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Psicofantaossessioni
ISBN: 978-88-7848-251-7
Prezzo: € 10,00
Anno: 2007
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dalla Prefazione di Claudio Comandini
Bisognerà ammettere che le poesie di Stefano Amorese – Faraòn
Meteosès meritano il massimo della pena, se misurate con il me-
tro della stitichezza espressiva più diffusa, che spesso scambia per
poesia sfoghi incolori. Meritano il massimo della pena, e forse an-
che di più, perché sono colorate e piene, sonore ed espressive. Il
registro lessicale sulle quali si compongono offre una vasta varietà
di termini del linguaggio quotidiano, miscelati in un frappé lingui-
stico più analogico che logico, ed articolati in una metrica perso-
nalissima, irregolare ma precisa, estremamente corporea, che rive-
la con chiarezza quanto fortemente qui il suono sia la matrice del
verso. Infatti, sono poesie scritte, per così dire, a voce alta:
l‟approdo performativo o teatrale non è episodico a questi com-
ponimenti, ma ne rappresenta proprio uno degli elementi più
specifici.
*
dalla Postfazione di Walter Mauro
[…] un paesaggio linguistico fortemente variegato, in cui la parola
poetica assume ruolo e funzione di viatico verso un viaggio surre-
ale che, pur non dimenticando la consistenza della prassi contin-
gente, opera e agisce lungo disegni e strategie dominate da una
rilevante armonia espressiva. Poesia forte, nella sua modernità,
che non consente equivoci né trasmigrazioni in un altrove/rifugio
che depriverebbe la parola stessa del suo insistito carattere di am-
biguità. In questa direzione, anche i momenti più cruciali della vi-
ta, i risvolti di frangenti rivoluzionari, diventano strumenti di una
parola pietrificata ma non arida, proprio perché arricchita da resi-
stenti strutture ideali. Una voce nuova e diversa insomma, che ri-
flette su nodi tematici che spesso vengono elusi dalla poesia di
oggi: un merito e un pregio di non scarsa rilevanza, poiché si cala
entro una realtà non più astratta, bensì viva e da affrontare con il
coraggio esplicito della parola.
*
dalla Nota di Aldo Nove
(presente nel libro)
Per la capacità di dare voce al linguaggio rompendogli schemi e
travolgendo gli argini delle convenzioni. Per la sapiente,dialettica,
giustapposizione di voci e forme. Un viaggio onirico nella sintassi
e nel lessico.
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Benito Ciarlo
su Incipit
Finalmente approda la sana ironia. Che sia la benvenuta. Forse
che non è dato, al poeta, di ridere delle sue angosce e delle altrui?
Non vi sembra, leggendola d‟ascoltar le sue risate? E non è con-
tagioso quel ridere? E‟ una fisioterapia per le vostre mascelle pa-
ralizzate, disabituate a vedere il lato comico dei grandi temi. E,
allora, dài Faraòn Meteosès, non smettere, che d‟allegria c‟è biso-
gno. Questa presa per i fondelli è un‟opera d‟arte: a cominciare
dal titolo. Incipit. Tutto studiato per bene, nulla lasciato al caso. L‟
“Incipit” sembra di quelli consueti, maiuscole comprese: Apro le
porte della mente, scavalco le fortezze del Nulla. E‟ una spinta! Precipiti
sulla maestrina, le unghiette e la manina e, dopo il primo sbalor-
dimento, t‟accorgi che sei contento di precipitare, fin nel fondo
del baratro, per scoprire che quest‟autore la vuol spacciare per
una pièce d‟avanspettacolo. Quando il fiato, ch‟hai perso per il
troppo ridere, torna, ti ricomponi e la studi e la postilli, e
t‟accorgi, accidenti, della miriade d‟immagini e di messaggi evocati
dai versi. T‟accorgi che c‟è un fondo di riflessione molto più mas-
siccio di quel che appare. Altro che Cabaret! (Non fosse per altro
che per la maiuscola, che mi induce a credere che Meteosès in-
tenda dissacrare anche quella!). Una poesia da leggere e da rilegge-
re, per scoprire, ad ogni lettura, nuove ironie sottili, nascoste tra
le pieghe di quelle più evidenti. Ed è bello che dopo averla letta
tante volte giungi alla conclusione che le domande che tutti noi ci
poniamo, lui se l‟è poste in blocco. E tra il provare angoscia per le
risposte possibili o fregarsene, smitizzando la personale vicenda
che intuisci dolorosa, lui ha scelto la seconda. E gliene sono grato.
*
su Bluff
Per la miseria! Bergonzoni ha fatto scuola, non c‟è che dire. Fa-
raòn Meteosès tratta le parole con tanta noncuranza da rendere
occulto il ragionamento che pure deve averle generate, in quel
contesto, solo apparentemente pazzoide, ma, sempre graffiante.
C‟è di che restare sbalorditi, e affascinati, al tempo stesso, dal rit-
mo incalzante, come una “tammurriata napoletana” che alterna la
sordina all‟enfasi, il sorriso al cachinno. Come già in altre occa-
sioni, la sensazione principale che ho provato leggendo ciò che
scrive quest‟incursore pirotecnico nella normalità imperante è: -
attento al bluff! Spaccia per cabaret pensieri così profondi da pre-
cipitarci dentro senza mai riuscire a vedere il fondo del burrone
che ti scava sotto occhi - . E, rileggendo il titolo di questa poesia,
lo confondo con un‟ammissione di colpevolezza. A conferma, la-
pidari questi versi: Mi riconduco ricontorto allo Sforzo, che smorzo alla
maniera di Plauto, Pluto e Plotino al SINE QUA NON del Servocoman-
do del Segno, v’insegno la finta, la frottola e la frittella per l’ironia della Sorte
in disarmo al sarcasmo, metto la larva contro la Piovra la tarma contro il
verme la pulce contro il tarlo e non parlo a vanvera, a quattro ganasce rido, a
denti stretti vi sorrido in un entusiasmo da vendere, vivendo da Dada e a sba-
fo mi abbuffo di Bubble-gum: Ego sum-qui-sum!. Posso paragonarlo sol-
tanto ad un altro poeta, romano pure lui, che in epoca diversa (i-
nizio secolo), in dialetto e con diverso stile, riuscì a creare un ana-
logo terremoto. Parlo di quel Giuseppe Mastellotti (alias Guido
Vieni) e dei suoi “Foji staccati dar vocabbolario”. Sei cosciente
della strafottenza, della presa per i fondelli, così evidente da non
poterla ignorare e finisci per considerarla liberatoria. Sì, perché
avresti voluto dissacrare anche tu, e non hai saputo farlo, impa-
stoiato come sei dalla tua normalità, tutto ciò che lui dissacra con
tanta grazia, dall‟amore di gruppo al viagra, dalla liposuzione al
Potere con la P maiuscola, ai geyser nei condom e via continuan-
do fino a toccare tutti i riti di quest‟epoca che non sa partorire al-
tro che spot. Provate a raccapezzarvi e a scindere tutto il lavorio
che, verso per verso, ha dovuto fare Meteosès, richiamandosi alla
cultura ufficiale per poi dissacrarla. Ne volete un esempio? … bal-
zando dalle mille molle della Consolle per la protesi di un erastene vi sputo
indemoniato, i sassolini di Demostene e tutt’al più nelle recite, steccando di
acredine evacuo del muco dei Moloch, degli Enoch in baffo ai Bafomet e ai
roast-beef dei Beefeaters non ho più la pazienza che mi crebbe di Giobbe! In
sostanza, è un sorridere, un ridere, uno sganasciarsi, che masche-
rano un grido di dolore. Ti resta l‟amaro in bocca per aver scoper-
to il bluff, per avuto modo di vedere la realtà (miserabile in cui
siamo immersi) dal punto di vista d‟un giullare che s‟arroga il di-
ritto di urlare agli ipocriti cortigiani che “il re è nudo”!
*
Valeria del Monte
su Bluff
Immagino l‟autore dietro la scrivania, ma vedo solo le sue dita
che stringono con forza la penna e che la spingono sul foglio
quasi a volerlo strappare. Non riesco però a figurarmi
l‟espressione del suo viso. Divertita? Rabbiosa? Fatto sta che que-
sta poesia è stracolma di invenzioni verbali, di dissipazioni lingui-
stiche divertentissime, mai narcisistiche, sempre ironiche. Interes-
santissimo, ad esempio, costringere il lettore a storpiare (italianiz-
zare) la pronuncia dei vocaboli stranieri, forzando la rima con i
vocaboli italiani: Bubble gum… ego sum qui sum/mille molle della
consolle e nella precedente lo Yabadaba-duzzie delle mie balbuzie. Qua-
lunque sia la sua espressione, scrivendo queste cose, la mia, leg-
gendole, è sicuramente divertita. Ok Stefano, abbasso i “poeti
maudit” e viva lei.
*
Gianmario Lucini
dalla Rivista telematica Pseudolo
Nessun critico con il lume della ragione e che tenga alla sua repu-
tazione, oserebbe affermare che ciò che Faraòn Meteosès scrive è
“poesia”. Ma io non sono un critico e, in quanto al lume della ra-
gione, forse pazzi sono coloro che sanno di non esserlo, piuttosto
che coloro che dicono di esserlo. E poi, nessun critico né lingui-
sta né filosofo, ha mai definito in modo inequivocabilmente cosa
sia, questa “poesia”. Il problema che i testi di questo autore ci
pongono, non possono però ignorare questo scoglio: i suoi lavori
infatti sono troppo diversi dalla “poesia” che l‟industria culturale
ci propone. E‟ una poesia clandestina che, per giunta, non trova
nel libro, nella parola stampata, la migliore veste di presentazione.
Leggendo i suoi testi (ormai da alcuni anni, su alcuni siti Internet)
mi sono sempre chiesto: chi può scrivere in questo modo? Un
giullare, un pazzo scatenato, un bambino, un burlone, un saggio
che si serve della burla o un burlone che dice cose sagge… la po-
esia di Faraòn Meteosès è qualcosa di tutto questo. Lascia intra-
vedere uno sguardo lucido, uno spirito acuto e attento, uno spiri-
to infiammato dall‟ira ma anche dall‟amarezza. O l‟anima del poe-
ta popolare che, come nella celebre canzone di Jannacci, canta e
ride a crepapelle nonostante le ingiustizie, le sventure, i patimenti,
la precarietà di una vita minacciata dall‟instabilità, dal capriccio
degli eventi. O anche l‟atteggiamento che riesce a dar voce a
un‟inquietudine diffusa fra le persone semplici, quelle che vedo-
no, senza poter reagire, tutti i giochi più sporchi perpetrati alle lo-
ro spalle, che si sentono strumentalizzati dai politici, abbandonati
dalla classe intellettuale, lasciati in pasto alla logica di mercato. Ed
è dunque questa l‟idea che mi sono fatto della poesia di Meteosès:
una poesia civile, connotata da forti componenti etiche, e insieme
una poesia giocosa, costruita con un verso che infrange tutti i ca-
noni del verso tradizionale, che si beffa dei “buoni sentimenti” e
di tutta la prosopopea costruita intorno ad essi, che fa del para-
dosso la più importante figura letteraria, della satira e della provo-
cazione la sua intenzione primaria. Ecco perché una poesia così
concepita non può essere letta, ma deve essere ascoltata. E non v‟è
dubbio che chi ascolta questi testi non può semplicemente alzare
le spalle e tirare avanti. Meteosès non concede ambiguità: o la po-
esia diverte e ci fa ridere (pur di quel riso amaro di chi vede rap-
presentata sulla scena la vicenda dei torti e delle frustrazioni che
ogni giorno deve patire) o la sua poesia ci provoca un senso di ri-
bellione, perché ci sentiamo toccati dalla sua provocazione. Si
tratta dunque di una poesia dalle forti caratteristiche “civili”, an-
che se non ha nulla a che spartire con la “classica” poesia civile
dei nostri giorni. Meteosès infatti tocca tutti i temi della poesia
più “impegnata” in ambito civile e sociale, ma lo distanziandosi
dal tono alto e un po‟ retorico che spesso caratterizza questo filo-
ne. Si distacca anche da quelli che egli chiama, in un suo lavoro
(Bluff), i “maudit” Cari miei poeti Maudit è proprio così / Non sono mi-
gliore di Voi, chiedo venia per la litania / E faccio Cip e postcip / Arf Arf
in un buffo soffio di… BLUFF. Vale a dire coloro che “se la tirano”,
i seriosi, gli eternamente infelici e tetri poeti degli epigoni del de-
cadentismo o di un certo malinteso simbolismo, i poeti malati di
noia e chinati sulla loro piccola sofferenza fino a diventare gobbi,
ignorando il mondo e la sua vicenda di sofferenza (ma anche di
gioia e di allegria). Possiamo immaginare una poesia con queste
caratteristiche, scritta nello stesso stile post-montaliano della poe-
sia contemporanea? Ecco che allora il bambino-poeta scatena
l‟irrefrenabile sua inventiva in costruzioni ecolallaliche, in vezzi,
motti, sberleffi, usando gli stessi artifici classici delle classiche
forme prosodiche (specie l‟allitterazione e l‟omofonia), proprio in
funzione anti-estetica (di una estetica per la maggiora) creando
una estetica rabberciata e paradossale, istintuale ma non goliardica
e incoerente, come verrebbe a pensare a una lettura superficiale. Il
verso di Meteosès non è infatti un verso allo stato brado, anche
se l‟improvvisazione è la caratteristica principale anche della fo-
noprosodia. Meteosès è uno che la sa lunga, che lascia intuire, qua
e là, un lavoro di costruzione e di lima. Anch‟egli, come quegli
scultori che vanno raccattando le cose più strane per riunirle in
una composizione, sceglie con cura i rottami del linguaggio che
deve mettere insieme per creare la lingua che dice le cose che egli
vuol dire, nel modo esatto che l‟autore vuole usare. Il suo stile
non è quindi frutto di un linguaggio lasciato a se stesso, ma di una
attenta scelta delle espressioni e delle parole. Anche quando sem-
bra lasciarsi trascinare dal suono delle parole piuttosto che dal lo-
ro significato, la scelta del termine è sempre molto curata e fina-
lizzata alla creazione di un ipersegno che ha ragione di essere
proprio lì dov‟è collocato. Poeta popolare dunque? Non direi, an-
zi, esattamente il contrario. Fatto sta che la gente ama le sue per-
formançes per le vie di Roma, quando egli recita, come un antico
menestrello, le sue composizioni per chi lo vuol ascoltare, per i
bambini che non capiscono il senso di ciò che egli dice ma sono
affascinati e incantati dal suono di quelle strane parole, per gli a-
dulti che ridono a crepapelle con il riso amaro di chi vede rappre-
sentati i loro vizi, le loro ipocrisie, o le loro pene.
*
dalla Rivista telematica Poiein su Water closet
La tendenza dissacratoria di questa composizione raggiunge qui i
toni dell'esasperazione e rasenta il turpiloquio, con un atteggia-
mento di velenoso disprezzo e totale rottura di ponti nei confron-
ti del perbenismo, con la consapevolezza di chi sa che la sua rab-
bia non scalfisce il nulla e la baudelariana "ennui" che divora la
società con un solo sbadiglio. La poesia di Faraòn Meteosès non è
crassa o regressiva, ma disperata, inviluppata in una specie di ne-
vrosi nella quale sempre più si avvita, senza la percezione di una
via d'uscita. Il suo linguaggio si muove nell'impoetico cercando
vie di scampo, come un pesce senza più acqua si muove in un
fondale melmoso destinato ad essiccare. E anche quando spunta,
qua e là, la risata del giullare, è sempre una risata etica quella che
imperversa, mai una risata catartica. Insomma, si ride per non
piangere e si usa il simbolo del brutto contro l'impoetico stesso, il
simbolo della decadenza e della materialità della vita, ridotta a
processo bio-chimico, contro il vuoto che ha la pretesa di riempi-
re gli spazi resi disponibili dalla morte dei significati, morte che
costringe l'Io psicologico all'isolamento e alla desolazione.
*
dalla Rivista telematica Poiein su Psicofantaossessioni
Psicofantaossessioni rappresenta il compendio editoriale di un reper-
torio di composizioni per la strada. C‟è chi dice che la poesia è
una cosa fragile, che non deve scendere nel baccano delle piazze
perché se no si sciupa e si snatura. Stefano Amorese, un autore
romano di 42 anni, la pensa invece diversamente e le sue compo-
sizioni le porta in strada, in rappresentazioni o “performançes”
come si dice (male) oggi, dove il testo viene accompagnato da una
coreografia, una regia. Il testo viene quindi “inscenato”, diventa
protagonista di un “dramma” e si accompagna a tutte le regole
della rappresentazione drammatica, come nella poesia degli anti-
chi giullari o dei comici greci. Si tratta infatti di testi satirici che
prendono di mira non tanto dei personaggi, quanto i vizi di un
solo personaggio che potremmo indicare nell‟uomo occidentale,
colui che tiene alta la fiaccola di una cultura e di uno “stile di vita”
nel quale sempre più va morendo la sua essenza e probabilmente,
se non si ravvede, il mondo stesso e lui compreso nel mondo. Al-
cune composizioni o poemetti che si trovano nel libro, sono già
apparsi su riviste ed anche su Poiein (Bluff, Sidol, Incipit, Water
closet), le altresì sono aggiunte nel frattempo e probabilmente sono
state raccolte in questo volumetto proprio perché rappresentano
una sintesi unitaria dello spirito di questa poesia recitata (ad alta
voce, come dovrebbe essere tutta la poesia). Viene da pensare che
l‟aver affidato a un volumetto queste composizioni corrisponda al
desiderio dell‟autore di essere presente in qualche modo, almeno
con un titolo, nel panorama dell‟editoria, perché queste poesie
non si adattano al libro che risulta essere uno strumento troppo
limitato per la loro intenzione comunicativa. Per tornare infatti
alla provocazione iniziale, la poesia non può essere un‟arte da sa-
lotto, recitato nell‟intimità e quasi di nascosto, oppure semplice-
mente letta in privato come una sorta di debolezza imperdonabile
in un uomo ragionevole e sano di mente. La poesia da salotti è
una malintesa lirica del cuore, quel piagnisteo su se stessi che as-
somiglia spesso al pianto dei bimbi nei primi anni di vita, quel fri-
gnottare senza motivo per il solo gusto di frignottare. La poesia
invece, come tutta l‟arte, è chiamata a rappresentare la forza dello
spirito, il punto più alto della sua manifestazione e del suo deside-
rio di comunicazione – sia detto, ed è meglio precisarlo, senza ri-
ferimento allo “spirito” idealista, gentiliano o crociano. Così mi
pare la intenda Stefano Amorese. Riguardo i contenuti ne abbia-
mo già scritto altrove e non vogliamo ripeterci né tanto meno pa-
rafrasare i testi, che sono scritti in un linguaggio semplice (appun-
to perché destinati a una recita di strada) e quindi di impatto di-
retto sul lettore o ascoltatore. Su Poiein abbiamo già dei testi, ai
quali rimandiamo, corredati anche da registrazioni in formato
MP3 (recite dello stesso Amorese) che si possono scaricare o a-
scoltare dalla rete.
*
Claudio Comandini
«Dissertazione di una strofa di poesia da Water Closet»
Prendiamo le mosse da quanto dice Walter Mauro nella sua nota
alle poesie di Psicofantaossessioni, scritte da Faraòn Meteosès, "pae-
saggio linguistico fortemente variegato” ci porta verso un “viag-
gio surreale” animato da una rilevante “armonia espressiva”, che
riflette su “nodi tematici che spesso vengono elusi dalla poesia di
oggi.” In questa sorta di emancipazione del marginale rientra sen-
za dubbio la poesia “Water Closet”, dove forse può esemplificarsi
quanto dice in un'altra nota Gianmario Lucini, cioè che l‟autore si
muova “come quegli scultori che vanno raccattando le cose più
strane per riunirle in una composizione, sceglie con cura i rottami
del linguaggio”. E come segnalavo nell‟introduzione, alcune delle
implicazioni di questo componimento possiamo anche cercarle,
oltre che nella pop art (celebre la Cacca d’artista di Piero Manzoni),
anche nella metafisica materialistica. Fra i suoi esponenti, Jacob
Moleschott, filosofo tedesco nominato nel 1879 professore a
Roma, in una città da poco promossa capitale del Regno, ricca di
fermenti laici e creativi che oggi sembrano francamente un po‟
lontani. Egli sostanzialmente affermava (anche se la tesi è enun-
ciata in questa forma dalla zoologo Karl Vogt nel 1856) che il
pensiero sta al cervello come l‟urina sta ai reni. Ne consegue che,
non solo,come ho già citato da Antimo Negri, l„uomo è ciò che
caca, ma anche che la cacca ha certamente la sua dignità. Verifi-
chiamo quindi l‟argomento e le caratteristiche di questo compo-
nimento, ed entriamoci dentro passando dalla porta della metrica:
infatti, le parole hanno sempre un loro ritmo, ed anche il suono
ha un senso. Ma andiamo per gradi, e limitiamoci all‟analisi della
penultima strofa della poesia. Nella mia Massima Privacy fertilizzo il
Territorio circostante Con una Foglia di Vergogna compio un Peccato non
troppo Originale In un Tempo e Luogo debito dubito che mi usciranno frasi
convenienti Spiaccicate come crostacei di calcare Pulsano come i Mille Occhi
Di una Donna sulla specchiera: sedotta e abbandonata Simile ad una Galli-
na Nera che cova un Uovo sgretolato dalla Ruggine Sul Nervo Ottico ce n'è
un Terzo Metafisico Arancione somigliante... al Dalai Lama. Essa pre-
senta versi di sillabe: 9 – 12 – 15 – 7 – 9 – 14 – 13 – 9 – 16 – 10–
14 – 17 – 9. La versificazione si muove quindi alternando versi
più brevi, riconducibili a settenari, a versi più lunghi, anche di di-
ciassette sillabe, mentre le strofe più ricorrenti sono di nove silla-
be. Ogni verso tende a concludersi in sé, e la punteggiatura è mol-
to parca: questa semplicità strutturale è però cadenzata da tessitu-
re ritmiche di tempi dispari, nascoste sincopi ed improvvisi mu-
tamenti. Ciò è molto simile a quanto accade a livello fisiologico
nei movimenti peristaltici che accompagnano la defecazione. E
questo credo che sia da tutti comprensibile. Occorre però ora
comprendere quale possa essere propriamente una sua metrica.
Ora, per ricollegarci alla tradizione poetica della nostra lingua, il
processo di revisione metrica è stato inaugurato con Carducci,
che sperimentava ritmi 'barbari' all'interno delle forme tradiziona-
li, adattandovi le parole attraverso elisioni e troncature. Con Mon-
tale, un apice forse insuperato, il discorso cambia: prevale, rispet-
to al vincolo dell'accento metrico-sillabico del verso, la concen-
trazione sull'accento ritmico della parola corrente e tutta intera, e
quindi perlopiù aliena agli aulicismi letterari. Come notò in un suo
bello studio Ottaviano Giannangeli, con Montale l'endecasillabo,
che rappresenta il respiro più proprio della nostra poesia, eccede
il suo ritmo, ricostituendosi all'interno del verso e in rapporto di-
retto con la lingua parlata del suo tempo, conducendo alla preva-
lenza di una forma dodecasillabica, irriducibile alle forme tradi-
zionali sia dell'endecasillabo regolare, che del doppio senario.
Nella penultima strofa di “Water Closet”, questo estremo “rotta-
me”, sembrerebbe che il processo di dissoluzione interna avanzi
al punto da annullare ogni pretesa di regolarità metrica. Ma pro-
viamo a cercare un ritmo interno di base, un respiro, una pulsa-
zione, un battito profondo, e per farlo consideriamo la strofa
complessivamente. Quindi, risultano esserci 154 sillabe: dividia-
mo questa misura per i 13 versi in cui sono distribuiti, e cerchia-
mone una metrica media, riscontrando che essa corrisponde
quindi a 154: 13=11,846 (...). Curiosamente, risulta che la media
del periodo oscilla proprio fra l‟endecasillabo e il dodecasillabo.
Probabilmente significa qualcosa. La poesia di Montale attraver-
sava una legge data, la regola metrica, per trovare una libertà pro-
pria, suscettibile di tradurre in versi il mondo. Ciò esprime
un‟esigenza diversa da quella di Amorese-Meteòses, che traduce
in versi il mondo seguendo leggi sue proprie, esprimendo
l‟assoluta libertà della poesia. D‟altra parte, l‟autore si fa chiamare
con uno pseudonimo che corrisponde all‟anagramma del suo
nome, e questo la dice lunga sulla sua attitudine poetica, che gli
permette di rielaborare se stesso trattando la realtà con partecipa-
zione e distacco. La sua poesia ci accosta quindi ad un‟interiorità
incontenibile, che deve necessariamente emanarsi in un‟esteriorità
totale: anche a questo riguardo, l‟immagine della cacca sembra e-
semplare. Ora cerchiamo di approfondire ulteriormente l‟analisi
delle strutture musicali di questa poesia avvalendoci di un sistema
misconosciuto e suggestivo, messo a punto dal critico americano
Edward D. R. Neil, che approfondisce il concetto di sinestesia e
prende le mosse dal colore fonetico delle vocali come elemento por-
tante della musicalità della parola, mutuato dalla distinzione alchemi-
ca delle vocali di Rimbaud : A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu:
voyelles!. Questo sistema che Neil elabora a partire dalla poesia di
Rimbaud ci fornisce dei criteri innovativi e calzanti per compren-
dere il ruolo dello specifico elemento sonoro nel linguaggio poe-
tico, e di quali relazioni intrattenga con il significato. Il colore del-
le vocali, ossia una frequenza, misurabile anche attraverso un oscil-
loscopio, sarebbe la vera matrice del ritmo; ne consegue che il
movimento ritmico è indipendente dallo schema metrico, ed è mu-
sicale nella misura in cui il valore fonico della parola ne incremen-
tala carica espressiva. In questa penultima strofa di “Water Clo-
set” sarebbe la vocale “a” della parola “mia” a definire l‟area tona-
le, e nella tessitura del testo inoltre la “A nera” (44) prevale: il ne-
ro è peraltro il colore dell‟opera alchemica al suo inizio. Essa è
seguita dalla “I rossa (42)”: si dimostra un deciso quanto sponta-
neo ancoramento alla natura sonora della parola, dove nella paro-
la “mia”, una “i” precede la “a” come una nota dominante può
precedere la tonica: inoltre, è suggestivo considerare che, dove
“rosso e nero”sono i colori solitamente associati al diavolo e al
mondo delle basse pulsioni, guarda caso proprio “il male” è il
concetto su cui si conclude la poesia. “E verde (38)”, la vocale più
frequente dell‟italiano, è terza, in posizione intermedia. Per trova-
re conferma del solido nesso che in poesia esiste frastuono e si-
gnificato, mescoliamo quindi il rosso e il verde, questi due colori
che stanno nella tessitura prevalente della poesia: come sanno an-
che tutti coloro che da bambini hanno giocato con il pongo, si ot-
tiene proprio il marrone, il colore della cacca; il nero che vi si ag-
giunge, scurisce: poeticamente, potremmo anche dire che “scu-
reggia”. La “O blu” (37) e la “U verde” (2) seguono: se l‟ultima è
la meno frequente nella lingua italiana, il colore della penultima
rappresentava in Rimbaud il compimento dell‟opera alchemica
(evento certamente ancora più raro delle ricorrenze della “u”, raro
forse quanto una poesia compiuta), ma comunque anche esse so-
no “democraticamente” e polifonicamente rappresentate. In que-
sti attraversamenti di vibrazioni poliritmiche, si esprime un candi-
do stupore per la bislacca armonia del mondo, fatta di attrazioni
foniche imprevedibili e fitta di nascoste ricorrenze: ricorrenze il
cui periodo è pulsante, con un andamento ciclico. Infatti, il più
significativo finale della strofa cade sulla parola “Dalai,' che segna
una speculare simmetria invertita con l‟inizio su “mia”. Tutto ciò
significa semplicemente che quando scrive Amorese-Meteosès è
dentro al suo componimento, e lo svolge con coerenza espressi-
va. Soprattutto, nonostante il tono giocoso e il linguaggio franco,
ed il momento indubbiamente delicato (da tutti sempre ricono-
sciuto come “sacro”), non ritroviamo né volgarità né trastullo.
Può stupire che proprio Manzoni, Alessandro e non Piero, affer-
mò esplicitamente in uno scritto del 1854 (dodici anni dopo la se-
conda stesura de I promessi sposi), che la letteratura in Italia spesso
si riduce esattamente ad un “volgare trastullo”. Ma egli non si ri-
feriva ad un atto che trovava disgustoso in sé e di cui reputava i-
nutile l‟esibizione: la questione è più drastica, e certamente più
perversa. Se Jacques Derrida suggerisce, in un suo scritto
sull‟istruzione abbastanza recente, di indagare le letterature so-
prattutto nel loro aspetto istituzionale di “pratica di potere”, ci
fornisce un aiuto Manzoni, autore come tanti banalizzato dalla
scuola, quando afferma che il 'mestiere guastato' delle lettere si
riduce, e proprio nei migliori dei casi offerti dalla letteratura na-
zionale, ad un “tesser lodi appena dissimulato”, ed esattamente di
chi 'parla con disprezzo d'ogni cosa, salvo sempre i potenti vivi',
portando con sé, “idolatrie stilistiche” e “inerzia morale”. Effetti-
vamente, le convenzionalità espressive vanno spesso a braccetto
con una stucchevole cortigianeria, soprattutto nei periodi di rista-
gno culturale e di giochi perversi di potere. Ma non staremo a la-
mentarci dell‟oggi: un altro famoso maestro della nostra cultura
come Giacomo Leopardi nel Discorso sullo stato presente dei costumi
degli italiani (1824) si trovò a trattare della peculiare disposizione
italiana, che non sembra essere cambiata, ad un modo d'essere al-
lo stesso tempo vivace e insensibile, in cui prevale il cinismo, do-
ve attitudini da faccendiere e dissipazione mondana annullano del
tutto ogni civile conversazione e rompono ogni autentico legame
sociale. Questo è effettivamente il contesto da cui antropologica-
mente nasce la nostra cultura. E non sorprende quindi più tanto
che questa cultura soffra, nella sua generalità, di una sindrome
simile a quella recentemente imputata da Marco Travaglio alle de-
generazioni del giornalismo: non cane da guardia, ma comunque
cane, se non da riporto, da salotto. Va a finire che spesso la co-
siddetta cultura diventa un pretesto per non parlare di niente e
per non dare fastidio a nessuno: la poesia poi, sta buona buona, è
anche decorativa, in fondo fornisce un tono all‟ambiente. Alme-
no, con Amorese c‟è qualcuno che la poesia la porta a cacare. So-
pratutto, non ci fa soltanto quello.
Valerio Magrelli
Roma, 05/06/2007 Caro Amorese, La ringrazio per la raccolta,
anche se, da quando ho smesso di dirigere la collana di poesia da
Guanda, non ho più tempo per rispondere alle poesie che mi ar-
rivano – rispondere con l‟attenzione che credo esse sempre esiga-
no. Ci tengo comunque a dirle che ho letto il suo volume con ve-
ro interesse, colpito dalla intensità e dalla violenza di alcuni testi.
Penso ad esempio a Incipit, a L’alternativa (dove ho ritrovato un
tema a me molto caro come quello di Dolly) e soprattutto a KM
1999, con il finale insieme rabbioso e sconsolato. Le auguro buon
lavoro, e ne approfitto per inviarle i miei migliori saluti.
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Giorgio Linguaglossa
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«L’anti-carnevalizzazione della poesia all’incontrario»
sulla rivista cartacea Polimnia n° 17/18: gennaio-giugno 2009
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e sul Saggio LA NUOVISSIMA POESIA MODERNISTA ITA-
LIANA (Edilet, 2010) di G. L.
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Il principio estetico centrale di Hegel, il bello come apparire sen-
sibile dell‟idea, presuppone il concetto di idea come spirito asso-
luto. Il principio estetico di Faraòn Meteosès è il bello come ap-
parire sensibile della fogna, presuppone la fogna come abito dello
spirito assoluto della moderna società delle merci. La società delle
merci è una gigantomachia che rappresenta se stessa, una rappre-
sentazione dove c‟è tutto e il contrario di tutto. Una rappresenta-
zione che è anche una carnevalizzazione del reale, che a sua volta
è una carnevalizzazione di se stessa. Faraòn Meteosès è un poeta
della generazione dei quarantenni, è nato a Roma nel 1965, e Psi-
cofantaossessioni è il suo libro di esordio. La latitudine è impor-
tante perché soltanto in una metropoli sporcacciona e mediocre
come la capitale, immersa nei suoi riti politici bizantini e sede del-
la finta cattolicità della controriforma, di una piccola borghesia
ministerialborghese infingarda, poteva nascere un fungo letterario
come Faraòn Meteosès, il cui nome già altisonante, ha qualcosa di
arcaico-egizio e di onirico-derisorio, che già preannuncia nel no-
me l‟imminente prolasso della fogna delle merci, con le parole di
chiusura della raccolta: “Qui… nel supermarket”. Sappiamo che
Bachtin nel suo libro su Dostoevskij accenna alla categoria
dell‟«eccentrico» che pronuncia la «parola inopportuna». Sta di
fatto, che la «parola inopportuna» di Faraòn Meteosès si trova da-
vanti alla problematica di dover operare una «carnevalizzazione»
di un reale che è già carnevalizzazione di se stesso, di un reale che
ha già abolito la Tradizione, di un «reale» per cui non c‟è più luo-
go né modo di operare alcuna violazione della norma tradizionale
per il semplice fatto che il tardo Moderno ha abolito il concetto di
norma e la società delle merci linguistiche non è distinguibile in
alcuna guisa dalla società delle merci di quel supermarket perma-
nente che caratterizza il Moderno. Il poeta romano, con una ful-
minea sintesi poetico-estetica, ha compreso immediatamente tut-
to ciò, e la sua «carnevalizzazione» è al contempo una anti carne-
valizzazione, e la «discesa culturale» di cui parla Bachtin è resa qui
impossibile dall‟oggettivo stato delle cose in sede filosofica ed e-
stetica: la «carnevalizzazione» di Faraòn Meteosès non può opera-
re alcuna «discesa culturale» né lessicale, né sintattica, né metrica,
né sul piano dell‟organizzazione del testo. Come il carnevale se-
gna la sospensione delle norme che regolano il consorzio civile e
inaugura, per usare le parole di Bachtin, una «vita all‟incontrario»,
così la anti-carnevalizzazione di Faraòn Meteosès si riduce ad es-
sere nient‟altro che la lotta per la autoconservazione dell‟io pura e
semplice, autoconservazione che si esprime nella hilarotragoedia
dell‟io sballottato nel ribobolo, nei rigagnoli dei rottami e del ler-
ciume lucidato che galleggia in quel supermarket permanente che
è la situazione-base del tardo Moderno. Psicofantaossessioni co-
stituisce, a mio avviso, il più drastico e spregiudicato attacco di un
poeta alla modernità del conformismo carnevalizzato che costi-
tuisce la base, la trama e la filigrana della tarda modernità lettera-
ria, dove la «parola inopportuna» di bachtiniana memoria si rivela
essere una altezzosa attività di fiancheggiamento del conformi-
smo delle classi intellettuali dirigenti. La parola di Faraòn Meteo-
sès è invece quanto mai opportuna in un contesto letterario come
quello italiano dove la quantità di conformismo e di arroganza
delle élites intellettuali ha raggiunto livelli di inquinamento davve-
ro inquietanti e intollerabili. Il poeta romano imbastisce così una
batteria di armi leggere, di mitragliamenti e di fuochi di sbarra-
mento da lasciare impressionati e interdetti: la più alta dose di mi-
cro-armi di distruzione in mano ad un incendiario della tempra di
Faraòn Meteosès, a metà tra “Arconte e Rodomonte/ priapeo e
clitorideo”, è cosa che fa ben sperare per poter rompere quel gu-
scio di conformismo letterario solidificatosi nel nostro paese e
che detta da sempre le gerarchie e le primazie letterarie: “Adesso
depotenziare il POTERE/sfiancarne i fianchi in liposuzione dei
lacché/ago-aspirarne i sottomenti in lifting dei Visir/nei double-
face dei Conformisti-Trasformisti; non dico mai la Verità, in det-
tatura, se non sotto tortura,/perché il mio congiuntivo è congiun-
tivite, il mio indicativo è un indizio auditivo,/è un congegno lin-
guistico in uno… Yabadaba-duzzie delle mie balbuzie”. Se il No-
vecento si era aperto con la carnevalizzazione de i Cavalli bianchi
(1905) di Palazzeschi, si può affermare che si chiude con la meta-
carnevalizzazione di Psicofantaossessioni di Faraòn Meteosès.
Enrico Pietrangeli
Luana Bombardi
Gentile Stefano, finalmente sono riuscita a trovare un po' di tem-
po per leggere le sue poesie, che mi hanno colpito per la vigoria e
la vivacità dello stile, per la versificazione impetuosa, magmatica e
fiammante. Più che lettrice, mi sono sentita spettatrice della sua
opera. Mi sembra, infatti, che la sua parole poetica rechi un'im-
pronta (e un impianto, anche grafico) fortemente teatrale. Non mi
ha sorpreso che anche l'autore della prefazione al suo libro abbia
tenuto a rilevare quanto per lei sia importante l'aspetto performa-
tivo. E', forse, il carattere più evidente della sua poesia. Lo si e-
vince immediatamente. Da anni mi occupo di danza e mi sono
domandata spesso che cosa catturi l'attenzione del pubblico, che
cosa, di un allestimento, narrativo o concepito nel segno della più
pura astrazione, susciti il nostro interesse di spettatori, sino, talo-
ra, a trasportarci idealmente dentro la messa in scena. Sono per-
venuta alla convinzione che a rendere efficace uno spettacolo, in-
dipendentemente dall'ispirazione, dalla struttura, dal codice e-
spressivo - che si tratti di un balletto tardo-ottocentesco, o di una
produzione d'oggi non importa - sia sempre e solo la qualità lirica
del messaggio, quell'alcunché di ineffabile e sfuggente, potente e
indefinibile, impalpabile e surreale - tanto più pregnante, in quan-
to percepito (e compreso) irrazionalmente - insito in un gesto o
un movimento allusivo; quella drammaturgia delle emozioni, fatta
di flash, rimandi, piccoli dettagli densi di significato, che si edifica
su valori e contenuti universalmente condivisi, che non necessita
di commenti o spiegazioni, che rapisce e non si lascia descrivere
facilmente. La bellezza esige il silenzio della razionalità ed alberga
in un insieme di frammenti fra loro abilmente collegati e intessuti.
E' questo che, nell'azione coreografica, ci attrae. Che cosa mai
può esservi di più vicino alla poesia? Ma nel creare le proprie sug-
gestioni, nell'affascinare e coinvolgere, la poesia del teatro di dan-
za, così come quella espressa dalla parola scritta, suscita talvolta
un vago senso di malessere e sgomento. Come mi è accaduto -
venendo alla sua opera - leggendo Bambini & sciacalli (già il titolo
inquieta), in cui il sarcasmo pervasivo, la beffarda amarezza, l'in-
clemenza, talora lacerante, delle immagini poetiche stringono
d'assedio il lettore, raggiungendo, a tratti, un'intensità quasi intol-
lerabile. Altre sue composizioni mi hanno colpito per esuberanza,
vitalità e dinamismo. Dirompente, nella sua abbagliante e alluci-
nogena fantasmagoria, è Serpentario. Guizzante, nel suo istrionico
humour, è la teatralissima Kermesse. Ammantata di tristezza, venata
di rimpianto, KM 1999 è di forte impatto emozionale, nel suo of-
frirsi, in forma di rêverie nostalgica, quale riflesso di una profonda
crisi generazionale, nel suo assumere un tono impietosamente au-
tocritico e accorato, nel suo tradursi in un toccante, e quasi grida-
to, inno alla memoria e al disincanto, alla presa di coscienza, a una
(salvifica?) consapevolezza del presente. Lucente, con e senza al-
lusione al titolo, è la deliziosa Sidol, nella sua semplice e inedita
ispirazione, nella sua ellittica incisività, nella sua luminosa conci-
sione, resa preziosa dal lirismo e dalla (romantica) delicatezza di
alcune immagini: 'Le mie mani risplendono come piatti di ottone/insieme
fanno un vassoio di gioielli:/darò a te la carezza più aurea.'. Ecco, in bre-
ve, le impressioni che ho ricavato dalle sue composizioni; impres-
sioni che ho voluto scrivere di getto, affidandomi - come faccio
sempre col teatro - all'irrazionale immediatezza delle sensazioni
che l'opera mi ha suscitato.
*
Andrea Di Consoli
«La Repubblica del Fuorilegge»
Franco Romanò
▪
sulla rivista cartacea La Mosca di Milano n° 19
Biagio Propato
Roma, 9/06/2009
«Un viaggio sniffando l’odore in-odore
della Consapevolezza»
***
Walter Mauro (Libreria Odradek-15.06.'07)
[…] l‟avventura linguistica ha un‟importanza notevole in questo
tipo di convergenze e di confluenze in cui non ha caso c‟è un ten-
tativo di unione tra musica e lingua poetica, perché il libro obbedisce
a una serie d‟invenzioni che rispondono perfettamente a una lin-
gua poetica nuova e diversa… mi pare che sia un tentativo di rompere
completamente certi schemi ai quali invece finiscono per ubbidire
anche numerosi poeti contemporanei, anche quelli che oggi sono
tra i protagonisti […]
*
Plinio Perilli (Libreria Odradek-30.11.’07)
[…] … allora non so se la tua poesia sia metallica o invece in
qualche modo lignea o perfettamente epidermica o interiore, però
c‟è bisogno di lucidarla… di lucidare tutti gli stilemi, di buttarli
all‟aria, di riaprire la maniglia di questa stanza chiusa ed entrare…
in questa stanza che tu perfori… parli anche di serratura. Non è
un gioco casuale. Certo c‟è l‟idea di burla-barlume-bambino… c‟è
sempre il gesto dadaista… però questo è un libro, purtroppo nel
senso epocale… serissimo che prende atto di un caos, esplode,
vortica in qualche modo per accumulo, per esasperazione, per e-
splosione sempre giocosa, giocata… è l‟homo ludens che salva se
stesso e rinnega… è l‟anello che non contiene. [...]
*
Fabrizio Patriarca (Libreria Rinascita-18.03.’08)
[…] … è chiaro, che è un buffone nel senso più nobile del ter-
mine… forse per la commedia dell‟arte… per la capacità di strin-
gersi intorno un canovaccio, di fare il teatro della poesia e vice-
versa… però se buffone dev‟essere è un Arlecchino e nella poesia dei
resti ciò che conta allora davvero è saperli cucire assieme… io
credo che sia maestro in questo […]
*
Dante Maffia (Associazione Aleph-15.11.’08)
[…] c‟è non soltanto il gioco e dietro… una drammaticità terribi-
le… il grottesco, l‟ironico entrano ed escono dai suoi versi… bru-
cia le immagini in cortocircuiti continui… agganciandosi al misti-
linguismo… alla contaminazione di arti… una musica jazzistica di
grande forza […]
Michelangelo Coviello
(Libr. “del Mondo offeso” Milano - 27.03.’09)
Faràon Meteosès, in una mescolanza di sonorità, di sovrabbon-
danza lessicale e di talento istrionico, concepisce i suoi versi per
essere letti fuori, per acquisire una caratteristica orale che proprio
per la sua velocità di comprensione deve apparire come un mani-
festo esplicito. La gente passa e va via con quel qualcosa in più
che le rimane dentro. Ed è per questo che il suo modo di fare po-
esia deve essere ostinato come ostinata è la sua vitalità. Se dovessi
fare un‟analisi critica, i suoi componimenti sembrano poco italia-
ni. Si sente nella sua formazione il contributo notevole della Beat
Generation, questo parlare sempre agli altri e con gli altri, mai per
sé. Ma poi approfondendo, si intravede un tocco di italianità, un
omaggio a Petrolini : quel velo d‟ironia, che lo contraddistingue,
che forse negli americani manca un po‟.
***