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Vila Barbaraaro
Vila Barbaraaro
Daniele
Barbaro 1514-1570
2017
© BREPOLS PUBLISHERS
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En couverture : Veronèse, Portrait de Daniele Barbaro, vers 1562, huile sur toile, 121 × 105,5 cm.
Amsterdam, Rijksmuseum, SK-A-4011.
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Table des matières
7 | Remerciements
9 | Avant-propos
17 | Deborah Howard
Daniele Barbaro and Two Ladies named Giulia
31 | Silvia Scattolin
Vita privata : Il rosion dil re d’Ingiltera di Daniele Barbaro
41 | Deborah Howard
Barbaro Family Portraits in the Cinquecento : Some Observations
59 | Tracy E. Cooper
Daniele Barbaro and the Commemoration of a Patriarchal Dynasty
71 | Ann E. Moyer
Daniele Barbaro and his Dialogue Della eloquenza
81 | Pierre Caye
Daniele Barbaro ou la veritas græca du De architectura de Vitruve
101 | Annarita Angelini
Daniele Barbaro : l’architettura come methodus e machina del sapere
115 | Koji Kuwakino
La varietas in una sylva geometrica che «ricrea la mente stanca dal pensiero delle cose difficili»:
Daniele Barbaro e l’Orto botanico di Padova
137 | Pierre Gros
Forum et basilique dans le Vitruvio de Barbaro
153 | Frédérique Lemerle
Barbaro et les Annotationes de Philandrier sur Vitruve
165 | Manuela Morresi
Fonti bibliche nei Commentari a Vitruvio di Daniele Barbaro
187 | Antonio Becchi
I commenti di Daniele Barbaro al Proemio
della «terza parte principale dell’Architettura» (1556-1567)
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199 | Werner Oechslin
„Sciographia“, die vierte Darstellungsform („species dispositionis“):
Daniele Barbaro, Andrea Palladio und die Kodifizierung der Architekturzeichnung
221 | Laura Moretti
Ancora sulla scenographia : i manoscritti preparatori per la parte quarta
de La pratica della perspettiva di Daniele Barbaro (1568)
253 | Margaret M. D’Evelyn
“The most delightful presence of light”: Glimmers of Perspective
in Daniele Barbaro’s Manuscript Commentaries on Vitruvius
273 | Maria Losito
Daniele Barbaro inventore : il De horologis describendis libellus
e l’Horario universale nella teoria e nella pratica vitruviana
289 | Yves Pauwels
Quatre colonnes et un entablement : Palladio et Barbaro à Maser
297 | Luigi De Poli
Daniele Barbaro : du texte de la Predica aux images de Maser
307 | Francesco Trentini
Le machinationi etiche di Daniele Barbaro negli affreschi di Veronese a Maser
329 | Stefano Lorenzetti
«Quello che è consonanza alle orecchie è bellezza agli occhi».
Figure della musica nel commento a Vitruvio di Daniele Barbaro
341 | Vasco Zara
«Udire secondo le Idee». Daniele Barbaro e la musica degli affetti
373 | Daniel K. S. Walden
Daniele Barbaro, Nicola Vicentino, and Vitruvian Music Theory in Sixteenth-Century Italy
391 | Daria Perocco
Daniele Barbaro ambasciatore e letterato
409 | Carlo Alberto Girotto
Les éditeurs de Daniele Barbaro
421 | Shanti Graheli
Daniele Barbaro e la Repubblica delle Lettere
445 | Don Giacomo Cardinali
Daniele Barbaro corrispondente del cardinale Guglielmo Sirleto
455 | Carlo Alberto Girotto
Une lettre de Daniele Barbaro à Charles de Guise
(et quelques hypothèses pour la fortune de Barbaro en France)
465 | Fernando Marías, José Riello
La fortuna de Daniele Barbaro en la península ibérica
479 | Frédérique Lemerle
Les Vitruve de Barbaro au xviie siècle
489 | Pierre Caye, Eugène Priadko
Le Barbaro de Vasilij P. Zubov
492 | † Vasilij P. Zubov
De la vie et de l’activité scientifique de Daniele Barbaro
523 | Bibliographie
575 | Index
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Le machinationi etiche di Daniele Barbaro
Francesco Trentini
Università Ca’ Foscari, Venezia
Nonostante il catalogo di Daniele Barbaro non registri alcuna opera dichiaratamente dedicata a
questioni etiche, ad una lettura accurata della sua produzione colpisce la nutrita serie di luoghi
nei quali dimostra di avere un’idea molto chiara ed originale dei criteri che debbono orientare la
vita dell’uomo. Si ha l’impressione che insieme all’organizzazione metodica del sapere universa-
le egli avesse concepito anche una personale dottrina morale: un’idea suggerita, del resto, anche
dalla testimonianza resa da Sperone Speroni, suo maestro e amico carissimo, nell’introduzione
al Dialogo della vita attiva e contemplativa. Il dialogo, scritto da Sperone poco prima del 1540
nell’àmbito dell’impegno per l’affermazione di un’etica civile contrapposta agli otia intellettuali,
ha la peculiarità di presentare Barbaro come il testimone di una posizione morale che coniuga
l’orientamento al «vivere umanamente» – l’humanita – con lo studio dei «secreti della natura
e di Dio», privilegiando però la vita attiva sulla pura contemplazione filosofica1. Ciò corrisponde
ad un ritratto inedito del celebre prelato veneziano che siamo piuttosto abituati a pensare come
finissimo esponente del moderno enciclopedismo2.
In realtà negli anni dello studio universitario Barbaro ebbe occasione di misurarsi con la
stretta attualità del dibattito in corso all’interno della scuola padovana intorno a temi morali e
pratici che andavano dalla critica della tradizione antica alla contrapposizione tra determinismo
etico e libero arbitrio. Non bisogna dimenticare che nel 1537 egli ottenne l’insegnamento di
Filosofia Morale all’Università di Padova3, e che nel 1541 fece parte del gruppo di talenti da-
vanti ai quali Alessandro Piccolomini fu chiamato da Speroni a leggere e commentare l’Etica
Nicomachea nell’ambito dei lavori dell’Accademia degli Infiammati4.
gli affreschi della villa che egli fece realizzare da Andrea Palladio entro il 15595 e decorare da Paolo
Veronese verso il 15606 per sé e il fratello Marcantonio. A questo scopo può essere utile con-
centrarsi sul gruppo di ambienti costituito dalla Sala dell’Olimpo e dalle adiacenti stanze dette
rispettivamente del Cane e della Lucerna che, ad un’attenta rilettura, si rivelano come un’ecce-
zionale ‘macchina simbolica’ capace di orientare al ‘vivere umanamente’ chi l’attraversa in modo
intelligente.
Delineandone il progetto etico, Speroni indica con molta chiarezza nella dimensione politica il
contesto entro cui l’humanita secondo Barbaro può compiutamente attuarsi. Ma preliminare a
qualsiasi discorso sull’agire politico, per l’uomo del Rinascimento, è il problema della Fortuna
intesa come Sorte, primo elemento perturbatore nelle vite degli uomini, immagine della varia-
bilità delle occasioni. In questi anni della Fortuna s’indaga a fondo ogni aspetto: la si studia, la
si odia, la si vorrebbe favorevole, si cerca riparo nelle sicurezze della virtù perché la si teme. La si
affronta per luoghi comuni, ad esempio denunciandone il carattere capriccioso il più delle volte
sfavorevole all’uomo di valore e d’intelletto. Vi ritornano di frequente i repertori di emblemi,
da Guillaume de la Perrière a Francesco Marcolini, immancabilmente contrapponendo la buona
sorte del bifolco o del fannullone che riceve ricchezze ed insegne regali di ogni genere, alla cat-
tiva dell’uomo di valore8, l’uomo dallo spirito distinto e onorevole che non riuscirebbe ad ave-
re lo stesso felice esito nemmeno se dovesse «lavorarci per cinquant’anni»9. Vi ritorna Jacopo
Tintoretto all’inizio degli anni Quaranta, nell’Allegoria della Fortuna oggi a Brera, scoprendo
nella fisima umanistica un contenuto universale. Pur senza dimenticare la proverbiale frustrazio-
ne dell’intellettuale, rappresentato dal vecchio col copricapo rosso, egli rappresenta l’iniquità
del caso facendo piovere corone e flagelli su degli uomini tutti genericamente abbigliati e privi di
particolari qualifiche: un contrasto fra una democratica rappresentazione dell’umanità e l’anti-
democratica azione della Sorte/Fortuna10.
Anche la stanza del Cane a villa Barbaro contiene una complessa e coerente meditazione
sulla Fortuna, interpretata questa volta attraverso il classico contrasto con la virtus. È proprio lei
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La Fortuna spodesta un re
(fig. 1), la dispensatrice di ricchezze o di pene già apparsa nelle Sorti di Marcolini, a comparire nei
panni di un’avvenente giovane donna al fianco del vecchio re addormentato: lo dichiarano senza
ombra di dubbio gli attributi della catena, della corda e della corona, identici a quelli dell’inci-
sione11. L’immagine ci ricorda che la Fortuna, oltre ad essere totalmente cieca – o meglio perver-
sa – nel distribuire i suoi privilegi, è anche straordinariamente volubile e pronta a riprenderseli
indietro. «Nempe addit cuicumque libet Fortuna rapitque / Irus et est subito, qui modo Croesus
erat»12, scriveva Ovidio alla giovane amica Perilla mettendola in guardia dai rovesci di fortuna e
suggerendole l’antidoto della vita intellettuale. Il monito ovidiano riecheggia anche nella stanza
del Cane, ove infatti la Fortuna capricciosa si riprende la corona togliendola ad un ricco sovrano
colpevole di essere sprofondato in un sonno imprudente13.
La fortuna – scriveva Cervantes – «per l’imprudente poco dura»14. Per questo a villa
Barbaro, dove la fuga dal mondo concessa a Perilla non è messa in conto, s’invita lo spettato-
re, attraverso adeguati ammonimenti figurati, a bilanciarne l’azione con il valore. Del resto già
Machiavelli non aveva dubbi: «[Fortuna] dimostra la sua potentia dove non è ordinata virtù
a resisterle, e quivi volta li suoi impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tener-
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ni di Agnadello, tratteggia la sua moderna idea di politica con modi molto prossimi agli affreschi
veronesiani:
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Riducevano alla memoria tutte le cose humane reggersi con certa varietà et muta-
tione, in modo che con perpetuo giro qual’hora crescere, et qual’hora diminuire si
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veggano; havere la loro Repubblica per lungo tempo goduta una continuata pro-
sperità; hora convenirsi saper tollerare alcuna cosa adversa; variata la conditione
de’tempi, poter facilmente risorgere la sua prima riputatione et riaquistarsi l’impe-
rio et l’antica gloria; però convenirsi di usare tale prudentia et temperamento che
per voler far violenza al tempo troppo accelerando la rinascente grandezza della
Repubblica non si venisse a condurla all’ultima ruina20.
La quies
Nel dialogo Della eloquenza, Daniele Barbaro indica l’origine dell’etica in ciò che chiama ‘il
riposo della verità’: «L’anima adunque, nella quale la ragione si dee porre, acciò che dia luogo
alle pruove, et accettar possa la buona opinione, et iscacciare la contraria, deve essere riposata et
quieta, et non in modo niuno affettionata, et travagliata»21. Non per caso, quindi, egli aveva fat-
to rappresentare nella Stanza della Lucerna, un Ercole a riposo e una donna che regge uno spec-
chio (fig. 3). L’abbandono dell’eroe mollemente reclinato sul fianco al termine delle sue fatiche
(la clava e la leontea ce lo ricordano) rappresenta l’ingresso nella condizione di quies garantito
dall’onesta e virtuosa fatica22. Inoltre il viso dell’eroe, che con un evidentissimo scarto rispetto
alla tradizione iconografica ed alle rappresentazioni coeve si presenta segnato da un’evidente
calvizie e da una fronte fittamente solcata da rughe, riferendosi al tipo del filosofo antico avrebbe
costituito per Barbaro e i suoi dotti interlocutori un richiamo a certe interpretazioni allegori-
che dell’eroe come immagine della pratica filosofica, sul genere di quella ben nota proposta da
Erodoro di Eraclea: «[Ercole] grazie alla clava, che è l’anima dotata di fortezza, e alla pelle, che è
l’arditissimo saggio ragionamento, vinse la battaglia terrena contro il cattivo desiderio, pratican-
do la filosofia fino alla morte»23.
Il primo passo verso la contemplazione etica è dunque l’epochè filosofica. Il successivo è
indicato dalla donna in primo piano, non un’allegoria della Prudenza che inviti a proiettare lo
sguardo sugli esiti dell’agire umano24 ma una figura probabilmente destinata a rimanere senza
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Ercole e lo specchio
nome, funzionale a richiedere allo spettatore lo sforzo di riflettersi nello specchio, cioè di ogget-
tivare la visione della propria interiorità passando da una sorta di incoscienza alla profonda co-
noscenza di sé. Non a caso lo specchio è il simbolo che Alciati fa corrispondere al celebre motto
di Chilone spartano – reso celebre dall’uso che ne fece Socrate – «gnothi sauton»25.
La coppia è concettualmente molto prossima al simbolo lix del libro ii delle Symbolicarum
quaestionum di Achille Bocchi, pubblicato appena cinque o sei anni prima degli affreschi della
villa. Accompagnata dal motto «En viva e speculo facies/ splendente refertur,/ hinc sapies, po-
terisque omnia,/ dum ipse velis», l’incisione rappresenta il filosofo Socrate intento a mostrare
allo spettatore, assieme ad un suo discepolo, uno specchio che è stato scoperto solo in minima
parte. I versi a commento esplicitano l’idea che attraverso lo specchio l’uomo possa fare intro-
spezione valutando la condizione morale in cui si trova. Emblema, immagine e testo si muovono
sulla contrapposizione tra la facies riflessa, cui corrisponde la deformità del corpo che in chiave
platonica corromperebbe il profilo morale dell’uomo, e le categorie di intus-virtus-voluntas che
rappresentano il vero oggetto d’indagine del rispecchiamento26. Anziché presentare una dottri-
na, Socrate porge uno strumento – lo specchio – rispetto al quale mettere in gioco la volontà ed
il discernimento27. Analogamente l’Ercole-filosofo con la sua quies pone le premesse perché lo
spettatore decida di misurarsi con lo specchio: la logica è la stessa.
25 Alciato 1546, c. 32, dove all’emblema intitolato Dicta VII. Sapientium corrisponde l’immagine di una don-
na che esamina la propria immagine riflessa in uno specchio circolare e tra i vari distici si legge: «Noscere se
Chilon Spartanus quenque iubebat / Hoc specula in manibus, vitraque sumpta dabunt».
26 Bocchi 1555, p. 121: «Quid faciam? Dices. Illa est suprema voluntas / imploranda tibi, te intus ut inspicias / Tum
vero aeternae flagrans pietatis amore, / ne dubita: poteris mox simul atque voles».
27 Su Achille Bocchi ed il simbolo si veda Angelini 2003, p. 54, n. 141. La stessa autrice ha discusso la prossimità
ideale e metodologica tra Daniele Barbaro e Achille Bocchi anche in Angelini 1999. Sul simbolo LIX si veda
Di più l’immagine veronesiana inserisce un secondo termine di paragone. Con cenno ele-
gante, infatti, la donna punta l’indice giusto sopra la sua testa verso il riquadro del soffitto (fig. 4)
314 invitando così lo spettatore a misurare il proprio stato interiore. Qui è rappresentato il momento
finale dell’ascesa al monte compiuta da un pellegrino con le gambe e le braccia cosparse di pia-
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ghe, al cospetto di due donne: una, più in evidenza, con l’indice alzato a indicare l’Ouroboros in
cielo, è la Fede, riconoscibile per i diversi simboli religiosi che la accompagnano (calice, Bibbia,
filatteri ebraici); l’altra è la Mansuetudine, opportunamente associata all’agnello, animale dal
mite carattere. La logica complessiva della scena suggerisce di interpretare la piaga dell’uomo in
senso morale, secondo un’antica metafora ritornata in auge negli anni del dibattito intorno alla
Giustificazione28, che Barbaro conosceva bene, tanto da utilizzarla nello scambio epistolare con
la zia suor Cornelia: «il peccato è infirmitate che macula la persona e la natura nella volontate, e
la natura nella carne»29.
Tuttavia, tanto nelle lettere quanto nella Stanza della Lucerna egli si tiene a margine delle
questioni strettamente dogmatiche reimpostando il problema sul piano etico. Quasi ignorando
il merito dello scontro dottrinale, infatti, affronta la questione del peccato opponendo ai conte-
nuti un metodo: «già vi è noto quale sia l’ordine della divina giustizia, cioè che il bene eterno sia
preferito al bene commutabile, l’onesto all’utile, ed il volere di Dio al piacer nostro, acciocchè il
giudizio della ragione drittamente governi la nostra sensualitate»30. L’uomo, dunque, potrà ri-
costituire la sua humanita se, scoprendosi «infirmo», tenderà sempre al «bene eterno». La stes-
sa contrapposizione fra «commutabile» ed «eterno» era rappresentata nel riquadro. Infatti, il
caduceo e la cornucopia, coppia di attributi che sin dall’antichità classica identifica la Fortuna
come Fœlicitas Publica, ovvero dispensatrice di beni terreni31, sono a terra, ignorati o addirittu-
ra calpestati. In cielo la sfera circondata dall’Ouroboros, invece, promette all’uomo infermo il
bene divino dell’unità nell’eternità. In conclusione, se all’uomo nella vita attiva si raccoman-
da prudenza e vigilanza, allo stesso nella sfera contemplativa è richiesto di rivestirsi di quella
Mansuetudine che Barbaro considerava la virtù fondamentale per accedere ai beni eterni32.
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I quattro libri
dell’architettura
dell’Olimpo, ed in quello privato dei sei ambienti disposti – tre e tre – nelle barchesse (fig. 5).
Entro questo schema le due piccole stanze del Cane e della Lucerna, nelle intenzioni di Palladio
assolvono la funzione di vestiboli pensati in relazione al movimento dagli ambienti privati verso
la sfera pubblica e viceversa, dunque vissuti in strettissima connessione con la Sala dell’Olimpo.
Il vincolo funzionale, tuttavia, pare infranto dalla scelta tematica degli affreschi di quest’ul-
tima sala che per la presenza dei quattro elementi e delle sette divinità planetarie si propone
immediatamente come una «macchina del mondo»33 (fig. 6). Solidamente ancorate a tematiche
naturalistiche proprie della cultura scientifico-enciclopedica coeva, le immagini si presentano in
problematica discontinuità con i temi etici delle due stanze adiacenti.
Le allegorie dei quattro elementi, rappresentati da Cibele, Nettuno, Giunone e Vulcano,
sospesi sulle nubi più basse del cielo illusivamente aperto nelle decorazioni del soffitto descrivo-
no la materia e il mondo sublunare. Secondo la fisica antica tutta la realtà materiale è l’esito del
rimescolamento in varie proporzioni di questi quattro principî, aria, acqua, terra e fuoco, ciascu-
no dei quali presenta caratteristiche intrinseche che vengono espresse in varia misura anche nel
miscuglio che dà origine ai corpi.
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Cupido punto dalle api
non può che perdere il suo significato tecnico di gestione e distribuzione delle derrate alimentari da
parte dello Stato conservando di esso solamente l’idea sottintesa di Natura Abbondante39.
Così i due monocromi intervengono a ridimensionare l’apparente senso di conflittuali-
tà con l’elemento naturale contenuto in un passo dei Commentari, dove l’arte è indicata come
il metodo con il quale «si vince la natura in quelle cose nelle quali essa natura vince noi»40.
Piuttosto, alla luce delle allegorie di villa Barbaro, sembra d’intuire che la machinatione umana
– e l’arte è proprio questo – può contare sulla positività di Natura, ed ha il suo punto di forza
nella capacità di esaltarne l’indiscusso valore rimuovendone le accidentali imperfezioni.
Il monocromo sud (fig. 7) presenta un’iconografia senza precedenti, un’assoluta inven-
zione di Veronese come al solito fondata su una selezione di fonti testuali ed iconografiche au-
tonomamente rielaborate. In un ridente prato fiorito, presso un albero carico di frutti, si trova
Cupido reclinato a terra, che con la mano sinistra brandisce l’arco e sembra schermarsi il volto
con il braccio. La faretra è appoggiata ad un frammento di trabeazione dorica. La particolare po-
stura di Cupido è derivata evidentemente dalla statua del Galata caduto, all’epoca in collezione
Grimani. Ma la ripresa non si limita al livello formale. Il fanciullo, infatti, appare evidentemente
in difficoltà e sembra volersi difendere da una misteriosa minaccia proveniente dal cielo. Il con-
testo agreste, la presenza dell’albero, la figura di Cupido in difficoltà richiamano senza replicarla
l’iconografia di Cupido punto dalle api resa celebre da Lucas Cranach il vecchio. La fonte di
Cranach è stata indicata nell’idillio XIX Il ladro di miele dello pseudo-Teocrito, uno scherzo
poetico tipicamente alessandrino sul tema di Eros dulce-amaro che racconta dello scambio di
Fortuna stabilis
battute tra un Cupido dolorante e risentito per essere stato punto dalle api mentre cercava di
rubare loro del miele, ed una Venere ironica e divertita dal singolare contrappasso occorso al
figlio41. Come in Cranach, anche in Veronese è presente l’albero di mele, allusione alla dolcezza
di Amore42, e si possono leggere le api in alcune macchie di biacca sul nero dello sfondo proprio
sopra la testa del dio mentre una di loro, una macchia scura sullo stinco del fanciullo, è uscita
dallo sciame con intenzioni non certo amichevoli. Molto altro, certo, manca: dalla dea Venere al
favo rubato. Ma nella logica potentemente allusiva dei monocromi il rinvio alla fonte teocritea
è perfettamente riuscito.
L’inserimento della scena al livello degli elementi invita però a trascendere il dato lette-
rario riconoscendo nel soggetto una perfetta restituzione simbolica dei due principi opposti,
Amore e Odio, indicati da Empedocle come le forze fondamentali e universali che governano
il mondo elementare. L’aneddoto del Cupido aggredito dovette sembrare il più appropriato
in quanto al dulce dell’attrazione amorosa associava indissolubilmente l’amarum della repul-
sione in dinamica interazione.
Il criterio dell’aggregarsi e disgregarsi del mondo elementare, per Empedocle, è la Fortuna,
intesa come principio irrazionale che governa il divenire del mondo. Sorprenderà quindi ritro-
varla nella Sala dell’Olimpo distesa a terra e con la ruota spezzata, come «Fortuna fermata» o
«Fortuna stabilis»43 (fig. 8). Quest’ultimo dettaglio, infatti, parla dell’esaurimento del potere
dinamico di Fortuna e con questo significato, ad esempio, si ritrova nella medaglia di Nicolò
di Marco Giustinian coniata in occasione della sua morte44. Esclusa ogni accezione funeraria
in villa, non resta che intendere l’allegoria come un’antitesi. In questo singolare emblema della
Fortuna allora dovremmo leggere il superamento della casualità che i filosofi materialisti antichi
reputavano al governo degli elementi. E dunque come Speroni nel suo Dialogo sopra la Fortuna
affermava che solo per ignoranza «molti vani fanno dea la Fortuna, e signora di questo mondo
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mettere che si tratta di un Empedocle riveduto e corretto, privato del suo lato inquieto e desta-
bilizzante per essere ricondotto ad un ordine causale che davvero non gli appartiene. Anche per
questo i quattro monocromi insieme ai quattro riquadri d’angolo del soffitto della sala costitu-
iscono un raffinato saggio di rappresentazione di Natura iuxta propria principia in linea con la
cultura delle Accademie di cui Barbaro fu promotore entusiasta. Nella pacificante prospettiva
del metodo artificioso con cui le accademie manipolano tanto la conoscenza quanto la realtà,
la materia elementare perde il suo lato oscuro per ridursi a fenomeno meccanico garantito da
rigorose leggi che ne consentono un positivo sfruttamento.
Il mondo sopralunare
meva in modo convincente l’idea della causalità celeste, cioè l’azione esercitata dai corpi celesti
sugli elementi e sulla materia del mondo sublunare che costituiva la struttura portante della fisica
aristotelico-araba48.
Data questa cornice astronomica, e quella fisica di cui già si è detto, le diverse interpre-
tazioni proposte per la fanciulla a cavallo del dragone, tanto quelle vagamente platonizzanti49
come pure le eventuali declinazioni in chiave apocalittica50, paiono francamente fuori luogo. Per
prima cosa si dovrà riconoscere nella bestia l’ennesimo riferimento astronomico, questa volta alla
costellazione del Dragone, di cui Veronese ci fa vedere praticamente solo la testa e la coda, una
zampa e delle ampie ali da pipistrello seminascoste dalla gonna celeste della giovane. Nei suoi
Astronomica, Igino lo descrive come un gruppo di quindici stelle che si snodano al colmo dell’e-
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in cui la Luna incontra l’eclittica solare, fu ritenuta responsabile di temibili eclissi e per questo
guardata sempre con un misto di venerazione e paura.
Anche la fanciulla andrà interpretata a partire dal dato astronomico tenendo conto che,
sulla mappa celeste, la groppa della costellazione del dragone su cui sta seduta corrisponde al
Polo Nord celeste. Quest’ultimo, coincidente con l’intersezione tra l’asse terrestre e la sfera delle
stelle fisse, ha la caratteristica di essere il solo punto immobile del cielo boreale, cosa che indusse
le civiltà antiche a immaginare delle divinità che vi risiedessero. Oltre a Mithra, Helios e Abrasax,
furono identificate con il polo anche divinità femminili come Afrodite, Iside o Demetra/Brimò
e, ciò che più conta, in tale veste furono tutte considerate signore delle sfere celesti53. La me-
moria di questa tradizione, che risaliva a forme archetipiche di culto dell’asse cosmico in rela-
zione alla Dea Madre attestate presso le principali civiltà protostoriche, raggiunse l’uomo del
Rinascimento attraverso le pagine delle Metamorfosi di Apuleio dove Lucio si rivolge a Iside
come alla dea che conserva il cosmo nel suo ordine universale: «Tu muovi il mondo sul suo asse,
tu accendi il fuoco del sole, tu governi l’universo, tu poni il Tartaro sotto i tuoi piedi. Gli astri
sono docili alla tua voce, le stagioni ritornano per la tua volontà, gli dei gioiscono alla tua vista,
gli elementi sono ai tuoi ordini»54.
Con ciò non vogliamo dire che nella donna a cavalcioni del Dragone, Barbaro abbia voluto
rappresentare Iside, o perlomeno non in senso letterale. D’altra parte questa fanciulla non ha
nulla a che vedere con l’iconografia di Iside con il serpente ed il sistro in mano55. Della divinità
invocata da Lucio essa conserva semmai il potere sulle sfere celesti, esplicitato da Veronese attra-
verso lo sguardo supplice che le rivolgono le divinità planetarie, ma soprattutto nel doppio gesto
delle mani, la destra distesa sul fianco a imprimere alle sfere il loro movimento orizzontale, la
sinistra abbassata verso lo spettatore a spingere la sua energia verso il basso. Urge sull’interpreta-
zione di Barbaro l’immagine dantesca del Bene Divino che «volge e contenta» le sfere celesti,
facendo «esser virtute sua provedenza in questi corpi grandi», cioè nei pianeti56.
Tuttavia il passo di Apuleio rimane comunque fondamentale per la lettura dell’intero
soffitto, perché con maggior chiarezza rispetto a quello dantesco manifesta uno strettissimo
vincolo di necessità che lega alla divinità non solo i cieli, ma anche la materia, e ne regola
deterministicamente il comportamento. Lo straordinario sistema iconografico che ne deriva
avrebbe permesso a Barbaro di vedere rispecchiato in figura tutto il dinamismo contenuto
nella sua idea di “macchina del mondo”:
51 De Astronomia, II, 3.
52 Tretti 2007, p. 205.
53 Mastrocinque 2005, p. 171-172.
54 Metamorphoseon, XI, 25.
55 Cartari 1556, c. 26v.
56 Paradiso, VIII, 97-99.
Però sapere si deve quanto può operare questa natura corporea quaggiù, acciocché
non siamo in errore. Dico adunque che gli influssi del cielo possono fare distinta
significazione degli anni, dei mesi e dei giorni, come di ce la Scrittura […] non
324 però sono segni certi delle cose contingenti, né possono sopra il nostro libero arbi-
trio. Laonde il tutto le è sottoposto, e niente la domina se non Dio: non elementi,
non cieli, non destini, non fortuna, non cosa diversa dal suo fattore. Ringraziamo
F RA N C E S CO T R E N T I N I
adunque Dio, ed amiamo il nostro fattore, che per noi ha fatto il tutto, e noi per
se; e sappiamo che siccome Iddio ordinatamente ha fatto le cose quanto al tempo,
e disposte quanto al sito, e le governa quanto all’influenza; così la sacra Scrittura le
narra ordinatamente quanto alla sufficienza della dottrina57.
A questo punto, dobbiamo ritornare al monocromo della Fortuna stabilis per leggerlo in re-
lazione tanto alla scimmia sulla balaustra sottostante – esattamente come s’è fatto abbinando
la Giustinian alla Natura lactans – quanto alla fanciulla sul dragone. Da questa triangolazione
la Fortuna con la ruota spezzata si rivelerà essere una perfetta allegoria della Causalità seconda
che governa il mondo elementare. Per descriverla Tommaso d’Aquino aveva fatto ricorso a un’e-
spressione metaforica presentandola come «imitazione imperfetta» della Causalità prima58. In
modo analogo, negli affreschi di villa Barbaro era stata associata all’animale imitatore chiudendo
il discorso sulla ruota della perfetta Necessità disegnata con la figura e il gesto dalla divina fan-
ciulla al centro del soffitto.
La sala dell’Olimpo si presenta dunque come il teatro della Necessità, ove il tema del libero
arbitrio è deliberatamente bandito almeno tanto quanto è insistentemente ribadito nelle due
stanze attigue. Eppure, proprio per via fisico-enciclopedica, l’immagine recuperava il tema etico
che nei riquadri circostanti all’ottagono sembrava essere stato abbandonato. La chiave sta negli
scritti di Barbaro, laddove, presentando quella che egli stesso chiama «macchina del mondo»,
egli parla del governo della virtù superiore sugli elementi, e specifica: «Ma qui bisognerebbe
entrare in un largo pelago di filosofia morale: il che non penso sia a proposito»59. Senza dubbio
il riferimento di Barbaro è alle conseguenze etiche del determinismo fisico, quelle che avevano
indotto Pomponazzi a rinunciare all’autonomia etica garantita dalla dottrina del libero arbitrio
in nome di una causalità necessaria universale che governa l’essere e l’agire degli uomini. Con
pochi dettagli sapientemente inseriti nella cosmologia veronesiana, Barbaro riesce a dare figura a
uno dei più difficili nodi del dibattito etico padovano, avvertito da molti come particolarmente
serio per le evidenti implicazioni con il tema della predestinazione60. Ciò che non aveva inteso
approfondire nelle sue lettere teologiche fu da lui scelto come il centro della riflessione morale
condotta a villa Barbaro.
L E M AC H I N AT I O N I E T I C H E D I B A R B A R O
L’impresa di Daniele Barbaro
Riepilogando: libero arbitrio nelle stanze, necessità nella sala dell’Olimpo. La villa non si capi-
sce se non ci si muove attraverso di essa. Bisogna ritornare all’idea di un vissuto plasmato dallo
spazio architettonico. Solo così di due immagini in antitesi, parziali e paralizzate, si potrà otte-
nere un’immagine plastica e viva. Il movimento dalle stanze verso la sala e viceversa collocava
fisicamente lo spettatore nel difficile rapporto tra i due poli di un dibattito sull’etica da tempo
giocato tra Provvidenza divina e Libero arbitrio. Soprattutto, collocava lo spettatore nello spazio
dinamico della risposta personale ad un sistema di immagini che in fondo altro non era se non
l’enunciazione di una domanda.
In conclusione, tenendo conto della sintassi architettonica e delle funzionalità degli spazi, le
stanze del Cane e della Lucerna, convergenti sulla Sala dell’Olimpo, definiscono un sistema icono-
grafico ben temperato di sollecitazione della volontà alla virtù e di coscientizzazione all’azione di
Provvidenza e Natura nella vita umana. Relegata la temibile Fortuna entro i limiti della vita politi-
ca, Barbaro consacra in villa una nuova dialettica etica in cui la virtus interagisce con la Natura sive
Providentia, nella sua duplice manifestazione come causa prima e causa seconda.
Lo stesso equilibrio dinamico era stato ricercato ed espresso da Barbaro nell’emblema
(fig. 10) consegnato a Girolamo Ruscelli per la sua raccolta di Imprese illustri61. Qui, attraver-
so la riproposizione dell’esperimento d’ispirazione aristotelica consistente nel trasferimento
di una fiamma da un corpo acceso ad uno spento ma fumante, con l’interpolazione del motto
«Volentes», Barbaro crea un’immagine di sintesi dell’azione integrata delle tre realtà, divina,
naturale e umana nella sfera morale, e lo fa attraverso l’impalpabile realtà del fumo e del fuoco
astrale. Una catasta di legna viene eletta a rappresentare la ‘persona terrena’ alla quale sovrastà
una stella cometa, metafora della virtù divina la cui grazia scende in forma di fiamma verso il
basso. Il centro dell’emblema, però, è il fumo, che insieme al motto rappresenta la realizzazio-
trio in àmbito protestante ed uno efficientista in àmbito cattolico, entrambi basati sul confronto
e scontro tra uomo e Dio, egli propone un paradigma laico di piena attuazione dell’uomo nella
sua natura, chiedendo di trovare un consapevole equilibrio tra l’esercizio della virtù e la certezza
dell’azione benevola di Natura e di Provvidenza.