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INTRODUZIONE

Le leghe e le miscele polimeriche sono una consolidata realtà nello sviluppo di nuovi materiali
polimerici. A causa dell’elevato costo e dell'incertezza sulla tossicità associata con lo sviluppo di
nuovi monomeri, la maggior parte dei nuovi materiali polimerici vengono ora sviluppati attraverso
la creazione di leghe e miscele, o cambiando l'architettura della catena polimerica (polimeri a
innesto, blocco, ecc.).

Leghe Polimeriche
Una miscela (eterofasica o no) è un "polimero multicomponente". Quasi tutti i polimeri
multicomponente sono formati da più fasi e per questo sono chiamati anche polimeri multifase. Per
enfatizzare l'importanza delle interazioni chimiche e/o fisiche delle catene polimeriche ad un livello
molecolare, ci si riferisce a questo tipo di materiali anche con il termine di “leghe polimeriche”.
Una lega polimerica è normalmente formata da due o più omopolimeri miscelati insieme. Anche
alcuni copolimeri a blocchi mostrano la separazione di fase tipica delle leghe polimeriche. Per
ottenere proprietà ottimali nelle leghe, si dovrebbe avere un aumento sinergico delle proprietà
rispetto a quelle delle singole componenti.
Per esempio, il polistirene ad alto impatto è un polistirene tenacizzato con una fase gommosa.
Con l'uso di speciali tecniche, le particelle di gomma possono essere completamente disperse nella
matrice di polistirene. Con questa struttura, si ottiene un effetto soddisfacente di tenacizzazione con
un’aggiunta di gomma solo del 5-10%. Un altro esempio di tenacizzazione di un materiale a base
stirenica è il copolimero chiamato ABS, materiale bifasico la cui matrice è il copolimero statistico
stirene-acrilonitrile e la cui fase dispersa è, ancora una volta, gomma polibutadienica. Si comprende
pertanto come la ricerca sulle miscele susciti così tanta attenzione sia in ambito accademico che
nell'industria.
La morfologia delle fasi delle miscele determina le loro proprietà e può essere valutata
mediante molte tecniche di caratterizzazione. Le informazioni sulla struttura di fase inoltre
includono l'interfaccia delle fasi stesse. Per capire il meccanismo per formare queste strutture, è
necessario fare delle considerazioni sulla termodinamica delle miscele, che è stato l'argomento di
interesse per gli studiosi dei polimeri per molto tempo. La prima descrizione sistematica dei sistemi
polimerici fu fatta da Flory, il quale afferma che due polimeri sono reciprocamente compatibili tra
di loro soltanto se la loro energia libera di interazione è favorevole, cioè, negativa. Di fatto, nella
maggior parte dei casi, la miscela di due o più polimeri è endotermica: la compatibilità nella pratica
è un'eccezione. Tuttavia, da allora, sono stati segnalati un numero sempre maggiore di casi di
compatibilità; si è capito che le interazioni segmentarie tra polimeri sono cruciali per comprendere
questi fenomeni ed alcune delle interazioni sono introdotte espressamente nei sistemi per
aumentarne la compatibilità. [1]

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1 - TIPOLOGIE

1.1 COPOLIMERI
Il termine copolimero indica tutte quelle macromolecole la cui catena polimerica contiene
monomeri di due o più specie differenti. Quando invece un polimero è costituito dall'unione di
monomeri di un solo tipo viene detto omopolimero. Una prima classificazione dei copolimeri si può
effettuare in base alla disposizione dei diversi monomeri all'interno della catena polimerica. Se si ha
un copolimero formato da due diversi monomeri A e B, si possono presentare i seguenti casi:

– copolimero alternato: quando due monomeri sono disposti in modo alternato nella catena
polimerica
…-A-B-A-B-A-B-A-B-…

– copolimero statistico o random: i due monomeri sono presenti nella catena senza un
ordine preciso
...-A-B-B-B-A-A-B-A-B-B-A-B-A-A-A-...

– copolimero a blocchi: tutti i monomeri di un tipo e quelli dell'altro sono raggruppati in due
blocchi distinti ma uniti ad un estremo. Un copolimero a blocchi può essere pensato come
due omopolimeri uniti alle estremità terminali:

...-A-A-A-A-A-A-A-B-B-B-B-B-B-B-...

Un copolimero a blocchi molto diffuso è quello stirene-butadiene-stirene (SBS).

– copolimero innestato (o graft): catene di polimero costituito da monomero di tipo A sono


innestate ad una catena di monomero B.

|
-A-A-A-A-A-B
|
B
|
B-A-A-A-A-A-
|
B
|
B
|

Un copolimero innestato è il polistirene antiurto (High Impact PolyStyrene, HIPS)


[11], [12]

2
1.2 MISCELE POLIMERICHE
Per ottenere un materiale che abbia alcune caratteristiche di un polimero ed alcune proprietà di
un altro, anziché cercare di sintetizzare un polimero completamente nuovo con tutte le
caratteristiche desiderate, si miscelano talvolta due polimeri per formare una miscela che abbia le
caratteristiche di entrambi.
Miscelare due tipi diversi di polimero può essere complicato. Accade molto raramente che due
tipi diversi di polimero possano essere miscelati. Si vedano ad esempio il polietilene e il
polipropilene in figura 1.

Figura 1 - Formula di struttura del polietilene e del polipropilene[2]

Per motivi entropici non sono miscibili tra loro. In un polimero allo stato amorfo tutte le
catene sono aggrovigliate una con l'altra in modo casuale e caotico con la conseguenza che
l’entropia è molto elevata. Un polimero amorfo è talmente disordinato da solo che non riesce ad
acquisire molta altra entropia quando viene unito ad un altro polimero. Quindi la miscela dei
componenti non è facilitata. [2]

1.3 MISCELE ETEROFASICHE DI POLIMERI


Quando i due polimeri sono immiscibili si ottiene un materiale costituito da due fasi, una
miscela eterofasica.
Ad esempio il polistirene ed il polibutadiene (vedere figura 2) sono immiscibili. Quando si
mescola polistirene con una piccola quantità di polibutadiene, i due polimeri non si miscelano: il
polibutadiene si separerà dallo stirene in piccole sfere. Guardando al microscopio elettronico, si
vedrà un’immagine simile a quella rappresentato nella figura 3.

Figura 2 - Formula di struttura del polistirene e del polibutadiene [3]

3
Figura 3 - Micrografia al Microscopio a Trasmissione Elettronica (TEM) di un HIPS [5]

Il polistirene è un materiale fragile, ma è tenacizzato dalla presenza delle sferette di


polibutadiene che funzionano come concentratori di sforzo. Questa miscela eterofasica ha più
resistenza alla flessione e alla trazione del polistirene omopolimero; cioè è più tenace e più duttile.
Un’altra comune miscela eterofasica è quella costituita da polietilentereftalato (PET) e
polivinilalcool (PVA), mostrati in figura 4 .

Figura 4 - Formula di struttura polietilentereftalato e del polivinilalcool [3]

In opportune condizioni si può ottenere un materiale la cui struttura vista al microscopio


elettronico sarà simile alla figura 5.

Figura 5 - Modello della struttura lamellare del blend PET – PVA [3]

In questo materiale e in determinate condizioni di concentrazione relativa tra le fasi, PET e


PVA si separano in strati sottili, detti lamelle, dando luogo ad una morfologia lamellare. Questa
particolare miscela eterofasica è utilizzata per fare bottiglie di plastica per liquidi addizionati con
anidride carbonica. Infatti il PET rende le bottiglie più resistenti, mentre gli strati di PVA non fanno
permeare l’anidride carbonica. [3]

4
Morfologia
Viene definita morfologia la struttura creata dalle due fasi e l'arrangiamento delle due fasi. La
miglior cosa che si possa fare per agire sulla morfologia di una miscela eterofasica è controllare la
quantità relativa dei due omopolimeri.
Se si cerca di fare una miscela eterofasica con due polimeri A e B, utilizzando più polimero A
che B, quest’ultimo si separerà in piccole sfere. Le sfere di polimero B si separeranno le une dalle
altre nella fase costituita dal polimero A, come si può vedere nella figura più a sinistra di figura 6.
In questi casi, il polimero A viene definito componente maggiore (o fase continua) ed il polimero B
componente minore (o fase dispersa). Aumentando il contenuto di polimero B nella miscela
eterofasica, le sfere diverranno sempre più grosse, fino ad unirsi fra loro, formando una fase
continua. Quando succede questo, si dice che la fase del polimero A e del polimero B sono "co-
continue". Questo tipo di miscela eterofasica assomiglia alla figura centrale di figura 6.
Continuando ad aggiungere il polimero B, il polimero A formerà delle sfere isolate accerchiate da
una fase continua del polimero B, in cui la situazione iniziale si è invertita, come si può vedere nella
figura di destra di figura 6.

quantità relativa di polimero B nella miscela eterofasica

Figura 6 - Rappresentazione delle varie morfologie assunte da miscele eterofasiche [3]


A volte il modo in cui un prodotto viene lavorato influenza la morfologia del materiale. Le
bottiglie per le bevande analcoliche sono fatte con una tecnica chiamata soffiaggio. Un provetta del
materiale in esame viene estruso e “gonfiato” soffiandogli aria all’interno fino a quando non
raggiunge la superficie dello stampo che deve copiare. Questo processo pone il materiale sotto
sforzo biassiale come si può vedere nella figura 7. Tale sollecitazione biassiale fa sì che i domini del
PET e del PVA si dispongano su piani.

Figura 7 - Materiale sottoposto a sforzo biasciale [3]

5
Un'altra interessante morfologia è quella a domini a barre che si ha quando un polimero è
disperso in una fase continua di un altro polimero. Questo avviene quando una miscela eterofasica è
posta sotto uno sforzo monodirezionale, come accade durante un processo di estrusione.

Figura 8 - Lo stiro monodirezionale può trasformare le sfere in lamine [3]

Per una miscela eterofasica 80:20 di polietilene ad alta densità e polistirene, il polistirene è il
componente minore e forma domini sferici separati con dimensioni tra i 5 ed i 10 micron di
diametro. [3]

Proprietà delle miscele eterofasiche


Una proprietà atipica delle miscele eterofasiche è che se sono prodotte partendo da due
polimeri amorfi, hanno due temperature di transizione vetrosa (Tg). Il fatto che i due componenti
siano in fasi separate, consente loro di mantenere le proprie Tg. Di conseguenza, un metodo per
verificare se la mescola è miscibile o immiscibile consiste nel misurane la Tg: se si trovano due Tg la
mescola è immiscibile, quindi eterofasica; se si trova una sola Tg, la mescola è probabilmente
miscibile.
Per caratterizzare le proprietà meccaniche, consideriamo una miscela eterofasica tra un
polimero A, componente maggiore, ed un polimero B, componente minore, la cui morfologia sia
quella di sfere del polimero B disperse in una matrice di polimero A. Le proprietà meccaniche della
miscela tendono a dipendere dal polimero A: è questa la fase che assorbe tutti gli sforzi e l'energia
che si hanno quando il materiale viene sottoposto ad un carico. In questi casi la miscela eterofasica
tende ad essere più debole del semplice polimero A. Un metodo per rendere la miscela eterofasica
più forte è di sottoporla ad un flusso unidirezionale: il componente minore formerà delle lamelle
invece che delle sfere, vedi figura 8. Queste lamelle funzionano come le fibre di un materiale
composito rinforzato rendendo il materiale più forte nella direzione delle lamelle. Un altro modo
per rendere più resistente una miscela eterofasica è di usare quantità circa uguali dei due polimeri.
Si ottengono due fasi co-continue ed entrambe vengono sollecitate dallo sforzo sul materiale, che
risulterà più resistente. Uno dei modi più interessanti per rinforzare una miscela eterofasica è quello
di utilizzare un compatibilizzante. Un compatibilizzante è qualunque agente che aiuti a legare le due
fasi più saldamente. In una miscela eterofasica le due fasi non sono legate molto saldamente fra
loro. Spesso un compatibilizzante è un copolimero a blocchi dei due componenti della miscela
eterofasica. Si prenda come esempio una miscela eterofasica dei polimeri A e B e un copolimero a
blocchi di A e B. Chiaramente, il blocco di polimero A cerca di posizionarsi nella fase costituita dal
polimero A ed il blocco di polimero B, nella fase del polimero B. Così il copolimero si pone proprio
all’interfaccia tra le fasi di A e B. Il copolimero a blocchi unisce le due fasi e permette di trasferire
l'energia da una fase all'altra. Questo significa che il componente minore può migliorare le proprietà
meccaniche del componente maggiore piuttosto che peggiorarle.

6
Figura 9 - Esempio di copolimero a blocchi [3]

Anche i copolimeri ad innesto possono essere utilizzati come compatibilizzanti, come avviene
nel HIPS dove lo stirene è innestato su una catena di polibutadiene.

Figura 10 - Copolimero a innesto di polistirene su polibutadiene [3]

I compatibilizzanti hanno un altro effetto sulle miscele eterofasiche: abbassando l'energia


della fase di contatto, la necessità di minimizzare i contatti tra le due fasi è minore e le sfere non
necessitano più di essere tanto grandi. Questo è positivo per le proprietà meccaniche della miscela
eterofasica: più le sfere sono piccole, maggiore è l'area della superficie di contatto delle due fasi e
l'energia sarà trasferita più efficacemente da una fase all'altra. [3]

7
1.4 COMPOSITI
Un composito è un insieme, generalmente non omogeneo e non isotropo, ricavato mettendo
insieme materiali di forma e/o composizione diversa allo scopo di riuscire a combinare le proprietà
e le caratteristiche dei vari costituenti in modo da ottimizzarle nel prodotto finale, ottenendo
particolari requisiti a costi possibilmente limitati. [13]
Nel seguito si tratterà di compositi polimerici. Di particolare interesse sono i compositi
rinforzati da fibre. Si tratta di materiali nei quali una fibra formata da un materiale è immersa in un
altro materiale.
Uno dei primi compositi polimerici rinforzati da fibre fu creato da Charles Macintosh, che
prese due strati di tessuto di cotone (forma della cellulosa, un polimero naturale) e li imbevve in
gomma naturale (nota anche come poliisoprene), combinando l'idrorepellenza del poliisoprene al
comfort del cotone.
I compositi moderni sono formati di solito da due componenti, una fibra ed una matrice. La
fibra è quasi sempre vetro, ma può essere Kevlar, fibra di carbonio, o polietilene. La matrice è
spesso un termoindurente, come resina epossidica, polidiciclopentadiene o poliimide. La fibra è
inserita nella matrice per renderla più resistente. I compositi rinforzati da fibre hanno due punti a
loro favore. Sono resistenti e leggeri. Spesso sono più forti dell'acciaio ma pesano molto meno.
Un composito rinforzato con fibre di vetro molto comune è il FiberglassTM. La sua matrice si
ottiene facendo reagire un poliestere, con doppi legami carbonio-carbonio nella catena principale, e
stirene (vedi figura 11).

Figura 11 – Formula di struttura di un poliestere e dello stirene:


reagendo danno una resina reticolata [4]

Lo stirene ed i doppi legami del poliestere reagiscono tramite la polimerizzazione radicalica


per formare una resina reticolata. Le fibre di vetro vengono inglobate all'interno, dove agiscono da
rinforzo. Nel FiberglassTM le fibre non sono allineate in una particolare direzione ma sono una massa
aggrovigliata come quella in figura 12.

Figura 12 - Fibre di vetro nel FiberglassTM [4]

8
Per rendere il composito ancora più resistente si allineano le fibre nella stessa direzione lungo
la quale viene allungato. Se, al contrario il composito viene allungato perpendicolarmente alla
direzione delle fibre non è assolutamente resistente. Talvolta invece è necessario che il composito
sia resistente in più di una direzione e ciò si ottiene orientando le fibre in più direzioni.
La matrice tiene insieme le fibre. Inoltre, anche se le fibre sono resistenti, possono essere
fragili, invece la matrice, che può assorbire energia deformandosi, aggiunge tenacità al composito.
Infine le fibre, pur avendo un buon carico di rottura (ossia sono resistenti alla trazione), di solito
hanno una bassissima resistenza alla compressione, che viene fornita dalla matrice. [4]

9
2 - TECNOLOGIE PRODUTTIVE

2.1 ESTRUSIONE E CALANDRATURA


Per processo di estrusione si intende in generale, il compattamento e la fusione del materiale
plastico, seguita dalla forzatura del materiale stesso in modo continuo attraverso un orifizio, per
mezzo di una o più viti elicoidali (vedere figura 13).

Figura 13 - Processo di estrusione con calandratura [8]

Gli stadi fondamentali dell’estrusione sono l’alimentazione del pellet attraverso una tramoggia,
la plastificazione ed il trasporto del fuso. Lo stadio di plastificazione avviene fornendo al granulo il
calore necessario per portarlo allo stato fuso attraverso due meccanismi fondamentali: trasferimento
di calore per conduzione da un cilindro riscaldato e/o per dissipazione viscosa via attrito meccanico
tra i pellets oppure tra questi e le componenti interne dell’estrusore. A questo punto il polimero fuso
viene trasportato, con modalità che dipendono dal comportamento reologico del materiale, dalla
geometria della vite e dalle condizioni di esercizio, ed estruso (dal latino ex trudere, spingere fuori),
nella parte finale detta “testa”, attraverso un orifizio opportunamente calibrato; la sua geometria
determina infatti lo spessore ed in generale la geometria dell’estruso.
Altra apparecchiatura fondamentale per l’aspetto del prodotto finito è il sistema di rulli
(calandra), che permette al polimero di raffreddarsi e di assumere lo spessore più consono alla
destinazione finale. Come riportato in Tabella 1, le varie tipologie di manufatti piani ottenibili
estrudendo i polimeri stirenici, sono in genere suddivise in base al loro spessore.
A parte qualche caso nel quale film o lastre costituiscono il prodotto finito, il materiale
proveniente dall’estrusione viene inviato ad uno stadio di lavorazione successiva, che con eccezioni
trascurabili è quello noto come termoformatura. [8]
tram
velocità di Utilizzo secondario
spessore, mm Utilizzo principale
traino, m/min come prodotto finito

finestre trasparenti per


Film 0,01 - 0,5 fino a 50 a termoformatura
buste

Foglia 0,5 - 1,8 10 - 15 a termoformatura ----

arredamento (box
Lastra 1,8 - 8,0 3-4 a termoformatura
doccia, ecc.)

Tabella 1 - Principali tipologie di manufatti da estrusione [8]

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2.2 TERMOFORMATURA
La lastra o la foglia, ottenuta per estrusione, è in genere destinata ad un successivo passaggio,
dove la tecnologia nota come termoformatura consente al materiale di assumere le geometrie più
disparate.

Figura 14 - Processo di termoformatura [8]

Il processo si basa su due stadi fondamentali, il riscaldamento e la formatura. Nel primo, il


manufatto è inserito in un sistema di afferraggio e sottoposto a riscaldamento fino a temperature
appena superiori a quella di transizione vetrosa (Tg). Le principali tecnologie adottate in questa fase
si basano sull’utilizzo di pannelli radianti o per contatto. Quando le proprietà meccaniche del
manufatto sono particolarmente importanti, si tende ad utilizzare una temperatura relativamente
bassa, promuovendo così un maggiore grado di orientamento del materiale. Laddove invece si
debbano riprodurre stampi particolarmente complicati, prevale l’utilizzo di temperature più elevate.
La fase di formatura, può essere condotta con modalità diverse. Quando il manufatto, dopo il
riscaldamento, viene deformato con un getto d’aria in pressione, si parla di formatura libera per
applicazione di pressione. L’assenza di contatto con parti meccaniche dà luogo da un lato a
superfici esteticamente migliori, dall’altro a maggiori difficoltà di controllo della geometria.

Figura 15 - Principali tipologie di termoformatura [8]

Un'altra possibilità è quella di assistere la formatura mediante un pistone (formatura assistita),


che spinge il manufatto nella parte concava dello stampo, dove l’applicazione di vuoto o pressione
consente l’adesione ottimale del polimero alle pareti. Nella formatura in stampo invece, il materiale
plastico aderisce alle pareti dello stampo attraverso l’applicazione di pressione sulla parte esterna
della lastra oppure di vuoto all’interno.
La termoformatura riveste un ruolo cruciale nella produzione di diversi manufatti, dalle coppette
e bicchieri alle celle frigorifere. [8]

11
2.3 STAMPAGGIO AD INIEZIONE
La tecnologia dello stampaggio ad iniezione si basa sulla capacità dei polimeri termoplastici,
una volta riscaldati oltre la propria Tg, di riempire rapidamente uno stampo, anche di geometria
complessa; dopo raffreddamento e quindi solidificazione della materia plastica, il manufatto avente
la forma dello stampo può essere estratto ed utilizzato.
La parte iniziale, nella quale avviene la plastificazione dei granuli, non è tendenzialmente
dissimile da quella già descritta per l’estrusione (vedi figure 16 e 17).

Figura 16 – Schema di processo di stampaggio ad iniezione [8]

Figura 17 – Foto di processo di stampaggio ad iniezione [10]

m
A differenza di quanto avviene in quest’ultima però, la vite di plastificazione non è fissa, ma
indietreggia sotto la spinta del flusso del polimero durante la plastificazione. Al termine di questa
fase, la vite, dopo avere sospeso il moto rotatorio, si muove rapidamente in senso opposto,
spingendo con un’azione simile a quella di un pistone il polimero fuso all’interno dello stampo.

12
Peculiare dello stampaggio ad iniezione è anche la sezione comunemente definita gruppo di
chiusura, che comprende una parte fissa, dove il polimero è convogliato in canali verso lo stampo e
da una parte mobile, che consente l’apertura dello stampo. Dopo l’iniezione e le successive fasi di
pressurizzazione e raffreddamento, il manufatto può essere estratto dallo stampo. Rispetto alla
termoformatura, lo stampaggio ad iniezione consente tempi di ciclo notevolmente più rapidi e
l’ottenimento di manufatti con geometrie più complicate e a maggiore spessore. Gli svantaggi
principali sono i costi di investimento legati alla progettazione e costruzione degli stampi, oltre alla
difficoltà a gestire stampi di grandi dimensioni. Lo stampaggio ad iniezione, in genere, non si presta
all’utilizzo di polimeri dalla fluidità particolarmente bassa; l’alta viscosità del materiale genera
infatti un incremento dei costi energetici (maggiore forza di chiusura dello stampo). Il
mantenimento di un tempo di ciclo convenientemente rapido, costringerebbe poi ad operare a
temperature più alte, con conseguente impatto negativo sia sugli aspetti energetici che sulla
degradazione del polimero. [8]

13
3 – APPLICAZIONI

Data l’enorme quantità di copolimeri (statistici o a blocchi) commerciali, per quanto riguarda
le applicazioni di questo tipo di leghe polimeriche, l’attenzione verrà ristretta nei paragrafi che
seguono ai soli copolimeri dello stirene.

3.1 COPOLIMERI STATISTICI DELLO STIRENE


E’ caratteristica generale dei copolimeri statistici il fatto che le loro proprietà sono intermedie
tra quelle degli omopolimeri parenti. Mediante copolimerizzazione statistica è perciò a volte
possibile ottenere “compromessi” interessanti, in cui si riesce a sopperire a specifiche carenze di un
omopolimero senza perdere troppo delle sue caratteristiche positive.
Nel caso di copolimeri dello stirene due esempi importanti, in quanto industrialmente
realizzati e presenti in campo applicativo, sono il copolimero stirene-metilmetacrilato (SMMA) e il
copolimero stirene-acrilonitrile (SAN). [6]

3.1.1 Stirene - MetilMetacrilato


Il polimetilmetacrilato (PMMA) è apprezzato per le sue eccellenti proprietà ottiche, per la sua
purezza superficiale (che lo rende ad esempio “resistente al graffio”) e per la sua resistenza alla
degradazione da radiazione ultravioletta. Per contro, il PMMA è notoriamente suscettibile alla
degradazione chimica da parte degli alcoli, il che ne limita l’utilizzo in campo alimentare.
I copolimeri SMMA hanno proprietà ottiche e superficiali superiori rispetto a quelle del PS e
resistono agli alcoli meglio del PMMA. Grazie alla possibilità di regolare l’indice di rifrazione del
materiale in base al contenuto di comonomero, i copolimeri SMMA sono utilizzati nella sintesi di
materiali trasparenti rinforzati con gomma. [6]

3.1.2 Stirene – Acrilonitrile


Il SAN è di gran lunga il copolimero statistico dello stirene più prodotto e utilizzato, sia in
quanto tale, sia come matrice di uno dei più noti polimeri termoplastici rinforzati con gomma:
l’ABS (v. oltre). La presenza dell’acrilonitrile (AN) aumenta le interazioni polari tra le
macromolecole. Grazie a ciò il SAN ha, rispetto al PS, migliori proprietà meccaniche e termiche, e
una migliore resistenza chimica, in particolare nei confronti di sostanze che danno luogo ad
“environmental stress cracking” (frattura in presenza simultanea di sollecitazione meccanica e di un
agente chimico aggressivo). Per contro, la presenza del comonomero AN peggiora leggermente le
eccellenti doti di processabilità del PS. Il SAN è mediamente più viscoso e più sensibile alla
degradazione termo-ossidativa, che causa l’ingiallimento del materiale. Inoltre, essendo più
igroscopico, il SAN, a differenza del PS, deve sempre essere essiccato prima di ogni processo di
trasformazione. Un altro interessante effetto della copolimerizzazione con AN è la diminuzione del
peso molecolare tra gli entanglements (Me). La figura 18 riporta alcune misure sperimentali, da cui
si può notare come il SAN abbia Me circa due volte inferiore al PS. Si nota anche una diminuzione
monotona decrescente di Me all’aumentare del contenuto di AN, che fisicamente traduce il fatto che
la catena polimerica acquista progressivamente flessibilità. Questo ha importanti implicazioni sulle
proprietà meccaniche quali ad esempio la duttilità. [6]

14
25000

20000

Figura 18 - Valori di Me in copolimeri SAN in funzione della composizione


Me 15000
Esempi di applicazioni per SAN:
Lastre per box doccia
Contenitori ottenuti per estrusione 10000
o soffiaggio
Porte industriali
Casalinghi e piccoli elettrodomestici
Componenti trasparenti per frigoriferi
5000
Illuminotecnica
Finestre per caravan
Cancelleria
Giocattoli 0
Accendini [9]
0 0.1 0.2 0
3.2 MATERIALI STIRENICI RINFORZATI CON GOMMA contenuto di AN, %
Una delle caratteristiche più limitanti nell’utilizzo pratico del PS e dei suoi copolimeri
statistici è la fragilità. Il cedimento meccanico di oggetti realizzati con questi materiali avviene
quasi sempre in modo catastrofico, con la propagazione “esplosiva” della frattura e, non di rado,
con la formazione di frammenti rigidi e taglienti. Una tecnica efficace per modificare questo
comportamento è quella di introdurre nel materiale domini di fase dispersa, di dimensioni e quantità
opportune (v. ad es. figura 19), che abbiano un valore di modulo elastico molto inferiore a quello
della fase continua.

Figura 19 - Micrografia al Microscopio a Trasmissione Elettronica (TEM) di un HIPS [7]

15
Alla base del funzionamento meccanico delle strutture eterofasiche di questo tipo è il
fenomeno della concentrazione di sforzo: quando una forza esterna viene applicata al materiale,
all’interfaccia tra la fase continua e ogni particella dispersa lo sforzo locale risulta più grande di
quello applicato esternamente, secondo un fattore che dipende dalla forma dell’eterofase e dal
rapporto tra i moduli elastici dell’eterofase e della fase continua. Anche la geometria del campo di
sforzi risulta alterata, col risultato, ad esempio, che sforzi uniassiali applicati al materiale possono
dare origine a sforzi triassiali (dilatazionali) nelle immediate vicinanze delle eterofasi.
I materiali stirenici eterofasici rientrano sostanzialmente in due categorie: quelli in cui la fase
continua è polistirene omopolimero, denominati HIPS (High Impact PolyStyrene), e quelli basati
invece sul copolimero stirene-acrilonitrile, denominati ABS (Acrylonitrile-Butadiene-Styrene),
ASA (acrylonitrile-styrene-acrylic rubber) ecc. Le eterofasi sono normalmente realizzate con
gomma polibutadienica. In casi particolari, soprattutto nel caso dei materiali a base SAN, si possono
usare gomme diverse (ad es. gomme acriliche nell’ASA per migliorare la resistenza alla
degradazione foto-ossidativa). In tutti i casi le eterofasi gommose in questi materiali hanno valori di
modulo elastico circa 1000 volte inferiori a quelli delle rispettive fasi continue: in queste
condizioni, e con geometria sferica delle eterofasi, il valore del fattore di concentrazione di sforzo
teorico è di circa 2. [7]

3.2.1 HIPS
L’effetto della concentrazione di sforzo locale attorno alle particelle di fase gommosa risulta
evidente se si considerano le curve sforzo-deformazione in trazione di un PS e di un HIPS, tipici
esempi delle quali sono riportati in figura 20. Si osserva che il PS ha comportamento elastico
(andamento lineare della relazione sforzo-deformazione) fino ad un valore limite di sforzo,
raggiunto il quale si ha una brusca frattura del provino con quasi totale assenza di deformazione
plastica. La deformazione massima al momento della rottura non supera di molto il 2%. Ben diverso
è il caso dell’ HIPS: il comportamento è elastico fino ad uno sforzo massimo nettamente inferiore a
quello di rottura del PS, raggiunto il quale si ha un tipico fenomeno di snervamento con successiva
deformazione plastica (a sforzo pressoché costante) fino a valori che possono superare il 50%.

60

50

PS
40
sforzo, MPa

30

20

HIPS

10

0
0 5 10 15 20
deformazione, %

Figura 20 - Curve sfrozo-deformazione in trazione (ISO 527) per tipici campioni di PS e HIPS [7]

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Quanto queste differenze di comportamento siano legate al fenomeno della concentrazione di
sforzo appare chiaro se si esamina la micrografia TEM (Microscopia a Trasmissione Elettronica) di
un campione di HIPS deformato oltre il limite di snervamento (figura 21).

Figura 21 - Micrografia TEM di un film sottile di HIPS deformato oltre lo snervamento [7]

All’interfaccia tra le particelle di fase gommosa e la matrice si osserva la presenza di un


elevato numero di microvuoti (crazes). La nucleazione dei crazes avviene nelle porzioni di PS che,
a causa della concentrazione dovuta alle eterofasi, sono soggette ad uno sforzo molto maggiore di
quello applicato al provino e equivalente a quello che genera i crazes nell’omopolimero. I crazes
nell’HIPS sono evidentemente di dimensioni paragonabili a quelle delle particelle, quindi molto più
piccoli di quelli che causano la frattura del PS omopolimero, e che sono visibili ad occhio nudo.
Sono inoltre presenti in numero estremamente elevato, paragonabile a quello delle particelle stesse.
Infine, come si può osservare, sono di estensione limitata, sia perché l’effetto di concentrazione di
sforzo si esaurisce rapidamente allontanandosi dall’interfaccia particella-matrice, sia perché un
craze in fase di estensione si arresta dove incontra una particella di eterofase. Risultato
macroscopico di questi fenomeni è che l’HIPS non si rompe in modo fragile a piccoli valori di
deformazione, come il PS, ma è invece in grado di dissipare grandi quantità di energia meccanica
deformandosi plasticamente.
La “tenacizzazione” del PS, così efficacemente realizzata grazie alle particelle di fase
gommosa disperse, non è però priva di aspetti negativi. In figura 20 si può osservare come la
pendenza della curva sforzo-deformazione nel tratto elastico lineare sia sensibilmente minore per
l’HIPS che per il PS: la presenza delle eterofasi gommose determina una diminuzione del modulo
elastico del PS, la cui entità dipende dalla frazione volumetrica totale della fase dispersa (non dalle
dimensioni delle particelle) e dal rapporto dei moduli delle due fasi. Una minore rigidità ed un
minore carico massimo di utilizzo in campo elastico sono quindi il prezzo che si paga, in termini
meccanici, per eliminare il problema della fragilità. In aggiunta a questo, le particelle gommose
disperse, che hanno dimensioni dell’ordine del µ m e indice di rifrazione diverso da quello del PS,
interagiscono con la radiazione luminosa, con importanti conseguenze sulle proprietà ottiche. Ne
consegue che l’HIPS, diversamente dal PS, non è trasparente ed appare di colore bianco.
Un caso particolare è costituito dagli HIPS con struttura “a capsule” (vedi figura 22) in cui,
avendo dimensioni medie delle particelle di circa 0.3 µm, si ha un compromesso interessante tra
proprietà meccaniche ed ottiche.

17
Figura 22 - Immagine TEM di HIPS con struttura delle particelle a “capsule” [5]

Naturalmente il compromesso è realizzato a spese della tenacità, che risulta sensibilmente


inferiore a quella degli HIPS tradizionali. La presenza delle eterofasi modifica anche il
comportamento reologico del materiale alle temperature di trasformazione. La figura 23 illustra, a
titolo di esempio, le differenze nell’andamento viscosità-velocità di scorrimento a 200 °C tra un PS
omopolimero (Mw ~ 180000) ed un HIPS la cui fase continua ha peso molecolare equivalente e il
cui contenuto di fase dispersa è il 20% in volume. [7]

100000

10000 PS
HIPS 20%
viscosità, Pa s

1000

100

10

1
0.001 0.1 10 1000 100000
gradiente di velocità, 1/s

Figura 23 – Viscosità del fuso in funzione della velocità di scorrimento a 200°C per un PS (Mw ~
180000) ed un HIPS con fase PS di equivalente peso molecolare e 20% in volume di fase dispersa [7]

Esempi di applicazioni per HIPS:


Giocattoli
Articoli di cancelleria
Casalinghi
Rasoi monouso
Alveoli portauova
Vaschette per gelati e prodotti surgelati
Cabinet di computer e televisori
Elettrodomestici
Corpi di ventilatori
Estrusione di lastre per applicazioni industriali ed edilizia
Stampaggio ad iniezione di articoli tecnici
Estrusione e termoformatura di bicchieri, piatti, vasetti per lo yogurt e coperchi [9]

18
3.2.2 ABS
La struttura dell’ABS è qualitativamente analoga a quella dell’HIPS. Si tratta di una matrice
vetrosa e fragile, in questo caso il copolimero è il SAN, in cui sono disperse eterofasi pressoché
sferiche basate su gomma polibutadienica. Il meccanismo di tenacizzazione è quindi anche in
questo caso basato sulla concentrazione di sforzo attorno alle particelle. Mentre, però, nell’HIPS la
“nucleazione eterogenea” di deformazione plastica sopra descritta avviene attraverso l’unico
meccanismo attivo che è quello del crazing, nell’ABS entra in gioco anche il meccanismo di
scorrimento di taglio.
Le figure 24 e 25 illustrano due esempi di morfologie della fase dispersa in ABS prodotti con
due diverse strategie, una che opera in regime discontinuo (emulsione) e l’altra che opera in regime
continuo (massa continua). Questi esempi sono solo indicativi: nei prodotti in commercio si
possono osservare differenze notevoli nelle caratteristiche delle eterofasi, che sono continuo oggetto
di ricerca presso i vari produttori.

Figura 24 - Micrografia TEM di un ABS prodotto con processo in emulsione [5]

Figura 25 - Micrografia TEM di un ABS prodotto con processo in massa [5]

Le differenze di prestazioni meccaniche sono descritte dall’esempio di figura 26, dove si


riportano il comportamento in una prova di trazione di tipici campioni di ABS e HIPS e l’aspetto
dei provini dopo la rottura. L’ABS ha, a confronto con l’HIPS, maggiore modulo elastico e più alti
valori di sforzo e deformazione allo snervamento: esso consente quindi la realizzazione di oggetti
che, a parità di dimensioni, sono più rigidi e in grado di sopportare carichi maggiori. La
deformazione plastica successiva allo snervamento, che nell’HIPS è omogeneamente diffusa su
tutto il materiale, nell’ABS tende a localizzarsi, come dimostra la strizione visibile nella fotografia
del provino fratturato. Ciò è diretta manifestazione della attiva presenza di un meccanismo di
scorrimento di taglio, che, associandosi al crazing, determina nell’ABS una maggior capacità di
dissipare energia prima della frattura.

19
60

50
ABS

40

sforzo, MPa
30

HIPS
20

10

0
0 10 20 30 40 50 60 70 80 90
deformazione, %

Figura 26 - Curve sforzo-deformazione in trazione (ISO 527) di tipici campioni di ABS e HIPS.
Sono riportate anche le immagini fotografiche dei provini dopo rottura [7]

La minore dimensione delle eterofasi nell’ABS determina anche una minore rugosità
superficiale rispetto all’HIPS, e quindi la possibilità di realizzare oggetti dalle superfici “speculari”.
Per contro, le particelle più piccole, a parità di frazione in volume di fase gommosa totale, sono più
vicine tra loro, e questo causa un effetto più “pesante” rispetto all’HIPS, della fase dispersa sulle
proprietà reologiche del materiale.
100000

SAN
10000
ABS 20%
viscosità, Pa s

1000

100

10

1
0.001 0.1 10 1000 100000
gradiente di velocità, 1/s

Figura 27 - Viscosità del fuso in funzione della velocità di scorrimento per un SAN ed un ABS
con matrice equivalente al SAN e 20% in volume di fase gommosa [7]

In figura 27 si osservano le differenze nella curva di flusso (viscosità vs. velocità di


scorrimento) a 220°C per un SAN ed un ABS preparato con il medesimo SAN cui è stato aggiunto
il 20% in volume di particelle di polibutadiene con diametro medio pari a 0.13 µ m. [7]

Esempi di applicazioni per ABS:


• Piccoli elettrodomestici
• Aspirapolvere
• Giocattoli
• Telefonia
• Casalinghi
• Componenti auto (sia interni che esterni)
• Stampi per piastrelle
• Imballaggio alimentare
• Profili e bordi per il settore arredamento
• Estrusione di lastre per frigoriferi, sanitari, trasporto, imballaggio [9]

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