficoltà che incontra sono evidentemente crescenti e persino in-
sormontabili. Anche da questo punto di vista una compiuta democrazia appare sempre
più come la forma politica maggiormente funzionale ad un processo di sviluppo econo-
mico

2. La WTO e la formazione del mercato globale.

Il prevalere del sistema del libero scambio e del libero mercato, come regolatore
ultimo delle scelte economiche (ciò che può essere definito come pensiero unico in eco-
nomia), ha posto l’esigenza di realizzare il mercato globale, cioè il luogo teorico e pra-
tico, grande quanto il globo terrestre, in cui i soggetti economici si incontrano e attivano
le loro iniziative senza ostacoli insormontabili di natura politica o economica.

39
Per comprendere il processo di formazione di questo modello di mercato, è ne-
cessario ripartire dal sistema degli accordi del GATT. Il GATT avviò una fase di note-
vole sviluppo per tutta la seconda metà del XX secolo; numerosi sono stati gli incontri
(in inglese rounds) che periodicamente vedevano radunarsi un numero crescente di pae-
si e che servivano a mettere a fuoco le nuove situazioni economiche e a far crescere le
occasione di liberalizzazione doganale degli scambi. Il più significativo di questi incon-
tri internazionali, quello da cui il principio del libero mercato, inteso come strumento di
sviluppo economico, è uscito pienamente vittorioso, fu tenuto il 15 aprile 1994; quel
giorno ben 125 paesi del mondo intero firmarono il trattato di Marrakech, dal nome
della città del Marocco in cui si erano riunite le loro delegazioni, che istituiva la WTO
(World Trade Organization, cioè l’Organizzazione mondiale del commercio), un ente
che si presentava come prosecuzione e allargamento dello stesso GATT. A differenza di
quest’ultimo, la WTO è una vera e propria istituzione internazionale permanente, costi-
tuita da strutture operative in grado di prendere decisioni valide e applicabili a ogni li-
vello, con il pieno coinvolgimento dei governi nazionali; essa è abilitata anche a risolve-
re controversie che possono insorgere tra gli stessi paesi membri: il suo obiettivo priori-
tario è, infatti, quello di favorire accordi sulle tariffe doganali, sul commercio, sul tra-
sferimento da un paese all’altro di beni e servizi di ogni genere, nelle forme più econo-
miche e nella massima sicurezza possibile. La WTO non detta ai governi nazionali rego-
le di comportamento in tema di politica commerciale, né avrebbe l’autorità per farlo; in
realtà le stesse regole del funzionamento dei mercati internazionali sono decise
dall’assemblea delle nazioni partecipanti e sono sempre stabilite all’unanimità (perché
nessun paese deve essere danneggiato); poi tocca agli organi della WTO operare per fa-
vorire la loro attuazione. A questo scopo al vertice dell'Organizzazione è collocato un
direttore generale. Si tratta, in sintesi, d'una istituzione che punta alla realizzazione del-
la massima liberalizzazione possibile dei mercati, poiché questa libertà è riconosciuta
come strumento di crescita economica, purché ciò avvenga in condizioni di sicurezza e
senza che si creino troppi squilibri tra le diverse aree del mondo. Il modello di relazioni
economiche che in tal modo si tende a realizzare può essere appunto definito con la
formula mercato globale.
La prima caratteristica del mercato globale consiste nella economicità e nella fa-
cilità, non ostacolata dalle scelte politiche, del trasferimento delle merci, dei servizi, del-

40
le parole e delle immagini da una regione all’altra del mondo. Tutto ciò ha il suo punto
di forza nell’abbattimento del sistema delle tariffe doganali; i dazi doganali si sovrap-
pongono, infatti, alla libera iniziativa degli imprenditori e la condizionano, impedendo
la migliore collocazione degli investimenti in vista del raggiungimento del massimo
profitto possibile in ciascuna area del mondo. Per realizzare questi obiettivi il mercato
globale richiede, dunque, e presuppone un significativo abbattimento dei costi di tra-
sporto e dei tempi dei trasferimento, sia che si tratti di spostare beni e servizi per via ter-
restre, aerea o marittima, sia che si tratti di comunicare parole o immagini; in
quest’ultimo caso la comunicazione avviene ormai quasi sempre, grazie ai sistemi tele-
matici, in tempo reale: il destinatario riceve la comunicazione nello stesso momento in
cui il mittente la invia.
Ma il mercato globale presenta una seconda caratteristica: esso richiede la piena
libertà di movimento anche degli uomini, delle loro idee e della loro forza lavoro; esso
presuppone, dunque, la formazione di un libero mercato del lavoro, che permetta
l’incontro, a livello internazionale, della domanda e dell’offerta di lavoro. In alcune aree
del mondo, e soprattutto in quelle maggiormente sviluppate in Europa e in America, la
libertà degli spostamenti dei cittadini da una nazione all’altra è ormai una conquista rea-
lizzata. Tuttavia si tratta di un fenomeno difficile da controllare e da regolamentare,
perché la libera circolazione degli uomini porta con sé conseguenze assai diverse dalla
libertà di movimentazione delle merci, dei servizi e delle idee: la quantità e la direzione
degli spostamenti planetari degli individui sono sempre, infatti, largamente condizionate
dalle vicende non solo economiche ma anche in senso stretto demografiche
dell’umanità.
Gli imponenti ritmi della crescita demografica mondiale, avviati e mantenuti i-
ninterrottamente dal XVIII secolo in avanti, hanno portato alla fine del millennio il nu-
mero degli esseri umani a superare i sei miliardi di unità. Ma soprattutto nell’ultimo
trentennio del XX secolo questa crescita non è stata uniforme: essa è stata assai forte nei
paesi maggiormente arretrati e in quelli in via di sviluppo, mentre è stata quasi del tutto
assente nei paesi industriali avanzati. In altre parole, il sopraggiungere di una fase di si-
gnificativo sviluppo economico ha avuto dappertutto come conseguenza il rallentamen-
to dell’espansione demografica. In alcuni paesi europei, come l’Italia, si è avviato il
processo addirittura opposto, la popolazione ha cominciato a diminuire di numero, con

41
la creazione di forti problemi relativi alla stessa possibilità di mantenere un ritmo ade-
guato di crescita economica. In questi ultimi casi, solo la presenza di una consistente
immigrazione dai paesi sottosviluppati permette alla popolazione di non crollare nume-
ricamente e al sistema economico di continuare a funzionare. Negli ultimi anni del seco-
lo i ritmi di crescita sono andati un po’ attenuandosi, anche nei paesi del Terzo Mondo;
ciò in parte è dovuto all'instaurazione di speciali politiche di pianificazione familiare,
ma certamente anche al fatto che grandi e popolosi paesi, come la Cina o l’India si av-
viano verso un certo miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che li abi-
tano; si è visto assai bene, insomma, che il trend della crescita demografica è controlla-
bile soprattutto attraverso serie politiche di sviluppo economico. Gli squilibri economici
internazionali e l’alto tasso di crescita della popolazione dei paesi poveri giustificano,
d’altra parte, l’imponente movimento di trasmigrazioni di massa dai paesi poveri verso i
paesi maggiormente sviluppati che è attualmente in corso, e a cui anche l’Italia è inte-
ressata, seppure non nella stessa misura in cui sono coinvolti altri paesi europei o ameri-
cani. Queste emigrazioni di massa sono economicamente necessarie ma politicamente
non facilmente governabili, poiché lo spostamento di ingenti masse di popolazione crea
spesso situazioni di squilibrio economico a livello internazionale ed implica la soluzio-
ne, ancora troppo lontana, di problemi di convivenza culturale, linguistica ed etnica che
sono spesso causa, negli strati economicamente e culturalmente più deboli delle popola-
zioni dei paesi sviluppati, anche di nuove forme di razzismo.
Una terza fondamentale caratteristica del mercato globale, è quella relativa alla
libertà e facilità di trasferimento dei capitali e in generale delle risorse finanziarie; da
questo punto di vista esso costituisce un grande ed unitario mercato finanziario. E biso-
gna, infatti, considerare che nei due decenni finali del secolo XX il settore più significa-
tivo e più sviluppato dei mercati internazionali è divenuto proprio quello delle attività
finanziarie. Si è detto che gli investimenti finanziari sono andati ampliandosi e diffon-
dendosi in modo imponente grazie alla velocità degli spostamenti dei capitali e alla ra-
pidità, in taluni casi di tipo speculativo, dei profitti che essi riescono a fornire. Ebbene,
non c’è paese al mondo che chiuda le proprie frontiere all’ingresso dei capitali che so-
praggiungano alla ricerca di attività finanziarie (soprattutto quelli che sono diretti
all’acquisizione di azioni di società quotate in borsa e di titoli del debito pubblico), e i-
noltre si è visto che non solo non è conveniente, ma che è in larga misura praticamente

42
impossibile, chiudere le frontiere per impedire, al contrario, l’uscita di tali capitali. In
questo segmento del mercato il maggiore problema con cui i governi devono confron-
tarsi non può più essere quello delle proibizioni e delle limitazioni (tranne ovviamente
che non si verifichino situazioni straordinarie), quanto piuttosto quello di fornire quelle
opportune regolamentazioni, che in ultima analisi servono a facilitare, non certo a sco-
raggiare gli investimenti.

3. L’unificazione del mercato europeo e l’introduzione dell’euro.

L’esempio più eclatante ed economicamente significativo di realizzazione in una


area continentale di un mercato unico libero e concorrenziale si è verificato negli ultimi
due decenni del Novecento in Europa, e ha condotto alla unificazione del mercato euro-
peo e alla creazione di una nuova moneta unica europea circolante, l’euro.
Dopo la fase iniziale di entusiasmo politico, che aveva condotto nel 1957 alla
firma del Trattato di Roma, gli anni sessanta e settanta del Novecento hanno presentato
un certo rallentamento del processo di integrazione europea, anche a causa delle diffi-
coltà economiche che i paesi membri hanno attraversato in quei decenni. La ripresa del
cammino verso un'Europa unita si ebbe nel 1979, quando si decise a livello comunitario
di creare un mercato monetario caratterizzato da cambi il più possibile fissi, o comun-
que dotati di oscillazioni limitate e controllate; nacque così lo SME, ovvero il sistema
monetario europeo, basato su una moneta teorica, non effettivamente coniata e circolan-
te, l’ECU (European Currency Unit, cioè unità di conto europea), il cui valore teorico
nasceva dalla media dei valori delle monete nazionali dei paesi membri. I passi succes-
sivi furono compiuti dopo la nomina, nel 1985, a presidente della Commissione Euro-
pea, cioè del governo europeo (sia pure dotato di poteri ancora assai limitati), di un
convinto europeista, Jacques Delors; questi nel 1988 lanciava il progetto di una Unione
economica e monetaria, mentre cominciava ad imporsi il termine Unione Europea in
luogo di Comunità Europea, anche per indicare un livello più profondo di coinvolgi-
mento economico e politico reciproco tra i vari paesi che intendevano collegarsi in un
unico mercato. Il numero dei paesi aderenti al progetto di unificazione europea andava
nel frattempo crescendo e nel 1995 gli stati membri raggiunsero il numero di 15 (Irlan-

43
da, Gran Bretagna, Danimarca, Svezia, Finlandia, Germania, Austria, Francia, Belgio,
Lussemburgo, Paesi Bassi, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia), mentre numerosi altri,
soprattutto dell’area europea orientale, ponevano la loro candidatura ad entrare
nell’Unione.
Il progetto di Unione economica e monetaria aveva in sé ben visibile l’idea di
costruire un mercato unico europeo; e questo obiettivo richiedeva l’attivazione di mec-
canismi che andavano ben al di là di un puro e semplice accordo monetario: un mercato
unico, infatti, per poter funzionare in modo efficiente, richiedeva la presenza di regole
comuni di carattere giuridico, economico e perfino politico, perché un mercato deve es-
sere regolamentato, guidato e diretto, proprio per essere mantenuto nella massima liber-
tà e concorrenzialità possibile. Dunque non c’è discorso sulla moneta unica europea che
possa essere circoscritto a dati puramente economici: quando si parla di moneta e di u-
nione monetaria, il ragionamento conduce sempre ed inevitabilmente anche alla neces-
sità di una unione politica.
Nel 1992, con il Trattato di Maastricht, dal nome della cittadina olandese in cui
venne firmato, si decise di procedere verso la vera e propria integrazione tra le econo-
mie dei paesi aderenti, e i processi di avvicinamento a questo modello di mercato furono
insieme politici ed economici. Nel corso degli anni novanta si è giunti, perciò, a poten-
ziare sempre più il ruolo politico degli organi comunitari fondamentali, soprattutto il
Parlamento Europeo e la Commissione Europea, e si è progettato di creare, attraverso
scadenze certe e verificabili, un mercato unico europeo che prevedesse la piena libertà
di movimento degli uomini, delle merci e dei capitali fra i paesi aderenti; contemporane-
amente sono stati fatti i passi necessari per creare una unità monetaria comune, l’Euro,
destinata ad essere coniata e a divenire la moneta effettivamente circolante in tutti i pae-
si dell’Unione a partire dall’anno 2002. Accanto a questo potenziamento dei poteri ef-
fettivi degli organismi politici comunitari, la creazione della nuova moneta richiedeva
un processo di convergenza tra i dati economici dei paesi membri della comunità: in al-
tre parole, essendo prevista la circolazione effettiva di una moneta comune era necessa-
rio che tutti i paesi della Unione Europea avessero un comune tasso di sconto, un identi-
co limite consentito di deficit del bilancio pubblico, una quantità di debito pubblico non
superiore a certi limiti stabiliti di comune accordo, un trattamento fiscale dei beni e dei
servizi il più possibile omogeneo, un tasso di inflazione contenuto entro limiti comuni

44
ben determinati e così via. La moneta comune, per esistere e sopravvivere, richiedeva,
insomma, un patto economico e finanziario rispettato da tutti, perché la crisi di un paese
si sarebbe riversata inevitabilmente sul valore della moneta stessa, danneggiando tutti
gli altri. Naturalmente non è difficile comprendere che la questione della convergenza
economica racchiuda in sé tutti i presupposti necessari per giungere ad una unificazione
della sovranità politica. Già da soli i criteri di convergenza obbligano gli Stati contraen-
ti a rispettare vincoli di bilancio e scelte di politica economica che sono stabiliti da una
autorità sovranazionale; inoltre, in tutti i settori economici (dall’agricoltura all’industria,
dal mercato interno al commercio estero) le legislazioni nazionali non possono essere in
contrasto con i principi generali stabiliti dagli organismi comunitari, e questo rappresen-
ta un limite alla stessa sovranità dei parlamenti nazionali.
Un chiaro esempio di questi condizionamenti, proprio nel settore della regola-
mentazione del mercato, è costituito dal fatto che gli organismi comunitari vigilano af-
finché i singoli governi non concedano aiuti alle proprie strutture produttive nazionali,
perché questo creerebbe un vantaggio del tutto incompatibile con un sano criterio di lea-
le concorrenza tra le aziende europee. La questione della salvaguardia del principio del-
la libera concorrenza è stata ritenuta così importante, che un membro della Commissio-
ne Europea, dunque un ministro del governo dell’Europa unita, è stato incaricato di vi-
gilare sulla sua attuazione e in generale sul rispetto delle regole del corretto funziona-
mento del mercato.
Ma il caso più eclatante di perdita della sovranità nazionale sulla gestione dei
mercati è offerto ancora dalla questione della politica monetaria, e precisamente dalla
indispensabile creazione di una Banca Centrale Europea. Già nel 1994 era stato messo
in funzione un Istituto Monetario Europeo, dotato del compito di coordinare le politiche
monetarie nazionali; ma la nascita dell’euro ha richiesto l’istituzione, avvenuta tra il
1998 e il 1999, di una vera e propria Banca Centrale Europea che si facesse carico della
politica monetaria comune (livelli dell’offerta di moneta, tassi di sconto e di interesse, e
così via) a livello europeo; ebbene, l’esistenza di una tale istituzione sottraeva ai singoli
Stati, ai singoli governi e alle singole banche centrali una parte importante della propria
autonomia nazionale (e, infatti, la Gran Bretagna ha tardato ad aderirvi anche per motivi
di prestigio politico), per trasferirla ad un organismo comunitario, proprio nel settore
della politica monetaria, cioè in uno degli ambiti tradizionalmente costitutivi della indi-

45
pendenza e della sovranità di uno Stato. La moneta, del resto, è sempre stato uno dei
simboli più concreti della sovranità politica, e una moneta europea deve necessariamen-
te portare il segno di una nuova sovranità, quella europea.
È difficile calcolare in modo preciso quanto abbia influito sullo sviluppo econo-
mico realizzato dai paesi europei negli ultimi due decenni del secolo la formazione di un
mercato interno europeo unico, libero e concorrenziale, ma è indubbio che alla fine del
millennio l’insieme dei paesi aderenti all’Unione Europea rappresentava, per numero di
abitanti e per volume di beni prodotti e commerciati, la maggiore entità commerciale
mondiale. L’Europa risultava sempre più profondamente inserita nel sistema internazio-
nale degli scambi. Le statistiche degli anni finali del secolo indicano un significativo
sviluppo nell’interscambio intraeuropeo, cioè nei rapporti che collegavano tra loro i
singoli paesi che aderivano all’unione economica e monetaria, segno della crescita del
processo di integrazione tra le varie economie nazionali. Ma anche il commercio euro-
peo con il resto del mondo ha avuto un significativo incremento; gli Stati Uniti restava-
no il principale partner commerciale dei 15, ma l’Unione Europea manteneva forti posi-
zioni economiche e commerciali anche nell’area orientale del continente europeo, tra i
paesi dell’ex blocco socialista, e in generale nei paesi del Mediterraneo. Erano ugual-
mente crescenti le relazioni commerciali con la Cina e con i paesi in forte espansione
economica del Sud-Est asiatico. Più debole appariva, invece, la posizione commerciale
europea nell’America centrale e meridionale e nei paesi del Medio Oriente.

4. Il mercato mondiale della tecnologia, delle monete e della finanza.

Durante l’ultimo quindicennio del secolo, in una fase di ripresa e di ristruttura-


zione economica, anche i mercati mondiali sono andati incontro ad un processo di note-
voli cambiamenti. Secondo calcoli attendibili, agli inizi degli anni settanta, nella fase
culminante dello sviluppo economico del secondo dopoguerra, i paesi industrializzati
(ad esclusione dei paesi ad economia pianificata e socialista) fornivano ancora il 75 per
cento di tutta la massa delle esportazioni mondiali, mentre i paesi in via di sviluppo oc-
cupavano il restante 25 per cento, determinato soprattutto dalla fornitura di materie pri-
me industriali ed energetiche al resto del mondo. Questa situazione si è andata modifi-

46
cando con il trascorrere degli anni fino a raggiungere un maggiore e significativo equi-
librio: molti paesi ex coloniali, quali quelli del Sud-est asiatico, che in precedenza for-
nivano quasi soltanto materie prime a basso costo sono divenuti a loro volta produttori
di manufatti, mentre i paesi tradizionalmente industrializzati hanno cominciato a loro
volta ad importare non solo materie prime da trasformare in beni di consumo, ma anche
manufatti prodotti dai paesi in via di sviluppo a costi particolarmente bassi di manodo-
pera. Dalla supremazia assoluta degli Stati Uniti nel mercato delle materie prime e in
quello dei manufatti si è passato ad un modello di mercato di tipo oligopolistico, cioè
dominato da un gruppo sempre ristretto e tuttavia un po’ più allargato di paesi produtto-
ri: dapprima il Giappone e l’Europa, a sua volta dominata dall’economia tedesca, si so-
no affiancati alla dominante presenza degli USA; in seguito, negli anni finali del secolo,
si sono aggiunti (come si è visto appunto nel capitolo decimo) i paesi del Sud-est asiati-
co. Dunque Stati Uniti, Europa, Giappone e Sud-est asiatico sono divenuti i quattro poli
fondamentali del sistema internazionale degli scambi; e non a caso si trattava anche dei
quattro poli mondiale della produzione e della tecnologia, a riprova del fatto che il mer-
cato è sempre in ultima analisi dominato da chi riesce a produrre merci di migliore qua-
lità a prezzi più bassi. Nel corso dell’ultimo decennio del secolo questa situazione si è
andata sempre più rafforzando a causa della disgregazione del blocco dei paesi sociali-
sti; la Russia perdeva il suo ruolo di centro produttore di manufatti e di tecnologia, men-
tre i paesi dell’Est europeo tendevano sempre più ad inserirsi alla periferia del mercato
unitario europeo. Del tutto particolare, in questa configurazione, restava il mercato cine-
se, che pur dotato di enormi potenzialità di sviluppo, restava ancora ancorato sul piano
internazionale ad un ruolo di sostegno e di integrazione delle economie dei paesi del
Sud-est asiatico.
I quattro poli che costituivano alla fine del secolo il sistema oligopolistico del
mercato mondiale potevano svolgere i compiti della loro supremazia commerciale fon-
damentalmente per il predominio che essi esercitavano non solo nel campo della produ-
zione e della commercializzazione delle materie prime e dei manufatti, ma soprattutto in
due settori strategici del sistema degli scambi internazionali: il mercato della tecnologia
e quello delle monete e dei prodotti finanziari.
Il mercato della tecnologia, collegato al mercato dei beni definiti science based
(basati sulla scienza) o più comunemente high tech (da high technology, cioè alta tecno-

47
logia), è dominato dai sistemi economici che investono risorse significative in Ricerca e
Sviluppo (R&S). La tecnologia, come più volte si è avuto modo di dire, è già in sé una
merce che deve essere prodotta e che può essere quindi acquistata o venduta; per questi
motivi la tecnologia richiede la presenza di capitali di investimento, anche se poi a sua
volta essa moltiplica, con la crescita della produttività del lavoro, la possibilità
dell’accumulazione stessa dei capitali. Ma, detto questo, è necessario subito aggiungere
che la tecnologia è una merce del tutto particolare, perché è una merce che serve a pro-
durre in modo altamente competitivo altre merci; il risultato finale del processo produt-
tivo è dunque costituito da un bene che incorpora in sé un alto contenuto tecnologico, e
dal momento che compito della tecnologia è quello di abbattere i costi di produzione a
parità di prezzo del mercato, ne consegue che i prodotti high tech riescono a procurare
ottimi saggi di profitto ai loro produttori. E a questo si aggiunga che la produzione di
tecnologia è un’industria di base che a sua volta è in grado di potenziare tutte le altre in-
dustrie, anche nelle attività più tradizionali; il suo sviluppo, infatti, non è solo verticale
(cioè da un prodotto al successivo migliorato e così via), ma anche soprattutto orizzon-
tale: ad esempio in uno dei settori high tech più avanzati, quello dell’elettronica, una
tecnologia escogitata per potenziare il comparto dei computers può essere a sua volta
vantaggiosamente utilizzata per fabbricare migliori automobili o elettrodomestici più
complessi e raffinati, e così via in tutti gli altri settori, con una notevole espansione, ap-
punto orizzontale, dei miglioramenti tecnici.
Nel corso degli ultimi due decenni del Novecento il commercio dei prodotti high
tech ha avuto uno sviluppo irresistibile, specialmente nel settore dell’industria elettroni-
ca. Questo mercato è stato dominato dai tre grandi produttori mondiali di tecnologia, gli
USA, la Comunità Europea e il Giappone, i quali a loro volta hanno riversato le loro
conoscenze tecnologiche sulle strutture produttive dei paesi del Sud-est asiatico, che ai
risparmi consentiti dalle nuove tecnologie aggiungevano il basso costo della forza lavo-
ro qualificata. Questa situazione ha accentuato la dipendenza commerciale e produttiva
del resto del mondo da questi quattro poli dominanti. Alcune aree, come l’Europa orien-
tale ex comunista, stanno faticosamente cercando una propria collocazione nel commer-
cio internazionale proprio importando capitali, macchinari e tecnologia dai paesi avan-
zati (in questo caso dai paesi europei occidentali) e fornendo la forza lavoro a basso co-
sto; divengono in tal modo paesi esportatori di manufatti (sia pure prodotti con capitali e

48
tecnologie importate) e vedono aumentare la propria quota di reddito sotto forma di sa-
lari distribuiti. Altre aree, come l’Africa nera o l’America latina, sembrano ancora ta-
gliati fuori da queste linee dello sviluppo commerciale, e si presentano sui mercati come
semplici fornitrici di materie prime, anche se le enormi potenzialità presenti in stati co-
me il Brasile o l’Argentina lasciano prevedere un prossimo avvio di una fase di crescita.
Al centro del sistema, i quattro poli dominanti sono dotati tuttavia di un sistema
di interscambio reciproco di prodotti high tech spesso squilibrato. Nell’ultimo ventennio
del secolo il Giappone e i paesi asiatici hanno presentato un costante attivo nella bilan-
cia degli scambi con gli Stati Uniti, al punto da spingere talvolta le amministrazioni a-
mericane ad operare in senso protezionistico nei confronti soprattutto del Giappone; ne
sono scaturite delle guerre commerciali che in genere si concludevano con un tentativo
di riequilibrio a vantaggio degli USA. Più grave è stata nello stesso periodo la posizione
europea, perché nell’ambito della Comunità solo la Germania era in grado di presentare
un bilancio in attivo negli scambi di prodotti high tech.
Queste reciproche posizioni commerciali hanno provocato degli importanti
sconvolgimenti anche sul mercato delle monete e dei prodotti finanziari. La forza di una
moneta e della sua capacità di acquisto dipende, infatti, come è ovvio, in larga misura
dalla potenzialità produttiva e commerciale del sistema che la produce e la mette in cir-
colazione. Dopo aver soppiantato la sterlina, il dollaro, come si più volte detto, ha svol-
to nel corso della seconda metà del Novecento quasi da solo il ruolo di moneta degli
scambi internazionali; ma nei decenni finali del secolo ad esso si è affiancato lo yen
giapponese, il cui ruolo internazionale è andato crescendo con il crescere dell’economia
di quello stato e dei suoi partners nel Sud-est asiatico. Man mano che si affermavano le
esportazioni giapponesi nel mondo e cresceva il saldo commerciale attivo di quel siste-
ma economico, aumentava anche la domanda di yen e dunque cresceva anche il valore
di quella moneta nei mercati internazionali. La crescita del valore dello yen si alternava
ciclicamente alla crescita del valore del dollaro, in quanto le due monete apparivano di-
rettamente rivali: quando l’una cresceva l’altra perdeva valore e viceversa. Ma le conse-
guenze non erano identiche: il dollaro continuava, infatti, ad essere la moneta con cui
venivano commercializzate le materie prime, per cui la crescita del suo valore, in termi-
ni di altre monete, rendeva immediatamente più costoso il petrolio e tutte altre materie

49
prime di base per la produzione industriale. Nel mercato globale ormai tutti i fenomeni
erano sempre più collegati tra loro.
In questa situazione si inseriva tra il 1998 e il 1999 il progetto e poi la creazione
dell’euro. La moneta europea nasceva con la pretesa di essere la terza divisa del com-
mercio e del risparmio internazionale, sulla falsariga del ruolo che in precedenza aveva
tentato di assumere il marco tedesco (l’unica moneta europea che era stata in grado di
competere con il dollaro e lo yen). Ma l’euro nel suo primo anno di vita, tra il 1999 e il
2000, subiva le conseguenze della debolezza congiunturale dell’economia europea, ve-
niva fortemente svalutato dai mercati e perdeva mediamente il 20 per cento del suo va-
lore di fronte al dollaro. Né la nuova Banca Centrale Europea interveniva a difenderne il
valore (alzando il tasso di sconto, ad esempio), nella speranza che la svalutazione
dell’euro potesse rendere più competitivi i prodotti europei sui mercati internazionali e
in special modo sul mercato statunitense. Ma i risultati non sono stati pari alle aspettati-
ve.
Ma il segmento di mercato che è andato incontro negli ultimi due decenni del
secolo al maggior tasso di crescita è stato certamente quello dei prodotti finanziari trat-
tati nelle borse; e la consultazione quotidiana dei listini delle maggiori borse del mondo,
quella di New York, quelle asiatiche (Tokio, Hong Kong e le altre capitali degli stati del
Sud-est) e quelle europee, è divenuta una consuetudine di massa in precedenza del tutto
ignota. I prodotti finanziati più richiesti sono soprattutto quelli tradizionali, costituiti
dalle azioni delle società quotate in borsa, dai titoli del debito pubblico emessi dagli sta-
ti e dalle obbligazioni emesse o dalle stesse pubbliche autorità o dagli operatori privati.
Ma accanto a questi, altri prodotti si sono imposti rapidamente sul mercato, con un ve-
locissimo tasso di crescita, e precisamente le quote dei fondi comuni di investimento e i
prodotti assicurativi e previdenziali privati. I fondi comuni di investimento sono posti
sul mercato da società finanziarie private autorizzate a raccogliere il risparmio delle fa-
miglie. Queste società investono i capitali raccolti in un paniere di titoli azionari e di ti-
toli del debito pubblico, che appunto costituiscono il patrimonio del fondo; questo pa-
trimonio è a sua volta suddiviso in quote vendute singolarmente, il cui valore di mercato
varia in base alle variazioni del valore delle azioni o degli altri titoli di credito che ne
costituiscono il paniere. In tutti questi casi l’obbiettivo è sempre di tipo speculativo,
cioè si acquista una azione o una quota di un fondo con l’obbiettivo di rivenderla ad un

50
valore di mercato accresciuto. Altrettanto forte è stata la crescita del mercato dei prodot-
ti assicurativi e previdenziali. In molti paesi, ad esempio negli Stati Uniti d’America,
questi prodotti avevano già un mercato consolidato, che si è ampliato con i dati stessi
dello sviluppo economico; ma in altri paesi, e questo è il caso di molti stati europei, e in
particolare come si è visto dell’Italia, l’espansione di questo mercato è invece da colle-
gare alla minore copertura assicurativa e pensionistica offerta dalle istituzioni pub-
bliche; si tratta, in questo caso, di una forma di risparmio utilizzata per integrare la futu-
ra pensione alla fine dell’attività lavorativa. E spesso sono le stesse società finanziarie a
svolgere queste attività assicurative e previdenziali, in vista della possibilità di investire
nei prodotti finanziari i risparmi così raccolti, potenziando il rendimento finale in termi-
ni di capitale o di pensione.

5. I mercati, le istituzioni, le regole.

Quali possono essere il ruolo, le funzioni e i compiti delle pubbliche autorità nel
modello dell’interscambio prefigurato come mercato globale? Alla fine della seconda
guerra mondiale tutta la riorganizzazione del sistema internazionale degli scambi fu
prodotta e appoggiata dalle pubbliche autorità dei singoli paesi; per due o tre decenni il
ruolo dello Stato, non solo nella organizzazione dei mercati, ma in generale nei vari set-
tori dell’economia andò sempre più crescendo, e molti paesi avviarono politiche eco-
nomiche di tipo nettamente keynesiano. Altri paesi, e questo è il caso italiano, sviluppa-
rono politiche di assistenzialismo, del tutto lontane dai modelli keynesiani, che si limi-
tavano a scaricare sul bilancio pubblico tutte le contraddizioni economiche di cui lo Sta-
to si faceva carico, mantenendo ad esempio in vita per motivi di opportunità politica a-
ziende non produttive o dando, sempre per motivi di clientelismo politico, a numerosi
lavoratori che erano ben lontani dall’età prevista dalla legge la possibilità di andare an-
ticipatamente in pensione. Negli anni ottanta si ebbe a livello internazionale una svolta
diffusa e significativa: il pensiero unico vincente in economia prevedeva non solo che il
libero mercato fosse l’arbitro definitivo del risultato di ogni iniziativa economica, ma
che lo Stato e in generale le pubbliche autorità dovessero fare un passo indietro per la-
sciare piena libertà di iniziativa agli imprenditori privati; prevaleva di nuovo, insomma,

51
l’antico principio degli economisti classici inglesi, che ritenevano inutile o dannoso
l’intervento pubblico nei fatti economici.
Ma come eccessivo e antieconomico si era rivelato l’interventismo, altrettanto
negativo si è spesso presentato il totale liberismo. Il mercato globale, come ogni altra
forma di mercato, è infatti veramente libero quando è anche fortemente regolamentato
da pubbliche autorità che siano in grado di imporre norme generali di correttezza. Non
c’è contraddizione tra queste caratteristiche, perché la libertà del mercato, e in generale
lo stesso liberismo nel settore del commercio estero, richiedono una regolamentazione
assai forte dei comportamenti dei soggetti economici attivi, e soprattutto di quelli che
sono collocati in posizioni dominanti. Il rispetto e il mantenimento della libertà implica,
infatti, soprattutto l’imposizione e l’attuazione di misure antitrust, che impediscano la
formazione di cartelli, cioè di accordi tra i produttori ai danni del consumatore, e che
evitino il sorgere di posizioni monopolistiche che segnerebbero la fine della stessa liber-
tà. In questo senso quanto più il mercato è libero e concorrenziale, tanto più autorevoli
e democratiche devono essere le istituzioni politiche, economiche, giuridiche o ammini-
strative che lo governano, al punto che nel mondo che si incammina nel nuovo millen-
nio la democrazia politica, come abbiamo varie volte osservato, appare sempre più co-
me una delle condizioni stesse dello sviluppo.
Ma che cosa sono le istituzioni e in che modo possono regolamentare il funzio-
namento del mercato? Nelle analisi degli economisti contemporanei, e soprattutto in
quelle del premio Nobel Douglass North, il concetto di istituzione si è affinato ed am-
pliato (cfr. la lettura integrativa posta alla fine del presente capitolo). Istituzioni non so-
no soltanto gli enti preposti ad amministrare una società o un sistema economico (il go-
verno, ad esempio, o il parlamento o la magistratura e così via), ma più in generale esse
sono costituite dall’insieme delle regole del gioco che sono vigenti in un dato sistema, e
queste regole sono normalmente date anche dalle consuetudini sociali, dalla mentalità,
dai modelli di comportamento ritenuti corretti o utili. Dunque, quando si afferma che è
utile che il mercato sia guidato dalle istituzioni, non si sostiene che le pubbliche ammi-
nistrazioni debbano intervenire nei processi economici, ma che esse debbano dettare le
regole del gioco, alle quali tutti coloro che intendono accedere al mercato si devono at-
tenere.

52
Gli economisti hanno osservato che la regolamentazione del comportamento e-
conomico di chi partecipa al mercato e il controllo esercitato sulla correttezza dei sog-
getti in esso attivi: a) conducono più facilmente all’avvio di meccanismi di sviluppo,
perché gli investitori hanno più fiducia nel funzionamento del sistema e ritengono che i
capitali investiti, qualunque sia il risultato economico finale, siano comunque legalmen-
te salvaguardati e protetti; b) avviano l’utilizzazione di strumenti che servono a control-
lare il sopraggiungere di fasi critiche, che comunque continuano a fare ciclicamente la
loro apparizione. Questo secondo obiettivo risulta particolarmente importante, soprattut-
to se si considera il significato distruttivo che le crisi economiche hanno spesso avuto
nella storia del capitalismo; ma proprio da questo punto di vista la capacità di analisi
delle situazioni e di intervento nei mercati colpiti si è molto sviluppata e affinata. Le
maggiori borse dei paesi industrializzati, ad esempio, tra gli anni ottanta e novanta del
Novecento, sono andate varie volte incontro a cadute dei valori dei titoli azionari ben
più gravi di quella del 1929, e tuttavia la reazione degli operatori economici è stata assai
contenuta: questo risultato è stato in parte ottenuto grazie alla dominante consapevolez-
za che un trend economico crescente può essere rallentato, ma non annullato da una fase
momentaneamente negativa; ma in misura maggiore ciò è stato anche il risultato dei
controlli che tutte le legislazioni nazionali prescrivono che debbano essere esercitati sul
sistema delle contrattazioni e sulla stessa gestione del risparmio (in Italia questi control-
li sono affidati alla CONSOB), al fine di garantire il più possibile la correttezza degli
operatori economici e la regolarità del funzionamento dei mercati.
L’imposizione di rigide regole di correttezza è apparsa soprattutto necessaria nel
mercato finanziario, che nei decenni finali del secolo è cresciuto velocemente e sponta-
neamente; alcuni operatori finanziari privati hanno raggiunto un tale grado di potenza da
riuscire a determinare quasi da soli, con le loro scelte di investimento, momenti di svi-
luppo o di crisi che sfuggono al controllo di chi dirige la politica economica di uno Sta-
to. Questo ha posto il serio problema della definizione e della creazione di una forma di
democrazia economica, che è importante quanto quella politica. Nel settore della tra-
smissione delle notizie e della cultura, ad esempio, la televisione è divenuto nel corso
del tempo uno strumento assai forte di condizionamento culturale e politico; dunque,
l’assenza di precise regolamentazioni nel funzionamento del mercato televisivo porte-

53
rebbe alla formazione di posizioni dominanti o monopolistiche e porrebbe in serio peri-
colo il pluralismo delle informazioni e delle culture.
Accanto al compito della regolamentazione dei mercati, le istituzioni hanno altri
e più stringenti doveri: devono intervenire in modo diretto in alcuni settori strategici
della vita di uno Stato, la difesa, ad esempio, o la giustizia o la stessa assistenza dovuta
alle situazioni di vero disagio economico. In questo ultimo caso un vero e proprio inter-
vento pubblico è sempre apparso auspicabile, perché è sempre stato lo strumento neces-
sario per ricomporre un equilibrio sociale ed economico. In realtà, uno dei punti più de-
licati nei quali le istituzioni devono far sentire la loro presenza, è costituito proprio dalle
forme della distribuzione dei redditi e dalle quantità dei redditi stessi distribuiti ai sin-
goli e alle classi sociali. Si è visto, infatti, che il funzionamento spontaneo del mercato
globale e, più in generale, il liberismo economico eccessivo conducono ad una forte ac-
centuazione delle diseguaglianze nella distribuzione dei redditi, insomma rendono anco-
ra più appariscente il limite storico del sistema del capitalismo, quello di essere un mo-
dello economico che riesce ad accrescere la quantità di reddito prodotto, ma che non sa
e non può realizzare una distribuzione più equa del medesimo. E gli stessi meccanismi
di diseguaglianza sono realizzati nella distribuzione internazionale dei redditi, che vede
la coesistenza di paesi ricchissimi e di altri poverissimi. Come già aveva intuito Keynes,
in questi casi l’intervento riequilibratore delle istituzioni non è di per sé un gesto di ge-
nerosità o di correttezza morale, anzi non assume mai queste forme e queste funzioni, è
piuttosto l’autodifesa stessa del sistema che in tal modo cerca di evitare gli aspetti peg-
giori delle contraddizioni che potrebbero porre a rischio la sua stessa esistenza e conti-
nuità nel tempo.

54

You might also like