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Nidi e materne: modelli educativi

di Leonardo Angelini

Come nasce la programmazione educativa

Negli ultimi anni ci stiamo abituando all'uso del termine programmazione educativa e,
come spesso accade per quelle parole che diventano pian piano patrimonio comune
dei membri di un determinato contesto sociale o professionale, l'uso di queste parole,
programmazione educativa, il "consumo" di queste parole ha prodotto come un
levigamento, uno smussamento per cui, se all'inizio c'era in esse qualcosa che poteva
renderle sintomatiche di un cambiamento, ora sembrano aver perduto ogni significato
"eversivo" - almeno nel contesto degli Asili Nido e delle Scuole Materne Comunali della
nostra Regione - per designare invece una routine. La prima cosa da fare perci ò è
quella di uscire fuori dalla comodità della routine per cercare di ricostruire il processo
che ha dato vita non tanto al termine programmazione educativa, quanto a quel
complesso di idee e di pratiche che nel termine sono confluite.
Nel cercare di ricostruire le tappe secondo le quali quest'insieme di concetti e di
pratiche educative si strutturano cercheremo di vedere la situazione in termini
"regionali" e cioè prendendo come punto di partenza la Regione Emilia-Romagna e,
soprattutto per il passato, la Provincia di Reggio Emilia.

“Programmazione” come custodia

Il cattolico reggiano Mario Mazzaperlini nel suo libro "Storia delle Scuole Materne
reggiane"1 , riandando ai problemi dell’educazione infantile prima dell'Unità d'Italia a
Reggio Emilia, afferma che fin dal XVI-XVII secolo esistevano vari Enti in Provincia di
Reggio Emilia, preposti ai problemi dell'infanzia. "I documenti attestano" (Mazzaperlini,
pp. 47/48) "che ogni ente ospedaliero provvedeva promiscuamente ai bisogni vari
dell'umanità sofferente".

1 M. Mazzaperlini: "Storia delle Scuole Materne reggiane", Futurgraf ed. 1977. Per una ricostruzione del
passato delle istituzioni prescolari nella nostra Regione abbiamo preso come "guida" questo testo, che
pur si riferisce ad una realtà provinciale.
Cosa significa questo? che anche nel nostro territorio si nota quello che Foucault
afferma essere avvenuto in tutta Europa in quel periodo e cioè la formazione di
universi concentrazionari, di "asili" che inizialmente ospitano, assistono, segregano
indistintamente il folle, il vagabondo, la prostituta, il malato, il figlio di nessuno,
l'orfano ecc.; luoghi cioè che "provvedono promiscuamente" a celare all'operoso
mondo che la borghesia sta facendo nascere nelle viscere stesse della società feudale
ciò che va celato.
Comincia qui un distacco 2 fra infanzia e mondo degli adulti che per le classi agiate
avrà tutt'altra evoluzione, ma che per le classi subalterne si esprime sotto la forma di
un qualcosa che la società, nel momento stesso in cui si preoccupa di distin guere, si
preoccupa anche di celare, almeno nelle sue espressioni più crude (l'orfano, il bambino
abbandonato). C'è già in quest'opera una programmazione? Certo è che la tolleranza e
la ruolizzazione del diverso che la società Medievale aveva messo in atto non sono più
funzionali alla produzione mercantile, al commercio, al clima nuovo che si doveva re-
spirare soprattutto nelle città. Per cui l'emergere dell'infanzia nelle istituzioni sembra
essere stato legato all'inizio ad un discorso di igiene della città e, più in generale, di
quello che noi chiameremmo il territorio. Nasce così l'universo concentrazio-nario
promiscuo che, col passare del tempo e con l'estendersi dell'attenzione della scienza
medica e delle scienze sociali sui problemi della famiglia e del bambino, tenderà
sempre più a specializzarsi (manicomio, asilo, ricovero, casa della giovane ecc.) ed a
scientificizzarsi (psichiatria, psicologia, sessuologia ecc.).

“Programmazione” come disciplinamento

E la seconda fase di intervento istituzionale sull'infanzia nasce proprio dall'inizio di


questo processo di specializzazione per cui da un certo momento in poi gli "asili" si
presentano non più promiscuamente ma come opere assistenziali tendenti a custodire
ed educare solo bambini: bambini orfani o abbandonati ed in parte anche, mano a
mano che l'infanzia emerge, figli di donne delle classi subalterne che svolgevano
lunghi lavori extradomestici.
Queste istituzioni nate dalla specializzazione delle opere pie che inizialmente avevano
operato in maniera "promiscua" accoglievano bambini la cui età non fosse
generalmente inferiore ai 3 anni ed erano gestite da enti religiosi (Mazzaperlini, p. 62).
Anche se oggi non esistono più "asili" che abbiano (solo) queste finalità è possibile
riscontrare in qualche modo ancora la presenza almeno sotto forma di traccia, di orma,
che segnala qualcosa che è passato da qui e che forse è ancora presente, nascosto da
qualche parte. "Mio figlio è andato all'asilo" dicono ancora molti genitori volendo
indicare non il fatto che il bambino ha frequentato l'Asilo Nido, ma che è stato in
scuola materna, che ha frequentato la scuola per l'infanzia. "Asilo" quindi, ricovero per
bambini, istituzione che serve a custodire e, a suo modo, ad educare, di contro ai
pericoli dell’infanzia abbandonata a se stessa 3.
In questo periodo negli "asili infantili" non compaiono ancora i bambini piccolissimi. Da
una parte infatti la comunità rurale provvede all'adozione al proprio interno dei
neonati abbandonati o orfani, dall'altro esistono in Regione dei brefotrofi che sorgono
anch'essi come enti assistenziali, anche se ormai distinti dagli "asili infantili"4.
In questo periodo negli "asili infantili" non compaiono ancorai bambini piccolissimi. Da
una parte infatti la comunità rurale provvede all'adozione al proprio interno dei
neonati abbandonati o orfani, dall'altro esistono in Regione dei brefotrofi che sorgono
anch'essi come enti assistenziali, anche se ormai distinti dagli "asili infantili"5.

2 - M. Foucault "Storia della follia" Rizzoli; - M. Foucault "La volontà di sapere" Feltrinelli
3 Cfr. Ph. Aries "Padri e figli nell'Europa medievale e moderna" Laterza ed.
4 Del resto che cos'erano gli Asili Nido aziendali di 15 o 20 anni fa?
5 Secondo i dati riportati da F. Terranova nel 1880 gli "asili infantili" in Emilia Romagna erano 46, i
brefotrofi 7 - F. Terranova "Il potere assistenziale" E. Riuniti pag. 58.
Anche se l'interesse di moralisti e pedagoghi per le possibilità educative extrafamiliari
dei bambini in età prescolare non c'è ancora in questo periodo, la tendenza alla
specializzazione, confermata dalla distinzione fra " asili infantili " e brefotrofi, dimostra
che c'è una programmazione dell'intervento sui bambini piccoli da parte di entità
estranee alla famiglia.
Tale programmazione avviene in base ad una visione del bambino che discende da
esigenze già diverse rispetto a quelle che avevano fatto nascere gli "asili" promiscui
del periodo precedente.
Se prima si trattava di ospitare e segregare per celare, ora si tratta di disciplinare quei
bambini che, altrimenti, potrebbero diventare domani un pericolo per la società.
Di quali bambini si tratta? Dei bambini nati nel seno della famiglia proletaria che, date
le condizioni di miseria crescente e di abbruttimento, provocate dall'estendersi della
società mercantile, non può realizzarsi nei suoi fini educativi. Infatti la famiglia
proletaria, come dice Chiara Saraceno6, non può definirsi che "come organizzazione
per la vendita della forza lavoro". Al di fuori di questo obiettivo non vi è possibilità di
realizzazione alcuna nella famiglia proletaria del periodo proto-capitalistico.
Al tenore di vita che si abbassa a livelli di semplice sussistenza, corrisponde in questo
periodo la nascita di uno spazio abitativo che rende impossibile una "vita domestica" e
soprattutto la scomparsa, da una generazione all'altra, nelle donne proletarie "di
cognizioni sulle attività domestiche più elementari, e sull'allevamento infantile "
poiché avendo esse dedicato tutta la fanciullezza e l'adolescenza al lavoro produttivo"
avevano finito con l'allontanarsi da quella integrazione dei due ruoli e dei due lavori
propria della esperienza e socializzazione femminile contadina. Soprattutto il livello di
cura per l'infanzia decade gravemente proprio nel periodo in cui essa diveniva
l'emblema della famiglia borghese" [cit. da: Chiara Saraceno - op. cit. in nota 6, pag.
75/76].

Programmazione come indottrinamento

Successivamente, a partire da queste esperienze, si sviluppa una terza fase. In questo


periodo da una parte si estende quello che oggi potremmo definire il bacino di utenza
degli " asili " a causa dello stato di crisi della famiglia proletaria: crisi economica,
nonostante l'organizzazione e le lotte abbiano contribuito già a valorizzare meglio la
forza-lavoro sul mercato, e crisi dovuta al persistere della "forzata mancanza di vita di
famiglia presso i proletari".
Dall'altra comincia a farsi strada un "discorso sull'infanzia" che vede impegnati stato e
chiesa, con i rispettivi intellettuali (che appaiono sotto le vesti nuove di pedagogisti,
moralisti, ecc.) i quali cominciano a vedere l'educazione del bambino in termini diversi
dalla custodia e dal disciplinamento.
Anche questa fase, afferma Chiara Saraceno, "è caratterizzata da precise intenzioni
pedagogiche: gli "asili" si pongono ora il compito di educare e formare i bambini in
modo più complessivo e integrale (in Italia si pensi agli asili aportiani e, più tardi, alle
scuole materne agazziane).
Essi cioè intendono plasmare la personalità del bambino, inculcandogli abitudini e
definizioni di sé e degli altri che ne facciano futuri lavoratori rispettabili e capaci.
Grande importanza perciò, accanto alla disciplina, ha l'indottrinamento morale che
trova nella religione il suo punto principale" 7.
In questa fase si sviluppano grandemente le istituzioni religiose, mentre lo stato a
poco a poco delimita, con un insieme di leggi e di decreti, che vanno dall'Unità d'Italia
all'istituzione delle scuole materne pubbliche, i confini della nuova professione di
educatrice per bambini in età prescolare, ed assegna a se stesso il compito di
esercitare una vigilanza sulle scuole materne.

6 Chiara Saraceno "Anatomia della famiglia" De Donato ed.


7 Saraceno "Alla scoperta dell’infanzia” De Donato, pp42\43
Così i confini della nuova professionalità si strutturano sui modelli aportiani, agazziani
o froebeliani 8 e la vigilanza sulla scuola materna viene esercitata dai Direttori Didattici
e dagli Ispettori della scuola elementare (e non è un caso che solo adesso si comincia
a parlare di scuola materna).
In Emilia Romagna l'intervento laico in questo periodo (che termina grosso modo con
l'istituzione della scuola materna pubblica) non si limita ad una azione indiretta, ma,
sia pure con l'interruzione del fascismo, comincia durante la prima guerra mondiale
con l'intervento dei Comuni socialisti in funzione prevalentemente assistenziale (per i
figli dei soldati al fronte, dei profughi ecc.) e prosegue nel secondo dopoguerra con
l'intervento dell'UDI che organizza - non senza scontri, soprattutto nel periodo iniziale,
con l'autorità scolastica - e gestisce direttamente alcune scuole materne (Mazzaperlini,
pagg. 175 e seg.).
I fini che l'UDI perseguiva andrebbero più attentamente studiati; certo è che, a fianco
alle finalità assistenziali, vi sono certamente fini educativi ed anche un fine politico
consistente nell'esercitare una pressione sulle autorità dello Stato volta ad ottenere
una legislazione che istituisca le scuole materne e gli Asili Nido pubblici.
Se lo sforzo iniziale era stato quello di passare dalla promiscuità ad una
specializzazione dell'intervento sulla prima infanzia, nella terza fase cominciamo a
notare, a fianco alla specializzazione, anche una certa scientificizzazione
dell'intervento.
Infatti, anche se ancora non emerge in questo periodo l'esigenza della
programmazione educativa, pure si nota - contrariamente al periodo precedente, e
soprattutto nel secondo dopoguerra - una attenzione sempre più precisa ai contenuti
ed ai metodi educativi.
Le scuole private infatti accolgono le idee dei pedagoghi e le traducono in pratica
quotidiana; le idee, come quelle montessoriane, che per la loro "precocità" e per i loro
contenuti si adattano meglio alle classi medie vengono rielaborate all'interno
dell'educazione familista dalla parte più colta e più avveduta di questi classi; e lo Stato
non solo vigila, ma definisce, mano a mano, un iter formativo, per le educatrici di
scuola materna, fino ad istituire (1933) un proprio istituto formativo, le scuole
magistrali per la formazione delle insegnanti di scuola materna, che si affiancano a
quelle private già esistenti. (Mazzaperlini, pagg. 37 e seg.).
Si può dire perciò che questo periodo è contrassegnato dall'inizio di un piano di
scientificizzazione del rapporto fra insegnanti e bambini e dalla sempre più precisa
programmazione della formazione delle insegnanti di scuola materna.
Tali cambiamenti sono funzionali alle trasformazioni che avvengono nella società ed
alla "consapevolezza che la classe operaia va in qualche modo formata alle necessità
ed alle regole del lavoro industriale, ma anche inserita, pur in modo subalterno, nella
società in generale" 9.

Programmazione educativa

L’istituzione della s
cuola materna pubblica e successivamente il varo della Legge 1044, che sancisce la
nascita degli Asili Nido comunali, non sono che il precipitato di un ulteriore profondo
cambiamento avvenuto nella società.

8 Mentre, dice Chiara Saraceno ( "Alla scoperta dell'infanzia" p. 43 nota 58), “le ipotesi montessoriane
nate "per bambini più deprivilegiati in senso sia socio-economico che psichico, proprio per la loro
accentuazione dello sviluppo delle capacità intellettive, che anticipava intuizioni e pratiche pedagogiche
oggi di moda, sono state ben presto assunte dai ceti medi più colti" o, potremmo aggiungere, trapiantate
in contesti socio-culturali molto diversi da quelli che le avevano prodotte (vedi U.S.A.).

9 "A questo periodo corrisponde - continua la Saraceno in nota - l'addomesticamento delle madri delle
classi subalterne attraverso le istituzioni mediche e i consigli di puericultura". Vedi ad esempio la funzione
svolta dall'O.N.M.I. in Italia in questo periodo.
Cambiamento che da una parte implica l'industrializzazione, l'inurbamento,
l'accrescersi del lavoro femminile extradomestico, la nascita della famiglia nucleare
urbana, l'uscita, a causa dell'aumento dei salari reali, della famiglia operaia dalla
situazione di semplice sussistenza e l'ingresso della stessa nella sfera del consumo,
l'irruzione dei mass-media nello spazio-tempo privato etc., e, corrispettivamente,
dall'altra la scoperta dell'infanzia - come dice la Saraceno ("Alla scoperta dell'infanzia",
p. 45) non più come indifferenziato periodo di maturazione ma come "curriculum
scientificamente definito" .
Questi profondi cambiamenti "hanno strappato la famiglia alle sue funzioni
tradizionali"10 facendo emergere una nuova visione della genitorialità, sia nella classe
operaia, sia nelle classi medie, in base alla quale l'esser genitori diventa uno dei
connotati più rilevanti della famiglia stessa.
Ma proprio nel momento in cui la genitorialità emerge si nota una crisi dell'autorità
genitoriale, una crisi del modello educativo monocentrico che non e più solo
circoscritta alle classi subalterne e, soprattutto, non discende più dalla miseria
economica e dalla impossibilità materiale di estrinsecare fra le quattro mura
domestiche una vita di famiglia.
La crisi nella società tardocapitalistica, con differenze marginali su questo piano fra
classe operaia e classi medie, è crisi dovuta all'immiserirsi dei rapporti fra genitori e
bambino poiché "lo Stato sociale - assistenziale" nel momento in cui rende "possibile a
tutti l'accesso ad una dimensione privata (come spazio di riconoscimento dei bisogni e
identità individuali) (Saraceno) lo fa solo all'interno di un quadro che assegna (anche)
alla famiglia il compito di riprodurre la forza-lavoro secondo le attese delle classi
dominanti.
E le attese delle classi dominanti nella società tardocapitalistica sono di avere una
forza-lavoro qualificata e fungibile che sia in grado cioè di adattarsi passivamente ai
rapidi cambiamenti che avvengono a tutti i livelli 11.
L'educazione perciò nella società tardo-capitalistica diventa riduzione di " corpo e
anima " a strumenti di lavoro il più possibile qualificati e fungibili.
Questo è il compito principale occultato nel concetto di genitorialità così come oggi
tale concetto viene inteso.
Ma questo compito implica una professionalizzazione, una competenza, una capacità
"di manipolazione e di controllo metodici di quelle dimensioni dell'esistenza che erano
un tempo private ed antisociali" 12 che oggi non possono essere assunte solo dalle
figure genitoriali.
Infatti da una parte queste figure non corrispondono più nella realtà ai modelli di
autorità che pretendono invece di rappresentare di fronte ai figli poiché son venute
meno le basi materiali sulle quali poggiava tale autorità, dall'altra l'avvento di nuove
tecnologie, i processi di trasformazione che avvengono ormai in maniera travolgente a
tutti i livelli implicano l'ingigantirsi della funzione riproduttiva della famiglia
contemporanea (funzione riproduttiva di forza-lavoro adeguata ai processi di
trasformazione di cui sopra).
E' per questo che da un certo momento in poi anche le classi medie cominciano a
diventare utenti delle strutture prescolari.

10 Cit. dall'articolo di T.K. Hareven " La storia della famiglia come campo interdisciplinare" apparso in
"Edipo in società" a cura di M. T. Maiocchi, Feltrinelli p. 70. Sul tema della crisi dell'autorità genitoriale
vedi: A. Mitscherlich "Verso una società senza padre" Feltrinelli; R. Reiche "Sessualità e lotta di classe"
Laterza; K. Strzyz "Narcisismo e socializzazione" Feltrinelli
11 Marcusianamente si potrebbe dire che l'educazione nel capitalismo tardo consiste essenzialmente
nell'assegnazione alla famiglia (ed alle istituzioni prescolari e scolari) del compito di esercitare sul
bambino quella forma storicamente determinata di "repressione addizionale" che lui chiama "principio di
prestazione". Afferma Marcuse "Sotto la legge del principio della prestazione corpo e anima vengono
ridotti a strumenti di lavoro; come tali possono funzionare soltanto se rinunciano alla libertà di quel
soggetto - oggetto libidico che originariamente l'organismo umano è, e desidera essere". H. Marcuse "Eros
e civiltà" Einaudi.
12 H. Marcuse " L'obsolescenza della psicoanalisi cit. in K. Strzitz op. cit., p. 133
Utenti nuovi che insieme alla nuova classe operaia portano con sé nuovi bisogni,
nuove aspettative che consistono proprio nel chiedere all'educatrice di integrare
quello che i genitori non riescono più a dare al bambino.
Così la figura dell'educatrice (come poi quella del maestro) viene caricata di valenze e
di responsabilità nuove che consistono essenzialmente nella richiesta di tradurre in
termini pedagogico-didattici le indicazioni che provengono dall'indagine scientifica
sull'infanzia.
La ricerca scientifica sul bambino viene così ad assumere la funzione di guida verso un
bambino che è stato sempre più distinto e allontanato dall'adulto, e che ora l'adulto
vuol ritrovare elaborando una nuova immagine - scientifica questa volta - dell'infanzia.
La scuola materna tradizionale esaltava la disciplina e l'indottrinamento morale per
contribuire, insieme alla famiglia delle classi subalterne, o in sua vece, a determinare
una identità che aveva come coordinate la dipendenza dalle figure importanti, lo
spirito gregario, la sensazione di appartenere a un gruppo.
La scuola per l'infanzia, nata da una ulteriore distinzione, da un ulteriore iato fra
queste due entità, cercherà, di fronte alla crisi della genitorialità, di utilizzare le più
recenti scoperte scientifiche derivanti dall'osservazione del bambino per recuperare un
rapporto con l'infanzia.
Recupero che avverrà usando scientificamente l'osservazione per ritrovare il bambino
e ricollocarlo all'interno di un "discorso" che a questo punto diventa compiutamente
scientifico.
Recupero però che si collocherà anche all'interno di un quadro ideologico nuovo, e che
porrà al centro delle pratiche pedagogiche l'esaltazione dell'individualismo, dello
spirito di competizione, dell'uso appropriato del linguaggio verbale: usando cioè il
curricolo come mezzo che permette un progredire, un progredire per tappe, un
progredire quantificabile e verificabile con strumenti e metodologie, appunto,
scientifiche.
In Emilia e Romagna questo quadro generale assume caratteristiche di specificità a
tutti i livelli.
Il decentramento produttivo ed il lavoro a domicilio determinano una maggiore
flessibilità della struttura produttiva di fronte alla crisi. La struttura familiare, pur
tendendo anche qui a raggiungere la forma della famiglia nucleare urbana, si modella,
nelle varie zone, in maniera diversa a seconda dei concreti dati di natura economica,
sociale e culturale che in quel dato contesto si presentano.
La presenza, ad esempio, in Provincia di Reggio Emilia - proprio fra le classi subalterne
e le classi medie - di una struttura familiare che mantiene la parvenza della famiglia
unita non va vista come residuo del passato, ma implica una funzionalizzazione di
questa nuova forma di famiglia sia a ragioni d'ordine economico che psico-sociale:
- Da un punto di vista economico permettendo ai singoli membri di affrontare con
rischi minori rispetto alla famiglia nucleare le varie congiunture e quindi ponendosi
come base minimale "allargata" di consumo;
- Da un punto di vista psicologico e sociale perpetuando, in una forma nuova (che
andrebbe attentamente studiata), un modello di trasmissione dei valori e delle norme
che permette a tutti coloro che ne fanno parte di avere un modello di identificazione e
di individuazione che comporta solo una relativa autonomia del gruppo famigliare.
Lo stesso ambiente rurale poi, che tanta parte ha ancora nell'economia della regione,
si propone, è vero, come ambiente rurale urbanizzato 13, cioè in certo qual modo
acculturato dalla società urbana, (come avviene ormai in tutti i territori metropolitani),
ma riesce anche a mantenere un suo profilo, parzialmente riconoscibile.
Si può dire anzi che lo stesso sviluppo urbano e industriale in Emilia e Romagna sia
influenzato in larghe zone dall'ambiente rurale sia sul piano economico che culturale.
Si pensi soprattutto all'influenza esercitata nella società emiliana dal persistere della
tendenza al solidarismo ed allo spirito cooperativo.

13 P. Rambaud "Società rurale ed urbanizzazione" F. Angeli ed.


Anche nel campo dell'educazione, ed in particolare dell'educazione nel periodo
prescolare, è possibile notare una specificità emiliana che è legata e discende da
quanto è stato detto sopra. Una specificità che è possibile ritrovare essenzialmente
nelle esperienze che sono gestite dagli Enti Locali.
Qui la scoperta dell'infanzia come "curriculum scientificamente definito" si sostanzia in
veri e propri "progetti pedagogici" soprattutto nelle grandi città, progetti che si
irradiano poi "per simpatia" e per contiguità anche in periferia finendo con l'investire
in maniera abbastanza omogenea tutta la rete delle "scuole" e dei nidi comunali della
Regione14.
L'infanzia come "curriculum scientificamente definito" cioè diventa in Emilia il perno
intorno al quale mettere in atto un progetto pedagogico che si pone all'interno di un
quadro ideologico anch'esso specifico e particolare.
Così il curricolo nelle scuole materne e negli asili nido comunali tenderà, si, a
sottolineare le esigenze di progresso del bambino, ma anche a permettere una
educazione compensativa che serva, contemporaneamente o alternativamente, a
seconda delle situazioni:
- a colmare la situazione di svantaggio culturale in cui si trovano le famiglie delle classi
subalterne di fronte alla prospettiva dell'arrivo in scuola elementare;
- di aiutare tutte le famiglie (cioè anche quelle delle classi medie) a vivere nella nuova
realtà urbana tardo-capitalistica che tende inevitabilmente ad erodere i contenuti di
solidarietà tipici della vecchia cultura contadina emiliana. Aiutare ad integrarsi nel
nuovo quindi cercando di salvaguardare qualcosa che era essenziale nel vecchio (si
tenga presente che il processo di trasformazione qui è stato molto rapido, in certe
zone rapidissimo);
- a superare il "gap educativo" che vede "il nostro bambino consegnato all'Europa
come un bambino non competitivo, tartaruga, spiazzato socialmente ed
intellettualmente"15.
E' in questo contesto che nasce finalmente il concetto di programmazione educativa.
La programmazione educativa perciò è da un lato legata alle trasformazioni
intervenute nella società tardo-capitalistica e soprattutto alla crisi della famiglia ed
alla perdita di importanza e di centralità dei genitori nell'educazione dei bambini,
dall'altra al cambiamento ed all'ampliamento dello spazio di intervento delle
educatrici.
Queste ultime adesso non devono più (o non più solo) assistere i bambini, disciplinarli,
indottrinarli, ma devono soprattutto educarli integrando l'azione della famiglia e
ricorrendo, insieme ad essa, all'aiuto della scienza e delle tecniche poiché i processi di
trasformazione così come hanno ridefinito genitori ed educatori rispetto ai bambini,
allo stesso modo hanno ridefinito l'infanzia rispetto ad essi; per cui per tentare un
riavvicinamento al bambino occorre ritrovarlo usando come periscopio quelle teorie,
quelle tecniche, quegli strumenti che servono ad osservare il bambino che altrimenti
sarebbe sconosciuto e irrintracciabile.
Programmazione come cambiamento quindi nel senso che si va verso una
professionalizzazione del rapporto e verso una integrazione fra istituzioni prescolari e
famiglie che avviene sotto il segno di una cogestione educativa subalterna
apparentemente a ragioni oggettive e scientifiche, di fatto, come abbiamo visto anche
nel caso dell'Emilia e Romagna, ad obiettivi di classe, e problemi di integrazione socio-
culturale etc.
Programmazione come ampliamento dello spazio di intervento delle educatrici sia nel
senso delle aumentate competenze rispetto al bambino, sia come allargamento

14 Da questo punto di vista (e non solo da questo) il nuovo contratto di lavoro firmato dalla Flel per Nidi e
Materne è una vera jattura per le Istituzioni emiliane: le divisione poste fra Nidi e Materne sia da un punto
di vista normativo sia da un punto di vista economico, rischiano infatti di rendere vana ogni possibilità di
procedere in una esperienza unitaria sulla fascia 0 - 6 anni.
15 F. Frabboni "Costruiamo insieme il curricolo didattico" in Infanzia, n. 34, Aprile - Maggio 1979.
dell'intervento sulla fascia 0 - 3 anni che fino a 10 -15 anni fa era rimasta confinata
nell'ambito dell'educazione familiare monocentrica.
La stretta connessione esistente fra concetto di programmazione educativa e sviluppo
degli studi nel campo dell'infanzia è testimoniata proprio dalla nascita dei Nidi.
Questa nascita - avvenuta proprio quando nelle materne si andava facendo strada la
"necessità" della programmazione educativa - avvenne in quegli anni sotto il segno di
una mancanza che era sentita e sottolineata da tutti 16, la mancanza di indicazioni
scientifiche sulla prima infanzia "utilizzabili praticamente, in modo critico".
Mancanza, però, che si risolse velocemente nel suo contrario proprio perché le
caratteristiche di nuova professionalità, particolarmente sentite fra le educatrici di
Asilo Nido (per un insieme di motivi facilmente intuibili), spinsero i Nidi, almeno qui in
Emilia, a cercare nel territorio, nelle università, fra gli esperti quelle indicazioni
"accessibili, utilizzabili praticamente", che permettessero la elaborazione di una
programmazione educativa adatta ai Nidi.

I percorsi della nuova professionalità: quattro modelli di programmazione


educativa

Definito il concetto di programmazione educativa, visto il senso che la


programmazione assume oggi all'interno degli Asili Nido e delle scuole per l'infanzia,
verificate le connessioni che esistono fra: - cambiamenti intervenuti nella sfera
economico-sociale, - sviluppo degli studi scientifici sul bambino; - necessità ed uso che
di questi studi si fa nell'ambito pedagogico - didattico; - e nuova professionalità delle
educatrici della fascia prescolare, cercheremo di vedere ora quali sono i percorsi
all'interno dei quali si definisce questa nuova professionalità.
Il terreno sul quale sarà opportuno concentrare l'analisi è quello che riguarda il
rapporto fra adulto e bambino nelle istituzioni ed il rapporto fra pari 17.
A partire dall'analisi di questi due rapporti, e soprattutto del primo di essi, abbiamo
cercato di definire alcuni modelli che corrispondono a più o meno espliciti progetti
pedagogici e che sono funzionali ad una diversa visione, ad un diverso destino del
bambino.
Va detto però che in termini partici sarà difficile ritrovare in questa o quella istituzione
l'applicazione in termini "puri" dell'uno o dell'altro progetto pedagogico ed anzi, come
sa bene chi lavora in questo settore, è facile invece riscontrare anche nelle situazioni
"più avanzate" residui di custodialismo, e viceversa (a volte basta una qualche
assenza prolungata, il combinarsi di due o tre eventi accidentali per buttare all'aria
anche il più bel progetto).

Il modello istituzionale

Il primo modello, appunto, è quello che più si avvicina


a quelli di custodia, di disciplina, d'indottrinamento.

16 Per rendersene conto basta andare a rivedere gli interventi di quel periodo che denunciavano la
scarsità di contributi scientifici e la non adattabilità delle poche ricerche fatte, nell'ambito pedagogico
didattico; "la ricerca è relativamente poca, quella poca o non è partita dalle domande del Nido o non
ritorna al Nido come informazione accessibile e perciò utilizzabile praticamente, in modo critico". S.
Mantovani: "Relazione introduttiva al Convegno Regionale sui nidi del 1979, in "Valori educativi e sociali
dell' Asilo Nido" Patron Ed. Bo.
17 Anche l'altro versante nel quale si misura la nuova professionalità dell'educatrice, quello del rapporto
con gli altri adulti (genitori, altre educatrici - sia in senso orizzontale che verticale - territorio), è
importante ma ci è sembrato che quello del rapporto col bambino non solo sia decisivo nel determinare le
caratteristiche della nuova professionalità, ma finisca con l'influenzare anche in un senso o nell'altro gli
aspetti del mestiere di educatrice.
Non vi è alcuna preoccupazione per le determinazioni d'ordine sociale che rendono
particolare, specifico quel bambino, quel gruppo di bambini. Tutti i bambini sono
uguali: le modalità di rapporto sono standardizzate.
L'operatrice si pone nei confronti del bambino come un membro dello staff nei
confronti dell'internato18:
- le esigenze delle operatrici vengono prima di quelle dei bambini (gli orari, ad
esempio, vengono stabiliti in base alle esigenze degli adulti presenti nell'istituzione);
- ogni volta che c'è un conflitto fra esigenze istituzionali ed esigenze individuali
prevale la logica istituzionale (ad esempio se un bambino, o un gruppo di bambini mal
si adatta ad un determinato ciclo di alternanze fra veglia e sonno l'operatrice insiste
nel mantenere le scansioni temporali programmate costringendo in esse il bambino o
il gruppo recalcitrante).
- Le operatrici lavorano con dei bambini " come se si trattasse di un materiale di
lavoro" (Goffman), vi è cioè una oggettivazione del bambino (ad esempio il momento
del pasto è organizzato nel grande refettorio - tipico dell'ambiente istituzionale -, le
modalità secondo le quali l'adulto aiuta i bambini sono quelle fredde e robotizzate
consistenti nel fare il giro da una bocca ad un'altra senza comunicare niente al
bambino).
- L'operatrice è portata ad esprimere giudizi, a porsi, rispetto al bambino ed alle
famiglie come entità giudicante (ad esempio affrontare una riunione di sezione come
un incontro all'interno del quale vi è una entità - le operatrici - che sa le cose e dà
consigli ed una - il genitore - che deve imparare ed eventualmente modificare le
proprie modalità di rapporto col bambino in base ai dettati della prima);
- Il rapporto fra operatrici e genitori, e più in generale fra operatrici e " mondo esterno
", è improntato sulla manipolazione (ad esempio non si riferisce mai alle famiglie
quello che è realmente accaduto con il bambino, ma se ne dà sempre una visione
edulcorata, manipolata);
- E in questo contesto istituzionale che nascono quelle che Goffman chiama le
"cerimonie istituzionali", e la festa della scuola, in questo clima, può diventare il
momento, l'unico momento nell'anno in cui l'operatrice cerca di svestirsi dei suoi panni
di staff e di avere un rapporto con la famiglia non più improntato sulla manipolazione.
Il punto fondamentale, in questa prospettiva è la totale assenza di intimità fra adulto e
bambino, l'assenza di legami stabili ed individualizzati, l'assenza, anche in termini
spaziali, di luoghi in cui il bambino possa vivere in un dimensione individuale.
L'istituzionalizzazione del bambino avviene, come nelle istituzioni totali, sotto il segno
della standardizzazione. L'educatrice per apprendere le modalità di rapporto che sopra
ho tentato di riassumere non deve fare un grosso sforzo. Tali modalità infatti sono
apprese da ciascuno di noi nei vari ambienti istituzionali che si ha la ventura di
attraversare nella propria vita (la scuola, la colonia, la caserma, ecc.) per cui ciascuno
di noi ha su di sé le stigmate che rappresentano i segni di tale passaggio. E' per
questo che è così facile ritrovare, anche all'interno delle esperienze più avanzate
tracce di esso, soprattutto nei momenti più routinari e più scontati.
Qualora poi il rapporto fra operatrici ed Amministrazione o direzione pedagogica sia
esso stesso improntato sul modello dell'istituzione totale allora è molto facile che un
legame di tipo manipolativo fra varie istanze della gerarchia si rifletta poi nel rapporto
col bambino e con la famiglia.
E' facile capire che questa prima tappa più che definire in positivo un percorso di
nuova professionalità può essere vista come un modello negativo di programmazione,
come un insieme di cose "da non fare" che in effetti però facilmente è possibile fare.
Questo modello perciò può essere considerato come una cartina di tornasole che
permette di vedere - a quanti intendano abbandonare i modelli di custodia, disciplina e
indottrinamento, - se effettivamente vi è coerenza fra obiettivi e risultati o meno.

18 Vedi E. Goffman "Asylums" Einaudi, 1968. Rileggere Goffman pensando all'Asilo Nido può essere utile.
Anche in questo caso Asylums può essere usato come cartina di tornasole di una prassi istituzionale.
Il modello gestionale

La critica al mode
llo istituzionale - come dicevamo nel capitolo precedente - è avvenuta storicamente
nella nostra Regione verso la fine degli anni 60 e si è incentrata inizialmente intorno a
due capisaldi: la "socializzazione" e la "gestione sociale".
La "socializzazione" innanzitutto che in quel contesto, in quel momento storico era
intesa, non come inculturazione, ma come inserimento nel gruppo.
La "socializzazione" è il cavallo di battaglia delle scuole per l'infanzia e nidi all'inizio
del decennio scorso.
Nel rapporto adulto-bambino, così come nel rapporto fra pari, viene privilegiata dai
fautori di questo modello la dimensione "gruppo" 19.
Il bambino viene così a trovarsi in una doppia rete di rapporti: il gruppo degli adulti da
una parte, il gruppo dei pari dall'altra. Una impostazione di questo genere in primo
luogo pone l'adulto, responsabile del processo educativo all'interno dell'istituzione, in
una posizione apparentemente comoda: al riparo sotto l'ombrello della
"socializzazione" l'operatrice può legittimamente attendersi che il modello policentrico
così definito, prima o poi di per sé partorisca qualcosa di buono per il bambino. La
"socializzazione" cioè pare avere una funzione catartica sui vari aspetti della vita del
bambino.
Tale posizione però è solo apparentemente comoda in quanto che poi, nel grigiore
della quotidianità istituzionale, l'adulto oscilla fra una adesione entusiastica al mito
della "socializzazione" e la malinconica constatazione che c'è qualcosa che non va,
nonostante il superamento dell'assistenzialismo.
I giochi, le attività socializzanti intanto durano, soprattutto nei Nidi, pochissimi minuti
(l'ombrello della "socializzazione" è cioè troppo stretto), e poi sedimentano una folla di
esclusi che è tanto più imponente quanto più enfatizzato è il dato della
"socializzazione " .
L'enfasi della "socializzazione" in secondo luogo si sposa facilmente con una
concezione del rapporto adulto-bambino che, partendo dall'assunto "il bambino deve
socializzare", finisce col vedere con sospetto ogni tentativo da lui fatto di mettere in
piedi una particolare forma di attaccamento con questo o con quell'adulto (anche
particolari legami fra pari vengono visti con sospetto).
Ciò fa nascere nella sezione un'aria di asetticità: i rapporti devono essere di tutti con
tutti, ogni particolare mozione degli affetti deve essere bandita. Questa anestesia dei
sentimenti, coltivata dagli adulti su se stessi innanzitutto e sui bambini poi, è alla base
dei metodi usati da molte istituzioni all'inizio degli anni '70.
In tutti i casi l'indicazione di fondo era che il gruppo degli adulti doveva rapportarsi in
quanto tale al gruppo dei bambini: l'accento era posto non tanto sul singolo, quanto
sulla comunità.
Il rapporto, scremato di ogni connotato particolare, individuale, doveva essere da
gruppo a gruppo. Il processo di identificazione del bambino, di quel bambino si

19 Un esempio che aiuta a capire qual'era il clima all'interno del quale questo modello prendeva forma è
dato dall'articolo di E. Loperfido "I contenuti medico-psico-pedagogici dell’Asilo Nido" apparso in
Neuropsichiatria Infantile 1972 cit. in "Problemi del processo di socializzazione in un Asilo Nido di Bologna"
di F. Emiliani, in Psicoterapia e Scienze Umane n.4 1976, pag. 12. Così vedeva il rapporto adulto-bambino
nel Nido E. Loperfido nel 1972: come un "sistema relazionale complesso cui partecipano più voci (gli
operatori, gli ospiti, i coetanei, le forze politiche del quartiere) all'interno del quale il bambino è parte viva
e non una monade neutra". "Il principio di fondo, l'idea guida a cui il Nido si deve ispirare ci sembra sia
quella della comunità articolata nei gruppi di pari (il gruppo dei lattanti, il gruppo dei 2-3 anni, il gruppo
degli adulti). La comunità deve costituire il sistema referente di tutta la vita del Nido. .. La comunità si
propone nel suo complesso come modello globale di identificazione e si declina in una gamma di direzioni
che vanno verso il polo di un pari, o verso quello di uno o più adulti che si aggiungono ai poli sempre
presenti (ma non più esclusivi) dei genitori".
poneva come epifenomeno di un processo di identificazione di gruppo. L'iter suggerito
era: dall'identificazione di gruppo all'identificazione nel gruppo.
Insieme al mito della "socializzazione" avanzano all'inizio degli anni '70, sull'onda di un
organico progetto che tende ad allargare i momenti di partecipazione nella società e
nella scuola in particolare, i progetti di attuazione della cosiddetta gestione sociale.
La vittoria, che aveva portato nel volgere di pochi anni al nascere delle scuole per
l'infanzia e degli Asili Nido comunali, era stata anche la vittoria sulla separatezza delle
strutture scolastiche e sulla manipolazione che definiva il rapporto fra queste
istituzioni e le famiglie20.
Perciò la riforma, che sul piano del rapporto con il bambino era approdata alla stesura
dei programmi educativi incentrati sul concetto di "socializzazione", sul piano del
rapporto con le famig1ie ed il territorio sperimenta la gestione sociale.

La consultazione delle famiglie e, in taluni casi, delle forze politiche e sociali (del paese
o del quartiere), la delega ai "Comitati" di una parte del potere e della responsabilità,
la programmazione della discussione sui contenuti e sui metodi didattici, dovrebbero
favorire la cogestione educativa.
Ciò che accade è però, tranne qualche rara eccezione, il nascere di una falsa dialettica
che conduce o all'ergersi del gruppo delle operatrici in una posizione "pedagogica" nei
confronti dei genitori, o, più raramente, ad una contrapposizione fra genitori che usano
la gestione come momento di controllo fiscale contro il gruppo di lavoro e le operatrici
che si arroccano su posizioni di splendido isolamento.
La crisi di un rapporto così concepito appare sempre più evidente col passare degli
anni e non c'e virtuosismo "tecnico" che tenga 21 per trarre fuori dalle secche il carro
della gestione sociale, qualora la partecipazione venga concepita come coazione
istituzionale e rapporto manipolativo.
Il modello gestionale, implica una professionalità dell'operatrice che da una parte
comincia a privilegiare il dato educativo sul dato assistenziale, dall'altra pone la
gestione sociale al centro del progetto di ridefinizione del proprio ruolo.
La nuova professionalità, cioè, si basa inizialmente da una parte su una educatrice che
reagisce al clima istituzionale che vuole eliminare idealizzando molto il proprio ruolo, il
rapporto "naturale" con il bambino (o meglio con il gruppo di bambini) ed il contesto
con il quale la propria istituzione deve interagire (dall'Amministrazione all'ultimo anello
della gestione sociale)22. Dall'altra su di un progetto educativo che privilegia la
formazione di una identità che, come nel caso della famiglia che mantiene la parvenza
di famiglia unita, potremmo definire solo parzialmente capace di andare verso
l'autonomia.
Una identità, si potrebbe aggiungere, che nasce dalla spontaneità, dalla casualità con
la quale si determinano le forme individuali di attaccamento e di relazione fra adulto e

20 Come esempio tipico del rapporto di manipolazione preesistente alla 1044 si possono riportare i vari
scandali sollevati in varie parti d' Italia negli anni dell'ONMI e degli Asili Nido aziendali: si pensi alla
questione dei farmaci dati ai bambini all'insaputa delle famiglie.
21 Vedi art. di Loris Malaguzzi "La gestione sociale come progetto educativo" in Zerosei, n. 6 gennaio
1982, in cui, a fianco dei tradizionali "cardini fondamentali" della gestione (Partecipazione,
Programmazione, Organizzazione" compare un "quarto cardine", la competenza, intesa come qualità
determinante e necessaria per assicurare che la esperienza della gestione sia sorretta dai più alti livelli di
conoscenza specifica dei problemi che collegialmente si vivono". Questa tendenza alla
professionalizzazione delle educatrici e delle famiglie, nella misura in cui avviene in assenza di qualsiasi
preoccupazione per "tutti i connotati specifici che differenziano (l'infanzia) nell'esperienza quotidiana"
(Chiara Saraceno, op. cit., pag. 46), e, di più, sotto il segno della paura di ogni moto (oltre che
antropologico affettivo) che viene dal bambino e dal suo retroterra specifico, lungi dal creare un
immediato e naturale ampliamento della identità concettuale e operativa delle pedagogie infantili e della
stessa gestione sociale ", creerà un processo di omologazione dell'infanzia e del suo retroterra alla cultura
istituzionale.
22 Vedi AA.VV. "Aspetti dell'identità lavorativa degli operatori di Asilo Nido" apparso sui n.n. 35 e 36 di
Infanzia 1979. Si tratta di un'inchiesta fatta a Modena
bambino, e che perciò finisce col risentire in termini molto pesanti dei meccanismi
selettivi usati consciamente o inconsciamente dalle educatrici.
E, poiché la selezione, in questo contesto, è un qualcosa che non si misura sui
problemi di rendimento (o almeno non si misura prevalentemente su questi) ma
proprio in termini di suddivisione dell'affetto, vien fuori che i valori di cui l'educatrice e
depositaria diventano in maniera del tutto acritica, del tutto casuale, del tutto
massificante le ragioni (sconosciute), in base alle quali si definisce una debole identità
del bambino.
Identità debole poiché il bambino ha come alternativa o lo sforzo di definirsi nel
gruppo (e perciò in maniera indistinta) secondo quelli che lui presuppone essere le
aspettative dell'adulto (che solo così è disposto a dimostrare il proprio affetto per lui)
oppure essere marginalizzato e quindi nell'impossibilità di definire una propria identità
in rapporto a chicchessia.

Il modello curricolare

In talune situazioni
, e soprattutto dove ci sono state negli anni precedenti a quelli '70 importanti
esperienze nel campo delle scuole per l'infanzia, si verifica da una parte il travaso nel
Nido, in maniera più o meno acritica, di contenuti e di metodi didattici propri della
scuola per l'infanzia, dall'altra la puntualizzazione nelle scuole per l'infanzia di un
insieme di programmi, schede, griglie etc. che cercano di definire un curricolo il più
possibile puntiglioso e preciso.
A livello dei contenuti si cerca di definire, nella scuola per l'infanzia prima, e nel Nido
poi, un andamento per tappe che parte da una concezione riduttiva del bambino e dei
suoi bisogni, una concezione che tende a vedere esclusivamente le esigenze di
sviluppo del bambino secondo determinati standard, non riconoscendo ciò che pure
avviene (e come può non avvenire?) sul piano dell'affettività, sia nel rapporto adulto-
bambino, sia all'interno del gruppo dei pari, e quindi non rivedendo mai criticamente
ciò che in definitiva è stata l'áncora di salvezza, che e giù, sott'acqua, nelle zone
basse, quelle degli istinti, che non si vede perciò, ma che pure e ciò che ha permesso
che, anche in questi contesti, la barca istituzionale non andasse alla deriva. Da un
punto di vista metodologico, conseguentemente, vi è anche qui l'enfasi della
produzione, e quindi dei momenti delle cosiddette attività e la sottovalutazione delle
routines, ma - in questo caso - vi e una riduzione delle attività solo a quelle che
abbiano un senso sul piano dello sviluppo, del progresso, a quelle cioè che possono
essere spezzettate in modo tale che sia possibile sempre dire "si fa prima questo, poi
quello, poi quell'altro ancora"23.
Tipico del modello curricolare nei Nidi è la suddivisione dei bambini in 4 sezioni.
Poiché si privilegiano le tappe dello sviluppo si scelgono le quattro sezioni che
permettono al bambino una più precisa collocazione nel curricolo, anche se ciò accade
a danno della stabilità del rapporto adulto-bambino e quindi di un legame più preciso e
più intimo.
Ad ogni modo la professionalità delle educatrici, all'interno di questo modello, si
arricchisce ulteriormente: le modalità di lavoro si scientificizzano ulteriormente,

23 Basta scorgere i piani suggeriti mensilmente dalle due più importanti riviste rivolte alla prima infanzia,
"Zerosei", e "lnfanzia" per rendersene conto. In particolare l'obiettivo che Frabboni si è posto (vedi: F.
Frabboni "Costruiamo insieme ii curricolo didattico" in Infanzia, n. 34, Aprile/Maggio 1979) di costruire il
Bambino Mec 2000 mi sembra indicativo di una tendenza alla iper-omologazione che permetterà, forse
I'inserimento del nostro Paese nei pool delle ricerche e delle sperimentazioni che gli altri Paesi europei
stanno da tempo attivando, spingerà forse i servizi prescolastici di casa nostra a non arrivare in ritardo,
consegnando al MEC un bambino non competitivo, tartaruga, spiazzato socialmente ed intellettuaimente,
ma in questa rincorsa alla produzione spingerà senz'altro ii bambino ed il suo retroterra a perdere per
strada, nei meandri dei "curricoli standard" la propria identità culturale, la propria specificità.
intorno alle educatrici ed alle inservienti, di tanto in tanto (o continuamente) agiscono
altri operatori dell'infanzia (atelieristi-mimi-animatori vari), si sottolineano di più le
tecniche, la didattica, anche se, come nel modello precedente, la didattica è
circoscritta al "momento delle attività".
E' soprattutto la ricerca sul bambino svolta in ambito cognitivista (Piaget - Bruner -
Wigotsky etc.) che contribuisce a ridefinire il bambino come "bambino cognitivo"
diremmo oggi, come bambino cioè capace di padroneggiare tutti i linguaggi (in questo
l'esperienza emiliana si distingue da altre esperienze più totalitariamente orientate
verso la conferma della supremazia del linguaggio verbale), come bambino che ha una
intelligenza pronta ed allenata, che sperimenta, indaga, cataloga il mondo che lo
circonda, con un procedere nelle difficoltà che è scandito in maniera sempre più
raffinata su quelle che, secondo gli studi più aggiornati, sono le tappe in base alle quali
è opportuno progredire.
Qui è possibile vedere con maggiore aderenza quello che si diceva prima a proposito
del senso che può avere l'educazione compensativa in Emilia Romagna.
Nella versione più esasperata (abbiamo già citato più volte le "battagliere" pagine di
Frabboni sul curricolo didattico) si tratta di un'urgenza di omologazione, di
appiattimento del bambino, di qualsiasi bambino, su di una visione dell'infanzia che è
strettamente legata ad esigenze di funzionalizzazione della personalità alle esigenze
della produzione, al superamento dei gap intellettuali, etc.
Nella maggioranza dei casi vi è, a nostro avviso, una più o meno conscia esigenza di
adattamento del bambino (e della famiglia) ad un contesto socio-culturale che va
rapidamente mutando.
Tale contesto propone nuovi valori che tendono ad inglobare quello che di inglobabile
c'è nei valori tradizionali della società emiliana fino a creare una sintesi nuova.
Anche nel modello curricolare la suddivisione dell'affetto è determinante nel definire
l'identità del bambino.
Nel modello gestionale, però, come abbiamo visto, l'educatrice tende a reagire in
maniera inconsapevole, casuale e massificante, usando crudamente la corresponsione
o il ritiro dell'affetto, senza mediazioni di sorta.
Le educatrici che operano in un clima curricolare, invece, agiscono in maniera più
complessa affinchè il bambino corrisponda alla fine all'immagine scientifica
dell'infanzia per la quale è programmato.
Intanto vi è una consapevolezza dei fini cognitivi (che come abbiamo visto prima però
non è ciò che impedisce che la barca istituzionale vada alla deriva).
In secondo luogo l'intervento non e più casuale e massificante, ma determinato
dall'adulto in base al curricolo, e perciò anche individualizzato.
Infine in questi contesti la selezione si comincia a misurare (come sarà domani nella
scuola elementare) sul rendimento: per cui la corresponsione (o il ritiro) dell'affetto
tenderà ad avvenire in base all'emergere o meno del bambino (o di quel gruppo di
bambini) dallo sfondo.

I modelli relazionali

La critica ai modelli
custodialistici etc, sia nell'approccio gestionale, sia in quello curricolare, nella pratica
viene circoscritta ad un solo momento della giornata del bambino nell'istituzione: il
momento delle "attività".
Tutti gli altri momenti - le cosiddette routines - e cioè la gran parte del tempo di
permanenza del bambino nell'istituzione stentano a liberarsi dall'involucro
dell'istituzione totale.
Così le esigenze istituzionali - insufficientemente discusse - tendono a sovrastare ed a
schiacciare quelle del piccolo ed indifeso fruitore del servizio:
- gli orari di entrata e di uscita, le modalità di passaggio del bambino dalla madre
all'istituzione e viceversa sono decise più in base alle priorità ed alle esigenze degli
adulti che non del bambino.
- Il pasto è un momento in cui l'esigenza biologica ed igienico-sanitaria tende ad
essere soddisfatta senza alcuna dialettica con l'esigenza del bambino di avere un
rapporto caldo e ravvicinato con l'adulto. Si attua un vero e proprio "tourbillon" di
adulti che passano da un gruppo di bambini all'altro senza prendere con essi alcun
rapporto stabile e rasserenante.
(il dato della istituzionalizzazione è riassunto spazialmente nel refettorio, centro
caotico e rigurgitante di rumori).
- Lo stesso "tourbillon" di adulti si verifica, giorno dopo giorno, nel momento del
cambio e dell'addormentamento.
- Nei momenti del cambio, dell'addormentamento, nei momenti di crisi del bambino, e
prima ancora nei momenti dell'inserimento ogni attaccamento da parte del bambino
verso qualche oggetto, anche se questo pare avere un potere consolatorio per il
bambino e quindi divenire un aiuto per l'educatrice, viene da questa vissuto come un
attentato all'atmosfera asettica della sezione e perciò con vari sotterfugi
"disarticolato" ed impedito.
E' stata proprio la critica a questi aspetti della vita del bambino nelle istituzioni che ha
permesso l'emergere in questi ultimi anni di quelli che si potrebbero definire come
modelli relazionali.
E' importante distinguere all'interno dei modelli relazionali 2 filoni, quello etologico e
quello psicoanalitico, poichè anche se per alcuni versi i risultati raggiunti usando il
primo o il secondo tipo di approccio al bambino sono simili, vi sono anche delle
differenze che è opportuno rimarcare onde evitare equivoci.
Da entrambi i filoni vien fuori:
- il presupposto della priorità dell'attaccamento (dei processi di identificazione) sulla
"socializzazione" (intesa come inserimento nel gruppo di pari);
- la necessità dell'osservazione e della "programmazione" di tutti i momenti di
permanenza del bambino nell'istituzione;
- la considerazione che il modello pluricentrico, (bambino – educatrice - madre),
rispetto al modello monocentrico (bambino-madre), non ha di per sé alcuna facoltà
taumaturgica;
- la necessità di superare il tourbillon degli adulti intorno al bambino ed il rapporto " da
gruppo a gruppo ";
- l'importanza, per la formazione della personalità del bambino, che vi sia una
continuità fra i processi di attaccamento (di identificazione) innescati fra bambino e
madre (contraddistinti dalla stabilità, dalla individuazione del rapporto e dal calore
dello stesso) e la qualità dei rapporti che devono intercorrere fra bambino ed
educatrice;
- l'importanza che l'osservazione del bambino non sia circoscritta all'osservazione dei
progressi che il bambino fa sul piano intellettivo, ma sia estesa a tutti gli aspetti della
vita quotidiana del bambino, e di tutti coloro che interagiscono con lui nell'istituzione.
Detto questo occorre anche distinguere quello che di diverso c'e fra i due filoni: quello
etologico e quello psicoanalitico.
Al di là del confronto in termini generali fra le due teorie 24 a noi interessa in questa
sede vedere il diverso modo di concepire l'osservazione da parte di etologi e di
psicoanalisti poichè la diversa metodologia usata dagli uni e dagli altri comporta, di
fatto, l'osservazione come di due bambini diversi, la fissazione cioè di punti focali che
finiscono con il proporre due ipotesi di programmazione educativa per niente simili.

24 Per un confronto in termini generali e teorici vedi ad es.: - E. Fromm "Anatomia della distruttività
umana" Mondadori; - A. Heller "Istinto ed aggressività" Feltrinelli.
Il modello relazionale di tipo etologico

La metodologia di osservazione degli etologi


è di tipo non interpretativo.
I vari aspetti della vita del bambino nell'istituzione, l'interazione con gli adulti, con i
pari, il tipo di operazioni fatte con gli oggetti, tutte queste cose sono osservate
cercando di rilevare ciò che accade oggettivamente.
La preoccupazione principale, da questo punto di vista, sarà quella di eliminare
qualsiasi componente soggettiva, emotiva, o al massimo di "metterla nel conto" di
oggettivare anche questi aspetti dell'interazione, dello scambio 25
Non per niente le ricerche più raffinate cercano di usare tecniche sofisticate e precisi
strumenti che permettono di raggiungere una sempre più approssimata rilevazione
che permetta, a sua volta, una vivisezione la più asettica possibile di quel lembo di
realtà che si vuole indagare.
I risultati che è possibile raggiungere guardando la realtà istituzionale secondo
quest'ottica sono notevoli.
Basti considerare che la maggior parte delle ricerche fatte in questi anni nei Nidi,
soprattutto, e nelle materne partono da queste premesse e stanno contribuendo in
maniera notevole al superamento delle insufficienze dei modelli precedenti.
Basti pensare alla rilevanza che il concetto di interazione ha ormai nel Nidi, ed alla
vera e propria rivoluzione "copernicana" rappresentata dallo spostamento dell'asse
focale dell'adulto dalle attività alle routines, e soprattutto ai concetti di stabilità e di
individuazione del rapporto adulto-bambino che ormai (a parte qualche isola
particolarmente recalcitrante) sono entrati "nel sangue" delle operatrici (soprattutto
nei Nidi, per le ragioni che dicevamo alla fine del capitolo precedente).
Ma qualora ci si ponga in quest'ottica ciò che vien fuori è anche: - una conoscenza
asettica, quasi strumentale del bambino; - una sottovalutazione dell'importanza che
l'emotività ha nel processo di osservazione.
Da ciò una visione del bambino che rimane astorico, depurato dei connotati culturali
specifici - che pure determinano, fin dall'inizio della vita, la sua appartenenza -, un
bambino interattivo, quindi, ma spoglio della sua identità culturale.
L'educatrice, d'altro canto, nei confronti del bambino si dimostra attenta, anche essa
interattiva, ma anch'essa ridotta alla sua componente più professionale, anch'essa
spoglia della sua identità più piena.
In conclusione, se il modello gestionale e soprattutto quello curricolare sembrano
rivolgersi consapevolmente solo alla parte orbitale del sé del bambino 26 e lasciano del
tutto allo sbaraglio la formazione della parte nucleare del sé (riducendo il bambino ad
alunno e l'educatrice a insegnante), il modello relazionale di tipo etologico sembra
consapevolmente indirizzato a rafforzare nel tempo (stabilità) e nello spazio
(individuazione) la parte nucleare del sé del bambino, ma: 1) non sembra consapevole
fino in fondo di quello che Grinberg chiama trezo vincolo di integrazione del sé:
l'integrazione sociale. "Il terzo vincolo, di integrazione sociale si riferisce alla
connotazione sociale dell'identità ed è dato dalla relazione, fra aspetti del se e aspetti
degli oggetti (madre più educatrice) attraverso i meccanismi di identificazione
introiettiva e proiettiva" (Grinberg op. cit. pag. 60) e soprattutto 2) non è consapevole
del fatto che la qualità delle identificazioni, degli attaccamenti del bambino con gli

25 L'introduzione del metodo osservativo di tipo non interpretativo negli Asili Nido in Italia e dovuto
soprattutto ai 2 articoli "Osservare il bambino' "Osservare, perchè e come" di M. Barbieri e S. Mantovani,
apparsi entrambi in Infanzia (n. 21 del 1977 e 29 del 1978). Il seminario tenuto a Roma dal CNR
nell'ottobre 1981 "La ricerca sul bambino al Nido" riassume le più recenti ricerche fatte ambito etologico e
più ampiamente ambito "non interpretativo".
La Regione Emilia-Romagna ultimamente sta dimostrando molta attenzione a questo tipo di impostazione
all'interno della quale sembra assimilabile anche l'esperienza ungherese che tanta attenzione presta alle
routines ed al rapporto individualizzato.
26 L. Grinberg "Teoria dell'identificazione" Loescher Ed.
adulti responsabili della sua educazione non può essere affrontata e analizzata con
sufficiente approssimazione se non si abbandona l'oggettivismo etologico e non si è
disposti a rischiare un'altra scoperta avvicinandosi al bambino, e cioè la scoperta del
bambino che è dentro di noi. Ma questo è possibile solo se l'emotività, invece di essere
eliminata o "tarata", viene giocata fino in fondo nel rapporto col bambino.

Il modello relazionale di tipo psicoanalitico

La metodologia dell’osservazione, secondo


la psicoanalisi, è di tipo interpretativo.
I vari aspetti della vita del bambino sono osservati solo a partire da quello che
l'educatrice sente emotivamente nell'incontro, nel rapporto con il bambino.
Come dice Borgogno27 il problema per la psicoanalisi è quello di spiegare ciò che
appare attraverso ciò che non appare.
Poichè il centro dell'attenzione si sposta da ciò che e manifesto a ciò che è latente, ciò
che si osserva è "l'altra scena della realtà", quella "degli affetti, dei vissuti, della
fantasia, dei fantasmi" .
Perciò, nell'osservazione di un altro essere umano, l'osservatore, nel nostro caso
l'educatrice, non può considerare l'oggetto osservato e cioè il bambino come un
oggetto morto da vivisezionare, ma come un oggetto vivo che entra in una "intima
relazione" con l'osservatore stesso.
In questa "intima relazione" si definisce in termini storici e personali una influenza del
sè sull'oggetto (dell'educatrice su bambino) e dell'oggetto sul sé dell'osservatore (del
bambino sull'educatrice).
Qualora si tenti di esorcizzare questa reciproca influenza negandola si ha quella che
Borgogno definisce "l'illusione di osservare".
Cosicchè ciò che per gli etologi va puntigliosamente eliminato dagli psicoanalisti viene
appassionatamente considerato.
Gli strumenti sofisticati di rilevazione, ed anche quelli meno sofisticati (come la
rilevazione carta e matita) sono visti come ostacolo all'osservazione. La rilevazione di
per sè è intesa come ostacolo, anzi come difesa dal coinvolgimento emotivo.
Il problema nel nostro caso diventa quello di costruire la propria capacità di conoscere
scoprendo, nel rapporto, che il bambino che e di fronte a noi evoca il bambino che è
dentro di noi.
Ciò, come dice P. Fürstenau28, avvicina il ruolo dell'educatore al ruolo del genitore.
L'educatore, afferma Fürstenau, di fronte al bambino da una parte tende a
differenziarsi dal ruolo di genitore circoscrivendo il proprio comportamento alla
funzione istituzionale e perciò rinunciando a " qualsiasi familiarità" nel rapporto e
riducendo il bambino ad "allievo", dall'altra tende ad accomunarsi al ruolo ed alla
posizione del genitore nei confronti del bambino.
Ciò avviene proprio a partire dal fatto che gli educatori "sono, come i genitori, degli
adulti in rapporto educativo con i bambini".
La psicoanalisi, continua Fürstenau (p. 48), "ha dimostrato che il bambino, per la sua
disposizione "perversa polimorfa'' agli impulsi (cioè per il suo scarso controllo degli
impulsi) e per il più libero gioco delle attitudini e degli interessi (che non sono ancora
modellati dal consentito e dall'abituale) compromette il controllo che l'adulto esercita
sui propri impulsi e sul proprio comportamento", riattivando pericolosamente in lui
(educatore o genitore che sia) i conflitti (rimossi) della propria infanzia.
Ciò determina un vissuto di angoscia nell'educatore che è tanto più pesante quanto
più la situazione che si presenta di fronte a lui è simile a quella che lui ha vissuto da
bambino di fronte ai propri genitori.

27 F. Borgogno "L'illusione di osservare" Giappichelli Ed. 1981


28 P. Fürstenau "Contributo alla psicoanalisi della scuola in quanto istituzione" Sta in "Educazione e
condizionamento" AA.VV. Partizan Ed.
"L'educatore", cioè, come dice Bernfeld 29, si trova di fronte a due bambini: a quello da
educare, dinanzi a lui, e a quello rimosso, dentro di lui. Non può fare altro che trattare
quello così come ha vissuto in sé questo".
Il "transfert inconscio" (Fürstenau) che si stabilisce fra bambino ed educatore, "la
riattivazione inconscia che si ha nell'educatore, in presenza del bambino, del conflitto
che l'ha opposto nella propria infanzia ai suoi genitori... ci ricordano i problemi che ci
ha posto il controllo dei nostri impulsi e della nostra condotta e sono per noi una
tentazione a regredire alla fase del nostro conflitto con i nostri genitori.
I fantasmi, i sentimenti e i desideri infantili di potere proprio e di potere dei genitori si
riattivano facilmente (inconsciamente) nell'educatore quando entra in contatto con i
bambini e non è raro che abbiano corso pressoché libero data la posizione d'inferiorità
della controparte, il bambino" (Fürstenau p. 50).
E' solo a partire da una continua opera di analisi delle componenti transferali e
controtransferali che ci sono nel rapporto con ciascun bambino che è possibile
superare l'azione educativa così come avviene, quando l'educatore agisce
inconsciamente "sotto la spinta della propria costellazione edipica" (Fürstenau).
I risultati che e possibile raggiungere ponendosi nell'ottica psicoanalitica quindi sono
alquanto diversi rispetto a quelli degli etologi.
In questa sede ci preme sottolineare soprattutto alcuni punti:
- l'interazione, non è vista tanto nei suoi contenuti rilevabili, quanto come una "intima
relazione" in cui prevalgono i contenuti emozionali (tant'è vero che, in psicoanalisi, si
preferisce parlare più di rapporto, di incontro, che di interazione);
- ciò che si costruisce nel bambino e nell'educatore non è qualcosa che sia facilmente
incasellabile nei due binari della stabilità e dell'individuazione, o qualcosa che si
discosta da queste, ma è un complesso fenomeno di identificazioni reciproche (reso
ancora più complesso dalle reciproche identificazioni esistenti fra educatrici e
genitori);
- perchè vi sia un consolidamento del sentimento di identità nel bambino "è
necessario che nel corso dell'evoluzione venga a prodursi un predominio delle
identificazioni introiettive su quelle proiettive" (Grinberg op. cit. pag. 60), e cioè una
capacità da parte dell'educatrice (come prima della madre) di andare oltre la stabilità
e l'individuazione nel rapporto, di rischiare, di avvicinarsi al bambino, di iscriverlo in un
progetto pedagogico che non sia altro che questo rischio e la capacità di "uscirne
fuori" non sotto la spinta inconscia a ripetere e a rivivere i vecchi conflitti della propria
infanzia, ma recuperando una operatività che nasce dall'incontro di due esseri che
possono reciprocamente arricchirsi.
E' quello che Fürstenau chiama "agire in modo cosciente e meditato", e Vera Schmidt
"lavoro dell'educatrice su se stessa"30.
In conclusione l'approccio psicoanalitico propone una strada di riavvicinamento al
bambino e prima di tutto al bambino che è dentro di noi, che rifugge dai falsi
avvicinamenti ottenuti attraverso le griglie ed i curricoli.
Un approccio cioè che può permettere un incontro col bambino, e non una ennesima
lettura dell'infanzia.
Ciò però a patto che, come dice Grinberg, a fianco all'integrazione spaziale e
temporale vi sia il vincolo decisivo della integrazione sociale, cioè a patto che la
psicoanalisi non rinunci alla storicizzazione del bambino, e cioè alla relativizzazione
delle forme che assume "l'Edipo" nelle varie culture, altrimenti essa stessa diventa

29 S. Bernfeld "Sisifo, ovvero i limiti dell'educazione" Guaraldi Ed. p. 143

30 V. Schmidt "L'asilo psicoanalitico di Mosca" Puntoemme Ed. Dice la Schmidt in proposito: "Per
giungere all'impostazione corretta di fronte agli impulsi Istintuali, l'educatrice deve prima, attraverso un
lavoro analitico su se stessa, liberarsi dei pregiudizi che le sono derivati dalla propria educazione. Essa
deve cercare di richiamare alla coscienza i propri impulsi istintuali rimossi e riconoscere l'affinità con i
fenomeni che la colpiscono nei bambini" (op. cit. pag. 28).
una delle tante griglie attraverso la quale vedere un bambino astorico, già tutto
scoperto, vivisezionato e cioè morto.
Cioè i modelli gestionali, curricolari e gli stessi modelli relazionali che nascono da
rilevazioni "oggettive" sul bambino rispondono, è vero, alle insufficienze della famiglia
nucleare moderna, all'eclissi della funzione genitoriale di fronte alle nuove esigenze
della società tardocapitalistica, ma vi rispondono, appunto nel senso di colmare queste
insufficienze.
Operano cioè nel senso di porre le basi per la formazione di una manodopera
qualificata e fungibile.
L'incontro fra i tre partners, come dice Bernfeld, e cioè fra il bambino che e di fronte a
noi, quello che è dentro di noi, e il nostro Io invece può costituire la base dalla quale
partire per superare nella pratica educativa, la tendenza alla formazione di un Io
debole (e perciò fungibile); per superarlo insieme ai genitori finalmente coinvolti nella
cogestione educativa a partire da un processo di rafforzamento e di autonomizzazione
dell'Io e non dalla sua funzionalizzazione acritica alle esigenze della società
tardocapitalistica.
Per questa via, cioè, è possibile non solo demistificare il concetto di programmazione
educativa, ma anche superarlo nella pratica quotidiana.

Reggio Emilia, autunno 1984

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