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Luigi Gandini

Introduzione generale al pensiero di

Aristotele

EDIZIONI LULU.COM
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Legge.

Prima edizione in formato elettronico: Novembre 2010 – Lulu.com

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Introduzione

Non c’è bisogno di essere navigati storici della filosofia per sapere,
almeno intuitivamente, che Aristotele è uno dei più grandi punti di rife-
rimento della filosofia d’ogni tempo: il suo contributo è stato da più parti
definito gigantesco1, e le stesse suddivisioni interne della filosofia oggi
comunemente utilizzate sono state stabilite in origine proprio da lui2.

Quadro storico culturale

Il periodo in cui vive Aristotele è caratterizzato dalla fine traumatica


dell’esperienza della pòlis e del suo modello politico e culturale. La Gre-
cia intera sembra definitivamente crollare sotto la pressione della po-
tenza macedone, che, nella metà del IV secolo a. C., aveva dato inizio ad
una massiccia occupazione. È la fine della libertà delle città-stato.
Aristotele per tradizione familiare e per scelta personale (aveva in-
fatti accettato l’incarico di precettore del giovane Alessandro, il futuro
Alessandro Magno) è strettamente legato ai sovrani macedoni, proprio
negli anni in cui stavano schiacciando la libertà delle città greche, la cui
crisi, tuttavia, era innanzitutto interna.
Cercando di dare una connotazione generale al quadro storico e cul-
turale di questo periodo dobbiamo senz'altro notare che il principale
fattore di mutamento, rispetto all’età classica, è costituito non solo dalla
perdita dell’indipendenza, ma soprattutto alla perdita dell’identità del
popolo greco: nel nuovo assetto politico, sotto il dominio della potenza
Macedone, il cittadino greco3 non è (e non si sente più) coinvolto nella
gestione del governo e viene anzi totalmente assorbito in un più vasto
organismo statale del quale altri reggono le fila. Da ciò l'emergere di

1 E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, Milano, 1990, p. 109.


2 A. Armstrong, Introduzione alla filosofia antica, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 91.
3 Parliamo naturalmente del cittadino maschio e libero, l’unico che poteva votare nelle
assemblee e partecipare alle cariche pubbliche.

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nuovi interessi rispetto alla politica, soprattutto conoscitivi ed etici, che
costituiranno una delle principali caratteristiche della nuova era che sta
iniziando: l'età ellenistica.
Aristotele vive quindi pienamente inserito nell’età dell’ultima crisi
della civiltà classica ed è in qualche modo un precursore della nuova era.
Tuttavia la sua figura è indissolubilmente legata alla città di Atene, in cui
abita e insegna in due distinti periodi della sua vita: ed è per questo che
viene ancora considerato come l’ultimo protagonista del pensiero dell’età
classica.

 Lettura antologica: Dalla pòlis all’impero (in “Antologia critica”).

Vita e opere

Aristotele nasce intorno al 384 a.C. a Stagira, (l'attuale Stavro, una


città situata nel nord della Grecia, al confine con la Macedonia). All’età di
17 anni, si reca ad Atene per frequentare l’Accademia di Platone, e qui
svolge per circa un ventennio diverse attività di ricerca e insegnamento,
sino alla morte del maestro (347-348 a.C.). In seguito si reca ad Asso,
dove, con altri ex discepoli di Platone (che già si trovavano là sotto la
protezione del tiranno di Atarneo, Ermia) ricostruisce una piccola co-
munità filosofica, dove probabilmente tiene per la prima volta un inse-
gnamento del tutto autonomo. È sempre di questo periodo il matrimo-
nio con la figlia di Ermia, Pitia (dalla quale ha due figli, Pizia e Nicoma-
co). Più tardi passa a Mitilene, sull'isola di Lesbo. In seguito entra in
rapporto con Teofrasto e intraprende ricerche di carattere naturalistico;
quindi si trasferisce a Pella, dove cura l’educazione di Alessandro, figlio
di Filippo il Macedone. Quando poi Alessandro, succeduto al padre (as-
sassinato nel 336), riguadagna il controllo delle città greche (che si era-
no ribellate approfittando della morte di Filippo), Aristotele può final-
mente fare ritorno ad Atene, dove fonda il Liceo e rimane per dodici anni
dedicandosi all’insegnamento, rielaborando le sue dottrine e mettendo a
punto alcune delle sue opere più importanti. L'amicizia del potente re

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mette a sua disposizione mezzi di studio eccezionali, che facilitano le ri-
cerche in tutti i campi del sapere.
Quando però Atene, alla morte di Alessandro, insorge nuovamente
contro i macedoni (siamo nel 323 a.C.), Aristotele è costretto ad abban-
donare nuovamente la città e decide di trasferirsi con la famiglia a Calci-
de, in Eubea, ove incontra la morte nel 322 a.C., a 63 anni.

Gli scritti

Perdute quasi interamente le opere a carattere divulgativo, ci resta-


no di Aristotele gli scritti di scuola, cioè quei componimenti che doveva-
no costituire delle «dispense» ad uso interno e didattico, quindi più o
meno rifinite, ed ordinate solo molti anni dopo nella famosa edizione di
Andronico di Rodi (alla guida del Liceo dal 78 al 47 a.C.). Quelle che re-
stano tra le opere aristoteliche possono comunque essere divise in due
grandi gruppi: gli scritti "essoterici", così denominati perché erano de-
stinati ad un pubblico esterno alla scuola e quelli "esoterici", in quanto
erano invece diretti agli allievi del maestro:

SCRITTI ESSOTERICI: Grillo, Sofista, Eudemo, Sulla nobiltà, Il politico, Sui


poeti, Sulla giustizia, Sul bene, Sulle idee.

SCRITTI ESOTERICI: Organon, Retorica, Poetica, Metafisica, Fisica, Sul


cielo, Sulla generazione, Sulla corruzione, Meteorologici, Ricerche sugli
animali, Parti degli animali, Generazione degli animali, Locomozione degli
animali, Moto degli animali, Sull’anima, Etica Nicomachea, Etica Eudemia,
Grande etica, Politica.

L’edizione di Andronico di Rodi

Dopo la morte degli immediati discepoli di Aristotele si era persa


traccia della maggior parte dei testi di scuola (fedelmente redatti dagli
stessi allievi). I manoscritti delle principali opere del filosofo vengono

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ritrovati in seguito da Apellicone, un bibliofilo e collezionista di antichi
testi, in Asia Minore, tra il II e il I secolo a C.
Più avanti, e siamo così nell’86 a.C., Silla, dopo aver conquistato Ate-
ne, porta la biblioteca di Apellicone a Roma come bottino di guerra. A
Roma le opere di Aristotele vengono quindi pubblicate da un dotto gre-
co, Andronico di Rodi (siamo tra il 40 e 20 a C.): egli pensa per primo di
dividere i testi a seconda dell’argomento, classificandoli in raggruppa-
menti più ampi in base alle aree disciplinari di appartenenza.

Abbiamo così:

SCRITTI DI LOGICA: definiti “Organon”, i greco “strumento”, cioè ri-


guardanti i procedimenti logico-linguistici mediante i quali le diverse
discipline conoscono i propri campi di oggetti. L’Organon comprende: Le
categorie, Dell’interpretazione, Analitici primi e secondi, Elenchi sofistici.

SCRITTI DI FISICA: comprendono indagini sulla natura e sul cosmo, le


ricerche biologiche sui vegetali e sugli animali (uomo compreso), le ri-
cerche sull’anima umana e sulle facoltà conoscitive. Ricordiamo in que-
sto gruppo di scritti: Fisica, Sul Cielo, Sulla generazione e la corruzione,
Sulla generazione degli animali, Sulle parti degli animali, Sull’Anima.

SCRITTI DI METAFISICA: questo titolo significava in origine “scritti dopo


(metà) quelli di fisica (tà physikà)”. Andronico classifica infatti in questo
modo le opere che Aristotele denomina “filosofia prima” e “scienza
dell’ente in quanto ente” (anche se non mancano opere relative ad altri
argomenti fisici). Com'è noto, il titolo “metafisica” ha poi avuto grande
fortuna e, da allora, per la tradizione filosofica successiva, indica la
scienza che studia la struttura del reale che sta al di là del mondo fisico.
Nei dodici libri della Metafisica sono trattate in particolare l’ontologia (lo
studio dell’essere) e la teologia.

SCRITTI DI ETICA E DI POLITICA: è un gruppo di scritti che trattano


dell’agire umano, sia a livello singolo che intersoggettivo. Abbiamo qui la
famosa Etica Nicomachea, la Politica, ed altri scritti minori.

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SCRITTI SULL’ARTE: studi che riguardano le tecniche di produzione, in
particolare di Poetica (testi poetici) e Retorica (discorsi retorici).

IL SISTEMA. Si deve però notare che così ordinata, l’opera di Aristote-


le si presenta come un "sistema". Quest’immagine, in realtà, è propria
delle filosofie ellenistiche e dello stoicismo in particolare, la cui triparti-
zione del sapere in logica, fisica ed etica costituisce il modello
dell’ordinamento deciso da Andronico al Corpus aristotelicum, usato poi
dagli interpreti di Aristotele fino a tempi recenti. È stato motivo di di-
scussione l'indagine sulle effettive intenzioni di Aristotele in merito, vi-
sto che non possediamo una sua diretta organizzazione degli scritti, tan-
to è vero che più recentemente gli studiosi di Aristotele si sono orientati
verso una diversa direzione, assemblando le unità testuali originarie con
una nuova prospettiva e ampliando così in modo significativo la cono-
scenza dell’opera aristotelica. Abbiamo così due tendenze interpretati-
ve:

a) Uno dei massimi studiosi di Aristotele, Ingemar Dühring, afferma


per esempio che gli accenti antiplatonici sono più marcati nelle opere di
gioventù, quando Aristotele è spinto dal confronto con il maestro e si
attenuano invece in quelle mature quando Aristotele è in grado di valu-
tare positivamente il contributo che può derivargli dalla riflessione pla-
tonica.

b) Secondo Werner Jaeger, invece, al periodo giovanile andrebbero


ricondotte le opere in cui è più marcata l’influenza del maestro Platone,
mentre al periodo della maturità andrebbero riportate quelle in cui e-
merge una rivalutazione dell’esperienza sensibile (diventata poi caratte-
rizzante della filosofia aristotelica).

In ogni caso gli studiosi dello Stagirita sembrano concordi nel non
escludere che la forma in cui le opere di Aristotele ci sono state traman-
date da Andronico corrisponda molto probabilmente al disegno dello
stesso filosofo e tutti riconosco infine all’opera aristotelica una propria
unità e coesione interna, non essendoci di fatto differenze essenziali tra
le posizioni speculative giovanili e quelle della maturità.

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Il confronto con il maestro Platone e la questione della critica
alla teoria delle Idee.

IL CONFRONTO CON PLATONE. Prima di proseguire nella presentazione


del pensiero aristotelico, dobbiamo ancora soffermarci sulla questione
del confronto con Platone.
È infatti da una tradizione piuttosto consolidata che riceviamo
l’immagine artificiosa di una radicale contrapposizione tra la filosofia di
Platone e quella di Aristotele. Secondo questa linea interpretativa, Pla-
tone avrebbe impresso alla sua filosofia una forte caratterizzazione poli-
tica, alla irrequieta ricerca utopica di uno Stato giusto (nel quale non si
potesse più verificare un’ingiustizia terribile come quella che aveva por-
tato alla condanna di Socrate), mentre Aristotele sembrerebbe predili-
gere un approccio orientato all’osservazione realistica del mondo natu-
rale, più che di quello ideale, approdando ad argomentazioni di tipo
scientifico più che di ordine metafisico.
Come vedremo tale contrapposizione è stata amplificata in modo
esagerato ed è in larga parte fittizia, derivando da un’immagine distorta
dei due pensatori e da una conoscenza non adeguata del differente pe-
riodo storico in cui essi operano e dei conseguenti diversi motivi di ri-
cerca. Aristotele è appunto il protagonista di un periodo di notevoli
cambiamenti nel panorama della cultura greca e, come si è visto, l’epoca
in cui vive Aristotele è segnata dalla scomparsa della pòlis intesa come
realtà autonoma dal punto di vista culturale e politico (città-stato) e dal-
la fine dell’indipendenza della stessa Grecia, conquistata da Alessandro
Magno. Se però da una parte la Grecia non è più indipendente, nello
stesso tempo ora sta ampliando enormemente i propri confini culturali:
i commerci si estendono, la classe dei piccoli proprietari terrieri si ap-
presta a cedere la preminenza a quella dei mercanti; gran parte del
mondo conosciuto diviene un’unica entità politica ed economica, sotto la
guida di Alessandro e successivamente dei suoi generali, i diadochi, con i
quali avrà inizio l’epoca della civiltà ellenistica. Rispetto all'età classica,
come abbiamo accennato, la partecipazione dei cittadini alla vita politica
viene notevolmente ridotta, se non di fatto annullata, dalle mutate con-
dizioni politiche. Di conseguenza cambia radicalmente il ruolo del filosofo

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(e con esso il compito della filosofia): costretto a rinunciare definitiva-
mente al suo ruolo politico, il suo sapere viene esaurendo la propria cen-
tralità, mentre si assiste parallelamente all’affermazione di altri saperi
che rivendicano sempre più la loro autonomia. Nel periodo ellenistico
immediatamente successivo, infatti, nuove scienze acquisiranno grande
importanza. Durante il IV secolo a. C., infatti, le scienze principali (astro-
nomia, matematica, biologia) iniziano ad individuare con maggior preci-
sione il loro specifico oggetto di studio e acquisiscono principi e metodi
definiti, guadagnando un proprio profilo specialistico.
Lo Stagirita non solo è il grande interprete di questa nuova impo-
stazione di ricerca ma favorisce attivamente lo sviluppo delle scienze, e
darà spazio, all'interno del Liceo, alle ricerche specialistiche di stampo
scientifico in ogni campo del sapere.
Siamo così ormai molto distanti dalla realtà politica, sociale e cultu-
rale che muoveva gli interessi di Platone ed anche, ovviamente, dalle
possibili risposte che la filosofia sapeva dare in quel periodo.
Concludendo, se è dunque senz’altro corretto osservare che tra i
due maestri della filosofia greca ci sono delle notevoli differenze, si deve
però anche sottolineare che Aristotele e Platone vivono in epoche del
tutto differenti e che tali diversità hanno delle ragioni che vanno al di là
della semplice impostazione filosofica di fondo. Proviamo a riassumerle
in modo sintetico:

a) Mentre Platone sostiene che la realtà vera, oggetto della cono-


scenza, è qualcosa che trascende la nostra esperienza (le idee-forme),
per Aristotele tutte le cose del mondo hanno un’esistenza reale ed auto-
noma e non sono più copie imperfette di enti ideali trascendenti.
b) Per Platone la filosofia mantiene sempre una precisa finalità poli-
tica, per Aristotele lo scopo della filosofia è la conoscenza disinteressata
della realtà.
c) Quello che viene a cambiare è dunque l’immagine del filosofo, che
con Aristotele assomiglia ad uno scienziato e ad un professore che lavo-
ra in modo distaccato ed indipendente rispetto al mondo politico (e in
ciò già si riflette la crisi della vita politica dovuta alla decadenza della
città-stato e alla fine dell’indipendenza del territorio greco). Ogni realtà,
ogni regione dell’essere, è degna di essere studiata, è oggetto di una

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scienza particolare, a cominciare dagli enti sensibili (che, come abbiamo
detto, per lo Stagirita non sono copie inferiori di una realtà superiore,
ma realtà oggettive e sostanziali a tutti gli effetti). Infatti, nel Liceo ari-
stotelico, diversamente che nell’Accademia platonica, sono particolar-
mente coltivate proprio le ricerche empiriche (che comprendono prime
forme di raccolta e classificazione di dati) e non tanto le matematiche.
Per Aristotele è possibile, anzi necessario, uno studio scientifico della
natura: il mondo naturale ha una sua dignità. Se gli enti sono realtà au-
tonome, ne consegue che essi possono divenire oggetti di vera conoscen-
za: la possibilità di uno studio scientifico (epistème) della natura
(physis), negata da Platone, rappresenta invece uno dei capisaldi del
pensiero aristotelico. La constatazione che gli enti naturali nascono, si
corrompono, mutano e si muovono, in Aristotele si traduce con la ricer-
ca scientifica su base empirica (e non solo metafisica) di cause e principi.
Aristotele è conseguentemente attento a salvaguardare la specificità e
l’autonomia di ogni singola scienza, con un orientamento enciclopedico,
mentre in Platone tutte le scienze sono subordinate alla dialettica.

LA CRITICA ALLA TEORIA DELLE IDEE DI PLATONE. Ci sono poi delle criti-
che particolari che Aristotele rivolge a Platone. Prendiamone in esame i
tratti salienti.

Anche Aristotele, come Platone, intende fornire una spiegazione


complessiva della realtà ma ritiene per questo scopo troppo astratto e
separato dalla natura sensibile il mondo trascendente delle Idee. Con
questo egli non nega che la scienza sia costituita di concetti universali,
posti al di là delle rappresentazioni sensibili e particolari, ed anzi dichia-
ra esplicitamente che si deve ricercare l'essenza delle cose; ma allo stesso
tempo non può condividere l'impostazione di fondo del maestro, secon-
do la quale gli enti sensibili, separati dalle idee, in qualche modo ne van-
no poi a costituirne l’essenza. Come vedremo Aristotele propone una so-
luzione molto diversa: semplificando si può dire che alla trascendenza
platonica lo Stagirita sostituisce l'immanenza. Leggiamo infatti nella Me-
tafisica: “Le Idee non possono giovare alle cose esistenti perché non so-
no immanenti alle cose che partecipano di esse. Non si comprende come
possa ammettersi che l'essenza esista separata da ciò di cui è essenza.

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Come potrebbero le idee-forme essere essenze di oggetti dai quali poi
risultassero separate?” . Quindi, relativamente alla dottrina platonica
delle idee-forme, Aristotele osserva che:
1) le idee-forme non possono stare al di là degli individui sen-
sibili, in un "altro mondo" (iperuranio), se devono costituirne l'essenza;
2) le idee-forme, che nella formulazione platonica vengono
pensate come immutabili ed eterne, non possono spiegare il generarsi
degli individui né il divenire del mondo sensibile (tra "essere" e "diveni-
re" riemerge così quella profonda contrapposizione che Parmenide ave-
va indicato per primo e che Platone aveva solo parzialmente risolto nel
Sofista);
3) ne consegue che, secondo Aristotele, la soluzione platonica
al problema del rapporto tra essere e divenire è insufficiente e deve esse-
re superata: "mimesi" e "metessi" sono quindi da intendersi come sem-
plici metafore, in quanto le idee-forme di fatto non producono gli indivi-
dui sensibili (che all’osservazione risultano invece sempre generati da
altri individui sensibili): la fissità delle idee-forme impedisce di spiegare
il divenire degli enti sensibili;
4) né sono sufficienti gli artifici che Platone ha introdotto nel
suo quadro teoretico per superare le aporie del sistema, come per e-
sempio le forme matematiche e l'Anima del mondo (si pensi al Timeo),
poste come elementi mediatori tra le idee-forme e gli enti sensibili;
5) dunque il mondo delle idee-forme risulta essere una inutile
copia del mondo sensibile con l'aggiunta dell'espressione «in sé»;

LA “TEORIA DEL TERZO UOMO”. Concludendo le idee-forme proposte da


Platone non possono essere principio d'intelligibilità degli enti sensibili.
Infatti, se così fosse, tra l'idea-forma, ad es., di “uomo” e l’ente “uomo
sensibile”, dovrebbe esistere un terzo termine (una sorta di terzo uomo),
diverso dall'idea di uomo e dall'uomo particolare, che ponga in rapporto
i primi due; e così fra questo terzo termine ed i due precedenti occorre-
rebbero altri termini intermedi, all'infinito (è questa la cosiddetta teoria
detta appunto "del terzo uomo"). Aristotele perciò, in opposizione alla
dottrina platonica, afferma che le idee-forme – che costituiscono il mon-
do dell'universale - non possono essere separate dalle cose - il mondo
del particolare - ma che essenze e cose devono essere riunite insieme per

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costituire la realtà. Nella Metafisica Aristotele scrive infatti: «Dobbiamo
forse ammettere che ci sia una sfera fuori di questa che vediamo, o una
casa fuori di questa fatta di mattoni? Ma in questo caso essa non sarebbe
mai divenuta un essere determinato, questa sfera o questa casa. L'idea
significa che la cosa è di una certa qualità, non è questo né una cosa de-
terminata, ma fa sì che questo sia un quale. E' chiaro, dunque, che la cau-
salità delle idee, se esse esistessero fuori degli esseri singoli, non servi-
rebbe affatto a spiegare il divenire e le sostanze. Le idee non sono causa
di nessun movimento, di nessuna mutazione: un uomo, infatti, genera un
uomo». E non un’idea. L’argomento dello Stagirita è chiarissimo.

DIFFERENZE DAL PUNTO DI VISTA DELL’ETICA. Inoltre, non da ultimo, in


ambito etico Aristotele supera e abbandona il riferimento ad una supe-
riore Idea del Bene per dedicarsi all'analisi dei beni particolari e concreti
per l'uomo, mentre in ambito politico non si mostra d'accordo con la
proposta utopica di Platone e si dedica piuttosto all'analisi delle varie
forme di politica e così pure ci sono delle notevoli differenze per quanto
riguarda la concezione dell'arte (anticipiamo mentre Platone ne con-
danna il carattere imitativo Aristotele ne rivaluta la funzione catartica).

DIFFERENZE SULLA CONCEZIONE GENERALE DI “FILOSOFIA” E SUL RUOLO DEL


FILOSOFO. Infine, rispetto a quanto accennato dovremo aggiungere che
mentre per Platone la filosofia mantiene sempre una finalità politica (la
stessa teoria delle idee-forme ha prima di tutto una valenza etico-
politica), per Aristotele lo scopo della filosofia è invece costituito da una
ricerca disinteressata del sapere, finalizzato alla conoscenza della realtà,
senza necessariamente comportare delle conseguenze dirette sul piano
etico e politico. Da qui, come avevamo detto, una differente immagine
della figura e del ruolo del filosofo: mentre per Platone il filosofo ha un
compito peculiare che realizza progressivamente, mediante un consi-
stente esercizio ed una acquisita levatura morale - in modo da poter
meglio di altri guidare la città - il filosofo aristotelico assomiglia invece
ad uno scienziato e ad un ricercatore (e in ciò - come è stato notato - già
si riflette la crisi della vita politica dovuta alla decadenza della città-
stato). Confermiamo il concetto: per Aristotele ogni singola realtà - in
quanto tale - ogni regione dell’essere, è degna di essere studiata, è ogget-

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to di una scienza particolare, a cominciare dagli enti sensibili, che non
sono copie inferiori di una realtà migliore, ma essere a tutti gli effetti. An-
zi, nel Liceo, diversamente che nell’Accademia, sono particolarmente col-
tivate le ricerche empiriche (si pensi alla straordinaria raccolta e la clas-
sificazione di dati) e non tanto le matematiche astratte.

CONCLUSIONI. Per questi motivi Aristotele porta la sua critica nei con-
fronti di Platone sul piano delle difficoltà logiche e gnoseologiche della
dottrina delle idee-forme: in sostanza le idee non offrono alcun vantag-
gio nella comprensione della realtà. Platone infatti ricercava nelle idee-
forme le cause delle cose e delle loro trasformazioni; ma, come s’è visto,
se sono separate dagli enti sensibili, le idee non servono a spiegare il di-
venire. Oggetti sensibili della scienza sono anche per Aristotele nozioni
o predicati universali, ma che non esistono separatamente dagli enti sen-
sibili. Il distacco dal linguaggio metaforico (largamente utilizzato da Pla-
tone) e lo sforzo di mettere a punto un linguaggio tecnico per la filosofia
appaiono da ultimo come elementi distintivi dell’intero corpus aristote-
lico.

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La filosofia come “scienza prima” e la classificazione delle
scienze.

VISIONE ''VERTICALE'' E VISIONE ''ORIZZONTALE'' DELLA FILOSOFIA.


L'ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE.

Come si è visto, se è vero che Aristotele mostra, rispetto a Platone,


una diversa concezione del sapere e della realtà, bisogna però sottoline-
are che questa differenza deriva in larga parte anche dal mutamento cul-
turale che caratterizza il passaggio dall’età classica a quella ellenistica.
Platone crede nella finalità politica della conoscenza e vede il filosofo,
nella sua massima incarnazione, come un reggitore e un legislatore della
città. Aristotele fissa lo scopo della filosofia nella conoscenza disinteres-
sata del reale e vede il filosofo, nella sua più compiuta espressione, come
un ricercatore dedito alla sperimentazione e all'insegnamento. Se in Pla-
tone prevale quindi il momento politico-educativo, in Aristotele predo-
mina quello conoscitivo e scientifico. Tutto ciò si accompagna ad una di-
stinta concezione della struttura del sapere e della realtà da conoscere:
giusto per dare un’immagine esplicativa potremmo dire che Platone
guarda il mondo secondo un'ottica verticale e gerarchica, che distingue
tra realtà vere e realtà apparenti da un lato e fra conoscenze superiori, e
conoscenze inferiori, dall'altro. Nella maturità del suo pensiero,
Aristotele giunge invece a guardare il mondo secondo un'ottica
tendenzialmente orizzontale ed unitaria, che considera tutte le realtà su
di un piano di pari dignità ontologica e tutte le scienze su di un piano di
pari dignità gnoseologica.
Lo Stagirita pensa che la realtà, pur essendo unitaria, si divida in va-
rie ragioni che costituiscono ciascuna l'oggetto di studio di un gruppo di
scienze basate su principi propri e formanti, nel loro insieme, una enci-
clopedia del sapere, in cui si rispecchiano i multiformi aspetti dell'essere.
Da qui l’idea che la filosofia, intesa come metafisica, si differenzi dalle
altre scienze solo perché essa, anziché prendere in considerazione i vari
aspetti dell’essere, si interroga sull'essere in generale, studiando non
questa o quella particolare dimensione della realtà, ma l'essere in quanto

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tale. Ora, così come tutte le singole dimensioni dell'essere presuppon-
gono l'essere in generale, analogamente tutte le scienze, studiando o-
gnuna una parte del reale, presuppongono la filosofia, che studia appun-
to la realtà in generale. In tal modo, la filosofia diviene la "scienza pri-
ma", ossia la disciplina che studia l'oggetto comune a tutte (l'essere) e i
principi comuni a tutti (i principi dell'essere). Così concepita, la filosofia
appare inoltre come la scienza unificatrice ed organizzatrice delle altre
singole scienze, in quanto studia il loro comune fondamento prospettan-
do un quadro completo ed esauriente di tutte le discipline, nei loro rap-
porti di coordinazione e subordinazione. Tant'è vero che, come ha sug-
gerito lo storico della filosofia C. A. Viano, “uno degli esiti più importanti
della filosofia aristotelica è la costruzione di un'enciclopedia del sapere,
destinata a dirigere e organizzare la cultura occidentale per molti seco-
li”.
E così la filosofia aristotelica risulta sì, in qualche modo, “regina del-
le scienze”, ma in un senso differente da quello platonico e in modo tale
da non pregiudicare mai l'autonomia delle singole branche del sapere.
Mentre per Platone la filosofia costituiva l’apice della conoscenza e
comprendeva sotto di sé, gerarchicamente subordinate, tutte le altre ar-
ticolazioni del sapere e la vera realtà, per lui, era costituita dalle idee
(che non rappresentavano solo l’essenza delle cose reali, ma soprattutto
le virtù e i valori), per Aristotele le idee non sono forme ideali, ma sono
piuttosto vanno a costituire la forma immanente delle singole cose.

SUDDIVISIONE TRA SCIENZE TEORETICHE E SCIENZE PRATICHE. Aristotele


stabilisce, quindi, una divisione di fondamentale importanza nelle scien-
ze, che è ancora oggi quella sostanzialmente adottata: da un lato ci sono
quelle teoretiche, che hanno per oggetto il necessario, ovvero ciò che esi-
ste indipendentemente dall’uomo; dall’altro le scienze pratiche, relative
al comportamento, che ne stabiliscono i principi (infatti è l’uomo a fissa-
re questi principi sulla base di ragionamenti e di scelte consapevoli).
Poiché l’essenza delle cose non è più trascendente, ma è per Aristotele
nel mondo visibile, allora occorrerà prima di tutto conoscere gli enti
sensibili, per arrivare poi ad individuarne i principi.
Alle scienze pratiche lo Stagirita affianca anche quelle poietiche, o-
rientate alla produzione di cose ed oggetti sensibili; entrambe hanno per

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oggetto il possibile, ossia ciò che può essere in un modo o in un altro, a
seconda dell’azione umana. Le scienze poietiche comprendono ogni for-
ma di arte, come la retorica, la commedia, la poesia, la poetica. In sintesi,
come vedremo meglio più avanti, Aristotele opera una vera e propria
classificazione delle scienze che inquadra in una sistemazione unitaria,
con al centro la filosofia prima o metafisica, che ne stabilisce i principi
comuni, colti dall’intelletto e non ulteriormente dimostrabili.

IL COMPITO DEL FILOSOFO E DELLA FILOSOFIA. Lo studio degli enti natura-


li, però, non può essere opera di una sola persona; il filosofo non può es-
sere un “tuttologo”: da Aristotele in poi, progressivamente, la filosofia
rinuncia alla pretesa di una conoscenza universale, pur rimanendo il
cardine, il fondamento da cui tutte la altre scienze traggono i principi
fondamentali per i loro studi (ognuna, poi, procederà con ricerche e me-
todi specifici). Alla filosofia spetta anche la definizione dei procedimenti
per un ragionamento corretto, che ogni scienziato deve applicare al pro-
prio specifico oggetto di ricerca. E così con Aristotele nasce anche la lo-
gica, così come più o meno la intendiamo ancora oggi: ovvero come la
scienza che studia i metodi che garantiscono di sviluppare correttamente
un ragionamento, a prescindere dai contenuti, che sono propri di ogni
scienza.

L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE. In Aristotele prende corpo l'idea di una


grande enciclopedia del sapere costituita da una disposizione parallela
delle diverse scienze: ciascuna di esse, infatti, riguarda l'essere, anche se
ognuna propone un approccio di studio originale che le è proprio e che
la differenzia dalle altre. L'idea di Aristotele era probabilmente quella di
ricollegare le diverse conoscenze tra loro per individuare un quadro col-
lettivo e pervenire così ad un sapere più comprensivo e completo: la fi-
losofia, coadiuvata dalle scienze, può arrivare spiegare complessivamen-
te l’insieme della natura del mondo umano e del divino. La filosofia, da
questo punto di vista, appare quindi come la disciplina adatta per la na-
tura della sua struttura teoretica a fungere come da direttore d'orche-
stra, da raccordo delle varie scienze e quindi in grado di individuare la
configurazione e l'ordine del mondo.

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Il primato della Metafisica.

In particolare, è a partire dal primo capitolo del libro VI della Meta-


fisica che Aristotele mostra la sua classificazione delle scienze, distin-
guendole in “teoretiche” da una parte, “pratiche” e “poietiche” dall’altra, e
stabilisce la superiorità delle prime e, fra esse, in particolare, della meta-
fisica. La superiorità della scienza metafisica rispetto a tutte le altre è
affermata da Aristotele in virtù del fatto che, mentre la metafisica studia
l'essere in quanto essere (cioè considerato in assoluto, nel senso più gene-
rale possibile), le altre scienze si limitano invece all’esame di determina-
ti settori (o meglio “generi”) dell'essere.
Emerge così lo sforzo di pervenire ad uno sguardo complessivo sulla
realtà, che solo la Filosofia può consentire: se il più alto ideale umano
consiste nella vita contemplativa, che abbraccia e guarda con attenzione
e meraviglia lo spettacolo del mondo e del cosmo nel suo complesso, ri-
sulta allora perfettamente comprensibile come mai per Aristotele la
forma suprema di conoscenza è proprio quella teoretica (ricordiamo che
“theorein” significa appunto “contemplare”).
La metafisica costituisce dunque il punto di vista più universale da
cui guardare la realtà.
La riflessione aristotelica è qui perfettamente conseguente a quella
socratica e platonica: vera scienza si dà solo dell'universale.

 Lettura antologica: La suddivisione delle scienze e il sapere teoreti-


co.

RIEPILOGO. Schematizzando, la classificazione aristotelica delle


scienze prevede una suddivisione in tre gruppi:

a) Scienze teoretiche, che ricercano il sapere per se stesso e mirano


alla conoscenza degli oggetti che non dipendono dall’uomo e non posso-
no essere diversi da come sono. Esse sono: ‘filosofia prima” o metafisica,

17
filosofia naturale o fisica (che comprende anche ciò che oggi chiamiamo
biologia e psicologia) e matematica.

b) Scienze poietiche, che ricercano il sapere in vista del fare e mirano


alla modifica e alla produzione di oggetti utili o belli, la cui esistenza o
non esistenza dipende quindi dall’uomo. Sono le arti utili (le tecniche) e
le arti belle (scultura, pittura, poesia, ecc.).

c) Scienze pratiche, che ricercano il sapere come guida per l’azione e


mirano alla determinazione dei rapporti tra i soggetti. Esse sono etica e
politica (più precisamente l’etica è per Aristotele una parte della politi-
ca).

LA LOGICA. Da notare che non rientra in questa classificazione la Lo-


gica che, come vedremo in seguito, non studia propriamente oggetti, ma
piuttosto prende in esame la struttura del ragionamento, ed è quindi uno
strumento indispensabile per ogni scienza.

18
LA METAFISICA

VALORE DELLA METAFISICA ARISTOTELICA. La sezione della filosofia ari-


stotelica che riguarda la metafisica è senz’altro una delle più rilevanti, se
non la più importante in assoluto e il dibattito filosofico sulla metafisica
aristotelica è ricchissimo e particolarmente complesso. Per comprender-
la in modo chiaro e corretto sono infatti necessarie alcune precisazioni
iniziali.
Cominciamo con l'osservare che Aristotele non scrisse mai un libro
intitolato “Metafisica” e che con questo termine intendiamo indicare una
serie di trattati raccolti e ordinati solo successivamente sotto questo ti-
tolo da Andronico da Rodi4.
Quella che noi oggi chiamiamo “Metafisica” (in greco: metà ta physi-
kà = dopo gli argomenti di fisica) è un'opera facente parte degli scritti
esoterici, divisa in quattordici trattati, i cui argomenti aprono un nuovo
campo di ricerca che ha nell'Essere - nell'essere in quanto essere - il suo
centro.

COMPOSIZIONE DELLA “METAFISICA” ARISTOTELICA. L'opera è divisa in 14


libri, ordinati da Andronico secondo le lettere dell'alfabeto greco:

1. Libro Primo (Alpha) - contiene la celebre definizione della filo-


sofia come "scienza prima", o anche scienza delle cause prime (è infatti
probabilmente la continuazione del II libro della Fisica).
2. Libro Secondo (Alpha élatton) - appendice al libro Alfa.

4 «Rimanendo dunque stabilito che Aristotele non pensò mai a una Metafisica come la
leggiamo oggi noi e che in questa si trovano riuniti libri scritti in tempi diversi e da punti
di vista talora diversi, si può anche alla fine riconoscere serenamente che coloro che mi-
sero insieme quest'opera, Andronico o qualcun altro prima di lui, non lavorarono affatto
male». (Pierluigi Donini, La Metafisica di Aristotele. Introduzione alla lettura (La Nuova
Italia Scientifica: Roma, 1995, pag. 21)

19
3. Libro Terzo (Beta) - è una raccolta di aporie (difficoltà filosofi-
che) in cui Aristotele ha condensato le questioni fondamentali della filo-
sofia.
4. Libro Quarto (Gamma) - tratta dell'Ente in quanto ente (essere)
nei suoi molteplici significati. Contiene anche la trattazione del famoso
"principio di non-contraddizione".
5. Libro Quinto (Delta) - tratta del "lessico" filosofico di Aristotele,
da lui continuamente aggiornato per tutta la vita.
6. Libro Sesto (Epsilon) - contiene una serie di schede (probabil-
mente appunti) di definizione delle diverse scienze.
7. Libro Settimo (Zeta) - è il primo dei cosiddetti "libri sulla so-
stanza": qui troviamo un'indagine sulla sostanza.
8. Libro Ottavo (Eta) - secondo libro sulla sostanza, tratta dei prin-
cipi delle sostanze sensibili.
9. Libro Nono (Theta) - terzo libro sulla sostanza, tratta l'essere
come potenza e atto.
10. Libro Decimo (Iota) - sono probabilmente gli appunti per un
corso sui concetti di "ente" e "uno", identità, non-identità, somiglianza,
opposizione.
11. Libro Undicesimo (Kappa) - una rimanipolazione (non attribui-
bile ad Aristotele) su argomenti dei libri Beta, Gamma, Epsilon e Fisica
III.
12. Libro Dodicesimo (Lambda) - tratta delle sostanze immobili e-
terne, e di dio inteso come Motore immobile.
13. Libro Tredicesimo (My) - indaga le Idee e i numeri matematici
ideali, e contiene la famosa critica alla dottrina platonica.
14. Libro Quattordicesimo (Ny) - contiene la critica alle dottrine
platonica e pitagorica su principi, Idee e numeri ideali.

LA “FILOSOFIA PRIMA”. Come abbiamo visto prima, nella "Enciclopedia


delle scienze" di Aristotele un posto del tutto particolare spetta alla “filo-
sofia prima”, ovvero alla metafisica, che lo Stagirita distingue dalla “filo-
sofia seconda” o, più semplicemente, "fisica", per indicare la scienza che
si occupa delle realtà che sono “superiori” e vengono “prima” rispetto
alle realtà fisiche (nel senso che, dal punto di vista ontologico, ne sono a

20
fondamento). Aristotele di fatto usa spesso il termine "teologia" come
sinonimo di "filosofia prima" (in particolare nel libro XII della Metafisica
lo Stagirita afferma chiaramente che la "filosofia prima" è anche "teolo-
gia", in quanto, trattando del principio primo che fonda tutto il reale,
non può che parlare di Dio, inteso qui come l'essenza pura ed eterna che
muove l'universo intero senza essere a sua volta in movimento, ovvero in-
teso come il sommo Bene verso cui tutte le cose tendono).

LE QUATTRO DETERMINAZIONI DELLA METAFISICA

Ma che cosa precisamente studia la scienza metafisica? Aristotele


fornisce quattro determinazioni del suo oggetto di studio5. La Metafisica
studia infatti:

1. le cause e i principi primi o supremi (aitiologia)


2. l’essere in quanto essere (ontologia)
3. la sostanza (ousiologìa)
4. Dio e la sostanza soprasensibile (teologia)

Queste determinazioni, che riassumono tutta la precedente ricerca


filosofica sull'archè dai Naturalisti a Platone, sono strettamente connes-
se tra loro e d'altra parte questa suddivisione rispecchia in modo fedele
il modo con cui Aristotele intende la filosofia. Possiamo rafforzare anco-
ra una volta il concetto: mentre per Platone la filosofia più alta si risolve
essenzialmente nella dialettica, cioè nell'ascesa dell'uomo verso il mon-
do delle Idee (e pertanto ogni altra scienza sembra ridotta a momento
preparatorio e imperfetto al raggiungimento ed al possesso della vera
realtà), secondo Aristotele, invece, la filosofia è una scienza simile alle
altre, anche se delle altre più elevata. Infatti, mentre la conoscenza sen-
sibile osserva i singoli fatti, cogliendo in essi le particolari caratteristi-
che, e la conoscenza scientifica ricerca i motivi per cui i singoli fatti o le
singole cose abbiano quei determinati caratteri, la filosofia rivolge la sua

5 Cfr. G. Reale, Aristotele, Laterza, Bari, 1974, p. 44

21
indagine all'essere in quanto essere ed ha perciò come oggetto non una
realtà particolare, come hanno le scienze, ma la realtà in generale, cioè
l'essenza universale dell'essere, comune ad ogni ente, animato o inanima-
to che sia. Di conseguenza, come vedremo meglio più avanti, mentre le
scienze particolari ricercano le cause degli enti oggetto del loro studio,
la filosofia è "scienza delle cause prime" perché ricerca le cause che non
dipendono da altre cause, in quanto sono fondamento esse stesse di tut-
ta la realtà. Così la fisica e la matematica si rivolgono ad un aspetto par-
ticolare della realtà (la prima ha infatti come oggetto i fatti naturali, sot-
toposti al divenire, la seconda studia la quantità, non soggetta al movi-
mento in quanto entità razionale), mentre la filosofia si rivolge invece
all'essere nella sua universalità, all'essere "in quanto è". Per questo pos-
siamo dire che - così intesa - la metafisica è in realtà una forma di onto-
logia e costituisce senz'altro il cuore di tutta la filosofia aristotelica. Se
per Platone tutte le scienze hanno valore solo in quanto sono utili alla
formazione del filosofo-dialettico, che ha la responsabilità del governo
(hanno quindi alla fine un valore etico politico), per Aristotele, come ab-
biamo più volte ribadito, le scienze hanno tutte una medesima dignità e
tra queste la filosofia occupa un posto privilegiato solo in quanto il suo
oggetto di studio è costituito dalle cause prime e dall'essere in quanto es-
sere: questo fa della filosofia la scienza teoretica per eccellenza, la più
generale di cui l'uomo disponga.

 Lettura antologica: Le determinazioni aristoteliche della


metafisica (in “Antologia critica”).

22
LE DIVERSE DEFINIZIONI DI “METAFISICA”

1) Metafisica come “scienza delle cause” (aitiologia)

(DEFINIZIONE N. 1) Siamo qui nel primo libro della Metafisica, il Libro


Alpha: si tratta di un volume a carattere introduttivo e come P. Donnini e
G. Reale, tra gli altri, hanno rilevato, compaiono numerosi ed espliciti
riferimenti alla Fisica6.
Il primo capitolo si apre con la dichiarazione che la ricerca della ve-
rità in un senso è facile, in un altro è difficile: facile perché pur non po-
tendo alcuno cogliere pienamente la verità, ognuno riesce tuttavia a dire
qualcosa “intorno alla natura”; difficile perché la nostra natura umana è
limitata e siamo come pipistrelli abbagliati dalla luce della verità.
Dopo queste considerazioni iniziali, richiamandosi esplicitamente
alla dottrina delle cause già esposta nella Fisica, lo Stagirita dichiara che
il culmine della ricerca filosofica è costituito da quella che è scienza in
massimo grado. Ora, conoscibili in massimo grado sono i primi principi e
le cause; infatti mediante essi e movendo da essi si conoscono tutte le
altre cose (Metafisica, I, 2, 982). La ricerca filosofica, dice Aristotele
sempre nella Metafisica, nasce dalla meraviglia; meravigliarsi del mondo
significa chiedersi perché le cose accadono in un certo modo e quindi in-
dagare le cause dei fenomeni. La Metafisica, occupandosi proprio dei
principi primi (arché) e delle cause di tutto, raggiunge un livello di cono-
scenza “per cause”, in altre parole è in grado di indagare il livello ultimo,
più profondo della realtà, ed è dunque vera epistème: “fare scienza è ri-
cercare la causa delle cose, il loro perché”7 (essendo infatti la “causa”
quell’elemento universale che è in grado di rendere ragione di tutte le
cose, del loro essere vero e proprio, indipendentemente dal cambiamen-
to). La metafisica è insomma “ricerca delle cause prime” e per questo è

6 Donnini, per es., definisce questi riferimenti “inequivocabili” (Cfr. P. Donnini, La metafi-
sica di Aristotele, Carocci, pag. 84)
7 Cfr. Dizionario di Filosofia, a cura di Paolo Rossi, La Nuova Italia, Firenze, 2000, p. 49

23
scienza in massimo grado. Per “causa” Aristotele intende il principio, la
condizione o il fondamento di ciò che si dà nel mondo8.

Le cause – che come abbiamo accennato sono poi le stesse cause che
costituiscono il punto di partenza dell’indagine sul mondo fisico - si ri-
ducono a quattro tipi:

1) la causa materiale, ovvero ciò di cui un ente è fatto (il vetro per il
bicchiere, il corpo per l’uomo, ecc.);
2) la causa formale, ovvero l’essenza di un ente (quella forma deter-
minata per il bicchiere, la razionalità per l’uomo, ecc.);
3) la causa efficiente, ovvero ciò che produce meccanicamente il
cambiamento nell’ente, ciò che dà origine a qualche cosa (il movimento
del mio braccio è causa del movimento della palla, il padre è causa del
figlio, ecc.);
4) la causa finale, ovvero lo scopo a cui una cosa tende, quello in vi-
sta di cui una cosa diviene quella che è (il divenire adulto è, ad esempio,
il fine del bambino).

LE CAUSE DEL DIVENIRE. Queste quattro cause, come ha scritto Arthur


H. Armstrong, “sono le ragioni per cui la cosa esiste ed è quella che è”9.
Ora, visto che ogni ente naturale, di fatto, diviene, le quattro cause, sono
le cause del divenire. Da quanto detto si comprende che le quattro cause
sopra elencate sono riconducibili a specificazioni della sostanza e si ri-
ducono ai due principi fondamentali che già conosciamo: materia e for-
ma. Questo vale per gli enti naturali (per es. l’albero adulto è la forma, la
causa efficiente e il fine della trasformazione del seme), mentre nelle co-
se artificiali la distinzione è più netta: nella statua del discobolo la causa
materiale è il marmo, quella formale la forma determinata dell’atleta,
quella efficiente l’azione dello scultore e quella finale lo scopo per cui
l’opera è stata realizzata (per es. per essere collocata in un tempio o in
una palestra, ecc.). Le quattro cause, secondo Aristotele, furono già indi-

8 Cfr. G. Reale, Aristotele e il primo peripato. Bompiani, Milano, 2006, pp. 47 e sgg. Come
osservava G. Reale, per “causa” e “principio” Aristotele intende ciò che fonda, ciò che con-
diziona, ciò che struttura.
9 A. H. Armstrong, Introduzione alla filosofia antica, Il Mulino, Bologna, 1999, pag. 105

24
viduate dai pensatori a lui precedenti: la materiale e l’efficiente dai Na-
turalisti, la formale dai Pitagorici e da Platone, e la finale da Anassagora
e Platone. L’errore di questi filosofi fu però, come già sappiamo un erro-
re di unilateralità: per spiegare il divenire è necessario far ricorso a tutte
queste cause e comprenderne la stretta connessione.

 Lettura antologica: La dottrina delle quattro cause e i vari


significati del termine causa (in “Antologia di testi aristotelici”)

 Lettura antologica: Le quattro cause ovvero il perché delle cose (in


“Antologia Critica”)

25
2) Metafisica come “scienza dell’essere in quanto essere” (onto-
logia).

(DEFINIZIONE NUMERO 2). Tra le quattro definizioni di metafisica for-


nite da Aristotele, che abbiamo prima ricordato, la seconda risulta parti-
colarmente notevole (la metafisica “studia l’essere in quanto essere”) ed è
infatti quella su cui ha insistito maggiormente il Filosofo.
Siamo ora nel Libro quarto della Metafisica, il celebre Libro Gamma.
P. Donnini osservava che a questo punto lo Stagirita “esordisce in
modo singolarmente dogmatico, con una solenne dichiarazione che non
si può dire preparata nei primi libri: «C’è una scienza che studia l’essere-
in-quanto-essere e le proprietà che gli sono inerenti per la sua stessa na-
tura. Questa scienza non si identifica con nessuna delle cosiddette scien-
ze particolari, giacché nessuna delle altre ha come suo universale ogget-
to di indagine l’essere-in-quanto-essere, ma ciascuna di esse ritaglia per
proprio conto una qualche parte di essere e ne studia gli attributi, come
fanno, ad esempio, le scienze matematiche. E poiché noi stiamo cercan-
do i principi e le cause supreme, non v’è dubbio che questi principi e
queste cause sono propri di una certa realtà in virtù della sua stessa na-
tura. Se, pertanto, proprio su questi principi avessero spinto la loro in-
dagine quei filosofi che si diedero a ricercare gli elementi delle cose esi-
stenti, allora anche gli elementi di cui essi hanno parlato sarebbero stati
propri dell’essere-in-quanto-essere e non dell’essere-per-accidente; ecco
perché anche noi dobbiamo riuscire a comprendere quali sono le cause
prime dell’essere-in-quanto-essere»10.
A nostro parere il fatto che effettivamente lo Stagirita parli
dell’ontologia in tono quasi indiscutibile non deve stupire più di tanto ed
è casomai una ulteriore conferma della centralità di questo nodo temati-
co, primato del quale il Filosofo era del resto pienamente consapevole.
Ora, come abbiamo visto, sostenere che la metafisica studia l'essere
"in quanto essere" equivale a dire che essa non ha per oggetto una realtà
particolare, bensì (tutta) la realtà in generale, cioè l'aspetto fondamenta-
le e comune di tutta la realtà. Infatti il dominio dell'essere è diviso fra le

10 Cfr. P. Donnini, La metafisica di Aristotele, Carocci, pag. 179, con adattamenti.

26
singole scienze e ognuna ne studia una dimensione specifica: per esem-
pio la matematica ha per oggetto l'essere come quantità, la fisica l'essere
come movimento, e così via. Solo la metafisica considera l'essere in quan-
to tale, prescindendo dalle determinazioni che formano l'oggetto delle
scienze particolari e studiando le caratteristiche universali che struttu-
rano l'essere come tale e quindi tutto l'essere e ogni essere. Anche per
questo la metafisica è la “filosofia prima”, mentre le altre scienze “filoso-
fie seconde”.
Ora, dato che nella Metafisica Aristotele dispiega con una cura stra-
ordinaria la sua teoria dell'essere, pervenendo così ad una completa ri-
scrittura della scienza dell'essere (che già Platone aveva considerato co-
me necessario fondamento di ogni filosofia, ma liberandola questa vota
da quei residui estetici, etici e mitici, che avevano condizionato il mae-
stro), sulla metafisica intesa come ontologia sarà bene soffermarsi con
particolare attenzione.

LA QUESTIONE DELL'ESSERE. Come abbiamo detto più volte, per Aristo-


tele la “filosofia prima” occupa un posto centrale nell'enciclopedia delle
scienze: scienza teoretica per eccellenza, essa considera l'essere in quan-
to essere, l'essere in quanto tale. Così intesa la metafisica è ontologia. Ma
che cosa significa studiare l'essere "in quanto essere"? Per comprendere
l’essere in quanto essere, occorre spogliare l'essere di tutte le sue de-
terminazioni particolari per coglierne la struttura e le proprietà fonda-
mentali: un'operazione di fondazione che dovrebbe costituire la base
obbligatoria di ogni scienza. Ora, la questione dell'essere è decisamente
una delle più belle e complesse che la filosofia (ogni filosofia) possa af-
frontare. Nel libro I della Metafisica, non a caso, dopo aver spiegato che
“tutti gli uomini desiderano per natura conoscere”11, Aristotele precisa
subito che la filosofia prima (o Metafisica) studia tò òn é òn: l'essere in
quanto essere.
Ma che cos'è l'essere in quanto essere?
Chiariamo subito che siamo abbastanza lontani dalle posizioni par-
menidee: pur trattando dell’essere, la metafisica aristotelica di fatto si

11 Cfr. anche Enrico Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Bari, 2007, V.

27
differenzia fortemente dall’ontologia parmenidea12. Il filosofo di Elea
aveva affermato che l’essere può venire definito e descritto in un unico
modo. Platone, contro (anzi: oltre) Parmenide, il maestro venerando e
terribile, aveva sostenuto e giustificato la pluralità delle Idee, ma aveva
limitato l’attribuzione del vero essere ai soli enti intelligibili (idee-
forme). Aristotele procede anche oltre Platone, estendendo a tutta la re-
altà, in tutte le sue forme, l’attribuzione dell’essere, affermando in que-
sto modo la molteplicità originaria dell’essere: l’essere si predica di tutto.
In altre parole mentre l'approccio di Parmenide si fondava su una
radicale contrapposizione (disgiunzione) tra essere e non-essere e perve-
niva così ad una rigorosa negazione del non-essere (ed in particolare del
movimento e della molteplicità ad esso collegati) giungendo a predicare
la sola realtà dell’essere concepito però in forma assolutamente moni-
sta), l'approccio aristotelico si sviluppa in modo completamente oppo-
sto, affermando - al contrario di Parmenide - l'originaria molteplicità
dell'essere (pollachòs legòmenon, appunto: si dice in molti modi13).
Ritorniamo così al punto iniziale: che cos'è l'essere in quanto essere?

CHE COS’È “L’ESSERE IN QUANTO ESSERE”? Per cercare di definire l’essere


in quanto essere, Aristotele prende le mosse da una rigorosa analisi del
linguaggio, chiarendo prima di tutto che "l'essere si dice in molti modi":
abbiamo così l'Essere inteso come "categorie", come "atto" e "potenza",
come "accidente", come "vero", ecc. Il principale di essi è la categoria del-
la "sostanza", senza la quale non si può dire niente di alcunché.
Riepilogando il discorso fatto fin qui, abbiamo visto che - secondo la
suddivisione aristotelica - al vertice delle scienze, per dignità ed eccel-
lenza, si pone la "filosofia prima" (o "metafisica", o "teologia" o "ontolo-
gia", a seconda della direzione che prende la ricerca filosofica). Dato che
la filosofia prima è scienza dell'essere in quanto essere, scienza della so-
stanza, scienza della verità, scienza della realtà divina, per Aristotele si

12 Per un approfondimento sul tema dell’ontologia in Aristotele si veda E. Berti, B. Cen-


trone, P. Fait, Aristotele e l’ontologia, a cura di M. Bianchetti. Edizioni Alboversorio, Mila-
no, 2007.
13 Cfr., tra gli altri, E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Bari, 2007, p. 56 e sgg.

28
danno quattro significati fondamentali dell'Essere, per cui l'Essere potrà
essere inteso rispettivamente nei modi seguenti:

1) essere come “accidente”


2) essere come “essere per sé ” (l’essere come “categorie” e in parti-
colare l’essere come “sostanza”)
3) essere come “vero” (logica)
4) essere come “atto e potenza” (l’essere come divenire: il supera-
mento della radicale disgiunzione parmenidea).

Vediamoli uno per uno:

1) ESSERE COME "ACCIDENTE": Non tutto ciò che accade è necessario.


Per definire ciò che accade pur non essendo necessario (ovvero ciò che
accade accidentalmente) Aristotele utilizza il termine symbebekòs, che
significa “ciò che accade insieme, ciò che si accompagna ad altro”.
Siamo così nel Quinto Libro della Metafisica, dove lo Stagirita forni-
sce varie definizioni, tra le quali quella dell'essere inteso come non ne-
cessario, ovvero come casuale o fortuito, non connesso all'essenza.
L’essere come accidente può essere spiegato in questo modo: ad esem-
pio all'uomo accade di essere un filosofo o un contadino, o qualcos'altro,
ma né l'esser filosofo né l'esser contadino appartengono all'essenza di
uomo, eppure, allo stesso tempo, queste sono determinazioni di ciò che
l'uomo di volta in volta "è"). L'essere accidentale è quindi l'essere che di
fatto si trova ad accadere, ma potrebbe anche non accadere, non è ne-
cessario che accada; si tratta di un essere che in qualche modo "è", senza
per questo trovarsi radicato nelle profondità necessarie delle strutture
intelligibili che costituiscono l'intelaiatura del reale (come per esempio
avviene, sul piano metafisico, con il legame tra causa-effetto o, sul piano
della logica, con i principi di identità, non contraddizione e terzo escluso).
Di fatto è accidentale ogni realtà particolare e ogni evento concreto. Ne-
cessarie sono solo le strutture intelligibili, le nature specifiche e le leggi
universali. In altre parole, dalla sostanza come essenza, espressa dalla
definizione della cosa, dobbiamo distinguere l’accidente (symbebekòs),
che è un altro dei significati dell’essere. Che, ad esempio, Tizio sia bello o

29
brutto, alto o basso, calvo, biondo, ecc. non ha a che fare con l’essenza di
Tizio che è l’umanità. L’accidente è un essere casuale, può darsi o non
darsi e non è legato alla sostanza da un vincolo necessario. Esso è il si-
gnificato più debole dell’essere e di esso non c’è scienza, perché non può
esserci scienza di ciò che avviene per caso. Volendo essere ancora più
precisi, dall’accidente Aristotele distingue il proprio (ìdion): anche il pro-
prio — come l’accidente — non esprime l’essenza di una sostanza, ma —
a differenza dell’accidente — si predica universalmente di quella sostan-
za. La “capacità di ridere”, ad esempio, è “propria” dell’uomo perché, pur
non facendo parte dell’essenza dell’uomo, caratterizza tutti gli individui
appartenenti alla specie umana.

2) L’ESSERE COME "ESSERE PER SÉ": L’ESSERE COME “CATEGORIE” E COME


“SOSTANZA”. DISTINZIONE TRA “SOSTANZA” ED “ESSENZA”. La centralità
dell’essere inteso come “essere per sé” è ribadita più volte dallo stesso
Aristotele: si tratta dell'essere inteso nel modo esattamente opposto al-
l'essere “accidentale”: è l'essere che sussiste di per sé e non ha bisogno
d'altro ed è, quindi, “sostanza”, ovvero ciò che sta sotto, che “è fondamen-
to di”, ciò che “sussiste di per sé”14; e - come vedremo - sostanza è l'indi-
viduo, ciò che forma un tutt'uno e non può essere diviso (per esempio in-
dividuo è "uomo", "animale", "albero"… tenendo però presente che non
tutto ciò che esiste è individuo: ad esempio, un pezzo di legno o una roc-
cia non lo sono perché tanto l'uno che l'altra possono essere divisi in
frammenti e ciascuno di essi continuerà ad essere legno o roccia. Non
così invece nell'uomo o nell'albero: se essi vengono divisi in parti,
muoiono, cessano cioè di esistere come uomo e come albero).
Sull’essere inteso come essere per sé, ovvero come “sostanza” occor-
rono alcune ulteriori delucidazioni. Per comprendere correttamente il
significato del termine “sostanza” in Aristotele occorre infatti fare rife-
rimento alla “tavola delle categorie”, distinguendolo infine dal concetto
di “essenza”.

14 Il termine “sostanza” indica l’essenza necessaria di una cosa o di un fatto. Dal latino
sustantia, essenza, collegato a substare, stare sotto.

30
LA CATEGORIE. Come ha suggerito Domenico Massaro, per Aristotele
il mondo è costituito da una grande varietà di enti, i quali sono accomu-
nati tutti dal fatto di possedere l’essere15. Così i molteplici significati del
termine “essere” si possono raggruppare in dieci16 classi ovvero catego-
rie, che sono le seguenti:

1) Sostanza
2) Qualità
3) Quantità
4) Relazione
5) Azione o agire
6) Passione o patire
7) Dove o luogo
8) Quando o tempo
9) Avere
10) Giacere

È bene ribadire ancora una volta, trattando la questione delle cate-


gorie, che per lo Stagirita c’è assoluta corrispondenza tra il piano del
pensiero (aspetto logico-linguistico) e quello della realtà (aspetto onto-
logico). Sotto l’aspetto ontologico, infatti, le categorie sono i “generi” su-
premi o le originarie “divisioni dell’essere”, mentre sotto l’aspetto logi-
co-linguistico, sono le classi (ovvero i “predicati”) in cui rientrano tutti i
termini possibili che usiamo nelle proposizioni.

UN ESEMPIO ESPLICATIVO. Vediamo un possibile esempio in cui vengo-


no usate tutte e dieci le categorie: Tizio è un uomo (sostanza) di
bell’aspetto (qualità) alto un metro e ottanta (quantità) che sta scriven-
do (azione) e sta prendendo il sole (passione) vicino a Gaio (relazione)
sulla spiaggia (dove) oggi (quando) e porta un cappello (avere) e sta se-
duto (giacere).

15 Cfr. D. Massaro, La comunicazione filosofica, Paravia, Torino.


16 Dieci sono le categorie presentate dallo Stagirita nel libro omonimo, Le categorie. Ma

scendono a otto se si sta all’elenco della Metafisica e della Fisica. La contraddizione è solo
apparente, in quanto come aveva già rilevato Giovanni Reale, la nona categoria è riducibi-
le alla quarta e la decima alla settima. Cfr. G. Reale, Aristotele, Bompiani, pag. 65

31
CENTRALITÀ DELLA CATEGORIA DI “SOSTANZA”. Se riflettiamo
sull’esempio addotto, ci rendiamo conto che la categoria più importante
è quella della sostanza. Essa è l’unica ad avere una sussistenza autonoma,
mentre tutte le altre si riferiscono ad essa e in qualche modo la presup-
pongono: la qualità, la quantità, l’azione ecc. sono sempre qualità, quan-
tità, azione di qualcosa, di una sostanza. Il concetto si può esprimere an-
che così: i predicati inclusi nella categoria sostanza «si dicono di un sog-
getto» e non sono in un soggetto, dicono cioè che cosa è quel soggetto,
ne definiscono l’essenza (alla domanda «che cosa è Tizio?» si risponderà
«Tizio è un uomo» e non certo «Tizio è bello o alto, ecc.»); invece i predi-
cati inclusi nelle altre categorie “sono in un soggetto” ossia ne esprimo-
no questa o quella caratteristica (Tizio è bello, alto, ecc.).

L’ESSERE O È SOSTANZA O SI RIFERISCE ALLA SOSTANZA. Il significato del


termine essere quindi, pur non essendo univoco, non è nemmeno equivo-
co, ossia essere non è un termine usato per indicare cose del tutto diver-
se (come, ad esempio, il termine “scorpione” usato per indicare
l’animale o la costellazione celeste): i suoi diversi significati hanno un
comune denominatore che è il seguente, l’essere o è sostanza o si riferisce
alla sostanza. Ma allora chiedersi «che cosa è l’essere?» equivale giusta-
mente a chiedersi, come aveva detto Aristotele, «che cosa è la sostanza?»
Come dice il Filosofo, infatti, «ciò che dai tempi antichi, così come ora e
sempre abbiamo cercato e che sarà sempre un problema: che cosa è
l’essere? equivale a questo: che cosa è la sostanza?». La metafisica intera,
scienza dell’essere in quanto essere, è insomma pensabile come
un’indagine sulla sostanza.

SOSTANZA ED ESSENZA. Quel qualcosa di univoco e permanente


nell’individuo, al di là dei cambiamenti visibili, viene quindi chiamato da
Aristotele “sostanza”. Rende bene l’idea il termine latino: substantia, “ciò
che sta sotto”. A differenza dell’idea platonica, la sostanza è individuale e
può quindi spiegare ontologicamente il singolo individuo e il suo per-

32
manere se stesso nel divenire17. Ora, la sostanza, proprio perché indivi-
duale, non coincide pienamente con l’essenza (che indica invece
l’insieme delle caratteristiche per cui un ente è quello che è). Il loro rap-
porto è il seguente: l’essenza serve per spiegare la sostanza, ma non vi-
ceversa. Non a caso lo Stagirita identifica l’essenza con la forma, della
quale è possibile astrazione e generalizzazione da parte dell’intelletto,
chiarendo così la valenza logico-linguistica (gnoseologica) del termine,
mentre sostanza si riferisce invece al piano ontologico (quello, appunto,
dell’essere).

3) L’ESSERE INTESO COME “VERO”: entriamo così nel campo della Logi-
ca, la disciplina che studia il giudizio. "Essere" secondo il vero e il falso (to
òn os alethès) corrisponde quindi al piano del pensiero: corrisponde in
altre parole all'essere in quanto pensato. Si capisce così cosa si intenda
per "essere falso": la falsità è solo nel giudizio del soggetto che non si "a-
degua" all'oggettività del reale (che in quanto tale è sempre vera: non e-
sistono "enti falsi", ma casomai giudizi non corrispondenti a stati di fatto
e perciò falsi. Il che significa che l'essere in senso vero e proprio coincide
col vero. In un certo senso, quindi, la realtà non inganna, ma è il soggetto
umano a porsi in modo scoordinato nei confronti della verità, rendendo
oscuro ciò che di per sé sarebbe chiaro e manifesto.

4) L’ESSERE INTESO COME “POTENZA” E “ATTO”: ogni individuo, conside-


rato nella sua realtà concreta, non è fisso e immutabile, ma diviene di
continuo per attuare pienamente il suo essere. In alternativa a Parmeni-
de, Aristotele afferma infatti che ogni ente viene all'essere, nasce, pas-
sando dal “non-essere ancora” all'essere, si accresce o diminuisce quanti-
tativamente, passando da un modo di essere ad altro modo di essere,
muta o si altera qualitativamente, passando da uno stato ad altro stato,
si sposta da un luogo ad un altro, cambiando posizione nello spazio, e
infine cessa di essere, muore, passando dall'essere al “non-essere più”.
Nel ciclo della vita dell'individuo si attua dunque il divenire, cioè il mo-

17 E. Ruffaldi, P. Carelli, U. Nicola, Il pensiero plurale, Loescher, pag. 316.

33
vimento, che implica necessariamente il passaggio dalla potenza all'atto.
Scrive infatti Aristotele nella Metafisica: "Potenza significa […] possibilità
di ricevere una determinata forma; atto è averla ricevuta. Ad esempio, il
chicco di grano è atto come chicco di grano, ma è potenza nei confronti
della spiga che da lui deriverà; la spiga, pienamente formata, è il chicco di
grano divenuto atto, cioè la potenza che si è attuata". Dunque, con i con-
cetti di atto e potenza Aristotele esibisce un argomento nuovo nella di-
sputa relativa al problema della contraddittorietà del divenire, inteso
come passaggio dal non-essere all'essere e viceversa, così com'era stata
impostata da Parmenide (e non completamente risolta nel Sofista di Pla-
tone). Si ricorderà infatti che per Parmenide solo l'essere è, mentre il
non-essere non è e non può quindi mescolarsi all'essere nel divenire. Con
Aristotele, invece, il divenire si attua in quanto avviene un passaggio al-
l'essere attuale non dal non-essere (assoluto) ma da quel non-essere rela-
tivo che è, a ben vedere, l'essere potenziale.
Ma per quanto l'essere sia per Aristotele un pollachòs legòmenon, si
dica in molti modi, i suoi significati possibili sono sempre in riferimento
ad una unità e ad una realtà ben determinata. Di quale realtà sta parlan-
do? Si tratta della “sostanza”: per Aristotele l'essere, in primo luogo, è so-
stanza. Passiamo quindi all’analisi della ousiologia aristotelica18.

18 Cfr. G. Reale, Introduzione ad Aristotele, Laterza, Bari, ed. 1996, p. 56.

34
3) La Metafisica come “scienza della sostanza” (ousiologìa)

(DEFINIZIONE N. 3) Da quanto si è detto sopra a proposito della “so-


stanza” si evince che l’intera metafisica aristotelica si possa chiamare
anche “ousiologìa”, ovvero scienza che studia la sostanza (“ousìa”)19. Ab-
biamo prima anticipato che il problema della sostanza in Aristotele è as-
solutamente centrale: ora torniamo a riflettere più da vicino su questo
concetto.
Sappiamo che “sostanza”? è un termine filosofico che indica la natu-
ra propria dell’ente o la “quiddità”, termine col quale nel Medioevo si
tradusse la nozione di “essenza necessaria”, che poi corrisponde alla de-
finizione: quello che un ente è. È ciò che Aristotele chiama hypokéimenon
(“sostrato”). "Questo sostrato suole essere identificato in primo luogo con
la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo col composto di
entrambe", dice Aristotele. Naturalmente, come vedremo poco più avan-
ti, forma e materia, in riferimento al concetto di sostanza, non sono e-
quivalenti. La materia non può infatti essere intesa come sostanza allo
stesso modo della forma, in quanto, per definizione, la sostanza dovreb-
be avere un’esistenza propria, di cui la materia in quanto tale è priva,
proprio perché, essendo priva di forma, manca di qualsiasi determina-
zione. Nello stesso tempo dobbiamo tuttavia sottolineare che la forma
aristotelica non equivale a quella platonica. Per Aristotele infatti la for-
ma non è intesa come separata da ciò di cui è forma; inoltre a volte Ari-
stotele definisce la forma "sostanza seconda", indicando proprio nel sìno-
lo, cioè nell'individuo, il significato primo e forte di sostanza.

SOSTANZA È L’INDIVIDUO. Sostanza è prima di tutto l'individuo (in-


dividuo, indivisibile). E, da questo punto di vista, l'essere è tutto ciò che
attiene alla sostanza, cioè le sue qualità o predicati. In altre parole chie-
dersi "che cos'è l'Essere?" (tì tò òn?) equivale a chiedersi: "che cos'è la So-
stanza?" (tìs è ousìa?)20. Aristotele ci dice che l’ousìa ha diverse accezioni

19 Cfr. G. Reale, Aristotele e il primo Peritato, Bompiani, Milano, 2006, p. 73.


20 Illuminante a questo proposito il passo della Metafisica VI, 1, 1028 b3.

35
(Metafisica, VI, 3). Innanzitutto l’ousìa - la sostanza - è il soggetto (ypo-
keìmenon), vale a dire ciò per cui si afferma tutto il resto e che non è af-
fermato da niente altro, non è dunque mai il predicato di un soggetto,
ma ciò di cui tutto il resto è predicato. Poi l’ousìa è la quiddità e la quiddi-
tà di ciascun essere è “ciò che esso è di per sé”; non bisogna quindi tener
conto dell’accidente per definire l’ousìa di un essere (Metafisica, 4, 1029
b 15). Ogni essere non differisce dalla sua quiddità ed essa non è in alcun
modo separabile dal soggetto: anzi, dice lo Stagirita, essa è la sostanza di
tutte le cose.
NON C’È SCIENZA SE NON DELLA SOSTANZA. In altre parole, è solo della
sostanza (ousìa) che possiamo esibire una definizione rigorosa. Il che
significa affermare che non vi è altra scienza che quella del generale e
non c’è altra esistenza che quella del particolare21. Gli universali non so-
no quindi delle sostanze: Aristotele accusa qui Platone di aver sostenuto
il contrario (Metafisica, VI, 14). La sostanza è dunque la prima categoria,
prima nel senso di più fondamentale, quella a cui tutte le altre categorie
devono fare riferimento. Ne segue che la filosofia prima (o studio
dell’essere in quanto essere) dedica particolare attenzione allo studio
della sostanza.
Ma che cos'è, più precisamente, la sostanza secondo Aristotele?

ANALISI PARTICOLAREGGIATA DEL CONCETTO DI SOSTANZA - Anche in que-


sto caso l’analisi aristotelica è particolarmente raffinata. Il Filosofo for-
nisce infatti almeno tre definizioni di sostanza22:

a) sostanza come materia


b) sostanza come forma
c) sostanza come sìnolo (unione di forma e materia)

a) La materia. Prendiamo in considerazione innanzi tutto le sostan-


ze materiali, la cui esistenza è ammessa da tutti: siamo di fronte a ciò
che i sensi testimoniano come esistente e direttamente percepibile quo-
tidianamente nel mondo concreto. Considerando il mondo sensibile, se-

21 Cfr. J. Brun, Aristotele, Xenia, op. cit., pag. 78.


22 Cfr. G. Reale, Aristotele, Bompiani, pag. 77.

36
condo lo Stagirita, è possibile individuare un principio che è chiaramen-
te costitutivo per tutto questo grado della realtà: la materia (in greco:
hyle). La materia è intesa dal Filosofo come il sostrato, “ciò che sta sotto”
(hypokéimenon) e che deve essere determinato, formato da qualco-
s’altro: per esempio la materia del bicchiere è il vetro, la materia di un
albero il legno, la materia di un uomo il corpo vivente, ecc. La forma è
dunque per Aristotele un principio, ma di per sé è passivo (perché senza
essere formato apparirebbe come assolutamente indeterminato)

b) La forma. Il principio che determina la materia è la forma (éidos o


morphé): il vetro, il legno, il corpo vivente devono ricevere una certa de-
terminazione, una certa forma, per diventare ed essere concretamente
bicchiere, albero e uomo, etc. Ogni ente del mondo naturale diventa pre-
cisamente ciò che è grazie all’azione della forma, che ne costituisce
quindi la più intima essenza. “Forma” – suggeriva Giovanni Reale – non è
però da intendersi come la estrinseca forma o figura delle cose, ma piut-
tosto il che cos’è (tò ti èn einai) degli enti23. La forma non deve neppure
essere intesa platonicamente come separata, trascendente, rispetto alla
materia, quanto piuttosto intrinseca alla materia, in essa immanente. In
altre parole Materia e forma sono distinte solo col pensiero, con
l’astrazione: nella realtà sensibile esse sono sempre indissolubilmente
unite negli enti concreti, negli individui reali.

c) Il sìnolo. Questi enti concreti, reali, effettivamente esistenti sono


per lo Stagirita dei sìnoli: questo bicchiere, questo albero, questo uomo
(ecc.) che percepisco direttamente con i sensi come concretamente esi-
stente nel mondo è infatti sempre un composto di materia e forma, un sì-
nolo appunto, un indissolubile, un tutto-insieme (syn, insieme; hòlos, tut-
to), un individuo che ha una sua esistenza autonoma in quanto unione
concreta di materia e di forma.

23 Cfr. G. reale, Aristotele, Bompiani, pag. 77

37
RIEPILOGO. Che cosa è allora la sostanza?
- Sostanza è certamente l’individuo concreto composto di materia e
forma, il sìnolo che ha vita propria (a differenza delle sue qualità che si
colgono solo per astrazione).
- Sostanza è anche la forma in quanto principio costitutivo intrinse-
co della cosa stessa che determina la cosa ad essere quella che è, che ne
costituisce l’essenza.
- La materia può invece essere detta sostanza solo in un senso “de-
bole” e improprio.
La concezione aristotelica della sostanza si presenta così come una
sintesi del pensiero precedente: i Naturalisti avevano identificato la so-
stanza con gli elementi materiali, Platone con le forme o idee; la verità è
data dalla combinazione di queste due soluzioni (che - prese isolatamen-
te - sono in se stesse errate in quanto unilaterali)24.

SOSTANZA PRIMA E SOSTANZA SECONDA. Abbiamo sopra accennato a una


ulteriore distinzione introdotta dal Filosofo a proposito della sostanza:
Aristotele parla infatti di “sostanza prima” e “sostanza seconda”. È bene
precisare che si tratta di una distinzione “razionale” e non “reale”, nel
senso che distingue concetti che usiamo noi per comprendere, ma di fat-
to non separa alcunché nel mondo. Le sostanze prime e seconde, in altre
parole, non sono due realtà diverse e separate (perché entrambe si rife-
riscono alla medesima realtà, anche se lo fanno in due modi diversi). Per
“sostanze prime” lo Stagirita intende gli individui, ovvero ciò a cui pos-
siamo assegnare un nome proprio, per esempio (l’uomo chiamato) So-
crate o (il gatto chiamato) minorino. Per “sostanza seconda” intende in-
vece i generi e le specie, per esempio “uomo” o “gatto”.

RATIO DELLA DISTINZIONE TRA SOSTANZA PRIMA E SOSTANZA SECONDA. A


ben vedere la distinzione tra “sostanza prima” e “sostanza seconda” era
necessaria, in quanto si pone, in Aristotele, il seguente problema: se,
come dice il Filosofo, sostanza è l’individuo e sostanza è la forma, che re-

24Per approfondire questa differenziazione cfr. G. Reale, Aristotele, Bompiani, pagg. 80-
86.

38
lazione sussiste tra questi due significati di sostanza? Vediamo un esem-
pio. Nella proposizione “Tizio è un uomo” “Tizio” è sostanza nel senso
dell’individuo concreto, nel senso del questo qui (quest’uomo qui: Tizio,
o Socrate, ecc.); “uomo” è invece sostanza nel senso dell’essenza che ci
dice che cosa è quell’individuo (Tizio è un uomo, la sua essenza è
l’umanità). Allora, precisa lo Stagirita, nel caso dell’individuo concreto
possiamo parlare di sostanza prima, nel caso dell’essenza di sostanza se-
conda25.
Ma dire che l’individuo è “sostanza prima” significa forse che in de-
finitiva soltanto l’individuo, il sìnolo, è propriamente sostanza? La posi-
zione di Aristotele in merito è abbastanza complessa e non è il caso qui
di approfondirla ulteriormente. Ci basti ricordare che i due significati di
sostanza sono intimamente connessi: sostanza è l’individuo concreto
esistente (il sìnolo: Tizio) e, nel contempo, l’essenza (il che cos’è: uomo)
dell’individuo concreto esistente, ciò che fa sì che quell’individuo sia
quello che è; l’essenza è immanente nell’essere (in questo individuo), ma
l’essere dell’individuo non è pensabile senza l’essenza.
E c’è di più: per Aristotele ci sono, come vedremo, oltre alle sostanze
sensibili, sostanze soprasensibili che, come Dio, non sono sìnoli, ma “pu-
re forme”, da cui dipende tutto il mondo sensibile. Da questa prospetti-
va, la priorità sembrerebbe allora spettare alla forma e non già
all’individuo. La difficoltà si risolve distinguendo due punti di vista che
sono perfettamente compatibili.
a) Dal punto di vista empirico, della nostra esperienza, sostanza pri-
ma è il sìnolo, il concreto individuo.
b) Dal punto di vista metafisico, di come stanno le cose per natura o
in se stesse, la forma appare invece principio, causa e fondamento e il
sìnolo principiato, causato e fondato.
E quindi, dal punto di vista metafisico, sostanza per eccellenza è la
forma.

25Si noti che in una proposizione la sostanza prima (il “questo qui”) può essere solo sog-
getto, mentre la sostanza seconda può essere sia soggetto che predicato.

39
CONCLUSIONI. Concludendo, per Aristotele la sostanza non è altro che
l'essere, o, meglio, il principale e fondamentale modo d'essere. La sostanza
costituisce l'essenza necessaria di qualcosa, ciò che risponde alla do-
manda “che cos'è?”. Se pongo questa domanda a proposito di Socrate,
per esempio, posso rispondere in molti modi, posso per esempio dire
che Socrate è un uomo, che Socrate è un ateniese, o che Socrate è un filo-
sofo. Ma è solo la prima delle tre risposte che esprime l'essenza necessa-
ria di Socrate, il fatto che sia ateniese o filosofo dovendo comunque
“poggiare” sul suo essere uomo, è in qualche modo secondario. Scriveva
Aristotele: «Noi reputiamo di conoscere un oggetto particolare, solo
quando ne conosciamo l'essenza - ad esempio l'essenza di "uomo" o di
"fuoco" - piuttosto che quando ne conosciamo la qualità o la quantità o la
posizione» (Metafisica, VII, 1, 1028a). Aristotele per definire la sostanza
ricorre alla locuzione tò ti en èinai, che in latino è stata tradotta quod
quid erat esse, e che significa pressappoco “ciò che l'essere era”: essa in-
tende suggerire l'idea della permanenza, di ciò che, essendo stato nel
passato, permane nel presente e per sempre.

Leggiamo direttamente un passo di Aristotele, tratto dalla Metafisi-


ca.

[1042a] [...] E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la


materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma
un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa
l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può es-
sere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di
materia e di forma [...].
[1042b] [...] la sostanza nel significato di sostrato e di materia [le] vie-
ne concordemente ammessa da tutti, ed essa è la sostanza che esiste in po-
tenza, rimane da dire che cosa sia la sostanza delle cose sensibili come atto.
[1043a] [...] Dalle cose dette risulta chiaro che cosa sia la sostanza
sensibile e quale sia il suo modo di essere: essa è, per un verso, materia,
per un altro, forma e atto, e, per un terzo, è l'insieme di materia e di forma.
Non bisogna ignorare che, talora, non è chiaro se il nome indichi la so-
stanza come composto, oppure l'atto e la forma. Per esempio, non è chiaro
se “casa” indichi il composto di materia e forma, ossia un riparo fatto di
mattoni e di pietre disposte in questo determinato modo, oppure se signi-

40
fichi l'atto e la forma, ossia un riparo [...]. [1043b] Ma questo, che per altro
rispetto ha una notevole rilevanza, in relazione alla ricerca della sostanza
sensibile non ne ha alcuna: infatti l'essenza appartiene alla forma e all'at-
to26.

Come si è visto l’analisi aristotelica del concetto di sostanza è stra-


ordinariamente ricca e complessa. In qualche modo, essa si presenta
come una sorta di sintesi problematica dell’intera Metafisica.

Passiamo ora all’analisi della quarta definizione di Metafisica: la


scienza che studia le sostanze soprasensibili, ovvero la scienza che ha per
oggetto il divino.

26Aristotele, Metafisica, 1042a 26-30; 1042b 9-11; 1043a 26-1043b 1, Rusconi, Milano,
1994, pagg. 371-377.

41
4) La metafisica come teologia

(DEFINIZIONE N. 4) Nell’ambito del discorso metafisico Aristotele ar-


riva ad affermare l’esistenza di un essere divino, definito “motore im-
mobile”, che è causa dell’unità e del fine che la natura insegue attuandosi
nel divenire. Lo Stagirita afferma anche che questa entità superiore è in-
corporea ed assolutamente perfetta ed è perciò l’aspirazione di tutte le
cose del mondo, poiché tutti gli enti desiderano, per la loro stessa natu-
ra, essere partecipi della perfezione. Esistono anche altri motori, ossia le
intelligenze motrici dei pianeti e delle stelle; tuttavia, il motore immobi-
le, che nella tradizione filosofica medievale è stato identificato con Dio,
nella descrizione di Aristotele non è suscettibile di interpretazioni reli-
giose: il Dio di Aristotele, infatti, proprio in quanto primo motore immo-
bile non è interessato a ciò che accade nel mondo, né ha creato il mondo.
Aristotele limita quindi la sua “teologia”, a ciò che la scienza metafisica
richiede e può dimostrare. La Metafisica diventa quindi per Aristotele
teologia nel momento in cui considera l’Essere supremo, il fondamento
di tutta la realtà. “Teologia” è in altre parole un termine che per lo Stagi-
rita indica la considerazione metafisica dell’essere dal punto di vista del-
la Causa Prima (da cui “filosofia prima”)27. Ma qual è allora il rapporto
tra la metafisica intesa come ontologia, scienza che studia l’ente in quan-
to ente, e l’altra branca della metafisica, la teologia, che studia l’ente in
quanto perfezione assoluta: Dio, ovvero l’atto puro e primo motore im-
mobile? Il problema è, ancora una volta, quello del divenire (del movi-
mento)28. Siamo nel libro centrale della Metafisica, il libro XI, dove Ari-
stotele prende in esame il concetto di Essere sotto un nuovo punto di
vista29. La metafisica viene intesa qui come la scienza della sostanza
immobile che non ha alcun principio in comune con le altre specie di so-
stanze (I 1069 b 1); questa sostanza immobile, eterna, indivisibile ed in
estesa è il primo motore da cui l’atto eterno genera tutto il movimento.

27 Cfr. Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano, 1987, p. 928


28 Cfr. Renato Laurenti, Le origini "fisiche" del Dio aristotelico, in www.emsf.it - Enciclope-
dia Multimediale delle Scienze Filosofiche, 26/2/1991.
29 Cfr. J. Brun, Aristotele, Xenia, Milano, 1997, p. 76

42
L’analisi del movimento, insomma, costituisce il punto di partenza che
porta dal divenire alla teologia.

Leggiamo a questo proposito tre brani chiarificatori:

 Dalla finalità del divenire alla teologia. La concezione aristotelica


di Dio (in “Antologia critica”)

 Dio è causa prima (in “Antologia critica”)

 Il passaggio dal divenire all’immutabile (in “Antologia critica”)

IL PROBLEMA DEL REGRESSO ALL’INFINITO. La necessità di pensare un at-


to puro all’estremo superiore della catena degli esseri consegue dal
principio fondamentale dell’anteriorità dell’atto sulla potenza. Se infatti
la potenza presuppone l’atto, è evidente che, per evitare l’assurdo di un
regresso infinito, dobbiamo porre al termine superiore della catena po-
tenza-atto-potenza, ecc. un atto senza potenza, ossia un Atto puro. Data
la corrispondenza tra atto e forma, l’Atto puro è nel contempo pura
Forma senza materia ed è pertanto una sostanza incorporea, sovrasensi-
bile. Ontologicamente esso è il Principio supremo, il fondamento da cui
dipende tutta la catena degli esseri, ciò che gli uomini chiamano Dio.

L’esigenza di evitare il regresso infinito è alla base di tutte le dimo-


strazioni aristoteliche dell’esistenza di Dio. Il medesimo ragionamento
che ci costringe a porre Dio come Atto puro e Forma pura può essere
applicato al movimento: ogni cosa mossa presuppone qualcosa che la
metta in moto ossia un motore, ma anche quest’ultimo, in quanto è a sua
volta mosso, presuppone un motore, ecc., per cui, per non incorrere nel
regresso infinito, dobbiamo porre al termine della catena un motore che
non sia a sua volta mosso, ovvero un Motore immobile. Analogamente
stanno le cose, se riflettiamo sulla catena delle cause: ogni effetto pre-
suppone una causa, che è a sua volta effetto di un’altra causa e così via;
dovrà quindi esserci una Causa prima non causata.

43
LE PROPRIETÀ DI DIO. Dio è quindi Atto puro e Forma pura, Motore
immobile, Causa prima; in quanto sostanza sovrasensibile non ha né
grandezza né parti, è eterno, separato, ingenerabile e incorruttibile. A
questa sostanza sovrasensibile, in quanto perfezione massima, appar-
tiene il modo di vivere più perfetto, “quel modo di vivere che a noi [uo-
mini] è concesso solo per breve tempo” e di cui essa invece gode in eter-
no: la vita dell’intelligenza. Dio è quindi pensiero ed è pensiero «che ha
come oggetto ciò che è eccellente in massimo grado» ossia se stesso: egli
è Pensiero che pensa se stesso. Dio è il supremo motore non in quanto
causa efficiente, ma in quanto causa finale: egli muove, senza a sua volta
essere mosso, “come l’oggetto d’amore attrae l’amante”, ossia in quanto
Fine ultimo a cui tendono tutti gli esseri. Dio non ha volontà, perché il
volere e il desiderio presuppongono la mancanza di ciò che si vuole e si
desidera, ed egli non manca di nulla; perciò il rapporto di Dio col mondo
è unidirezionale: tutte le cose tendono a Dio, ma Dio non tende a nulla
ed è impassibile a tutto ciò che accade nel mondo.
Così il mondo non ha avuto un inizio nel tempo e nemmeno si è svi-
luppato dal caos all’ordine: esso è eterno, sempre identico a se stesso e
unico. Tempo e movimento sono coeterni al mondo.
Poiché da Dio come Motore immobile dipende il movimento fisico di
tutti i cieli, tra metafisica e fisica (o filosofia naturale) sussiste, nella vi-
sione aristotelica, una connessione essenziale: non è possibile trattare i
problemi fondamentali del mondo fisico, delle sostanze sensibili, senza
fare riferimento alla sostanza sovrasensibile, anzi alle sostanze sovrasen-
sibili. Secondo Aristotele, infatti, Dio è la suprema, ma non l’unica sostan-
za sovrasensibile: come vedremo meglio nella sezione successiva sulla
fisica, le sfere celesti sono mosse da Intelligenze simili a Dio, anche se a
lui inferiori. Aristotele non è quindi monoteista; come tutti i filosofi gre-
ci, egli ritiene che il divino sia costituito da molte realtà eterne e incor-
ruttibili, anche se pensa queste realtà disposte in un ordine gerarchico
che ha alla sommità il supremo Motore immobile.

44
LA FISICA

L'indagine sulla realtà deve prendere avvio da ciò che si presenta


come immediatamente evidente: le cose sensibili, il mondo fisico. "Di
questa realtà Aristotele intende ricercare le cause prime, secondo il mo-
dello platonico, ma con un atteggiamento del tutto nuovo rispetto a Pla-
tone, il quale non riconosce alla fisica il valore di scienza, in quanto a-
vente per oggetto il divenire. Aristotele intende invece costruire una ve-
ra e propria scienza della natura, la cui esistenza è innegabile, e alla qua-
le egli guarda con vivo interesse"30.

Il mondo naturale, come abbiamo detto, è caratterizzato dal


movimento. La fisica di Aristotele ha per oggetto proprio il movimento,
il divenire, e il mondo naturale che viene definito come l'insieme di tutte
le realtà mutevoli che hanno in se stesse, o nella loro specie, la causa del
proprio mutamento. Il divenire, il mutamento, è la caratteristica
fondamentale della natura ed implica tre elementi: il soggetto del
mutamento (detto "sostrato", o materia), qualcosa in cui mutare (la
forma) quella nuova dimensione, configurazione che il soggetto assume
in seguito al mutamento e infine uno stato iniziale a partire dal quale il
soggetto muta, che è l'iniziale mancanza di tale forma, detta
"privazione".

I QUATTRO TIPI DI MUTAMENTO

La Fisica - la scienza della natura - studia dunque le sostanze sotto


l'aspetto del movimento. Aristotele distingue quattro tipi di
mutamento31:

mutamento sostanziale - riguarda - ad eccezione dei corpi celesti che

30 F. Occhipinti, Logos, vol. I, Einaudi, Milano, 2005, p. 258


31 Cfr. G. Cambiamo, M. Mori, Le stelle di Talete, Laterza, Bari, vol. I, pag. 265

45
sono incorruttibili, il nascere ed il perire di tutte le sostanze.

mutamento qualitativo - riguarda il cambiamento di determinate qualità


dell'individuo (per esempio l'assumere un certo colore, ecc.).

mutamento quantitativo (l'aumento o la diminuzione).

mutamento locale (il cambiamento di luogo).

È per spiegare questi tipi di mutamento che lo Stagirita utilizza i


concetti di materia (o sostrato), forma, potenza e atto. Lo abbiamo già
visto parlando della Metafisica: nella realtà - osserva Aristotele - non e-
sistono né la forma né la materia prese separatamente, poiché ciò che
incontriamo è sempre un sìnolo, cioè unità di materia forma. Al di là di
queste distinzioni, però, le varie forme del movimento possono essere
ricondotte ad un unico concetto, quello di «passaggio da qualcosa a
qualcos’altro» e proprio per ciò Aristotele può trattarlo in modo unitario
quando si propone di indagarne i principi e le cause.

I PRINCIPI DEL DIVENIRE: «MATERIA», «PRIVAZIONE» E «FORMA»,


«POTENZA» E «ATTO».
I principi del divenire e del movimento sono per Aristotele tre: la
«materia», la «privazione» e la « forma». La «materia» (hyle, che, come il
latino silva, letteralmente vuoi dire «selva», « foresta» e in senso lato un
insieme di materiali, per esempio quelli dei muratore o del falegname) è
ciò di cui è costituita qualsiasi cosa (per esempio una casa è costituita di
mattoni, legno, ecc., cioè del materiale da costruzione); la «privazione»
(stéresis) è la mancanza di ciò che la materia informe «può» diventare
(per esempio il materiale da costruzione, quando è accumulato in un
cantiere, è ancora un ammasso informe, privo cioè della «forma» che es-
so assumerà quando con esso sarà costruita la casa); la «forma» (mor-
phé, éidos) è la struttura e la disposizione che il materiale assumerà
quando la casa sarà costruita. E come nell’esempio fatto il materiale da
costruzione può servire per costruire case di forma diversa ma non, po-
niamo, una nave, così la materia può essere definita come ciò che ha la

46
possibilità (la «potenza»: dynamis) di attuarsi in determinate forme
(quelle di cui essa è priva) e non in altre. Ma la materia può acquisire la
forma solo se la forma già c’è, già esiste; cioè la forma deve esistere ef-
fettivamente (anche se non separatamente come le idee platoniche) nel-
la sua perfetta realtà (in atto: enérgheia, entelécheia). In questo senso si
può dire che ogni divenire e ogni movimento è un «passaggio dalla po-
tenza all’atto», e che esso inizia da una materia, specificata dalle priva-
zioni che le sono proprie e quindi dalle potenzialità di diventare alcun-
ché, per terminare nell’attualità di tali potenzialità: un uomo ignorante è
privo di cultura ed ha la possibilità di diventare colto; è appunto la cul-
tura, esistente in atto in altri, che rende possibile la realizzazione della
sua possibilità, il passaggio della potenza all’atto, che da ignorante lo fa
diventare colto.
Come abbiamo già anticipato dal punto di vista della Metafisica, ma-
teria e forma non esistono l’una separata dall’altra, ma sempre congiun-
te nelle sostanze individuali e reali: ma proprio nel momento in cui Ari-
stotele ribadisce la critica alla trascendenza e al dualismo platonico e fa
valere la sua concezione immanentistica, cioè unitaria, mostra quanto
sia forte l’eredità platonica, perché la forma aristotelica non è altro che
l’idea, l’universale platonico, reso intrinseco alla materia e al sensibile e
tuttavia conservante una struttura e una dignità ontologica radicalmen-
te diverse e superiori, così come l’atto è superiore alla potenza, il reale al
possibile, il perfetto all’imperfetto.

LE QUATTRO CAUSE DEL DIVENIRE E DEL MOVIMENTO


Possiamo ancora assodare la persistenza di questa eredità platonica
quando Aristotele passa a indicare le «cause» del divenire e del movi-
mento.
Queste cause – come abbiamo già visto nella sezione “La Metafisica
come scienza delle cause (aitiologìa)”, sono quattro. Ricordiamole nuo-
vamente.

1) la causa «materiale», cioè la materia di cui una cosa è fatta (il


bronzo di una statua);

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2) la causa «formale», cioè la forma cui una cosa corrisponde
(l’immagine raffigurata da una statua);
3) la causa «efficiente», cioè l’agente che produce la cosa (l’artista
che scolpisce la statua);
4) la causa «finale», cioè lo scopo per cui avviene il divenire e il
movimento (lo scopo per cui è scolpita la statua).

Nelle spiegazioni relative agli oggetti naturali e soprattutto agli or-


ganismi viventi, Aristotele tende ad unificare le ultime tre cause; la for-
ma è infatti anche il fine e l’agente è identico con la forma: l’animale che
genera un cucciolo è identico alla forma della specie cui appartiene e
questa forma è anche il fine a cui tenderà lo sviluppo del cucciolo. Il dua-
lismo di causa materiale e causa finale (comprendente anche quella a-
gente e quella formale), da un lato riproduce così il dualismo di materia
e forma e dall’altro dà a tutta la fisica aristotelica un’impronta nettamen-
te finalistica, che la collega strettamente a quella platonica. Da qui la po-
lemica fondamentale, ripresa anche nel primo libro dei Metaphysica,
contro i precedenti physiòlogoi (in primo luogo contro Democrito e la
dottrina atomistica) per non essere riusciti ad andare oltre il riconosci-
mento di una sola causa, quasi esclusivamente quella materiale e solo
eccezionalmente quella formale, e contro lo stesso Platone, il quale, a-
vendo concepito la causa (cioè le idee) «separata» dalle cose sensibili, si
è precluso una reale soluzione del problema.

LO SPAZIO E IL TEMPO
Le dottrine dei principi e delle cause, che abbiamo preso in esame
da più prospettive, consentono di dare una spiegazione completa del di-
venire delle realtà concrete e individuali del mondo sensibile ed anche di
chiarire la natura dello spazio (che per lo Stagirita è sempre il luogo di
un corpo) e del tempo: lo spazio è il «limite immobile» che abbraccia un
corpo (e quindi dove non c’è corpo non c’è spazio: onde la negazione, in
funzione antidemocritea, del vuoto); il tempo è «la misura del movimen-
to secondo il prima e il poi». E poiché spazio e tempo sono bensì divisibi-
li all’infinito in potenza, ma in atto non sono infiniti, gli argomenti di Ze-
none contro il movimento non sono validi: nell’attualità di un tempo de-

48
terminato Achille compie un percorso maggiore di quello compiuto dalla
tartaruga e quindi la raggiunge.

ANALISI DETTAGLIATA DEI CONCETTI DI SPAZIO E DI TEMPO. Vediamo allora


di approfondire la concezione aristotelica dello spazio e del tempo.

Spazio. Per lo Stagirita lo spazio è in connessione con le cose e, nello


stesso tempo, è indipendente da esse perché lo stesso luogo può essere
occupato successivamente da corpi diversi senza che con questo cambi
la loro intima costituzione. Esso non può identificarsi con la forma o la
materia di una cosa, perché forma e materia non sono separabili dalla
cosa stessa, ed invece la cosa può essere separata dallo spazio occupato,
in quanto può essere sostituita successivamente da un'altra cosa.
A questo proposito, due passi della Fisica sono davvero illuminanti:

“Lo spazio è piuttosto paragonabile ad un vaso contenente gli ogget-


ti; esso si identifica con la porzione di luogo occupato dalle cose e si e-
stende fino al loro limite esterno; di conseguenza è limitato”. […]

“Lo spazio ha tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità, che


delimitano ogni corpo. Esso e il contenente dei corpi ed ha un limite. t
inammissibile che lo spazio sia forma o materia. Infatti la forma o la ma-
teria di una cosa non sono separabili dalla cosa stessa, mentre il luogo
da essa occupato e separabile, tanto e vero che dove prima c'era aria,
ora c'è acqua o altra cosa. Sembra infatti che il luogo sia qualcosa come
un vaso: ora il vaso non è nulla della cosa. Dunque, in quanto separabile
dalla cosa, il luogo non ne è la forma: in quanto la contiene non ne è la
materia”. […]

Tempo. Il tempo è così in connessione col divenire, e cioè col movi-


mento, pur non potendosi identificare con esso perché i movimenti
cambiano (ora sono più rapidi, ora più lenti), il tempo è omogeneo e
perciò non muta, ed anzi, proprio per questo, serve a determinare la
maggiore o minore rapidità del moto. Il tempo, per questa connessione
col movimento, implica una successione di istanti che, attraverso il pri-
ma e il poi, costituiscono la durata; l'unità di misura degli istanti che si

49
succedono è data dal movimento circolare, uniforme e costante dei cieli
e la ragione umana ha la capacità di numerare la successione degli istan-
ti in una serie ordinata e regolare. Prendiamo in considerazione altri due
passi della Fisica:

“Il cambiamento e il movimento di ogni cosa sono soltanto nella co-


sa che cambia. Invece il tempo e dappertutto e in tutte le cose omogene-
o. Inoltre ogni cambiamento e più rapido o più lento, il tempo no; infatti
la lentezza e la rapidità sono determinate mediante il tempo. Dunque il
tempo non è movimento ma non esiste senza il cangiamento. Noi infatti
conosciamo il tempo quando abbiamo determinato il movimento, de-
terminando l'anteriore e il posteriore; e allora diciamo che è passato del
tempo, quando prendiamo coscienza dell'anteriore e posteriore nel mo-
vimento”. […]

“Noi misuriamo non soltanto il movimento col tempo, ma anche il


tempo col movimento. Il moto circolare uniforme e la misura per
eccellenza perché tra i moti circolari quello celeste e eterno, uniforme,
continuo”. […]

 Lettura antologica: La fisica aristotelica (in “Antologia critica”).

 Lettura antologica: La dottrina delle quattro cause (in “Antologia


critica”)

50
LA COSMOLOGIA

L'universo aristotelico è geocentrico ed è formato dalla terra -


sferica, costituita dai quattro elementi (acqua -aria -terra e fuoco),
immobile al centro dell'universo e dai cieli (sfere di etere - materia
incorruttibile) che ruotano intorno alla terra. In queste sfere
concentriche sono incastonati gli astri e tutti i mutamenti che si
verificano sulla terra dipendono dal loro moto (degli astri) il quale è, a
sua volta, determinato dalla sfera estrema, detta "delle stelle fisse" che
contiene l'intero universo. Oltre questa sfera non c'è più movimento e il
cielo astronomico diventa cielo teologico, il luogo dove “sta” Dio.
Aristotele pone a fondamento della sua cosmologia la dottrina dei
quattro elementi (accolta e rielaborata dai filosofi naturalisti
precedenti). Oltre a terra, aria, acqua e fuoco viene introdotto però un
quinto elemento, l'etere, che è la sostanza di cui sono costituiti i cieli.

LA TEORIA DEL MOTO (RETTILINEO E CIRCOLARE) E DEI LUOGHI NATURALI.


Parallelamente alla dottrina degli elementi, Aristotele introduce quella
del moto: ciascun elemento, in base alla sua natura specifica, è dotato di
moto rettilineo che gli appartiene per natura. Verso il basso tendono
terra e acqua, verso l'alto aria e fuoco. Un elemento dovrebbe infatti
occupare il luogo naturale che gli è proprio. Aristotele non si ferma però
alla teoria dei luoghi naturali: i quattro elementi materiali formano corpi
corruttibili e il moto rettilineo che li caratterizza, avendo un inizio e una
fine, è imperfetto. Altro discorso dovrà essere riservato i corpi celesti i
quali sono appunto dotati di moto circolare (che non avendo né un
principio né una fine è perfetto ed eterno). Dunque il moto dei cieli, che
sono eterni e incorruttibili (in quanto composti di un elemento
radicalmente diverso dagli altri quattro, l'etere) non può che essere
eterno, cioè senza inizio e senza fine, dunque circolare.

LA REALTÀ DIVINA DAL PUNTO DI VISTA FISICO. Spostandosi sulla


discussione relativa a ciò che è eterno e perfetto ci si avvicina
nuovamente al discorso metafisico che ha per oggetto la realtà divina.
51
Nella Metafisica Aristotele si era posto infatti alla ricerca di una prima
causa attiva e producente il movimento, ciò che in ultima analisi rende
possibile il passaggio - a livello universale - dalla potenza all'atto.
Occorre quindi indagare la presenza di un Ente, di una realtà che sia
eterna ed immobile, ed allo stesso tempo "movente". In altre parole, per
spiegare un movimento è necessario considerare un principio generale
del moto (di tutti i moti): ma dato che il movimento è, in generale,
perenne, ecco che è allora necessario che tale principio generale del
moto sia completamente innato (con esclusione quindi di ogni
potenzialità: in quanto - se anche a questo livello fosse presente la
potenzialità, sarebbe di nuovo presene il movimento, che è appunto
passaggio dalla potenza all'atto, e si dovrebbe quindi ricorrere all'ipotesi
di un ulteriore principio, più alto, privo di potenzialità e pienamente in
atto).
Naturalmente sorge qui il problema di come qualcosa possa
muovere essenza possedere in sé il movimento: Aristotele risponde con
il concetto di entelèchia (dal greco entelècheia, l’atto perfetto o
realizzazione compiuta del fine – in gr. tèlos): il primo motore movente
esercita una costante attrazione sui corpi celesti dell'universo. Nel libro
XII della Metafisica Aristotele scrive infatti che "il primo movente muove
in quanto amato e muove le altre cose tramite ciò che da esso viene
mosso". Si tratta di un discorso evidentemente correlato a quello fisico:
non dimentichiamo che per Aristotele la fisica è la scienza dell'essere in
movimento.
Dunque possiamo dire che una volta gettate le basi per delineare il
quadro fisico la cosmologia aristotelica non fa altro che declinare tali
principi dal punto di vista dell'illustrazione e della spiegazione delle
caratteristiche generali dell'universo e dei corpi che lo compongono,
nonché, in particolare, delle varie trasformazioni a cui essi vanno
incontro.

IL GEOCENTRISMO. Così Aristotele diventa il padre di una cosmologia


complessa e con poche ombre, che durerà fino a Copernico. Essa, come
abbiamo visto, si basa sulla teoria dei luoghi naturali, ma anche sul
geocentrismo, per cui la terra si trova - immobile - al centro
dell'universo, circondata dalla sfera della luna, che a sua volta è

52
racchiusa da ulteriori sfere concentriche, tutte comprese dalla sfera più
grande: la sfera delle stelle fisse. L'Universo è quindi finito e l'ultimo
cielo astronomico, quello delle stelle fisse, come s’è detto, lascia spazio
al cielo teologico, quello del Primo motore immobile. L'universo
aristotelico si presenta così come un enorme sistema di ingranaggi in cui
ogni sfera è mossa da quella che la racchiude e così via fino alla sfera
delle stelle fisse, alla quale il movimento è impresso direttamente dal
Primo motore immobile. Dio però, come abbiamo visto, affinché possa
imprimere movimento senza essere sua volta in moto, deve essere causa
finale, cioè scopo ultimo cui ciascun componente dell'universo tende:
tutto l'universo tende verso Dio che è così causa immobile del
movimento cosmico.

 Lettura antologica: Il Primo motore immobile come spiegazione del


movimento fisico (in “Antologia di testi aristotelici”).

Delineato così il quadro generale della cosmologia aristotelica,


occorrono però alcune precisazioni

MOTI NATURALI E MOTI VIOLENTI. Nella sfera degli elementi, oltre i moti
naturali, vi sono i moti violenti (cioè contrari ai moti naturali, per esem-
pio della pietra quando è lanciata dal basso verso l'alto). Come si spiega
questo tipo di moto che è contro la naturale pesantezza della pietra che
per sé tende verso il basso? Per Aristotele, poiché non è possibile
un’azione a distanza, ma il motore deve essere sempre unito al mosso (è
ovviamente ignoto il principio d’inerzia, scoperto dalla fisica del ‘600), il
moto della pietra lanciata verso l’alto si spiegherebbe perché la mano,
lanciando la pietra, muove anche l’aria circostante la pietra: ed è
quest’aria mossa dalla mano insieme alla pietra che continuerebbe a
conservare il movimento della pietra per un certo tempo; quando è fini-
ta l’azione portante dell’aria, la pietra cade, cioè segue il suo moto natu-
rale che porta la pietra a raggiungere il suo luogo naturale (in questo ca-
so la terra, giacché nella pietra predomina l’elemento terroso). L’aria

53
svolge così una funzione portante senza la quale la pietra lanciata non
potrebbe proseguire nel suo movimento: questo comporta che non vi sia
il vuoto perché nel vuoto, senza cioè l’azione di un corpo (l’aria) che fa
proseguire il moto della pietra, non potrebbe spiegarsi il moto. Aristote-
le nega così con risolutezza l’esistenza del vuoto: questo non solo non
serve a spiegare il movimento, ma non è neppure pensabile perché
comporterebbe l’ammissione di un luogo o spazio senza un corpo (il
vuoto è definito «luogo privato di corpo»): ma ciò è contraddittorio per-
ché il luogo, per Aristotele, è considerato come il limite che circoscrive
un corpo, cioè il luogo è sempre in rapporto a un corpo (senza corpo non
c’è luogo o spazio, quindi non si può pensare un luogo senza corpo).

IL MOTO PERFETTO E CIRCOLARE DEI CIELI. Assolutamente naturale è il


moto circolare dei cieli, moto perfetto come perfetta è la figura circolare.
I cieli sono concepiti da Aristotele non come tracciati geometrici ma co-
me calotte solide in cui sono inseriti i corpi celesti che noi vediamo. Il
numero delle sfere celesti è per Aristotele di cinquantacinque, numero
richiesto per spiegare i vari complessi moti dei corpi celesti (egli svilup-
pa qui gli insegnamenti di Eudosso). In forza della dottrina dei moti cir-
colari e rettilinei, onde i moti circolari avvengono attorno ad un centro, e
i moti rettilinei sono in relazione a questo stesso centro, Aristotele è
condotto a sostenere che uno è il mondo, composto dalla zona dei quat-
tro elementi e circondato dai cieli, ultimo dei quali è il cielo delle stelle
fisse: questo mondo è necessariamente unico perché unico è il centro
cui tendono i corpi pesanti e unico il centro dei moti circolari dei cieli;
tale centro è costituito dalla Terra; il confine esterno di questo unico
mondo finito è costituito dal cielo delle stelle fisse (contro la dottrina
democritea degli infiniti mondi). Sicché nel mondo fisico ci sono un alto
e un basso assoluti, in quanto esistono corpi leggeri in senso assoluto e
pesanti in senso assoluto; pesante e leggero, lo ripetiamo, sono per Ari-
stotele caratteri essenziali di tutti i corpi.

LA CAUSALITÀ DEI CIELI. Poiché ogni movimento comporta un motore,


anche i cieli hanno ciascuno un proprio motore e tutti i cieli — secondo
complessi meccanismi — concorrono come cause universali in tutti i
processi di generazione e corruzione, in tutti i mutamenti e movimenti

54
che si producono nella sfera degli elementi sensibili; non vi potrebbero
essere movimenti nel mondo sublunare se, accanto alle loro cause pros-
sime, non vi fossero cause universali, i cieli; onde Aristotele può affer-
mare che anche la generazione dell’uomo comporta la cooperazione del-
le cause celesti («l’uomo genera l’uomo insieme con il sole»). È impor-
tante notare che questa dottrina della causalità, che comporta sempre
l’intervento dei cieli, offrirà in età posteriori un fondamento «scientifi-
co» alle dottrine astrologiche. Ascendendo nella scala dei motori e dei
mossi, o mobili, si giunge, come abbiamo già detto, al primo motore, che
muove il cielo delle stelle fisse (primo mobile) e che non è mosso da al-
tro: questo è il Primo motore immobile (si ricordi che per Aristotele il
mondo è finito, e il suo limite ultimo è costituito dalla sfera delle stelle
fisse: al di là di questa non si può andare e quindi è esclusa la possibilità
di un processo all’infinito). Questo motore immobile è l’atto puro (senza
che in esso nulla sia in potenza, altrimenti richiederebbe un altro moto-
re che provocasse il passaggio dalla potenza all’atto) e unico (poiché
senza materia, che è il principio di individuazione); è intelligenza pura,
atto di pensiero che ha per oggetto se stesso; quindi è pensiero di pen-
siero «atto di pensiero che pensa se stesso per tutta l’eternità».

RELAZIONE TRA FISICA E METAFISICA. La fisica coincide così con la filo-


sofia prima, secondo temi svolti in vari libri della Fisica e della Metafisi-
ca. Se la fisica studia «i principi» del movimento, in moltissimi altri scrit-
ti Aristotele si dedica all’esame e alla descrizione di fenomeni particola-
ri: quelli relativi a tutta la sfera degli elementi fra la terra e il fuoco, il
mondo sublunare nel quale rientrano i fenomeni detti meteorologici (fra
questi Aristotele considera le comete e le stelle cadenti che, indicando
mutamento, non possono appartenere alla sfera celeste incorruttibile);
quindi i fenomeni relativi all’acqua e alla terra, ai venti, ai terremoti, ai
processi di generazione e corruzione; fino alla formazione dei metalli e
dei fossili. E ancora Aristotele esamina ampiamente problemi del mondo
vegetale e animale con un notevole tentativo di classificazione e orga-
nizzazione32.

32 Cfr. F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Storia della Filosofia, Laterza, vol. I.

55
IN SINTESI: GLI ELEMENTI DELLA REALTÀ NATURALE E LA DISTINZIONE DI
CIELO E TERRA. Ricapitolando il discorso fatto fin qui, considerata nelle
sue privazioni fondamentali e quindi nelle sue possibilità generalissime,
la «materia prima», il sostrato amorfo di tutta la realtà naturale, si de-
termina nei quattro elementi della regione terrestre e nel quinto ele-
mento della regione celeste. I quattro elementi della regione terrestre
sono quelli della tradizione scientifica dei pensatori naturalisti: la terra,
cioè l’elemento freddo-secco; il fuoco, cioè l’elemento caldo-secco;
l’acqua, cioè l’elemento freddo-umido e l’aria, cioè l’elemento caldo-
umido. Caratteristica di tutti questi elementi è la determinazione del
movimento naturale come un movimento rettilineo tendente verso l’alto
e verso il basso: la terra tende verso il basso e il fuoco verso l’alto; e an-
che l’acqua tende verso il basso, come prova lo scorrere dei fiumi, anche
se meno della terra (un sasso immerso nell’acqua affonda); mentre l’aria
tende verso l’alto, come prova il salire delle bolle d’aria dell’acqua, ma
meno del fuoco. Di qui la definizione del movimento degli elementi come
un movimento naturale, rettilineo, tendente verso l’alto o verso il basso,
cioè verso i «luoghi naturali» dei singoli elementi. Il movimento rettili-
neo non è però un movimento perfetto, perché il suo inizio non coincide
con la sua fine; questa coincidenza si ha invece nel moto circolare, che
può perciò essere eterno, ma che appunto per questo non può essere
proprio dei quattro elementi della regione terrestre, ma casomai di un
quinto e diverso elemento, «più divino»: e questo è appunto l’«etere», di
cui è formata la regione celeste, eterna e incorruttibile, e perciò non
soggetta al divenire e non inquinata da quegli elementi di imperfezione,
di casualità e di spontaneità che sono invece riscontrabili nell’imperfetto
mondo sub-lunare. Si fissa in tal modo un dualismo tra cielo e terra, una
differenza radicale tra le loro nature, che solo l’astronomia moderna, at-
traverso una lunga polemica, riuscirà a confutare.

56
LA BIOLOGIA

È una sezione della Fisica. Aristotele è senza dubbio il più


importante studioso del mondo biologico dell'antichità. La biologia è per
lui una parte della Fisica e rientra in pieno nell'attività di ricerca del
filosofo. Secondo lo Stagirita, infatti, “L'osservazione della natura nella
sua attività costruttiva dona incalcolabili soddisfazioni a chi è capace di
giungere alla conoscenza delle cause e a chi è filosofo per natura.
Sarebbe irrazionale e assurdo trarre godimento dalle immagini dipinte o
modellate delle cose naturali in quanto scorgiamo in esse anche l'abilità
dell'artista, e non amare ancor di più le costruzioni della natura stessa,
sempre supposto che si abbia la capacità di comprenderne le cause. Non
fuggiamo perciò come i fanciulli dallo studio degli esseri più umili! In
ogni oggetto naturale c'è qualcosa che può eccitare la nostra
ammirazione” (Parti degli animali).
La biologia è del resto una scienza in quanto, superando il livello
della semplice descrizione, è ricerca delle cause e, nel suo procedere, è in
grado di accertare anche dal suo punto di vista il finalismo che governa
l'intero mondo naturale. La straordinaria levatura della ricerca
aristotelica anche in questo campo si manifesta soprattutto nella sua
attentissima quanto vasta classificazione degli animali, arrivando a
descrivere ben 581 specie diverse. Tra queste, al vertice della scala
naturale pensata da Aristotele c'è l'uomo che è il più complesso ma
anche più perfetto tra gli animali, in quanto l'unico ad essere dotato di
una facoltà del tutto speciale: la conoscenza.

LE RICERCHE METEOROLOGICHE E BIOLOGICHE. Storicamente di grande ri-


lievo sono le indagini concrete sulla natura, soprattutto nel campo della
biologia sperimentale, che Aristotele compì con i suoi discepoli nella più
matura età del suo insegnamento nel Liceo, e in cui è più lontana l’eco
dell’originario platonismo: le ricerche sui fenomeni meteorologici, sulla
genetica, sull’embriologia, sull’anatomia e sulla fisiologia degli animali
rivelano un interesse sperimentale, un’attenzione al particolare e al con-
57
creto, uno spirito sistematico nel reperimento di un materiale empirico
sterminato, che - anche al di là dei risultati raggiunti (per esempio, la
descrizione dello sviluppo dell’embrione del pulcino e dello stomaco dei
ruminanti, il riconoscimento che i cetacei sono mammiferi, ecc.) e degli
errori (per esempio, la convinzione che i polmoni servissero a raffred-
dare il sangue, che il cuore e non il cervello fosse la sede della sensibilità,
ecc.) - sono documento di una nuova mentalità scientifica che, per così
dire, si affianca e si sviluppa parallelamente alla compresente concezio-
ne platonizzante e finalistica delle forme (cioè i generi e le specie) diver-
se qualitativamente e non suscettibili di trasformazione.

58
LA PSICOLOGIA

Sempre all'interno della Fisica, e a sua vota inserita nella Biologia,


troviamo la Psicologia - o dottrina dell'anima, in greco psyché. L'anima è
infatti per Aristotele il principio della vita (bios). Nel trattato Sull’anima
il Filosofo spiega che tutti gli esseri viventi hanno come forma e causa
del loro movimento un’anima (psyché): nelle piante essa è principio
delle funzioni vegetative (nutrizione e riproduzione) e si chiama anima
vegetativa; negli animali è principio anche delle funzioni sensitive
(percezione, desiderio e movimento locale) ed è l’anima sensitiva; negli
uomini è principio anche delle funzioni intellettive (pensiero e volontà)
ed è l’anima intellettiva.

LA CONOSCENZA. La conoscenza umana ha inizio sempre dalla


percezione delle forme sensibili: all’interno di queste l’intelletto scopre
le forme, cioè le essenze, le strutture intelligibili dei vari enti, mediante
un processo complesso dal particolare al generale, chiamato
“induzione”. L’intelletto prima di apprendere le forme è in potenza
rispetto a esse, ma nel momento in cui le apprende si identifica in atto
con esse. Chi fa passare l’intelletto umano dalla potenza all’atto, come
vedremo poco più avanti, è un “intelletto attivo”, in atto da sempre, che
Aristotele dichiara immortale, anzi eterno, ma non identifica
ulteriormente.

L’ANIMA FORMA DEL CORPO. L'anima è per Aristotele la forma del corpo
(si dovrà precisare: di un corpo naturale, cioè di un corpo che possiede
in sé un principio di movimento). L'anima non è quindi un corpo, ma in
un corpo essa è la forma del corpo. L'anima è così il principio degli esseri
viventi. Per Aristotele l'anima e il corpo non devono essere considerati
come due sostanze a sé, unite in mondo accidentale, bensì come
costituenti una sostanza unitaria, il corpo vivente che è il sìnolo di
materia (corpo) e forma (anima). Ma quali sono le funzioni fondamentali
dell'anima? Sono quelle tre che abbiamo già visto: quella vegetativa (che

59
presiede al nutrimento, alla crescita e alla riproduzione, funzioni che
sono comuni a tutti gli esseri viventi), quella sensitiva (proprio solo degli
animali - quindi escluso le piante - in quanto presiede alla percezione e
al movimento); quella intellettiva (propria soltanto dell'uomo, in quanto
unico animale dotato di funzioni intellettive). Tra queste facoltà c'è
evidentemente un ordine gerarchico.

L’INTELLETTO UMANO – SENSAZIONE E IMMAGINAZIONE. Tra le varie


facoltà dell'anima lo studio della facoltà intellettiva assume particolare
importanza: essa va strettamente legata alla capacità sensitiva. Per
Aristotele intelletto e sensazione sono infatti intimamente connessi,
perché la conoscenza inizia sempre dai sensi grazie al passaggio dalla
potenza all'atto: la facoltà della sensazione è potenza che si traduce in
atto quando si avverte una sensazione. Ma come avviene la conoscenza
che si sviluppa a partire dalla sensazione? Così come ognuno dei cinque
sensi ha la potenza di percepire, allo stesso modo ogni oggetto sensibile
ha la possibilità di essere percepito: dunque si ha percezione
nell'incontro tra i sensi e gli oggetti sensibili, cioè nel momento in cui
entrambi passano dalla potenza (di percepire e di essere percepiti)
all'atto. Le sensazioni formano nel soggetto senziente delle immagini
che sono oggetto di una specifica facoltà: l'immaginazione, chiamata
anche fantasia. Le immagini così acquisite nella fantasia entrano nella
memoria e sono disponibili per la funzione intellettiva che ricava da
esse le forme intelligibili, ormai sganciate dal mondo degli oggetti
sensibili, dalle quali vengono estratti gli universali.

DISTINZIONE TRA INTELLETTO ATTIVO E INTELLETTO PASSIVO. Per chiarire


come avviene la conoscenza attraverso l’intelletto Aristotele introduce
la nozione di intelletto attivo o produttivo: l'intelletto passivo
corrisponde alla possibilità di conoscere ed elaborare i concetti, mentre
la conoscenza effettiva avviene soltanto tramite l'intelletto attivo, che è
in grado di cogliere l'universale. Già l'immaginazione perviene ad una
immagine generale, eliminando dalle immagini particolari ciò che essere
hanno di particolare, ma questa immagine generale resta comunque
legata ai contenuti sensibili da cui è derivata. All'universale perviene
invece soltanto l'intelletto. Sulla base dei dati sensibili, delle immagini
60
prodotte dalla fantasia e conservate nella memoria, esso opera un
processo di astrazione, ossia coglie le forme o essenze intelligibili come
separate, astratte dalla materia. Il rapporto tra intelletto potenziale e
intelletto attuale viene spiegata in questo modo: l'intelletto è prima di
tutto capacità, potenza di conoscere le pure forme; le forme sono
contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini della fantasia.
L'intelletto in potenza deve quindi passare all'atto conoscendo
effettivamente le forme e le forme contenute in potenza nelle immagini
devono passare all'atto diventando concetti effettivamente conosciuti. In
base principio della anteriorità dell'atto sulla potenza, ciò può avvenire
solo presupponendo un atto: ciò significa che oltre all'intelletto
potenziale o possibile, deve esserci un intelletto attuale o attivo, ovvero
una facoltà che contiene in atto tutte le forme intelligibili. Qual è la
differenza? L’intelletto passivo muore insieme al corpo, mentre quello
attivo sopravvive.

61
LA MATEMATICA

Come aveva messo in rilievo Giovanni Reale, alle scienze matemati-


che Aristotele non dedicò speciali attenzioni: per queste egli nutriva in-
fatti interessi minori rispetto a Platone, il quale delle matematiche aveva
fatto quasi una via di accesso obbligata alla metafisica delle Idee33. Tut-
tavia lo Stagirita anche in questo ambito cercò di offrire un suo contribu-
to distintivo nel mostrare quale sia lo statuto ontologico degli oggetti di
cui si occupano le scienze matematiche, diversificandosi almeno in parte
da Platone, riducendo considerevolmente la portata della tesi degli «enti
matematici intermedi», e in particolare non considerandoli come auto-
nomi. Platone e molti Platonici avevano inteso i numeri e gli oggetti ma-
tematici in genere come entità ideali separate dai sensibili, poste in una
sorta di livello intermedio rispetto alle idee supreme. Aristotele cerca di
confutare questa concezione chiedendosi: che cosa sono, allora, i «nu-
meri» e gli «enti matematico-geometrici», se non sono «enti intelligibili
dotati di sussistenza propria»? Lo Stagirita risolve il problema con la se-
guente argomentazione: gli oggetti matematici non sono né entità «reali
sussistenti in sé e per sé» e separati dalla realtà sensibile, né, tantomeno,
irreali. Essi sussistono di fatto nelle cose sensibili, sono potenzialmente
separabili, e la nostra ragione attua tale separazione mediante
l’«astrazione»34. Essi sono, dunque, enti che sussistono nella realtà non
di per sé separati, ma che noi separiamo mediante la ragione. In ogni ca-
so, non sussistono solamente nella nostra mente in virtù della nostra
capacità di «astrazione», ma anche nelle cose come loro proprietà onto-
logiche35: le cose sensibili – spiega Reale – hanno molteplici proprietà e
determinazioni. Noi possiamo considerare tutte queste proprietà nel lo-
ro insieme, ma possiamo altresì fissare l’attenzione su alcune di esse,
prescindendo dalle altre. Così, per esempio, siamo in grado di considera-
re le cose sensibili solamente in quanto hanno la caratteristica di essere
in movimento, prescindendo da tutto il resto; ma non per questo — ov-

33 Cfr. G. Reale, Aristotele e il primo peripato, Bompiani, Milano, pag. 143 e seguenti.
34 Cfr. G. Reale, Aristotele e il primo peripato, Bompiani, Milano, pag. 144.
35 G. Reale indica a sostegno di questa affermazione il Capitolo 3 del Libro XIII della Meta-

fisica, 1078 a 25 sgg.

62
viamente — è necessario che esista il movimento come realtà in sé e per
sé separata dal resto. Basta, appunto, la nostra facoltà di astrarre, e la
capacità che la nostra mente ha di considerare quella caratteristica tipi-
ca delle cose sensibili a prescindere da tutte le altre. Tuttavia, va detto
che quella proprietà nelle cose effettivamente sussiste, e quindi ha una
sua precisa realtà ontologica. Analogamente, seguendo questo stesso
procedimento, possiamo prescindere anche dal movimento, e riguarda-
re le cose sensibili solamente in quanto corpi a tre dimensioni. E poi, an-
cora, procedendo nel processo di «astrazione», considerare le cose solo
secondo due dimensioni, cioè come superfici, prescindendo da tutto il
resto. Ulteriormente, noi possiamo stimare le cose solo come lunghezze
e poi come unità indivisibili, aventi però posizione nello spazio, ossia so-
lo come punti. Infine, siamo in grado di considerare le cose anche come
unità pure, entità indivisibili e senza posizione spaziale, ossia come uni-
tà numeriche. È chiaro, per conseguenza, che gli oggetti della geometria
e dell’aritmetica hanno il loro fondamento nelle caratteristiche delle co-
se sensibili e che, dunque, esistono come proprietà ontologiche delle co-
se. Ma nel modo in cui li studiano i geometri e i matematici esistono per
via di «astrazione». Ecco il testo più significativo in merito:

«Pertanto, poiché si può dire in generale e con verità che non solo le
cose separate esistono, ma che anche le cose non-separate esistono (per
esempio si può dire che il mobile esiste), così si potrà dire, in generale e
con verità, anche che gli oggetti matematici esistono, e proprio con quei ca-
ratteri di cui parlano i matematici. E come si può dire, in generale e con ve-
rità, che anche le altre scienze riguardano non ciò che è accidente del loro
oggetto (per esempio non bianco, se il bianco è sano e se la scienza in que-
stione ha come oggetto il sano), ma che riguardano l’oggetto che è peculia-
re a ciascuna di esse (per esempio il sano, se la scienza in questione ha co-
me oggetto il sano; e l’uomo, se la scienza in questione ha come oggetto
l’uomo), così si dovrà dire anche per la geometria: anche se gli oggetti di
cui essa tratta hanno la caratteristica di essere sensibili, essa non li consi-
dera tuttavia in quanto sensibili. Così le scienze matematiche non saranno
scienze di cose sensibili, ma non saranno neppure scienze di altre cose
separate dai sensibili. Molti attributi competono di per sé alle cose, in
quanto ciascuno di questi attributi inerisce ad esse: ci sono, per esempio,
caratteristiche che sono peculiari dell’animale in quanto femmina, oppure
in quanto maschio, anche se non esistono una femmina o un maschio
63
quanto maschio, anche se non esistono una femmina o un maschio separati
dall’animale. Pertanto ci saranno, anche, caratteristiche peculiari delle cose
considerate solamente in quanto lunghezze e superfici [...]. Il ragionamento
fatto sopra varrà anche per l’armonica e per l’ottica: infatti né l’una né l’al-
tra considerano il proprio oggetto come vista o come suono, ma lo conside-
rano in quanto linee e in quanto numeri: questi, infatti, sono proprietà pe-
culiari di quelle. E la stessa cosa dicasi anche per la meccanica»36.

36 Aristotele, Metafisica, XIII, 3, 1077 b 3 1-1078 a 17.

64
L'ETICA

Nella classificazione delle scienze Aristotele colloca la filosofia prati-


ca, ovvero l'Etica, insieme alla Politica e alla Matematica, tra le scienze
pratiche. In realtà la filosofia pratica è chiamata da Aristotele complessi-
vamente “scienza politica”, in quanto il bene della pólis comprende quel-
lo del singolo individuo. Essa contiene dunque anche l’etica, che è la par-
te dedicata al bene del singolo. Secondo alcuni studiosi anche in questo
campo le posizioni di Aristotele si sono evolute da un iniziale rigorismo
platonico ad uno sguardo più comprensivo, via via più attento e consa-
pevole delle esigenze della vita mondana e delle passioni umane. Dell'e-
tica lo Stagirita tratta in tre diverse opere: Etica Eudemia, Grande Etica,
Etica a Nicomaco. Quest'ultima, sia per sistematicità che per struttura
espositiva, appare la più completa e quindi la più adatta per comprende-
re la posizione aristotelica.

ETICA DEL SINGOLO ED ETICA PUBBLICA COINCIDONO. Prima di tutto è bene


precisare che per Aristotele, come già per Platone, "identico è il bene per
il singolo e per la città": non c'è quindi alcuna scissione tra morale priva-
ta e politica che vengono piuttosto a coincidere. Anzi: proprio per questo
"sembra più importante e più perfetto scegliere e difendere il bene della
città; certo esso è desiderabile anche quando riguarda una singola per-
sona, ma è più bello e più divino se riguarda un popolo e le città" (Etica
Nicomachea, I, 2). In questo senso, l'etica converge in una dimensione
politica, alla quale appartiene dunque la ricerca del bene supremo. Ma
qual è, da questo punto di vista, il bene supremo per l'uomo?

IL BENE SUPREMO PER L’UOMO: LA FELICITÀ. Sempre nell'Etica Nicoma-


chea Aristotele sostiene che lo scopo della vita umana è il raggiungimen-
to della felicità. La felicità si distingue da tutti gli altri fini o scopi della
vita in quanto costituisce appunto il fine ultimo: in altre parole, in quan-
to viene ricercata per se stessa e non come mezzo per ottenere qualco-
s'altro. Ancora nell'Etica Nicomachea Aristotele rileva che tutte le azioni
umane hanno come fine un bene specifico. Le azioni però sono varie e
65
molteplici e quindi sono molteplici anche i fini o i beni, in vista dei quali
le azioni vengono compiute. Ma tutti i singoli beni sono tali in quanto
connessi, in grado diverso, a un unico bene supremo, in modo tale da co-
stituire dei mezzi diversi per il raggiungimento di un unico fine. Ora,
questo bene supremo che è fine (e non mezzo per ottenere qualcos'al-
tro) è la felicità.
Se però è vero che il bene è il fine di ogni agire, occorre allora di-
stinguere tra fini che vengono perseguiti come mezzi per il consegui-
mento di un fine ulteriore e invece quel fine che non rinvia ad altro e che
perciò si costituisce come fine ultimo.

IL SAPIENTE E LA VITA TEORETICA. La felicità è il fine supremo dell'uomo


e consiste nella piena realizzazione della propria natura. Dato che l'es-
senza dell'uomo sta nell'essere razionale, ne consegue che la felicità in
generale consiste per lui nella realizzazione della dimensione razionale.
La vita teoretica (bìos theoretikòs) del sapiente è per Aristotele quella in
assoluto più degna, portatrice della massima felicità, la felicità mentale.
Per lo Stagirita, in altre parole, la felicità non corrisponde a uno stato di
beatitudine passiva, ma piuttosto ad una vita attiva37. Per l'uomo, in
quanto animale razionale, la felicità consiste nell'esercizio virtuoso (che
per Aristotele significa "eccellente") della ragione. La felicità è dunque
"attività dell'anima secondo virtù" (o eccellenza).

VIRTÙ ETICHE E VIRTÙ DIANOETICHE. Dopo aver mostrato che il bene più
grande dell’uomo, la felicità, consiste nell’esercizio completo della fun-
zione che gli più è propria, ossia consiste nella virtù, Aristotele prosegue
la sua analisi distinguendo tra virtù etiche, che riguardano le funzioni
della parte non razionale dell’anima e consistono nel giusto mezzo tra
due vizi opposti (per esempio: il coraggio, giusto mezzo tra viltà e teme-
rarietà; la generosità, giusto mezzo tra avarizia e prodigalità), e virtù
dianoetiche (dal greco dianóesis: pensiero), che riguardano le funzioni
della parte razionale e sono fondamentalmente la saggezza e la sapienza.
La prudenza (o saggezza), è la virtù dianoetica che rende possibili le al-
tre virtù etiche, individuando nelle situazioni particolari il giusto mezzo,

37 Cfr. G. Cambiano, M. Mori, Le stelle di Talete, Laterza, Bari, pag. 276

66
ossia ciò che si deve fare; la sapienza invece consiste nell’esercizio della
conoscenza come fine a se stessa e in essa è riposta la felicità suprema.

 Lettura antologica: L’etica aristotelica (in “Antologia critica”).

67
LA POLITICA

L’UOMO È ANIMALE POLITICO. Per Aristotele l'uomo oltre che animale


razionale è anche animale sociale (anzi "l'uomo - scrive Aristotele nella
Politica - è per natura animale politico" (Politica, III, 6, 1278b 19-21):
cioè desidera per natura stare insieme ad altre persone, e quindi a orga-
nizzarsi in gruppi, villaggi, città (pòlis). Appartiene alla natura dell'uomo
vivere all'interno della polis: questa non è Aristotele il risultato di un
patto o di un accordo convenzionale fra gli uomini. La polis è il risultato
di una tendenza naturale, propria della natura umana. Gruppi, villaggi e
città sono però il risultato dell'unione di più "cellule minime" della vita
consociata, che Aristotele individua nella famiglia. La prima cellula so-
ciale è la famiglia, vista da Aristotele come l'unione dell'uomo e della
donna, in un rapporto che però non è paritario, in quanto per natura, se-
condo Aristotele, il maschio è migliore della femmina ed è quindi a lui
che spetta il comando (Politica, I, v 1254b). La famiglia ha come scopo la
procreazione e il soddisfacimento dei bisogni elementari. A tale scopo si
avvale del lavoro degli schiavi38.

FAMIGLIE, VILLAGGIO, CITTÀ-STATO. Le famiglie si associano quindi tra


loro dando origine al villaggio. L'unione di più villaggi dà origine allo
Stato: quest'ultimo si caratterizza per l'autosufficienza e ha come scopo
il bene degli individui che ne fanno parte. Ora, "pur sapendo dell'esi-
stenza di grandi regni (come quello persiano e macedone) e delle lotte
civili che spesso sconvolgevano le città stato greche, Aristotele sostiene
che la polis sia la forma naturale di società politica. Per Aristotele, infatti,
la polis rappresenta la realizzazione più compiuta e perfetta di ogni co-
munità umana, l'unica veramente adeguata alla natura dell'uomo. Pro-
prio per questo motivo lo Stagirita si dedica con particolare attenzione

38È nota la posizione di Aristotele in merito: per lo Stagirita ci sono uomini che per natura
sono destinati a essere schiavi. Si tratta di quelle persone che non sono completamente
maturate dal punto di vista razionale, cioè dal punto di vista del carattere essenziale pro-
prio della natura umana.

68
all’analisi delle principali caratteristiche della polis e della sua organiz-
zazione.

L’ORGANIZZAZIONE DELLA POLIS. Come abbiamo visto la Aristotele de-


scrive la polis come una specie di società perfetta, del tutto autosuffi-
ciente, nella quale l’uomo può realizzare il vivere bene, la felicità. Essa è
così costituita dall’unione di più famiglie e villaggi ed è a sua volta una
società naturale, come la famiglia, perché l’uomo è per natura un anima-
le politico, cioè fatto per vivere nella polis. Così come la famiglia è una
piccola comunità di disuguali, allo stesso modo la disuguaglianza si ri-
produce nella polis: considerata sotto il profilo degli abitanti la città è
infatti composta di persone che non stanno sullo stesso piano giuridico
per quanto concerne i diritti, mentre tale distinzione viene a cadere se si
guarda alla polis sotto il rifilo dei cittadini maschi liberi e, appunto, poli-
ticamente attivi: gli individui che possono essere definiti cittadini (che
partecipano cioè alle funzioni politiche e giudiziarie) sono infatti solo i
maschi liberi e oriundi. La polis invece è una società di liberi e uguali (i
capifamiglia), perciò deve avere un tipo di governo diverso da quello che
è proprio della famiglia.
L’ordine delle funzioni interne alla polis, compresa quella del gover-
no supremo, è stabilito dal modello di costituzione adottato, che può es-
sere monarchica (governo di uno), oligarchica (governo di pochi, la cui
forma migliore è l’aristocrazia: il governo di migliori) o democratica (go-
verno del popolo, cioè degli uomini liberi).

LA MIGLIOR FORMA DI GOVERNO: LA POLITEIA. Per lo Stagirita la costitu-


zione migliore è quella intermedia fra aristocrazia (governo dei migliori)
e democrazia (libero accesso alle cariche pubbliche da parte di tutti i cit-
tadini), detta politéia (cioè “costituzione per eccellenza”), in cui la mag-
gior parte dei cittadini sono in una situazione media, cioè non sono né
troppo ricchi né troppo poveri. Nella costituzione migliore i cittadini go-
vernano a turno, per essere poi liberi di dedicarsi alle proprie attività ed
in particolare alla forma più alta dell’agire umano, l’unica in grado di ga-
rantire felicità: la vita teoretica.

69
CONCLUSIONI. Da quello che si è visto, si può ben comprendere come
per Aristotele il tema della politica sia intimamente connesso con quello
dell'etica: "identico è il bene per il singolo e per la città", come abbiamo
ricordato. Nella Politica lo Stagirita dichiara che il fine dello Stato è del
tutto analogo a quello di ciascun individuo: coincide con la piena realiz-
zazione di sé. Lo Stato ha un'origine naturale in quanto l'uomo è per na-
tura un animale politico, ma è allo stesso tempo il risultato storico di
forme crescenti di aggregazione che partono dalla famiglia e passano
per il villaggio fino alla città-stato (polis). Per completare il quadro teo-
rico, Aristotele propone anche una classificazione delle varie forme di
governo, suddivise a seconda del numero di coloro che esercitano il po-
tere (uno, pochi, molti). Per ogni caso si danno forme corrette e forme
dannose: la correttezza della forma di governo è data dall'esercizio del
potere per il bene comune. Tra tutte le forme di governo la migliore è la
politeia, che ha in comune con la democrazia la partecipazione di tutti i
cittadini e con l'aristocrazia il principio che solo i migliori debbano esse-
re chiamati a ricoprire, a turno, le cariche di governo.

 Lettura antologica: “Lo Stato e il cittadino nella Politica di


Aristotele” (In “Antologia critica”).

 Lettura antologica: “La scienza politica in Aristotele” (In “Antolo-


gia critica”).

70
LA LOGICA

Come abbiamo visto nella sezione dedicata alla classificazione delle


scienze istituita da Aristotele, la Logica non compare né fra le scienze te-
oretiche né fra quelle pratiche. Come osserva F. Adorno, "nel quadro del-
le scienze aristoteliche non trova posto quella disciplina che a partire
dagli Stoici sarà chiamata «logica» e che Aristotele chiama analitica, per-
ché risolve il discorso nei suoi elementi primi e semplici. Essa per Aristo-
tele, più che una scienza accanto alle altre, è lo strumento (òrganon) che
deve rendere possibili ragionamenti corretti in tutti gli ambiti scientifi-
ci”39. Le opere di logica, raccolte sistemate nell'edizione di Andronico da
Rodi appunto sotto il titolo di Organon comprendono: Le Categorie, Del-
l'interpretazione, Analitici primi, Analitici secondi, Topici, Confutazione
sofistiche.

LA LOGICA COME FORMA GENERALE DEGLI ARGOMENTI VALIDI. Dopo aver


ricordato che "logica" non è un termine aristotelico ma piuttosto degli
Stoici (il Filosofo, come abbiamo detto, per designare questa disciplina
preferiva usare piuttosto il termine analitica, distinta ulteriormente in
“dialettica”, o scienza dell'argomentazione discorsiva e probabile, e in "a-
podittica", o scienza dell'argomentazione dimostrativa), si deve notare
che diversamente dalle altre scienze la logica non si occupa di un qual-
che aspetto della realtà, ma piuttosto della forma generale dei ragiona-
menti validi. Per questo motivo Aristotele è giustamente considerato il
padre della logica formale: la logica aristotelica per prima non si occupa
del contenuto del discorso dimostrativo, ma della sua struttura interna,
della sua forma. Tuttavia è bene ricordare che in Aristotele c'è una stret-
ta corrispondenza tra piano del pensiero e piano dell'essere (realtà), per
cui piano logico e piano ontologico sono per il Filosofo nettamente corre-
lati e strettamente connessi.

39 Cfr. F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, Laterza, pag. 83

71
I DISCORSI APOFANTICI. La logica si occupa dei discorsi apofantici, ossia
solo dei discorsi che affermano o negano qualcosa, in quanto sono gli
unici ad essere veri o falsi. Altri modelli di discorsi, come per esempio
comandi ("studia!"), le preghiere ("ah se studiassi!"), e desideri ("vorrei
studiare") ecc. di per sé non sono né veri né falsi e come tali non sono
oggetto di studio della logica bensì, come vedremo più avanti, della reto-
rica o della poetica. Il dominio del sapere scientifico, invece, è quello del-
la verità in quanto opposta alla falsità.

ANALISI DELLE PROPOSIZIONI APOFANTICHE. Nelle proposizioni


apofantiche - le uniche ad entrare nel discorso scientifico - ciò di cui si
afferma o si nega qualcosa è il soggetto, mentre ciò che si afferma o si
nega di esso è il predicato. Soggetto e predicato sono dunque i termini
delle proposizioni apofantiche.
Dobbiamo poi suddividere le proposizioni apofantiche in base a due
variabili: secondo la quantità [e in questo caso possiamo avere
proposizioni universali o particolari: esempio tutti gli uomini sono
mortali (universale) o qualche uomo filosofo (particolare)], secondo la
qualità (e in questo caso possiamo avere proposizioni affermative o
negative)40.
Abbiamo così quattro possibili tipologie:

universale affermativa: es. “tutti i corvi sono neri”. (A)


universale negativo: es. “nessun coro è nero”. (E)
particolare affermativa: “alcuni corvi sono neri”. (I)
particolare negativa: “alcuni corvi non sono neri”. (O)

Se coordiniamo i quattro giudizi tra loro otteniamo così il famoso


“quadrato aristotelico”:

40 Gli esempi che seguono sono stati tratti da E. Ruffaldi, P. Carelli, U. Nicola, Il pensiero

plurale, vol. I, Loescher, pag. 306.

72
A E

I O

RIEPILOGANDO: COME POSSONO ESSERE I GIUDIZI41:

A = universale affermativo
E = universale negativo
I = particolare affermativo
O = particolare negativo

RELAZIONI LOGICHE TRA LE PROPOSIZIONI. Universali affermative e Uni-


versali negative sono tra loro contrarie, in quanto si escludono a vicenda

41 Che cosa sono queste strane lettere? Il segreto è presto svelato: i filosofi medievali esco-

gitarono un sistema per memorizzare queste distinzioni costruendo quello che passerà
alla storia come “quadrato aristotelico”, aiutandosi con l’identificazione di ogni giudizio
tramite una vocale: gli universali affermativi con “A” e i particolari affermativi con “I” (so-
no le prime due vocali del verbo latino “adfirmo”), gli universali negativi con la “E” e i par-
ticolari negativi con la “O” (sono le vocali del verbo latino “nego”).

73
(se una è vera dev’essere falsa l’altra e viceversa). Particolari affermative
e particolari negative sono tra loro subcontrarie: possono essere en-
trambe vere ma non possono essere entrambe false. Universale afferma-
tiva e Particolare affermativa, così come Universale negativa e Particola-
re negativa sono tra loro subalterne: la verità della particolare dipende
dalla verità di quella universale, ma non viceversa (se è vero che “tutti i
corvi sono neri” è vero anche che “alcuni corvi sono neri”, ma il fatto che
“alcuni corvi sono neri” non implica necessariamente che “tutti i corvi
sono neri”). Universale affermativa e Particolare negativa, così come Uni-
versale negativa e Particolare affermativa sono tra loro contraddittorie:
si escludono cioè a vicenda ma non possono essere entrambe false.

Riepiloghiamo nuovamente il tutto in questo schema:

A – E = contrarie
A – I; E – O = subalterne
I-O = subcontrarie
I-E; A-O = contraddittorie

IL SILLOGISMO. Abbiamo detto che la logica aristotelica può essere


definita "formale" in quanto si occupa della forma delle argomentazioni e
non del loro contenuto specifico. Coerentemente a questa impostazione,
Aristotele elabora il "sillogismo", che elenca e sistema le forme del
ragionamento. Il termine sylloghismòs significa, letteralmente, discorso
congiunto, ovvero ragionamento concatenato e mostra la forma del
ragionamento deduttivo in base al quale, date determinate premesse, è
possibile ricavare una conclusione necessaria.

L’ANALITICA: IL SILLOGISMO E LA DOTTRINA DELLA DIMOSTRAZIONE. Siamo


nel terzo scritto dell'Organon (costituito dagli Analitici Primi). Qui lo
Stagirita qualifica come analitico ogni tipo di ragionamento che sia
capace di trarre dimostrativamente determinate conclusioni partendo
da determinate premesse, ed indica con "analitica" la “dottrina della
dimostrazione”. Ecco allora che lo strumento di pensiero proprio del
ragionamento analitico viene individuato da Aristotele proprio nel

74
sillogismo, la cui trattazione costituisce l'argomento fondamentale degli
Analitici Primi. Il sillogismo è una connessione tra tre proposizioni
costruita in maniera tale che, data la verità di due proposizioni iniziali
(premesse), ne derivi con assoluta necessità la verità di una terza
proposizione (conclusione). Ne deriva che non c'è un legame necessario
tra verità di un sillogismo e sua correttezza formale: in altre parole un
sillogismo può essere formalmente corretto ma falso se guardiamo alla
realtà.

Per ragioni di sintesi e complessità del discorso noi ci soffermeremo


solo sul più celebre delle figure sillogistiche individuate da Aristotele,
detto "sillogismo di prima figura". Cominciamo con un esempio:

1) “tutti gli animali sono mortali” (premessa maggiore)


2) “tutti gli uomini sono animali” (premessa minore)
_______________________________________________________________
3) “tutti gli uomini sono mortali” (conclusione necessaria)

La forma, cioè la struttura di questo sillogismo è la seguente:

tutti i X sono Y
tutti i Z sono X
________________________________________________________________
3) tutti Z sono Y

Si deve notare che nella premessa maggiore compare un termine che


è presente nella premessa minore (nell'esempio citato "mortali"): tale
termine, detto anche "termine medio" è di fondamentale importanza, in
quanto consente di collegare fra loro nella conclusione i termini che
nelle premesse sono separati. Da qui si capisce che la proprietà del
sillogismo consiste nel trasmettere correttamente la verità delle
premesse alla conclusione. Come abbiamo accennato, infatti, se le
premesse sono vere, anche la conclusione sarà necessariamente vera. Si
deve anche precisare che non tutti gli altri modi sillogistici (che qui per

75
ragioni di spazio e difficoltà non vedremo) sono validi, tali cioè che la
conclusione deriva dalle premesse in modo necessario. Non essendo
possibile condurre qui un'analisi particolareggiata di tutte le forme del
sillogismo aristotelico, dovremo limitarci a ricordare che la validità
formale di un sillogismo (a prescindere dalla sua tipologia specifica)
garantisce soltanto ed esclusivamente la correttezza della sua
conclusione, ma non la sua verità “reale”. Il sillogismo è valido se segue
la procedura corretta, ma è vero solo se le sue premesse sono vere. Un
sillogismo, per esempio, in cui si afferma che 1) ogni animale è
immortale e 2) ogni uomo è animale e dunque 3) ogni uomo è
immortale, è formalmente valido ma palesemente non-vero. D’altra
parte Aristotele era per primo ben consapevole che la validità di un
sillogismo non comporta necessariamente la sua verità nel mondo
“reale”.
Così, come abbiamo detto, il sillogismo conduce ad un'analisi
strutturale della forma dell'argomentazione a prescindere dal suo
contenuto di verità e di falsità: ecco perché nello studio formale del
sillogismo è preferibile utilizzare simboli letterari al posto dei termini.
Come si è visto: X, Y, etc.

L’IMPORTANZA DELLE PREMESSE. DEDUZIONE E INDUZIONE. Da quanto sia


detto emerge che il problema principale consiste nel formulare
premesse vere: avremo in questo modo un sillogismo non soltanto
formalmente corretto, ma anche concretamente vero. Ma in che modo si
arriva a formulare una premessa vera? Abbiamo solo due possibilità:
deduzione e induzione. Possiamo trovare premesse vere deducendole con
un ulteriore sillogismo da altre conclusioni che conosciamo come vere
(in quanto derivanti da sillogismi più semplici che partono da premesse
vere) oppure tramite l'induzione di casi particolari. L’induzione è però
un metodo più problematico. Il problema del metodo induttivo,
utilizzato da Aristotele soprattutto nel campo delle scienze naturali,
consiste nella sua mancanza di necessità: le sue conclusioni sono infatti
dipendenti dal numero e dalla tipologia di esperienze condotte fino ad
un dato momento (a meno che non si restringa il campo e non si tratti di
“induzione completa”).

76
IL SILLOGISMO SCIENTIFICO E QUELLO DIALETTICO. Se la verità del
sillogismo deriva dalla verità delle premesse è chiaro che solo il
sillogismo le cui premesse sono accertate come vere può essere
considerato come sillogismo scientifico. Il sillogismo per essere
scientifico deve dunque avere delle premesse vere o - in alternativa - le
premesse devono essere costituite da conclusioni di un altro sillogismo
scientifico. Aristotele divide così il sillogismo scientifico dal sillogismo
dialettico: è questo il sillogismo in cui le premesse sono opinioni e come
tali soltanto probabili ("probabile" è ciò che appare accettabile a tutti o
ai più o ai saggi e tra questi o a tutti o ai più o a quelli più noti e illustri").
In altre parole la diversità delle premesse determina la diversità dei
sillogismi: il sillogismo scientifico prende le mosse da premesse e
principi veri e non-confutabili e giunge quindi a conclusioni
inconfutabili e vere; il sillogismo dialettico prende invece le mosse da
premesse probabili e conclude quindi nel probabile.

I PRINCIPI FONDAMENTALE DELLA LOGICA. Aristotele ritiene che ogni


discorso, per essere sensato, debba rispettare alcuni criteri
fondamentali: si tratta dei tre principi fondamentali della logica che la
tradizione ha codificato come principio di identità, di non-contraddizione
e del terzo-escluso. Essi sono alla base di qualsiasi forma di
comunicazione dotata di senso ed in particolare della dimostrazione
scientifica.

Il principio di identità (anche se mai chiamato così né esplicitamente


enunciato da Aristotele) è alla base dell'intera logica aristotelica e può
essere formulato in questo modo: ogni ente è identico a se stesso.

Il principio di non-contraddizione nega che di uno stesso ente si


possa affermare e contemporaneamente negare una determinata cosa,
nello stesso tempo e sotto il medesimo rispetto: non è possibile che un
uno stesso attributo appartenga e non appartenga nello stesso tempo
nello stesso contesto a una medesima cosa. Non possiamo affermare
che, nello stesso tempo e dallo stesso punto di vista, Socrate è vivo e
non-vivo.

77
Il principio del terzo escluso, detto anche "tertium non datur" (non si
dà una terza possibilità) indica che oltre all'affermazione e alla
negazione non si dà una terza possibilità (o "è" o "non è": non può
"essere" e "non-essere" nello stesso tempo): o Socrate è vivo o non è
vivo.

 Lettura antologica: La logica formale e il sillogismo scientifico (in


“Antologia critica”).

78
LA RETORICA

Sempre in riferimento al quadro generale della classificazione ari-


stotelica vediamo che retorica e poetica sono collocate tra le scienze
produttive (scienze poietiche). Certamente l'ambito della produzione
umana è molto vasto: lo Stagirita si limita qui a prendere in considera-
zione la produzione di discorsi persuasivi (Retorica) e la produzione poe-
tica (Poetica).

RETORICA COME TECNICA DELLA PERSUASIONE. "Definiamo retorica la ca-


pacità di aver visione, in ciascun argomento, di ciò che può essere persua-
sivo" (Retorica, I, 2). Secondo il Filosofo, la retorica viene considerata
dunque come un'arte che permette di trovare le possibili strategie per
convincere e persuadere gli ascoltatori su un dato argomento. Non per
questo la retorica aristotelica può essere confusa con quella sofistica.
Come ben avvertiva Giovanni Reale, "La retorica, se ha da essere auten-
tica retorica, non può andar disgiunta dal vero e dal giusto e non può
fondarsi sulla mozione dei sentimenti (...). La vera retorica deve presup-
porre i valori teoretici e morali e su di essi, al limite, deve fondarsi"42.
D’altro canto la retorica non ha il compito di ammaestrare o di inse-
gnare delle verità o dei valori etico-politici, poiché questo è già il compi-
to specifico della filosofia. Lo scopo della retorica è, propriamente, quello
di persuadere, ed essa si risolve nello studio delle tecniche e dei metodi
di persuasione.
Da queste premesse si comprende l’attenzione dello Stagirita per
temi più specifici, quali il carattere dell’oratore, l’eccitazione delle emo-
zioni, la forma delle argomentazioni in relazione ai vari tipi di retorica
(la retorica giudiziaria, la retorica politica, la retorica declamatoria, etc.).
La retorica ha quindi un legame molto stretto con la logica da una
parte e con la dialettica dall’altra. Più in particolare, il tipo di argomen-
tazione proprio della retorica è un ragionare che tende a saltare molti
passaggi per giungere rapidamente alle conclusioni, cogliendo così

42 G. Reale, Aristotele, Bompiani, op. cit. pag. 247.

79
l’effetto desiderato. È questa l’analisi dell’arte dell’elocuzione ed in parti-
colare della metafora e del ricorso agli esempi nello svolgimento del di-
scorso.

 Lettura antologica: Diavolo d’un Aristotele (in “Antologia critica”)

80
LA POETICA

L’ARTE NEL MONDO ANTICO. Nel mondo antico il genere espressivo che
per molto tempo si è identificato con l'arte è stato quello della poesia
(connessa strettamente alla musica) e per "artista" si intendeva quasi
sempre il poeta - sia epico che tragico. A lungo le arti visive - pittura,
scultura, architettura - sono state associate alle arti pratico-produttive e
"artista" equivaleva ad "artigiano", fosse egli un vasaio, o un falegname,
o un costruttore di case. Per tale motivo, l'attività dei l'artista-artigiano è
stata spesso considerata di rango inferiore, non degna di "uomini liberi",
perché troppo simile a quella degli operai e dei contadini sempre più i-
dentificati con gli schiavi -, o a quella dei mercanti, uomini liberi ma
troppo spesso meteci, cioè stranieri, privi quindi della cittadinanza.
Nella Grecia arcaica, quando tradizioni e conoscenze erano traman-
date oralmente, la funzione della poesia è stata d'altronde essenziale,
perché connessa alla conservazione e trasmissione dei patrimonio cul-
turale. La memoria collettiva, l'identità di una comunità, di un popolo,
dipendevano dall'opera del poeta, che, mediante tecniche mnemoniche
ben determinate, conservava, elaborava e comunicava eventi storici, mi-
ti, modelli di valore, leggi, dispositivi e procedure tecniche, servendosi a
tal fine della narrazione epica, legata ad eventi straordinari e cantata ac-
compagnandosi al suono della lira43.

43 Contenuto e fine essenziale della comunicazione poetica è l'ethos, cioè il costume, che

nella poesia omerica è, essenzialmente, quello dei l'aristocrazia. La poesia di Esiodo, inve-
ce, si apre al mondo dei piccoli proprietari terrieri e dei mercanti: diviene allora fonda-
mentale il valore della Giustizia, in base al quale tutti (almeno tutti gli uomini liberi) do-
vrebbero essere trattati allo stesso modo. A lungo tempo il poeta è maestro di verità, cioè
"ispirato" dalle Muse che gli donano la capacità di "vedere". Rappresentato quasi sempre
cieco, proprio per questo egli è in grado di "vedere" la verità originaria profonda delle
cose, ciò che "è", "fu", "sarà". Per questo il poeta è rispettato e onorato. Egli, allo stesso
modo, "annuncia" Aletheia (verità) e produce piacere in chi ascolta, esprime sapienza e
produce emozioni forti. Alla sua opera presiede Mnémosyné, sorella di Kronos (cioè del
Tempo), la dea Memoria che spalanca alla mente del poeta il passato, in quanto gli con-
sente di esporlo così come Mnémosyné stessa gli "detta". Nella Grecia arcaica arte è poi
spesso sinonimo di armonia. Caratterizzati dall'armonia sono gli esempi di areté (virtù)
che il poeta riporta: il modello di virtù per l'eroe è quello della kalokagathía (bellezza e

81
Con l'avvento della polis e, ancor più, con l'avvento della civiltà della
scrittura, mutano gradualmente anche i caratteri e la funzione della poe-
sia. L'arte poetica tende a "professionalizzarsi": innanzitutto creatore ed
esecutore non coincidono più con la medesima persona. Il poeta diviene
rapsodo, cioè "cucitore di canti", non più creatore, ma declamatore di
poesia. Inoltre i contenuti della poesia riflettono sempre più problemi ed
esperienze dell'individuo, i suoi odi ed amori, le sue fortune e disgrazie.
L'autore parla di sé, su di sé riflette e comincia a mettere per iscritto i
suoi testi. Inoltre nel periodo segnato dalla tirannide di Pisistrato, ad A-
tene vengono messi per iscritto anche i poemi omerici. Una straordina-
ria stagione artistica infatti si apre con l'avvento delle tirannidi, che
promuovono le arti, investendo vere fortune nella costruzione di opere
pubbliche sempre più raffinate e accogliendo nelle loro corti il meglio
della cultura dell'epoca.
Ad Atene, con l'affermarsi della democrazia e con la crescita della
potenza economica e militare, si ha uno straordinario sviluppo culturale
ed artistico, che tocca il culmine nelle attività promosse, nei cuore dei V
sec., da Pericle44. Nello stesso periodo notevole è la produzione teatrale,

bontà), armonia, appunto, di corpo e spirito, di valore guerriero e atletico e di autocon-


trollo. L'armonia coincide con la stessa idea di Bellezza. Un'idea che costituisce un essen-
ziale contributo del pitagorismo alla storia dei pensiero: essa si fonda su una rappresen-
tazione della realtà (dell'universo come della società umana) di tipo matematico: riguar-
da, cioè, la misura, un rapporto che esprime ordine, simmetria, perfezione.
44 Il suo intento di fare di Atene la guida della Grecia si esprime non solo attraverso una

politica espansionistica ma anche con una grande fioritura di opere che - come dirà molto
più tardi Plutarco, nelle Vite parallele - "una volta compiute, si traducono in gloria eterna,
e, mentre si compiono, in benessere concreto", perché "suscitano attività di ogni genere: e
queste, risvegliando ogni arte, muovendo ogni mano, danno da mangiare a quasi tutta la
città". Si tratta di una quantità straordinaria di capolavori architettonici, di sculture e pit-
ture che faranno di Atene dirà orgogliosamente Pericle - la scuola dell'Ellade". In partico-
lare, è l'Acropoli, con il Partenone e una corona di edifici dal disegno armonico e ricchi di
ornamenti, a testimoniare la straordinaria stagione artistica della città. Alla testa degli
artisti di questo periodo è lo scultore Fidia. Ma nel V secolo, ad Atene e in altre città-stato,
operano molti altri celebri artisti, come ad esempio gli scultori Policleto e Mirone, i pittori
Zeusi e Parrasio, seguiti, nel IV secolo a.C., da Apelle. Essenziale, inoltre, è l'opera dell'ur-
banista Ippodamo di Mileto, a cui Aristotele attribuirà l'idea della "divisione delle città",
cioè un modello - teorico e pratico allo stesso tempo - di organizzazione della vita urbana
basato su piante disposte lungo assi ortogonali: idea che viene applicata nella costruzione
del Pireo, il porto di Atene, e nella fondazione della colonia di Thuri (nel 445-444 a.C.).
Numerose saranno le città della Grecia, dell'Asia Minore e della Magna Grecia (fra cui Pa-
estum, Agrigento, Napoli e Pompei) il cui disegno risentirà dell'influenza di Ippodamo.

82
soprattutto relativa alla tragedia. In origine essa ha il carattere di ceri-
monia religiosa volta a celebrare il dio Dioniso con danze e canti corali,
poi sempre più è narrazione complessa di eventi quasi sempre ispirati
alla tradizione mitica: il senso religioso originario si arricchisce di que-
stioni di carattere morale, legate al senso dell'esistenza e al destino stes-
so dell'uomo, e a temi politici e sociali di attualità. Il culmine della trage-
dia attica è rappresentato dall'opera di Eschilo, Sofocle ed Euripide. Ma,
insieme alla tragedia, anche la commedia, con Aristofane, si afferma ad
Atene e nelle maggiori città greche, diventando momento essenziale del-
la loro vita civica.

INCANTO E INGANNO DELLA POESIA. In questa epoca la poesia altera la


sua funzione e il suo significato. Ad esempio, Simonide di Ceo la
paragona ad una "pittura che parla", ad una raffigurazione della realtà
attraverso immagini che seducono e illudono chi legge o ascolta il canto
poetico. Così non è più la verità ma l'illusione il contenuto della poesia e,
più in generale, dell'arte. Un "inganno" che la poesia genera, attraendo e
seducendo l'ascoltatore o il lettore, esprime un potere della parola che il
sofista Gorgia rappresenta nell'Encomio di Elena. Egli giustifica la
condotta della bella moglie di Menelao, per il fatto che Elena, in quanto
"costretta" o per volontà degli dei, o con la forza, o con l'amore, o con la
suggestione delle parole, non può essere ritenuta responsabile degli atti
compiuti. in particolare, nell'Encomio si dice che "la parola è un gran
dominatore"; e che dominatrice, per questo, è "la poesia nelle sue varie
forme": essa è "un discorso di tale musicalità" che "l'anima subisce, per
effetto delle sue parole, una particolare emozione"; la potenza
dell'incanto, infatti, aggiungendosi alla disposizione dell'anima, la
lusinga, la persuade e la trascina coi suo fascino". Proprio per questo
Socrate attacca i poeti, i quali dicono molte cose piacevoli, belle, ma non
ne comprendono il significato, cioè "non sanno niente di ciò che dicono"
e neppure "sanno di non sapere", presentandosi invece come sapienti e
detentori della verità. Lo stesso fa Platone: la creazione poetica è, per lui,
una "forma di delirio" che sembra ispirato dalle Muse, ma che in effetti
offre contenuti di cui il poeta non sa nulla e di cui non capisce il
significato. La critica platonica investe lo stesso contenuto di verità della
rappresentazione artistica. Il filosofo sostiene che l'arte è imitazione

83
della realtà, affermando un concetto che sarà alla base dell'estetica
antica (e che rimarrà tale fino al XVIII secolo). Ma Platone afferma anche
che quella dell'arte è un'imitazione incapace di cogliere e rappresentare
la realtà effettiva delle cose, in quanto raffigurazione superficiale, che si
limita a descrivere l'apparire delle cose, non l'essere (che invece è
costituito, invece, dal mondo delle idee). Resta, quindi, il giudizio sul
carattere illusionistico dell'arte, già formulato da Gorgia, ma in senso
questa volta svalutativo della qualità delle conoscenze che l'arte
consente. Anzi, se si guarda al mondo delle idee e si considera la realtà
prodotta dall'uomo come "imitazione" di quel mondo, si deve
considerate l'imitazione che l'artista fa delle cose come un'imitazione
dell'imitazione, cioè un'imitazione di secondo grado, lontanissima
dall'essere45.

IL VEROSIMILE, LA CATARSI E IL SUBLIME. Anche per Aristotele l'arte è i-


mitazione della realtà. È imitazione non di ciò che è (perché questo è
compito della storia), ma di ciò che può essere. Per questo, afferma il filo-
sofo rovesciando il giudizio platonico, l'arte guarda ad un orizzonte più
vasto, fa vivere allo spettatore le vicende rappresentate come fatti che
potrebbero accadere a tutti coloro che si trovassero nelle stesse situa-
zioni, affermandone, in qualche misura, l'universalità. Essa possiede i-
noltre una reale efficacia educativa, in quanto coinvolge lo spettatore, e
favorisce, attraverso l'azione scenica, lo svilupparsi di emozioni forti,
vive, che poi vengono a "sublimarsi" in una catarsi, cioè in una specie di
trasfigurazione delle passioni stesse, determinando così un nuovo equi-

45Anche Omero, da tutti considerato come l' "educatore dell'Ellade", sarebbe solo un imi-
tatore, non un sapiente e un conoscitore della realtà. L'arte è diseducativa, quindi da cen-
surare o addirittura da non ammettere nello Stato ideale, perché troppo spesso fornisce
un'immagine deformata della realtà (ad esempio di quella divina) o dell'ordine dei valori
morali e perché è condotta con tecniche tali da confondere la capacità di intendere degli
ascoltatori. Si è discusso se le ragioni di tale atteggiamento platonico siano metafisiche o
politiche, legate cioè all'intento di "purificare" la tradizione mitica oppure a quello di "de-
purare" il modello di "Stato educativo" da ogni forma di corruzione (quella, ad esempio,
generata in Atene dalle rappresentazioni teatrali o dalle recitazioni pubbliche dei poemi
omerici). Certamente Platone, nelle Leggi, riferendosi alle tragedie, considera la "compo-
sizione" dello Stato ideale (che è "imitazione della vita migliore e più bella") lo "spettaco-
lo" più bello, "la migliore tragedia che sia possibile comporre", il "dramma più bello, che
solo la vera legge può condurre a compimento, secondo le nostre speranze".

84
librio, una nuova armonia nella psiche. Pertanto dall'imitazione artistica
si genera piacere, anche quando le vicende imitate sono terribili, come
avviene nelle tragedie. Valore conoscitivo dell'arte e sua accertata fun-
zione educativa e morale: le tesi aristoteliche capovolgono quelle plato-
niche. Esse, inoltre, sono il frutto di un'analisi concreta e minuziosa del-
l'esperienza artistica, di un approccio teorico che costituisce il fonda-
mento dell'Estetica come disciplina filosofica e, perciò, il quadro di rife-
rimento di artisti e filosofi nelle età successive46.
Lo Stagirita si presenta come un innovatore rispetto ai predecessori:
uno straordinario riformatore anche nel campo della teoria dell'arte
(poetica, estetica). Le sue concezioni sull'arte, pur restando poco note
nell'antichità e nel medioevo, ebbero uno straordinario successo nel ri-
nascimento e costituiranno una base concettuale essenziale per la nasci-
ta dell'estetica moderna.
La prima delle innovazioni che Aristotele introduce è proprio quella
di assegnare per la prima volta al discorso sull'arte e sull'esperienza arti-
stica uno spazio autonomo ed un preciso campo di attività, distinto dagli
altri e, come tale, oggetto di una specifica riflessione teorica.

L’IMITAZIONE. La poetica riguarda le attività che hanno come scopo la


mìmesis, l'imitazione della realtà. Proprio il concetto di imitazione costi-
tuisce uno degli elementi fondamentali dell'estetica aristotelica. L'arte è
per il Filosofo "imitazione". Altri elementi non meno importanti sono il
concetto di verosimiglianza e quello di imitazione dell'universale. Anche
Platone aveva considerato l'arte come imitazione, ma ne aveva svalutato
la portata conoscitiva, proprio perché i suoi prodotti erano visti come
una "copia di copia" della vera realtà, quella delle Idee. Per Aristotele,
invece, la poetica costituisce una forma valida di conoscenza in quanto la
realtà che rappresenta non é "apparente", non rinvia cioè a qualcosa che
la trascende.

46 Dello svilupparsi di una specifica riflessione estetica sono testimonianza, nell'Età elie-
nistica, le attività di ricerca, raccolta e catalogazione delle opere che sono state condotte
sistematicamente nel Museo di Alessandria e in altri grandi istituti culturali dell'antichità,
in concomitanza con la diffusione della cultura greca nei vasti territori conquistati da A-
lessandro Magno e con evoluzione delle specializzazioni artistiche connessa all'estendersi
della produzione artistica e letteraria.

85
LA VEROSIMIGLIANZA. Il secondo principio-base dell'estetica aristoteli-
ca è, come abbiamo detto, quello della verosimiglianza. Ma che cosa
dobbiamo intendere per "verosimiglianza"? Per capire il significato di
"verosimiglianza" occorre prima di tutto comprendere la differenza che
Aristotele pone tra storia e poesia. La storia descrive ciò che è accaduto,
mentre la poesia parla di ciò che potrebbe accadere. Ora è importante
rilevare che per Aristotele la poesia ci fa conoscere i fatti meglio della
storia, in quanto la poesia "tende a rappresentare l'universale, la storia il
particolare".

STORIA E POESIA. La storia, in altre parole descrive gli eventi così co-
me si sono realizzati, dunque nella loro concretezza e singolarità. La po-
esia, invece, li rappresenta come fatti che possono accadere (a tutti colo-
ro che si venissero a trovare in determinate condizioni): quindi li de-
scrive come "fatti universali" che rientrano nell'ambito delle possibilità
umane. Mentre allora la storia è imitazione del particolare, l'arte è imi-
tazione dell'universale. Proprio perché universali, gli eventi narrati dalla
poesia tendono ad avvicinarla alla scienza (che studia anch'essa gli e-
venti nella loro generalità), senza raggiungere tuttavia la capacità cono-
scitiva, in quanto nella poesia la rappresentazione avviene attraverso
immagini sensibili e non mediante concetti astratti.

IL BELLO COME ORDINE, SIMMETRIA E PROPORZIONE. A differenza di


Platone, lo Stagirita non si preoccupa di definire il bello in sé. Platone,
come sappiamo, aveva sollecitato a cercare al di là delle cose sensibili il
"bello intelligibile", il "bello in sé". Aristotele invece riconduce "il bello"
di un prodotto artistico a un'idea di proporzione e simmetria, tale per
cui ogni sua parte concorra a realizzare un determinato ordine
dell'insieme. Con Aristotele dunque l'opera d'arte è una sorta di
organismo vivente, è una totalità: la sua validità e la sua bellezza
dipende dalla coesione e dalla disposizione delle parti nell'insieme, dal
loro reciproco rapportarsi ed equilibrarsi.

FUNZIONE MORALE DELL’ARTE. Per Aristotele l'arte ha una ben precisa


funzione morale (oltre che conoscitiva). Anche per questo aspetto

86
Aristotele si distanzia da Platone. Per Platone, come sappiamo, i poeti
dovevano essere banditi dalla città: la poesia era diseducativa, perché
favoriva atteggiamenti e passioni irrazionali. Per Aristotele, invece, la
tragedia (che è la forma più elevata di poesia), sollecitando quelle
passioni di pietà e di terrore nello spettatore, le fa affiorare nella sua
coscienza, le tende al massimo e così le sublima e le purifica. Aristotele
scrive infatti nella Poetica che "mediante una serie di casi che suscitano
pietà e terrore", la tragedia "ha l'effetto di sollevare e purificare l'animo
da quelle passioni" determinando la kàtharsis, o catarsi, cioè la loro
trasformazione in emozioni pure e in un puro piacere, che è quello
estetico.

LA CATARSI. La catarsi è in un certo senso una purificazione delle pas-


sioni. Essa non le rimuove, non le elimina, ma le trasfigura, cioè le tra-
sforma e le armonizza in un superiore equilibrio, nel quale l'anima pro-
va quasi compiacimento: non è quindi catarsi dalle passioni ma catarsi
delle passioni. Essa procura infatti una "gioia innocente", cioè un'emo-
zione che non è solo di tipo morale, ma quasi di liberazione dalla pena
che i sentimenti di angoscia e le tensioni e i drammi quotidiani dell'esi-
stenza determinano in noi.

87
La Poetica: analisi dell’opera

QUADRO STORICO. La Poetica risale al secondo periodo ateniese di Ari-


stotele, quando egli aveva lasciato la Macedonia dopo che (probabilmen-
te per la condanna a morte di un suo nipote) si erano guastati i rapporti
con Alessandro, che per otto anni era stato suo discepolo. Tornato ad
Atene il filosofo aveva aperto la sua scuola in un parco pubblico, il Liceo,
che era insieme piazza d'armi, palestra e santuario dedicato ad Apollo. Il
nome di “Liceo” contraddistinguerà, da quel momento, la "scuola" di Ari-
stotele. Una datazione approssimativa colloca la stesura dell'opera tra il
334 e il 330 a. C47.

QUADRO CULTURALE. Anche sulle questioni dell'estetica il confronto


che Aristotele istituisce è quello con il maestro Platone, da cui, però,
quando scrive la Poetica, ha ormai preso le distanze elaborando il pro-
gramma di una propria filosofia. Se Platone aveva condannato l'arte per-
ché era imitazione dei mondo del divenire, dunque copia di una copia
delle idee, Aristotele rivaluta l'arte proprio in quanto imitazione. E, inol-
tre, mentre Platone aveva criticato l'arte come suscitatrice di forti emo-
zioni, che indebolivano la parte razionale dell'anima, Aristotele rivendi-
ca la capacità purificatrice, catartica dell'arte, proprio perché suscita
sentimenti di paura e di terrore. Il titolo"Poetica" rimanda al terzo gene-
re di scienze definito da Aristotele, quelle produttive o poietiche, che si

47 Dopo la disastrosa sconfitta subita da Atene nel 338 a.C. nella Battaglia di Cheronea, ad

opera di Filippo il Macedone, si era stabilita tra le pòleis greche, in funzione antipersiana,
un'alleanza militare di cui Filippo era il capo. Ormai l'autonomia politica delle pòleis era
quasi ridotta a zero, e la loro caduta sotto il dominio diretto dei Macedoni era imminente.
Anche Atene non era più una potenza politica e militare ed era destinata a condividere la
stessa sorte delle altre pòleis greche. Ma allora mostrava un'economia in fase di crescita -
anche se non sarebbe durata molto. E la democrazia ateniese era stabile anche se, ormai,
la politica era diventata un fatto di politici di professione e il demos si disinteressava delle
vicende politiche. Inoltre lo scontro sociale tra ricchi e poveri continuava. All'interno di
Atene, dopo il periodo dello scontro aperto con la Macedonia e le veementi invettive di
Demostene, vi era un partito filo-macedone, ma era prevalente un atteggiamento di so-
spetto e di contrapposizione nei confronti della politica espansionista di Filippo e di Ales-
sandro. Aristotele era inviso a gran parte della cittadinanza per l'opera svolta come mae-
stro di Alessandro.

88
occupano della produzione di oggetti: è il campo delle tecniche, delle
"arti". Gli oggetti che possono essere prodotti non sono solo materiali,
ma, per così dire anche immateriali: è il caso degli oggetti prodotti dalle
"arti belle". Dunque, il titolo farebbe pensare ad una trattazione comple-
ta delle arti belle, mentre nell'opera che è arrivata a noi si parla solo del-
la poesia, anzi quasi esclusivamente di quella tragica. Ma alcune tesi
fondamentali sono valide per tutte le arti.

STRUTTURA E ANALISI DEL TESTO. Due sono le parole chiave: imitazione


(o mimesi) e catarsi. Ma va detto che, quanto al rilievo e allo spazio che
hanno nell'opera, l'imitazione è di gran lunga prevalente, anche se, nelle
letture che nel corso dei secoli sono state date della Poetica, la catarsi è
stata considerata il tratto caratteristico dell'arte e soprattutto della sua
funzione.
Sulla Poetica si sono cimentati schiere di interpreti che hanno in-
contrato notevoli difficoltà. La natura di queste difficoltà può essere fat-
ta risalire alle caratteristiche stesse dello scritto, che ha la struttura di
un promemoria in cui sono contenute le opinioni di Aristotele sull'arte
forse per uso personale o come appunti, scalette e schemi da usare per
le sue 'lezioni" sull'argomento. Comunque, il carattere "anomalo" dei te-
sto si può notare anche nella qualità espositiva che alterna parti ben ri-
finite da un punto di vista formale, con altre segnate da una struttura
sintattica spesso oscura e da un uso non omogeneo di termini e concetti.
Altro aspetto che rende difficile l'analisi dei testo è quello che un suo in-
terprete e curatore di un'edizione recente ha definito la concentrazione
teorica, non aliena talvolta da contraddittorietà concettuali oltre che da
asperità espositive".

L'ARTE POETICA COME IMITAZIONE. Caratteristica comune a tutte le


forme di attività poetica è l'imitazione. "L'imitare è connaturato agli
uomini fin dall'infanzia" e la sua funzione, così come si esplica nell'arte
poetica, serve o per dilettare ("tutti traggono piacere dalle imitazioni") o
per apprendere ("procurarsi per mezzo dell'imitazione le nozioni fon-
damentali").

89
In questa nozione di imitazione vi è oscillazione tra l'imitazione co-
me simulazione (far finta di essere altro da ciò che si è) e come rappre-
sentazione (riproduzione di un modello).

LA SUPERIORITÀ DELLA POESIA SULLA STORIA. "L'arte poetica implica co-


noscenza e in questo è superiore alla storia perché la poesia dice piutto-
sto gli universali, la storia i particolari". La storia racconta ciò che è av-
venuto, la poesia ciò che può avvenire. Quanto all'universale di cui si oc-
cupa l'arte poetica, esso concerne il fatto che ad una persona di una cer-
ta qualità capiti di dire o di fare cose di una certa qualità secondo vero-
simiglianza e necessità". Per chiarire che cosa si intenda per verosimi-
glianza come elemento essenziale di questo modo di intendere l'univer-
sale, è necessario rinviare è a ciò che, al riguardo Aristotele scrive nella
Retorica: “il verosimile è ciò che avviene per lo più [ ...] nel campo delle
cose che possono essere altrimenti”, cioè nel campo dei possibile, nel
campo degli avvenimenti che possono riguardare i comportamenti u-
mani.

IL PRIMATO DELLA TRAGEDIA NELL'ARTE POETICA. La tragedia è l'imita-


zione di un'azione seria e compiuta, avente una sua propria grandezza,
con parola ornata, distintamente per ognuna delle sue parti, di persone
che agiscono e non tramite una narrazione, la quale per mezzo di pietà e
paura porti a compimento la depurazione di siffatte emozioni". Nella co-
struzione della tragedia il primato viene attribuito ai fatti, alle azioni.
Essa è imitazione di un'azione, che sia unica e intera, con le parti che
siano fortemente connesse in un tutto organico. Tale unità e organicità
della tragedia fonda la validità dell'unità di azione, di tempo e di spazio,
attorno alle quali lungamente ruoterà il dibattito nell'Età moderna. La
tragedia è superiore alle altre forme dell'attività poetica perché più ele-
vato è il suo tasso di mimeticità e perché riguarda l'imitazione di perso-
ne migliori e, in quanto tali, oggetto di lode ed esaltazione.

LA “CATARSI”. Può suscitare meraviglia che sia considerata la parola-


chiave per eccellenza della Poetica proprio la catarsi di cui nell'opera si
parla pochissimo e a cui non si dà un grande rilievo. Catarsi (katharsis)
significa rendere puri (puro in greco si dice katharos). Ma in che consiste

90
questo "rendere puri" che la tragedia produce? La spiegazione più signi-
ficativa al riguardo è quella contenuta nella definizione di tragedia: la
rappresentazione di azioni in cui consiste la tragedia "per mezzo di pietà
e paura porta a compimento la depurazione di siffatte emozioni". La tra-
gedia produce negli spettatori pietà e paura a cui segue un effetto libera-
torio e rasserenante48.

DESTINATARI. Chi siano i destinatari della Poetica non riusciamo a


desumerlo da elementi e "segni" presenti nel testo, ma lo ricaviamo da
dati esterni ad esso. Come altri scritti la Poetica appartiene alle opere
esoteriche o acroamatiche, cioè non destinate alla pubblicazione, ma ri-
volte ai discepoli dei Liceo, o, comunque, pensate e scritte in vista del-
l'insegnamento. Questi "appunti" dovevano svolgere una funzione di
supporto all'insegnamento orale di Aristotele. Anche la Poetica, dunque,
mostra una tale formulazione, che risponde a intenti didattici ed è dun-
que rivolta a "studenti" dei Liceo. Pure le notazioni relative alla struttura
e allo stile dell'opera, come sopra si è detto, fanno pensare ad uno scritto
pensato per la "scuola", che direttamente o indirettamente era rivolto ai
discepoli di Aristotele.

ALCUNI PASSI TRATTI DALLA POETICA DI ARISTOTELE.


L'epica, così come la poesia tragica, nonché la commedia, la compo-
sizione di ditirambi49 e la maggior parte dell'auletica50 e della citaristi-
ca51 nel complesso sono tutte imitazioni52, ma si distinguono l'una dal-

48 Gli interpreti si sono domandati se si debba intendere la catarsi delle passioni, la loro
purificazione, oppure la liberazione dalle passioni, un moto di distacco spirituale da esse,
dalla loro "materialità". Si è detto che quest'ultima interpretazione, di carattere più spiri-
tuale, è il frutto dei contesto neoplatonico in cui è stata elaborata e si è perpetuata anche
in epoca moderna. Diverge da quel significato - e la pone così in un contesto religioso - la
catarsi intesa come decontaminazione, come risultato di azioni rituali. Ad altri, infine, è
sembrato di poter concludere che non di liberazione dalle passioni si debba parlare, ma
piuttosto di purificazione delle passioni, di un certo piacere estetico, che, invece di nuo-
cerci - come pensava Platone - ci risana o purifica.
49 Canti corali della lirica greca. Originariamente collegati al culto di Dioniso, hanno dato

vita alla tragedia.


50 Arte di comporre e suonare musica per flauto (aulós, flauto ad ancia doppia).
51 Arte di comporre e suonare musica per cetra.

91
l'altra sotto tre aspetti: nell'imitare o con mezzi diversi, o oggetti diversi,
o diversamente e non nello stesso modo. Come alcuni imitano riprodu-
cendo molti oggetti con colori e figure (chi per arte, chi per pratica) e
altri usando la voce, così tutte le arti citate compiono l'imitazione con il
ritmo, la parola e la musica, separatamente oppure in combinazione.

[...] Due cause appaiono in generale aver dato vita all'arte poetica,
entrambe naturali: da una parte il fatto che l'imitare è connaturato agli
uomini fin dall'infanzia53 (e in ciò l'uomo si differenzia dagli altri anima-
li, nell'essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell'i-
mitazione le nozioni fondamentali); dall'altra il fatto che tutti traggono
piacere dalle imitazioni54. Lo dimostra ciò che avviene nei fatti: le imma-
gini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidio vedere, come
per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci pro-
curano piacere allo sguardo. Il motivo di ciò è che l'imparare è molto
piacevole non solo per i filosofi, ma anche ugualmente per tutti gli altri,
soltanto che questi ne partecipano per breve tempo. Perciò vedendo le
immagini si prova piacere, perché accade che guardando si impari e si
consideri che cosa sia ogni cosa, come per esempio che questo è quello.
Qualora, poi, capiti di non averlo già visto prima, non procurerà piacere
in quanto imitazione, ma per la sua fattura, il colore o un'altra ragione
simile. Poiché, dunque, noi siamo naturalmente in possesso della capaci-
tà di imitare, della musica e del ritmo (i versi, è chiaro, fanno parte del
ritmo), agli inizi coloro che per natura erano più portati a questo genere
di cose, con un processo graduale dalle improvvisazioni dettero vita alla
poesia55.

52 Viene affermato il carattere imitativo della poesia e della tragedia, anche se l'imitazione

può variare in base ai mezzi espressivi, ai temi e ai modi. Mentre il carattere imitativo
attribuito all'arte e all'opera dell'artista era motivo di condanna da parte di Platone, in
Aristotele è caratteristica essenziale e positiva per l'arte, elemento nel quale si esprime
un tratto tipico dell'uomo.
53 L'imitazione è un aspetto essenziale della natura umana, particolarmente evidente nel-

l'infanzia, nella quale essa diviene mezzo fondamentale di apprendimento, a differenza di


ciò che avviene negli animali.
54 L'imitazione genera piacere. Anche le realtà più orribili, se imitate, possono "piacere",

sia per i contenuti di quell'imitazione, che possono produrre conoscenza (quindi "gioia
del conoscere"), sia anche per le forme (colori, versi, ecc.) con cui esse vengono espresse.
55 Dall'imitazione naturale si è passati - evolutivamente - all'imitazione poetica.

92
[...] La tragedia è dunque imitazione di qualche azione seria e com-
piuta, che ottiene una propria grandezza, con un discorso ornato, i cui
ornamenti appaiono distintamente in ciascuna parte, (e che) in forma
drammatica e non narrativa, usa la pietà e la paura per purificare tali
emozioni.
Io chiamo "discorso ornato" quello che unisce il ritmo all'armonia e
al canto; e dico che gli ornamenti non sono tutti in ciascuna parte perché
alcune parti non hanno che il metro, mentre altre hanno la musica.
Poiché è imitazione di un'azione ed è compiuta da personaggi che
agiscono56 i quali necessariamente hanno una certa qualità per il carat-
tere e il pensiero (grazie a questi noi diciamo che le azioni sono dotate di
una certa qualità ed è in seguito ad esse che tutti hanno successo o falli-
scono), imitazione dell'azione è il racconto.
La tragedia è, infatti, imitazione non di uomini ma di azioni e di mo-
do di vita57; non si agisce, dunque, per imitare i caratteri, ma si assumo-
no i caratteri a motivo delle azioni; pertanto i fatti, cioè il racconto, sono
il fine della tragedia, e il fine è la cosa più importante di tutte [...].

Inoltre, se si dispongono di seguito discorsi morali ben costruiti per


linguaggio e pensiero, non si compirà quello che è l'effetto della trage-
dia, mentre lo realizzerà molto di più la tragedia che ne adoperi di più
scadenti ma sia fornita di racconto, cioè di composizione di fatti58. [...].
Da ciò che si è detto è chiaro che compito del poeta non è dire le cose
avvenute, ma [dire] quali possono avvenire, cioè quelle possibili secon-
56 Questa è la famosa formula definitoria della tragedia, la quale è: a. imitazione; b. imita-

zione di azioni vere e proprie di persone e non narrazione delle azioni stesse; c. seria e
compiuta; d. avente sue dimensioni; e. caratterizzata da un particolare stile poetico; f. ge-
neratrice di passioni forti di pietà e paura; g. capace di sublimare e trasfigurare (“depura-
re") tali passioni.
57 Il fine della tragedia sta nei fatti che in essa si rappresentano, sottolinea ancora Aristo-

tele. La tragedia non è uno "studio di carattere (studio scientifico come quello che farà un
discepolo di Aristotele, Teofrasto), perché i caratteri dei personaggi emergono come mez-
zo per produrre l'azione drammatica
58 il fine morale della tragedia non si raggiunge con discorsi moralistici ben fatti, ma con

azioni e discorsi (anche discorsi meno perfetti di quelli di un trattato filosofico) capaci di
attivare nello spettatore reazioni emotive e intellettuali tali da aiutarlo a ritrovare un o-
rientamento morale nella condotta. Qui il distacco da Platone, dalla sua critica dell'arte
imitativa, è netto.

93
do verosimiglianza o necessità59. Lo storico e il poeta non si distinguono
nel dire in versi o in prosa (si potrebbero mettere in versi gli scritti di
Erodoto e nondimeno sarebbe sempre una storia, con versi o senza ver-
si); si distinguono, invece, in questo: l'uno dice le cose avvenute, l'altro
quali possono avvenire.

Perciò la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più impor-


tante della storia, perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i
particolari60. E’ universale il fatto che a una persona capiti di dire o di
fare, seguendo il suo carattere, cose di una certa qualità, secondo vero-
simiglianza o necessità, e a questo tende la poesia, mettendo in seguito i
nomi. Il particolare, invece, è che cosa fece o subì Alcibiade. Ciò è dive-
nuto chiaro nel caso della commedia: i poeti comici, dopo aver composto
il racconto sulla base di personaggi verisimili, impongono loro dei nomi
qualsiasi e non fanno come i compositori di giambi61 che compongono
su un uomo in particolare. Nel caso della tragedia invece si mantengono
i nomi già esistenti. Il motivo è che credibile è il possibile, e noi non cre-
diamo sempre possibile quel che non è avvenuto, mentre ciò che è avve-
nuto è chiaro che era possibile, perché se fosse stato impossibile non sa-
rebbe avvenuto.

[...] Poiché la composizione della migliore tragedia deve essere non


semplice ma complessa, e imitativa di fatti paurosi e pietosi (ciò è pro-
prio di questo tipo di imitazione), innanzitutto è chiaro che non devono

59 La distinzione fondamentale fra poesia e storia sta innanzitutto nel fatto che la prima

descrive non ciò che è avvenuto, come fa la storia, ma ciò che può avvenire. E lo fa con
verosimiglianza e necessità, in modo che ciò che accade possa realmente apparire ed es-
sere vissuto dallo spettatore come qualcosa di credibile, che può, cioè, realmente verifi-
carsi.
60 In secondo luogo la poesia descrive situazioni universali, tali cioè da favorire un pro-

cesso di identificazione dello spettatore con ciò che è rappresentato, mentre la storia è
cronaca di vicende particolari. Ciò rende possibili e credibili le vicende rappresentate,
tanto più se, come avviene nella tragedia (a differenza della commedia), i personaggi non
sono inventati, ma sono realmente esistiti (o, come quelli del mito, si "crede" che siano
esistiti): ciò che è esistito, ciò che è avvenuto, non può non apparire possibile, rafforzando
quel processo di identificazione fra spettatore e vicenda che costituisce l'asse dell'espe-
rienza drammatica.
61 Componimenti poetici in metro giambico, generalmente a carattere di invettiva o con

intonazione satirica.

94
essere mostrati gli uomini degni di stima, che volgano dalla buona sorte
alla sventura, perché questo non è pauroso né pietoso, ma odioso; nep-
pure i malvagi dalla sventura alla buona fortuna, perché questo è il mas-
simo di estraneità alla tragedia, in quanto non presenta nulla di cui c'è
bisogno: non è né conforme al senso morale, né pietoso, né pauroso;
neppure, per contro, il perfetto malvagio che cade dalla buona sorte nel-
la disgrazia, perché una composizione siffatta comporterebbe sì senso
morale, ma non pietà né paura; la pietà è infatti relativa a colui che è in-
degnamente tribolato, la paura a chi ci è simile (pietà per chi non merita,
paura per chi ci è simile), pertanto ciò che avviene non sarà né pietoso
né pauroso. Resta dunque il caso intermedio fra questi. È di questo tipo
colui che, non distinguendosi per virtù e per giustizia, non è volto in di-
sgrazia per vizio e malvagità, ma per un errore, tra coloro che si trovano
in grande fama e fortuna, come per esempio Tieste, Edipo e gli uomini
illustri provenienti da siffatte stirpi. […] anche senza il vedere, il raccon-
to deve essere composto in modo tale che chi ascolta i fatti che si svol-
gono, per effetto degli avvenimenti, sia colto da tremore e pianga62, il
che si può provare udendo il racconto di Edipo63.

62 Paura e pietà si generano non quando viene punito un malvagio, o quando un malvagio

ha fortuna, e neppure quando un uomo virtuoso precipiti nella sventura, ma nelle situa-
zioni intermedie, quando sono il caso e gli imprevisti a giocare un ruolo essenziale. Tutto
questo stringe ancor più lo spettatore alla vicenda, lo fa soffrire e compatire, operando
l'effetto di "trasfigurazione" che nella Politica Aristotele chiamerà di catarsi, cioè di puri-
ficazione delle passioni e non dalle passioni. Ma vedi, sulla catarsi, il documento seguente.
63 Aristotele, Poetica, 47a, 48b, 49b, 52a, 53b

95
ANTOLOGIA CRITICA

96
QUADRO STORICO E RAPPORTI CON PLATONE

Dalla pòlis all’impero

Nel periodo in cui vive Aristotele si assiste alla definitiva crisi del
modello della pòlis e al predominio macedone, che culmina con la nasci-
ta dell’impero di Alessandro Magno. La vita di Aristotele è legata per più
aspetti a quella di Alessandro: ne è precettore dal 345 al 335 a. C., e in
seguito, tornato ad Atene, fonda il Liceo grazie alla sua protezione.
La decadenza della Grecia classica inizia già con la lunga guerra del
Peloponneso. Il dominio di Sparta che ne segue viene contrastato da A-
tene e dalle città greche sue alleate, dapprima con l’alleanza con i Per-
siani, poi con la coalizione sotto la guida di Tebe, che sconfigge Sparta
nella battaglia di Leuttra. L’egemonia di Tebe spinge Sparta e Atene ad
allearsi, sconfiggendola nella battaglia di Mantinea (362 a. C.), che rap-
presenta l’apice della guerra civile tra le pòleis greche e insieme l’inizio
della loro fine.
Filippo Il di Macedonia, diventato re nel 359 a.C., consapevole della
debolezza della Grecia, ne intraprende la conquista, contrastato senza
successo dagli appelli di Demostene che invitava i Greci all’unità contro
«i barbari». La lega tra Atene e Tebe viene sconfitta nella battaglia di
Cheronea (338 a.C.), che pone fine all’indipendenza della Grecia e sanci-
sce il predominio macedone. Poco dopo (336 a. C.) Filippo viene assassi-
nato e il figlio Alessandro, nello spazio di appena dieci anni, dal 334 aI
323 a. C., riuscirà a conquistare un impero.
Il primo anno di regno viene impiegato per riconfermare la supre-
mazia macedone, messa in discussione dopo la morte di Filippo sia dalle
città greche sia dai popoli del nord, i Traci, gli Sciiti e gli Illiri. Riassog-
gettata l’intera penisola balcanica, Alessandro organizza la guerra con-
tro l’impero persiano. Alla spedizione associa numerosi studiosi, dai to-
pografi per tracciare la pianta dei luoghi, ai geografi, dagli storici ai filo-
sofi, a molti altri uomini di cultura. Tra i filosofi, particolarmente impor-

97
tante è il ruolo di Callistene (370-327 a. C.) che scrive il diario della spe-
dizione. C’erano anche botanici, zoologi, geologi, che avevano anche il
compito di spedire materiali e osservazioni ad Aristotele, che contava
sulla spedizione per le ricerche condotte all’interno del Liceo. Non man-
cavano ovviamente sacerdoti e indovini per propiziare le battaglie, e
numerosi erano i medici, sia per curare i feriti, sia per prevenire epi-
demie.
Nel 334 a. C. Alessandro attraversa Io stretto dei Dardanelli con un
esercito di 35.000 soldati e probabilmente altrettanti ausiliari, riportan-
do una prima vittoria sulla cavalleria persiana sulle sponde del fiume
Granico. Alessandro si presenta come liberatore delle città greche della
Ionia e come paladino della Grecia contro i barbari come venivano con-
siderati i Persiani. Dopo la vittoria del fiume Granico, molte città greche
insorgono, schierandosi dalla sua parte contro i Persiani.
L’avanzata di Alessandro continua senza battaglie. Il re dei Persiani,
Dario III (il «Gran Re»), adotta una strategia che mette in seria difficoltà
Alessandro: non accetta battaglia in Asia Minore, lasciando che il nemico
avanzi ma al tempo stesso invia la flotta con parte dell’esercito in Grecia,
per raccogliere e coordinare le molte forze antimacedoni, capeggiate da
Sparta. Riesce in questo modo a conquistare alcune città, come Chio, e
l’isola di Lesbo. Ma nel 333 Dario, forse incoraggiato da questi successi,
cambia strategia, decidendo di affrontare Alessandro in battaglia, radu-
nando uno sterminato esercito
Babilonia e marciando verso la Siria, contro i Greci. L’esercito per-
siano conta oltre mezzo milione di uomini (ma non è possibile determi-
nare il numero dei combattenti effettivi e quello degli ausiliari), quello
macedone circa 40.000, ma Alessandro riesce a ingaggiare battaglia
presso la città di Isso, in una stretta pianura tra le montagne e la costa,
dove un esercito così mastodontico era impossibilitato a manovrare in
modo efficace. Alessandro consapevole della propria inferiorità numeri-
ca, adotta una tattica temeraria, aggirando personalmente, con un drap-
pello di cavalleria, parte dell’esercito persiano e riuscendo a raggiungere
la guardia reale e il carro del Grande Re. Dario, colto di sorpresa, si dà
precipitosamente alla fuga, abbandonando il proprio esercito che si di-
sperde, lasciando Alessandro padrone del campo. La battaglia di Isso se-
gna una disfatta dei Persiani. Alessandro cattura anche l’harem reale,

98
che comprende, oltre alle moltissime mogli anche tutti i figli di Dario,
perché secondo la tradizione persiana tutta la famiglia del Grande Re
doveva seguirlo in battaglia.
Tornato verso la costa, Alessandro conquista Tiro, dopo un lungo
assedio, poi Gaza e da qui passa in Egitto, occupandolo facilmente per-
ché viene accolto come un liberatore dalla popolazione, che non soppor-
tava la dominazione persiana.
Nel 332 a. C. fonda la città di Alessandria, destinata a diventare il
maggior centro cultura dell’età ellenistica. Rispettando le tradizioni egi-
zie e utilizzandole a proprio vantaggio, accetta di essere in coronato, a
Menfi, faraone dell’alto e del basso Egitto. Si reca poi in visita presso
l’oracolo di Ammone. Calliste ne racconta questo pellegrinaggio con trat-
ti prodigiosi (il dio Ammone avrebbe fatto piovere per salvare il sovrano
che si era smarrito nel deserto, inviando poi due corvi per indicargli il
cammino) incominciando a costruire l’immagine di Alessandro come
semidio. Le profezie del sacerdote di Ammone, raccontate dallo stesso
Alessandro, lo designavano come figlio di Giove. In quanto faraone era
considerato figlio di Ammone, il quale come figlio di Ammone il quale
era assimilato a Zeus. Alessandro intendeva, in questo modo, aumentare
il proprio prestigio nell’esercito e soprattutto tra i propri generali, che
nella tradizione macedone erano quasi suoi pari.
Dario, intanto, aveva riorganizzato un esercito ancora più numeroso
del precedente, chiamando in soccorso tutte le satrapie (distretti
dell’impero, comandate da un satrapo, cioè un nobile scelto dal re) o-
rientali e le popolazioni dell’india. Gli storici parlano un milione di fanti
e di circa 40.000 cavalieri, contro i 40.000 fanti e i 7.000 cavalieri di cui
dispone Alessandro.
Probabilmente la consistenza dell’esercito persiano è sovrastimata,
ma comprendeva comunque parecchie centinaia di migliaia di uomini.
Nel 331 Alessandro attraversa il Tigri, oltre il quale si è schierato,
questa volta in un’ampia pianura, presso Gaugamela, l’esercito persiano.
Con pochi cambiamenti, Alessandro ripete la tattica che gli aveva assicu-
rato la vittoria a Isso: si pone al comando di una parte della cavalleria,
disposta a cuneo, e riesce a penetrare nel cuore dell’esercito nemico,
puntando al carro del Gran Re. Ancora una volta, Dario si dà alla fuga,
inseguito per un lungo tratto da Alessandro che non riesce a rag-

99
giungerlo, ma che ottiene la vittoria. Ormai Dario non ha più un esercito,
dato che i vari satrapi, in seguito alla sua fuga, si sentono sciolti dalla fe-
deltà nei suoi confronti. Alessandro conquista facilmente Babilonia e poi
Susa, l’ultima città sulla strada per Persepoli, la capitale della Persia.
Molti satrapi si arrendono e consegnano le proprie città ad Alessandro,
ricevendo in cambio la possibilità di conservare il proprio potere, sotto
il dominio macedone. Nel 330 a.C. anche Persepoli cade. Alessandro ini-
zia allora un lungo inseguimento per catturare Dario, ma quando riesce
a raggiungerlo lo trova ormai cadavere, ucciso dai suoi stessi uomini.
Dopo alcuni anni di pausa, per riorganizzare l’impero conquistato, Ales-
sandro intraprende una spedizione per sottomettere anche l’india. Nel
326 a. C. attraversa - l’Indo e sconfigge le truppe del re indiano Poro nel-
la le battaglia dell’ldaspe. Intendeva, con questa nuova impresa, impedi-
re il rinascere delle satrapie orientali e al tempo stesso stabilire il pro-
prio controllo sui ricchi mercati delle spezie e della seta. Le sue ambi-
zioni vengono però frenate dai suoi stessi soldati, che rifiutano di prose-
guire.
Tornato a Babilonia si adopera per una riconciliazione con le città
greche, dove resisteva ancora un partito antimacedone. Concede il per-
dono a tutti gli esuli, che possono tornare in patria, ma al tempo stesso
impone a tutte le città di tributargli onori divini, riconoscendolo come
figlio di Ammone e quindi di Zeus.
La maggior parte delle città ubbidisce, ad iniziare da Atene, che lo
inserisce tra i principali dèi della città.
Mentre sta progettando una nuova spedizione per la conquista
dell’india, Alessandro muore a Babilonia per febbri malariche (ma alcu-
ne fonti parlano di avvelenamento) a soli 33 anni, nel 323 a. C.
L’impero che aveva creato gli sopravvive per poco più di un anno:
dopo una breve reggenza da parte del generale Perdicca, gli altri gener-
ali e ministri di Alessandro - detti «diadochi» - iniziano un periodo di
scontri e di contrasti - durati quasi quarant’anni - che si conclude con la
frammentazione dell’impero in una serie di regni, i cosiddetti «regni el-
lenistici», inizialmente cinque, poi ridotti a tre: la Macedonia, l’Egitto,
l’Asia64.

64 E. Ruffaldi, P. Carelli, U. Nicola, Il pensiero plurale, Loescher, pagg. 303-303

100
LA METAFISICA ARISTOTELICA

Le determinazioni aristoteliche della metafisica

Qual è l’oggetto intorno a cui verte il sapere metafisico secondo Ari-


stotele? Anche ad una prima lettura dei quattordici libri che trattano di
questo sapere, si nota chiaramente che Aristotele ha dato quattro rispo-
ste, più una quinta che egli introduce in un contesto particolare, per poi
ridurla tosto alle altre. Ecco le cinque risposte.
1) La metafisica è una scienza che verte sulle cause e sui princípi
primi o supremi. Infatti, ogni scienza è appunto tale nella misura in cui
supera il livello della mera constatazione empirica delle cose per scopri-
re le cause delle cose stesse. E le cause delle cose sono i princípi che le
costituiscono, le ragioni che le determinano. Tutte le scienze, dunque,
sono scienze di cause, di cause particolari di fenomeni particolari. La
metafisica si differenzia da tutte le altre perché non mira alle cause par-
ticolari ma, come abbiamo già detto, alle cause prime o supreme, le quali
sono le cause generali che spiegano non questo o quell’ente, questo o
quel settore particolare, bensí la totalità delle cose, il complesso della
realtà, il tutto, l’intero. La metafisica è, dunque, il tentativo che l’uomo
compie di rispondere alla domanda sul perché ultimo di tutte le cose.
2) Nel libro IV Aristotele, mutando angolatura, ci parla della metafi-
sica come scienza dell’essere e, più precisamente, dell’essere in quanto
essere. Anche in questo caso, il confronto con le altre scienze torna uti-
lissimo. Ogni scienza particolare studia, ovviamente, ciò che è, ossia un
essere, ma, appunto, un solo settore dell’essere, una parte sola della real-
tà, non la realtà in quanto totalità. Il metafisico, invece, studia la realtà in
quanto tale, vale a dire nella sua totalità, ossia l’intero dell’essere. Ma – e
questo è un punto particolarmente importante da rilevare – studiare
l’essere in quanto essere, ossia studiare l’intero dell’essere, vuol dire

101
non solo limitarsi a descrivere l’essere, a fare una fenomenologia dei di-
versi significati dell’essere, ma significa giungere a comprendere “le
cause dell’essere in quanto essere”, ossia i princípi dell’essere come tale,
vale a dire l’intero e i suoi fondamenti. Come ben si vede, non solo que-
sta definizione concorda con la prima, ma la chiarifica e l’approfondisce.
3) Nei libri centrali emerge, poi, un ulteriore concetto di metafisica
come “scienza della sostanza”. Ora, la parola “sostanza” traduce il greco
ousía che, alla lettera, vorrebbe dire “essentità”. La “sostanza” o ousía
sarebbe, dunque, il senso principale ed essenziale dell’essere. Che anche
questa definizione concordi con le precedenti, illuminando secondo una
ulteriore prospettiva l’oggetto della metafisica, risulterà evidente non
appena si rifletta su quanto segue. Aristotele stesso dice che, avendo
l’essere molteplici significati, la risposta adeguata alla domanda che cos’è
l’essere si potrà avere, fondamentalmente, studiando l’essere nel suo si-
gnificato principe, che è appunto la “sostanza” o “essentità”. Inoltre, dac-
capo, studiare la sostanza (l’essere come sostanza) significa trovare le
cause e i princípi della sostanza, e le cause e i princípi della sostanza so-
no le cause e i princípi dell’essere principale. Pertanto, le cause della so-
stanza sono le cause prime o supreme, col che ritroviamo non solo la se-
conda ma anche la prima definizione, con le quali questa terza concorda
perfettamente.
4) Una quarta definizione (che ritroviamo formalmente espressa nei
libri VI e XI, e, poi, svolta nel XII) caratterizza la metafisica come “teolo-
gia” o “scienza teologica”. Questa definizione è implicita nelle pieghe di
tutte le altre, e Aristotele stesso lo rileva senza mezzi termini. Studiare le
cause prime significa anche cercare Dio, giacché “tutti ammettono che
Dio sia una causa e un principio”. Il metafisico che studia l’essere in
quanto essere (l’intero dell’essere) è diverso dal fisico e “sta più in su del
fisico”, perché fa oggetto della sua indagine non solo il genere fisico
dell’essere ma anche il genere dell’essere che è superiore a questo, ossia
l’essere della sfera del divino. E anche lo studio della sostanza sbocca
nella teologia, perché studiare la sostanza significa, oltre che domandar-
si che cosa sia la sostanza in generale o quali siano i suoi princípi in ge-
nerale, anche domandarsi se esistano solo sostanze di tipo fisico oppure
anche altre al di sopra di quelle fisiche e quali queste siano. Il che signifi-

102
ca domandarsi se esista o no un divino trascendente, che è, appunto, pro-
blema teologico.
5) Nel libro II, infine, la metafisica è definita anche come “scienza
della verità”. Ma tosto Aristotele precisa che conoscere il vero significa
“conoscere la causa” e, in particolare, che conoscere la verità metafisica
significa conoscere la cause che fanno essere vere le altre cose che da
esse dipendono. Le cause più vere sono le cause supreme e, dunque, an-
che Dio e il Divino. La verità di cui parla qui Aristotele è, poi, identificata
con l’essere stesso, dato che, come egli espressamente rileva, “ogni cosa
possiede tanto di verità quanto possiede di essere”. Sicché “Verità”, nel
senso di questo contesto, è termine che copre esattamente quell’area
semantica coperta dalle quattro definizioni di metafisica sopra illustrate,
e, quindi, la definizione della metafisica come scienza della verità non
esprime una nuova definizione ma semplicemente chiarisce che l’oggetto
della metafisica non è una particolare verità (come può essere quella
delle scienze particolari) ma è la Verità ultima65.

65 G. Reale, Introduzione ad Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 1994, pagg. XII-XIII

103
Le quattro cause ovvero il perché delle cose

La celebre dottrina delle quattro cause costituisce uno dei pilastri


dell’aristotelismo. Aristotele si chiedeva sempre il “perché” delle cose,
non si accontentava di conoscere “come” le cose avvengono, ma voleva
andare oltre per cogliere i motivi che spiegano le ragioni dell’accadere.
Per lui la scienza è essenzialmente una conoscenza delle cause dei fe-
nomeni.
Quali sono, dunque, le cause dei processi naturali, o in altri termini
le ragioni per cui le se si generano, si sviluppano e muoiono?

Nella Fisica, Aristotele ne identifica quattro fondamentali:


- la prima dipende da ciò di cui una cosa è fatta, cioè la sua materia,
e Aristotele la chiama dunque causa materiale: se il letto su cui dormia-
mo è fatto di legno, sarà il legno la causa materiale di esso;
- la seconda coincide con “ciò a partire da cui” una determinata cosa
è divenuta quello che è, ed è la causa efficiente. Nel nostro esempio, la
causa efficiente è rappresentata dal falegname che ha dovuto lavorare,
vale a dire impegnare la sua arte o tecnica, per costruire il letto. Si noti,
però, che in natura (ad esempio nella generazione biologica) le trasfor-
mazioni avvengono spontaneamente, ad esempio la ghianda si trasfor-
ma in quercia in virtù di una causa efficiente propria, che non richiede
l’intervento esterno;
- la terza è la forma o essenza della cosa, ovvero la causa formale, ad
esempio la forma compiuta del letto: il processo tecnico del falegname
infatti può dirsi completato quando sia riuscito a realizzare l’oggetto de-
siderato, in questo caso il letto.
- la quarta, infine, è rappresentata dallo scopo in vista del quale il
processo ha luogo ed è la causa finale. La produzione del letto, cioè, è re-
sa possibile dal fatto che l’artigiano ha in mente il fine del suo prodotto
(vale a dire, “ciò in vista di cui” egli lavora). La causa finale rappresenta,
dunque, un elemento importantissimo, che deve precedere la stessa rea-
lizzazione del prodotto, in quanto costituisce il senso di tutto il progetto
e dell’impresa. In altre parole, se non sappiamo lo scopo di una cosa non
104
possiamo costruirla. In natura, tale scopo si raggiunge spontaneamente.
Secondo Aristotele, infatti, bisogna ammettere un ordine finalistico66 in
tutti i processi naturali e biologici. Dalla ghianda si svilupperà sempre
una quercia, dal seme dell’uomo nascerà sempre e necessariamente un
altro uomo.
Per maggiore completezza, aggiungiamo che Aristotele tende a iden-
tificare la causa formale con la causa finale. Ciò lascia capire che, a suo
avviso, il fine o lo scopo per cui una cosa esiste è quello di realizzare nel
modo migliore la sua essenza, cioè la sua forma di uomo, di tavolo, di al-
bero... Le deformità rappresentano dunque per lui delle eccezioni, che
confermano tuttavia la regola secondo la quale nell’ordine necessario
della natura ogni cosa ha la forma migliore che le condizioni possano
permetterle. Si tratta di una visione ottimistica e finalistica del mondo e
degli enti che lo abitano. In termini tecnici, possiamo dire che la scienza
aristotelica sia teleologica (télos, in greco, equivale a “fine”), in quanto
crede fermamente che nell’universo biologico ogni organo animale esi-
sta in funzione di uno scopo. Una veduta che lo avvicina in un certo sen-
so a Platone, il quale riteneva che se l’uomo ha la posizione eretta, con la
testa che si eleva sul resto del corpo, ciò dipende dalla superiorità
dell’uomo rispetto agli altri animali ed è finalizzato alla possibilità di
guardare e controllare tutto ciò che avviene nel mondo. A differenza di
Platone, però, Aristotele ritiene che il fine sia iscritto nella natura stessa
di ciascuna cosa: si tratta di un impulso spontaneo presente nella stessa
struttura delle cose, le quali tendono a realizzare la loro forma nel modo
migliore possibile. Un ordine finalistico e necessario, dunque, governa il
mondo in ogni sua parte, per quanto piccola e apparentemente insignifi-
cante. Nonostante questo Aristotele non può essere definito un filosofo

66 Finalismo (o teleologia): Aristotele ritiene che tutto quanto accade nel mondo naturale

sia governato dalla legge del finalismo, o teleologia (dal greco télos, “fine”): tutto ha un
fine, uno scopo. Tale finalismo può intendersi in un duplice senso: a) come subordinazio-
ne dell’universo a Dio, che ha impresso al tutto il primo movimento; b) come energia in-
terna alle singole cose o sostanze che tendono a realizzare naturalmente la propria es-
senza o ragion d’essere. Da questo secondo punto di vista, la ghianda tenderà a divenire
quercia, il bambino tenderà a diventare adulto, come l’orecchio o gli occhi tenderanno a
sentire e vedere. Nella natura aristotelica non c’è posto per il caso. Le deformità e le ma-
lattie, che alterano la naturale perfezione dell’uomo e degli animali sono delle eccezioni,
che confermano la regola.

105
determinista. Egli infatti è preoccupato di lasciare spazio alla libertà,
quando afferma che gli eventi futuri non sono del tutto e per tutto de-
terminati e che l’eccezione è sempre possibile. Inoltre, egli ritiene che ci
sia un ambito, quello delle azioni morali dell’uomo, che non è soggetto
alla legge della necessità ma è, invece, totalmente libero67.

67 Cfr. D. Massaro, La comunicazione filosofica, Paravia, pag. 284, con adattamenti.

106
Dalla finalità del divenire alla teologia: la concezione
aristotelica di Dio

L’ordine che regola Io sviluppo delle forme procede da quelle infe-


riori a quelle superiori. La materia è dunque quel sostrato che si arric-
chisce verso la sua piena realizzazione, trasformandosi continuamente
verso il meglio, verso la perfezione delle forme: seme, germoglio, albero,
frutto…
Il divenire, però, per la sua stessa continua evoluzione, rischia una
sequenza infinita. Ma per Aristotele, che rifiuta l’incompiutezza e
l’indeterminazione, neanche il susseguirsi di potenza e atto può proce-
dere all’infinito. In che modo concluderlo?
In base alla priorità della forma sulla materia e dell’atto sulla poten-
za Aristotele introduce un concetto limite, che risolve il suo problema.
Solo una realtà immateriale, in quanto puro atto, cioè assolutamente
priva di possibilità irrealizzate, può rispondere compiutamente alla per-
fezione cui tende il processo della realtà. Un atto così concepito, esente
da qualsiasi finalità, permane nella sua forma perfetta e conclude la se-
rie del divenire. È verso la perfezione, infatti, che tendono tutti gli enti,
contribuendo così, ciascuno nel proprio ambito e secondo la propria
funzione, all’armonia cosmica. Necessariamente immobile, in quanto re-
altà immateriale in sé compiutamente perfetta, per Aristotele l’atto puro
assume la funzione di motore di tutta la rimanente realtà. Il Dio di Ari-
stotele, motore immobile, attrae il mondo come l’oggetto dell’amore at-
trae l’amante. Per spiegare l’azione motrice di un ente immobile Aristo-
tele, come già Platone, è costretto a introdurre elementi di tipo allego-
rico, quali amore e desiderio. In definitiva nella sua perfezione Dio è
causa motrice, proprio in quanto causa finale.
Diventa così esplicito il residuo platonico di trascendenza nella me-
tafisica aristotelica. La perfezione di una forma pura, che non aspira più
a nulla in quanto non soffre di alcuna privazione, ritorna a essere infatti,
come in Platone, radicalmente eterogenea al divenire.
Con la perfezione assoluta si chiude il cammino della metafisica co-
me ontologia e si apre quello della metafisica come teologia. Se l’oggetto
107
dell’ontologia è “l’ente in quanto ente”, oggetto della teologia è l’ente in
quanto perfezione assoluta: Dio, atto puro e motore immobile.
Data la sua eterogeneità rispetto alla materia, il Dio aristotelico non
può che caratterizzarsi come pensiero. Ma pensiero di che cosa? Quale
può essere l’oggetto di questa intelligenza? Se Dio pensasse a qualcosa
di diverso da sé, cioè al mondo imperfetto e molteplice, ne rimarrebbe
contaminato: Dio non può dunque pensare ad altro che a sé stesso. Ri-
manendo costantemente immobile e indifferente, il Dio di Aristotele non
interviene sul mondo. Egli è per Aristotele pensiero di pensiero.
Tale definizione rende evidente la differenza tra la concezione ari-
stotelica e le successive sovrapposizioni della teologia cristiana: il Dio
aristotelico non è Giudice, non è Padre, non è Amore, meno che mai può
venire considerato Creatore. La creazione, del resto, secondo il pensiero
cristiano, è un atto che non parte dalla materia per plasmarla e model-
larla, ma parte dal nulla, producendo qualcosa che prima non era; in
quanto tale, essa rimane lontana dall’orizzonte concettuale greco, che
non ammette il nulla, né l’infinito68.

68 Orizzonti del pensare, pag. 239

108
Dio è Causa Prima

Anche Aristotele, come Platone, non si esime dal qualificare esplici-


tamente la propria filosofia come una teologia. Nella Metafisica l’oggetto
della pròte philosophia (filosofia prima) sono i principi, ma vi si asserisce
poi che la teologia è la più elevata delle scienze teoretiche, perché si oc-
cupa di entità che hanno esistenza separata e immobile. Se infatti esiste
una sostanza immobile e separata fra le cose reali, proprio in essa risie-
de il divino; studiandola possiamo chiarire aspetti di importanza fonda-
mentale a proposito di tutte le sostanze e dunque questa teologia può
essere utile per chiarire la struttura stessa del reale.

LE TRE DEFINIZIONI DELLA DIVINITÀ. Nella Metafisica sono presenti tre


definizioni della divinità: Dio è il motore immobile; Dio è atto puro; Dio è
pensiero di pensiero.

DIO È MOTORE IMMOBILE. Nel risalire alla causa dei movimenti che
osserviamo, e che appaiono tutti essere volta a volta cause e
conseguenze di altri movimenti, per Aristotele siamo condotti a
considerare il movimento dei corpi celesti. I corpi celesti sono a loro
volta mossi dalle sfere che li contengono. Ogni sfera riceve il movimento
dalla sfera con cui confina. Causa di tutto il movimento è pertanto la
sfera celeste più esterna, quella delle stelle fisse. Essa però, secondo
Aristotele, è mossa a sua volta da un motore che non è mosso da
nient’altro, Un “qualcosa di eterno che è, insieme, sostanza e atto”
(Metafisica, l072a 25). Dopo aver mostrato che tale essere non solo
svolge una funzione fisica, ma possiede la bellezza e la bontà al massimo
grado, Aristotele lo definisce esplicitamente come «Dio».

DIO È ATTO PURO. Per Aristotele, presupposto del movimento e del


cambiamento è uno stato di potenzialità, ossia di mancanza e di
privazione. Ciò che si muove o cambia tende a uno stato di perfezione,
ossia di piena attuazione della sua potenzialità. Per questa ragione Dio,
essendo perfetto, non può muovere come fanno le realtà fisiche, cioè

109
muovendosi, a loro volta, perché mostrerebbe di contenere una
potenzialità e quindi di non essere perfetto Può muovere solo e
semplicemente essendoci. Esso muove come oggetto di desiderio, di
tensione, di amore — è «l’amor che move il Sole e l’altre stelle» di cui
parla Dante nella chiusa della Divina Commedia — non tende a nulla e
non ama nulla. Nella sua perfezione esso è necessario, eterno, immobile,
perfetto, non manchevole di nulla.

DIO È PENSIERO DI PENSIERO. Proprio per la sua piena e perfetta


attualità, Dio non può pensare la realtà fisica, che è in movimento, o
questo pensiero introdurrebbe in lui un elemento di mutamento, di
potenzialità. L’esistenza di dio dev’essere essenzialmente pensiero
(perché pensare è la più elevata attività) che ha se stesso come oggetto
(perché è il più elevato oggetto): Dio, in quanto è pensiero che pensa se
stesso, viene definito “pensiero di pensiero” (Metafisica, 1074b 36). Dio
possiede già da sempre per intero tutta la sapienza, non è la capacità di
cogliere tutto (il che ancora una volta conterrebbe un elemento di
potenzialità), ma l’effettivo e già da sempre attuato coglimento del tutto.

Tutte e tre queste definizioni sorgono ancora una volta da proble-


matiche fisiche, anche se poi non mancano di attribuire a Dio caratteri-
stiche attinenti al campo dell’etica (la bontà, la bellezza), caratteristiche
che tuttavia appaiono scarsamente significative per gli scopi di Aristote-
le.
L’interesse del filosofo nei confronti di Dio sorge dal suo interesse
per la sostanza e per il mondo fisico, sebbene le caratteristiche della di-
vinità, ben separata dalla natura e dotata di proprietà molto diverse da
questa, ci fanno escludere che quella di Aristotele sia solo una teologia
naturale. Ma allora che ruolo ha la riflessione aristotelica sul divino? Es-
sa appare non tanto una considerazione specifica di ambito teologico,
quanto un aspetto necessario dell’ontologia aristotelica: lo studio della
sostanza richiede infatti che ci si occupi anche della sostanza più elevata,
dove le caratteristiche dell’essere si possono cogliere con più facilità e
con maggior precisione.

110
Leggiamo a questo proposito un passo dello Stagirita, tratto dalla
Metafisica, dove il filosofo indaga le caratteristiche del terzo tipo di so-
stanza, quella divina. Essa è la più elevata, ma, in quanto sostanza, ha le
stesse caratteristiche delle altre sostanze e anzi può servire a metterle
meglio in luce. Cade così la gerarchia platonica dei tipi di enti (il Bene, le
idee, le realtà sensibili): studiare Dio equivale a studiare una parte
dell’essere, del mondo e a capirlo meglio nella sua interezza.

LA SOSTANZA DIVINA. Poiché, come abbiamo visto, ci sono tre specie di


sostanze, di cui due sono quelle fisiche e la terza è la sostanza immobile,
dobbiamo ora parlare di quest’ultima e dimostrare che necessariamente
esiste una sostanza immobile che è eterna. Infatti le sostanze hanno il
primato tra tutte le cose esistenti, e se esse sono tutte corruttibili, tutte
le cose sono corruttibili; ma è impossibile che il movimento vada
soggetto alla generazione e alla corruzione (abbiamo detto, infatti, che
esso è eterno) e lo stesso dicasi anche per il tempo, giacché il prima e il
poi non potrebbero esistere se non esistesse il tempo; ragion per cui,
come è continuo il tempo, così è continuo anche il movimento, dato che
il tempo si identifica col movimento o, per meglio dire, è un’affezione di
questo. Ma non esiste movimento continuo tranne quello locale, e l’unico
movimento locale continuo è quello circolare.
Ma, sebbene esista una causa motrice e produttrice, se essa non è
in-atto, non ci sarà movimento, giacché ciò che ha la potenza di passare
all’atto può anche non passare all’atto. […]. Ma c’è di più: pur ammetten-
do che la causa sia in-atto, parimenti non ci sarà movimento, qualora la
sostanza di questa causa sia una potenza: difatti, in tal caso, sarebbe im-
possibile l’eternità del moto, perché ciò che è in-potenza può anche non
essere. Ecco perché è indispensabile che ci sia un principio tale che la
sua stessa sostanza sia atto. Oltre a ciò, le sostanze di cui stiamo trattan-
do devono necessariamente essere immateriali, perché esse devono es-
sere eterne, se pur v’è qualcosa di eterno al di fuori di loro. Perciò esse
sono atto69.

69Aristotele, Metafisica, XII, 107 ib: trad. it. in , Opere, Laterza, Roma-Bari 1973. Cfr. G.
Boniolo, P. Vidali, Argomentare, vol. I, Bruno Mondadori, pag. 389, con adattamenti.

111
Il passaggio dal divenire all’immutabile

Privazione e preesistenza della forma. — Anche Aristotele, come già i


primi filosofi, tien fermo il teorema che “dal nulla non si genera nulla”
(ex nihilo nihil fit, diranno i filosofi medioevali, e prima di loro Lucrezio).
Il nulla non produce l’essere; altrimenti il nulla sarebbe l’essere. Per evi-
tare questo assurdo, già i primi pensatori affermano che tutto ciò che si
genera è già prima nell’arché da cui tutto procede e in cui tutto ritorna.
Orbene, intendendo il divenire come passaggio dalla privazione alla
forma, da parte di un sostrato, Aristotele mette a sua volta in luce che la
forma non può essere generata dalla privazione: altrimenti, visto che la
privazione è non-essere, la forma (cioè l’essere) si genererebbe dal nulla
(ex nihilo). Ciò da cui la forma è generata è invece il sostrato che, in po-
tenza, è tale forma; e ogni tipo di sostrato è un essere. La forma si genera
dall’essere — ex ente. Il divenire è quindi passaggio da essere a essere —
da un certo a un cert’altro modo dell’essere. E questo è possibile perché
già il pensiero di Platone e lo stesso pensiero aristotelico hanno mostra-
to, contro Parmenide, che l’affermazione della molteplicità dell’essere —
e quindi di una pluralità di modi di essere —non implica l’affermazione
dell’esistenza del niente. D’altra parte, se la forma non si genera dalla
privazione, ma dal sostrato in potenza, quest’ultimo, proprio perché è
soltanto in potenza la forma, è pur sempre privo della forma, e, in quan-
to ne è privo, esso non possiede ancora la forma. Tenendo ferma questa
situazione, da un lato, e dall’altro lato il teorema che tutto ciò che divie-
ne deve essere già prima del suo sopraggiungere (proprio perché non
può divenire dal nulla), ne viene che la forma, che viene generata, deve
essere già prima del suo generarsi, ma non può essere già prima nel so-
strato da cui essa si genera. La statua (forma) esce dal blocco di marmo
(sostrato) — e non dal suo esser privo della statua —, ma il blocco di
marmo non contiene già in atto la statua. Dire che la contiene in potenza
significa dire appunto che esso ne è privo.

Il mosso, il movente, il movente immobile. — Scaturisce da tutto que-


sto una conseguenza decisiva: poiché la forma deve preesistere al suo
112
sopraggiungere nel sostrato che la riceve, e poiché non può preesistere
nel sostrato stesso che la riceve, è necessario che essa preesista in un
altro sostrato, che la possiede attualmente (= in atto). E solo perché
quest’altro sostrato possiede attualmente tale forma che esso può far
passare il sostrato che la riceve dalla privazione al possesso di tale for-
ma. Il “far passare” è“muovere”; e Aristotele chiama “motore” o “moven-
te” il sostrato che fa passare un altro sostrato (che Aristotele chiama il
“mosso”) dalla privazione al possesso della forma. Questo significa che
“tutto ciò che è in movimento è mosso da altro” (omne quod movetur ab
alio movetur, dicono gli aristotelici medioevali). Ad esempio, solo in
quanto il fuoco possiede in atto il calore, esso può far diventar caldo un
corpo, ossia lo può far passare dalla privazione al possesso del calore.
Se il divenire dell’ente, dunque, non è contraddittorio, solo in quan-
to non è semplicemente un passaggio dalla privazione alla forma, ma è il
sopraggiungere della forma in un sostrato, è ora venuto in chiaro che la
non contraddittorietà del divenire esige anche l’esistenza del movente.
Aristotele usa il termine aitìa (“causa”) per indicare ciò senza di cui
qualcosa sarebbe impossibile. Ebbene, l’ente diveniente è possibile solo
se si afferma l’esistenza della causa formale (la forma), della causa mate-
riale (il sostrato) e, ora stiamo vedendo, della causa efficiente (il moven-
te). Aristotele afferma l’esistenza di una quarta causa del divenire, la
causa finale — ossia ciò in vista di cui qualcosa è fatto. Ma vedremo tra
poco come l’esistenza della causa finale non sia, per Aristotele, qualcosa
di semplicemente trovato nell’esperienza, ma qualcosa senza di cui, an-
cora una volta, il divenire dell’universo sarebbe impossibile.
Orbene, se il movente possiede in atto la forma, ma la possiede es-
sendo a sua volta passato dalla privazione al possesso di essa - se cioè il
movente è un “movente mosso” -, è necessario allora affermare
l’esistenza di un terzo sostrato, che possegga attualmente la forma che è
sopraggiunta nel mosso e nel movente mosso. A questo punto si tratta di
comprendere che, anche qui, non è possibile procedere all’infinito.
Il motivo, infatti, per il quale si è introdotta l’esistenza di un secondo
sostrato è che, se non se ne affermasse l’esistenza, si dovrebbe afferma-
re che, nello stesso sostrato, è presente la forma (in virtù del teorema
dell’ex nihilo nihil) e insieme non è presente (perché il sostrato divenien-
te, prima di ricevere la forma, ne è privo). E per togliere questa contrad-

113
dizione che si afferma l’esistenza di un altro sostrato. Ebbene, se il rinvio
da un sostrato a un altro fosse indefinito, il toglimento della contraddi-
zione sarebbe indefinitamente rinviato, e cioè la contraddizione non sa-
rebbe tolta. Tale contraddizione è quindi tolta solo affermando che la
serie dei moventi mossi ha un termine nell’esistenza di un “movente
immobile”, ossia di un ente che, rispetto alla forma considerata, non di-
viene, cioè non passa dalla potenza all’atto.
Dio è la causa finale. — Se a questo punto non ci si limita alla consi-
derazione di un divenire particolare, ma si considera la totalità del dive-
nire, la totalità dell’universo degli enti divenienti, è necessario affermare
che ogni forma, che in tale totalità sopraggiunge, preesiste in «qualcosa
che muove non mosso, eterno, che non è altro se non sostanza e atto»: il
Movente (o Motore) Immobile. Solo atto; perché se fosse in potenza sa-
rebbe soggetto a divenire. E quindi non un atto diverso dal suo esser so-
stanza (perché, daccapo, se esistesse questa diversità, l’esser sostanza
sarebbe qualcosa di potenziale rispetto al suo atto), ma un ente la cui
sostanza è il suo esser atto: atto puro. Esso è il Dio, la cui attività è quella
suprema: l’attività eterna dell’intelligenza che è eternamente intelligibi-
le a sé stessa.
Ma nella realtà sensibile ogni agire — e i moventi, nel sensibile, so-
no appunto un agire — è anche un patire, cioè ogni muovere è insieme
un essere mosso, ogni muovere è un “commuoversi”. Il Movente Immobi-
le, proprio perché immobile, non può commuoversi, cioè non può muo-
vere nel senso in cui la causa efficiente muove. Ma ciò che muove senza
muoversi può essere solo l’oggetto del desiderio e dell’intelligenza. Il
Movente Immobile non è causa efficiente, ma causa finale dell’universo.
Esso è lo scopo dell’universo, ma non lo scopo considerato come il con-
tenuto che viene prodotto dall’agire, bensì lo scopo considerato come
ciò a cui l’azione mira e che guida l’azione. Il Dio muove il mondo, così
come l’oggetto dell’amore, impassibile, muove l’amante.
Il Dio non produce il mondo, ma, impassibile, senza commuoversi, lo
attrae a sé come la terraferma attrae a sé chi va navigando sul mare70.

70 E. Severino, Storia della filosofia antica, Bur, pag. 130

114
LA FISICA

La fisica aristotelica

L'ESISTENZA DEL MONDO FISICO. La fisica riguarda insomma la physis,


quella realtà che ha in sé il principio del movimento e del divenire. A dif-
ferenza della natura dei Presocratici, che significa la totalità dell’essere,
la natura aristotelica indica solamente una parte del reale, quella sogget-
ta al divenire. Degli aspetti generali di questa realtà, lo Stagirita tratta
nella Fisica, mentre degli aspetti particolari tratta in un complesso im-
ponente di opere che, tuttavia, appartengono non tanto alla filosofia in
senso stretto, quanto alle scienze particolari. La prima questione che oc-
corre risolvere concerne l’esistenza stessa della physis. Tale esistenza,
infatti, è stata decisamente negata da taluni filosofi precedenti, in parti-
colare dagli Eleati. Questi infatti negano ogni tipo di divenire e insieme
riducono tutte le cose all’uno. Tuttavia «esaminare se l’essere sia uno e
immobile non fa parte delle ricerche fisiche. Come infatti il geometra
non ha più ragione di disputare con chi gli demolisce i principi, ma ha
bisogno di una scienza o diversa o comune a tutte le altre, così accade
anche a chi studia i principi fisici» (Fisica, I, 2). Ogni scienza particolare
presuppone come esistente il proprio oggetto e di questo studia leggi e
proprietà. L’eventuale giustificazione dell’oggetto stesso compete perciò
ad altra scienza. Questo dovrebbe valere anche per la Fisica. Invece Ari-
stotele, sia pure con qualche titubanza, affronta immediatamente tale
questione pregiudiziale, conformemente al significato profondo di que-
sta scienza, che è non scienza particolare in senso stretto, ma ontologia
dell’essere in divenire. Su quale base viene dunque affermata da Aristote-
le l’esistenza della physis? Non attraverso una dimostrazione, ma mo-
strando l’originarietà ed evidenza di tale realtà. «Da parte nostra noi
poniamo che le cose della natura, o tutte o in parte, sono mosse. Ciò è
evidente per intuizione immediata» (Fisica, I, 2). Egli non presuppone
l’esistenza, quanto ne afferma l’originaria evidenza e quindi la sua indi-

115
mostrabilità. Né si può dimostrare ciò che è evidente a partire da ciò che
evidente non è. Esso può essere colto o meno, come avviene in rapporto
ai colori. Si può e si deve, invece, procedere alla confutazione dei suoi
negatori, attraverso un procedimento dialettico, così come è avvenuto in
relazione al principio di non contraddizione e alla sua evidenza logica
nel IV libro della Metafisica. Il medesimo procedimento, rivolto in parti-
colare contro gli Eleati, viene da Aristotele sviluppato nella Fisica.

LA NEGAZIONE DEL DIVENIRE. Altre dottrine sono pervenute talvolta al-


la negazione del divenire soltanto per l’incapacità a fornire di esso una
spiegazione adeguata. Innanzi tutto, in quanto esse concepiscono il di-
venire come passaggio dall’essere o dal non essere in senso assoluto. Il
divenire viene ammesso, ma insieme viene posto come aspetto essenzia-
le di questo il non essere. Ma ciò è contraddittorio. Tale è ancora il dive-
nire, se esso è ricondotto semplicemente ai contrari; sicché il divenire si
realizza solo a patto di identificare i due contrari: il bianco è nero, il
grande è piccolo. La soluzione del problema è trovata da Aristotele
nell’introduzione del sostrato: infatti, è l’uomo che diviene da non-
musico musico, e non il non-musico che diviene musico. «Sicché è chiaro
(...) che tutto ciò che diviene è sempre composto e vi è non solo qualcosa
che diviene, ma anche l’oggetto che qualcosa diviene; ed esso è duplice:
da una parte, infatti, è il sostrato, dall’altra è l’opposto: e dico opposto
l’a-musico, sostrato, l’uomo; opposta la mancanza di figura o di forma o
di ordine, sostrato, invece, il bronzo o la pietra o l’oro» (Fisica, I, 7).
Il divenire si configura pertanto come passaggio del sostrato dalla
potenza all’atto, cioè dalla privazione di una certa forma alla forma stes-
sa o atto. E la privazione, ad esempio il non-musico, non indica il non es-
sere assoluto, ma semplicemente il non essere in atto di una certa forma,
cioè la privazione di quella forma, il suo essere in potenza. «In senso as-
soluto nulla diviene dal non ente»: quindi non è possibile «sopprimere
l’affermazione che ogni cosa o è o non è» (Fisica, I, 8).
Inoltre, il movimento si produce in rapporto alle quattro cause —
materiale, formale, efficiente e finale — già esaminate nella Metafisica.
Non sono cause invece né la fortuna né il caso.

116
CONTRO IL MECCANICISMO. In contrapposizione al meccanicismo, la na-
tura è intesa come causa finale. Perciò negare il finalismo significa nega-
re la stessa natura. La necessità, presente anch’essa in natura, non è al-
tro che l’elemento materiale presente nella finalità.

IL MOVIMENTO. Il movimento è definito da Aristotele né come solo at-


to né come sola potenza, ma come «atto di una potenza in quanto è po-
tenza» (Fisica, III, 1): così il movimento qualitativo o alterazione è atto di
ciò che è alterabile, in quanto è alterabile; lo stesso deve dirsi in rappor-
to agli altri tipi di movimento. Esso inoltre, come abbiamo visto, concer-
ne l’essere solo di alcune categorie - sostanza, qualità, quantità, luogo -
non di tutte. Le precondizioni che rendono possibile il movimento sono:
il motore, il mosso, lo spazio e il tempo, i contrari. Inoltre, il movimento
ha luogo solamente da sostrato a sostrato.

L’INFINITO. Trattando delle precondizioni del movimento, Aristotele


affronta e risolve innanzi tutto il problema dell’infinito, giacché l’infinito
sembra essere necessariamente implicato sia nello spazio, come nel
tempo, nella perennità del movimento, nella tendenza a porre il limite,
nel nostro pensiero (Fisica., III, 4). Inoltre, sulle aporie che scaturiscono
dall’infinito si è fondato Zenone di Elea per negare il divenire. Per lo Sta-
girita, l’infinito non esiste come sostanza separata, cioè come realtà a sé
stante, né può concepirsi come corpo sensibile infinito in atto. L’infinito
esiste sempre e solo in potenza nelle realtà continue, come spazio, tem-
po e movimento. Esso indica semplicemente la possibilità della conside-
razione senza limite propria del pensiero nell’atto della divisione del
continuo o nella assunzione di un termine sempre maggiore del termine
dato. Ma non può mai darsi in atto.

LO SPAZIO E IL TEMPO. Nel IV libro della Fisica, Aristotele analizza lo


spazio e il tempo. Per quanto concerne il luogo, esso non è né forma né
materia, come ritengono taluni, proprio perché forma e materia sono nel
luogo. Neppure è intervallo, giacché questo muta, mentre il luogo
rimane immutato. Né è materia, giacché mentre questa è separabile, il
luogo non è separabile dai corpi. Esso è quindi primo immobile, limite
del corpo contenente (IV, 4). Questa definizione diverrà famosissima nel

117
Medio Evo e verrà fissata nella celebre formula terminus continentis
immobilis primus. In quanto limite, il luogo esiste solo in relazione al
corpo di cui è limite. Proprio per questo, esso non si identifica con il
vuoto. I capitoli finali del IV libro della Fisica affrontano il problema del
tempo, con una profondità e finezza di analisi presupposta dalle indagini
di Plotino, S. Agostino, S. Tommaso, Hegel.
Seguendo il consueto procedimento, Aristotele esamina dapprima le
aporie sull’esistenza del tempo. Se infatti si intende il passato come ciò
che non è più e il futuro come ciò che non è ancora, il tempo dovrebbe
esistere pur essendo costituito di parti che non sono. Anche l’esistenza
dell’istante appare problematica: infatti esso non può intendersi né
come identico, né come differente, né come continuo. Il tempo è stato
spesso identificato con la sfera del tutto, e quindi con lo stesso
movimento. Ma il tempo non è il movimento, giacché questo ultimo è nel
tempo. Tuttavia il tempo non esiste senza il movimento; esso è qualcosa
del movimento. Tempo, spazio e mobile si implicano reciprocamente. In
questo rapportarsi, essi esprimono il prima e il poi, che dallo spazio si
estende al mobile e quindi al tempo. Il tempo è allora «numero del
movimento secondo il prima e il poi» (IV, 2). Il concetto di numero è da
intendere non come numero astratto, cioè come mezzo di numerare, ma
come numero concreto o numero-numerato: ossia numero che sussiste
sempre e solo come predicato di cose. Numerare è l’atto di
determinazione del movimento introdotto dalla coscienza, che, a partire
dal prima e dal poi del movimento, determina anche il tempo. Il tempo è
determinato dai due istanti, prima e poi. Né l’istante è parte del tempo,
elemento discreto che costituisce per sommatoria il tempo,bensì esso è
limite del continuo. In quanto limite, l’istante è senza grandezza, solo
«sosta» virtuale introdotta nel continuo dalla coscienza che determina.
Come si vede, la coscienza gioca un ruolo essenziale nella dottrina
aristotelica del tempo. Dal momento che il tempo è numero, e il numero
è in rapporto con l’atto del numerare proprio della coscienza, Aristotele
si chiede se il tempo potrebbe esistere qualora non esistesse la
coscienza.

IL CONTINUO. Nel VI libro viene affrontato il problema del continuo:


questo non è costituito da elementi indivisibili, come sembrava credere

118
Zenone nei suoi paradossi, bensì è quantità sempre divisi-bile. Il
continuo è quantità nella quale un limite congiunge sempre due punti
dati, partecipando di entrambi. Il movimento è inconciliabile con una
considerazione della grandezza come costituita di elementi indivisibili.

DIO COME CAUSA ULTIMA DEL DIVENIRE E DELLA PHYSIS. Nel libro VIII,
infine, Aristotele si propone di giungere alla determinazione della causa
ultima del divenire. Dio, pertanto, costituisce il principio ultimo di
giustificazione della phiysis71.

71Tratto, con adattamenti, da Storia del pensiero occidentale, diretta da Emanuele severi-
no, Armando Curcio Editore.

119
La dottrina delle quattro cause

Per lo Stagirita sapere significa innanzitutto conoscere le cause di


ciò che succede. Studiando la ricerca della causa nei primi filosofi greci
(Metafisica, I 3), Aristotele nota che le varie scuole hanno oscuramente
intuito diversi tipi di causa, ma non hanno individuato i quattro tipi di
cause, come si vanta di aver fatto lui.
a) La causa materiale (é yle) indica ciò di cui una cosa è fatta, ad
esempio il bronzo è la causa della statua, l’argento la causa della coppa.
b) la causa formale (tò eidos) è la forma e il modello, ad esempio il rap-
porto due a uno per l’ottavo oppure la forma che lo scultore ha dato al
suo blocco di marmo.
b) La causa motrice (tò kinoùn) o efficiente, ad esempio la mano
dello scultore, l’agente è causa di ciò che è fatto, il padre è la causa del
bambino.
c) La causa finale (tè télos, tò ou éneka), ad esempio la statua è sta-
ta scolpita per adornare il tempio, la causa della passeggiata è la buona
salute, in quanto si passeggia per stare bene. Quest’ultima, per Aristote-
le, è la causa per eccellenza, poiché spiegare significa innanzitutto poter
rispondere alla domanda perché? Tutto ciò si capisce se si tiene presente
che, per Aristotele, la natura è un principio di finalità; la natura crea, con
i mezzi che ha a disposizione, quanto vi è di migliore e più bello.
A proposito della casualità nella filosofia di Aristotele, Hamelin ha
scritto giustamente: «Tutte le cause si riducono alla forma e alla materia.
Il motore e il fine sono tutt’uno con la forma e, dal canto suo, la materia
svolge il ruolo di tutto ciò che è necessità e viene dal basso, di tutto ciò
che è vis a tergo». In realtà la forma alla fine fa tutt’uno con l’essenza, in
quanto è il motore immanente che dirige ogni cosa verso un fine, ogni
attività motrice è quindi in sé teleologica. È quanto avviene nella crea-
zione di un’opera d’arte, dove la forma è allo stesso tempo fine; «l’arte o
esegue bene ciò che la natura è incapace di fare o la imita» (Fisica II 8
199 a 15); ma nell’opera d’arte il motore è esterno a ciò che è mosso: «Se
l’arte di costruire vascelli fosse nel legno, essa agirebbe come la natura»
(Fisica II 8 199 b 26). Per comprendere la teoria aristotelica della casua-
120
lità, non bisogna dimenticare che, il più delle volte, Aristotele parla come
un naturalista. Le rondini fanno il nido e i ragni tessono la tela, in virtù
di una forza naturale che li spinge a farlo; parimenti la natura della pian-
ta la porta a produrre le foglie in vista dei frutti e a dirigere le proprie
radici verso il basso e non verso l’alto per trovare nutrimento (Fisica II 8
199 a 20). Siamo molto vicini a quanto diremo dell’anima, forma di un
corpo naturale che ha la vita in potenza e che, principio interno di finali-
tà organizzatrice, è definita entelechia (L’anima II 1 412 a 20). Per que-
sto Aristotele ripete in continuazione «l’uomo genera l’uomo»72.

72 Cfr. J. Brun, Aristotele, Xenia, Milano, pag. 46, con adattamenti.

121
La biologia aristotelica: studi sull’anatomia e sulla
riproduzione

Non dimentichiamo che Aristotele scrive in un’epoca in cui le disse-


zioni e le vivisezioni sono rare; niente di strano quindi se, accanto a de-
scrizioni estremamente precise, troviamo errori che a noi possono ap-
parire grossolani.
Aristotele distingue i tessuti che chiama «omoiomere» e che hanno
delle proprietà, e gli organi che chiama «anomoiomere» e che hanno del-
le funzioni, come la lingua e la mano (Generazione degli animali I 39-43).
Studia il sistema pilifero, parla della natura dei capelli, della calvizie,
dell’incanutimento, del mantello degli animali (ibid. V 42 e segg). Ha del-
le idee abbastanza imprecise sullo scheletro e non sa cosa significhi mu-
scolo, si limita a parlare di «carne». Dà una definizione dell’utero che
non è da scartare totalmente; la sua descrizione più precisa tuttavia è
quella dello stomaco dei ruminanti (Parti degli animali III 14 673 b 31) e
dello sviluppo placentare del «cane dei mari» (il Mustelus laevis), che ha
suscitato l’ammirazione di più di un naturalista.
Numerosi restano comunque gli errori di Aristotele. Crede che il
cervello sia un organo che serve a raffreddare il cuore e gli impedisce di
surriscaldarsi grazie alla secrezione della pituita. Non distingue le arte-
rie dalle vene e crede che queste ultime contengano sia aria che sangue.
Ignora le relazioni che esistono tra gli organi, i nervi e il cervello. Per lui
i polmoni sono dei mantici che hanno lo scopo di provocare un raffred-
damento che mantiene il fuoco vitale, assi come l’aria fredda prodotta da
un mantice tiene accese le braci. Le sue descrizioni dell’intestino restano
confuse, ma si accorge che i reni comunicano con la vescica attraverso
gli ureteri.
Certamente, sia per quanto riguarda le osservazioni corrette che gli
errori, Aristotele non ha portato delle innovazioni, una lunga tradizione
medica lo precedeva i sacrificatori, i macellai, i pastori, gli uccellatori e i
pescatori sono stati per lui maestri preziosi, ma bisogna dire che egli ha
saputo codificare queste osservazioni (nelle opere che sono giunte fino a

122
noi elenca più di quattrocento specie di animali) e gettare le basi di una
anatomofisiologia comparata.

LA RIPRODUZIONE. Agli esseri viventi appartengono soltanto tre


funzioni: la riproduzione (e la crescita), la sensazione e la locomozione.
la prima può esistere da sola, come nel caso delle piante, ma nessuna
delle altre due può esistere senza la prima (L’anima II, 2 413 a 20). La
riproduzione (cfr. Generazione degli animali) può avvenire per
generazione spontanea e Aristotele cita tutte le leggende diffuse al suo
tempo che prende come esempi certi di generazione spontanea di
mosche, vermi, topi eccetera. La riproduzione può verificarsi anche da
un genitore solo come nel caso, pensa Aristotele, delle piante e degli
animali immobili. Ma il tipo di riproduzione a cui si interessa
maggiormente è quella sessuale che implica l’accoppiamento di un
maschio e di una femmina. Nei suoi mestrui, che possono del resto
rimanere interni, la femmina porta la materia che formerà l’embrione; il
seme del maschio, dove risiede il principio dell’anima, porta invece la
forma; la natura si serve del seme come strumento per dare forma. La
fecondazione può essere paragonata alla produzione del latte cagliato: il
latte è la materia della coagulazione, al pari del seme femminile nella
fecondazione, e il caglio è il principio della coagulazione, al pari del seme
maschile nella formazione dell’embrione. A seconda di quale dei due
elementi prevale sull’altro, il bambino assomiglierà alla madre o al
padre, ma può succedere che uno dei genitori si sottragga a questa
regola e il bambino assomiglierà allora ai nonni, poiché ciascun genitore
non è soltanto un individuo, ma anche il rappresentante di una linea ben
precisa.
Aristotele, lo vediamo bene, ha tentato di affrontare il problema
dell’ereditarietà; esamina anche quello degli ibridi infecondi come il mu-
lo e spinge le sue ricerche nel campo dell’embriogenesi. Studia la forma-
zione dell’embrione nell’uovo della gallina e vede il cuore del pulcino
battere a partire dal terzo giorno di vita formato per primo, il cuore dà
l’impulso necessario per la formazione degli altri organi: innanzitutto le
viscere, poi la testa e poi ancora gli arti inferiori. Aristotele studia pari-
menti lo stato in cui nascono i piccoli, a seconda delle specie degli ani-
mali, e il problema della determinazione del sesso nel feto.

123
Tutte le annotazioni di Aristotele, anche se contengono una parte
abbastanza grande di informazioni errate o leggendarie, sono ricchissi-
me di dettagli minuziosi. Non dobbiamo scordare che la sua biologia e-
serciterà una grande influenza su tutto il Medioevo, ma dobbiamo tutta-
via sottolineare che essa occupa un posto di eccezionale importanza nel-
la sua filosofia, in quante la vita è proprio il campo d’azione per eccel-
lenza delle cause finali care allo Stagirita «Dato che percepiamo nume-
rose cause in tutto il divenire della natura, ad esempio quella che spiega
in vista di che cosa e quella che spiega a partire da che cosa si produce il
movimento, bisogna determinare ancora quale è, per natura, la prima e
quale la seconda. Sembra che la prima sia quella che chiamiamo “in vista
di che cosa”, poiché essa è ragione e la ragione è il principio, tanto nelle
produzioni artistiche che in quelle della natura. Infatti è dopo avere de-
terminato, con il ragionamento o con l’osservazione, il medico che cos’è
la salute, l’architetto che cos’è la casa, che entrambi spiegano le ragioni e
le cause degli atti che compiono e il perché bisogna agire in un certo
modo. Ma vi è molta più finalità e bellezza nelle opere della natura che in
quelle dell’arte» (Parti degli animali I 1 639 b 11); la Natura non fa nien-
te senza motivo.
Ma questo naturalista, che ha applicato alla fisica e alla cosmologia
la visione del mondo che aveva ricavato dall’osservazione degli esseri
viventi, che vi ha trovato il vitalismo e il finalismo con cui spiegare la si-
tuazione degli esseri nel mondo, vi troverà ugualmente come spiegare la
condizione dell’individualità. Poiché, da buon osservatore, Aristotele sa
che vi sono dei mostri, vale a dire degli individui che non hanno ricevuto
la forma per la quale erano stati fatti. Da dove viene questo accidente
che sembra rimettere in discussione l’intera idea di teleologia? Aristote-
le risponde: dalla materia. La forma, infatti, non riesce a informare del
tutto la materia, poiché in essa rimane sempre una privazione che lascia
un margine di indeterminazione e la forma è più o meno contrastata dal-
le potenzialità opposte che la materia contiene. Questo stato di cose è
proprio del mondo sublunare, dove non si può parlare di necessità per-
fetta, ma soltanto di ciò «che accade più spesso». Nulla è dunque perfet-
tamente necessario, la materia resiste alla forma, introduce il contingen-
te e l’accidente (cfr. Meta V 2 1027 a 8 e segg); i neoplatonici riprende-

124
ranno questa idea, inserendola in una prospettiva etica, e in Plotino la
materia rappresenterà il male73.

73 Cfr. J. Brun, Aristotele, Xenia, Milano, pp. 66-68

125
LA PSICOLOGIA

L’anima e le sue funzioni

Il trattato L’anima si propone di studiare e conoscere innanzitutto la


natura dell’anima e la sua sostanza, «e poi le proprietà che possiede e di
cui alcune sembrano essere determinazioni proprie dell’anima stessa,
mentre altre appartengono anche, ma attraverso l’anima, all’animale»
(L’anima II 402 a 7). L’importanza di questo trattato è fondamentale nel-
la storia delle idee, tutto ciò che gli empiristi hanno potuto dire della
sensazione, dell’immaginazione, delle associazioni di immagini, della re-
lazione delle immagini con le idee e delle origini empiriche della cono-
scenza è da far risalire ad Aristotele.
DEFINIZIONE DELL’ANIMA. I pitagorici, e poi Platone, consideravano
l’anima una realtà separata dal corpo; Aristotele insorge contro questo
dualismo.
Per lui l’anima e il corpo non sono due sostanze distinte, ma due e-
lementi inseparabili di un’unica sostanza ed egli dedica il primo libro
della sua opera a ricusare le teorie dei suoi predecessori che ritenevano
l’anima un elemento automotore o un’armonia. L’anima non può esiste-
re al di fuori del corpo, eccezion fatta per l’elemento più elevato
dell’anima che è venuto dall’esterno (Generazione degli animali XI 8 786
b 28) e che, separato dal corpo, rimane «immortale ed eterno» (L’anima
III 5 430 a 23). Aristotele definisce allora l’anima «un’entelechia prima
di un corpo naturale che ha la vita in potenza, vale a dire l’entelechia dl
un corpo organizzato» (ibiL IX 1 412 a 27).
Pendiamo per esempio di un’ascia, l’essenza di un’ascia è la sua so-
stanza tagliente; se fosse un corpo naturale, potremmo dire che
quest’essenza è la sua anima, ma l’ascia non è un corpo naturale, poiché
non possiede in sé un principio di movimento e di riposo. Preciseremo
dunque la definizione dell’anima, dicendo che «è la sostanza nel senso di

126
forma di un corpo di una qualità determinata» (ibid. II 1 412 b 10). Così
l’anima non è un corpo, in un corpo essa è la forma del corpo, per questo
ne condivide le affezioni, così come una forma condivide le affezioni del-
la sua materia: questa è la soluzione che Aristotele dà al problema
dell’unione dell’anima e del corpo che sarà una delle questioni essenziali
del cartesianeismo.
FUNZIONI DELL’ANIMA. Aristotele distingue diverse funzioni (dyna-
meis) dell’anima: la funzione nutritiva (threptiké), la funzione sensitiva
(aisthetikè), la funzione pensante (dianoetike); Aristotele parla anche
della funzione desiderante (orektikè) (ibid. II 3 414 a 32) e della funzio-
ne motrice (kinetikè) (ibid. II 3 414 a 52 e 11 2413 b 12), che si possono
considerare effetti secondari della sensazione nel senso che il desiderio
presuppone l’immaginazione e provoca il movimento. Queste funzioni, o
facoltà dell’anima, Aristotele le ha chiamate talvolta parti dell’anima ma
è chiaro che, se si parla di un’anima vegetativa, di un’anima sensitiva e di
un’anima intellettiva, si tratta di una sorta di gerarchia tale per cui ogni
facoltà implica quelle che la precedono, ma non obbligatoriamente quel-
le che la seguono:
1) L’anima vegetativa. È l’unica che possiedono i vegetali, è il livello
più basso dell’anima, spinge al nutrimento, è causa del processo di assi-
milazione che rende simile ciò che all’inizio era dissimile. Ha come fine
la preservazione della specie, per questo presiede al nutrimento, ma an-
che alla riproduzione.
2) L’anima sensitiva. La possiedono gli animali, oltre alla pre-
cedente; la possiede l’uomo, che però è dotato anche dell’anima intellet-
tiva.
a) La sensazione. La sensazione era considerata soprattutto una mo-
dificazione qualitativa del soggetto che percepisce a opera dell’oggetto
percepito, ma Aristotele colloca il problema in una prospettiva vicina a
quella che ha utilizzato per parlare del nutrimento: nel nutrimento la
materia è assorbita, mentre nella sensazione gli organi dei sensi ricevo-
no la forma senza ricevere la materia, così come la cera riceve
l’impronta dell’anello, senza ricevere né il ferro né l’oro. «Accade lo stes-
so per il senso: per ogni sensibile esso subisce l’azione di ciò che possie-
de colore, sapore o suono, non tanto perché ognuno di questi oggetti è
detto essere una cosa particolare, ma in quanto ha una certa qualità e in

127
virtù della sua forma» (ibid. III 2424a 17). La sensibilità è una facoltà u-
nica, ma si irradia in cinque sensi distinti che rimandano a organi
specializzati. Tuttavia un «senso comune» sottintende questi cinque
sensi specializzati; la sua funzione è quella di sentire i sensibili comuni
come il movimento e il riposo, il numero e l’unità, la forma, la
dimensione (ibid. 11 6418 a 17); di percepire i «sensibili accidentali», ad
esempio ci permette di identificare il figlio di Diares nell’oggetto bianco
che ho davanti agli occhi, detto in altro modo il senso comune opera dei
paragoni tra i dati dei sensi specializzati, che essi non possono fare in
quanto parziali; infine dà al soggetto che sente la coscienza della sensa-
zione.
b) L’immaginazione (phantasìa). È una sorta di prolungamento della
sensazione ed entra in gioco quando l’oggetto percepito è scomparso; lo
si vede bene nei sogni che altro non sono che un persistere delle imma-
gini (I sogni II 459 a 23), che non possiamo più controllare confrontando
le sensazioni di un senso con quelle di un altro, poiché il sangue, durante
il sonno, preme sul cuore, organo principale della percezione. La memo-
ria è paragonabile all’immaginazione, poiché consiste nella capacità di
riprodurre delle immagini che hanno lasciato in noi un’impronta, come
un sigillo potrebbe fare con la cera.
3) L’anima intellettiva. Già in parecchie occasioni abbiamo sottoli-
neato che la filosofia di Aristotele è una filosofia empiristica, ma è so-
prattutto ora che potremo verificarlo. Sappiamo che per Platone impa-
rare significa ricordarsi di una verità contemplata un tempo faccia a fac-
cia ma in seguito dimenticata, il metodo del filosofo socratico è la maieu-
tica che deve permetterci di «partorire» la verità di cui, senza saperlo,
siamo i depositari. In Aristotele, l’epistemologia non è mai ispirata
dall’escatologia; per lui la conoscenza inizia con la sensazione e «sebbe-
ne l’atto della percezione abbia come oggetto l’individuo, la sensazione
porta nondimeno sull’universale: l’uomo, ad esempio, non l’uomo Cal-
lias. Poi in meno a questi primi concetti universali, un nuovo arresto si
produce nell’anima, fino a che vi si fermano infine I concetti indivisibili e
veramente universali: così una specie di animale è una tappa verso il ge-
nere animale, quest’ultimo concetto è esso stesso una tappa verso un
concetto più elevato» (Analitici secondi 1119 100 a l7). Nella percezione
individuale la conoscenza universale è dunque in potenza, le immagini
che si ripetono o si fondono permettono di esercitare il pensiero. Poiché

128
«è dalla memoria che proviene l’esperienza per gli uomini, infatti una
molteplicità di ricordi della stessa cosa alla fine forma una sola espe-
rienza» (Meta. II 980 b 28).
Le immagini non costituiscono per questo tutto il pensiero, in quan-
to l’immaginazione sensitiva appartiene agli animali, ma «soltanto gli
animali razionali sono capaci di formare una sola immagine a partire da
una pluralità di immagini» (L’anima III 1 1434 a8); bisogna che il pen-
siero vada a cercare le forme nelle immagini, soltanto la facoltà noetica
pensa le forme nelle immagini. Così dunque la sensazione e
l’immaginazione sono la materia dell’intelletto. Eccoci ora in presenza di
uno dei punti più delicati della psicologia di Aristotele: «Dato che nella
natura tutta individuiamo inizialmente qualche cosa che serve da mate-
ria per ogni genere (ciò che è in potenza tutti gli esseri del genere) e poi
un’altra cosa che è la causa e l’agente che li produce tutti - una situazio-
ne di cui l’arte in rapporto alla sua materia è un esempio – è necessario
che anche nell’anima si ritrovino queste differenze. E infatti nell’anima
vi è, da una parte, l’intelletto che è analogo alla materia, per il fatto che
diventa tutte le cose intelligibili, e, dall’altra parte, l’intelletto che è ana-
logo alla causa efficiente, che le produce tutte, visto che è una specie di
stato analogo alla luce: anche la luce, infatti, in un certo senso trasforma
i colori in potenza in colori in atto. E questo intelletto è separato, impas-
sibile e senza mescolanze; poiché l’agente ha sempre una dignità supe-
riore al paziente, il principio alla materia (ibid. II 15 430 a 10). Aristotele
distingue dunque due tipi di intelletto: un «intelletto passivo» (o pathe-
tikòs nous, ibid. 430 a 24) e quello che i commentatori hanno chiamato
un «intelletto agente» (o poitikòs noùs), termine che Aristotele non uti-
lizza, ma che ben interpreta il suo pensiero. L’intelletto paziente è una
sorta di ricettacolo che raccoglie gli intelligibili nella sensazione e
nell’immagine assimilandosi a loro e rimanendo passivo, non può pen-
sare senza l’intelletto agente che attualizza gli intelligibili e, in un certo
senso, di conseguenza li crea, è la luce che fa vedere ciò che è visibile.
A questo punto, se ci soffermiamo sugli epiteti di cui Aristotele si
serve per qualificare l’intelletto agente, ci troviamo di fronte ai problemi
che hanno dovuto affrontare tutti i suoi commentatori:-è separato o se-
parabile (chòristòs) dal corpo, impassibile (apathes), senza mescolanze
(amighes) (op. cit.), immortale (athanatos), eterno (aidios) (ibid. 430 a

129
22) e viene da fuori per entrare nel feto (Generazione degli animali II
373 6 - 28). Sembra dunque che sia sovrumano.
Un buon numero di commentatori vedranno in questo intelletto at-
tivo la presenza nell’uomo dell’intelletto divino. I testi di Aristotele non
permettono di confermare formalmente una simile interpretazione, ma
bisogna riconoscere che, per quanto la si possa contraddire, si è forte-
mente tentati di considerarla molto plausibile. In realtà Aristotele dice
che questo intelletto può essere separato così come l’eterno è separato
dal corruttibile (L’anima II 2 413 b28); l’atto di questo intelletto, pur
presente nell’uomo, non gli appartiene dunque pienamente; certo l’atto
puro che è Dio pensa solo a se stesso, ma bisogna intendere con ciò che
pensa da se stesso. Allora ritroviamo un’altra volta che il pensiero di A-
ristotele parte dall’individuo che esiste per poi passare all’individuo in
sé che è Dio; nella sensazione l’individuo va oltre l’universale, ma
quest’universale dovrà essere attualizzato da un atto che viene da fuori,
che è eterno, Immortale, proprio come, bisogna dirlo, l’Atto puro che è
Dio. Che l’eterno attualizzi il temporale non è il segno che ogni sostanza
individuale non è soltanto presente nel mondo, ma è una presenza che si
dispiega a partire dalle sue rappresentazioni fino a ciò che la presentifi-
ca?74

74 J. Brun, Aristotele, Xenia, pagg. 69-74

130
L’ETICA

Aristotele e il canone del giusto mezzo

«Se ogni scienza adempie bene al suo compito mirando al giusto mezzo [...],
se i buoni artisti lavorano guardando a questo mezzo, la virtù che è, come la natu-
ra più accurata e migliore di ogni arte, dovrà tendere proprio al giusto mezzo»75.

Talora gli allievi migliori si allontanano dal cammino che hanno in-
dicato loro i maestri. Il più eccellente discepolo di Platone fu, almeno
quanto a carattere, il suo opposto. Sognatore, poeta, entusiasta, Platone;
pragmatico, realista, scienziato, Aristotele. Per il resto, Aristotele fu un
ottimo allievo di Platone perché sviluppò il suo insegnamento. Tuttavia,
lo fece con un metodo e dei risultati che Platone non avrebbe mai imma-
ginato. Tanto che, avvicinando per la prima volta Aristotele, può servire
riagganciarsi a un pensatore che precedette Platone: a Protagora e alla
sua formula dell’uomo misura di tutte le cose.
Questa idea di Protagora continuava infatti a essere discussa anche
dopo la confutazione di Platone. I Greci non sapevano fare a mezzo del
concetto di misura. Se non misuravano si sentivano perduti. Parole, a-
zioni, passioni andavano tenute al guinzaglio, altrimenti si profilava
all’orizzonte lo spettro dell’imprevedibile. Già uno dei Sette Saggi, Cleo-
bulo, aveva ammonito: «Ottima cosa è la misura». Ma quale misura? Una
qualsiasi?
Non un uomo qualsiasi, come voleva Protagora, ma l’uomo virtuoso
è la misura delle cose. Con questo principio fa il suo ingresso tra le di-
spute ateniesi il grande Aristotele. Ma chi è l’uomo virtuoso? L’uomo
buono, pacifico, altruista, tutto casa e biblioteca?
Questa risposta, troppo scontata, non è quella di Aristotele. La virtù
non è un ideale bello e pronto, ogni uomo deve cercarsela. Perché la vir-
tù è sempre una via di mezzo tra due vizi, uno per difetto, l’altro per ec-

75 Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, 1106b9

131
cesso. Chi dà vera prova di coraggio? Chi riesce a evitare i due estremi, la
paura e la temerarietà: il difetto e l’eccesso.
Sino ad allora poeti come Pindaro e filosofi come Platone avevano
esaltato chi raggiunge il culmine in ogni cosa. Aristotele invece celebra
chi si ferma a metà strada, a quello ch’egli denomina il «giusto mezzo».
Vale per la morale, ma anche per la politica. Basta con l’incensare gli ari-
stocratici, il modo migliore per reggere lo Stato è trovare una via di
mezzo tra oligarchia e democrazia. E in campo logico? Se mi limito ad
attribuire un predicato a un soggetto - ad esempio se dico «I Greci sono
civili» - sono arbitrario. Ma non lo sono più se inserisco fra questi due
dementi un termine medio, dicendo ad esempio «I Greci sono civili per-
ché giusti». La prospettiva del giusto mezzo può costituire una buona
chiave di lettura attraverso cui orientarsi in un pensatore tanto multi-
forme quale fu Aristotele. Egli non lasciò inesplorato quasi nessun setto-
re dello scibile, ma proprio per questo è utile assumere un angolo visua-
le da cui osservare le sue teorie76.

76 P. Emanuele, Cogito Ergo Sum, Salani, 2001.

132
L’etica aristotelica

L’etica, assieme alla politica, appartiene per Aristotele alle scienze


dell’agire pratico. A differenza dei moderni che scindono la morale dalla
politica, ovvero l’agire dell’individuo da quello della collettività, per Ari-
stotele, come per Platone «identico è il bene per il singolo e per la città».
Proprio per questo «sembra più importante e più perfetto scegliere e
difendere quello della città; certo esso è desiderabile anche quando ri-
guarda una sola persona, ma è più bello e più divino se riguarda un po-
polo e le città» (Etica Nicomachea, I, 2). In questo senso, l’etica è parte
della politica, alla quale appartiene dunque la ricerca del bene supremo.
La politica viene così ad avere il carattere di scienza architettonica o di
comando, in quanto «essa determina quali scienze sono necessarie nella
città e quali ciascuno deve apprendere e fino a che punto». Questa con-
nessione di etica e politica, caratteristica del pensiero greco classico, tro-
va tuttavia in Aristotele il punto di avvio per una reciproca differenzia-
zione e autonomizzazione, conformemente alla tendenza dello Stagirita
di costituire ciascun momento della scienza nella sua differenza e analo-
gamente al processo storico di autonomizzazione dell’individuo, che si
concluderà nell’ellenismo.
Aristotele traccia così alcune indicazioni di metodo: poiché l’oggetto
di questa scienza è costituito non dal necessario, ma da ciò che può esse-
re diversamente, nella trattazione, quindi, non si deve esigere l’esattezza
o il rigore delle matematiche, come pretendeva il tardo Platone nella sua
riduzione del Bene al Numero. Il procedimento da adottare sarà invece
quello dialettico. Non si può, come fa Platone, partire dall’assunzione di
un Bene in sé come principio e di qui dedurre le norme e le determina-
zioni dell’agire. Occorre al contrario rovesciare il procedimento, partendo
dall’esperienza o da ciò che è bene per noi, per giungere al principio che
lo fonda e lo giustifica.

LA FELICITÀ È IL FINE DELL’UOMO. Scopo essenziale dell’etica è quello di


stabilire che cos’è il bene. Infatti, «ogni arte e ogni scienza, e similmente
ogni azione e ogni proposito sembrano mirare a qualche bene; perciò a
133
ragione definirono il bene ciò a cui ogni cosa tende». Se è vero dire che il
bene è fine di ogni agire, tuttavia occorre distinguere tra quei fini che
vengono perseguiti come mezzi per un fine ulteriore e invece quel fine
che non rinvia ad altro e che perciò si costituisce come fine ultimo. «Se
poi vi è un fine delle nostre azioni che noi vogliàmo di per se stesso,
mentre gli altri li vogliamo solo in vista di quello, e non desideriamo
ogni cosa in vista di un’altra cosa singola (così infatti si andrebbe
all’infinito, cosicché la nostra tendenza sarebbe vuota ed inutile), in tal
caso è chiaro che questo deve essere il bene e il bene supremo».
Qual è il sommo dei beni nell’agire? Comunemente questo bene è
detto essere la eudaimonìa, ossia la felicità. Le opinioni degli uomini, pe-
rò, divergono anche in modo sostanziale nel determinare la natura della
felicità. Taluni infatti ritengono che essa consista nel piacere, altri nella
ricchezza e nell’onore, altri parlano invece dell’esistenza di un bene in sé
come fondamento della esistenza di tutti gli altri beni. Ma l’onore non è
fine in sé, in quanto dipende «più da chi conferisce l’onore che da chi è
onorato»; del pari, il guadagno è ricercato non per se stesso, ma come
mezzo per qualcosa d’altro. Neppure è accettabile la tesi di Platone che
fa del bene un’idea trascendente. Infatti il bene «non potrebbe essere un
universale comune ed unico: in tal caso infatti non sarebbe espresso in
tutte le categorie bensì in una sola» (Etica Nicomachea, I, 6). Se così fos-
se, inoltre, dovrebbe esistere un’unica scienza di tutti i beni. Mentre non
solo si danno diverse scienze in riferimento alle diverse categorie, ma
anche esistono più scienze di un’unica categoria. «Così dell’occasione v’è
la scienza, quanto alla guerra, della strategia, quanto alla malattia, della
medicina; e della giusta misura, quanto all’alimentazione, v’è la medici-
na, quanto agli aspetti fisici la ginnastica». In conclusione il bene, come
l’essere, si dice in molti modi. «Dunque il bene non è una qualità comu-
ne, che si esprima sotto una sola idea». Dunque qual èil bene per l’uomo?
Per indagare questo concetto, Aristotele prende l’avvio dal concetto di
«opera» (érgon) che è peculiare all’uomo e a nessun altro. Infatti così
come per il flautista, o qualunque altro artigiano, il bene e la perfezione
risiedono nella propria opera, così se esiste un’opera che è propria
dell’uomo in questa consiste la realizzazione dell’eccellenza o virtù, e
quindi il raggiungimento del proprio bene. Ora quest’opera non risiede
semplicemente nel «vivere», comune anche alle piante, né nella «sensa-

134
zione», comune anche agli altri animali, come si è visto nella psicologia.
«Resta dunque una vita attiva propria di un essere razionale». Dunque,
«se propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, o non sen-
za ragione, e se diciamo che questa è l’opera del suo genere e in partico-
lare di quello virtuoso (...); se è così, noi supponiamo che dell’uomo sia
proprio un dato genere di vita, e questa sia costituita dall’attività
dell’anima e dalle azioni razionali, mentre dell’uomo virtuoso sia pro-
prio ciò, compiuto però secondo il bene e il bello, in modo che ciascun
atto si compia bene secondo la propria virtù. Se dunque è così, allora il
bene proprio dell’uomo è l’attività dell’anima secondo virtù, e se molte-
plici sono le virtù, secondo la migliore e la più perfetta. E ciò vale anche
per tutta una vita completa. Infatti una sola rondine non fa primavera,
né un sol giorno; così neppure una sola giornata o un breve tempo ren-
dono la beatitudine o la felicità» (Etica Nicomachea, I, 7).
La perfezione di questa attività, cioè la sua areté o virtù, realizza
dunque il bene. «La vita delle persone virtuose non richiede il piacere
come qualcosa di accessorio, bensì possiede il piacere in sé. Infatti (...)
non è buono chi non gioisca delle azioni virtuose né alcuno chiamerebbe
giusto un uomo che non goda di agire secondo giustizia». Così come il
piacere non è la virtù, ma ad essa consegue, così la realizzazione della
felicità richiede anche i beni esteriori sebbene non sia riducibile ad essi
né ne dipenda essenzialmente. Inoltre, la felicità richiede una vita com-
piuta e una perfetta virtù. Ora solo nell’attività secondo virtù si dà conti-
nuità e stabilità. «Questa qualità sarà dunque presente all’uomo felice ed
egli sarà tale per tutta la sua vita. Sempre infatti o più di ogni cosa egli
farà o contemplerà le cose virtuose, ed egli sopporterà i casi della sorte
ottimamente e in ogni maniera degnamente, se è veramente buono» (E-
tica Nicomachea, I, 10). Dunque, la virtù deve essere scelta per se stessa;
ma questo non significa alcun disprezzo per i beni accessori della vita.

VIRTÙ E PARTI DELL’ANIMA. «Poiché la felicità è dunque un’attività


dell’anima conforme ad una virtù perfetta, dovremo indagare intorno
alle virtù», o meglio, intorno alla virtù umana. «Infatti noi intendiamo
studiare il bene umano e la felicità umana». In questo nesso consiste il
legame che unisce psicologia ed etica. Ora l’anima presenta tre funzioni:

135
una vegetativa, una sensitiva e una razionale. Ciascuna di queste at-
tività dunque si esprime in una peculiare “virtù”. Inoltre, anche la parte
appetitiva o concupiscibile partecipa in qualche modo della parte razio-
nale, in quanto essa deve obbedire alla ragione. Abbiamo cioè a che fare
con l’appetito razionale o con la razionalità appetitiva. E poiché l’anima
consta di due tipi di attività, quella irrazionale e quella razionale, anche
le virtù corrispondenti saranno di due tipi: le virtù etiche e le virtù dia-
noetiche. Le virtù dianoetiche o razionali sono ad esempio la sapienza,
l’intelletto, la ragione discorsiva, la saggezza. Virtù etiche sono ad esem-
pio la generosità, la moderazione, il coraggio.

LE VIRTÙ ETICHE. Come si produce la virtù etica? Secondo Aristotele,


«essa deriva dall’abitudine, da cui trae anche il suo nome (éthos)». Que-
ste virtù non sorgono in noi per natura, né contro natura, «bensì esse
nascono in noi, che, atti per natura ad accoglierle, ci perfezioniamo at-
traverso l’abitudine». Per acquistare queste virtù, noi dobbiamo eserci-
tarle, così come avviene anche nel campo delle tecniche: infatti, così co-
me diventiamo costruttori con il costruire le case, ed è col suonare la ce-
tra che diventiamo citaredi, «così altrettanto compiendo cose giuste di-
ventiamo giusti, compiendo cose moderate diventiamo moderati, facen-
do cose coraggiose coraggiosi». In negativo, è facendo cose viziose che
diventiamo viziosi. Quindi la disposizione presente in noi si realizza at-
traverso l’attività fino a divenire abitudine positiva o negativa, cioè virtù
o vizio.
«Segno delle disposizioni acquisite dev’essere il piacere o il dolore
che sopraggiunge a seconda delle nostre azioni: così chi si astiene dai
piaceri del corpo e gode proprio di ciò, è davvero moderato, chi invece
se ne cruccia, è intemperante; e chi affronta i pericoli e ne gode o non se
ne addolora è coraggioso, chi se ne addolora è vile. Infatti la virtù etica è
in relazione con i sentimenti di piacere e di dolore». Con la pena e il do-
lore si corregge insieme l’azione viziosa. Tale tendenza in sé non è né
buona né cattiva, ma va subordinata alla giusta regola imposta dalla par-
te razionale dell’anima. Riprendendo l’apparente paradosso, secondo cui
per diventare giusti occorre praticare la giustizia, ma insieme sembra
che occorra già essere giusti per fare azioni giuste, Aristotele chiarisce
che, a differenza delle tecniche, dove i prodotti, ovvero il risultato

136
dell’attività, hanno valore in se stessi, «invece nel caso delle virtù non è
sufficiente che alcune azioni siano di una data qualità, che si agisca con
giustizia o con moderazione, bensì occorre che chi le compie lo faccia in
una determinata disposizione d’animo, cioè anzitutto che siano compiu-
te consapevolmente, quindi di proposito, e di proposito a causa di se
stesse, in terzo luogo con volontà ferma e immutabile». Solo a queste
condizioni si tratta di virtù.

Che cos’è allora la virtù? Intanto essa non è un sentimento, come il


desiderio del piacere, dov’è assente la scelta; né è semplicemente una
capacità, giacché questa potrebbe anche non essere sviluppata. La virtù
fa invece parte delle disposizioni. In generale, «ogni virtù, a seconda del-
la qualità di cui essa è virtù, perfeziona questa e rende buono il risulta-
to».
Per questo, essa deve tendere al giusto mezzo, che non indica una via
media empirica, quanto il raggiungimento del termine perfetto di equili-
brio, cioè il culmine e l’eccellenza. Così, «se noi proviamo quelle passioni
quando si deve, in ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel mo-
do che si deve, allora saremo nel mezzo e nell’eccellenza, che son propri
della virtù (...). Dunque la virtù è una certa medietà, che ha come scopo il
giusto mezzo (...). La virtù è quindi una disposizione del proponimento,
consistente nella medietà rispetto a noi stessi, definita dalla ragione e
come l’uomo saggio la determinerebbe (...). Perciò secondo la sua essen-
za e secondo la ragione che stabilisce la sua natura, la virtù è una medie-
tà, ma rispetto al bene e alla perfezione, essa è al punto più elevato» (E-
tica Nicomachea, II, 6).
L’introduzione della ragione nella definizione mette in evidenza che
la virtù etica non è in sé completa e perciò deve fare riferimento alla vir-
tù intellettuale o dianoetica della saggezza. Nel mentre il concetto di giu-
sto mezzo evidenzia la presenza di relazioni quantitative che sfociano
nella qualità. Infine occorre guardarsi dal vizio che è più opposto alla
corrispondente virtù, e dal vizio al quale tendiamo con più facilità. Ana-
lisi delle virtù etiche. Dopo aver delineato le caratteristiche generali del-
la virtù, a partire dal III libro Aristotele procede ad un’analisi dettagliata
delle diverse virtù etiche. Poiché queste fanno riferimento a sentimenti e
azioni, esse vengono esaminate ora in riferimento ai primi ora alle se-

137
conde. Fra i sentimenti dobbiamo ricordare ad esempio la paura, la con-
fidenza, l’ira, la vergogna. Tra le azioni, vengono analizzate quelle in
rapporto con la ricchezza (donazione del denaro o acquisizione della
ricchezza), e il perseguimento dell’onore. Lo Stagirita si sforza di deline-
are con precisione gli ambiti delle singole virtù, senza una deduzione
rigorosa e con un ordine spesso accidentale. Si tratta di un’analisi feno-
menologica, che offre un quadro vivace dei comportamenti vigenti nei
costumi e nella società del suo tempo.

LA GIUSTIZIA. Aristotele dedica un intero libro, il V dell’Etica Nicoma-


chea, alla trattazione della giustizia. Che cos’è il giusto? Con giusto noi
intendiamo da un lato ciò che è legale, dall’altro ciò che è corretto ed e-
quo. La giustizia, inoltre, si presenta come «virtù perfetta», giacché di
essa ci si serve non solo nei riguardi di se stesso, ma anche in relazione
agli altri. Del pari l’ingiustizia costituisce il vizio completo. Aristotele si
sofferma a lungo nella trattazione della giustizia particolare. Questa si
divide in due parti, a seconda che tratti del giusto nella distribuzione
dell’onore e della ricchezza fra i cittadini, oppure della giustizia corretti-
va nelle relazioni fra gli uomini. La giustizia distributiva riguarda il rap-
porto fra due persone e due oggetti, distribuisce i beni in rapporto al
merito delle persone, così da considerare il giusto come una proporzio-
ne geometrica.
La giustizia commutativa si presenta nelle relazioni sociali, sia che
queste siano volontarie o involontarie. In essa prevale la proporzione
aritmetica. Qui non si tratta di accertare il rapporto di merito fra due
persone, bensì si considerano i due soggetti come eguali. La legge non
chiede se è un buono che ha defraudato un cattivo o viceversa, ma bada
soltanto alla natura del torto, alla volontarietà o meno dell’atto, al danno
prodotto, determinando chi ha perduto o guadagnato. «Cosicché l’equo è
il medio tra il più e il meno». La giustizia, in questo senso, è reciprocità.
La reciprocità è la regola essenziale che tiene unita la comunità statuale,
conservata dallo scambio reciproco dei servizi e dei beni tra gli uomini.
Ma poiché i beni che si scambiano hanno diversa natura e qualità, cioè
diverso valore, essi devono essere eguagliati, prima che avvenga lo
scambio, attraverso una comune unità di misura per la loro valutazione.
In questa analisi, Aristotele esamina le diverse relazioni economiche -

138
scambio, moneta, valore, bisogno - non considerate a sé stanti, bensì
come momento delle relazioni sociali e politiche.

La giustizia è disposizione ad agire per scelta deliberata. Pertanto,


occorre affrontare il problema della volontarietà degli atti, sulla cui base
è possibile valutare il problema della responsabilità. Infine, l’equità deve
intervenire nella correzione della legge, giacché «ogni legge è universale,
mentre non è possibile in universale prescrivere rettamente intorno ad
alcune cose particolari». Perciò esiste uno squilibrio tra l’universalità
della legge e la particolarità e variabilità dei casi che mal sopportano
una norma fissa e rigida. «Infatti, di ciò che è indeterminato, anche la
norma dev’essere indeterminata».

LE VIRTÙ DIANOETICHE. Si è visto in precedenza che la virtù etica con-


siste nel giusto mezzo quale prescrive la «retta ragione». Si tratta ora di
esaminare più da vicino le virtù della parte razionale dell’anima.
Quest’ultima, secondo Aristotele, ha due funzioni a seconda che si riferi-
sca alla conoscenza delle realtà necessarie oppure a quella delle realtà
contingenti, che non solo possono essere o non essere, ma anche essere
diversamente. La prima parte o funzione dell’anima razionale costituisce
la ragione teoretica, l’altra la ragione pratica. Della prima fanno parte la
sapienza, l’intelletto, la scienza. La parte pratica concerne per un verso
la pràxis in senso stretto ossia l’agire etico e politico, per altro la pòiesis,
cioè l’agire produttivo.
Dei tre elementi che sono nell’anima, sensazione, ragione, desiderio,
la sensazione non determina mai l’azione, mentre appetito e ragione la
determinano in modi differenti. Infatti la virtù morale è disposizione a
scegliere, e la scelta è un desiderio deliberato. Quindi l’azione comporta
il desiderio di un fine, mentre la ragione calcola e sceglie i mezzi che so-
no necessari al raggiungimento di un fine. Tuttavia entrambe le parti
dell’anima razionale hanno per oggetto la verità, l’una la teoretica, l’altra
la pratica. Quest’ultima consiste nel giusto appetire. L’uomo in quanto
espressione di desiderio e di ragione produce quindi l’agire. Virtù della
parte pratica è la saggezza (phrònesis). Essa consiste «nel saper delibe-
rare bene intorno alle cose che sono per lui buone e giovevoli non in
particolare (ad esempio, quali cose siano buone o giovevoli per la salute

139
e la forza), bensì quali lo siano in generale per vivere bene (...). Resta che
essa sia una disposizione pratica, accompagnata da ragione verace, in-
torno a ciò che è bene e male per l’uomo» (Etica.Nicomachea, VI, 5).
Quindi occorre conoscere quale sia il fine per l’uomo, mentre la saggezza
delibera solo in riferimento ai mezzi per giungere al fine. «La virtù rende
corretto lo scopo, mentre la saggezza rende retti i mezzi» (Etica Nicoma-
chea, VI, 12). Ora senza la saggezza non vi può essere virtù etica, ma nel-
lo stesso tempo non v’è saggezza senza la virtù etica, proprio perché la
saggezza si rivolge ai mezzi per conseguire il bene morale.

LA SAPIENZA (sophia), che risulta essere sintesi di intelletto e di


scienza, costituisce la virtù più elevata, in quanto ha per oggetto la realtà
più elevata e divina. La felicità consiste dunque nell’attività conforme
alla virtù più elevata, cioè nella vita contemplativa. «Quest’attività è in-
fatti la più alta: infatti l’intelletto è tra le cose che sono in noi quella su-
periore, e tra le cose conoscibili le più alte sono quelle cui si riferisce il
pensiero. Ed è anche l’attività più continua (...). Pensiamo poi che alla
felicità debba essere congiunto il piacere e si conviene che la migliore
delle attività conformi a virtù è quella relativa alla sapienza; sembra in-
fatti che la filosofia apporti piaceri meravigliosi per la loro purezza e so-
lidità; ed è logico che il corso della vita sia più piacevole per chi conosce
che non per chi ancora ricerca il vero. E l’autosufficienza di cui abbiamo
parlato si troverà soprattutto nell’attività contemplativa (...). Inoltre,
sembra che l’attività contemplativa sia la sola ad essere amata per se
stessa; infatti da essa non deriva alcun altro risultato all’infuori del con-
templare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre qualcosa, più
o meno importante, oltre all’azione stessa (...). Se dunque in confronto
alla natura dell’uomo l’intelletto è qualcosa di divino, anche la vita con-
forme ad esso sarà divina in confronto alla vita umana». Dunque questo
modo di vita sarà il più felice: e di tanto si estende la speculazione, di
tanto si estende anche la felicità. Conformemente all’ideale greco che
privilegia il vedere sull’agire, la teoria sulla prassi, la vita speculativa del

140
filosofo costituisce il più alto raggiungimento del fine proprio dell’uomo.
Ma questo fine si realizza solo nel vivere comune, cioè nella pòlis77.

77L. Ruggiu in “Filosofia”, Enciclopedia diretta da Emanuele Severino, Armando Curcio


Editore.

141
LA POLITICA

La relazione tra felicità, filosofia e politica

Aristotele è colui che più esplicitamente di ogni altro filosofo formu-


la il problema della felicità. A questo, infatti, è dedicata l’intera Etica Ni-
comachea, che si presenta come ricerca del fine ultimo delle azioni uma-
ne, identificato con il bene supremo dell’uomo. Quest’ultimo costituisce
non soltanto l’oggetto dell’etica, ma anche della politica, poiché il bene
del singolo fa parte del bene della città (polis). Che il più alto dei beni
praticabili (prakton) dall’uomo, cioè realizzabili mediante l’azione uma-
na, sia la felicità è per Aristotele fuori discussione il problema è di vede-
re in che cosa la felicità consista. Alcuni la identificano col piacere, altri
con la ricchezza, altri con gli onori, altri con la virtù, altri ancora con la
conoscenza (theoria). Riservandosi di esaminare tutte queste posizioni,
Aristotele ne scarta subito una: quella di Platone, secondo cui il bene su-
premo saebbe l’Idea del Bene, anche se lo fa con un certo rammarico per
l’amicizia che lo lega al maestro: da cui il motto amicus Plato, sed magis
amica veritas.
I motivi per cui Aristotele non può accettare la tesi della Repubblica
sono due: anzitutto non vi è un unico bene, uguale per tutti, ma vi sono
tanti beni quante sono le categorie dell’essere e ciascuno di essi è ogget-
to di una scienza diversa. In secondo luogo, e se vi è un bene unico, ed è
predicato in comune, oppure è separato ed è in sé una qualche cosa, è
chiaro che non potrà essere un bene realizzabile (prakton), né tale che
l’uomo lo possa fare proprio, mentre al presente noi cerchiamo qualcosa
di simile.
Insomma, poiché il bene supremo deve essere la felicità, esso non
può essere un’Idea trascendente, oggetto semplicemente di contempla-
zione, ma deve essere in qualche modo praticabile dall’uomo.

142
Ciò non esclude che, anche per Aristotele, esso debba essere un be-
ne «perfetto» (teleion) , cioè fine a se stesso (da telos, fine), desiderato
in vista di se stesso e non di altro, ed «autosufficiente» (autarkhes), seb-
bene in un senso diverso da quello con cui d’abitudine si intende questo
termine.
“Noi non usiamo - scrive Aristotele - il termine autosufficiente in re-
lazione a un singolo individuo che vive una vita solitaria, ma in relazione
anche a genitori, figli, moglie e in genere agli amici e concittadini, perché
per natura l’uomo è animale politico”.
In questo Aristotele concorda con Platone: la felicità non è un fatto
soltanto individuale, ma è un bene sociale a cui tutti devono poter parte-
cipare; la ragione di questo risiede nella natura politica dell’uomo, giac-
ché l’uomo è costituito in modo tale da poter realizzare la propria felici-
tà solo nella polis. Per questo, come si è già detto poc’anzi, secondo Ari-
stotele, il bene è oggetto della politica e l’etica, cioè la dottrina del bene
individuale, non è che una parte della politica.
Il punto di partenza della ricerca aristotelica della felicità è lo stesso
di Platone, cioè la ricerca della funzione propria (ergon) dell’uomo. Non
è, infatti, possibile definire che cos’è la felicità se non si coglierà qual è
l’agire tipico (ergon) dell’uomo. Infatti, come per un flautista, per uno
scultore, per ogni artigiano, e in generale per coloro che hanno un pro-
prio operare ed agire, il bene e il successo sembrano consistere
nell’opera stessa, così si può credere che ciò valga anche per l’uomo, se è
vero che anche l’uomo ha un qualche operare suo proprio.
Ma è dunque possibile che vi siano opere e attività proprie di un fa-
legname e di un calzolaio, e dell’uomo non ve ne sia nessuna, ed egli sia
inattivo per natura? O, proprio come appare evidente che dell’occhio,
della mano, del piede e’ più in generale, di ciascuna delle parti del corpo
vi è evidentemente un operare tipico, così anche per l’uomo si può porre
una qualche opera propria, al di là di tutte quelle particolari?
La nozione di «agire tipico», «operare proprio», «opera», equivale a
quella di «funzione» in Platone, ossia indica ciò che l’uomo soltanto, o
l’uomo meglio di qualunque altro ente, riesce a fare. L’agire tipico
dell’uomo non sarà né il semplice vivere, perché questo è comune anche
alle piante, né una vita fatta di sensazioni, perché questa è comune an-

143
che al cavallo, al bue e a tutti gli animali, ma riguarderà l’uso della ragio-
ne, o dell’anima razionale.
Il bene inoltre non consiste solo nello svolgere la propria funzione,
ma nello svolgerla bene, cioè in modo eccellente; per esempio è proprio
del citarista suonare la cetra e del citarista eccellente suonarla bene. O-
ra, poiché l’eccellenza, come abbiamo già visto, non è altro che la virtù
(areté), Aristotele definisce la felicità come «attività dell’anima secondo
virtù». Tale virtù dovrà essere esercitata per l’intera vita, non solo in al-
cuni momenti di essa: «come una rondine non fa primavera, né la fa un
solo giorno di sole, così un solo giorno, o un breve spazio di tempo, non
fanno felice e beato nessuno»
Apparentemente siamo di fronte alla stessa definizione di Platone,
ma in realtà Aristotele non contrappone l’anima razionale né alle altre
parti dell’anima (vegetativa e sensitiva), che sono in essa comprese, né
al corpo, di cui l’anima è «atto primo», cioè capacità di svolgere le fun-
zioni che gli appartengono. Un primo segno del carattere inclusivo che la
felicità possiede per Aristotele è l’accenno alla durata della vita. La felici-
tà è una caratteristica della vita umana, cioè della vita vissuta in questo
mondo, con anima e corpo, e della vita intera, cioè non solo di una fase di
essa. Un altro segno dello stesso carattere è l’affermazione che Aristote-
le fa subito dopo, cioè che per la felicità sono necessari anche i beni e-
sterni (una certa ricchezza, una buona famiglia, degli amici) e i beni del
corpo (salute, un aspetto gradevole), anche se quelli dell’anima (le virtù)
sono i più importanti.
Appare evidente - egli scrive - che la felicità ha bisogno dei beni e-
steriori, come abbiamo già detto: è impossibile, o non facile, compiere
azioni belle se si è sprovvisti di risorse. Infatti si compiono molte azioni
per mezzo di amici, denaro o potere politico, usandoli come strumenti; e
se siamo privati di certe cose, come buona nascita, buona discendenza,
bellezza, la nostra beatitudine ne risulta intaccata. Perciò è lontano
dall’essere felice chi è del tutto sgradevole a vedersi o di bassa stirpe o
solitario e senza figli, o, ancor meno, se gli capitano figli o amici degene-
ri, o se ne ha di buoni, ma muoiono. Come abbiamo detto prima, sembre-
rebbe che la felicità abbia bisogno anche di una simile prosperità ester-
na.

144
A partire da ciò, alcuni fanno una cosa sola della felicità e della buo-
na fortuna, proprio come altri la identificano con la virtù.
Si tratta di osservazioni condivisibili ancora oggi, con l’eccezione
forse della buona nascita, poiché non viviamo più in una società schiavi-
stica, in cui chi nasceva schiavo non poteva certamente essere felice.
Dalle parole citate, inoltre, si può desumere quanto Aristotele tenesse
conto della sorte, cioè della fortuna, come accadeva nella concezione
della vita espressa dai grandi poeti, epici e tragici. Non è un caso che, a
questo proposito, egli ricordi il destino occorso a Priamo: è possibile che
la persona più prospera cada in terribili sventure durante la vecchiaia,
come si narra a proposito di Priamo nei poemi eroici; nessuno direbbe
felice chi ha sopportato tali sventure ed è morto in modo così miserabi-
le.
Priamo, uno dei re più potenti della terra, che perciò si poteva pre-
sumere felice, ebbe distrutta la famiglia e la città, perciò divenne il sim-
bolo della precarietà, della fragilità, della sventura. Sull’importanza della
fortuna per la felicità Aristotele insiste per un intero capitolo, anche se
non manca di osservare che «l’uomo veramente buono e saggio saprà
sopportare in modo decoroso tutti gli eventi della sorte», ed alla fine
conclude che è felice «colui che agisce secondo virtù completa ed è
provvisto a sufficienza di beni esterni, non in qualsiasi periodo di tempo,
ma in una vita completa».
Dopo avere individuato nella virtù la componente principale, anche
se non completamente sufficiente, della felicità, Aristotele dedica il resto
dell’Etica Nicomachea all’illustrazione delle virtù. Queste, infatti, intese
come capacità di svolgere secondo ragione funzioni proprie dell’anima
umana, risultano essere molte, perché l’anima umana è una realtà com-
plessa. Una parte di essa, quella vegetativa, è del tutto priva di ragione,
quindi non ha propriamente alcuna virtù; una seconda invece, pur non
essendo essa stessa la ragione, partecipa della ragione, nel senso che è
capace di obbedirle, perciò è capace di virtù.
Questa componente dell’anima corrisponde all’«impeto» (thumos)
di cui aveva parlato Platone e che Aristotele preferisce chiamare «de-
siderio» (orexis). La terza parte dell’anima è la ragione vera e propria
(dianoia), dotata anch’essa di alcune virtù, cioè delle capacità di svolgere
bene le proprie funzioni. Le virtù del desiderio sono chiamate «virtù eti-

145
che», perché una volta acquisite formano il carattere del singolo indivi-
duo e i costumi della comunità: entrambi questi termini, «carattere» e
«costume», in greco si chiamano ethos, da cui deriva «etica». Poiché in
latino i costumi sono detti mores, si può parlare a questo proposito di
virtù «morali», le quali corrispondono alla nozione moderna di virtù. In-
vece le virtù della ragione sono dette «virtù dianoetiche», o «intellettua-
li», e sono una nozione tipica della filosofia antica, che non ha riscontro
nella modernità.
Le virtù in generale, secondo Aristotele, si acquisiscono per mezzo
dell’abitudine - che in greco ha un nome simile a quello del carattere,
cioè ethos-, vale a dire compiendo più volte azioni buone. Allo stesso
modo, gli opposti delle virtù, cioè i vizi, si acquisiscono compiendo più
volte azioni cattive. Perciò, secondo Aristotele, le leggi rendono virtuosi i
cittadini facendo contrarre loro buone abitudini: di qui l’importanza del-
la politica per l’etica. Sia le virtù che i vizi sono «stati abituali dell’anima,
o anche «abiti» (hexeis). Questo è il genere della virtù, ossia ciò che la
accomuna ad ogni altra abitudine. La sua differenza specifica, che insie-
me col genere costituisce per Aristotele la definizione della virtù, è inve-
ce la seguente:
Ogni virtù ha l’effetto di portare alla buona realizzazione ciò di cui è
virtù, e di far si che eserciti bene la sua opera, come per esempio la virtù
dell’occhio rende eccellente l’occhio, e anche la sua opera, dato che ve-
diamo bene perla virtù dell’occhio. Allo stesso modo la virtù del cavallo
rende eccellente un cavallo e buono per correre, per portare il cavaliere
o per star fermo di fronte al nemico. Se quindi per tutte le virtù le cose
stanno così, anche la virtù dell’uomo verrà a essere lo stato abituale per
cui un uomo è buono e compie bene la sua opera.
Come si vede, anche per Aristotele, come per Platone e per i Greci in
generale, virtù significa eccellenza in generale e non ha un significato
soltanto morale.
Ciò va tenuto presente, se si vuole capire bene l’identificazione della
felicità con la virtù. Secondo Aristotele, ogni virtù etica è il «giusto mez-
zo» (meson) tra due vizi opposti, cioè l’eccesso e il difetto, così come lo
sono quelle che potremmo chiamare le virtù del corpo, per esempio la
capacità di nutrirsi bene è il giusto mezzo tra il mangiare troppo e il
mangiare troppo poco. La determinazione di questo giusto mezzo, o

146
«medietà» (mesotes), o «moderazione», non è tuttavia meccanica, ma va-
ria da individuo a individuo - come la giusta quantità di cibo varia se-
condo le dimensioni del corpo - perciò deve essere calcolata caso per
caso dalla ragione. La virtù della ragione, cioè la virtù dianoetica, capace
di fare questo, è la saggezza (phronesis). Come esempi di virtù etiche A-
ristotele cita il coraggio, giusto mezzo tra temerarietà e codardia, la
temperanza, giusto mezzo tra intemperanza e insensibilità, la generosi-
tà, giusto mezzo tra prodigalità ed avarizia, la fierezza, la mitezza, la sin-
cerità, ecc. A ciascuna di queste egli dedica poi una trattazione particola-
reggiata, che costituisce uno degli aspetti più interessanti della sua ope-
ra. Ma che cosa sostiene Aristotele a proposito della giustizia, cioè di
quella virtù che per il suo maestro Platone riassumeva tutte le altre? A
questo argomento Aristotele dedica l’intero libro V dell’Etica Nicoma-
chea. In sintonia con Platone, egli dichiara anzitutto che essere giusti si-
gnifica sapersi comportare sempre bene verso gli altri, soprattutto ob-
bedendo alle leggi. In tal senso, la giustizia è la virtù che rende felice la
società politica.
Le leggi - afferma infatti Aristotele - si pronunciano su tutto e ten-
dono all’utile comune, per tutti o per i migliori, o comunque per chi go-
verna secondo virtù o secondo qualche altro criterio consimile, di modo
che, in uno dei sensi del termine, noi diciamo «giusto» ciò che produce e
preserva la felicità, e le parti di essa, nell’interesse della comunità politi-
ca.
Si tratta della stessa concezione della felicità come bene comune, o
collettivo, che Platone espone nella Repubblica.
Presa in un’accezione più particolare, la giustizia è anch’essa una
forma di «medietà» e può applicarsi o alla distribuzione di beni pubblici,
nel qual caso assume la forma di una proporzione (per esempio gli onori
devono essere proporzionali ai meriti), o allo scambio di beni privati, nel
qual caso assume la forma di un’uguaglianza (un bene deve essere
scambiato con un bene di uguale valore, indipendentemente dai meriti
delle persone). La prima forma di giustizia è stata chiamata «distributi-
va» e la seconda «commutativa».
Alle virtù dianoetiche Aristotele dedica il VI libro dell’Etica Nicoma-
chea, dove tra l’altro distingue tra la ragione «teoretica», aver per fine la
pura conoscenza (theòria), detta anche «scientifica», e la ragione «prati-

147
ca», avente per fine l’azione (praxis), detta anche «calcolativa», perché
calcola i mezzi in relazione al fine. Per Aristotele, «teoretico» e «pratico»
sono due aspetti dell’unica ragione parecchi secoli dopo, Kant ripropor-
rà la stessa distinzione, dedicando ad ogni ambito della ragione un’inda-
gine specifica, intitolata rispettivamente Critica della ragione pura e Cri-
tica della ragione pratica. La ragione teoretica possiede, secondo Aristo-
tele, tre «abiti» o stati abituali: la scienza vera e propria (episteme), che è
la capacità di dimostrare a partire da principi, l’intelligenza (nous), che è
la conoscenza stabile dei principi e la «sapienza» (sophia), che è
l’insieme dei due abiti precedenti, cioè la conoscenza dei principi e la
capacità di dimostrare a partire da essi. Come tale, la sapienza è l’abito
più alto della ragione teoretica, cioè la virtù di questa. Invece la ragione
pratica possiede due abiti: l’arte (tekhné), che è la capacità di produrre
oggetti (poiesis) in modo razionale, e la «saggezza» (phronesis), che è la
capacità di compiere buone azioni (praxeis), cioè di deliberare bene qua-
li azioni si devono compiere e quali si devono evitare per conseguire il
bene proprio, o della propria famiglia, o della propria città. La saggezza,
come abbiamo già detto, è anche la capacità di determinare esattamente
qual è il giusto mezzo tra due vizi opposti, e quindi rende possibile le
virtù etiche. Ciononostante, la saggezza, per essere esercitata, richiede il
possesso di certe virtù etiche, quali la temperanza, perché il desiderio
non controllato può offuscare il giudizio.
Poiché per Aristotele il bene dell’uomo consiste non nella produzio-
ne, la quale ha per fine un oggetto diverso, ma nell’azione, la quale ha
per fine la propria perfezione la saggezza è superiore all’arte e costitui-
sce la virtù, cioè l’abito più alto, della ragione pratica.
Tra le due virtù dianoetiche, ossia la sapienza e la saggezza, Aristo-
tele reputa la prima superiore alla seconda per due motivi. Anzitutto, la
saggezza ha per oggetto il bene dell’uomo, ma l’uomo non è la cosa mi-
gliore che esista nell’universo, mentre la sapienza ha per oggetto i prin-
cipi, cioè le cause prime, di tutte le cose, compresi gli astri («le brillanti
luci di cui si compone il cielo»), che per Aristotele sono realtà divine, e
quindi superiori all’uomo58. In secondo luogo la sapienza costituisce il
fine dell’uomo, mentre la saggezza ha per oggetto i mezzi, cioè le azioni,
attraverso cui si consegue tale fine. Sia la saggezza che la sapienza, os-
serva Aristotele, «producono, ma non come medicina produce la salute,

148
bensì nel modo in cui lo fa la salute: così la sapienza produce la felicità;
infatti, essendo parte della virtù intera, rende felici sia con il fatto di es-
sere posseduta, sia con il suo agire. Inoltre l’operare proprio dell’uomo
giunge a compimento secondo saggezza e la virtù morale: infatti la virtù
rende corretto il fine, e la saggezza ciò che porta a esso». La sapienza
dunque è per l’anima l’analogo della salute per il corpo, vale a dire il fine
ultimo, e perciò costituisce la felicità; invece la saggezza è per l’anima
l’analogo della medicina per il corpo, vale a dire ciò che indica i mezzi
per conseguire il fine ultimo. Da questa differenza Aristotele desume che
“la saggezza non ha autorità [letteralmente «non è signora»] sulla sa-
pienza, né sulla parte migliore, proprio come la medicina non ha au-
torità sulla salute, infatti non si serve di essa, ma vede come possa ge-
nerarsi. Quindi dà ordini in vista di essa, non ad essa”.
La sapienza, essendo la virtù della ragione teoretica, è per Aristotele
l’elemento più importante della felicità. Il fine dell’uomo, ovvero la sua
felicità, consiste nello svolgere bene l’attività che lui solo o lui meglio di
chiunque altro è in grado di svo1gere, e questa attività è la conoscenza
dei principi, cioè delle cause prime, di tutte le cose (altrove detta anche
«filosofia prima»). La felicità suprema dell’uomo consiste dunque essen-
zialmente nel fare filosofia, anche se ciò richiede, come abbiamo visto,
tutta una serie di altre virtù, le virtù etiche e la virtù dianoetica della
saggezza, oltre che tutta una serie di condizioni esterne, come quelle di
cui abbiamo parlato (salute, ricchezza, persone amiche, ecc.). Questa
concezione è stata giudicata eccessivamente intellettualistica e proponi-
bile solo ai filosofi, ma non è così.
Il carattere non intellettualistico della felicità è provato anzitutto dal
fatto che essa, oltre a richiedere l’esercizio di tutte le virtù e a presup-
pone delle condizioni esterne, deve includere anche il piacere. Aristotele
infatti si oppone sia a Speusippo, secondo il quale il piacere non è un be-
ne, sia a Eudosso, secondo il quale il piacere è il bene supremo, soste-
nendo che esso è certamente uno dei beni più importanti per l’uomo e
che una vita felice è necessariamente anche piacevole, come sosteneva
Platone nel Filebo. Ma, a differenza di Platone, che concepiva il piacere
come un processo, Aristotele lo concepisce ora come «l’attività dell’abito
naturale», ora come un perfezionamento dell’attività, cioè come «una
perfezione sopraggiungente, quale ad esempio lo splendore nella gio-

149
ventù». Ciò significa che proviamo piacere ogniqualvolta compiamo
un’attività in cui si esprime la nostra natura, anche animale, ma soprat-
tutto umana, e che il piacere è il segno che stiamo compiendo un’attività
naturale, anzi è un perfezionamento di questa. Esistono perciò piaceri
corporei, che vanno gustati con moderazione, e piaceri intellettuali, che
sono superiori ai primi. Ma, poiché la natura umana è complessa, i pia-
ceri corporei e quelli intellettuali nell’uomo devono «stare in equilibrio».
Negli dèi invece, la cui natura è semplice, vi è un solo tipo di piacere,
quello intellettuale, che non implica movimento, ma immobilità.
Un’altra prova del carattere non intellettualistico della felicità è la
trattazione che Aristotele compie dell’amicizia, alla quale dedica due in-
teri libri dell’Etica Nicomachea, l’VIII e il IX, cioè un quinto dell’intera
opera.
A questo proposito bisogna precisare che col termine philia, nor-
malmente tradotto con «amicizia», Aristotele non intendeva soltanto ciò
che noi intendiamo per amicizia, ma qualunque forma di affetto, da quel-
lo dei coniugi a quello degli amanti, da quello tra genitori e figli a quello
tra i veri e propri amici, a quello che deve intercorrere tra i cittadini di
una stessa città (ovvero l’amicizia civica). Secondo Aristotele, inoltre,
l’amicizia è una virtù, cioè una forma di eccellenza, un bene, anche se na-
turalmente l’amicizia fondata sul valore delle persone è superiore a
quella fondata sull’interesse e a quella fondata sul piacere. L’uomo, per
essere felice, deve essere circondato da amici, perché è essenzialmente
un animale politico, cioè non autosufficiente visto che «per natura tende
a vivere in comune», egli è bisognoso di aiuto, di collaborazione e di af-
fetto.
Infine Aristotele osserva che l’amicizia fa parte della felicità. Dato
che l’amico è come un altro se stesso e che la felicità è il fine della vita di
ognuno, essa si realizza più compiutamente grazie alla percezione della
vicinanza dell’amico: «ciò potrà verificarsi per meno della vita in comu-
ne, e della comunità di ragionamento e di pensiero» (koinonein logòn kai
dianoias). Anzi, conclude Aristotele, “ciò per cui [gli uomini] desiderano
vivere è proprio ciò in cui vogliono passare il loro tempo con gli amici;
per questo vi è chi beve insieme, altri giocano a dadi, altri fanno ginna-
stica in comune o vanno a caccia, o fanno insieme filosofia (sumphiloso-

150
phousin), e tutti passano la loro giornata facendo quella cosa che amano
sopra ogni altra, tra tutte quelle che compongono una vita”.
Anche se in questo passo il verbo sumphilosophein, che qui compare
per la prima volta nella letteratura greca, significa svolgere insieme atti-
vità intellettuali che abbiano come fine il conoscere in generale, non c’è
dubbio che la condizione qui descritta da Aristotele si applichi anche alla
filosofia in senso stretto, cioè alla ricerca delle cause prime. Dunque la
felicità consiste nel praticare questa attività non da soli, bensì con gli
amici, cioè con le persone più care.
Nella stessa direzione si muove anche il libro X dell’Etica Nicoma-
chea, interpretato da alcuni come l’espressione estrema
dell’intellettualismo aristotelico. A questo riguardo, la studiosa america-
na Martha Nussbaum ha perfino sostenuto che i capitoli in cui la felicità
è identificata con la vita teoretica sono in contrasto con i libri preceden-
ti, e perciò spurii, o residui di un platonismo giovanile. È vero, infatti,
che in essi Aristotele considera la felicità come un’attività scelta per se
stessa, il più possibile autosufficiente, continua e piacevole, e la identifi-
ca con la vita teoretica, esercitando la quale gli uomini possono rendersi
il più possibile simili agli dèi, cioè immortali67. Ma questa tesi richiede
alcune precisazioni. Anzitutto per «vita teoretica» non si deve intendere
una vita dedita alla pura contemplazione, concetto nato col cristianesi-
mo, in particolare con gli ordini monastici dediti alla vita contemplativa,
perché per Aristotele non c’è un Dio da contemplare, ma ci sono delle
cause prime da ricercare, il termine theoria, spesso tradotto con «con-
templazione», significa ricerca allo scopo di conoscere, o conoscenza fi-
ne a se stessa in tal senso, la vita teoretica è la vita dedita alla ricerca, la
vita che oggi diremmo propria dello scienziato.
In secondo luogo la vita teoretica, pur essendo in sé preferibile a
qualsiasi altra, presuppone che qualcuno si dedichi ad altri tipi di vita, o
che lo stesso individuo che la pratica si dedichi in altri momenti della
sua vita ad altri generi di attività. Ciò risulta chiaro dal confronto tra la
vita teoretica e la vita politica, nella quale si assumono delle cariche
pubbliche e si esercitano tutte le altre virtù. Quest’ultima, secondo Ari-
stotele, comporta una felicità di secondo grado, perché dipende mag-
giormente dagli altri, ha bisogno di più strumenti, non è completamente
fine a se stessa68. Tuttavia, dopo avere ricordato che anche chi si dedica

151
alla vita teoretica ha bisogno dei beni materiali (la salute, il cibo, ecc.),
Aristotele osserva che, per poterla effettivamente esercitare, non basta-
no i discorsi, ma sono necessarie le leggi. Per questo motivo, il compito
della scienza politica, di cui l’Etica Nicomachea ha esposto la prima par-
te, è quello di formare buoni legislatori.
Sulla necessità di una buona legislazione e di buoni sistemi di go-
verno per raggiungere una felicità piena, Aristotele dichiara a conduzio-
ne dell’opera: “dato che i nostri predecessori hanno tralasciato di esa-
minare il campo della legislazione, forse è meglio esaminarlo in detta-
glio, e quindi trattare della costituzione in generale, in modo che sia por-
tata a compimento, per quanto possiamo, la filosofia dell’uomo. Per pri-
ma cosa ci sforzeremo di esaminare quello che è stato detto bene, nei
particolari, dai nostri predecessori, poi, partendo dalla raccolta delle co-
stituzioni, vedremo quali cose salvano le città, e i vari tipi di costituzioni,
quali le distruggono, e per quali ragioni alcune città sono governate be-
ne e altre tutto il contrario. Dopo aver esaminato questo, forse potremo
comprendere meglio qual è la costituzione migliore, come ogni costitu-
zione è strutturata e di quali leggi e costumi si serve”.
In queste parole è contenuta l’intera struttura della Politica, cioè
dell’altra opera di Aristotele in cui viene esposta, e completata, la filoso-
fia pratica (o scienza politica), il cui oggetto è il bene supremo
dell’uomo, cioè la felicità. La concezione aristotelica della felicità, in-
somma, non va ricercata solo nell’Etica Nicomachea, ma nel complesso
Etica-Politica, dove appunto la Politica dissipa completamente la falsa
impressione di intellettualismo che un’errata lettura dell’Etica può su-
scitare.
Nell’Etica Nicomachea Aristotele - lungi dal considerare la felicità
come soddisfazione dei desideri, o delle preferenze, o delle libere deci-
sioni degli individui di progettare la propria vita - la identifica nella rea-
lizzazione delle capacità proprie dell’uomo, indicando quali sono queste
capacità, e quindi presupponendo un’antropologia. In tal modo lo Stagi-
rita mostra di interessarsi non solo del «giusto», cioè dei modi in cui as-
sicurare a tutti la libertà di scegliere un bene qualsiasi, ma anche del
«bene», cioè di ciò in cui veramente l’uomo realizza se stesso e quanto vi
è in lui di migliore. Il fatto che Aristotele affidi alle leggi il compito di
formare i cittadini alla virtù, e quindi alla felicità, non significa che egli

152
voglia imporre a tutti un particolare tipo di felicità, ad esempio la vita
teoretica, ma che le leggi devono creare per tutti le condizioni in cui po-
ter liberamente realizzare se stessi.
Presentando la felicità in termini di fine ultimo, di piacere e di be-
nessere, anziché di dovere e di obbligo morale, Aristotele garantisce ad
ognuno la libertà di sceglierla o non sceglierla, fornendo tuttavia almeno
una motivazione per sceglierla, una motivazione forte anche dal punto
di vista psicologico.
Abbiamo visto che l’uomo, per Aristotele è «per natura un animale
politico», non nel senso che nasca necessariamente nella città (polis), ma
nel senso che può realizzare completamente la propria umanità solo nel-
la città. Per «natura» infatti egli non intende la condizione primitiva, an-
tecedente alla nascita dello Stato, come i maggiori filosofi moderni
(Hobbes, Locke, Rousseau), ma il pieno compimento, cioè il fine
dell’uomo. Ovviamente l’uomo, prima di appartenere alla città, appar-
tiene alla famiglia, che per Aristotele è la prima società naturale, formata
da due tipi di relazione, l’unione tra l’uomo e la donna in vista della pro-
creazione, e l’unione del padrone e dello schiavo in vista della sopravvi-
venza. Per questa sua composizione la famiglia ha come fine la soddisfa-
zione dei bisogni quotidiani (alimentazione, abitazione), cioè semplice-
mente il «vivere». Lo stesso vale per il villaggio, che è l’unione di più fa-
miglie avente come fine la soddisfazione dei bisogni non quotidiani
(commercio, difesa).
La città invece è l’insieme di più villaggi, e quindi di più famiglie, che
si riuniscono sino a raggiungere l’autosufficienza; perciò essa è la socie-
tà perfetta, la più importante di tutte e quella che tutte le comprende. A
differenza della famiglia e del villaggio, la città non ha per fine soltanto il
vivere, bensì anche il «vivere bene» (eu zen), cioè la felicità. Per questo
l’uomo realizza la sua natura solo nella città, e fuori della città possono
vivere solo le bestie, che non hanno felicità, e gli dèi, che sono già felici.
È chiaro perciò - scrive Aristotele - che la città non è comunanza di
luogo né esiste per evitare aggressioni e in vista di scambi: tutto questo
necessariamente c’è, se dev’esserci una città, però non basta perché ci
sia una città: la città è comunanza di famiglie e di stirpi nel viver bene: il
suo oggetto è una esistenza pienamente realizzata e indipendente [...].

153
Dunque, fine della città è il vivere bene e tutte queste cose sono in
vista del fine. La città è comunanza di stirpi e di villaggi in una vita pie-
namente realizzata e indipendente: è questo, come diciamo, il vivere in
modo felice e bello. E proprio in grazie delle opere belle e non della vita
assodata si deve ammettere l’esistenza della comunità politica».
Dal punto di vista del valore, la città precede la famiglia, e il bene
della città è superiore al bene della famiglia, perché il tutto è superiore
alla parte. Invece dal punto di vista della genesi la famiglia precede la
città e, per il modo in cui era organizzata nella società greca antica,
comporta tutta una serie di discriminazioni tra gli esseri umani. La pri-
ma e la più grave discriminazione è quella tra padrone e schiavo. Come
si è già accennato, la famiglia ha per fine la sopravvivenza, nel senso che
lo schiavo, per sopravvivere, ha bisogno del padrone, che gli dica che co-
sa deve fare, e il padrone ha bisogno dello schiavo, che faccia quello che
il padrone gli comanda. Aristotele cerca di giustificare questa discrimi-
nazione, affermando che alcuni uomini non sanno governarsi da sé e
quindi sono per natura schiavi. Questa affermazione è chiaramente in
contrasto con la sua antropologia, secondo cui tutti gli esseri umani ap-
partengono alla medesima specie e tra gli individui della stessa specie
non possono esservi differenze di natura. Tutti gli uomini, infatti, desi-
derano conoscere, come è detto all’inizio della Metafisica, e tutti gli uo-
mini sono animali politici, fatti per vivere nella città e quindi per go-
vernarsi da sé. Per questo motivo l’esistenza della schiavitù pone ad Ari-
stotele un problema; per tutti i filosofi precedenti, invece, essa rappre-
sentava un dato di fatto, che non richiedeva nemmeno di essere messo
in discussione.
D’altra parte la schiavitù era un’istituzione necessaria in tutte le so-
cietà pre-capitalistiche, quali erano le società antiche, come ha visto be-
ne Marx, perché il modo di produzione ad esse strutturale non era la
produzione industriale, che si serve delle macchine, ma la sola manodo-
pera. Di questo si rese conto lo stesso Aristotele, il quale definì gli schia-
vi «strumenti animati», indispensabili per provvedere alle cose necessa-
rie (ta anankaia);
di essi non vi sarebbe bisogno se gli strumenti inanimati riuscissero
a compiere la propria funzione da soli, per esempio «se le spole tesses-
sero da sé». Si tratta evidentemente di un’ipotesi irreale per quell’epoca,

154
che tuttavia rivela come Aristotele fosse consapevole della funzione di
sostituto delle macchine svolta dagli schiavi. Anziché scandalizzarci,
dunque, della parziale e contraddittoria giustificazione della schiavitù
tentata da Aristotele, dovremmo ricordarci che essa è sopravvissuta in
tutti gli Stati moderni sino alla rivoluzione industriale e che negli Stati
Uniti d’America, uno degli Stati più sviluppati del mondo, essa è stata
abolita solo alla fine dell’Ottocento al prezzo di una sanguinosa guerra
civile.
Per Aristotele, gli schiavi non possono essere felici, perché hanno sì
la ragione - altrimenti non sarebbero uomini - ma solo in quanto sono in
grado di comprendere gli ordini e di obbedire ad essi: per questo moti-
vo, le sole virtù che essi possono praticare sono le virtù etiche, non le
virtù dianoetiche, nelle quali soprattutto consiste la felicità. Nella stessa
condizione degli. schiavi, del resto, si trovano gli artigiani e gli operai,
non perché non sappiano comandare, ma perché non hanno, a causa del
lavoro a cui sono costretti, il tempo di coltivare le virtù dianoetiche. Una
buona parte degli abitanti della città viene in tal modo esclusa dalla feli-
cità, non per decisione di qualcuno, ma per necessità oggettiva.
Nella famiglia, oltre al padrone e agli schiavi, ci sono il marito, che
coincide col padrone, la moglie e i figli. La posizione di questi, pur non
essendo pari a quella del marito e padre, è tuttavia diversa da quella de-
gli schiavi. La moglie e i figli, infatti, sono liberi -in latino «figli» si dice
appunto liberi, - ma non sono adatti ad esercitare il comando, la moglie
per natura e i figli per età: entrambi, quindi, devono sottostare
all’autorità del marito-padre. Anche questo è un carattere della famiglia
dovuto alla struttura della società antica, la quale era notoriamente ma-
schilista. Aristotele tuttavia cerca di attenuarlo, osservando che
l’autorità del marito sulla moglie anzitutto ammette eccezioni, perché in
alcune famiglie la moglie è più adatta a comandare del marito.
In secondo luogo, quella del marito è un’autorità di tipo «politico»,
esercitata tra liberi ed uguali, anzi addirittura di tipo «aristocratico»,
perché ammette una distribuzione di compiti. L’autorità del padre sui
figli invece è di tipo «regale», cioè simile a quella del re sui suoi sudditi:
essa si esercita su disuguali, avendo come fine non il vantaggio del re,
bensì il bene dei sudditi. L’autorità paterna del resto è destinata ad e-
saurirsi quando i figli raggiungono la maggiore età. Si deve pensare

155
dunque che le mogli e i figli possano sviluppare tutte le virtù e quindi
realizzare la felicità.
La condizione necessaria affinché tutti i cittadini sviluppino le virtù
e quindi raggiungano la felicità è l’educazione (paideia), la quale dipende
dalle leggi, cioè dalla costituzione (politeia). Dopo avere definito in ge-
nerale la città e la famiglia, Aristotele intraprende nella Politica l’analisi
delle costituzioni, discutendo tra l’altro quella proposta da Platone nella
Repubblica. Di questa egli critica soprattutto l’abolizione della famiglia e
della proprietà privata per la categoria dei «custodi», osservando che es-
sa:1) trasforma la città in un’unica famiglia, confondendo in tal modo i
ruoli dei due tipi di società, che sono diversi;2) fa sì che nessuno si curi
più dei figli e dei beni, perché ciò che appartiene a tutti non è riconosciu-
to come proprio da nessuno; 3) rende infelici coloro che vi sono coinvol-
ti, cioè i custodi.
Inoltre - afferma Aristotele riferendosi a Platone - pur togliendola
felicità ai custodi, sostiene che il legislatore deve rendere felice la città
tutta quanta: ma è impossibile che sia felice il tutto se tutte le sue parti o
moltissime o alcune, almeno, non hanno felicità. La felicità, invero, non è
dello stesso ordine del numero pari: l’essere pari può essere propietà
del totale, senza esserlo di alcuna delle sue parti; per la felicità ciò è im-
possibile. Pertanto, se i custodi non sono felici, chi altro lo sarà? Non cer-
to gli operai, né la massa dei lavoratori meccanici .
Questo passo dimostra che per Aristotele la città è felice solo se lo
sono i cittadini, e quindi che il bene della città, pur essendo superiore al
bene dell’individuo, deve essere inteso non in senso collettivo, ma in
senso distributivo, cioè consiste nel creare le condizioni in cui ciascuno
possa realizzare il proprio bene individuale.
Non è questo il luogo per esporre l’intera teoria aristotelica delle
costituzioni: basti ricordare che Aristotele riprende la classificazione
tradizionale di monarchia, oligarchia e democrazia, distinguendo per
ciascun tipo di costituzione una forma buona, in cui chi governa mira al
bene dei governati, e una forma degenere, in cui chi governa mira solo al
proprio interesse. Egli poi sostiene che tra le costituzioni buone, cioè re-
gno, aristocrazia e politia, non ce n’è una migliore in senso assoluto, ma
ciascuna può essere più adatta delle altre alla situazione particolare in
cui si applica. Poiché le costituzioni più diffuse sono l’oligarchia (gover-

156
no dei ricchi) e la democrazia (governo dei poveri), il «giusto mezzo» tra
queste due, cioè la «costituzione media», sarà la migliore in base ad essa,
la maggior parte della popolazione è costituita da cittadini né troppo
ricchi né troppo poveri, ma «liberi ed uguali»50. Aristotele tuttavia non è
interessato, come i filosofi politici moderni, solo al tipo di governo in cui
una costituzione si attua, ma anche al tipo di vita che una costituzione
può garantire: gli ultimi due libri della Politica sono dedicati alla tratta-
zione della costituzione migliore sotto questo profilo.
Dopo avere ricordato che la felicità comprende dei beni esterni, dei
beni del corpo e dei beni dell’anima, ma consiste soprattutto in questi
ultimi, cioè nelle virtù, Aristotele osserva che i primi due tipi di beni di-
pendono dalla fortuna e gli ultimi dall’uomo stesso.
Si ammetta dunque di comune accordo che a ognuno tocca tanta fe-
licità quanta virtù: ed appelliamo alla testimonianza del dio, il quale è
felice e beato, ma non per qualche bene esterno, bensì per se stesso e
per avere una determinata natura; ed è per questo che necessariamente
la buona fortuna è diversa dalla felicità (ché dei beni esterni all’anima
causa è il caso e la fortuna, mentre nessuno è giusto o temperante per
caso o in forza del caso).
La città deve prendersi cura sia dei beni esterni e del corpo, attra-
verso quella che oggi chiameremmo la politica economica e sanitaria, sia
dei beni dell’anima, cioè delle virtù dei cittadini, attraverso l’educazione.
A questo punto Aristotele si chiede se è preferibile la vita che com-
porta la partecipazione attiva alla città e alle cariche pubbliche o piutto-
sto quella che si estrania e si ritira da tale partecipazione attiva, «come
ad esempio una qualche forma di vita teoretica, che alcuni dicono essere
l’unica propria del filosofo». Poiché nel seguito egli critica quest’ultima
concezione, essa non può venire identificata con quella esposta da lui
stesso nel libro X dell’Etica Nicomachea; alcuni studiosi la attribuiscono,
infatti, ad Aristippo. Da ciò consegue che la vita teoretica proposta da
Aristotele non esclude la partecipazione alla vita politica. Alla posizione
presumibilmente sostenuta da Aristippo egli obietta che “esaltare
l’inazione più che l’azione non risponde a verità, perché la felicità è atti-
vità e le azioni degli uomini giusti e temperanti riescono a molti e nobili
risultati”.

157
Ma nemmeno la posizione opposta soddisfa completamente Aristo-
tele, specialmente quando viene intesa come desiderio di dominare sugli
altri, come poteva sembrare, ad esempio, nel caso di Callide nel Gorgia o
di Trasimaco nella Repubblica. Facendo eco alla critica platonica della
tirannide, contenuta in quest’ultima, Aristotele afferma che il dominio
sugli altri come tale non produce nessuna felicità, altrimenti gli usurpa-
tori e i violenti sarebbero gli uomini più felici di tutti. Inoltre, «la vita
dell’uomo libero è superiore a quella del padrone, perché non c’è niente
di elevato nell’usare uno schiavo in quanto schiavo, e dare ordini riguar-
danti le cose necessarie alla vita non ha niente di bello».
È giusto quindi che tutti i cittadini governino, ma poiché non posso-
no governare tutti insieme, è giusto che governino a turno.
Uomini uguali devono avere a turno quel che è nobile e giusto, per-
ché questo risponde a un criterio di parità e di uguaglianza, mentre è
contro natura che uomini pari abbiano ciò che non è pari e uomini ugua-
li quel che non è uguale; e niente di quel che è contro natura è bello.
Perciò è buona la vita attiva, in cui tutti a turno partecipano al go-
verno, ma non è detto che essa sia la vita migliore in assoluto.
È vero, infatti, che la felicità sta nell’azione piuttosto che nel non fa-
re nulla, tuttavia la vita attiva non è necessario che sia tale in rapporto
agli altri, come pensano alcuni, né solo pratici sono quei pensieri che
dall’agire sono realizzati in vista di risultati concreti, ma piuttosto quei
ragionamenti e quei pensieri (theorias kai dianoeseis) che hanno in se
stessi il fine e sono realizzati per se stessi: in realtà lo «star bene» è fine
e perciò una certa forma di azione. Soprattutto poi diciamo che agiscono
in senso proprio, anche nel caso di azioni esterne, quelli che dirigono
l’azione coi pensieri.
Dunque Aristotele riconferma la tesi dell’Etica Nicomachea, secondo
la quale la vita migliore in assoluto è la vita teoretica, cioè quella che
persegue la conoscenza fine a se stessa e che consiste nell’esercizio della
virtù dianoetica più alta, la sapienza. Egli anzi la presenta come la forma
suprema di azione, anche se non è rivolta verso gli altri, e porta come
esempio di questa vita quella «del dio e dell’universo, che non hanno at-
tività esterne oltre a quelle che sono loro proprie». Ma accanto alla vita
teoretica, anzi in alternanza con essa, egli raccomanda la partecipazione
attiva al governo della città: la vita politica, infatti, essendo «direzione

158
dell’azione coi pensieri», comporta l’esercizio della seconda virtù diano-
etica, cioè della saggezza.
Non si deve credere, tuttavia, che la vita teoretica sia riservata sol-
tanto ai filosofi. In qualche misura essa deve essere accessibile a tutti,
perché la città felice è quella che assicura la felicità a tutti i cittadini. Ari-
stotele infatti afferma:
Ma poiché ci troviamo a studiare la costituzione migliore, quella,
cioè, sotto la quale la città è massimamente felice, e s’è già detto che non
può esserci felicità senza virtù, è chiaro di conseguenza che nella città
retta nel modo migliore e formata da uomini giusti assolutamente e non
sotto un certo rapporto i cittadini non devono vivere la vita del meccani-
co o del mercante (un tal genere di vita è ignobile e contrario a virtù) e
neppure essere contadini quelli che vogliono diventare cittadini in realtà
c’è bisogno di ozio (skholé) e per far sviluppare la virtù e per le attività
politiche.
L’ozio, inteso positivamente come libertà dal bisogno e buon uso del
tempo libero, è necessario anzitutto per svolgere le attività politiche,
cioè il servizio militare e il governo della città, che Aristotele assegna ri-
spettivamente ai giovani e agli anziani ma esso deve essere impiegato
anche per svolgere attività di tipo teoretico, cioè fini a se stesse.
La decisione in favore della felicità, cioè l’acquisizione delle virtù,
spetta ai singoli ed alla città. E poiché le virtù dipendono - oltre che dalla
natura, cioè dall’indole, e dalla ragione, cioè dalla libera scelta- anche
dall’abitudine, sarà compito della città che vuole essere felice creare le
abitudini virtuose mediante l’educazione. A questo punto Aristotele ri-
chiama la distinzione tra le parti dell’anima e della ragione stabilita
nell’Etica Nicomachea, dichiarando che la ragione è superiore alla parte
priva di ragione e la ragione teoretica è superiore a quella pratica. Per
questo motivo, le attività della parte superiore devono essere preferibili
per quanti sono in grado di raggiungere o tutte le attività dell’anima o
due: in effetti, la cosa sopra tutte preferibile per ciascuno è sempre ciò
che rappresenta il termine più alto da raggiungersi.
Ciò significa che chi può deve cercare di realizzare tutte le virtù, sia
quelle etiche sia le dianoetiche, ossia la sapienza e la saggezza. Chi inve-
ce non può realizzarle tutte deve realizzare almeno le due che vengono

159
subito dopo la sapienza, ossia le virtù etiche e la saggezza. Di ciò deve
tenere conto il legislatore nel programmare l’educazione alla virtù.
L’intera concezione aristotelica della felicità, sia dell’individuo che
della città, si riassume pertanto in queste parole.
Ora la vita tutta si divide in lavoro (askholia) e ozio (skhole), in
guerra e pace, e delle azioni alcune sono necessarie e utili, altre belle. A
loro riguardo si deve fare la stessa distinzione che s’è fatta per le parti
dell’anima e per le loro attività: la guerra dev’essere inviata della pace, il
lavoro in vista dell’ozio, le cose necessarie e utili vista di quelle belle.
L’uomo politico deve legiferare guardando a tutto questo, sia per
quanto riguarda le parti dell’anima che le loro azioni, e specialmente ai
beni più grandi e ai fini. Nello stesso modo agirà riguardo ai modi di vita
e alla scelta della condotta: bisogna sì lavorare e combattere, ma molto
più starsene in pace e in ozio, e così fare le cose necessarie e utili, ma
molto più quelle belle. Di conseguenza, guardando a questi scopi, si de-
vono educare gli uomini e quando sono ancora ragazzi e poi nelle altre
età, quante han bisogno di educazione.
Tutti devono svolgere le attività necessarie, come il lavoro e la guer-
ra, tua con l’obiettivo di passare in seguito alle attività belle, cioè fini a se
stesse, quali l’ozio e la pace; dal canto suo, il legislatore deve mirare, per
mezzo dell’educazione, a realizzare le condizioni in cui tutti quelli che lo
vogliono possano svolgere entrambi i tipi di attività. Ma l’ozio richiede
molte condizioni.
Infatti - dice Aristotele - ci devono essere molte cose necessarie per-
ché si possa stare in ozio; per questo motivo è bene che la città sia tem-
perante, valorosa e forte, perché, come vuole il proverbio, non c’è ozio
per gli schiavi e quelli che non riescono ad affrontare il pericolo con va-
lore sono schiavi degli aggressori. Ci vuole dunque coraggio e forza per il
lavoro, amore di sapienza (philosophia) per l’ozio, temperanza e giusti-
zia in entrambe le condizioni, soprattutto quando si è in pace e in ozio.
Le virtù etiche, come il coraggio, la temperanza, la giustizia, sono
necessarie per il lavoro, mentre per l’ozio è necessario l’«amore di sa-
pienza». La parola philosophia, impiegata da Aristotele in questo passag-
gio, non deve essere intesa come «filosofia prima», ovvero come ricerca
delle cause prime, praticata soltanto dai filosofi veri e propri, ma indica

160
più in generale l’amore per tutto ciò che si compie nell’ozio, cioè per tut-
te le attività fini a se stesse, di carattere intellettuale.
Ciò è confermato dal libro VIII della Politica, interamente dedicato
all’educazione. Questa deve essere, secondo Aristotele, la prima preoc-
cupazione del legislatore; deve inoltre essere unica e uguale per tutti,
pubblica e non privata. Dunque tutti devono essere messi nelle condi-
zioni di esercitare tutte le virtù e di essere in tal modo felici.
Naturalmente alla base dell’educazione pubblica deve esserci la
ginnastica, che serve a educare il corpo e a sviluppare la virtù del corag-
gio. Poi devono essere impartiti la grammatica e il disegno, che sono utili
alla vita e di vasto impiego. Ma il vertice dell’educazione deve essere co-
stituito, secondo Aristotele, dalla «musica», termine con cui egli indica
tutte le attività a cui presiedono le Muse (canto, danza, musica strumen-
tale, poesia, ecc.). Queste non sono attività utili, ma belle, cioè fini a se
stesse, che vengono praticate non per ricavarne qualcosa d’altro, ma per
il piacere che procurano di per se stesse.
Si potrebbe a ragione supporre - scrive Aristotele - che questa è la
causa per cui gli uomini cercano di procurarsi la felicità mediante tali
piaceri: quanto al darsi alla musica, non si può spiegare solo con questa
ragione, ma anche perché, come pare, è utile al riposo. Nondimeno si po-
trebbe indagare se ciò non sia accidentale, mentre la natura della musica
è più elevata di quanto non lasci supporre l’uso predetto, e si deve quin-
di trarne non soltanto il comune piacere, che tutti sentono (perché la
musica ha in sé un piacere naturale per cui il ricorrere ad essa è gradito
a tutte le età e a tutti i caratteri), ma vedere se per caso il suo influsso
non si eserciti anche sul carattere e sull’anima.
Dunque la musica serve per il riposo, dà la felicità e per di più forma
il carattere. Quest’ultimo effetto corrisponde alla purificazione delle
passioni, prodotta dal piacere che si prova nella musica, anzi addirittura
dall’entusiasmo e dal delirio a cui essa può condurre. Sulla «catarsi» Ari-
stotele ritorna, come abbiamo visto, nella Poetica, dove assegna alla tra-
gedia il compito educativo ed etico di purificare passioni come la pietà e
il terrore, in totale disaccordo con la condanna dell’arte pronunciata da
Platone nella Repubblica, ma in perfetta sintonia con la sua teoria
dell’amore come delirio divino esposta nel Simposio e nel Fedro. Su que-
ste considerazioni si chiude la Politica e con essa la trattazione della teo-

161
ria aristotelica della felicità, che pertanto non può certamente essere
considerata intellettualistica78.

78 E. Berti, In principio era la meraviglia, Laterza, Bari, 2007.

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Lo Stato e il cittadino nella Politica di Aristotele79

Dopo aver collocato la Politica di Aristotele all'interno del corpus aristotelicum,


Renato Laurenti ne illustra la composizione. L'ordine tramandato dalla tradizione, che
molti noti aristotelisti hanno messo in discussione, secondo Laurenti, è il più logico e
risponde ad una coerenza interna. Aristotele, però, fornisce un raggruppamento diverso
delle varie forme di costituzioni e, soprattutto, dà una spiegazione diversa della loro
degenerazione. Rendendosi conto dell'impossibilità di una forma politica perfetta,
Aristotele, secondo Laurenti, fa appello ad una classe politica "di centro" che è
l'equivalente della mesòtes, del "giusto mezzo" come virtù etica e su cui ritiene di poter
realizzare una sorta di "repubblica temperata" che dia stabilità alla polis. Laurenti si
sofferma sulla concezione aristotelca del cittadino, illustrando, infine, lo scopo ultimo
dell'organizzazione politica secondo Aristotele: essendo l'uomo, essenzialmente,
razionalità, la sua destinazione più profonda consiste nell'esercizio della contemplazione
quale disinteressata conoscenza. La vita teoretica, così, è sovraordinata da Aristotele alla
vita edonistica e alla stessa vita politica che deve garantire al cittadino una tranquillità
finanziaria e una libertà dai bisogni e consentirgli di attingere la forma più alta di libertà,
quella di cui gode la stessa divinità che è pura contemplazione. In tal modo risulta chiara,
in Aristotele, la subordinazione della politica all'etica e il primato assoluto
dell'eudaimonia.

Come si colloca la Politica nel quadro delle opere di Aristotele?


La Politica di Aristotele, come tutte le grandi opere del Corpus ari-
stotelicum, ad esempio la Fisica o la Metafisica, consiste in una serie di
lezioni che poi sono state raccolte in otto libri, non compiute. In esse A-
ristotele riversa tutta la sua esperienza, un'esperienza estremamente
vasta, se si pensa che era stato discepolo di Platone, e che Platone e i
suoi seguaci avevano fatto della politica uno dei cardini del loro inse-
gnamento. Non è un caso che Aristotele scrisse molto su questo tema
prima di arrivare a questa che possiamo definire la sua opera fondamen-
tale. Possiamo ricordare il Politico in due libri, del quale ci è stato con-
servato un frammento molto interessante da Siriano, dove si dice che il
bene è la misura di tutte le cose. Si tratta di un frammento estremamen-
te complesso, in cui i seguaci del metodo genetico vorrebbero vedere

79 Intervista a Renato Laurenti, in “Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche”,

15/1/1991.

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una prova della loro interpretazione aristotelica, mentre altri, come ad
esempio, Düring, vi vedono un Aristotele che comincia a interpretare
secondo la propria personalità certe posizioni, sia pure usando espres-
sioni platoniche.
Dopo il Politico Aristotele scrisse molte altre opere, i cui titoli sono
indicati dal catalogo di Diogene Laerzio. Fra esse si trovano delle epito-
mi alla Repubblica ed alle Leggi di Platone, e altre opere, di cui abbiamo
però soltanto frammenti, che, in qualche modo, sono stati rifusi nella Po-
litica.

Quali sono i temi affrontati da Aristotele nella Politica ?


La Politica, come ho detto, è costituita da otto libri, e non è compiu-
ta. C'è stato qualcuno che ha voluta completarla: ricordo il tentativo di
Ciriaco Strozzi, un professore di Pisa, il quale ha scritto gli ultimi due li-
bri e li ha completati supponendo e divinando quello che Aristotele a-
vrebbe potuto dire. Del resto il libro VIII è un libro sull'educazione, e
non è quindi difficile tentare di completare quello che Aristotele aveva
cominciato a dire. L'ordine degli otto libri è uno dei problemi discussi. Il
primo libro è dedicato all'"economia" ovvero modo di condurre la casa,.
È un libro che, a parere di alcuni, non avrebbe molto a che fare con la Po-
litica vera e propria. Il secondo libro si avvicina al tema, e parla tanto
delle costituzioni elaborate dai filosofi, ad esempio quelle di Platone,
nelle Leggi e nella Repubblica, quanto delle costituzioni vigenti, come
quella degli Spartani, dei Cretesi, dei Cartaginesi, e finisce con un breve
accenno alla costituzione degli Ateniesi; gli stessi argomenti sono ripresi
nella vasta raccolta di costituzioni, oggi perduta, che Aristotele curò in-
sieme ai suoi allievi.
Il libro III affronta le questioni propriamente politiche: che cos'è il
cittadino, che cos'è una costituzione, e come si possono raggruppare le
costituzioni. Si comincia studiando la prima costituzione che, secondo
uno degli schemi di classificazione aristotelici, è la monarchia. Lo sche-
ma che domina in questo libro è uno schema fondato sulla quantità; vale
a dire che, a seconda che l'uno, i pochi, o i molti dominino, si avrà una
monarchia, un'aristocrazia o una politeìa. Quando poi si verifica la dege-
nerazione di queste tre forme, si giunge al dominio perverso dell'uno,
che è la tirannide, al dominio perverso di più persone, che è l'oligarchia,

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e al dominio perverso dei molti, che è la democrazia. Il gruppo di libri
dal IV al VI continua l'esame delle costituzioni, ma va detto che alla sua
base non si trova più il primo schema di classificazione, ma un altro,
fondato sulle due costituzioni fondamentali, che per Aristotele sono la
democrazia e l'oligarchia.
Si è molto discusso su questa diversità degli schemi classificatori, e i
pareri degli studiosi sono molto diversi. Molto probabilmente il gruppo
dei libri IV-VI risponde a esigenze diverse, per cui ha Aristotele sfruttato
un raggruppamento diverso. I libri VII e VIII parlano della politeìa, della
polis ideale. L'ottavo, abbiamo detto, non è concluso.
Riassumendo, l'opera può essere divisa in cinque blocchi; il primo,
concerne l'economia; il secondo ha carattere storico, ed è dedicato alla
critica delle costituzioni vigenti o di quelle ipotizzate dai filosofi; il terzo
libro si avvicina al tema, e affronta vari problemi più propriamente poli-
tici; segue il gruppo di libri IV-VI, in cui vengono commentate le varie
costituzioni; si termina con il gruppo VII-VIII, che tratteggia la politeìa
ideale.
Se pensiamo al concetto di unità di un'opera letteraria degli antichi,
è chiaro che possiamo dire tranquillamente che la Politica presenta un
ordine e un'unità. Il primo libro parla della casa: più case formano il vil-
laggio, e più villaggi formano la polis. Quindi, anche se Aristotele aveva
già inserito parte di questo materiale in altri libri, resta vero che il libro I
rappresenta un avvicinamento, per così dire strutturale, all'argomento, e
rientra nella Politica.
Il libro II si avvicina al tema da un punto di vista storico e quindi re-
censisce, abbiamo detto, le varie costituzioni. Il libro III comincia a
prendere in esame due costituzioni, e continua nel quarto blocco, costi-
tuito dai libri IV-VI. La Politica termina infine con l'ultimo blocco, che
parla della politeìa ideale. Quest'ordine è stato accettato o respinto, e
due insigni studiosi, il von Armin e lo Jaeger, lo hanno intesto diversa-
mente. Infatti, in alcune edizioni dell'inizio del secolo si aveva la succes-
sione di libri I-II-III-VII-VIII-IV-V-VI, perché si credeva che questo fosse
l'ordine più logico. In realtà, se studiamo più a fondo tutto lo svolgimen-
to, e teniamo soprattutto presente che la Politica è una serie di lezioni,
vediamo che l'ordine tràdito è in realtà il migliore, e possiamo dire che
gli studiosi recenti sono del tutto concordi su questo.

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Il libro termina con la trattazione della polis ideale, e, anche qui, oc-
corre capire che questa polis non è un qualcosa di ideale nel senso di
non esistere nella realtà. Il fatto che la polis sia collocata nell'ultima par-
te dell'opera significa che Aristotele fa tesoro di tutto quello che ha det-
to, e quindi costruisce una politeìa che considera quanto di meglio le co-
stituzioni vigenti o ideate da filosofi potessero offrire. Non solo: bisogna
fare anche una considerazione filologica. Aristotele parla spesso, soprat-
tutto nel libro VII, della politéia kat'euchèn. Lo studio della parola euché
è illuminante. Euché significa "preghiera": Aristotele ha scritto un Perì
euchés, cioè un De oratione, ma il termine è usato nel senso di voto idea-
le, desiderio, solo nel libro VII. Dunque il libro VII vuole creare la polis
adatta a quel determinato tipo di cittadino che egli idealizza. Per offrire
un esempio, dal punto di vista urbanistico, Aristotele consacra nella sua
polis una piazza ai liberi, dove questi cittadini possono raccogliersi, par-
lare, discutere. Dal punto di vista politico si ha la famosa rotazione delle
cariche.
Credo che la rotazione delle cariche - che è stata esaltata da tutti gli
studiosi, da Jaeger a De Sanctis, fino ai più recenti, come una forma di
partecipazione del cittadino alla polis, allo Stato - fosse l'unico modo che
Aristotele potesse escogitare per permettere ai suoi veri cittadini di par-
tecipare al governo dello stato. Aristotele si rifaceva in qualche modo
alla costituzione di Atene, che, come sappiamo, permetteva ai suoi citta-
dini, ovvero a coloro che venivano riconosciuti come tali, di partecipare
al governo, e di essere perlomeno per un giorno o per più giorni il capo
dello stato.

Nella Politica Aristotele elabora una teoria delle costituzioni e della


loro degenerazione. Ce ne può parlare?
Abbiamo detto che il libro III della Politica è fondato su un tipo di
classificazione delle costituzioni molto comune. Troviamo un accenno a
questo modello, ad esempio, in Erodoto, ed un altro in Pindaro. Esso si
basa sulla quantità, a seconda che l'uno, i più, o i molti governino. Ma è
chiaro che il numero di per sé non può qualificare una costituzione; per
questo Aristotele accosta al numero una qualità, una virtù propria di o-
gni costituzione, di cui parla nella Politica.

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Dunque questo primo gruppo, questo primo raggruppamento è fon-
dato sul numero-qualità, e distingue monarchia, aristocrazia, e politeìa,
accanto alle loro forme degenerate: tirannide, oligarchia, e democrazia.
La discriminante fra le forme normali e quelle degradate delle costitu-
zioni consiste nel fatto che nella prima domina la virtù. Dunque, seguen-
do una ispirazione socratico-platonica, questi fanno il bene di chi è go-
vernato. Quando il rapporto si rovescia, e il governante fa il proprio be-
ne, si avranno le tre forme corrotte: nella tirannide, il monarca persegue
il suo bene e non pensa più ai sudditi. I pochi, gli aristoi, i migliori, cer-
cano di fare il proprio utile, e si ha così l'oligarchia. In terzo luogo, la po-
liteìa diventa democrazia perché i molti, invece di fare il bene di tutti,
fanno il proprio.
Questo è lo schema che domina nel libro III. Nei libri IV-VI troviamo
un altro schema, fondato sulle due forme della democrazia e dell'oligar-
chia, che compaiano come forme deviate nel primo schema. Perché Ari-
stotele ricorre a questo nuovo criterio? Uno dei motivi può essere il fatto
che egli si rese conto che un governo in cui la virtù domini sovrana è e-
stremamente difficile da realizzare, ed è necessario venire a patti con la
virtù. In base a questo criterio egli si concentra sulla democrazia e sull'o-
ligarchia, che non sono ovviamente forme rette, ma sono in grado di av-
vicinarsi alla forma retta.
Non è strano pertanto che Aristotele, proprio nel libro IV, parlando
della politeìa, la terza forma retta del primo schema, affermi che si tratta
di un misto, derivato da due forme deviate, e cioè dalla democrazia e
dall'oligarchia. In conclusione, nel blocco di libri IV-VI, c'è una visione
più umana, più comprensiva di quello che è l'atteggiamento dell'uomo
verso gli altri. Ci si potrebbe chiedere come, in questi due schemi, le co-
stituzioni si producano, si generino, derivino l'una dall'altra. Era un pro-
blema che anche Platone si era posto, risolvendolo diversamente da Ari-
stotele.
Per Aristotele, ammessa una costituzione ottimale, tutte le altre si
producono da questa in quanto perdono quella virtù essenziale che nella
prima risplende nel modo più vasto; le varie forme, anche storiche, di
costituzione si producono via via allontanandosi dalla prima, che è la
migliore, ed è l'aristocrazia nel senso più alto; seguono la politeìa, la
democrazia, l'oligarchia. In questo Aristotele non faceva altro che colle-

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garsi alla visione antropologica che i Greci avevano del loro divenire sto-
rico. Basti ricordare Esiodo, il quale parla di una età dell'oro, nella quale
gli uomini vivevano felici, pieni di tutto, non avendo bisogno di niente;
poi l'età dell'oro divenne d'argento, e degenerò lentamente fino all'età
del ferro, in cui il male domina. Proprio perché si rende conto della diffi-
coltà della creazione di una politéia ideale, Aristotele ripiega su quella
costituzione che, potremmo dire, è una costituzione di centro. E qui Ari-
stotele non fa altro che appellarsi a una delle categorie più comuni del
suo filosofare, il famoso tò méson, che domina l'etica e, praticamente,
quasi tutti i campi del suo pensiero.
Il mesótes, è, in sede politica, quella classe di centro che, proprio per
essere di centro, permette la stabilità della costituzione. E Aristotele,
molto acutamente, afferma che è difficile cercare di costruire una poli-
teìa pensando a chi possa essere fabbro, a chi possa essere architetto, a
chi possa ricoprire una delle tante funzioni di cui ha bisogno la polis.
Non è difficile, invece, cogliere quello che nella polis è assolutamente
necessario, e cioè una classe di poveri e una classe di ricchi. Questa se-
condo me è una constatazione fondamentale di Aristotele, alla quale egli
dovette credere con molta forza, perché la si ritrova oltre che in altre
opere, soprattutto nella Costituzione degli Ateniesi.
Anche in Atene c'era una classe di poveri e una classe di ricchi, e A-
ristotele scrive che se i ricchi fossero intelligenti aiuterebbero i poveri,
non certo per spirito altruistico, ma per motivi strettamente economici e
politici, perché una classe media, che è formata quindi di medi ricchi o -
che è lo stesso - di medi poveri, è la classe che garantisce alla costituzio-
ne una vita sicura. Aristotele ritiene dunque indispensabile una divisio-
ne fra poveri e ricchi, ma vuole che non sia esasperata, e vuole che en-
trambe concordino su un piano che è quello del ceto medio, che costitui-
sce la base, il méson, della costituzione. Questo è quanto il legislatore
deve cercare di realizzare.

Che cos'è, chi è il cittadino per Aristotele?


Una volta stabilito chi è il cittadino - e sappiamo già che questo cit-
tadino deve essere della classe media, nel senso che deve avere una cer-
ta tranquillità finanziaria - avremo concluso la nostra discussione. Per

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Aristotele, cittadini sono coloro che prestano servizio militare, e, in se-
condo luogo, coloro che possono consigliare e giudicare.
È chiaro che ogni costituzione ha un suo cittadino, ma noi parliamo
del cittadino della repubblica, cioè della costituzione più comune ed ac-
cettabile nel mondo greco: a questo proposito Aristotele afferma con
molta chiarezza che cittadini sono coloro i quali prestano servizio mili-
tare, giudicano e consigliano. È chiaro che in questi tre criteri si riflette
molto di quella che era la costituzione ateniese. Queste tre funzioni sono
anche scandite nel tempo: il servizio militare spetta ai giovani, consiglia-
re e giudicare - quindi consigliare su quello che lo stato deve fare e giu-
dicare in tribunale - spetta agli uomini più anziani. Allora il cittadino ve-
ro, che può assolvere queste tre mansioni e che ha una certa indipen-
denza finanziaria, è colui sul quale si fonda questa politeìa temperata.
Tutti gli altri possono essere cittadini, ma sono cittadini in un altro sen-
so. Aristotele si pone la questione, ad esempio, del bánausos, cioè del
meccanico, del contadino, e di tutti gli altri i quali lavorano con le brac-
cia (Politica, 1277 b 35). A questo proposito egli afferma che la questio-
ne può essere risolta facendo appello a una distinzione molto comune, e
che Platone aveva già usato: quella fra il cittadino vero, che è "parte" del-
lo Stato, e coloro senza i quali la polis non può vivere. Lo Stato, dunque,
è formato dai cittadini veri e dalle parti, chiamiamole così, sine quibus, e
tra queste parti sine quibus possiamo annoverare anche i teti e gli
schiavi. È chiaro che a dominare su tutti è il libero.
Il termine libero, in greco, ha un significato molto preciso e specifi-
co: l'uomo liberale, l'uomo il quale vive dandosi alla speculazione, che
può studiare, che può "perdere il tempo", tra virgolette, per la polis, per
gli amici, per vivere una vita di contemplazione. Questo è, in rapidissima
sintesi, la polis che Aristotele cerca di costruire. È chiaro che la monar-
chia ha una sua costituzione, e l'aristocrazia ne ha un'altra; ma la costi-
tuzione che ad Aristotele preme di imporre è questa costituzione di
mezzo, proprio perché la costituzione di mezzo, ripeto, è quella che dà
più stabilità alla polis.

Qual è il fine della società secondo Aristotele?


Il fine della società, che poi è il fine che tutti i Greci assegnano alla
polis, è la eudaimonía, cioè la felicità. Per questo si parla di "etica eude-

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monistica". Che cos'è l'uomo? Questa è una domanda che Aristotele si fa
spesso. Ed egli risolve il problema rifacendosi alla psicologia del tempo:
l'uomo è corpo e anima, ma nel corpo, e soprattutto nell'anima, bisogna
distinguere varie parti.
Si distingue quindi un'anima "vegetativa", che è presente anche nel-
la piante; ma l'uomo non è una pianta, è qualcosa di più, ed il suo fine
non può essere identico a quello delle piante. C'è poi l'anima "sensitiva":
i cani, gli animali in genere, sentono, hanno delle sensazioni, come l'uo-
mo. Ma l'uomo ha qualche cosa di più. C'è poi l'anima "passionale", la se-
de delle passioni, studiate nell'etica: l'uomo ha delle passioni, reagisce
agli eventi, e in rapporto a questa reazione si stabilisce il ruolo della fa-
mosa areté come héxis proairetiké, cioè come "abito adatto alla scelta" e
che consiste nella mesòn. Ma anche l'anima passionale non è la più ele-
vata delle parti - chiamiamole così, con questa parola, sulla quale Aristo-
tele stesso era molto dubbio. Non c'è solo l'anima passionale, ma c'è
qualcosa di più: l'anima "noetica". Se è vero che tutte le altre anime di
cui si è parlato - l'anima vegetativa, sensitiva, passionale - sono in fun-
zione dell'anima logistica, cioè del logos, è chiaro che il logos dovrà in
qualche modo dominarle tutte. Aristotele torna molto spesso, e non solo
nel De anima, su queste distinzioni.
Ora, se l'anima "noetica" è la più alta, quella che tende alla theoría, e
per theoría si intende contemplazione, studio, penetrazione di cose, è
chiaro che una vita vissuta a tale livello è una vita quanto mai vera, giu-
sta, appetibile, migliore. Sicchè l’eudaimonía l'uomo la raggiunge sfrut-
tando precisamente questo tipo di anima, che è l'anima noetica. Di qui si
intende perché molto spesso Aristotele dica che l'uomo libero deve ave-
re una certa tranquillità finanziaria, proprio in quanto questa tranquilli-
tà finanziaria gli permette di dedicarsi alla vita degna dell'uomo libero, e
cioè ad una vita di studio, di contemplazione, una vita spesa per gli ami-
ci; in altri termini, la vita filosofica. In realtà, accanto a questa vita, che è
il culmine di tutte le altre, ci sono per Aristotele la vita edonistica e la
vita politica. La vita edonistica è la vita dei piaceri, ai quali Aristotele dà
la parte che devono avere necessariamente nella vita di un uomo, senza
però enfatizzarne l'importanza. La vita politica è la vita degli onori, ed
essa deve avere il suo posto nella vita dell'uomo, o di determinati uomi-
ni; ma, al di là dei piaceri e degli onori, c'è quest'ultima vita, che è la vita

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della contemplazione, e ad essa è dedicata l'ultima parte dell'Etica Ni-
comachea. Questa è la vita migliore, perché è la vita stessa di Dio. Nel
famoso libro Lambda della Metafisica, dove si parla appunto della vita di
Dio, si afferma che Dio non fa altro che intendere, contemplare se stesso;
quindi, quello che Dio fa sempre, continuamente, l'uomo lo fa talvolta.
Ed è chiaro che in questo suo raccogliersi e penetrare le cose l'uomo go-
de di un piacere, per quel principio per cui ogni azione, quando è esegui-
ta come si deve, comporta piacere. Quindi la felicità è la realizzazione
più piena della vita noetica alla quale consegue il piacere. È, in piccolo, la
vita stessa di Dio.

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La Politica aristotelica

Trattando del rapporto tra etica e politica, lo Stagirita indica chia-


ramente come quest’ultima si ponga come la scienza più elevata e domi-
nante. La stessa felicità si raggiunge solo in quanto si pervenga
all’autosufficienza. «Noi intendiamo per autosufficienza non il bastare a
sé solo di un individuo, che conduce una vita solitaria, ma anche il basta-
re ai suoi parenti, ai figli, alla moglie e infine agli amici e concittadini,
poiché per natura l’uomo è un essere politico» (Eth.Nic., I, 7). Quindi la
vita dell’uomo nella comunità non è frutto di scelta o di convenzione, ma
determinazione «naturale», in quanto risponde alla natura o essenza
dell’uomo. Ora la comunità perfetta è lo Stato, nel quale sono comprese e
realizzate tutte le altre forme di comunità. Contro le tesi di sofisti come
Licofrone o Trasimaco, che intendono lo Stato come costruzione artifi-
ciale e convenzionale fondata sulla scelta del singolo, e contro le conce-
zioni anticomunitarie dei cinici, che esaltano l’auto-sufficienza del sag-
gio e insieme la sua antipoliticità, Aristotele sottolinea il carattere intrin-
seco alla più profonda natura dell’uomo che riveste lo Stato.
Contro ogni forma di individualismo, Aristotele pone in evidenza, af-
frontando il problema della genesi dello Stato, come gli elementi sem-
plici che si ritrovano scomponendo quel complesso che è lo Stato non
siano costituiti da individui, bensì sempre e soltanto da forme più ele-
mentari di comunità. Infatti, «è necessario in primo luogo che si unisca-
no gli esseri che non sono in grado di esistere separati l’uno dall’altro,
per esempio la femmina e il maschio in vista della riproduzione (e que-
sto non per proponimento, ma come negli altri animali e nelle piante è
impulso naturale desiderare di lasciare dopo di sé un altro simile a sé) e
chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione»
(Politica, I, 2), cioè il padrone e lo schiavo. Queste due comunità quindi si
costituiscono e si intrecciano fino a formare la famiglia, assicurando la
prima la riproduzione, la seconda il sostentamento. Inoltre, nella fa-
miglia si dà la relazione tra padri e figli. Le famiglie si uniscono fra di lo-
ro per costituire il villaggio, mentre «la comunità che risulta di più vil-
laggi è lo Stato perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite
dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vi-
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ta, in realtà esiste per rendere possibile una vita felice. Quindi ogni Stato
esiste per natura, se per natura esistono anche le prime comunità: infatti
esso è il loro fine e la natura è il fine: per esempio, quel che ogni cosa è
quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia
d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa. Inoltre, ciò per cui una cosa esiste, il
fine è il meglio e l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste conside-
razioni è evidente che lo Stato è un prodotto naturale e che l’uomo per
natura è un essere socievole: quindi chi vive fuori della comunità statale
per natura e non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo
(...) E per natura lo Stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi per-
ché il tutto deve essere necessariamente anteriore alla parte: infatti,
soppresso il tutto, non ci sarà più né piede né mano se non per analogia
verbale (...). È evidente dunque che lo Stato esiste per natura e che è an-
teriore a ciascun individuo: difatti, se non è autosufficiente, ogni indivi-
duo separato sarà nella stessa condizione delle altre parti rispetto al tut-
to, e quindi chi non è in grado di entrare nella comunità o per la sua au-
to-sufficienza non ne sente il bisogno, non è parte dello Stato, e di con-
seguenza è o bestia o dio» (Pol., 1, 2). Lo Stato quindi, che dal punto di
vista storico-genetico compare alla fine del processo che prende l’avvio
dalle comunità elementari, in quanto fine e forma che sorregge e guida
l’intero processo, è ontologicamente primo. Tale è anche in virtù del suo
essere forma totale della quale le parti sono solo momenti. Questi mo-
menti, individui e comunità elementari, solo nel tutto possono esistere:
infatti solo in esso acquistano la loro autosufficienza. Quest’ultimo con-
cetto inoltre orienta il processo, che si compie solo in quanto si realizza
l’autosufficienza. L’autosufficienza a sua volta consiste non sem-
plicemente nella capacità di dare risposta ai bisogni elementari, cioè al
vivere, bensì al «vivere bene», cioè ad una vita completa secondo le più
elevate esigenze intellettuali e morali dell’individuo. Lo Stato pertanto
non è né costrizione né limitazione, bensì ciò che consente il pieno rea-
lizzarsi e il massimo sviluppo storicamente possibile della libertà
dell’individuo. Inoltre, lo Stato non nega né la famiglia né le altre forme
di comunità, bensì esso sussiste, come dice Ross, «come comunità di
comunità».

L’ECONOMIA. Si è visto che della famiglia fa parte anche lo schiavo,

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che costituisce il mezzo per l’acquisizione di ciò che è necessario alla ri-
produzione. L’arte che il padrone in quanto capo della casa (oikos) deve
esercitare per l’acquisizione dei beni si chiama crematistica. Questa è un
aspetto dell’arte dell’amministrazione della casa (oikonomia). La rela-
zione servo-padrone costituisce anch’essa una forma di comunità ele-
mentare naturale, proprio in quanto il servo, non essendo auto-
sufficiente perché privo della capacità deliberativo-intellettiva, deve ne-
cessariamente unirsi al padrone e a lui essere subordinato. Esso è
«strumento» animato del quale il padrone si serve: «anche lo schiavo è
un oggetto di proprietà animato e ogni servitore è come uno strumento
che ha precedenza sugli altri strumenti» (Pol., I, 4), in quanto può a sua
volta servirsi di altri strumenti. L’esistenza della schiavitù costituisce
per Aristotele, come in generale per il mondo antico, un fatto di natura,
non il risultato di una convenzione o della forza. In quanto strumento,
esso si interpone tra l’uomo libero e la natura, conséntendo così
all’uomo libero di sottrarsi all’assoggettamento alla natura. Di qui la de-
finizione dello schiavo come «un essere che per natura non appartiene a
se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura schiavo;
e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di proprietà; e
oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e separato»
(Pol., I, 5). Pertanto la schiavitù, in quanto naturale, è giusta. Essa deve
essere considerata dal lato della natura, non dal lato della piena umani-
tà, al pari di qualunque animale di cui ci serviamo.
Per quanto concerne il problema dell’acquisizione e della gestione
dei beni, Aristotele traccia una differenza tra arte dell’amministrazione
domestica (oikonomia) e arte dell’acquisizione delle ricchezze (cremati-
stica): quest’ultima, infatti, procaccia i beni, ma solamente la prima pos-
siede la capacità di servirsene in funzione del raggiungimento del fine. Il
primato compete alla scienza dell’uso, non all’arte dell’acquisizione, che
è dunque subordinata e parte della prima. Vi sono tuttavia due forme di
crematistica: l’una è naturale, e ha il compito di provvedere a procurare i
beni necessari alla vita e utili alla comunità della casa e dello Stato. I be-
ni vengono cioè acquisiti esclusivamente in funzione dei bisogni, per
rendere l’uomo autosufficiente. Ancora una volta viene sottolineato il
primato del valore di uso. Vi è tuttavia una seconda forma di crematisti-
ca, quella non naturale, la quale ha per scopo quello di acquisire ricchez-

174
za senza fine, cioè indipendentemente e oltre la pura esigenza della sod-
disfazione dei bisogni. Questa forma non naturale sorge dal fatto che o-
gni bene può essere considerato o in relazione al suo uso, cioè in rappor-
to alle qualità naturali o artificiali per le quali esso è stato prodotto - ad
esempio il camminare per la scarpa - oppure lo si può considerare in
rapporto al suo valore di scambio, cioè al valore che ad esso bene viene
attribuito per il fatto di essere scambiato. La crematistica utilizza lo
scambio, che è legittimo solo in quanto esso deve consentire di procura-
re ciò di cui l’uomo è naturalmente privo, da acquisire mediante lo
scambio con ciò che egli possiede in abbondanza, in modo da collocare i
beni in rapporto ai bisogni. In questo senso lo scambio, in quanto si
muove lungo la linea dell’autosufficienza voluta da natura per ciascun
vivente, è naturale. Ma, con l’introduzione dell’uso della moneta, prima
adottata come semplice mezzo per rendere più facili gli scambi, è stato
possibile scindere i diversi momenti dello scambio e utilizzare il rappor-
to tra scambio e moneta come strumento per acquisire ricchezza senza
fine, cioè ricchezza monetaria non più vincolata ai bisogni naturali. Con
ciò lo scambio viene ad essere finalizzato al guadagno e al profitto. Il
guadagno viene in tal modo a spezzare il rapporto di philia, di amicizia
fra i cittadini, che si fonda essenzialmente sulla reciprocità, cioè sullo
scambio eguale. Funzione essenziale in questa trasformazione svolge il
commercio al minuto, nel quale si realizza il guadagno che deriva dallo
squilibrio che sussiste tra il valore reale del prodotto e quello possibile
sulla base dello scambio. E allora possibile un incremento della ricchez-
za non più fondato sull’incremento dei beni, utilizzando il denaro quindi
non più come mezzo di scambio che mette in relazione due prodotti, ma
come inizio e fine dello scambio stesso. Si compra cioè solo per vendere.
La crematistica non naturale abbandona così il primato del valore d’uso
e del concetto di bisogno, trascura il limite dell’autosufficienza per ricer-
care il modo infinito di accumulare ricchezza, rendendo produttivo lo
stesso denaro, sia nel commercio come nell’usura o prestito ad inte-
resse. «Perciò si ha pienissima ragione a detestare l’usura, per il fatto
che, in tal caso, i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò
per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello
scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre di più (...), sicché que-
sta è tra le forme di guadagno la più contraria a natura» (Pol., I, 10). Ari-

175
stotele delinea così il passaggio da una forma sociale nella quale
l’economia è subordinata alle relazioni sociali e politiche, ad una forma
nella quale l’economia tende a svincolarsi, a porsi come momento auto-
nomo e quindi a subordinare a sé la totalità delle relazioni umane.

LE CRITICHE ALLE CONCEZIONI POLITICHE DI PLATONE. È opportuno un


raffronto tra l’impostazione aristotelica della politica e quella platonica.
Innanzi tutto Aristotele critica Platone per non aver distinto il rapporto
politico che intercorre tra governante e governato e quello istituito tra
padrone e schiavo o quello presente nelle relazioni familiari, come se
non vi fosse alcuna distinzione di natura nel concetto di una grande casa
e in quello di un piccolo Stato. La differenza tra queste realtà non è di
ordine quantitativo ma di specie.
Del pari critico è nei confronti dell’accentuazione del concetto di u-
nità dello Stato, che in Platone per realizzarsi deve passare attraverso
l’abolizione della famiglia e della proprietà privata. «Eppure è chiaro che
se uno Stato nel suo processo di unificazione diventa sempre più uno,
non sarà neppure uno Stato, perché lo Stato è per sua natura pluralità e
diventando sempre più uno si ridurrà a famiglia da Stato e a uomo da
famiglia» (Pol., II, 1). Dunque, chi fosse in grado di realizzare un tale tipo
di unità, in realtà verrebbe a distruggere lo Stato, che è sì unità, ma fon-
data su elementi specificamente diversi.
Del pari, Aristotele è contrario alla proprietà comune. «In realtà, la
proprietà dev’essere comune in qualche modo, ma, come regola gene-
rale, privata: così la separazione degli interessi non darà luogo a rimo-
stranze reciproche, sarà piuttosto uno stimolo, giacché ciascuno bada a
quel che è suo, mentre la virtù farà sì che nell’uso le proprietà degli ami-
ci siano comuni». (Ib., II, 5). Educare a ciò è compito del legislatore. Pro-
prio per questo, il legislatore deve tener conto dell’incidenza della pro-
prietà sulle relazioni sociali e politiche, e deve mirare a raggiungere un
certo equilibrio. Con le leggi e la educazione, occorre allora «equilibrare
i desideri più che le sostanze e ciò non è possibile se non a chi è conve-
nientemente educato dalle leggi» (II, 7). La legge si fonda sul costume e
questo si realizza soltanto in un lungo lasso di tempo. Sicché non si de-
vono mutare con leggerezza le leggi. Ma Aristotele è più in generale con-
trario alla impostazione della politica platonica: al suo tentativo di una

176
deduzione astratta delle norme, alla rigida scissione tra le classi, al pote-
re affidato a filosofi e guerrieri, alla scarsa attenzione dedicata, almeno
nella Repubblica, alla storia e alle consuetudini.

STATO E CITTADINO. Poiché lo Stato risulta costituito da una pluralità


di cittadini, per rispondere alla domanda su che cos’è lo Stato, occorre
preliminarmente rispondere alla domanda su chi è il cittadino. «Cittadi-
no in senso assoluto non è definito da altro che dalla partecipazione alle
funzioni di giudice e alle cariche» (Pol., III, 1), cioè dalla partecipazione
all’assemblea che governa la città. Tale definizione si applica soprattutto
al cittadino della polis democratica. Solo in essa, infatti, i liberi parteci-
pano direttamente a tutte le funzioni di governo, da quella giudiziaria a
quelle legislativa ed esecutiva. Dalla cittadinanza sono esclusi non solo
gli schiavi e i meteci, ma anche gli agricoltori e i lavoratori manuali, in
quanto svolgono funzioni che li assoggetta-no alle necessità della natura
e quindi ciò fa di essi dei subordinati e non dei liberi. La prassi politica
compete solo a quanti sono liberi in questo senso. Solo costoro, infatti,
non dipendono da altri e possono perciò avere il proprio fine in se stessi.
Dopo avere risposto alla domanda circa il cittadino, Aristotele passa
a rispondere alla domanda circa lo Stato. Tale questione viene affrontata
sul versante dell’identità dello Stato. L’identità di uno Stato non è data
dal fatto che i cittadini vivano in un identico luogo, ma è determinata es-
senzialmente dalla costituzione. E questa che determina la forma e la
natura dell’unione che si realizza in un certo Stato. Sicché «uno Stato è lo
stesso guardando alla costituzione»; se muta questa, lo Stato è diverso.
Altra questione sorge circa l’identità o meno della virtù dell’uomo buono
con quella del buon cittadino. Ora, la virtù del buon cittadino è ne-
cessariamente correlata con la costituzione. La virtù del buon cittadino
deve necessariamente essere in tutti i cittadini, al contrario, poiché non
tutti i cittadini sono uguali, in quanto lo Stato risulta da individui diffe-
renti, allora la virtù dell’uomo buono - quella adeguata al suo essere e
alla sua attività - è altra da quella del buon cittadino. A funzioni diverse,
corrispondono virtù diverse.
La virtù del buon cittadino è «la capacità di comandare e di obbedi-
re». Egli cioè deve sapere comandare, se svolge una funzione di governo,
e obbedire nel caso contrario: il comando, infatti, compete a uomini libe-

177
ri sotto entrambi gli aspetti.
Le forme di costituzione. Che cos’è la costituzione? «La costituzione
è l’ordinamento delle varie magistrature di uno Stato e specialmente di
quella che è sovrana suprema di tutto: infatti, sovrana suprema è do-
vunque la suprema autorità dello Stato e la suprema autorità è la co-
stituzione» (Pol., III, 6).
Nelle democrazie, sovrano è il popolo; nelle oligarchie, la sovranità
spetta a pochi ricchi. Ora lo Stato esiste solo in vista dell’interesse comu-
ne. «E evidente quindi che quante costituzioni mirano all’interesse co-
mune sono giuste in rapporto al giusto in assoluto, quante, invece, mi-
rano solo all’interesse personale dei capi sono sbagliate tutte e rappre-
sentano una deviazione dalle rette costituzioni: sono pervase da spirito
di dispotismo, mentre lo Stato è comunità di liberi» (Pol., III, 6). Esistono
pertanto diverse forme di costituzioni giuste, nel senso sopra precisato.
Queste sono: la monarchia, l’aristocrazia, la politici; loro degenerazioni
sono rispettivamente la tirannide, l’oligarchia e la democrazia nel senso
deteriore. Si ha invece la politia, «quando poi la massa regge lo Stato ba-
dando all’interesse comune» (III, 7). Nella tirannide, prevale l’interesse
del monarca; l’oligarchia privilegia l’interesse dei ricchi, la democrazia
l’interesse dei poveri: al vantaggio della comunità invece non bada nes-
suna di queste forme costituzionali. Pertanto, perché vi sia una forma
costituzionale adeguata, occorre che nello Stato sia prevalente la classe
media, come avviene nella forma da Aristotele privilegiata, la politia.
Lo Stato è stato costituito non in vista della ricchezza, né solo come
alleanza militare, né allo scopo di commerciare, né per semplice comu-
nanza di luogo: «tutto questo necessariamente c’è, se deve esserci uno
Stato, però non basta perché ci sia uno Stato: lo Stato è comunanza di
famiglie e di stirpi nel vivere bene: il suo oggetto è un’esistenza piena-
mente realizzata e indipendente (...). E proprio in grazia delle opere bel-
le e non della vita associata che si deve ammettere l’esistenza della co-
munità politica» (III, 9).
Qui si allude a una comunità politica che vede la partecipazione dei
molti al potere. A differenza di Platone, Aristotele difende la forma de-
mocratica corretta. Molte persone, prese nella loro totalità e non singo-
larmente, sono infatti superiori ai pochi eccellenti. «In realtà, essendo
molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e come quando si rac-

178
colgono insieme, in massa, diventano un uomo con molti piedi, con mol-
te mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti
doti di carattere e d’intelligenza». A ciò deve aggiungersi il pericolo
dell’esclusione della massa dalle cariche. Inoltre, «le leggi rettamente
emanate devono essere sovrane e chi detiene il potere, sia uno o siano
più, è sovrano in tutti quei casi in cui le leggi non possono pronunciarsi
con esattezza, perché non è facile emanare norme generali per tutti i ca-
si» (III, 12).
Certo, soggiunge Aristotele, se esistesse uno (o pochi) «tanto diver-
so per virtù o per capacità politica: come un dio tra gli uomini è natural-
mente un uomo siffatto». Per simili uomini non c’è vincolo o subordina-
zione alla legge; «sono essi la legge e sarebbe ridicolo chi cercasse di re-
digere una legislazione per loro» (III, 13). Ed è proprio per questo che gli
Stati retti a democrazia hanno l’ostracismo: perseguono infatti l’e-
guaglianza e per questo bandiscono quanti mostrano di possedere ec-
cessivo potere o a causa della ricchezza o per altri motivi.
Perciò, conclude Aristotele, occorre operare per favorire nello Stato
la presenza di una classe media. Infatti, «lo Stato vuole essere costituito,
per quanto è possibile, di elementi uguali e simili, il che succede soprat-
tutto con le persone di ceto medio». Questo ceto evita i pericoli di quegli
Stati dominati o da chi possiede troppo o da chi non possiede niente,
Stati per questo motivo esposti ai pericoli della tirannide, della oli-
garchia o della democrazia sfrenata. Solo il ceto medio consente di man-
tenere l’uguaglianza. Le trasformazioni dello Stato. Nel V libro della Poli-
tica, Aristotele prende in esame le cause che portano alla trasformazione
o alla rovina delle rette costituzioni, servendosi di una grande! mole di
informazioni storiche. La causa generale viene ravvisata nel fatto che, se
tutti sono d’accordo nel porre alla base degli Stati un concetto di egua-
glianza proporzionale, tuttavia lo applicano in modo scorretto. Così, la
democrazia demagogica sorge «dall’idea che quanti sono uguali per un
certo rispetto, siano assolutamente uguali (e in realtà, per il fatto che
sono tutti ugualmente liberi pensano di essere assolutamente uguali),
l’oligarchia dalla supposizione che quanti sono disuguali sotto un certo
rispetto siano del tutto disuguali (e in realtà essendo disuguali nel pos-
sesso della proprietà suppongono di essere assolutamente disuguali).

179
Perciò gli uni, essendo uguali, ritengono giusto partecipare in ugual mi-
sura di ogni cosa, mentre gli altri, essendo diseguali, cercano di aver
sempre di più, e il di più è diseguale» (V, 1).
«Dovunque la ribellione nasce da disuguaglianza», e dunque
quest’ultima è da considerarsi la causa dell’instabilità degli Stati. La de-
mocrazia, sotto questo rispetto, è più solida e maggiormente al riparo
dalle ribellioni, mentre la costituzione fondata sulla classe media è quel-
la più sicura di tutte. Ma lo Stato si mantiene stabile se si conserva lo
spirito di obbedienza alla legge e se non si consente a nessuna classe in
particolare di diventare troppo forte. Ma l’elemento di gran lunga più
importante, afferma Aristotele, è dato dal sistema di educazione rispon-
dente alla costituzione. Lo Stato ideale. Il problema della costituzione
migliore è da Aristotele affrontato in connessione con la questione della
migliore vita desiderabile. La cosa più importante per l’individuo, e
quindi anche per lo Stato, è la vita secondo virtù, provvista dei mezzi a-
datti a compiere azioni virtuose. Fra le condizioni dello Stato ideale, oc-
corre innanzi tutto tener conto della popolazione; tale Stato deve avere
«un numero tale di abitanti che sia il minimo indispensabile in vista
dell’autosufficienza per un’esistenza agiata in conformità delle esigenze
di una comunità civile». E poiché in questo Stato tutti devono partecipa-
re alla vita e alle cariche politiche, esso deve poter essere abbracciato in
un unico sguardo, cioè non essere troppo vasto. Così il territorio deve
consentire una vita libera e piacevole, ma non essere così esteso da
spingere al lusso. Gli abitanti dovrebbero avere il carattere degli Elleni,
che possiedono il coraggio dei popoli del Nord e l’intelligenza dei popoli
dell’Asia; perciò questa gente «vive continuamente libera, ha le migliori
istituzioni politiche e la possibilità di dominare tutti, qualora raggiunga
l’unità costituzionale» (VII, 7). Lo Stato deve avere, per raggiungere le
proprie finalità, coltivatori, artigiani, militari, sacerdoti e giudici. Ma non
tutto ciò che è indispensabile per la vita dello Stato è insieme parte dello
Stato. Così i lavoratori manuali non hanno la virtù politica, mentre i col-
tivatori non hanno il tempo per esercitarla.
L’ultima parte della Politica è interamente dedicata all’educazione.
Infatti, la virtù dipende da tre fattori: natura, abitudine e ragione. L’e-
ducazione concerne l’abitudine e la ragione. E poiché lo Stato è costituito
da chi comanda e da chi è comandato, anche l’educazione dovrà incen-

180
trarsi su questo aspetto essenziale. Ogni cittadino deve imparare innanzi
tutto ad obbedire e quindi a comandare. L’educazione dovrà pertanto
formare uomini buoni e buoni cittadini, secondo l’ideale già delineato
nell’Etica. Infine, l’educazione dovrà essere impartita dallo Stato, pren-
dere il suo avvio dall’educazione del corpo, e proseguire con
l’educazione degli impulsi e degli appetiti, per avere il suo coronamento
con la formazione della ragione80.

80Cfr. L. Ruggiu, in “Filosofia”, Enciclopedia diretta da Emanuele Severino, Armando Cur-


cio Editore.

181
La scienza politica in Aristotele

Con l’aggettivo “politica” (politiké), spesso sostantivato, Aristotele


indica diverse disposizioni, o attività, che possono essere raggruppate in
due grandi categorie, quella della “scienza” (epistéme) politica e quella
della “saggezza” (phrònesis) politica. Per Aristotele ci sono vari tipi di
scienza, cioè ci sono le scienze (o filosofie) “teoretiche”, che hanno per
fine la pura conoscenza (theorìa), quelle “pratiche” che hanno per fine
l’azione (praxìs), e quelle che hanno “poietiche”, che hanno per fine la
produzione (pòiesis) di un oggetto. C’è una gerarchia tra le “arti” e le
“scienze” (epistèmai), nel senso che alcune sono subordinate ad altre,
dette perciò “architettoniche”. Il fine al quale tutti gli altri sono subordi-
nati è il bene supremo (to aristòn), il quale è l’oggetto della scienza “più
dominante e più architettonica” di tutte, e questa è la (scienza) “politi-
ca”.Per “bene supremo” si intende “il bene dell’uomo”, ma considerato
come bene della città, appare “più grande e più perfetto”. Ma il bene del-
la città, come dice la parola pòlis, è oggetto della scienza “politica”. Que-
sta caratterizzazione della scienza politica come conoscenza del bene
permette di situare storicamente la posizione di Aristotele in rapporto
alla filosofia a lui precedente, in particolare a quelle di Platone. Ma, pur
nella comune identificazione della scienza politica con l’etica, le posizio-
ni di Platone e di Aristotele divergono sotto molteplici aspetti. Anzitutto
Aristotele introduce , nella sua concezione della scienza politica, la di-
stinzione tra scienze – o filosofie – teoretiche, e scienze – o filosofie –
pratiche, che in Platone è del tutto assente. Benché sia una scienza prati-
ca, la scienza politica non va tuttavia confusa con un'altra forma di sape-
re pratico, o meglio di intelligenza pratica, ugualmente teorizzata da Ari-
stotele, la quale però non è una scienza, ma un tipo diverso di disposi-
zione intellettuale, o “virtù dianoietica”, cioè la “saggezza” o “prudenza”
(phrònesis). La saggezza perciò, a differenza della scienza, anche pratica,
non fa dimostrazioni, è l’unico tipo di argomentazione di cui si serve è il
cosiddetto sillogismo pratico, cioè appunto il calcolo dei mezzi in vista di
un fine già dato, il quale conclude direttamente all’azione. La saggezza
politica, secondo Aristotele, comprende a sua volta due capacità, quella
182
di fare buone leggi, cioè norme di carattere generale, che si chiama sag-
gezza legislativa ed è “architettonica” nel campo della saggezza politica,
e quella di deliberare bene, cioè di fare buoni decreti, e quindi di agire
bene nella situazioni particolari, che si indica comunemente con il ter-
mine di saggezza politica. A questo punto, però, Aristotele osserva che
nell’ambito della politica, a differenza di quanto accade nelle altre arti, le
persone che trasmettono le capacità, cioè le competenze, non coincidono
con quelle che operano a partire da queste, come invece accada per me-
dici e pittori. Nel campo della politica – prosegue Aristotele – ci sono al-
cuni che dichiarano di insegnarla, senza metterla in pratica, ed Aristote-
le li designa come “sofisti”. Il compito della filosofia concernente le cose
umane, cioè della filosofia pratica, coincidente con la scienza politica, è
dunque quello di indagare sulle costituzioni, ossia le diverse forme di
governo, allo scopo di insegnare ai legislatori quali sono buone e quali
non lo sono, quale è la migliore, e quali sono adatte a determinate situa-
zioni. Con queste indicazioni Aristotele non solo si discosta da Platone,
ma introduce, all’interno della scienza politica intesa in senso lato, cioè
della scienza del bene supremo dell’uomo, una distinzione tra quella che
potremmo chiamare la scienza politica rivolta all’individuo, e quella che
potremmo chiamare la scienza politica rivolta ai governanti, mirante a
istaurare una specie di etica collettiva. La scienza politica in senso stret-
to,pur essendo anch’essa, come l’etica, una scienza pratica, si serve tut-
tavia, oltre che di procedimenti dimostrativi, sia pure di carattere som-
mario ed approssimativo, anche di procedimenti classificatori, simili a
quelli adottati da Aristotele nella zoologia. Anche la tipologia costruita in
tal modo è tuttavia finalizzata a uno scopo pratico, quello di valutare le
diverse costituzioni per individuare tra esse la migliore81.

81 Riassunto di Enrico Berti, Aristotele (in “I pensatori politici”, op. cit.).

183
La logica formale e il sillogismo scientifico

DAL CONCETTO DI VERITÀ A QUELLO DI VALIDITÀ. Aristotele, posta la me-


raviglia a fondamento del conoscere, ha fondato una scienza prima che
ricerca le cause, senza per questo rifiutare le altre scienze particolari
che si avvalgono del metodo induttivo, anzi rivalutandole in un tutto or-
ganico e sistematico.
La scienza prima giunge a conoscere la realtà dell’essere, a definire
la realtà delle cose, ad esprimere le caratteristiche essenziali dell’essere;
ebbene, partendo da un presupposto tutto aristotelico, che tra il piano
della realtà e quello del discorso ci sia uno stretto rapporto, cioè accet-
tando che, una volta conosciuto ontologicamente l’oggetto, io possa e-
sprimerlo a parole predicando qualche cosa di lui, posso avviarmi a stu-
diare le regole che mi permettono di esprimere in modo corretto i vari
concetti che sono nella mia mente. Infatti nella mia mente ci sono i con-
tenuti mentali della realtà (possibilità di corrispondenza tra il piano lo-
gico e quello ontologico); ora occorre esprimerli col linguaggio, con ter-
mini verbali che abbiano uno stretto rapporto con quelli mentali (possi-
bilità di corrispondenza tra il piano logico e quello linguistico); ma, sic-
come quando esponiamo qualche cosa, colleghiamo tra loro i vari termi-
ni in proposizioni, e le proposizioni le colleghiamo tra loro in giudizi, oc-
correrà fondare una scienza che ponga delle regole ben chiare a cui i di-
scorsi debbano soggiacere; questa è la logica.
Prima di Aristotele non furono scritte opere dedicate esclusivamen-
te alla logica, anche se, in effetti, nei pensatori a lui precedenti si trova
una certa consapevolezza sui modi di procedere della ragione e sulle
leggi che la governano; si pensi ad esempio a Parmenide o a Zenone, de-
finito dal Nostro “l’inventore della dialettica”; ma comunque nessuno
codificò la logica come fece Aristotele (in una raccolta che i posteri
chiamarono Organon) nelle pagine di:

Categorie, dove espone la dottrina dei termini;


De interpretatione, dove espone i canoni della proposizione;
Analitici primi, nei quali fonda la dottrina del sillogismo;
184
Analitici secondi, dove parla della teoria della scienza deduttiva;
Topici, in cui affronta il problema dell’argomentazione;
Elenchi sofistici, dove, manifestando implicitamente il suo pensiero
nei confronti dei sofisti, tratta degli argomenti sofistici.

La logica è sia arte della dimostrazione (cioè capacità di provare che


una certa tesi è vera) sia arte dell’invenzione (cioè capacità di scoprire
qualche cosa di nuovo); è arte di dimostrare e di provare se un discorso
è vero o falso, se ciò che si afferma o che si nega porta a delle conclusioni
valide. Nell’affermare o nel negare si usano le proposizioni che asseri-
scono, che enunciano, che attestano qualche cosa; perciò essa non si
servirà di domande, comandi, preghiere, ma di giudizi che hanno un ca-
rattere assertorio (apofantico).

La logica non si interessa tanto della verità dei contenuti delle af-
fermazioni (ad esempio se Dio esista, se l’anima sia immortale, se la
mamma abbia o no comperato le uova andando al mercato), quanto del-
la validità del puro ragionamento, cioè delle relazioni che intercorrono
tra le proposizioni: se siano logicamente concatenate e concatenabili;
essa considera cioè la forma del ragionamento, non il suo contenuto; ec-
co perché con Aristotele si parla di logica formale. Se Aristotele si fosse
interessato al contenuto, cioè alla parte “materiale” del ragionamento,
avrebbe dovuto affrontare il discorso sulla verità della premessa inizia-
le, ma questo esula dal campo della logica, che guarda invece ai mecca-
nismi interni del ragionare umano e, per farli risaltare meglio, si avvale
spesso di simboli che stanno al posto delle parole, di segni convenzionali
(pensiamo a quelli di tipo algebrico) che evidenziano in misura migliore
se un ragionamento sia corretto o errato, se cioè sia vero o falso
all’interno di una logica formale. Proprio per non cadere in una confu-
sione di termini Aristotele precisa che quando fondiamo il nostro di-
scorso sulla verità delle premesse iniziali, allora siamo all’interno di un
tipo di ragionamento, chiamato sillogismo dimostrativo o scientifico; se
invece ci interessiamo della possibilità che un ragionamento sia plausi-
bile, allora stiamo utilizzando un sillogismo dialettico (quando invece
vogliamo confutare le tesi dell’avversario con argomenti non fondati
siamo nel sillogismo eristico, utilizzato dai sofisti). Consideriamo la dif-

185
ferenza tra i due sillogismi prima di addentrarci nei meandri delle tecni-
che del ragionamento.

IL SILLOGISMO SCIENTIFICO
“Chiamo dimostrazione il sillogismo scientifico, e chiamo scientifico
il sillogismo rispetto al quale, per il fatto di esserne in possesso, noi ab-
biamo la scienza. Se dunque il sapere è tale quale abbiamo posto che sia,
di necessità anche la scienza dimostrativa consta di premesse vere, pri-
me, immediate, più note, anteriori e cause della conclusione. [...] Un sil-
logismo si potrà infatti costruire anche senza premesse di questo tipo,
ma non sarà una dimostrazione, perché non produrrà scienza. Le pre-
messe devono essere dunque vere, perché non è possibile avere scienza
di ciò che non è, per esempio che la diagonale sia commensurabile. Deve
derivare da premesse prime e indimostrabili, perché non si avrà scienza
se si possiede la dimostrazione di esse: infatti, l’aver scienza delle cose
di cui c’è dimostrazione in maniera non accidentale è possederne la di-
mostrazione. Le premesse devono essere cause ed essere più note e an-
teriori rispetto alla conclusione: cause, perché abbiamo scienza quando
conosciamo la causa, anteriori in quanto appunto sono cause e conosciu-
te prima non solo nell’altro senso di comprendere che cosa sono, ma an-
che di sapere che sono. E sono anteriori e più note in due sensi: infatti,
ciò che è anteriore per natura e ciò che è anteriore rispetto a noi non so-
no la stessa cosa, così come non sono la stessa cosa ciò che è più cono-
scibile e ciò che è più conoscibile rispetto noi. Chiamo anteriore e più
conoscibile rispetto a noi ciò che è più vicino alla sensazione, e anteriore
e più conoscibile in senso assoluto ciò che ne è più lontano. In assoluto
più lontane sono le cose massimamente universali, in assoluto più vicine
le cose individuali: esse sono anche contrapposte le une alle altre.
Constare poi di premesse prime è constare di principi propri: per
primo e principio intende infatti la stessa cosa. Principio è la premessa
immediata di una dimostrazione, ed è immediata la premessa della qua-
le non c’è altra premessa che sia anteriore. Premessa è una delle due
parti di un’enunciazione nella quale un termine è predicato di un altro. È
dialettica la premessa che assume allo stesso modo qualsivoglia dei due
termini; è invece dimostrativa la premessa che assume uno dei due ter-

186
mini in modo definito, in quanto vero. Enunciazione è una qualunque
delle due parti di una contraddizione; contraddizione è l’antitesi che non
ha di per sé un termine intermedio, e parte di una contraddizione è da
un lato l’affermare qualcosa di qualcosa, e dall’altro negare qualcosa di
qualcosa”82.

Il sillogismo, quando parte da premesse prime e vere, è dimostrati-


vo; quando invece parte da premesse che non sono vere, ma sono solo
fondate sull’opinione, è da considerarsi dialettico; mentre al primo inte-
ressa la scientificità o la dimostrazione della verità, al secondo interessa
maggiormente la probabilità o la veridicità. In campo gnoseologico la
differenza tra verità ed opinioni sta nel fatto che mentre la prima ri-
guarda la stabilità dell’essere, le seconde tendono ad essere rappresen-
tate come affermazioni accreditate dal consenso di tutti, o di una grande
maggioranza, o dei sapienti in generale; con questa interpretazione Ari-
stotele si distacca da quella del suo maestro per il quale le opinioni era-
no illusioni o apparenze in grado di generare solo una conoscenza insta-
bile. Inoltre, la grande differenza tra scienza (epistéme) e opinione (dò-
xa), sta nell’oggetto della ricerca, la prima ha di mira il necessario, la se-
conda il contingente83.

82 Aristotele, Analitici secondi, 1, 2, 71b 17 - 72 a 14


83 A. Girotti, La filosofia di Aristotele, Polaris, 1999.

187
RETORICA E POETICA

Diavolo di un Aristotele

Secondo Umberto Eco il Filosofo ha il merito di aver definito per primo la metafora,
sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni sosteneva che essa non è
puro ornamento bensì una forma di conoscenza84.

È appena uscito in italiano un curioso libro di Peter Leeson, “L’eco-


nomia secondo i pirati. Il fascino segreto del capitalismo” dove l’autore,
storico americano del capitalismo, spiega i principi fondamentali
dell’economia e della democrazia moderne prendendo come modello gli
equipaggi delle navi pirata del XVII secolo (sì, proprio quelle del Corsaro
Nero o di Pietro l’Olonese, con la bandiera col teschio che, all’inizio, non
era nera bensì rossa, da cui il nome “Jolie rouge” che in inglese era stato
poi storpiato “come Jolly Ròger”). Leeson dimostra che, con le sue leggi
ferree, a cui ogni pirata per bene si atteneva, la filibusta era
un’organizzazione “illuminata”, democratica, egualitaria e aperta alla
diversità: in poche parole era un modello perfetto di società capitalisti-
ca. Su questi temi ricama anche Giulio Giorello nella sua prefazione e
pertanto non mi occuperò di quanto dice il libro di Leeson, bensì di una
associazione di idee che mi ha fatto sorgere. Perbacco, chi, anche senza
poter sapere niente del capitalismo, aveva tracciato un parallelo tra pi-
rati e mercanti (vale a dire imprenditori liberi, modelli del capitalismo
futuro) era stato Aristotele.
Aristotele ha il merito di aver definito per primo la metafora, sia
nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni inaugurali so-
steneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza.
Non sembri cosa da poco perché nei secoli successivi la metafora è stata

84 Umberto Eco, La bustina di Minerva, L’Espresso, Ottobre 2010

188
vista a lungo solo come un modo di abbellire il discorso senza tuttavia
cambiarne la sostanza. E ancor oggi c’è qualcuno che la pensa così.
Nella Poetica diceva che capire le buone metafore vuole dire «sape-
re scorgere il simile o il concetto affine».
Il verbo che usava era “theorein”, che vale per scorgere, investigare,
paragonare, giudicare. Su questa funzione conoscitiva della metafora A-
ristotele tornava con maggiore ampiezza nella Retorica dove diceva che
è gradevole ciò che suscita ammirazione perché ci fa scoprire una analo-
gia insospettata, vale a dire ci “mette sotto gli occhi” (così si esprimeva)
qualcosa che non avevamo mai notato, per cui si è portati a dire « guar-
da, è proprio così, eppure non lo sapevo».
Come si vede in tal modo Aristotele assegnava alle buone metafore
una funzione quasi scientifica, anche se si trattava di una scienza che
non consisteva nello scoprire qualcosa che era già là, bensì, per così dire,
nel farlo apparire là per la prima volta, nel creare un modo nuovo di
guardare le cose. Il filosofo ha il merito di aver definito per primo la me-
tafora, sia nella Poetica sia nella Retorica, e in quelle sue definizioni so-
steneva che essa non è puro ornamento bensì una forma di conoscenza.
E quale era uno degli esempi più convincenti di metafora che ci met-
te qualcosa sotto gli occhi per la prima volta? Una metafora (che non so
dove Aristotele avesse trovato) per cui i pirati venivano detti “prov-
veditori” o “fornitori”. Come per altre metafore Aristotele suggeriva che
si individuasse, per due cose apparentemente diverse e inconciliabili,
almeno una proprietà comune, e poi si vedessero le due cose diverse
come specie di quel genere.
Anche se i mercanti erano di solito considerati brave persone che
andavano per mare a trasportare e vendere legalmente le loro merci,
mentre i pirati erano dei mascalzoni che assalivano e depredavano le
navi di quegli stessi mercanti, la metafora suggeriva che pirati e mercan-
ti avessero in comune il fatto di operare il passaggio di merci da una fon-
te al consumatore. Indubbiamente una volta che avevano depredato le
loro vittime, i pirati andavano a vendere i beni conquistati da qualche
parte e quindi erano dei trasportatori, provveditori e fornitori di merci
anche se i loro clienti erano probabilmente imputabili di incauto acqui-
sto. In ogni caso quella fulminea somiglianza tra mercanti e predatori
creava tutta una serie di sospetti- così che il lettore era indotto a dire:

189
«Così era, e prima mi sbagliavo». Da un lato la metafora obbligava a ri-
considerare il ruolo del pirata nell’economia mediterranea, ma dall’altro
induceva a qualche sospettosa riflessione sul ruolo e i metodi dei mer-
canti. Insomma, quella metafora, agli occhi di Aristotele, anticipava quel-
lo che poi avrebbe detto Brecht, che il vero crimine non è rapinare una
banca bensì possederla - e naturalmente il buon Stagirita non poteva sa-
pere che l’apparente boutade di Brecht sarebbe apparsa tremendamente
inquietante alla luce di quanto è accaduto negli ultimi tempi nel mercato
finanziario internazionale. Insomma, non occorre far finta che Aristotele
la pensasse come Marx, lui che faceva il consigliere di un monarca, ma
capirete come mi ha divertito questa storiella dei pirati.
Diavolo di un Aristotele.

190
Antologia di testi aristotelici

L’ENCICLOPEDIA DELLE SCIENZE E LA METAFISICA

La suddivisione delle scienze: il sapere teoretico

“Oggetto della nostra ricerca sono i principi e le cause degli esseri,


intesi appunto in quanto esseri. Infatti, c'è una causa della salute e del
benessere; ci sono cause, principi ed elementi anche degli oggetti mate-
matici e, in generale, ogni scienza che si fonda sul ragionamento, e che in
qualche misura fa uso del ragionamento, tratta di cause e principi più o
meno esatti. Tuttavia, tutte queste scienze sono limitate ad un determi-
nato settore o genere dell'essere e svolgono la loro indagine intorno a
questo, ma non intorno all'essere considerato in senso assoluto ed in
quanto essere. Inoltre, esse non si occupano dell'essenza, ma partono da
essa – le une, desumendola dall'esperienza, le altre, invece, assumendola
per via di ipotesi – e dimostrano con più o meno rigore le proprietà che
di per sé competono al genere che esse hanno per oggetto. È evidente,
perciò, che da tale procedimento induttivo non può derivare una cono-
scenza dimostrativa della sostanza né dell’essenza, ma (che di queste
dovrà esserci) un altro tipo di conoscenza. Parimenti, queste scienze
non dicono se il genere di essere del quale trattano esista realmente o
no, perché il procedimento razionale che porta alla conoscenza dell'es-
senza di una cosa è lo stesso che porta anche alla conoscenza della esi-
stenza di una cosa. Ora, anche la scienza fisica tratta di un genere parti-
colare dell'essere: tratta, precisamente, di quel genere di sostanza che
contiene in sé medesima il principio del movimento e della quiete. Eb-
bene, è evidente che la fisica non è scienza pratica né scienza poietica:

191
infatti il principio delle produzioni è in colui che produce, ed è o l'intel-
letto o l'arte o altra facoltà; ed il principio delle azioni pratiche è nell'a-
gente ed è la volizione, in quanto l'oggetto dell'azione pratica e della vo-
lizione coincidono. Pertanto, se ogni conoscenza razionale è o pratica o
poietica o teoretica, la fisica dovrà essere conoscenza teoretica, ma co-
noscenza teoretica di quel genere di essere che ha potenza di muoversi e
della sostanza intesa secondo la forma, ma prevalentemente considerata
come non separabile dalla materia. È necessario, poi, che risulti chiaro
anche il modo di essere dell’essenza e della forma, perché, se non è chia-
ro questo, la ricerca è assolutamente vana. Ora, le cose che sono oggetto
di definizione, ossia le essenze, sono alcune, come il camuso, altre, inve-
ce, come la concavità. Queste differiscono tra loro per il fatto che il ca-
muso è sempre unito alla materia (il camuso, infatti, è un naso concavo),
mentre la concavità è scevra di materia sensibile. Pertanto, se tutti gli
oggetti della fisica si intendono in modo simile al camuso, come, per e-
sempio, naso, occhio, viso, carne, orecchio, animale in genere, foglia, ra-
dice, corteccia, pianta in generale (infatti, non è possibile dare definizio-
ne di nessuna di queste cose senza il movimento, ma esse hanno sempre
materia), allora è chiaro che si debba ricercare e definire l'essenza in se-
de di ricerca fisica, ed è chiaro altresì perché sia compito del fisico spe-
culare anche su una parte dell'anima, e precisamente su quella parte
dell'anima che non esiste senza la materia. Da tutto questo risulta evi-
dente, dunque, che la fisica è una scienza teoretica. D'altra parte, anche
la matematica è scienza teoretica. Se, però, essa sia scienza di esseri im-
mobili e separati, per ora ci resta oscuro. Per altro, è chiaro che alcune
branche della matematica considerano i loro oggetti come immobili e
non separati. Ma, se esiste qualcosa di eterno, immobile e separato, è e-
vidente che la conoscenza di esso spetterà certamente ad una scienza
teoretica, ma non alla fisica, perché la fisica si occupa di esseri in movi-
mento, e neppure alla matematica, bensì ad una scienza anteriore all'u-
na ed all'altra. Infatti, la fisica riguarda realtà separate ma non immobili;
alcune delle scienze matematiche riguardano realtà che sono immobili
ma non separate, bensì immanenti alla materia; invece la filosofia prima
riguarda realtà che sono separate ed immobili. Ora, è necessario che tut-
te le cause siano eterne, ma queste in modo particolare: infatti, queste
sono le cause di quegli esseri divini che a noi sono manifesti.Tre sono, di

192
conseguenza, le branche della filosofia teoretica: la matematica, la fisica
e la teologia. Non è dubbio, infatti, che se mai il divino esiste, esiste in
una realtà di quel tipo. E non è dubbio, anche, che la scienza più alta de-
ve avere come oggetto il genere più alto di realtà. E mentre le scienze
teoretiche sono di gran lunga preferibili alle altre scienze, questa è, a sua
volta, di gran lunga preferibile alle altre due scienze teoretiche. Si po-
trebbe, ora, porre il problema se la filosofia prima sia universale oppure
se riguardi un genere determinato ed una realtà particolare. Infatti, a
questo riguardo, nello stesso ambito delle matematiche c'è diversità: la
geometria e la astronomia riguardano una determinata realtà, mentre la
matematica generale è comune a tutte. Orbene, se non esistesse un'altra
sostanza oltre quelle che costituiscono la natura, la fisica sarebbe la
scienza prima; se, invece, esiste una sostanza immobile, la scienza di
questa sarà anteriore (alle altre scienze) e sarà filosofia prima, e, in que-
sto modo, cioè in quanto è prima, essa sarà universale, e ad essa spetterà
il compito di studiare l'essere in quanto essere, cioè che cosa l'essere sia
e quali gli attributi che, in quanto essere, gli appartengono”85.

85 Aristotele, Metafisica, VI, 1, traduzione di G. Reale.

193
Tutti gli uomini desiderano naturalmente il sapere

La filosofia è la forma più alta (e più inutile) di sapere: essa è infatti


scienza86 dei principi primi e delle cause ultime.

1 [980a] [...] Tutti gli uomini per natura tendono al sapere [toû ei-
dénai]. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensa-
zioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di
tutte, amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini
dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi prefe-
riamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta
nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci
rende manifeste numerose differenze fra le cose.
2 Gli animali sono naturalmente forniti di sensazione; ma, in alcuni,
dalla sensazione non nasce la memoria, in altri, invece, nasce. [980b] Per
tale motivo questi ultimi sono più intelligenti e più atti ad imparare ri-
spetto a quelli che non hanno capacità di ricordare. Sono intelligenti, ma
senza capacità di imparare, tutti quegli animali che non hanno facoltà di
udire i suoni (per esempio l’ape e ogni altro genere di animali di questo
tipo); imparano, invece, tutti quelli che, oltre la memoria, posseggono
anche il senso dell’udito.
3 Orbene, mentre gli altri animali vivono con immagini sensibili e
con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive,
invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva
dalla memoria: infatti, molti ricordi dello stesso oggetto giungono a co-
stituire un’esperienza unica. [981a] L’esperienza, poi, sembra essere al-
quanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano
scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, [...], produce
l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quan-
do, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed
unico riferibile a tutti i casi simili.

86Attenzione alla parola “scienza”: si tratta di un tentativo di tradurre la parola greca


epistéme, che significa propriamente “conoscenza che si pone al di sopra” (epí-ístemi),
quindi piú generale, piú profonda, più solida.

194
[...]
4 Orbene, ai fini dell’attività pratica, l’esperienza non sembra diffe-
rire in nulla dall’arte; anzi, gli empirici riescono anche meglio di coloro
che posseggono la teoria senza la pratica. E la ragione sta in questo:
l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza de-
gli universali; ora, tutte le azioni e le produzioni riguardano il particola-
re: infatti il medico non guarisce l’uomo se non per accidente, ma guari-
sce Callia o Socrate o qualche altro individuo che porta un nome come
questi, al quale, appunto accade di essere uomo. Dunque, se uno possie-
de la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il
particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui
è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
5 E, tuttavia, noi riteniamo che il sapere e l’intendere siano propri
più all’arte che all’esperienza, e giudichiamo coloro che posseggono
l’arte più sapienti di coloro che posseggono la sola esperienza, in quanto
siamo convinti che la sapienza [tò eidénai], in ciascuno degli uomini, cor-
risponda al loro grado di conoscere [tèn sophían]. E, questo, perché i
primi sanno la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il
puro dato di fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il
perché e la causa.
6 Perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle sin-
gole arti siano più degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e
siano più sapienti dei manovali, [981b] in quanto conoscono le cause
delle cose che vengon fatte; invece i manovali agiscono, ma senza sapere
ciò che fanno, così come agiscono alcuni degli esseri inanimati, per e-
sempio, così come il fuoco brucia: ciascuno di questi esseri inanimati a-
gisce per un certo impulso naturale, mentre i manovali agiscono per abi-
tudine. Perciò consideriamo i primi come più sapienti, non perché capaci
di fare, ma perché in possesso di un sapere concettuale e perché cono-
scono le cause.
7 In generale, il carattere che distingue chi sa rispetto a chi non sa, è
l’essere capace di insegnare: per questo noi riteniamo che l’arte sia so-
prattutto la scienza [epistéme] e non l’esperienza; infatti coloro che pos-
seggono l’arte sono capaci di insegnare, mentre gli empirici non ne sono
capaci.

195
8 Inoltre, noi riteniamo che nessuna delle sensazioni sia sapienza
[sophía]: infatti, se anche le sensazioni sono, per eccellenza, gli strumen-
ti di conoscenza [gnósis] dei particolari, non ci dicono, però, il perché di
nulla: non dicono, per esempio, perché il fuoco è caldo, ma solamente
segnalano il fatto che esso è caldo.
9 È logico, dunque, che chi per primo scoprí una qualunque arte,
superando le comuni conoscenze sensibili, sia stato oggetto di ammira-
zione da parte degli uomini, proprio in quanto sapiente e superiore agli
altri, e non solo per l’utilità di qualcuna delle sue scoperte. Ed è anche
logico che, essendo state scoperte numerose arti, le une dirette alle ne-
cessità della vita e le altre al benessere, si siano sempre giudicati più sa-
pienti gli scopritori di queste che non gli scopritori di quelle, per la ra-
gione che le loro conoscenze non erano rivolte all’utile. Di qui, quando
già si erano costituite tutte le arti di questo tipo, si passò alla scoperta di
quelle scienze che non sono dirette né al piacere né alle necessità della
vita, e ciò avvenne dapprima in quei luoghi in cui gli uomini erano liberi
da occupazioni pratiche. [...]
10 E lo scopo per cui noi ora facciamo questo ragionamento è di
mostrare che col nome di sapienza [sophía] tutti intendono la ricerca
delle cause prime e dei princípi. Ed è per questo che, come si è detto so-
pra, chi ha esperienza è ritenuto più sapiente di chi possiede soltanto
una qualunque conoscenza sensibile: chi ha l’arte più di chi ha esperien-
za, chi dirige più del manovale e le scienze teoretiche più delle pratiche.
11 [982a] È evidente, dunque, che la sapienza [sophía] è una scien-
za [epistéme] che riguarda certi princípi e certe cause.
12 Ora, poiché noi ricerchiamo proprio questa scienza, dovremo
esaminare di quali cause e di quali princípi sia scienza la sapienza. E for-
se questo diventerà chiaro, se si considereranno le concezioni che ab-
biamo del sapiente [sophós]. Noi riteniamo, in primo luogo, che il sapien-
te conosca tutte le cose, per quanto ciò è possibile: non evidentemente
che egli abbia scienza di ciascuna cosa singolarmente considerata. Inol-
tre, reputiamo sapiente chi è capace di conoscere le cose difficili o non
facilmente comprensibili per l’uomo (infatti la conoscenza sensibile è
comune a tutti, e, pertanto, è facile e non è affatto sapienza). Ancora, re-
putiamo che, in ciascuna scienza, sia più sapiente chi possiede maggiore
conoscenza delle cause e chi è più capace di insegnarle ad altri. Ritenia-

196
mo anche, che, tra le scienze, sia in maggior grado sapienza quella che è
scelta per sé al puro fine di sapere, rispetto a quella che è scelta in vista
dei benefici che da essa derivano. E riteniamo che sia in maggior grado
sapienza la scienza che è gerarchicamente sopraordinata rispetto a quel-
la che è subordinata: infatti, il sapiente non deve essere comandato ma
deve comandare, né egli deve ubbidire ad altri, ma a lui deve ubbidire
chi è meno sapiente.
13 Di tale natura e di tal numero sono, dunque, le concezioni gene-
ralmente condivise intorno alla sapienza e intorno ai sapienti. Ora, il
primo di questi caratteri – il conoscere ogni cosa – deve necessariamen-
te appartenere soprattutto a chi possiede la scienza dell’universale: co-
stui, infatti, sa, sotto un certo rispetto, tutte le cose <particolari, in quan-
to queste sono> soggette <all’universale>. E le cose più universali sono,
appunto, le più difficili da conoscere per gli uomini: sono, infatti, le più
lontane dalle apprensioni sensibili. E le più esatte fra le scienze sono
quelle soprattutto che vertono intorno ai primi princípi: infatti, le scien-
ze che presuppongono un minor numero di princípi sono più esatte di
quelle che presuppongono, altresí, l’aggiunta <di ulteriori princípi>, co-
me ad esempio l’aritmetica rispetto alla geometria. Ma è anche mag-
giormente capace di insegnare, la scienza che maggiormente indaga le
cause: infatti, insegnano coloro che dicono quali sono le cause di ciascu-
na cosa. Inoltre, il sapere ed il conoscere che hanno come fine il sapere e
il conoscere medesimi, si trovano soprattutto nella scienza di ciò che è in
massimo grado conoscibile: infatti, colui che desidera la scienza per se
medesima, desidera soprattutto quella che è scienza in massimo grado, e
tale è, appunto, la scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile.
[982b] Ora, conoscibili in massimo grado sono i primi princípi e le cau-
se; infatti, mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre
cose, mentre, viceversa, essi non si conoscono mediante le cose che sono
loro soggette. E la più elevata delle scienze, quella che più deve coman-
dare sulle dipendenti, è la scienza che conosce il fine per cui vien fatta
ogni cosa; e il fine, in ogni cosa, è il bene, e, in generale, nella natura tut-
ta, il fine è il sommo bene.
14 Da tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è og-
getto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza:

197
essa deve speculare intorno ai princípi primi e alle cause: infatti, anche il
bene e il fine delle cose è una causa.
15 Che, poi, essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiara-
mente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato
filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in o-
rigine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravi-
gliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco
a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i pro-
blemi riguardanti i fenomeni della Luna e quelli del Sole e degli astri, o i
problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova
un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per
questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il
mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia.
Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall’ignoranza, è
evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per con-
seguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti
lo dimostra: quando già c’era pressoché tutto ciò che necessitava alla
vita ed anche all’agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricerca-
re questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricer-
chiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente
che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asser-
vito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera:
essa sola, infatti, è fine a se stessa.
16 Per questo, anche, a ragione si potrebbe pensare che il possesso
di essa non sia proprio dell’uomo; infatti, per molti aspetti la natura de-
gli uomini è schiava, e perciò Simonide dice che “Dio solo può avere un
tale privilegio”, e che non è conveniente che l’uomo ricerchi se non una
scienza a lui adeguata. E se i poeti dicessero il vero, e se la divinità fosse
veramente invidiosa, è logico che se ne dovrebbero vedere gli effetti so-
prattutto in questo caso, e che dovrebbero essere sventurati tutti quelli
che eccellono nel sapere. [983a] In realtà, non è possibile che la divinità
sia invidiosa, ma, come afferma il proverbio, i poeti dicono molte bugie;
né bisogna pensare che esista altra scienza più degna di onore. Essa, in-
fatti, fra tutte, è la più divina e la più degna di onore. Ma una scienza può
essere divina solo in questi due sensi: (a) o perché essa è scienza che Dio
possiede in grado supremo, (b) o, anche, perché essa ha come oggetto le

198
cose divine. Ora, solo la sapienza possiede ambedue questi caratteri: in-
fatti, è convinzione a tutti comune che Dio sia una causa e un principio,
e, anche, che Dio, o esclusivamente o in grado supremo, abbia questo ti-
po di scienza. Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma
nessuna sarà superiore.
17 D’altra parte, il possesso di questa scienza deve porci in uno sta-
to contrario a quello in cui eravamo all’inizio delle ricerche. Infatti, come
abbiamo detto, tutti cominciano dal meravigliarsi che le cose stiano in
un determinato modo: così, ad esempio, di fronte alle marionette che si
muovono da sé nelle rappresentazioni, o di fronte alle rivoluzioni del So-
le o alle incommensurabilità della diagonale al lato: infatti, a tutti coloro
che non hanno ancora conosciuto la causa, fa meraviglia che fra l’una e
l’altro non vi sia una unità minima di misura comune. Invece, bisogna
pervenire allo stato di animo contrario, il quale è anche il migliore, se-
condo quanto dice il proverbio. E così avviene, appunto, per restare agli
esempi fatti, una volta che si sia imparato: di nulla un geometra si mera-
viglierebbe di più che se la diagonale fosse commensurabile al lato.
18 Si è detto, dunque, quale sia la natura della scienza ricercata, e
quale sia lo scopo che la nostra ricerca e l’intera trattazione devono rag-
giungere87.

87Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 1994, pagg. 3-15 – Cfr. Metafisica, 980a 21-983a
21

199
Sostanza e accidente

Ecco alcuni passi tratti da diverse opere aristoteliche in cui lo Stagirita delinea i
modi in cui possono essere definiti l’accidente e la sostanza.

a) I due significati di accidente (Metafisica, 1025a 15-34)

1 [1025a] [...] Accidente significa ciò che appartiene ad una cosa e


che può essere affermato con verità della cosa, ma non sempre né per lo
più: per esempio, se uno scava una fossa per piantare un albero e trova
un tesoro. Questo ritrovamento del tesoro è, dunque, un accidente per
chi scava una fossa: infatti, l’una cosa non deriva dall’altra né fa seguito
all’altra necessariamente; e nemmeno per lo più chi pianta un albero tro-
va un tesoro. E un musico può anche essere bianco, ma, poiché questo
non avviene né sempre né per lo più, noi diciamo che è un accidente. Per-
tanto, poiché ci sono attributi che appartengono ad un soggetto, e poiché
alcuni di questi attributi appartengono al soggetto solo in certi luoghi e
in certi tempi, allora tutti gli attributi che appartengono ad un soggetto,
ma non in quanto il soggetto è questo soggetto e il tempo questo deter-
minato tempo e il luogo questo determinato luogo, saranno accidenti.
Dell’accidente non ci sarà quindi neppure una causa determinata, ma ci
sarà solo una causa fortuita: e questa è indeterminata. È per accidente
che uno giunge ad Egina, se non è partito con l’intento di giungere in tal
luogo, ma se è giunto perché spinto dalla tempesta, o preso dai pirati.
Dunque, l’accidente è prodotto ed esiste non per se stesso ma per altro: la
tempesta, infatti, è stata causa che si giungesse dove non voleva giunge-
re, cioè ad Egina.
2 Accidente si dice anche in un altro senso. Tali sono tutti gli attri-
buti che appartengono a ciascuna cosa di per sé, ma che non rientrano
nella sostanza stessa della cosa. Per esempio, accidente in questo senso è
la proprietà di un triangolo di avere la somma degli angoli uguale a due

200
retti. Gli accidenti di questo tipo possono essere eterni, nessuno degli
accidenti dell’altro tipo, invece, lo può essere88.

b) Quattro sensi e due significati di sostanza (Metafisica, 1017b 10-


25)

1 [1017b] [...] Sostanza, in questo senso, sono detti i corpi semplici –


per esempio fuoco, acqua, terra e tutti gli altri corpi come questi; e in
generale tutti i corpi e le cose composte di essi: per esempio animali ed
esseri divini e le parti di questi. Tutte queste cose si dicono sostanze,
perché non vengono predicate di un sostrato, mentre di esse vien predi-
cato tutto il resto.
2 In un altro senso, sostanza si dice ciò che è immanente a queste
cose che non si predicano di un sostrato ed è causa del loro essere: per
esempio l’anima negli animali.
3 Inoltre, sostanze sono dette anche quelle parti che sono immanenti
a queste cose, che delimitano queste stesse cose, che esprimono un alcun-
ché di determinato e la cui eliminazione comporterebbe l’eliminazione del
tutto. Per esempio, se si eliminasse la superficie – secondo alcuni filosofi
– si eliminerebbe il corpo, e se si eliminasse la linea, si eliminerebbe la
superficie. E in generale questi filosofi ritengono che il numero sia una
realtà di questo tipo e che determini tutto, perché, se si eliminasse il
numero, non ci sarebbe più nulla.
4 Inoltre, si dice sostanza di ciascuna cosa anche l’essenza, la cui no-
zione è definizione della cosa.
5 Ne risulta che la sostanza si intende secondo due significati: (a)
ciò che è sostrato ultimo, il quale non viene più predicato di altra cosa e
(b) ciò che, essendo un alcunché di determinato, può anche essere sepa-
rabile, e tale è la struttura e la forma di ciascuna cosa89.

88 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg.263-265


89 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 215-217

201
c) Sostanza e sostrato (Metafisica, 1042a 26-30; 1042b 9-11; 1043a
26-1043b 1)

1 [1042a] [...] E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa


la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in at-
to, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso
significa l’essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determi-
nato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa
il composto di materia e di forma [...].
2 [1042b] [...] la sostanza nel significato di sostrato e di materia [ýle]
viene concordemente ammessa da tutti, ed essa è la sostanza che esiste
in potenza, rimane da dire che cosa sia la sostanza delle cose sensibili
come atto.
3 [1043a] [...]Dalle cose dette risulta chiaro che cosa sia la sostanza
sensibile e quale sia il suo modo di essere: essa è, per un verso, materia,
per un altro, forma e atto, e, per un terzo, è l’insieme di materia e di for-
ma.
4 Non bisogna ignorare che, talora, non è chiaro se il nome indichi la
sostanza come composto, oppure l’atto e la forma. Per esempio, non è
chiaro se “casa” indichi il composto di materia e forma, ossia un riparo
fatto di mattoni e di pietre disposte in questo determinato modo, oppure
se significhi l’atto e la forma, ossia un riparo [...]. [1043b] Ma questo, che
per altro rispetto ha una notevole rilevanza, in relazione alla ricerca del-
la sostanza sensibile non ne ha alcuna: infatti l’essenza appartiene alla
forma e all’atto90.

d) Sostanze prime e sostanze seconde (Categorie, 2a 11-18; 2b 15-


17; 2b 30-3a 7)

1 [2a] [...] “Sostanza” nel senso più proprio, in primo luogo e nella
più grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è
in un qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determi-
nato cavallo. D’altro canto, sostanze seconde si dicono le specie, cui sono

90 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 371-377

202
immanenti le sostanze che si dicono prime, ed oltre alle specie, i generi
di queste. Ad esempio, un determinato uomo è immanente ad una spe-
cie, cioè alla nozione di uomo, e d’altra parte il genere di tale specie è la
nozione di animale. [...]
2 [2b] [...] la ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in
massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli al-
tri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussi-
stono in esse. [...]
3 È così giustificato, prescindendo dalle sostanze prime, che le spe-
cie e i generi siano i soli tra gli oggetti a dirsi “sostanze seconde”: tra i
predicati, in effetti, essi solo rivelano la sostanza prima. Se qualcuno, in-
vero, deve spiegare che cos’è un determinato uomo, dà una spiegazione
appropriata fornendo la specie oppure il genere; d’altra parte, dichia-
rando che tale oggetto è “uomo”, lo rende più noto di quanto non faccia
dichiarando che è “animale”. Nel caso invece che costui fornisca una
qualche altra nozione, dicendo ad esempio che un determinato uomo è
“bianco” o “corre”, oppure facendo una qualsiasi altra dichiarazione
consimile, avrà dato una spiegazione estranea all’oggetto. È di conse-
guenza giustificato che tra gli altri oggetti soltanto quelli nominati si di-
cano sostanze. [3a] Oltre a ciò, le sostanze prime sono sostanze nel sen-
so più proprio in quanto stanno alla base di tutti gli altri oggetti. Orbene,
precisamente allo stesso modo con cui le sostanze prime si comportano
rispetto a tutti gli altri oggetti, così si comportano rispetto a tutti i rima-
nenti le specie e i generi delle sostanze prime. In realtà, tutti i rimanenti
oggetti vengono predicati delle specie e dei generi. Tu dirai infatti di un
determinato uomo che è “grammatico”, e quindi dirai pure di uomo e di
animale che è “grammatico”. Lo stesso vale per gli altri casi91.

e) Sostanza sensibile e sostanza divina (Metafisica, 1069a 30-1069b


2)

1 [1069a] [...] Ci sono tre sostanze <di genere diverso>.

91 Aristotele, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1973, pagg. 8-10

203
2 Una è la sostanza sensibile, la quale si distingue in (a) eterna e in
(b) corruttibile (e questa è la sostanza che tutti ammettono: per esempio
le piante e gli animali; di essa è necessario comprendere quali siano gli
elementi costitutivi, sia che questi si riducano ad uno solo, sia che siano
molti). (c) L’altra sostanza è, invece, immobile; e, questa, alcuni filosofi
affermano che è separata: certuni distinguendola ulteriormente in due
tipi, altri riducendo a una identica natura le Forme e gli Enti matematici,
altri ancora ammettendo solo gli Enti matematici.
3 Le prime due specie di sostanze costituiscono l’oggetto della fisica,
perché sono soggette a movimento; [1069b] la terza, invece, è oggetto di
un’altra scienza, dal momento che non c’è alcun principio comune ad es-
sa e alle altre due92.

92 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 543-545

204
Il principio di non contraddizione
Aristotele è certo che esiste negli esseri umani qualcosa di cui è impossibile dubita-
re, riguardo alla quale non si può cadere in inganno, sulla quale il relativismo non può
far breccia: è infatti impossibile dubitare del principio che sta a fondamento del modo di
procedere della ragione umana, e che è noto come “principio di non contraddizione”.

a) Metafisica, 1005b 8-34

1 Dobbiamo dire, ora, se sia compito di una unica scienza, oppure di


scienze differenti, studiare quelli che in matematica sono detti “assiomi”
e anche la sostanza. Orbene, è evidente che l’indagine di questi “assiomi”
rientra nell’ambito di quell’unica scienza, cioè della scienza del filosofo.
Infatti essi valgono per tutti quanti gli esseri, e non sono proprietà pecu-
liari di qualche genere particolare di essere, ad esclusione degli altri. E
tutti quanti si servono di questi assiomi, perché essi sono propri
dell’essere in quanto essere, e ogni genere di realtà è essere. Ciascuno,
però, si serve di essi nella misura in cui gli conviene, ossia nella misura
in cui si estende il genere intorno al quale vertono le sue dimostrazioni.
Di conseguenza, poiché è evidente che gli assiomi appartengono a tutte
le cose in quanto tutte sono esseri (l’essere è, infatti, ciò che è comune in
tutto), competerà a colui che studia l’essere in quanto essere anche lo
studio di questi assiomi.
2 Per questa ragione, nessuno di coloro che si limitano all’indagine
di una parte dell’essere, si preoccupa di dire qualcosa intorno agli as-
siomi, se siano veri o no: non il geometra e non il matematico. Ne parla-
rono, invece, alcuni fisici, ma ne parlarono a ragione: infatti, essi ritene-
vano di essere i soli a fare indagine di tutta quanta la realtà e dell’essere.
3 D’altra parte, poiché c’è qualcuno che è ancora al di sopra del fisi-
co (infatti la natura è solamente un genere dell’essere), ebbene, a costui
che studia l’universale e la sostanza prima, competerà anche lo studio
degli assiomi. La fisica è, sì, una sapienza, ma non è la prima sapienza.
4 Per quanto riguarda, poi, i tentativi, fatti da alcuni di coloro che
trattano la verità, di determinare a quale condizione si debba accogliere

205
qualcosa come vero, bisogna dire che essi nascono dall’ignoranza degli
Analitici, e non che le ricerchino mentre ascoltano queste lezioni.
5 È evidente, dunque, che è compito del filosofo e di colui che specu-
la intorno alla sostanza tutta e alla natura di essa, far indagine anche in-
torno ai principi dei sillogismi.
6 [1005b] Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la cono-
scenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i principi più
sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che
possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire
quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il
principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cade-
re in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti,
tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un
principio non ipotetico. Infatti, quel principio che di necessità deve pos-
sedere colui che voglia conoscere qualsivoglia cosa deve già essere pos-
seduto prima che si apprenda qualsiasi cosa. È evidente, dunque, che
questo principio è il più sicuro di tutti.
7 Dopo quanto si è detto, dobbiamo precisare quale esso sia. È im-
possibile che la stessa cosa, a un tempo, appartenga e non appartenga a
una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure an-
che tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di e-
vitare difficoltà di indole dialettica). È questo il più sicuro di tutti i prin-
cipi: esso, infatti, possiede quei caratteri sopra precisati. Infatti, è impos-
sibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia, come,
secondo alcuni, avrebbe detto Eraclito. In effetti, non è necessario che
uno ammetta veramente tutto ciò che dice. E se non è possibile che i
contrari sussistano insieme in un identico soggetto (e si aggiungano a
questa premessa le precisazioni solite), e se un’opinione che è in con-
traddizione con un’altra è il contrario di questa, è evidente che è impos-
sibile, ad un tempo, che la stessa persona ammetta veramente che una
stessa cosa esista e, anche, che non esista: infatti, chi si ingannasse su
questo punto, avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie. Pertanto,
tutti coloro che dimostrano qualcosa si rifanno a questa nozione ultima,
perché essa, per sua natura, costituisce il principio di tutti gli altri as-
siomi.
[...]

206
8 Dopo queste precisazioni, risulta chiaro che le affermazioni unila-
terali ed estese a tutto non possono reggere, come pretendono coloro
che dicono che nulla è vero (nulla, infatti, vieta - essi asseriscono - che
tutte le affermazioni siano false allo stesso modo dell’affermazione che
la diagonale è commensurabile), oppure coloro che dicono che tutto è
vero.
9 (a) Infatti questi ragionamenti equivalgono, in fondo, a quelli di
Eraclito, perché colui che afferma che tutto è vero e tutto è falso, afferma
anche separatamente ciascuna di queste dottrine; sicché, se è assurda la
dottrina di Eraclito, assurde saranno, anche, queste altre.
10 (b) Inoltre, ci sono proposizioni che sono manifestamente con-
traddittorie e che non possono essere vere insieme; e d’altra parte ve ne
sono altre che non possono essere tutte false, anche se questo sembre-
rebbe, invece, essere maggiormente possibile in base a ciò che si è detto.
Ma per confutare tutte codeste dottrine bisogna, come si è detto nei pre-
cedenti ragionamenti, non pretendere che l’avversario dica che qualcosa
è o non è, ma che dia significato alle sue parole, in modo che si possa di-
scutere partendo da una definizione, e incominciando dallo stabilire che
cosa significhi vero e falso. Ora, se ciò che è vero affermare altro non è
che ciò che è falso negare, è impossibile che tutte le cose siano false: in-
fatti è necessario che uno dei due membri della contraddizione sia vero.
Inoltre, se è necessario o affermare o negare ogni cosa, è impossibile che
tanto l’affermazione quanto la negazione siano, entrambe, false: una sola
delle sue proposizioni contraddittorie è falsa.
11 (c) Tutte queste dottrine cadono poi nell’inconveniente di di-
struggere sé medesime. Infatti, chi dice che tutto è vero, viene ad affer-
mare come vera anche la tesi opposta alla sua, dal che consegue che la
sua non è vera (dato che l’avversario dice che la tesi di lui non è vera). E
colui che dice che tutto è falso, viene a dire che è falsa anche la tesi che
egli stesso afferma. E se vorranno ammettere delle eccezioni, l’uno di-
cendo che tutto è vero tranne la tesi contraria alla sua, l’altro che è tutto
falso tranne la propria tesi, saranno, cionondimeno, obbligati ad ammet-
tere infinite proposizioni vere e false: infatti, colui che dice che una pro-
posizione è vera, afferma un’altra proposizione vera, e così si procederà
all’infinito.

207
12 È evidente, poi, (a) che non dicono il vero né coloro i quali affer-
mano che tutto è in quiete, né coloro che dicono che tutto è in movimen-
to. Se, infatti, tutto è in quiete, le medesime cose saranno sempre vere e
sempre false; è evidente, invece, che le cose mutano: la stessa persona
che sostiene questa tesi, un tempo non esisteva e, di nuovo, in seguito,
non esisterà. Se, invece, tutto è in movimento, nulla sarà vero, e quindi
tutto sarà falso; ma si è dimostrato che ciò è impossibile. Inoltre, neces-
sariamente, ciò che muta è un essere: il mutamento, infatti, ha luogo a
partire da qualcosa e verso qualcosa.
13 (b) E neppure è vero che tutto sia talora in quiete e talaltra in
movimento, e che non esista nulla di eterno. C’è qualcosa, infatti, che
sempre muove ciò che è in movimento, e il motore primo è, di per sè,
immobile93.

b) Metafisica, 1061b 34-1062a 23

1 [1061b] Esiste negli esseri un principio rispetto al quale non è


possibile che ci si inganni, ma rispetto al quale, al contrario, è necessario
che si sia sempre nel vero: è questo il principio che afferma che non è
possibile che la medesima cosa in un unico e medesimo tempo sia e non
sia, e che lo stesso vale anche per gli altri attributi che sono fra loro op-
posti in questo modo.
2 [1062a] Dei principi di questo tipo non c’è una dimostrazione vera
e propria, ma c’è solamente una dimostrazione ad hominem. Infatti, non
è possibile dedurre questo principio da un ulteriore principio più certo;
questo sarebbe necessario, se ci fosse dimostrazione vera e propria. Ora,
contro chi afferma proposizioni contraddittorie, colui che intende mo-
strare che ciò è falso, deve assumere come punto di partenza una affer-
mazione che sia identica al principio per cui non è possibile che la mede-
sima cosa sia e non sia in un solo e medesimo tempo, ma che però non
sembri essere identica. Infatti, è questa l’unica dimostrazione che si può
addurre contro chi afferma la possibilità che siano vere affermazioni
contraddittorie riferite al medesimo soggetto.

93 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 143-145

208
3 Orbene, coloro che intendono discutere insieme devono pure in-
tendersi su qualche punto; infatti, se ciò non avvenisse, come potrebbe
esserci fra loro un discorso comune? Dunque, bisogna che ciascuno dei
termini che essi usano sia loro comprensibile e bisogna che significhi
qualcosa e non molte cose ma una sola cosa; e se il termine significa
molte cose, bisogna chiarire bene a quali di queste cose ci si riferisca.
Ora, chi dice: “questo è e non è”, nega esattamente ciò che afferma, e di
conseguenza nega che la parola significhi ciò che significa. Ma questo è
impossibile. Sicché se l’espressione: “questa data cosa è” significa qual-
cosa, è impossibile che sia vera l’affermazione contraddittoria.
4 Inoltre, se una parola significa qualcosa e se ciò che significa è ve-
ro, ciò deve essere di necessità; ma ciò che è di necessità non è possibile
che talora non sia. Dunque, non è possibile che le asserzioni contraddit-
torie, cioè le affermazioni e le negazioni, possano essere vere, insieme, di
un medesimo soggetto.
5 Inoltre, se l’affermazione non è per nulla più vera della negazione,
chi dice di qualcosa “è un uomo” non sarà per nulla maggiormente nel
vero rispetto a chi dice “è non-uomo”. Ma può sembrare che chi dice
“l’uomo è non-cavallo” sia più nel vero, o, comunque, non sia meno nel
vero, rispetto a chi dice “l’uomo è non-uomo”. Conseguentemente, sarà
nel vero anche colui che dice “l’uomo è un cavallo”, dato che si era af-
fermato che i contraddittori sono entrambi ugualmente veri. Risulta, al-
lora, che la medesima cosa è uomo e cavallo e qualsiasi altro animale.
6 Dunque, di questi principi non c’è alcuna dimostrazione vera e
propria; c’è, invece, una dimostrazione che confuta colui che sostiene
queste teorie. Ed è probabile che, se si fosse interrogato in questo modo
lo stesso Eraclito. egli sarebbe stato costretto ad ammettere che non è
mai possibile che le proposizioni contraddittorie siano vere insieme, ri-
spetto alle medesime cose. Egli abbracciò questa dottrina senza darsi
ragione di ciò che diceva. E, in generale, se fosse vero ciò che egli dice,
allora non potrebbe più essere vera neppure questa sua stessa afferma-
zione, cioè che la medesima cosa in un solo e medesimo tempo può esse-
re e non essere. Infatti, così come l’affermazione e la negazione, se sono
separate fra loro, non sono una più vera dell’altra, lo stesso vale anche
se sono prese insieme e se sono considerate come costituenti una affer-

209
mazione unica: questo insieme preso come affermazione non sarà per
nulla più vero che la negazione dello stesso insieme.
7 Infine, se non è possibile affermare nulla di vero, allora sarà falsa
anche questa affermazione: sarà cioè falso il dire che non esiste alcuna
affermazione vera. Se, invece, esiste una affermazione vera, allora si po-
trà confutare la dottrina di coloro che sollevano obiezioni di questo ge-
nere e che distruggono interamente la possibilità del ragionamento.
[...]
8 In generale, poi, è assurdo voler giudicare della verità partendo
dal fatto che le cose di quaggiù sono soggette a mutamento e non per-
mangono mai nelle medesime condizioni: infatti, bisogna perseguire il
vero partendo da quegli esseri che si trovano sempre nelle stesse condi-
zioni e che non sono passibili di alcun mutamento, quali sono, ad esem-
pio, i corpi celesti. Questi, infatti, non appaiono talora con determinati
caratteri e talaltra con caratteri diversi, ma sono sempre identici e non
sono suscettibili di alcun mutamento.
9 Inoltre, se esiste movimento, esiste anche qualcosa che è mosso.
Ora, ogni cosa che si muove parte da qualcosa e tende verso qualcosa:
bisogna, dunque, che ciò che è mosso, prima, si trovi in ciò a partire dal
quale sarà mosso, e, successivamente, non si trovi più in esso e si muova
verso altro e venga a trovarsi in questo. Dunque, le affermazioni con-
traddittorie intorno alle cose in movimento non potranno essere vere ad
un tempo, come vorrebbero quei pensatori.
[...]
10 Dunque, risulta evidente da tutte queste cose che è impossibile
che le affermazioni contraddittorie riguardo al medesimo oggetto e nel
medesimo tempo siano vere; e neppure possono essere veri i contrari,
perché in ogni contrarietà un termine è privazione dell’altro, il che risul-
ta chiaro se si riportano al loro principio le nozioni dei contrari.
11 E similmente non è neppure possibile predicare alcuno dei ter-
mini intermedi (insieme ad uno dei contrari) di un solo e medesimo og-
getto. Infatti, se l’oggetto è bianco, saremo nel falso affermando che esso
non è né bianco né nero: in tal caso, lo stesso oggetto risulterebbe essere
ad un tempo bianco e non-bianco, perché verrebbe ad essere vero di es-
so anche uno dei termini che forma l’espressione composta che indica il

210
medio, (né bianco, né nero), il qual termine è, appunto, il contraddittorio
del bianco.
12 Dunque, non possono essere nel vero né coloro che condividono
l’opinione di Eraclito, né coloro che condividono l’opinione di Anassago-
ra, altrimenti si verrebbero ad affermare i contrari del medesimo sog-
getto. Infatti, quando Anassagora dice che tutto è in tutto, dice che nulla
è dolce più che non amaro, o che qualsivoglia degli altri contrari, se è ve-
ro che tutto è in tutto non solo in potenza, ma in atto ed in modo distin-
to. Nello stesso modo, non è neppure possibile che le affermazioni siano
tutte false o tutte vere: e non è possibile, oltre che a causa di numerose
altre difficoltà che ne conseguono, anche perché, se tutte le affermazioni
sono false, neppure chi afferma questo potrà dire il vero, e se invece tut-
te le affermazioni sono vere, chi dice che tutte le affermazioni sono false
non dirà il falso94.

94 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 499-501

211
Sostanza e sostrato

[1042a] [...] E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la


materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto,
ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso
significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determi-
nato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa
il composto di materia e di forma [...].
[1042b] [...] la sostanza nel significato di sostrato e di materia [le]
viene concordemente ammessa da tutti, ed essa è la sostanza che esiste
in potenza, rimane da dire che cosa sia la sostanza delle cose sensibili
come atto.
[1043a] [...] Dalle cose dette risulta chiaro che cosa sia la sostanza
sensibile e quale sia il suo modo di essere: essa è, per un verso, materia,
per un altro, forma e atto, e, per un terzo, è l'insieme di materia e di for-
ma.
Non bisogna ignorare che, talora, non è chiaro se il nome indichi la
sostanza come composto, oppure l'atto e la forma. Per esempio, non è
chiaro se “casa” indichi il composto di materia e forma, ossia un riparo
fatto di mattoni e di pietre disposte in questo determinato modo, oppure
se significhi l'atto e la forma, ossia un riparo [...]. [1043b] Ma questo, che
per altro rispetto ha una notevole rilevanza, in relazione alla ricerca del-
la sostanza sensibile non ne ha alcuna: infatti l'essenza appartiene alla
forma e all'atto95.

95 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 371-377

212
Atto e potenza

Aristotele pone la distinzione fra ciò che ha il principio della sua generazione fuori di
sé e ciò che lo ha in sé. Il concetto di atto (dal latino actus; le parole che usa Aristotele sono
enérgheia ed entelécheia) è fondamentale nella definizione aristotelica del movimento e
del divenire: esso indica ciò che è, con determinate caratteristiche, nel presente: il foglio
che ho davanti in questo momento, è, in atto, la pagina di un libro. Ma questa pagina nel
passato era qualcosa di diverso (un foglio di carta nella tipografia o, prima ancora, un al-
bero) che comunque poteva diventare una pagina: era una pagina in potenza. Riferito ad
albero o a foglio, cioè nel momento in cui indica qualcosa di definito che è nel presente, atto
traduce il termine entelécheia. Ma c’è un momento, durante la lavorazione in tipografia, in
cui la carta è trasformata in pagina: anche per questa fase di trasformazione si può parla-
re di atto (proprio nel senso di azione), che fa diventare un foglio di carta una pagina di
libro; con questo significato atto traduce il termine aristotelico enérgheia. Nella trasfor-
mazione, nel divenire o nel muoversi di qualsiasi ente si possono quindi schematicamente
individuare tre momenti: a) quando la trasformazione è possibile ma non avviene (la carta
nel magazzino del tipografo); b) quando la trasformazione avviene (la lavorazione della
pagina da parte del tipografo); c) quando la trasformazione è avvenuta (la pagina realiz-
zata all’interno del libro). Il momento a) corrisponde alla potenza, il momento b) e il mo-
mento c) corrispondono all’atto; ma in b) si tratta di enérgheia, in c) di entelécheia.

Metafisica, 1049a 5-27

1 [1049a] [...] Per quanto concerne le cose che dipendono dalla ra-
gione, la questione può così definirsi: esse passano dall’essere in poten-
za all’essere in atto, quando siano volute e non intervengano ostacoli dal
di fuori; nel caso, poi, di colui che deve essere guarito, quando non ci
siano impedimenti interni. E diremo che anche una casa è potenza allo
stesso modo: quando negli elementi materiali non ci sia nulla che ad essi
impedisca di diventare casa, e quando non vi sia più nulla che ad essi si
debba ulteriormente aggiungere o togliere o mutare, allora si ha la casa
in potenza. Così dovrà dirsi per tutti gli altri casi, in cui il principio della
generazione proviene dal di fuori.
2 Le cose, invece, che hanno in sé il principio della generazione sa-
ranno in potenza per virtù propria, quando non vi siano impedimenti
provenienti dall’esterno. Lo sperma, ad esempio, non è ancora l’uomo in
potenza, perché deve essere deposto in altro essere e subire mutamen-
to; invece quando, in virtù del principio suo proprio, sia già passato in

213
tale stadio, allora esso sarà l’uomo in potenza: nel precedente stadio es-
so ha bisogno di un altro principio. Così, per esempio, la terra non è an-
cora la statua in potenza, essa deve, prima, mutare per diventare bronzo.
3 Quando diciamo che un essere non è una determinata cosa ma
“fatto di una certa cosa” (per esempio, l’armadio non è legno, ma è fatto
di legno, né il legno è terra, ma fatto di terra, e, a sua volta, la terra, se
deriva in questo modo da altro, non è quest’altro, ma fatta di
quest’altro), appare evidente che quest’ultimo termine è sempre in po-
tenza, in senso proprio, quello che immediatamente segue. Per esempio,
l’armadio non è fatto di terra, né è terra, ma è di legno; il legno è, infatti,
armadio in potenza, e come tale è materia dell’armadio, ed il legno in
generale è materia dell’armadio in generale, mentre di questo dato ar-
madio è materia questo dato legno. E se c’è qualcosa di originario che
non possa più riferirsi ad altro come fatto di quest’altro, allora questo
sarà la materia prima. Per esempio, se la terra è fatta di aria e se l’aria
non è fuoco, ma fatta di fuoco, il fuoco sarà la materia prima, la quale
non è un alcunché di determinato96.

96 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 414-415

214
La dottrina delle quattro cause e i vari significati del termine
“causa”
Come abbiamo visto, per Aristotele la “filosofia prima” studia l’essere in quanto ta-
le, cioè ne ricerca le cause intime. Soffermiamo ora la nostra attenzione sul concetto di
causa definendo anche quali esse siano. Il primo significato di causa è quello legato alla
materialità dell’oggetto, al “questo qui” come punto di partenza del conoscere; la causa
materiale è così ciò di cui un oggetto è fatto. Ma senza l’idea che informi quell’oggetto,
esso sarebbe una cosa non definita; ecco allora il secondo significato di causa che è l’idea
presente nell’oggetto, l’idea di sedia che informa la sedia e la rende tale (la forma o causa
formale)97.
E come la materia senza la forma sarebbe un niente informale, la forma senza la
materia sarebbe un contenitore vuoto; l’individuo, per essere tale, ha bisogno e dell’idea
che informa oggetto e della materia che deve essere informata da quello; causa materiale
e causa formale possono essere isolate solo nel pensiero come momento logico e non
reale. Il terzo significato è ciò che noi normalmente intendiamo per causa quando la le-
ghiamo al suo effetto; è cioè la causa da cui nasce un certo fatto, un certo effetto, un certo
mutamento (causa efficiente). L’ultimo significato di causa è la causa finale cui tende, ad
esempio, ogni nostra azione.
Leggiamo a questo proposito tre passi presi da due opere diverse di Aristotele.

Ciò stabilito, bisogna indagare sulle cause, quali e quante di numero


esse siano. Poiché, invero, la nostra ricerca ha per fine la nostra cono-
scenza e, d’altra parte, noi crediamo di non conoscere nulla se prima non
abbiamo posto il perché di ciascuna cosa (e ciò significa porre la causa
prima), è ovvio che noi dobbiamo fare la medesima indagine anche a
proposito del nascere e del divenire e di ogni cambiamento fisico, affin-
ché, sapendo i principi di queste cose, noi possiamo tentare di ricondur-
re ad essi ogni nostra ricerca. Pertanto, in un senso si dice causa ciò da
cui proviene l’oggetto e che è da esso immanente, come il bronzo alla
statua e l’argento alla coppa, o anche i vari generi del bronzo e
dell’argento; in un altro senso sono causa la forma e il modello, vale a
dire la definizione del concetto e i generi di essa (come del diapason il
rapporto di due a uno e, insomma, il numero) e le parti inerenti alla de-
finizione. Inoltre, è causa ciò donde è inizio del cangiamento o della quie-
te, come è causa chi dà un precetto o come il padre è causa del figlio o

97 Tratto – con adattamenti – da A. Girotti, La filosofia di Aristotele, Polaris, pag. 22

215
come in generale chi fa è causa del fatto, chi muta del mutato. Inoltre, la
causa è come fine ed è questa la causa finale, come del passeggiare è la
salute. Se ci si domanda, infatti: “perché quel tale passeggia?” noi ri-
spondiamo: “per star bene”: e così dicendo noi crediamo di aver data la
causa. E della causa finale fan parte tutte le altre cose le quali, anche se
mosse da altri, si trovano in mezzo tra il motore e il fine, come per la sa-
lute il dimagrire o il purgante o i farmaci o gli attrezzi ginnici: tutte que-
ste cose sono in virtù del fine e differiscono tra loro solo in quanto alcu-
ne sono azioni altre sono strumenti98.

È ovviamente indispensabile l’acquisizione scientifica delle cause


originarie (giacché noi affermiamo di conoscere un oggetto particolare
solo quando reputiamo di conoscerne la prima causa); e si parla di cause
in quattro sensi, giacché una di esse affermiamo che e la sostanza o es-
senza (difatti la ragion d’essere di un oggetto si riconduce, in ultima i-
stanza, alla definizione, e la primaria ragion d’essere è causa e princi-
pio), un’altra causa è la materia, ossia il sostrato, una terza causa e ciò
che dà inizio al movimento, e una quarta causa è quella che è opposta ad
essa. ossia il fine e il bene (infatti è questo il termine di ogni generazione
e di ogni movimento). Nei trattati di Fisica noi abbiamo condotto un suf-
ficiente esame su questo argomento99.

Causa, in un senso, significa la materia di cui sono fatte le cose: per


esempio, il bronzo della statua, l’argento della tazza e i generi di questi.
In un altro senso, causa significa la forma e il modello, ossia la nozione
dell’essenza e i generi di essa: per esempio, nell’ottava la causa formale
è il rapporto di due a uno e, in generale, il numero. E “causa in questo
senso” sono anche le parti che rientrano nella nozione dell’essenza. Inol-
tre, causa significa il principio primo del mutamento o del riposo; per
esempio, è causa chi ha preso una decisione, il padre è causa del figlio, e,
in generale, chi fa è causa di ciò che vien fatto e ciò che è capace di pro-
durre mutamento è causa di ciò che produce mutamento. Inoltre la
causa significa il fine, vale a dire lo scopo delle cose: per esempio lo

98 - Fisica 11. 3, 194 b 16 - 195 a 25, trad. A. Russo, Laterza, Bari 1973
99 Aristotele, Metafisica. I, 983a. 23-983h. trad. Russo

216
scopo del passeggiare è la salute. Infatti, per quale ragione uno passeg-
gia? Rispondiamo: per essere sano. E, dicendo così, noi riteniamo di aver
dedotto la causa del suo passeggiare. E lo stesso si dica di tutte quelle
cose che sono mosse da altro e sono intermediarie fra il motore e il fine:
per esempio, il dimagrire, il purgarsi, le medicine, gli strumenti medici
sono tutte quante cause della salute: tutte, infatti, sono in funzione del
fine e differiscono tra loro in quanto sono, alcune, strumenti, altre, azi-
oni. Questi sono, probabilmente, tutti i significati di causa. E, appunto
perché causa si intende in molteplici significati, ne viene di conseguenza
che ci siano molte cause del medesimo oggetto, e non per accidente: per
esempio, sono cause della statua sia l’arte dello scolpire sia il bronzo, e
non della statua considerata secondo differenti aspetti, ma proprio in
quanto statua; esse non sono, tuttavia, cause nello stesso modo, ma una
è causa come materia, l’altra, invece, come principio del movimento. E
ne viene di conseguenza, anche, che ci siano cause reciproche: l’esercizio
fisico, per esempio, è causa di vigoria e questa è causa di quello: non,
però, nello stesso modo, ma la vigoria è causa in quanto fine, l’altro, in-
vece, come principio di movimento. Inoltre, una medesima cosa può
essere causa dei contrari: infatti, ciò che, con la sua presenza, è causa di
una determinata cosa, diciamo, talvolta, che, con la sua assenza, è causa
del contrario: l’assenza del pilota, per esempio, è causa del naufragio; la
presenza di lui, invece, è causa della salvezza. Ambedue poi - e la pre-
senza e l’assenza - sono cause motrici. Le cause di cui abbiamo detto si
riducono tutte a quattro tipi100.

100 Aristotele, Metafisica V, 1013a - 1013b, trad. G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1993

217
Dio è pensiero di pensiero (nóesis noéseos)

1 [1074b] Per quanto concerne l’intelligenza, sorgono alcune diffi-


coltà. Essa pare, infatti, la più divina delle cose che, come tali, a noi si
manifestano; ma, il comprendere quale sia la sua condizione per esser
tale, presenta alcune difficoltà.

2 Infatti, se non pensasse nulla, non potrebbe essere cosa divina, ma


si troverebbe nella stessa condizione di chi dorme. E se pensa, ma que-
sto suo pensare dipende da qualcosa di superiore a lei, ciò che costitui-
sce la sua sostanza non sarà l’atto del pensare ma la potenza, e non po-
trà essere la sostanza più eccellente: dal pensare deriva, infatti, il suo
pregio.

3 Inoltre, sia nell’ipotesi che la sua sostanza sia la capacità di inten-


dere, sia nell’ipotesi che la sua sostanza sia l’atto dell’intendere, che cosa
pensa? O pensa sé medesima, oppure qualcosa di diverso; e, se pensa
qualcosa di diverso, o pensa sempre la medesima cosa, o qualcosa sem-
pre diverso. Ma, è o non è cosa ben differente il pensare ciò che è bello,
oppure una cosa qualsiasi? O non è assurdo che essa pensi certune cose?
È pertanto evidente che essa pensa ciò che è più divino e più degno di
onore e che l’oggetto del suo pensare non muta: il mutamento, infatti, è
sempre verso il peggio, e questo mutamento costituisce pur sempre una
forma di movimento.

4 In primo luogo, dunque, se non è pensiero in atto ma in potenza,


logicamente la continuità del pensare, per essa, costituirebbe una fatica.
Inoltre, è evidente che qualcos’altro sarebbe più degno di onore che non
l’Intelligenza: ossia l’Intelligibile. Infatti, la capacità di pensare e l’attività
di pensiero appartengono anche a colui che pensa la cosa più indegna:
sicché, se questa è, invece, cosa da evitare (è meglio, infatti, non vedere
certe cose, che vederle), ciò che c’è di più eccellente non può essere il
pensiero. Se, dunque, l’Intelligenza divina è ciò che c’è di più eccellente,
pensa se stessa e il suo pensiero è pensiero di pensiero.
218
5 Tuttavia, sembra che la scienza, la sensazione, l’opinione e il ra-
gionamento abbiano sempre come oggetto qualcosa di altro da sé, e che
abbiano sé medesimi come oggetto solo di riflesso. Inoltre, se altro è il
pensare e altro ciò che viene pensato, da quale dei due deriva
all’Intelligenza la sua eccellenza? Infatti, l’essenza del pensare e
l’essenza del pensato non coincidono. [1075a] In realtà, in alcuni casi, la
scienza stessa costituisce l’oggetto: nelle scienze poetiche, per esempio,
l’oggetto è la sostanza immateriale e l’essenza, e nelle scienze teoretiche
l’oggetto è dato dalla nozione e dal pensiero stesso. Dunque, non essen-
do diversi il pensiero e l’oggetto del pensiero, per queste cose che non
hanno materia, coincideranno, e l’Intelligenza divina sarà una cosa sola
con l’oggetto del suo pensare.

6 Resta ancora un problema: se ciò che è pensato dall’Intelligenza


divina sia composto. In tal caso, infatti, l’Intelligenza divina muterebbe,
passando da una all’altra delle parti che costituiscono l’insieme del suo
oggetto di pensiero. Ed ecco la risposta al problema. Tutto ciò che non
ha materia non ha parti. E così come l’intelligenza umana – l’intelligenza,
almeno, che non pensa dei composti – si comporta in qualche momento
(infatti, essa non ha il suo bene in questa o quella parte, ma ha il suo be-
ne supremo in ciò che è un tutto indivisibile, il quale è qualcosa di diver-
so dalle parti): ebbene, in questo stesso modo si comporta anche
l’Intelligenza divina, pensando sé medesima per tutta l’eternità101.

101 Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 19942, pagg. 575-579

219
FISICA

Il movimento naturale
Siamo di fronte ad un altro esempio di come Aristotele tenda ad orientare la ricerca
scientifica verso gli schemi propri della metafisica. L’antiperístasis sarebbe il fenomeno
della compressione dell’aria intorno all’oggetto da parte dell’oggetto stesso in movimen-
to.

Fisica., 215a 5-15

Laddove v’è infinito, infatti, non vi sarà alto né basso né centro, lad-
dove vi è vuoto, per nulla l’alto differirà dal basso, poiché, come non vi è
alcuna differenza del nulla, così anche non ve n’è alcuna del non-essere:
ed il vuoto sembra essere un non-essere ed una privazione; ma il tra-
sporto naturale comporta delle differenze; sicché anche le cose che si
muovono per natura comporteranno delle differenze. Quindi, o non vi è
trasporto naturale per nessuna cosa in alcun luogo, o, se vi è, non esiste
vuoto. Inoltre i corpi lanciati si muovono, quando chi li ha lanciati non li
tocca più, o per antiperístasis, come taluni dicono, o perché l’aria spinta
spinge con movimento più celere di quello del trasporto del corpo spin-
to, da cui è trasportato verso il luogo suo proprio. Invece nel vuoto non è
possibile che avvenga nulla di simile, e nulla potrà essere trasportato, se
non come ciò che è trasportato a mezzo di un veicolo.102

102 Aristotele, La Fisica, Loffredo, Napoli, 1967, pag. 98

220
Movimento circolare e movimento rettilineo

Fisica, 265a 11-265b 8

1 [265a] È chiaro dunque da ciò che neppure i naturalisti hanno ra-


gione, allorquando sostengono che tutte le cose sensibili sono sempre in
movimento, dal momento che si muovono di qualcuno di questi movi-
menti e soprattutto secondo loro avvengono le alterazioni: dicono, infat-
ti, che le cose scorrono sempre e si distruggono ed inoltre anche la gene-
razione e la distruzione chiamano alterazione.
2 Ora, il presente ragionamento ha dimostrato in generale, circa o-
gni specie di movimento, che in nessun movimento è possibile che un
mobile si muova continuamente, all’infuori che nel movimento circolare;
sicché neppure in quello per alterazione né in quello per accrescimento.
Quanto è stato detto basti a dimostrare che nessun mutamento è infinito
né continuo, ad eccezione del trasporto circolare.
3 È chiaro pertanto che il trasporto circolare è il primo dei trasporti.
Ogni trasporto, infatti, come anche prima abbiamo detto, o è circolare o
su linea retta o misto, ed è necessario che i primi due siano anteriori a
questo, poiché esso consta di quelli; quello circolare poi è anteriore al
rettilineo, poiché è più semplice e più perfetto. Non è possibile, difatti,
che un mobile infinito sia trasportato su una linea retta, poiché l’infinito
in tal senso non esiste; ma neppure se esistesse, alcunché vi si potrebbe
muovere, poiché l’impossibile non si può verificare ed è impossibile per-
correre l’infinito. D’altra parte, il movimento sulla retta finita, ritornan-
do indietro, risulta composto e forma due movimenti: non ritornando
indietro è imperfetto e soggetto a distruzione. Ma sia per natura, sia per
definizione, sia per tempo il perfetto è anteriore all’imperfetto,
l’incorruttibile al corruttibile. Inoltre il movimento che può essere eter-
no è anteriore a quello che non può esserlo: il movimento circolare può
essere eterno, mentre degli altri né trasporto, né alcun altro può esserlo:
infatti si deve produrre un arresto e, se si produce un arresto, il movi-
mento si distrugge. Ragionevolmente accade che il movimento circolare
sia uno e continuo e non lo sia quello sulla retta. Infatti di quello sulla
retta è ben definito il principio, la fine e il centro ed ha in sé tutti gli ele-
221
menti, sicché esiste un punto donde il corpo mosso comincerà a muo-
versi e uno dove cesserà di muoversi (ai punti estremi, infatti, tutto è in
quiete, sia al punto iniziale sia a quello finale). Del movimento circolare,
invece, i limiti sono indefiniti: perché, infatti, tra i punti che sono sulla
linea uno piuttosto che un altro dovrebbe essere limite? [265b] Giacché
ciascuno è ugualmente inizio e centro e fine, cosicché un movimento si
trova sempre sul principio e sulla fine e non vi si trova mai. Perciò in
certo qual modo la sfera si muove e sta in quiete, poiché occupa il mede-
simo luogo: e ne è causa il fatto che tutte queste proprietà appartengono
al centro, giacché esso è principio e centro della grandezza e fine, sicché,
trovandosi esso fuori della circonferenza, non v’è un punto in cui il mo-
bile trasportato si trovi in quiete, dopo aver compiuto il suo percorso:
esso è sempre trasportato, difatti, intorno al centro, e non in direzione
dell’estremità.
4 E per questo motivo la massa totale resta al suo posto e sta sem-
pre in quiete in certo qual modo e si muove continuamente.
5 Ed avviene reciprocamente: e poiché il movimento circolare è mi-
sura dei movimenti, è necessario che esso sia primo (poiché tutte le cose
si misurano col primo) e, proprio perché è primo, è misura degli altri
movimenti.
6 Inoltre soltanto il movimento circolare può essere anche unifor-
me. Infatti le cose mosse su una retta non sono trasportate uniforme-
mente dal principio e verso la fine, poiché tutte, quanto più si allontana-
no dal loro stato di quiete, tanto più velocemente sono trasportate, men-
tre il solo trasporto circolare non ha, per natura, né principio né fine in
sé, bensì al di fuori di sé103.

103 Aristotele, La Fisica, Loffredo, Napoli, 1967, pagg. 237-239

222
Il Primo motore immobile come spiegazione del movimento
fisico

[241b] È necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da qual-
cosa; difatti se non ha in sé il principio del movimento, è evidente che è
mosso da altro, poiché un altro sarà il motore; se invece l’ha in sé, si
prenda AB, che si muova per se stesso, ma non perché si muova una
delle sue parti. Per prima cosa dunque il supporre che AB sia mosso da
se stesso perché è mosso tutto intero e da nulla di esterno è lo stesso
che se si negasse, qualora KL muovesse LM e fosse esso stesso mosso,
che KM sia mosso da qualcosa perché non risulta evidente quale è il
motore e quale il mosso. Inoltre ciò che non è mosso da qualcosa non è
necessario che cessi di esser mosso perché un’altra cosa è in quiete;
[242a] ma se una cosa è in quiete perché un’altra ha cessato di esser
mossa, è necessario che essa sia mossa da qualcosa.

Infatti, ammesso questo, tutto ciò che si muove risulterà mosso da


qualcosa; difatti, poiché si è supposto AB mosso, è necessario che esso
sia divisibile, poiché tutto ciò che si muove è divisibile. Lo si divida in C:
orbene, se CB non è mosso, AB non sarà mosso, poiché se fosse mosso,
è chiaro che AC sarebbe mosso mentre BC starebbe in quiete; sicché AB
non risulterà mosso per se stesso e primieramente. Ma si supponeva
che si muovesse per se stesso e primieramente; di qui la necessità che,
qualora CB non sia mosso, AB stia in quiete. D’altra parte ciò che è in
riposo perché qualche cosa non si muove, è stato riconosciuto che è
mosso da qualche cosa. D’altra parte è stato ammesso che ciò che è in
quiete, perché qualcosa non si muove, è mosso da qualcosa; sicché è
necessario che tutto ciò che si muove, sia mosso da qualcosa; difatti ciò
che si muove sarà sempre divisibile, e, qualora la parte non sia mossa, è
necessario che anche l’intero resti in quiete.

Ma, poiché è necessario che tutto ciò che si muove sia mosso da
qualcosa, se una cosa è mossa di movimento locale da un’altra che a
sua volta sia mossa, e il motore a sua volta è mosso da un altro
223
anch’esso mosso e questo da un altro, e così di seguito, è necessario che
vi sia un primo motore e che non si proceda all’infinito. Si ammetta in-
fatti che non sia così, ma che il procedimento divenga infinito. Sia A
mosso da B, B da C, C da D e sempre il contiguo dal contiguo. Poiché si
suppone che il motore muova perché mosso, è necessario che il movi-
mento del mosso e quello del motore avvengano contemporaneamen-
te; infatti contemporaneamente il movente muove e il mosso vien mos-
so. È evidente che sarà contemporaneo il movimento di A, di B, di C e di
ciascuno dei motori e dei mossi. Si prenda ora il movimento di ciascuno
e sia E quello di A, F quello di B, G e H quelli di C e D; difatti se ciascuno
è mosso sempre da ciascuno, tuttavia si potrà nondimeno prendere il
movimento di ciascuno come uno numericamente; poiché ogni movi-
mento procede da un termine ad un altro e non è infinito nelle estremi-
tà. Dico pertanto che è uno numericamente un movimento che si effet-
tua da ciò che è identico in ciò che è identico numericamente nel tempo
identico numericamente. Un movimento infatti può essere identico per
genere, per specie e per numero: è identico per genere quello che ap-
partiene alla medesima categoria, ad esempio, di sostanza o di qualità;
per specie quello che va dall’identico per la specie all’identico per la
specie, ad esempio, dal bianco al nero o dal buono al cattivo, qualora
non sia differente per la specie; per numero quello che va da ciò che è
uno per il numero a ciò che è uno per il numero nel medesimo tempo,
ad esempio, da questo bianco a quel nero oppure da questo luogo a
quel luogo in questo tempo; difatti se fosse in un altro tempo, il movi-
mento non sarebbe più uno per numero, bensí per specie104.

104 Aristotele, La Fisica, Loffredo, Napoli, 1967, pagg. 179-181 – rif. Fisica, 241b 20-242b
5.

224
PSICOLOGIA

Le facoltà dell’anima e l’intelletto

Lo studio delle facoltà dell’anima (nutritiva, sensitiva, appetitiva, locomotoria, ra-


zionale) è considerato da Aristotele la via maestra per comprendere la natura dell’anima
degli esseri viventi, dalle piante all’uomo. L’uomo è l’unico fra i mortali che possiede la
facoltà razionale, che è lo strumento indispensabile per unificare i dati che provengono
dalle sensazioni. L’intelletto teoretico è la facoltà che unifica le diverse percezioni sensi-
bili conferendo loro un significato.

1 [414a] [...] Tra le suddette facoltà dell’anima ad alcuni viventi, co-


me dicevamo, appartengono tutte, ad altri alcune, ad altri ancora una
sola. Abbiamo chiamato facoltà la nutritiva, la sensitiva, l’appetitiva, la
locomotoria e la razionale. Alle piante appartiene soltanto la facoltà nu-
tritiva, mentre agli altri viventi questa ed anche la sensitiva. [414b] Se
poi vi è la facoltà sensitiva, c’è anche l’appetitiva. Difatti l’appetizione
può essere desiderio, impulso e volontà. Ora tutti gli animali possiedono
almeno un senso, il tatto. Ma chi ha la sensazione possiede pure il piace-
re e il dolore e ciò che è piacevole e doloroso, e chi ha questi ultimi ha
anche il desiderio, perché esso è la tendenza verso ciò che piace. Inoltre
gli animali possiedono la sensazione dell’alimento, giacché il tatto è il
senso dell’alimento. In effetti tutti gli esseri viventi si nutrono di elemen-
ti secchi ed umidi, caldi e freddi, e chi li percepisce è il tatto, mentre gli
altri sensibili il tatto li coglie accidentalmente. In realtà il suono, il colore
e l’odore non contribuiscono in nulla al nutrimento, mentre il sapore è
una delle qualità percepibili dal tatto. Ora fame e sete sono desideri, di
secco e caldo la fame, di umido e freddo la sete, ed il sapore è, per così
dire, il condimento di questi sensibili.
[...]

2 [415a] [...] In realtà senza la facoltà nutritiva non esiste quella


sensitiva, mentre nelle piante la facoltà nutritiva esiste indipendente-

225
mente da quella sensitiva. A sua volta senza il tatto non è presente nes-
sun altro senso, mentre esso esiste senza gli altri, poiché molti animali
non possiedono né la vista né l’udito né la percezione dell’odore. Tra gli
esseri, poi, capaci di sensazione, alcuni hanno la facoltà locomotoria ed
altri no. Pochissimi, infine, possiedono la ragione e il pensiero. Difatti gli
esseri corruttibili dotati di ragione hanno anche tutte le altre facoltà,
mentre non tutti coloro che possiedono una di questa facoltà hanno la
ragione; anzi alcuni non possiedono neppure l’immaginazione, mentre
altri vivono soltanto con questa. L’intelletto teoretico esige però un altro
discorso. È chiaro, pertanto, che la trattazione di ciascuna di questa fa-
coltà è la più appropriata per la conoscenza dell’anima.
[...]

3 [428b] Ora non è possibile giudicare per mezzo di sensi separati


che il dolce è diverso dal bianco, ma entrambi gli oggetti devono manife-
starsi a qualcosa di unico. In questo caso infatti, anche se io percepissi
l’uno e tu l’altro, sarebbe chiaro che sono diversi tra loro, mentre
dev’esserci una sola cosa a dire che sono diversi, giacché il dolce è diver-
so dal bianco. Dunque è una stessa cosa che lo dice, e come lo dice così
anche lo pensa e lo percepisce. È quindi evidente che non è possibile
giudicare sensibili separati mediante sensi separati105.

105 Aristotele, De anima, 414a 30-414b 14; 415a 2-14; 428b 18-24 (Þ pag. 128)

226
ETICA

Il fine della morale è la felicità

1 [1095b] [...] Infatti dai loro modi di vivere non a torto il volgo e le
persone rozze sembrano concepire il bene e la felicità come il piacere.
Per questo essi amano la vita che è dedita al godimento. Infatti tre sono
esattamente i principali generi di vita: quello che ora s’è detto, la vita po-
litica e, in terzo luogo, la vita contemplativa.
2 Ebbene, la massa si mostra del tutto simile agli schiavi, scegliendo
una vita propria degli animali; tuttavia trova una giustificazione per il
fatto che molti di coloro che rivestono cariche direttive hanno gusti u-
guali a Sardanapalo.
3 Le persone raffinate e portate ad agire prediligono invece l’onore;
infatti è ordinariamente questo il fine della vita politica. Ma risulta esse-
re una cosa più superficiale di ciò che cerchiamo. Infatti è opinione co-
mune che esso dipende più da coloro che onorano che da chi è onorato,
invece noi presentiamo che il bene è qualcosa di personale e di difficil-
mente perdibile. Inoltre gli uomini sembrano perseguire l’onore per a-
vere motivo di credere che essi sono persone dabbene. E difatti cercano
di essere onorati dalle persone sagge, e presso coloro dai quali sono co-
nosciuti, e per la loro virtù. Dunque è chiaro che almeno secondo questi
uomini la virtù è superiore.
4 Forse allora si potrebbe supporre che questa piuttosto costituisce
il fine della vita politica. Ma anche questa risulta troppo poco perfetta.
Infatti ad avviso di tutti è anche possibile che una persona che possiede
la virtù dorma o resti inattiva nel corso della vita, e che oltre a ciò pati-
sca mali ed abbia in sorte le sventure più grandi. [1096a] E chi vive in
questo modo nessuno direbbe felice, se non per voler sostenere a tutti i
costi la propria tesi.

227
5 Ma intorno a questi generi di vita basti così: di essi infatti si è det-
to a sufficienza anche nei trattati dati a pubblica conoscenza. Il terzo è la
vita contemplativa, intorno alla quale faremo la ricerca in seguito.
6 La vita di lucro è una vita di costrizione e la ricchezza non è in tut-
ta evidenza il bene ricercato: infatti essa è soltanto una cosa utile ed un
mezzo in vista di altro. Per questo si potrebbe supporre che piuttosto i
beni precedentemente detti siano fini; infatti sono amati per se stessi.
Ma è evidente che non lo sono neppure quelli, anche se molti argomenti
sono stati diffusi in loro favore.
7 Si tralascino dunque questi beni.
8 [1097a] Ritorniamo di nuovo al bene che è l’oggetto della nostra
ricerca. Che cosa mai può essere? Infatti appare come una cosa in
un’azione e in un’arte, come un’altra in un’altra azione e in un’altra arte:
infatti è altro in medicina, in strategia e così di seguito nelle restanti arti.
Che cos’è dunque il bene di ciascuna? Non è forse ciò in vista del quale si
compie il resto? Questo in medicina è la salute, in strategia la vittoria, in
ingegneria la casa, in un’arte una cosa, in un’altra un’altra; ma in ogni
azione ed intenzione è il fine. Infatti è in vista di questo che tutti com-
piono il resto. Di conseguenza, se qualcosa è fine di tutto ciò che è ogget-
to d’azione, questo sarà il bene realizzabile nella prassi; e se vi sono più
cose, saranno queste.
9 Pertanto il discorso, passando da un’istanza all’altra, perviene allo
stesso risultato di partenza; ma questo risultato bisogna sforzarci di
chiarire ancora di più.
10 Poiché i fini sono manifestamente molteplici e di questi noi sce-
gliamo alcuni a motivo di altro (ad esempio la ricchezza, i flauti e in ge-
nerale gli strumenti), è evidente che non sono tutti perfetti; invece il be-
ne supremo è manifestamente qualcosa di perfetto. Di conseguenza, se
vi è un fine soltanto che è perfetto, questo sarà il bene che cerchiamo; se
sono molti, il più perfetto di questi.
11 Ciò che è degno di perseguirsi di per se stesso diciamo che è più
perfetto di ciò che lo è in ragione di altro; e ciò che non è mai sceglibile a
motivo di altro diciamo che è più perfetto delle cose che sono sceglibili
talvolta per se stesse, talvolta a motivo di quell’altro; e pertanto diciamo
che è perfetto in senso assoluto ciò che è sempre sceglibile per se stesso
e non mai a motivo di altro. Ora, una tale cosa tutti ritengono che è so-

228
prattutto la felicità. [1096b] Questa infatti noi scegliamo sempre per se
stessa e non mai a motivo di altro; invece l’onore, il piacere,
l’intelligenza ed ogni virtù li scegliamo sì anche per se stessi (infatti sce-
glieremmo ciascuno di essi anche se non ci pervenisse alcun vantaggio),
ma li scegliamo anche in vista della felicità, supponendo che mediante
essi saremo felici. Invece nessuno sceglie la felicità in vista di questi be-
ni, né, in generale, a motivo di altro.
12 In tutta evidenza la stessa conclusione deriva anche partendo
dall’autosufficienza: infatti – ad avviso comune – il bene perfetto è suffi-
ciente in sé. Intendiamo quello che è sufficiente in sé non per un indivi-
duo singolo, che viva una vita solitaria, ma anche per i suoi genitori, per i
suoi figli, per sua moglie e, in generale, per i suoi amici e per i concitta-
dini, poiché per natura l’uomo è un essere politico. Ma bisogna assumere
un limite di queste persone: infatti per chi le estende agli avi e ai discen-
denti e agli amici degli amici, si va all’infinito. Ma questo problema
dev’essere esaminato in seguito. Per il momento poniamo che ciò che è
sufficiente in se stesso è ciò che, pur essendo da solo, rende la vita sce-
glibile e non bisognosa di nulla; ora una cosa di questo genere noi rite-
niamo che è la felicità. Inoltre riteniamo che è la più degna di scelta di
tutte le cose senza che sia sommata ad altro – se poi fosse sommata, è
chiaro che sarebbe più degna di scelta in unione con il più piccolo dei
beni: infatti l’unione rende superiore la somma dei beni e, fra due beni,
quello più grande è sempre più degno di scelta. Pertanto la felicità è ma-
nifestamente alcunché di perfetto e di autosufficiente, essendo il fine
delle cose che sono oggetto d’azione106.

106Aristotele, Etica nicomachea, 1095b 14-1096a 10; 1097a 30-1097b 6, in Etica Nicoma-
chea, Rizzoli, Milano, 1986, vol. I, pagg. 93-95; pagg. 103-105

229
Che cos’è la virtù?

Per Aristotele la virtù è sempre “una via di mezzo”, ovvero prima di tutto il rifiuto
degli opposti estremismi.

1 [1106a] Come questo sarà, già l’abbiamo detto, ma in più sarà


chiaro anche in questo modo: se considereremo di che specie è la natura
della virtù.
2 Ora, in tutto ciò che è continuo, vale a dire divisibile, si può pren-
dere il più, il meno e l’uguale; e queste determinazioni possono essere o
secondo l’oggetto stesso o in relazione a noi.
3 L’uguale è una sorta di medio tra l’eccesso e il difetto. Chiamo
medio della cosa il punto che dista ugualmente da ciascuno dei due e-
stremi, punto che è unico ed identico per tutti; chiamo invece medio ri-
spetto a noi ciò che né eccede né difetta. Questo non è unico né identico
per tutti. Ad esempio, [1106b] se il dieci è troppo e il due è poco, si
prende il sei come medio secondo la cosa: infatti supera ed è superato di
un’uguale quantità. Questo medio è secondo la proporzione aritmetica.
Ma il medio rispetto a noi non va preso così: infatti se per un uomo
mangiare dieci mine è troppo e due mine è poco, il maestro di ginnastica
non gli prescriverà sei mine; forse infatti anche questa quantità è troppa,
o poca per la persona che l’assorbe. Per Milone infatti è poca, ma per un
principiante di esercizi ginnici è troppa. Parimenti è per la corsa e per la
lotta.
4 Così pertanto ogni persona che ha conoscenza fugge l’eccesso e il
difetto; invece è il giusto mezzo che cerca ed è questo che sceglie: il
mezzo non dell’oggetto, ma in rapporto a noi.
5 Pertanto, se ogni scienza così esegue bene il suo compito, fissando
lo sguardo sul mezzo ed indirizzando ad esso le sue opere (donde siamo
soliti dire per le opere ben riuscite che non vi è nulla da togliere e nulla
da aggiungere, supponendo che eccesso e difetto rovinano la perfezione,
mentre la via di mezzo la salvaguarda, e i buoni artigiani, come diciamo,
lavorano fissando lo sguardo sul medio); e se la virtù è più esatta di ogni
arte ed è migliore, come pure la natura, allora essa tenderà al medio. In-

230
tendo la virtù etica: questa infatti ha per oggetto le passioni e le azioni, e
in queste vi sono eccesso, difetto e il mezzo. Ad esempio, avere paura,
esser coraggiosi, desiderare, adirarsi, avere pietà, in generale provare
delle sensazioni e provare dolore ammettono un troppo e un poco, ed
ambedue non vanno bene. Ma provare queste passioni quando si deve e
nelle circostanze in cui si deve e verso le persone che si deve in vista del
fine che si deve e come si deve, è realizzabile il medio e al tempo stesso
l’eccellenza: il che è proprio della virtù.
6 Parimenti anche per ciò che concerne le azioni vi sono eccesso, di-
fetto ed il mezzo.
7 D’altronde la virtù ha per oggetto passioni ed azioni, nelle quali
l’eccesso costituisce un errore e il difetto è biasimato, mentre il mezzo è
lodato ed ha successo: e queste sono, ambedue, caratteristiche della vir-
tù. La virtù è dunque una sorta di medietà, perché appunto tende al
mezzo.
8 Inoltre, l’errare ha molte forme (infatti il male si trova nella co-
lonna dell’illimitato, come immaginavano i Pitagorici, mentre il bene in
quella del limitato), invece il riuscire ne ha una sola – per questo il pri-
mo è facile, il secondo è difficile: è facile fallire il bersaglio, ma è difficile
l’andare a segno. Anche per queste ragioni, dunque, l’eccesso e il difetto
sono propri del vizio, la medietà della virtù:
9 “Buoni infatti si è in un unico modo, cattivi in modi svariati ...”. [...]
10 La virtù è dunque una disposizione che orienta la scelta delibera-
ta, consistente in una via di mezzo rispetto a noi, determinata dalla rego-
la, vale a dire nel modo in cui la determinerebbe l’uomo saggio. È una
medietà tra due vizi, uno per eccesso e l’altro per difetto. E lo è, inoltre,
per il fatto che alcuni vizi difettano, altri eccedono ciò che si deve sia nel
campo delle passioni che delle azioni, mentre la virtù e ricerca e sceglie
deliberatamente il medio.
11 Perciò secondo la sua sostanza e la definizione che ne esprime
l’essenza la virtù è una medietà, ma secondo l’eccellenza e la perfezione
è un estremo.
12 Però non ogni azione né ogni passione ammette la via di mezzo:
per alcune infatti già il nome implica la malvagità, ad esempio la malevo-
lenza, l’impudenza, l’invidia e, nel caso delle azioni, l’adulterio, il furto,
l’omicidio. Infatti tutte queste passioni e azioni, e quelle del medesimo

231
genere, hanno quei nomi per il fatto di essere in se stesse cattive, non i
loro eccessi né i loro difetti107.

Aristotele, Etica Nicomachea, Rizzoli, Milano, 1986, vol. I, pagg. 163-167. Cfr. Etica ni-
107

comachea, 1106a 26-1106b 35

232
Le virtù dianoetiche

1 [1139a] Quando abbiamo distinto le virtù dell’anima, abbiamo


detto che alcune sono del carattere, altre del pensiero. Di quelle del ca-
rattere abbiamo trattato; delle altre, dopo aver parlato per prima cosa
dell’anima, diciamo in questo modo.
2 Prima dunque si disse che vi sono due parti dell’anima, quella ra-
zionale e quella irrazionale. Ora per l’anima razionale dobbiamo com-
piere la medesima divisione. E si ponga che due sono le parti razionali,
una con la quale conosciamo quel genere di enti i cui princìpi non pos-
sono essere diversamente da quelli che sono, l’altra con cui conosciamo
gli enti che lo possono. Infatti, in relazione ad oggetti che differiscono
per il genere, è diversa per il genere anche quella delle parti dell’anima
che è naturalmente relativa all’uno o all’altro di quegli oggetti, se è per
una certa somiglianza ed affinità che ad esse appartiene la conoscenza.
3 Chiamiamo una di queste parti “scientifica”, l’altra “calcolatrice”;
infatti calcolare e deliberare sono la stessa cosa, e nessuno delibera sulle
cose che non possono essere diversamente da quelle che sono. Di conse-
guenza quella calcolatrice è soltanto una parte della parte razionale.
4 Dunque si deve comprendere qual è la disposizione migliore di
ciascuna della due parti: questa infatti è la virtù di ciascuna, e la virtù di
una cosa è relativa all’opera che le è propria.
5 Tre sono nell’anima i fattori che determinano l’azione e la verità:
la sensazione, l’intelletto ed il desiderio. Di questi la sensazione non è
principio di nessun’azione morale; è evidente: per il fatto che le bestie
hanno sí sensazione, ma non partecipano dell’azione morale.
6 Quello che nel pensiero sono affermazione e negazione, nel desi-
derio sono ricerca e repulsione. Di conseguenza, poiché la virtù è una
disposizione che dirige la scelta, e la scelta è un desiderio deliberato, per
questo bisogna che il calcolo sia vero e il desiderio retto, se la scelta è
buona, e che ci sia identità tra quello che il calcolo enuncia e il desiderio
persegue.
7 Dunque questo pensiero e questa verità sono di ordine pratico.
Del pensiero teoretico, che non è né pratico né poietico, il buono e il cat-
233
tivo stato sono il vero e il falso (questo infatti è il compito di tutta la par-
te razionale); ma il buono stato della parte pratica e razionale è la verità
corrispondente alla rettitudine del desiderio.
8 Il principio dell’azione morale è dunque la scelta – principio nel senso di
causa efficiente non di causa finale –, ed i princípi della scelta sono il desiderio e
il calcolo indirizzato a un fine. Per questo la scelta non è né senza intelletto e
pensiero, né senza una disposizione morale. Infatti la condotta buona ed il suo
contrario nella prassi non esistono senza pensiero e senza carattere.
9 Ma il pensiero di per sé non muove nulla, bensì il pensiero indiriz-
zato a un fine, vale a dire pratico. [1139b] Questo comanda anche
sull’attività poietica; infatti chiunque produce, produce in vista di un fi-
ne, e ciò che è oggetto di produzione non è fine in senso assoluto (ma
fine relativo e di qualcosa di determinato), bensì lo è ciò che è oggetto
dell’azione morale. Infatti la buona condotta è fine in senso assoluto e il
desiderio ha questo fine per oggetto.
10 Per questo la scelta è o un intelletto desiderante o un desiderio
ragionante; e un tale principio è l’uomo.
11 Nulla poi di ciò che è passato è oggetto di scelta: ad esempio nes-
suno sceglie d’aver saccheggiato Troia. Sul passato infatti neppure si de-
libera, ma su ciò che sarà e che è possibile, e il passato non può non es-
sere stato. Perciò dice giustamente Agatone:

“di una sola cosa anche Dio stesso è privato,


fare che ciò che è stato fatto non possa esistere”;

12 In conclusione, la funzione di ambedue le parti razionali è la veri-


tà; pertanto le disposizioni secondo cui ciascuna di esse coglierà il vero
al massimo grado saranno, per l’una e per l’altra parte, le loro virtù108.

108 Aristotele, Etica Nicomachea, Bur, Milano, 1986, vol. II, pagg. 587-591

234
La vita contemplativa avvicina l’uomo agli Dei

1 [1177a] E concordemente si ritiene che la vita felice sia conforme


a virtù, e questa s’accompagna ad un impegno serio e non consiste nel
gioco.
2 Inoltre, noi sosteniamo che le cose serie sono migliori di quelle
che muovono il riso e s’accompagnano al gioco; e che l’attività più se-
riamente impegnata è sempre quella della parte migliore dell’anima e
quella dell’uomo migliore; ora, l’attività di ciò che è migliore è più valida
e senz’altro più capace di dare la felicità.
3 Di più, dei piaceri del corpo qualunque persona può godere, an-
che uno schiavo, non meno dell’uomo di altissimo rango; ma nessuno
ammette la partecipazione di uno schiavo alla felicità, a meno che non
ne ammetta la partecipazione anche ad una vita degna di un uomo. La
felicità infatti non risiede in tali svaghi, ma nelle attività conformi a vir-
tù, come anche prima si è detto.
4 Se la felicità è attività secondo virtù, è logico che sia secondo la
virtù più alta; e questa sarà la virtù di ciò che vi è di migliore.
5 Tanto dunque che questo sia l’intelletto, o qualcos’altro – qualcosa
che, ad avviso di tutti, per natura comanda e dirige e ha conoscenza delle
realtà belle e divine: o perché è in se stessa divina, o perché è la cosa più
divina di ciò che è in noi – l’attività di questa parte secondo la virtù che
le è propria costituirà la felicità perfetta. Ora, che questa attività sia
un’attività contemplativa è stato detto. Questa conclusione - tutti lo am-
metteranno - s’accorda sia con i risultati precedentemente guadagnati
che con la verità.
6 Infatti questa attività è la più alta: giacché anche l’intelletto, di ciò
che è in noi, è quel che vi è di più alto e, delle cose che sono oggetto di
conoscenza, le più alte sono quelle intorno alle quali verte l’intelletto.
7 In secondo luogo è la più continua: infatti possiamo contemplare
con più continuità che compiere una qualsiasi azione.
8 Inoltre noi riteniamo che il piacere dev’essere mescolato con la fe-
licità: ora, fra le attività secondo virtù, la più piacevole è, per unanime
consenso, quella secondo la sapienza. Il certo è che tutti riconoscono che
235
la filosofia possiede piaceri meravigliosi per purezza e per certezza ed è
logico che trascorrere il tempo sia più piacevole per chi conosce che per
chi ricerca.
9 Di più, quella che vien detta “autosufficienza” riguarderà soprat-
tutto l’attività contemplativa: infatti sia il sapiente che il giusto che gli
altri uomini hanno bisogno delle cose necessarie per vivere; ma, fra co-
loro che sono sufficientemente provvisti di tali cose, il giusto ha bisogno
di persone verso le quali e con le quali agirà con giustizia, e similmente
anche il saggio ed il valoroso e ciascuno degli altri uomini virtuosi; inve-
ce il sapiente, anche restando solo con se stesso, è capace di contempla-
re; e ne è più capace quanto più è sapiente. Senza dubbio è meglio se ha
dei collaboratori, ma in ogni caso è pienamente bastevole a se stesso.
10 [1177b] Inoltre tutti convengono che essa sola è amata per se
stessa; da essa infatti non deriva nulla al di fuori del contemplare, men-
tre dalle attività pratiche ricaviamo, al di fuori dell’azione, un vantaggio
più o meno grande.
11 In più è comunemente ammesso che la felicità risiede nella vita
lontana dagli affari: infatti ci applichiamo intensamente a delle occupa-
zioni al fine d’avere del tempo libero da affari, e facciamo guerra per tra-
scorrere i nostri giorni in pace. Ora, l’attività delle virtù pratiche si espli-
ca nelle faccende politiche o nelle faccende militari; ma ad avviso di tutti
le azioni che concernono queste faccende sono la negazione del tempo
libero da occupazioni. Le azioni di guerra in modo assoluto (giacché nes-
suno sceglie la guerra per la guerra, né prepara una guerra fine a se
stessa: ché, se uno si facesse nemici gli amici perché abbiano luogo scon-
tri ed uccisioni, passerebbe per essere assolutamente sanguinario). Ma
anche l’attività dell’uomo politico è la negazione del tempo libero da oc-
cupazioni, poiché, al di fuori del puro fatto del governare lo stato, si pro-
cura potere e cariche onorifiche, o quanto meno la felicità, per sé e per i
cittadini: felicità che è diversa dall’attività politica e che anche noi ricer-
chiamo evidentemente come una cosa che è diversa.
12 [1177b] [...] Pertanto se fra le azioni conformi alle virtù quelle
politiche e militari occupano il primo posto per bellezza ed importanza,
ma queste azioni sono la negazione del tempo libero da occupazioni, e
tendono ad un fine, e non sono desiderabili per se stesse; se invece
l’attività dell’intelletto, la quale è attività contemplativa, eccelle – ad av-

236
viso di tutti – per la serietà e non tende a nessun fine all’infuori di se
medesima, ed ha il suo proprio piacere (e questo incrementerà
l’attività); se infine l’autosufficienza, il tempo libero da occupazioni, la
mancanza di fatiche per quel che è possibile all’uomo, e tutti gli altri ca-
ratteri che si attribuiscono all’uomo beato sono, in tutta chiarezza, i ca-
ratteri che si realizzano secondo questa attività: ebbene, quest’ultima
sarà la felicità perfetta dell’uomo, quando prende la lunghezza completa
della vita. Infatti nessuna delle caratteristiche della felicità è incompleta.
13 Però una vita siffatta sarà superiore alla condizione dell’uomo:
infatti non è in quanto è uomo che vivrà in questo modo, ma in quanto in
lui è presente qualcosa di divino. E di quanto questo eccelle sul compo-
sto, di tanto anche la sua attività eccelle su quella secondo l’altra specie
di virtù. Di conseguenza, se l’intelletto è una cosa divina rispetto
all’uomo, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita
dell’uomo.
14 Non si deve dare ascolto a coloro che consigliano di porre mente,
essendo uomini, a cose umane e non, essendo mortali, a cose immortali,
ma, per quanto è possibile, si deve diventare immortale e compiere ogni
cosa per vivere in modo conforme a quella che, tra le cose che sono
nell’individuo, è la più alta. Seppure infatti essa è piccola per la massa,
per potenza e dignità è di gran lunga superiore a tutte le cose.
15 E si converrà anche che ciascun uomo è questa cosa, se è vero
che essa è l’elemento principale e migliore. Sarebbe dunque un assurdo
se l’uomo non si scegliesse la vita che ci è propria, ma quella di un altro
essere.
16 Quello che abbiamo detto più sopra s’adatterà anche qui: infatti
ciò che è proprio a ciascuno è per natura ciò che per ciascuno vi è di più
alto e di più piacevole. E per l’uomo, dunque, sarà la vita secondo
l’intelletto, se è vero che quest’elemento è soprattutto l’uomo. Di conse-
guenza questa vita è anche la più felice109.

109 Aristotele, Etica Nicomachea, Bur, Milano, 1986, vol. II, pagg. 861-869.

237
POLITICA

La politica è un fatto naturale

[1252b] [...] La comunità che risulta di più villaggi è lo stato, perfet-


to, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza com-
pleta: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà esiste per
render possibile una vita felice. Quindi ogni stato esiste per natura, se
per natura esistono anche le prime comunità: infatti esso è il loro fine e
la natura è il fine: per esempio quel che ogni cosa è quando ha compiuto
il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo,
d’una casa. [1253a] Inoltre, ciò per cui una cosa esiste, il fine, è il meglio
e l’autosufficienza è il fine e il meglio. Da queste considerazioni è eviden-
te che lo stato è un prodotto naturale e che l’uomo per natura è un esse-
re socievole: quindi chi vive fuori della comunità statale per natura e
non per qualche caso o è un abietto o è superiore all’uomo, proprio co-
me quello biasimato da Omero “privo di fratria110, di leggi, di focolare”:
tale è per natura costui e, insieme anche bramoso di guerra, giacché è
isolato, come una pedina al gioco dei dadi. È chiaro quindi per quale
ragione l’uomo è un essere socievole molto più di ogni ape e di ogni capo
d’armento. Perché la natura, come diciamo, non fa niente senza scopo e
l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce indica quel che è doloro-
so e gioioso e pertanto l’hanno anche gli altri animali (e, in effetti, fin qui
giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso e
gioioso, e di indicarselo a vicenda), ma la parola è fatta per esprimere
ciò che è giovevole e ciò che è nocivo e, di conseguenza, il giusto e
l’ingiusto: questo è, infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali,
di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce
la famiglia e lo stato. E per natura lo stato è anteriore alla famiglia e a

110 Gruppo di appartenenza.

238
ciascuno di noi perché il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla
parte: infatti, soppresso il tutto non ci sarà più né piede né mano se non
per analogia verbale, come se si dicesse una mano di pietra (tale sarà
senz’altro una volta distrutta): ora, tutte le cose sono definite dalla loro
funzione e capacità, sicché, quando non sono più tali, non si deve dire
che sono le stesse, bensì che hanno il medesimo nome. È evidente dun-
que e che lo stato esiste per natura e che è anteriore a ciascun individuo:
difatti, se non è autosufficiente, ogni individuo separato sarà nella stessa
condizione delle altre parti rispetto al tutto, e quindi chi non è in grado
di entrare nella comunità o per la sua autosufficienza non ne sente il bi-
sogno, non è parte dello stato, e di conseguenza è o bestia o dio111.

111 Aristotele, Politica, 1252b 28- 1253a 29 in Opere, Laterza, Bari, 1973, vol. IX, pagg. 6-7

239
L’uomo e la centralità della politica

1 [1180b] Verosimilmente anche chi vuol rendere migliori gli uomi-


ni, molti o pochi che siano, mediante la sua cura, deve cercare di diven-
tare esperto della scienza del legislatore, se è per mezzo delle leggi che
possiamo divenire uomini dabbene. Infatti mettere una qualunque per-
sona, di fatto colui che ci è proposto, in una condizione moralmente
buona non è alla portata del primo venuto; ma, se spetta a qualcuno,
spetta a chi possiede scienza, come in medicina e nelle altre discipline di
cui vi sono una certa cura e saggezza.
2 Non bisogna dunque esaminare, dopo ciò, da quale fonte e come si
può diventare esperti della scienza del legislatore?
3 Non è forse, come nel caso delle altre scienze, dagli uomini politi-
ci? Infatti, come abbiamo visto, tutti ammettono che la scienza legislati-
va è parte della scienza politica.
4 Ma non è forse evidente che non è uguale la situazione della politi-
ca e delle altre scienze e capacità? Infatti nelle altre scienze sono in tutta
chiarezza le stesse persone che trasmettono le capacità e da esse eserci-
tano un’attività: ad esempio i medici, i pittori; invece le cose della politi-
ca sono i Sofisti che professano di insegnare, [1181a] ma nessuno di loro
le pratica, piuttosto coloro che fanno politica, i quali – tutti ne conver-
ranno – praticano questo compito per una certa capacità e per esperien-
za più che per un pensiero astratto: ché manifestamente essi né trattano
per iscritto né trattano oralmente di tali argomenti (eppure sarebbe
senz’altro più bello che pronunciare discorsi davanti ai tribunali e
all’assemblea del popolo), né inoltre hanno reso uomini politici i loro
figli o quelli di qualche loro amico. E sarebbe stato ben logico che
l’avessero fatto, se avessero potuto: né infatti alle loro città avrebbero
lasciato niente di migliore, né a se stessi avrebbero potuto scegliere che
nulla appartenesse più di siffatta capacità, né di conseguenza alle perso-
ne che sono loro più care.
5 Ma tuttavia non sembra che l’esperienza apporti un aiuto di poco
conto: ché essi non sarebbero diventati uomini politici senza una con-

240
suetudine con la politica. Per questo coloro che aspirano ad avere cono-
scenza della politica sembra che abbiano inoltre bisogno di esperienza.
6 Quelli dei Sofisti che lo professano, sono in tutta chiarezza molto
distanti dall’insegnare la politica, giacché in generale non sanno né qual
è la sua natura né quali sono i suoi oggetti. Infatti non la porrebbero i-
dentica alla retorica né ad un rango inferiore, né penserebbero che è co-
sa facile il legiferare, raccogliendo quelle leggi che hanno trovato
l’approvazione pubblica. Ché – essi dicono – è possibile scegliere le leggi
migliori, come se la scelta non fosse opera d’intelligenza ed il discernere
correttamente non fosse cosa di grandissima importanza, come avviene
nelle faccende di musica. Sono infatti i competenti che in ogni campo di-
scernono correttamente le opere e capiscono con quali mezzi e come
sono portate a perfezione, e quali s’accordano con quali persone. Invece
i non competenti devono esser già contenti del fatto che non sfugga loro
se l’opera è stata fatta bene o male, come nella pittura. Ora, le leggi as-
somigliano ad opere della politica. [1181b] Come dunque da queste si
potrebbe diventare esperti nella scienza del legislatore, o discernere
quelle che sono le migliori? Ché non risulta che neppure si diventa me-
dici dalle raccolte dei trattati. Eppure essi si sforzano di dire non soltan-
to i trattamenti terapeutici, ma anche come si guarisce e come si devono
curare le diverse specie di malati, distinguendo le differenti disposizioni.
Ma questi procedimenti – tutti ne convengono – sono utili per coloro che
sono competenti, mentre sono inutili per coloro che non sono compe-
tenti. Senza dubbio, dunque, anche le raccolte delle leggi e delle costitu-
zioni saranno ben utili per coloro che sono capaci di studiarle e di di-
scernere che cosa è buono e il contrario e quali prescrizioni sono adatte
a quali persone; ma a coloro che percorrono questo genere di raccolte
senza la disposizione richiesta non competerà il discernere bene, a me-
no che non sia per caso, ma verosimilmente diventeranno più capaci di
comprendere in questa materia.
7 Poiché dunque i nostri predecessori hanno lasciato inesplorato
ciò che concerne la scienza della legislazione, è senz’altro molto meglio
fare noi stessi questa ricerca, ed indagare dunque sul problema com-
plessivo del regime politico, perché, secondo le nostre capacità, sia por-
tata a compimento la filosofia delle cose dell’uomo. In primo luogo,
quindi, se da coloro che ci hanno preceduto qualcosa è stato in parte

241
detto bene, cercheremo di accostarcene. In seguito dalle costituzioni
che abbiamo raccolto cercheremo di vedere quali cose conservano e
rovinano le città e quali ciascun tipo di costituzione, e per quali cause
alcune città sono ben governate, altre il contrario. Infatti quando siano
state viste queste cose, forse comprenderemo meglio quale costituzio-
ne è la migliore, come ciascuna deve essere ordinata, di quali leggi e
costumi deve far uso112.

112 Aristotele, Etica Nicomachea, Bur, Milano, 1986, vol. II, pagg. 887-891

242
La schiavitù è un fatto naturale

1 [1254a] [...] Il termine “oggetto di proprietà” si usa allo stesso mo-


do che il termine “parte”: la parte non è solo parte d’un’altra cosa, ma
appartiene interamente a un’altra cosa: così pure l’oggetto di proprietà.
Per ciò, mentre il padrone è solo padrone dello schiavo e non appartiene
allo schiavo, lo schiavo non è solo schiavo del padrone, ma appartiene
interamente a lui.
2 Dunque, quale sia la natura dello schiavo e quali le sue capacità, è
chiaro da queste considerazioni: un essere che per natura non appartie-
ne a se stesso ma a un altro, pur essendo uomo, questo è per natura
schiavo: e appartiene a un altro chi, pur essendo uomo, è oggetto di pro-
prietà: e oggetto di proprietà è uno strumento ordinato all’azione e se-
parato.
[...]
3 Se esista per natura un essere siffatto o no, e se sia meglio e giusto
per qualcuno essere schiavo o no, e se anzi ogni schiavitù sia contro na-
tura è quel che appresso si deve esaminare. Non è difficile farsene
un’idea con il ragionamento e capirlo da quel che accade. Comandare ed
essere comandato non solo sono tra le cose necessarie, ma anzi tra le
giovevoli e certi esseri, subito dalla nascita, sono distinti, parte a essere
comandati, parte a comandare. E ci sono molte specie sia di chi coman-
da, sia di chi è comandato (e il comando migliore è sempre quello che si
esercita sui migliori comandati, per esempio su un uomo anziché su un
animale selvaggio, perché l’opera realizzata dai migliori è migliore e do-
ve c’è da una parte chi comanda, dall’altra chi è comandato, allora si ha
davvero un’opera di costoro). In realtà in tutte le cose che risultano di
una pluralità di parti e formano un’unica entità comune, siano tali parti
continue o separate, si vede comandante e comandato: questo viene nel-
le creature animate dalla natura nella sua totalità e, in effetti, anche negli
esseri che non partecipano di vita, c’è un principio dominatore, ad e-
sempio nel modo musicale. Ma ciò probabilmente appartiene a una ri-
cerca che esula dal nostro intento: il vivente, comunque, in primo luogo,
è composto di anima e di corpo, e di questi la prima per natura comanda,
243
l’altro è comandato. Bisogna esaminare quel che è naturale di preferen-
za negli esseri che stanno in condizione naturale e non nei degenerati,
sicché, anche qui, si deve considerare l’uomo che sta nelle migliori con-
dizioni e di corpo e d’anima, e in lui il principio fissato apparirà chiaro,
[1254b] mentre negli esseri viziati e che stanno in una condizione vizia-
ta si potrebbe vedere che spesso il corpo comanda sull’anima, proprio
per tale condizione abietta e contro natura.
4 Dunque, nell’essere vivente, in primo luogo, è possibile cogliere,
come diciamo, l’autorità del padrone e dell’uomo di stato perché l’anima
domina il corpo con l’autorità del padrone, l’intelligenza domina
l’appetito con l’autorità dell’uomo di stato o del re, ed è chiaro in questi
casi che è naturale e giovevole per il corpo essere soggetto all’anima, per
la parte affettiva all’intelligenza e alla parte fornita di ragione, mentre
una condizione di parità o inversa è nociva a tutti. Ora gli stessi rapporti
esistono tra gli uomini e gli altri animali: gli animali domestici sono per
natura migliori dei selvatici e a questi tutti è giovevole essere soggetti
all’uomo, perché in tal modo hanno la loro sicurezza. Così pure nelle re-
lazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore,
l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che
tra tutti gli uomini sia proprio in questo modo. Quindi quelli che differi-
scono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia (e si trova-
no in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle for-
ze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre), costoro sono per
natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di auto-
rità, proprio come nei casi citati. In effetti è schiavo per natura chi può
appartenere a un altro (per cui è di un altro) e chi in tanto partecipa di
ragione in quanto può apprenderla, ma non averla: gli altri animali non
sono soggetti alla ragione, ma alle impressioni. Quanto all’utilità, la dif-
ferenza è minima: entrambi prestano aiuto con le forze fisiche per la ne-
cessità della vita, sia gli schiavi, sia gli animali domestici. Perciò la natu-
ra vuol segnare una differenza nel corpo dei liberi e degli schiavi: gli uni
l’hanno robusto per i servizi necessari, gli altri eretto e inutile a siffatte
attività, ma adatto alla vita politica (e questa si trova distinta tra le oc-
cupazioni di guerra e di pace): spesso però accade anche il contrario, ta-
luni, cioè, hanno il corpo di liberi, altri l’anima, ché certo, se i liberi aves-
sero un fisico tanto diverso quanto le statue degli dèi, tutti, è evidente,

244
ammetterebbero che gli altri meritano di essere loro schiavi: e se questo
è vero nei riguardi del corpo, tanto più giusto sarebbe porlo nei riguardi
dell’anima: invece non è ugualmente facile vedere la bellezza dell’anima
e quella del corpo. [1255a] Dunque, è evidente che taluni sono per natu-
ra liberi, altri schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi.
[...]
5 [1255a] [...] Tuttavia non è difficile vedere che quanti ammettono
il contrario in qualche modo dicono bene. “Schiavitù” e “schiavo” sono
presi in due sensi: c’è in realtà uno schiavo e una schiavitù anche secon-
do la legge e questa legge è un accordo per cui ciò che si è vinto in guer-
ra dicono appartenere al vincitore. Ora questo diritto molti giuristi accu-
sano d’illegalità come si accusa un oratore: essi trovano strano che, se
uno è in grado di esercitare violenza ed è superiore in forza, l’altro, la
vittima, sia schiavo e soggetto. E anche tra i dotti c’è chi la pensa in que-
sto modo, chi in quello.
[...]
6 [1255b] [...] È chiaro dunque che la discussione ha un certo motivo
e non sempre ci sono da una parte gli schiavi per natura, dall’altra i libe-
ri e che in certi casi la distinzione esiste e che allora agli uni giova
l’essere schiavi, agli altri l’essere padroni e gli uni devono obbedire, gli
altri esercitare quella forma di autorità a cui da natura sono stati dispo-
sti e quindi essere effettivamente padroni: al contrario esercitare male
l’autorità comporta un danno per tutt’e due (la parte e il tutto, come il
corpo e l’anima, hanno gli stessi interessi e lo schiavo è una parte del
padrone, è come se fosse una parte del corpo viva ma separata: per ciò
esiste un interesse, un’amicizia reciproca tra schiavo e padrone nel caso
che hanno meritato di essere tali da natura: quando invece tali rapporti
sono determinati non in questo modo, ma solo in forza della legge e del-
la violenza, è tutto il contrario113.

Aristotele, Politica, 1254a 8-1255a 2; 1255a 5-12; 1255b 5-15 in Opere, Laterza, Bari,
113

1973, vol. IX

245
I rapporti gerarchici sono naturali

[1253b] Poiché è chiaro di quali parti risulta lo stato, è necessario in


primo luogo parlare dell’amministrazione familiare: infatti ogni stato è
composto di famiglie. Elementi dell’amministrazione familiare sono
quelli da cui, a sua volta, risulta la famiglia e la famiglia perfetta si com-
pone di schiavi e di liberi. Siccome ogni cosa dev’essere studiata prima
di tutto nei suoi elementi più semplici e gli elementi primi e più semplici
della famiglia sono padrone e servo, marito e moglie, padre e figli, intor-
no a questi tre rapporti si ha da ricercare quali devono essere la natura e
le qualità di ciascuno: si tratta del rapporto padronale, matrimoniale
(manca un termine preciso per indicare la relazione tra uomo e donna)
e, in terzo luogo, quello risultante dalla procreazione di figli (perché an-
che questo non è denominato con denominazione propria). Siano, dun-
que, questi <i> tre rapporti di cui abbiamo parlato. C’è poi un elemento
che per taluni costituisce l’amministrazione domestica, per altri
l’elemento più importante di essa: e come stanno le cose conviene esa-
minare – alludo alla cosiddetta crematistica. Parliamo, dunque, in primo
luogo, del padrone e del servo per vedere ciò che concerne i bisogni ne-
cessari e, inoltre, se riusciamo a fissare, nei loro riguardi, qualche ele-
mento più fondato di quelli adesso accettati. A taluni pare che il governo
del padrone sia una scienza determinata e che l’amministrazione della
casa, il governo del padrone dell’uomo di stato e del re siano la stessa
cosa, come abbiamo detto all’inizio: per altri l’autorità padronale è con-
tro natura (giacché la condizione di schiavo e di libero esistono per leg-
ge, mentre per natura non esiste tra loro differenza alcuna): per ciò non
è affatto giusta, in quanto fondata sulla violenza114.

114 Aristotele, Politica, 1253b 1-23 in Opere, Laterza, Bari, 1973, vol. IX, pag. 8

246
I suggerimenti per la costituzione della famiglia

[1335b] [...] Le donne incinte devono prendersi cura del corpo, sen-
za darsi all’inerzia né attenersi a una dieta scarsa: e questo il legislatore
lo può facilmente ottenere ordinando di fare ogni giorno una passeggia-
ta come atto di culto verso le dee che hanno avuto in sorte di presiedere
alla nascita. Ma lo spirito conviene che, al contrario del corpo, se ne ri-
manga in completa rilassatezza, perché i bambini sono evidentemente
influenzati dalla madre che li porta, come le piante dalla terra. Quanto
all’esposizione e all’allevamento dei piccoli nati sia legge di non allevare
nessun bimbo deforme, mentre le disposizioni consacrate dal costume
impongono di non esporne nessuno, a causa dell’eccessivo numero dei
figli: si deve però fissare un limite alla procreazione e se alcune coppie
sono feconde oltre tale limite, bisogna procurare l’aborto, prima che nel
feto siano sviluppate la sensibilità e la vita, perché è la sensibilità e la
vita che determinano la colpevolezza e la non colpevolezza dell’atto. E
dal momento che è stato definito e per l’uomo e per la donna quando
comincia l’età in cui devono dare inizio alla loro unione, si stabilisca pu-
re per quanto tempo conviene che servano lo stato nell’ufficio di prolifi-
care. I figli di chi è avanti negli anni, come di chi è giovane, vengono im-
perfetti e nel corpo e nello spirito; quelli di chi è vecchio vengono deboli.
Perciò tale periodo è in rapporto al massimo vigore della mente – e que-
sto nella maggior parte degli uomini, come han detto alcuni poeti che
misurano la vita in settenni, si ha intorno ai cinquanta anni. Per ciò chi
oltrepassa di quattro o cinque anni quest’età, conviene si astenga dal
metter al mondo figli: del resto, o per la salute, o per un altro motivo del
genere, deve apertamente ricorrere a tale unione. Quanto ai rapporti
con altra persona, donna o uomo, sia in ogni caso condannato chi ha a-
pertamente tali relazioni, per qualunque motivo, in qualunque modo,
finché permane il titolo di coniuge: se poi uno si mostri a far ciò durante
il tempo [1136a] riservato alla procreazione dei figli, sia punito con
l’atimia115 proporzionata alla colpa116.

Atimía significa disonore, ma anche privazione dei diritti civili


115

Aristotele, Politica, 1335b 14- 1336a 1 in Opere, Laterza, Bari, 1973, vol. IX, pagg. 258-
116

259

247
LA LOGICA

Il significato delle parole

Quali siano i significati delle parole? Da una parte esse sono “simboli” delle affezio-
ni che hanno luogo nell’anima, dall’altra sono “suoni di voce significativi per convenzio-
ne”.

1 [16a] Occorre stabilire, anzitutto, che cosa sia nome e che cosa sia
verbo, in seguito, che cosa sia negazione, affermazione, giudizio e di-
scorso.
2 Ordunque, i suoni della voce sono simboli delle affezioni che han-
no luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli dei suoni della voce.
Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così
neppure i suoni sono i medesimi; tuttavia, suoni e lettere risultano se-
gni, anzitutto, delle affezioni dell’anima, che sono le medesime per tutti e
costituiscono le immagini di oggetti, già identici per tutti. Orbene, di
questi argomenti si è parlato nei libri che riguardano l’anima: essi ap-
partengono infatti ad una disciplina differente. D’altro canto, come
nell’anima talvolta sussiste una nozione, che prescinde dal vero o dal
falso, e talvolta invece sussiste qualcosa, cui spetta necessariamente o di
essere vero o di essere falso, così avviene pure per quanto si trova nel
suono della voce. In effetti, il falso ed il vero consistono nella congiun-
zione e nella separazione. In sé, i nomi ed i verbi assomigliano dunque
alle nozioni, quando queste non siano congiunte a nulla né separate da
nulla; essi sono ad esempio i termini uomo, o: bianco, quando manchi
una qualche precisazione, poiché in tal caso non sussiste ancora né falsi-
tà né verità. Ciò è provato dal fatto, ad esempio, che il termine becco-
cervo significa bensì qualcosa, ma non indica ancora alcunché di vero o
di falso, se non è stato aggiunto l’essere oppure il non essere, con una
determinazione assoluta o temporale.
3 Il nome è così suono della voce, significativo per convenzione, il

248
quale prescinde dal tempo ed in cui nessuna parte è significativa, se con-
siderata separatamente117.

117 Aristotele, De interpretatione, 16a 1-20, in Organon, Laterza, Bari, 1984, vol. I, pag. 57-
58

249
Sapere epistemico e sapere noetico (Analitici secondi)

La scienza si fonda su principi che, in quanto tali, non sono oggetto di


scienza (del ragionamento discorsivo), perché “il principio della dimostra-
zione non è una dimostrazione”. Essi sono conoscibili solo per mezzo
dell’unica facoltà della ragione che è superiore alla scienza, cioè
l’intuizione intellettuale, chiamata significativamente anche “facoltà dei
principi”.

Analitici secondi, 100a 15-100b 16

[100a] [...] Questo è stato già detto da noi or ora, ma non in modo
chiaro, e val la pena di ripeterlo ancora. In realtà, quando un solo ogget-
to, cui non possono applicarsi differenze, si arresta in noi, allora per la
prima volta si presenta nell’anima l’universale (poiché si percepisce
bensì l’oggetto singolo, ma la sensazione si rivolge all’universale, per e-
sempio, all’uomo, non già all’uomo Callia); [100b] poi rispetto a questi
oggetti si verifica in noi un ulteriore acquietarsi, sino a che nell’anima si
arrestano gli oggetti che non hanno parti e gli universali. Ad esempio,
partendo da un certo animale, si procede sino all’animale, e poi rispetto
a quest’ultimo avviene lo stesso. È dunque evidentemente necessario
che noi giungiamo a far conoscere gli elementi primi con l’induzione. In
effetti, già la sensazione produce a questo modo l’universale. Ora, tra i
possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcu-
ni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l’errore; tra
questi ultimi sono, ad esempio, l’opinione e il ragionamento, mentre i
possessi sempre veraci sono la scienza e l’intuizione, e non sussiste al-
cun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all’infuori
dell’intuizione. Ciò posto, e dato che i principi risultano più evidenti del-
le dimostrazioni, e che, d’altro canto, ogni scienza si presenta congiunta
alla ragione discorsiva, in tal caso i principi non saranno oggetto di
scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se
non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i princi-
pi. Tutto ciò risulta provato, tanto se si considerano gli argomenti che
precedono, quanto dal fatto che il principio della dimostrazione non è
250
una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza
risulterà una scienza. E allora, se oltre alla scienza non possediamo al-
cun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il prin-
cipio della scienza. Così, da un lato l’intuizione risulterà il principio del
principio, e d’altro lato la scienza nel suo complesso sarà in questo stes-
so rapporto rispetto alla totalità degli oggetti118.

118 Aristotele, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1973, pagg. 372-373

251
Induzione e deduzione (Analitici secondi)

Nella conoscenza sono importanti sia il processo induttivo, che parte dalle sensa-
zioni e tende all’universale, sia il processo deduttivo, che segue il procedimento inverso
e si fonda sulla dimostrazione.

Analitici secondi, 81a 40-81b 9

[81a] [...] noi impariamo o per induzione, o mediante dimostrazio-


ne. Orbene, la dimostrazione parte [81b] da proposizioni universali,
mentre l’induzione si fonda su proposizioni particolari; non è tuttavia
possibile cogliere le proposizioni universali, se non attraverso
l’induzione, poiché anche le nozioni ottenute per astrazione saranno re-
se note mediante l’induzione, quando cioè si provi che alcune determi-
nazioni appartengono ad un singolo genere in quanto tale, sebbene non
risultino separabili dagli oggetti della sensazione. D’altro canto, è impos-
sibile che chi non possiede sensazione venga guidato induttivamente. La
sensazione si rivolge infatti agli oggetti singolari: in tal caso, non è pos-
sibile acquistare la scienza di questi oggetti, dato che da proposizioni
universali non la si può trarre senza induzione, e che mediante
l’induzione non la si può raggiungere senza la sensazione.119

119 Aristotele, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1973, pagg. 300-301

252
I tre usi della dialettica (Topici)

Nei "Topici" Aristotele distingue tre diversi usi della dialettica: 1) la dialettica è
strumento utile ad esercitare la mente al ragionamento; 2) è utile a dialogare con gli al-
tri; 3) è utile alla ricerca filosofica.

Questo trattato si propone di trovare un metodo che ci renda capaci di


ragionare deduttivamente, a partire da endossa, su tutti i temi che ci si
possono presentare; così quando dovremo affrontare un argomento non
diremo nulla che sia contrario. Ora, per poter comprendere la natura
della deduzione dialettica dobbiamo cominciare col dire che cos’è un ra-
gionamento deduttivo e quali tipi ve ne siano. E’ questo l’oggetto specifi-
co delle ricerche condotte nel nostro trattato. Un ragionamento dedutti-
vo è una forma di argomentazione in cui, poste alcune cose, ne deriva
necessariamente una cosa diversa da quelle che sono state poste, per il
fatto stesso che sono state poste. Si tratta di un dimostrazione quando i
punti di partenza della deduzione sono affermazioni vere e prime, o al-
meno affermazioni che conosciamo perché derivano da certe afferma-
zioni prime e vere; si tratta invece di una deduzione dialettica quando i
punti di partenza della deduzione sono endossa. Sono vere e prime le
affermazioni che ci convincono di per sé, non perché siano fondate su
qualche altro ragionamento (infatti, quando ci troviamo di fronte ai
prìncipi primi della conoscenza non possiamo porre ulteriormente la
domanda sul loro fondamento: ciascuno di essi, in sé considerato, deve
essere totalmente convincente); sono invece endossa le opinioni condi-
vise da tutti gli uomini, o quasi da tutti, o da coloro che consideriamo più
autorevoli e, tra questi ultimi, condivise da tutti o quasi, o da coloro di
cui abbiamo ragione di fidarci di più. Una deduzione, poi, è eristica
quando prende come punto di partenza idee che hanno l’aria di essere
degli endossa, ma non lo sono realmente; la deduzione eristica, quindi,
ha l’aria di essere una deduzione dialettica, ma non lo è affatto. Non pos-
siamo infatti pensare che tutto ciò che ci si presenta come endossa lo sia
davvero: non abbiamo elementi per riconoscere a prima vista gli endos-
sa autentici, mentre accade che il ragionamento eristico lo si riconosce

253
più facilmente. In questo tipo di ragionamento, infatti, la natura
dell’inganno è subito chiara con grande evidenza se si è in grado di os-
servare le cose con finezza. Delle due forme qui distinte possiamo chia-
mare la prima deduzione eristica, ma allo stesso tempo anche deduzione
dialettica vera e propria, mentre chiameremo la seconda deduzione eri-
stica, ma non anche deduzione dialettica, perché sembra esserlo ma non
lo è affatto. Ai diversi tipi di ragionamenti deduttivi che abbiamo indica-
to è necessario aggiungere i paralogismi, che sono forme di ragionamen-
to proprie di determinate scienze, per esempio della geometria o delle
discipline dello stesso tipo. I paralogismi sono ragionamenti ben distinti
da quelli che abbiamo prima descritto perché chi ragiona a partire da
una figura che contiene un errore non parte né da affermazioni vere e
prime né da endossa (il suo punto di partenza è diverso: non parte da
opinioni condivise da tutti gli uomini, o quasi da tutti, o da coloro che
consideriamo più autorevoli e, tra questi ultimi, condivise da tutti o qua-
si, o da coloro di cui abbiamo ragione di fidarci di più). Nel suo ragiona-
mento parte piuttosto da considerazioni che sono proprie delle scienze
considerate; solo che si tratta di considerazioni errate. Infatti, tracciando
dei semicerchi in modo sbagliato, o disegnando delle linee in modo di-
verso da come si dovrebbe, si finisce col fare dei paralogismi. Sono que-
sti quindi, per sommi capi, i vari tipi di ragionamento deduttivo. Dob-
biamo subito osservare che, per tutte le distinzioni che abbiamo fatto,
come per quelle che faremo in seguito, approfondiremo il discorso fino
al punto in cui lo abbiamo fatto fin qui, poi ci fermeremo e non andremo
oltre: il nostro obiettivo, infatti, non è di dare per ciascuno degli oggetti
delle nostre distinzioni una descrizione rigorosa e del tutto esatta; vo-
gliamo soltanto presentarle sommariamente, perché pensiamo che que-
sto sia ampiamente sufficiente. L’obiettivo che vogliamo raggiungere,
infatti, è che si possa riconoscere subito di che tipo di ragionamento si
tratta. Dopo quanto abbiamo detto, sarà bene indicare il numero e la na-
tura dei vantaggi che è legittimo attendersi dal presente trattato. Ora, la
dialettica consente di fare bene tre cose: tenere la mente in esercizio,
dialogare con gli altri, fare ricerca filosofica. Che la dialettica possa ser-
vire a tenere la mente in esercizio deriva dalla sua natura: infatti, una
volta imparato il metodo, possiamo più facilmente ragionare su qualsiasi
argomento ci si presenti. E’ utile per dialogare con gli altri perché ci

254
rende capaci di conoscere a fondo le opinioni degli uomini: e così quan-
do parleremo con le altre persone per convincerle a rinunciare ad af-
fermazioni che ci sembrano del tutto inaccettabili, non partiremo da
convinzioni che sono loro estranee, ma partiremo proprio dalle loro ide-
e. Che la dialettica sia utile per fare ricerca filosofica deriva da questo,
che con essa diveniamo capaci di mettere in luce una aporia argomen-
tando in una direzione e nell’altra, e saremo quindi in grado di distin-
guere su ciascun argomento il vero e il falso. La dialettica, poi, può es-
serci di utilità anche in un’altra cosa, a proposito delle nozioni prime di
ciascuna scienza. E’ impossibile infatti dire su che cosa si fondino i prin-
cipi specifici di una scienza che vogliamo studiare, perché i principi sono
proprio ciò che viene prima di ogni altra cosa per quella scienza: devono
quindi essere definiti a partire dagli endossa. Questo compito è proprio
della dialettica, o almeno è soprattutto della dialettica: infatti la sua vo-
cazione alla ricerca la rende adatta a studiare i principi di tutte le scien-
ze. Ci saremo pienamente impadroniti del metodo quando ne avremo la
stessa padronanza che altri hanno della retorica, della medicina e delle
altre scienze. Non possiamo infatti dire che l’oratore convince sempre il
suo pubblico, e neppure che il medico guarisce sempre l’ammalato: ma
se l’oratore e il medico hanno fatto tutto quello che potevano fare con i
mezzi a loro disposizione, possiamo certamente dire che essi hanno il
pieno possesso del sapere della loro arte. Per prima cosa, adesso, dob-
biamo esaminare quali sono gli elementi costitutivi del nostro metodo.
Se potremo conoscere il numero e la natura degli oggetti su cui è possi-
bile costruire i nostri ragionamenti e identificare i loro elementi costitu-
tivi; se potremo imparare come si fa a non essere mai a corto di argo-
mentazioni; allora potremo considerare davvero concluso il nostro pro-
gramma di lavoro. Ora, c’è una identità di numero e di natura tra gli e-
lementi costitutivi dei ragionamenti e gli oggetti propri delle deduzioni
dialettiche. Infatti gli elementi costitutivi del ragionamento sono le pre-
messe, mentre gli oggetti sui quali vertono le deduzioni sono i problemi.
Ogni premessa, come ogni problema, mostra o il genere, o il proprio o un
accidente (non aggiungiamo la differenza, perché essendo di natura ge-
nerica deve essere compresa nel genere). Ma poiché accade talvolta che
il proprio esprima ciò che conta dell’essenza di un oggetto, e talvolta ac-
cade che non la esprima, dividiamo il proprio nelle due parti corrispon-

255
denti e lo chiamiamo "definizione" quando esprime l’essenza, mentre
nell’altro caso lo chiamiamo semplicemente "proprio", in generale. A
causa di queste considerazioni, è chiaro che le distinzioni che stiamo fa-
cendo portano a quattro termini in tutto: proprio, definizione, genere,
accidente. Tuttavia attenzione: noi non sosteniamo che ciascuno di que-
sti quattro termini costituisca in sé una premessa o un problema; dicia-
mo soltanto che è all’origine dei problemi e delle premesse. Tra un pro-
blema e una premessa c’è una differenza nel modo in cui li esprimiamo.
Infatti se si dice: "Animale terrestre bipede è la definizione dell’uomo?",
oppure: "L’essere animale è il genere dell’uomo?" questa è una premes-
sa; ma se si dice: "Possiamo o no dire che animale terrestre bipede sia
una definizione dell’uomo?" allora è un problema; e così è per casi ana-
loghi. Per conseguenza è del tutto ovvio che problemi e premesse siano
in numero uguale, perché da ogni premessa si può formare un problema,
sostituendo semplicemente una espressione con un’altra. (…) Comin-
ciamo quindi col determinare che cos’è una premessa dialettica e che
cos’è un problema dialettico. Sarebbe un errore, infatti, considerare ogni
premessa e ogni problema come dialettici; infatti nessuna persona ra-
gionevole proporrebbe come premessa un’opinione universalmente ri-
fiutata, e non porrebbe come problema una questione perfettamente
chiara per tutti; in quest’ultimo caso non c’è alcuna ragione di dubbio e
nel caso precedente non c’è nessun motivo di far quella scelta. Una pre-
messa dialettica nasce dal mettere in forma interrogativa un’idea am-
messa da tutti, o da quasi tutti o da coloro che rappresentano l’opinione
più accreditata, e di questi ultimi l’opinione di tutti o di quasi tutti, o dei
più noti; ma non deve essere un paradosso; infatti un’idea che fa parte di
una opinione condivisa ha tutte le possibilità di essere accolta sempre
che non contraddica l’opinione comune. Sono ancora premesse dialetti-
che gli enunciati che somigliano alle idee accolte; lo sono anche quelle
contrarie alle idee accolte, ma in forma negativa; lo sono infine tutte le
opinioni in accordo con le scienze e le tecniche ben consolidate. ( …) Si
presenterà poi come un’idea egualmente accolta, per comparazione con
un enunciato dato, quella che enuncia il contrario a proposito del con-
trario: per esempio, se bisogna trattare bene i propri amici, bisogna trat-
tare male i propri nemici. C’è però apparentemente un contrasto tra il
trattare bene i propri amici e il trattare male i propri nemici; ma se si dà

256
veramente questo caso o no, lo diremo quando tratteremo espressamen-
te dei contrari. E’ chiaro infine che tutte le opinioni in accordo con le
scienze e le tecniche sono delle premesse dialettiche perché le opinioni
di coloro che hanno studiato queste materie hanno ogni possibilità di
essere accettate, per esempio quelle dei medici in materia di medicina,
quelle dei geometri in materia di geometria e così gli altri." Un problema
dialettico è una questione il cui obiettivo può essere sia l’alternativa pra-
tica tra la scelta e un rifiuto, sia l’acquisizione di una verità e di una co-
noscenza; una questione che sia tale sia in se stessa, sia come mezzo che
permetta di risolvere una questione distinta da essa, nell’uno o nell’altro
di questo generi; una questione, infine, che tratti un argomento su cui
non ci sono opinioni in un senso o nell’altro, o su cui l’opinione media
contraddica l’opinione più qualificata, o in cui l’opinione più qualificata
contraddica l’opinione media o in cui ciascuna delle due sia in se stessa
contraddittoria. Alcuni problemi infatti è utile risolverli soprattutto per
sapere se vanno presi o lasciati, per esempio il problema di sapere se il
piacere deve o no essere scelto; altri sono utili a fini di pura conoscenza
come sapere se il mondo è eterno o no. Altri ancora non hanno in sé nes-
suno di questi due caratteri, ma sono degli strumenti che permettono di
risolvere problemi di un tipo o dell’altro; e infatti vi sono cose che noi
speriamo di conoscere non in se stesse ma in vista di altro, per conosce-
re altre cose grazie ad esse. Sono problemi dialettici anche le questioni
sulle quali esistono argomentazioni deduttive di segno opposto (si esita
allora a rispondere mediante un’affermazione o una negazione perché
esistono per entrambi delle argomentazioni persuasive); poi vi sono le
questioni a proposito delle quali non abbiamo argomenti da dare, tanto
sono vasti, e su cui riteniamo difficile motivare le nostre scelte, per e-
sempio sapere se il mondo è eterno o no; argomenti di questo genere
possono diventare l’oggetto di una ricerca. Diamo dunque per acquisite
le definizioni che abbiamo appena dato sui problemi e le premesse. La
tesi dialettica Una tesi è un pensiero paradossale, sostenuto da qualche
filosofo molto noto: per esempio, che è impossibile contraddire, come ha
detto Antistene, o che tutte le cose sono in movimento, come dice Eracli-
to, o che l’essere è uno, come dice Melisso (va notato che se fosse il pri-
mo venuto a proporre paradossi simili sarebbe assurdo prestarvi atten-
zione); sono tesi anche gli enunciati paradossali in favore dei quali di-

257
sponiamo di una argomentazione, per esempio quello che dichiara falso
che tutto ciò che è deve necessariamente o essere divenuto, o essere e-
terno, come hanno sostenuto i sofisti; infatti se uno è grammatico ed è
anche musicista non è né divenuto né eterno; ecco una conclusione che
alcuni rifiutano, ma che ha dei numeri per essere accettata, perché ha un
argomento a suo favore. Anche una tesi è dunque, in fondo, un proble-
ma; ma non ogni problema è una tesi, perché alcuni problemi sono que-
stioni di natura tale che non abbiamo alcuna opinione, né in un senso né
in un altro. Che una tesi sia anche un problema, è chiaro; dopo quanto
abbiamo detto, infatti, va necessariamente ammesso che la tesi sia og-
getto di uno scontro di opinioni, sia tra le opinioni comuni e quelle degli
esperti, sia all’interno dell’uno o dell’altro di questi gruppi, perché una
tesi è un pensiero paradossale. Ma in pratica, attualmente, si chiamano
tesi tutti i problemi dialettici; poco importa d’altra parte che li si chiami
in un modo o nell’altro; perché se distinguiamo come abbiamo fatto le
due nozioni, non è per volontà di creare un vocabolo nuovo, ma perché
le differenze che possono realmente esistere tra loro non ci sfuggano.
Non bisogna indagare qualsiasi problema e qualsiasi tesi, ma soltanto
quelle che potrebbero mettere in imbarazzo un interlocutore che merita
da noi una risposta razionale, e non soltanto che lo si corregga o lo si ri-
mandi all’esperienza; coloro infatti che sollevano la questione se la neve
è bianca o meno, non meritano che di essere rinviati all’esperienza. Non
vanno poi esaminati i casi in cui la dimostrazione sarebbe immediata, né
quelli in cui sarebbe troppo lunga; perché i primi non mettono in imba-
razzo nessuno, mentre i secondi sollevano questioni tali che non posso-
no essere trattati nei limiti di un esercizio dialettico120.

120 Aristotele, Topici, I, 1-4, 10-11

258
Sul sillogismo

Il sillogismo, inoltre, è un discorso in cui, posti taluni oggetti, alcun-


ché di diverso dagli oggetti stabiliti risulta necessariamente, per il fatto
che questi oggetti sussistono. Con l’espressione: per il fatto che questi
oggetti sussistono, intendo dire che per mezzo di questi oggetti discende
qualcosa, e d’altra parte con l’espressione: per mezzo di questi oggetti
discende qualcosa, intendo dire che non occorre aggiungere alcun ter-
mine esterno per sviluppare la deduzione necessaria.
(Analitici primi)

Per dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico, e scien-


tifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di posseder-
lo, noi sappiamo. Se il sapere è dunque tale, quale abbiamo stabilito, sarà
pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di
premesse vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori
ad essa, e che siano cause di essa: a questo modo, infatti, pure i principi
risulteranno propri dell’oggetto provato. […] Il sillogismo scientifico de-
ve inoltre costituirsi sulla base di proposizioni prime, indimostrabili,
poiché altrimenti non si avrebbe sapere, non possedendosi dimostra-
zione di esse. In realtà, il conoscere - non accidentalmente - gli oggetti la
cui dimostrazione è possibile, consiste nel possedere la dimostrazione.
(Analitici secondi)

259
Le proposizioni apofantiche

1 Ogni discorso è poi significativo, non già alla maniera di uno stru-
mento naturale, bensí, secondo quanto si è detto, per convenzione. Di-
chiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste
un’enunciazione vera oppure falsa. Tale enunciazione non sussiste certo
in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non risulta né vera
né falsa. Prescindiamo dunque dagli altri discorsi, dal momento che
l’indagine al riguardo è più pertinente alla retorica o alla poetica. Il di-
scorso dichiarativo spetta invece alla presente considerazione.
2 Il primo discorso dichiarativo, che sia unitario, è l’affermazione; in
seguito viene la negazione. ogni altro discorso è invece unitario per un
collegamento. È del resto necessario, che ogni discorso dichiarativo de-
rivi da un verbo o da una flessione del verbo; in realtà, anche il discorso
definitorio dell’uomo, quando non sia stato aggiunto: è, o era, o sarà, o
qualcosa di simile, non risulta ancora un discorso dichiarativo. Per tale
ragione inoltre l’espressione: animale terrestre bipede, costituisce
un’unità, e non invece una molteplicità. Essa risulterà una, in realtà, non
certo per il fatto che i suoi termini siano stati enunciati in una succes-
sione immediata. Il dire ciò spetta tuttavia ad una diversa trattazione. Il
discorso dichiarativo è comunque uno solo, se rivela un’unità oppure se
risulta unitario per un collegamento, mentre si hanno molti discorsi di-
chiarativi, quando questi rivelano, non già un’unità, bensí molti oggetti,
oppure quanto essi mancano di un collegamento. Il nome, o il verbo, sa-
rà dunque da considerarsi semplicemente come un termine detto, non
potendosi sostenere che faccia una dichiarazione colui che rivela a que-
sto modo qualcosa con la voce, sia poi che una persona lo interroghi,
oppure che ciò non avvenga, ed egli stesso si esprima spontaneamente. I
discorsi dichiarativi unitari, d’altro canto, si distinguono in dichiarazioni
semplici, giudizi, se ad esempio qualcosa viene attribuito a qualcosa, o
qualcosa viene separato da qualcosa, ed in dichiarazioni formate da più
dichiarazioni semplici, come nel caso di un discorso già composto. La
dichiarazione semplice, orbene, è suono della voce, significativo per
quanto riguarda l’eventuale appartenenza o non appartenenza di qual-
260
cosa, secondo le divisioni del tempo.
3 L’affermazione è il giudizio, che attribuisce qualcosa a qualcosa. La
negazione è invece il giudizio, che separa qualcosa da qualcosa. D’altra
parte, poiché si può dichiarare, sia che ciò che appartiene a qualcosa non
vi appartiene, sia che ciò che non appartiene a qualcosa vi appartiene,
sia che ciò che appartiene a qualcosa vi appartiene, sia che ciò che non
appartiene a qualcosa non vi appartiene, e poiché lo stesso si può dire
rispetto ai tempi all’infuori del presente, risulterà così possibile sia ne-
gare tutto ciò che qualcuno ha affermato, sia affermare tutto ciò che
qualcuno ha negato. È dunque evidente, che ad ogni affermazione risulta
contrapposta una negazione, e ad ogni negazione un’affermazione121.

121Aristotele, De Interpretatione, 17a 1-32, in Organon, Laterza, Bari, 1970, vol. II, pagg.
60-61

261
Le Categorie: sostanze prime e sostanze seconde

[2a] [...] “Sostanza” nel senso più proprio, in primo luogo e nella più
grande misura, è quella che non si dice di un qualche sostrato, né è in un
qualche sostrato, ad esempio, un determinato uomo, o un determinato
cavallo. D'altro canto, sostanze seconde si dicono le specie, cui sono im-
manenti le sostanze che si dicono prime, ed oltre alle specie, i generi di
queste. Ad esempio, un determinato uomo è immanente a una specie,
cioè alla nozione di uomo, e d'altra parte il genere di tale specie è la no-
zione di animale. [...]
[2b] [...] la ragione per cui le sostanze prime si dicono sostanze in
massimo grado consiste nel fatto che esse stanno alla base di tutti gli al-
tri oggetti, e che tutti gli altri oggetti si predicano di esse, oppure sussi-
stono in esse. [...]
È così giustificato, prescindendo dalle sostanze prime, che le specie
e i generi siano i soli tra gli oggetti a dirsi “sostanze seconde”: tra i pre-
dicati, in effetti, essi solo rivelano la sostanza prima. Se qualcuno, invero,
deve spiegare che cos'è un determinato uomo, dà una spiegazione ap-
propriata fornendo la specie oppure il genere; d'altra parte, dichiarando
che tale oggetto è “uomo”, lo rende più noto di quanto non faccia dichia-
rando che è “animale”. Nel caso invece che costui fornisca una qualche
altra nozione, dicendo ad esempio che un determinato uomo è “bianco”
o “corre”, oppure facendo una qualsiasi altra dichiarazione consimile,
avrà dato una spiegazione estranea all'oggetto. é di conseguenza giusti-
ficato che tra gli altri oggetti soltanto quelli nominati si dicano sostanze.
[3a] Oltre a ciò, le sostanze prime sono sostanze nel senso più pro-
prio in quanto stanno alla base di tutti gli altri oggetti. Orbene, precisa-
mente allo stesso modo con cui le sostanze prime si comportano rispetto
a tutti gli altri oggetti, così si comportano rispetto a tutti i rimanenti le
specie e i generi delle sostanze prime. In realtà, tutti i rimanenti oggetti
vengono predicati delle specie e dei generi. Tu dirai infatti di un deter-
minato uomo che è “grammatico”, e quindi dirai pure di uomo e di ani-
male che è “grammatico”. Lo stesso vale per gli altri casi122.

122 Aristotele, Categorie, 2a 11-18; 2b 15-17; 2b 30-3a 7, in Opere, vol. I, Laterza, Bari,

1973, pagg. 8-10

262
POETICA E RETORICA

La catarsi

Tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in se stes-


sa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di
abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma
drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che su-
scitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da
siffatte passioni123.

123 Aristotele, Poetica, 6, 1449b 24-28, trad. di M. Valgimigli

263
264
SOMMARIO

INTRODUZIONE .................................................................................................3
QUADRO STORICO CULTURALE .............................................................................3
VITA E OPERE........................................................................................................4
IL CONFRONTO CON IL MAESTRO PLATONE E LA QUESTIONE DELLA CRITICA ALLA
TEORIA DELLE IDEE. .............................................................................................8
LA FILOSOFIA COME “SCIENZA PRIMA” E LA CLASSIFICAZIONE DELLE SCIENZE.14
IL PRIMATO DELLA METAFISICA......................................................................... 17
LA METAFISICA............................................................................................... 19
LA FISICA ........................................................................................................... 45
LA COSMOLOGIA ........................................................................................... 51
LA BIOLOGIA .................................................................................................. 57
LA PSICOLOGIA ...............................................................................................59
LA MATEMATICA ........................................................................................... 62
L'ETICA............................................................................................................... 65
LA POLITICA..................................................................................................... 68
LA LOGICA ......................................................................................................... 71
LA RETORICA................................................................................................... 79
LA POETICA ...................................................................................................... 81
ANTOLOGIA CRITICA.................................................................................... 96
DALLA PÒLIS ALL’IMPERO .................................................................................. 97
LE DETERMINAZIONI ARISTOTELICHE DELLA METAFISICA ............................. 101
LE QUATTRO CAUSE OVVERO IL PERCHÉ DELLE COSE ..................................... 104
DALLA FINALITÀ DEL DIVENIRE ALLA TEOLOGIA: LA CONCEZIONE ARISTOTELICA
DI DIO ............................................................................................................. 107
DIO È CAUSA PRIMA ....................................................................................... 109

265
IL PASSAGGIO DAL DIVENIRE ALL’IMMUTABILE .............................................. 112
LA FISICA ARISTOTELICA ................................................................................ 115
LA DOTTRINA DELLE QUATTRO CAUSE ........................................................... 120
LA BIOLOGIA ARISTOTELICA: STUDI SULL’ANATOMIA E SULLA RIPRODUZIONE
........................................................................................................................ 122
L’ANIMA E LE SUE FUNZIONI ........................................................................... 126
ARISTOTELE E IL CANONE DEL GIUSTO MEZZO ............................................... 131
L’ETICA ARISTOTELICA ................................................................................... 133
LA RELAZIONE TRA FELICITÀ, FILOSOFIA E POLITICA ..................................... 142
LO STATO E IL CITTADINO NELLA POLITICA DI ARISTOTELE .......................... 163
LA POLITICA ARISTOTELICA ............................................................................ 172
LA SCIENZA POLITICA IN ARISTOTELE ............................................................ 182
LA LOGICA FORMALE E IL SILLOGISMO SCIENTIFICO ....................................... 184
DIAVOLO DI UN ARISTOTELE .......................................................................... 188
ANTOLOGIA DI TESTI ARISTOTELICI................................................. 191
LA SUDDIVISIONE DELLE SCIENZE: IL SAPERE TEORETICO ............................. 191
TUTTI GLI UOMINI DESIDERANO NATURALMENTE IL SAPERE ........................ 194
SOSTANZA E ACCIDENTE ................................................................................. 200
IL PRINCIPIO DI NON CONTRADDIZIONE ......................................................... 205
SOSTANZA E SOSTRATO .................................................................................. 212
ATTO E POTENZA ............................................................................................ 213
LA DOTTRINA DELLE QUATTRO CAUSE E I VARI SIGNIFICATI DEL TERMINE
“CAUSA”........................................................................................................... 215
DIO È PENSIERO DI PENSIERO (NÓESIS NOÉSEOS)........................................... 218
IL MOVIMENTO NATURALE ............................................................................. 220
MOVIMENTO CIRCOLARE E MOVIMENTO RETTILINEO .................................... 221
IL PRIMO MOTORE IMMOBILE COME SPIEGAZIONE DEL MOVIMENTO FISICO . 223
LE FACOLTÀ DELL’ANIMA E L’INTELLETTO..................................................... 225
IL FINE DELLA MORALE È LA FELICITÀ ............................................................ 227
CHE COS’È LA VIRTÙ?...................................................................................... 230
LE VIRTÙ DIANOETICHE .................................................................................. 233
LA VITA CONTEMPLATIVA AVVICINA L’UOMO AGLI DEI .................................. 235
LA POLITICA È UN FATTO NATURALE .............................................................. 238
L’UOMO E LA CENTRALITÀ DELLA POLITICA ................................................... 240
LA SCHIAVITÙ È UN FATTO NATURALE ........................................................... 243

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I RAPPORTI GERARCHICI SONO NATURALI ...................................................... 246
I SUGGERIMENTI PER LA COSTITUZIONE DELLA FAMIGLIA ............................. 247
IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE ....................................................................... 248
SAPERE EPISTEMICO E SAPERE NOETICO (ANALITICI SECONDI) ..................... 250
INDUZIONE E DEDUZIONE (ANALITICI SECONDI) ........................................... 252
I TRE USI DELLA DIALETTICA (TOPICI)........................................................... 253
SUL SILLOGISMO ............................................................................................. 259
LE PROPOSIZIONI APOFANTICHE .................................................................... 260
LE CATEGORIE: SOSTANZE PRIME E SOSTANZE SECONDE ............................... 262
LA CATARSI ..................................................................................................... 263

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