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Recensione di Salam Maman

Che cosa racconta Salam, Maman? Hamid Ziarati intreccia due


cose. La storia di una famiglia e quella di un paese. Il paese è l'Iran,
a cavallo tra lo scià e la rivoluzione di Khomeini. È fondamentale la
scelta del punto di vista: quello del piccolo Alì. All'inizio del libro è
l'ultimo nato, non ha ancora iniziato ad andare a scuola. Prima di lui
vengono i gemelli Parì e Puyan, dopo arriverà la piccola Parvin.
Come tutti i bambini piccoli, fa cose teneramente buffe. In certi
passi mi sono venuti in mente echi di Emil (anche se non è così
discolo come il meraviglioso bambino creato da Astrid Lindgren).

Si domanda per esempio, visto che tutti in famiglia hanno nomi che
iniziano per p, se per caso lui non sia stato adottato. Il capitolo
iniziale è dedicato al capodanno persiano, e veniamo subito immersi
in una specie di momento magico, nell'eccitazione di una festa
importante, nei rituali, nei cibi,in una religiosità musulmana
umanissima. Soprattutto, facciamo conoscenza con una delle figure
più belle del libro, la madre, che qui vediamo impegnata nei
preparativi e nel difficile compito di tenere a bada tre bambini
piccoli, nell'attesa dell'arrivo del marito. Una madre che ama
sconfinatamente i suoi figli ma che al tempo stesso ha una visione
ben precisa del suo ruolo educativo. Che sa senza esagerare
mollare un ceffone e dire un no, e svenire al telefono quando, molti
anni dopo, saprà che due di loro sitrovano in una piazza di Teheran
dove l'esercito ha appena sparato sulla folla chedimostra contro lo
scià.

Perché Puyan, con la passione per la fotografia, sarà coinvolto nei desiderio di cambiamento e
rivoluzione che ha attraversato il paese nel periodo citato, insieme ai due amici Mehdi e
Djamshid (le cui storie disegnano un piccolo C'eravamo tanto amati iraniano). Osservando la
vita dei fratelli più grandi, che per trovare una possibilità di riuscita dovranno lasciare il paese
uno dopo l'altro, Alì così ci accompagna attraverso i suoi occhi fino oltre la soglia della presa
del potere da parte di Khomeini. Che farà dire sconsaltamente alla madre: Prima si sapeva che
chi comandava era un tiranno e un despota, bastava obbedirgli e non alzare la testa, ora c'è il
caos totale,comandano tutti quelli che hanno un mitra in mano, gente cui fino a ieri non
avrestidato un soldo bucato; esci di casa senza sapere se torni vivo o morto per colpa di
unattentato o perché ti è scivolato il chador e hai mostrato troppo i capelli.

Il romanzo è quindi una storia di formazione, la descrizione della progressiva perdita


dell'innocenza, del crollo delle illusioni fino al drammatico finale. Sia personale, sia di un intero
paese. Un altro sguardo sulla follia e l'ottusità che spesso attraversa l'uomo immerso nel
fanatismo (si veda per esempio il personaggio di Babak). Ma al tempo stesso è una intensa
celebrazione dei legami familiari. Una cosa difficile da fare senza cadere nella retorica e nel
bozzetto. Riuscire in questo delicato equilibrio mi sembra un grande titolo di merito per Hamid.
Dispiegare il memoriale scrivendo principalmente al presente gli permette di mantenere una
grande freschezza, come se fosse una specie di presa diretta. Al tempo stesso, poiché non è
un bambino a scrivere, ecco che piovono qua e là delle metafore, delle immagini sintetiche, dei
piccoli lampi di ironia. È come se Hamid desiderasse calarsi nella testa del bambino e ci
riuscisse appieno, ritrovando uno sguardo candido e ingenuo, portandosi però dietro alcuni
strumenti della sua testa di adulto. La cosa a mio modo di vedere funziona molto bene, perché
la parte "adulto" non è per nulla invasiva, soprattutto non invalida per nulla il primo sguardo,
lo completa con dei guizzi laterali che aggiungono il lampo di una prospettiva.

Mi sembra che ci siano ragioni ampiamente sufficienti per leggere il libro. Ne vorrei aggiungere
ancora una. Prendete adesso la prima la frase della dedica del libro: A mio figlio Dario, perché
un giorno comprenda la metà di se stesso. Ecco, non vi sembra, questa, da sola, una
motivazione che di per sé giustifica tutto?

“Salam Maman” non è il solito noir o giallo di cui la letteratura italiana è ormai satura, ma un
romanzo ambientato in Iran, scritto da un cittadino italiano di origine iraniana, la cui lingua madre è
l’iraniano ma che ha imparato l’italiano abbastanza bene da scrivere un romanzo. Di solito quando
si legge una storia ambientata in Medio-Oriente, in India o in Africa che racconta vicende di
persone nate e cresciute lì, si ha ben presente che è una traduzione dall’inglese, dal francese se non
dalla lingua locale. Ebbene anche l’italiano sta finalmente diventando un mezzo espressivo per i
nuovi cittadini che provengono da tutto il mondo. Lo testimonia il romanzo di Hamid Ziarati,
ingegnere nonché proprietario, insieme alla moglie italiana e ad un’amica ebrea, di un negozio di
kebab vicino a Piazza Vittorio a Torino. Si intitola “Salam, maman” (Ciao, mamma) (Einaudi, 14
euro, pag. 260) perché il romanzo ruota tutto intorno alla figura di una madre di famiglia iraniana,
una signora molto lontana da tutti gli stereotipi occidentali sulle donne musulmane. La storia è
completamente ambientata in Iran, anche se mi sarebbe piaciuto che Hamid raccontasse anche un
po’ l’Italia dei nostri giorni, vista attraverso il suo sguardo. La trama si snoda a partire dagli anni
Sessanta per terminare una quindici di anni dopo con la rivoluzione tradita di Khomeini. Se si stava
male con lo Scià, non si sta meglio ora, soprattutto se si ha voglia di pensare con la propria testa. La
narrazione comincia lenta, un po’ troppo, ma Hamid mi ha detto che lo ha fatto apposta perché
voleva che il lettore si ambientasse in Iran, un paese meno frenetico del nostro. E inizia raccontando
l’infanzia di Alì, un bambino irrequieto, croce e delizia di sua madre, guardato a vista dai gemelli
più grandi, un maschio e una femmina. Colpisce il desiderio di mamam, di far studiare i figli e
soprattutto le figlie, tanto da privarsene e mandarle all’estero, nei lontani Stati Uniti, perché ormai
le donne con l’avvento della rivoluzione hanno ben poche speranze. Colpisce soprattutto perché sia
lei che il marito sono analfabeti, colpisce per la lungimiranza se si pensa alla condizione di tante
donne iraniane oggi, così ben descritta in “Leggere Lolita a Teheran”. Maman, mi ha raccontato
Hamid, è il personaggio più autobiografico di tutto il romanzo. Il ritmo del racconto diventa via via
sempre più incalzante, il piccolo Alì vive sulla sua pelle la repressione dello Scià ai tempi della
rivoluzione, poi la presa del potere da parte dell’oligarchia islamica. Ziarati ha visto con i suoi occhi
le sparatorie che descrive. Amici incarcerati durante il regime dello Scià e ammazzati poi dai
seguaci di Khomeini, come un suo amico libraio comunista. «Ci siamo trovati di fronte ad un bivio
obbligato, potevamo scegliere solo tra monarchia e repubblica islamica – continua Hamid - Hanno
fatto fuori Bani Sadr e il suo “governo di centro-sinistra”, i comunisti sono stati perseguitati. Hanno
fatto votare gli analfabeti, gli facevano portare la scheda fuori dal seggio e gliela compilavano. Poi
hanno anche iniziato a prendersela con gli ayatollah non allineati e a declassarli, contro ogni legge
islamica». L’Iran ancora oggi è al centro dell’attenzione internazionale: «Trovo stupido voler
costruire a tutti i costi una bomba nucleare, gli iraniani sono faziosi e quindi pericolosi con uno
strumento così in mano – spiega Hamid - Poi non credo che un ordigno di quel genere potrebbe
difendere l’Iran dagli americani. Il Pakistan ha la sua bomba atomica e per quell’area già basta. Il
regime ha bisogno di scaricare i suoi problemi interni e usa la bomba come mezzo per distogliere
l’attenzione degli iraniani dai problemi veri. Da un anno ha promesso di distribuire i ricavi del
petrolio e rendere accessibile la ricchezza alle classi più povere, ma non è ancora successo niente».
E le minacce degli Stati Uniti? «Non credo che interverranno massicciamente come in Iraq, faranno
solo un atto dimostrativo». Hamid ha quarant’anni, mi ha raccontato che in Italia si trova molo
bene: ha una moglie e un figlio di tre anni, Dario. Il suo scrittore italiano preferito è Stefano Benni,
ma solo con “Il giocatore” di Dostoevskij gli è venuta la pelle d’oca. È arrivato in Italia a 16 anni,
per operarsi ad una gamba, sua sorella viveva già qui. Ha studiato a Torino, è diventato ingegnere e,
udite udite, ha anche preso il dottorato di ricerca. Ho insistito molto con lui durante una cena - spero
che non se la sia presa -perché scriva un romanzo ambientato in Italia. Abbiamo bisogno di sguardi
diversi per uscire un po’ dal pantano autoreferenziale di certa letteratura di casa nostra. Come gli
altri Paesi europei, anche l’Italia dovrebbe avere al più presto i suoi scrittori di origine straniera che
non solo usano la nostra lingua, ma raccontano il mondo che li circonda. Mi chiedo: troverà difficile
Hamid raccontare questa nostra Italia un po’ allo sbando? Forse ci sono poche storie da raccontare?
Lui mi ha risposto che un romanzo ambientato nel Bel Paese l’ha già scritto, ma non gli piace. E
che non gli va di descrivere situazioni di razzismo o di difficoltà che ha vissuto in Italia. Per uno
che mi ha trattato male, ci sono tante persone che mi hanno accettato con facilità, mi ha detto. Non
mi pare una giustificazione valida. Perché Hamid non vuole ambientare un romanzo in Italia? Forse
è riconoscente con il Paese che l’ha accolto? Oppure si autocensura, come fanno la maggior parte
degli italiani? Paese che vai, usanze che trovi. Magari Hamid ha già messo in evidenza tante
magagne dell’Iran, e per ora prende una boccata d’aria. Una sua conterranea, davanti a me, gli ha
chiesto: «Ma non hai paura a pubblicare un romanzo così? Ora non potrai mica più tornare in Iran,
lo sai?». Comunque sia, Hamid ha scritto un bel romanzo, da leggere.

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