You are on page 1of 84
PAOLO FABBRI MONTEVERDI EDiL= Monteverdi bili anche estese sezioni ad una o due voci, gli permetteva soluzioni compo- sitive di gran lunga pitt varie, accentuando il distacco dal mondo unitario della scrittura a cinque voci e spingendolo sempre pit in direzione di una molteplicita stilistica che di li a non molto avrebbe rivelato in misura sempre maggiore le sue virtualita. I prepotente emergere di esigenze archi tettoniche e formali poi segnalava ’irreversibile abbandono dei criteri co struttivi tradizionali (Paccostamento di tanti episodi singoli ed equivalenti da illustrare mediante le tecniche musicali secondo il principio della variet’) che gia si era manifestato nelle composizioni cost intensamente retoricizza- te e cosi ricche di strutturali direzionalica interne del Quarto libro, riprese e perfino potenziate soprattutto nella prima parte di questo Quinto. In pit, esso mostra anche con assoluta evidenza la particolarissima attitudine sperimentale di Monteverdi, la sua disponibilita a combinare il nuovo con la tradizione attingendo esiti davvero unici: connubi fecondissimi, padroneg- giati con grande maestria e con pieno, disinvolto dominio linguistico. 14. Gli anni 1605-1607. Nello stesso anno del Quinto libro Ricciardo Amadino a Venezia pub- blicava anche J nuovi fioretti musicali a tre voci in cui il mantovano Amante Franzoni aveva raccolto diverse composizioni proprie e di musicisti gravi- tanti nella corte gonzaghesca: Gastoldi, Giovanni Leite, Claudio e Giulio Cesare Monteverdi, Giulio Cesare Bianchi (tutti rappresentati da un brano ognuno). I] contributo di Claudio Monteverdi a quella miscellanea @ costi- tuito da «Prima vedro ch’in questi prati nascano», canzonetta strofica su due ottave di endecasillabi sdruccioli d’ignoto (i primi sei versi sono tutti a rima baciata) e di soggetto pastorale — quasi d’obbligo per quel tipo d’endecasilla- bo dopo l’esempio dell’Arcadia di Sannazaro. La raccolta, come precisa il frontespizio, @ tutta dotata di un «basso generale per il clavicembalo, chitarrone et altri simili stromenti», a testimo- niare il diffondersi di una pratica sentita sempre pit indispensabile. Il brano monteverdiano, che ai vv. 5-6 assegna la stessa musica dei vv. 1-2 e che si conclude col ritornello del v. 8, presenta quel tipo di scrittura a due parti sopranili su di un basso (raddoppiato dal continuo) anch’esso praticato con sempre maggior favore. Negli emistichi iniziali di quegli endecasillabi Monteverdi usa la declamazione gia incontrata nel Quarto e nel Quinto libro, ricorrendo anche a quell’elasticit’ ritmica segnalata in «Sfogava con le stelle» e «Che dar pitt vi poss’io?». «Mentre la prima meta di ogni verso & lasciata da Monteverdi alla liberta ritmica del parlato, la caratteristica finale sdrucciola serve di spunto per una particolare formula ritmica; proprio nel trattamento delle tre ultime sillabe di ogni verso sta l’effetto musicale della composizione» ' 1, Nel 1607 Monteverdi vedra ristampata quella sua can- zonetta nella riedizione dei Fioretti di Franzoni ad opera sempre di Ricciar- do Amadino, mentre non databile é la sua spiritualizzazione contenuta nella gia citata antologia manoscritta che si conserva al Civico museo bibliografi- co musicale di Bologna, segnata Q. 27. 94 np 0¢9} jou asiadsip ouoxep: tp ojeonp ozzejeg [au e#ezU05 | Monteverdi E sempre in tema di ristampe, alcuni madrigali dei due recentissimi libri monteverdiani furono inseriti da «Melchior Borchgrevinck organista del serenissimo re di Danimarca» nei volumi del suo Giardino novo bellissimo di varii fiori musicali scieltissimi editi a Kopenhagen da Henrico Waltkirch nel primo (1605) «/o mi son giovinetta», «Quell'augellin che canta», «Non pit guerra, pietate» e «Ah dolente partita»; nel secondo (1606) «Cruda Amarilli, che col nome ancora» e «Cor mio, mentre vi miro», 15. L’Orfeo (1607). « che all’atto V, a partire dal v. 51, presenta nel libretto un’itruzione delle Baccanti che pongono in fuga Orfeo abbandonandosi poi a celebrazioni dionisiache prima di accingersi a punire con una morte orribile il mitico cantore, colpevole di asserzioni misogine ¢ loro nemico di antica data (ma la vicenda rappresentata s’interrompe al punto della danza orgiastica: tutto il resto @ sottinteso). La partitura monteverdiana abolisce Pintervento delle Baccanti sostituendolo con un’apparizione ex machina di ‘Apollo che, dopo un dialogo con Orfeo, ascende con lui al cielo mentre un coro inneggia alla fausta soluzione. Questo mutamento é stato finora spiegato chiamando in causa la limita. tezza del palcoscenico ospitante la ‘prima’ («I’angustia del luogo» di cui parlava Carlo Magni nella lettera citata inzialmente, l’«angusta scena» men- zionata da Monteverdi nella dedicatoria della partitura). Si & pensato che Papoteosi apollinea costituisse il finale originario, cui il compositore dovet- te rinunciare per motivi tecnici causa la ristrettezza dell’ambiente, ripiegan- do sulla scena bacchica ma ripristinando la sua vera intenzione al momento di dare alle stampe la partitura !2*; oppure che la macchinistica discesa di ‘Apollo fosse stata aggiunta «per Pamplificata realizzazione scenica della replica in teatro» '”, ‘Anche se il particolare del trasferimento da un teatro effimero quale quello della ‘prima’ al teatro stabile di corte non @ confermato con chiarezza dai document, per questa successione (il finale apollineo tramandatoci dalla partitura che viene a sostituire quello dionisiaco oggi per noi scomparso tranne forse che per un frammento costituito dalla «moresca» conclusiva) si pud propendere anche ragionando in altri termini. Se si crede che il libretto, proprio per la sua immediata e precisa funzio- nalita, rispecchi piti da vicino la situazione verificatasi alla ‘prima’, allora hon we Gubbio che si debba ritenere originale l'epilogo bacchico, che oltretutto rappresenta anche qualcosa di pitt squisito ed esclusivo rispetto alPesplicita determinatezza dell’apoteosi in compagnia di Apollo. Quest’ul- timo non 2 solo un lieto fine consolatorio, ma in primo luogo delinea anche tuna chiusa evidente della vicenda, Terminare la recita con la danza delle Baccanti significava affidare al bagaglio culturale di ogni spettatore ~ acca- demico — il compito di concluderla mentalmente, mentre chiamare in causa Apollo e mostrare il trionfo celeste di Orfeo costituiva uno scioglimento felice ma soprattutto certo della storia, non privo di un valore didattico alPaltro finale del tutto ignoto. L’ascesa glorificante di Orfeo con Apollo & 103 Monteverdi infatti accompagnata da un coro non genericamente moraleggiante, come era sucesso negli atti precedenti, ma che tende invece a porre tutta la vicenda rappresentata sotto il segno preciso di un’ esperienza religiosa speci ficamente cristiana ~ estranea al testo fin li recitato — che dalla terra, attraverso il motivo della vanitas vanitatwm, conduce necessariamente al cielo. Considerando poi che questo coro finale @ una svelta intonazione strofica lontanissima dall’elaborato stile madrigalesco che contraddistingue tutti quelli precedenti, si rafforza ’impressione che si tratti di un finale forse aggiunto per applicare retroattivamente (e controriformisticamente) scopi didascalcf che potevano anche mancat Hache Gers tenn un’azione scenica destinata ad un’udienza selezionatissima, divenuti perd indispensa- bili quando essa era stata elargita ad un pit vasto pubblico, di fronte al quale si era sentito il bisogno di giustificarla facendo ricorso in tutta fretta ai classici criteri dello juvare delectando. La destinazione originariamente accademica aveva lasciato nel testo di Striggio impronte sensibili, che possono ricondursi sostanzialmente a due polarita tra loro complementari: Paspirazione ad una regolarita d’impianto che ne penetrasse possibilmente ogni aspetto e che tradiva un’esigenza di modelli da imitare/emulare, ed il cospicuo grado di allusivita delle sue componenti, decodificabili da parte di un pubblico culturalmente eletto quale il consesso di un’accademia, ma probabilmente dotate di scarso valore connotatorio per una platea pit vasta ed eterogenea. La dimostrazione pitt appariscente dell’esigenza di strutturare il. pro- prio testo secondo i canoni del teatro regolare cinquecentesco sta nella sua articolazione nei tradizionali cinque atti, tipica di tutti i generi drammatic coevi (tragedia, commedia, tragicommedia pastorale) ma finora general- mente inosservata dal teatro per musica, fatta eccezione per I! rapimento di Cefalo di Chiabrera-Caccini: spartite in un certo numero di scene ma non in atti erano state a Firenze tanto La Dafne quanto L’Euridice di Rinuccini Peri (ed in precedenza con ogni probabilita pure le minime pisces pastorali della copia Guidiccioni-Del Cavaliere), e tre atti avevano avuto a Roma la Rappresentatione di Anima e di Corpo di Emilio Del Cavaliere e L’Eumelio di Agostino Agazzari (1606). Con Striggio limpressione di regolarita @ accentuata dal sistematico impiego, al termine di ogni atto, del coro che medita e moraleggia sull'accaduto, secondo la funzione che classicamente gli competeva. Questa canonicita di disegno globale finiva per imporsi anche sull’inos- servanza dei precetti unitari, specie dell’identita di luogo (i primi due atti e Pultimo si svolgono «nei campi di Tracia», i restanti nell’oltretomba), la cui infrazione significava anche rinuncia alla scena fissa in favore di quella mutevole, rivelando V’affinita del teatro in musica con le abitudini spettaco- lari proprie di un genere assai eslege quale Pintermedio apparente, anch’esso attingente con dovizia ai repertori della mitologia (giusto il tema d’Orfeo era stato usato a tale scopo ad esempio a Milano nel 1599 ed a Cremona nel 1607) '. Ed anche se cid di riflesso attenuava la necesita di compattezza temporale, come gia nell’Euridice rinucciniana l'unita d’azione era d'altra Parte perseguita grazie ad un tipo d’intreccio cosiddetto semplice, limitato cio’ ad un’unica storia (quella di Orfeo ed Euridice) evitando digressioni od 104 Alla corte dei Gonzaga azioniparallele, Quest ara generale di regolartsdoveva insomma mtigare Pibrida natura del prodotto e conferire una qualche patina di omogeneita ad tuna tale mescidanza di echi classicheggianti, esibizioni scenografiche da intermedio e gusto pastorale che caratterizzava nella quasi totalita quei primi esempi di teatro tutto cantato Come la maggioranza dei testi drammatici scritti fino ad allora per essere musicati (tutti quelli fiorentini, pi L’Ewmelio romano), anche L’Orfeo striggiano pud essere ascritto nel terzo genere della classificazione teatrale cinguecentesca, cioe il boschereccio, dato che ’aspetto di favola pastorale vi prevale sulle altre componenti. E questo in base alla fortuna di quella concezione che voleva lirrealta del recitare cantando praticabile soprattutto nei soggetti che portavano in scena i leggendari pastori d’ Arcadia o affini, ed i personaggi miticio allegorici (tra quelli dell’Orfeo a quest’ultima categoria appartiene la Speranza), come un paio di decenni piti tardi esplicitamente teorizzeranno ad esempio Giovan Battista Doni e l’anonimo autore del Corago !°, Proprio Pesigenza accademica di darsi dei modelli normativi indusse Striggio, a causa di questa gravitazione verso il polo pastorale, a porre la sua opera sotto la tutela dei due piti celebrati esempi del genere, cioe L’Aminta di Torquato Tasso ed /I pastor fido di Giovan Battista Guarini che proprio a Mantova neppure dieci anni prima aveva avuto una memorabile messinsce- na. Di quellillustre genealogia rivivono in Striggio scelte lessicali e d’imma- gine, il coagularsi del patetismo in scene culminanti lamentose, ¢ soprat- tutto — perché generalizzata e capillare — la sapienza retorica cosi atten- ta aj valori fonici e tesa a costituire un’orditura linguistica gia di per sé ‘musicale’ "2. Grazie a queste tarsie letterarie il testo di Striggio veniva a caricarsi di rimandi e connotazioni culturali secondo un gusto per Pallusione colta particolarmente evidente nei due atti ‘infernali’ (III e IV), per i quali la tradizione pastorale non poteva fornire alcun soccorso e che indusse il poeta a recuperare addirittura Dante, una fonte davvero singolare anche tenendo conto dell’ambiente e del? epoca Bt Nel discorso sui modelli poetici & implicito infatti quello complementare sulla forte carica allusiva di questo testo, ricco di risonanze letterarie forse non troppo avvertibili da tutti, ma certo assai significative per Striggio ed i suoi colleghi d’accademia. Comprensibile pienamente solo in questo ambito @ del resto anche la «lieta canzon» intonata da Orfeo nell’atto I («Rosa del ciel, vita del mondo e degna»), un’allocuzione al sole che si capisce tenendo presente che un’aquila con gli occhi fissi all’astro accompagnata dal motto «Nihil pulcherius» costituiva l'impresa degli Invaghiti ", Per essi doveva poi essere densa di rimandi ad una tradiione specitcamente locale I stessa scelta del soggetto, che a Mantova aveva una stia storia illustre risalente alla Favola d’Orfeo di Poliziano e rappresentata in seguito «dalle sue elabora- zioni, Orphei tragoedia e Favola di Orfeo e Aristeo, e sue imitazioni, Né mancano altri punti di suggestione, come per esempio il breve ciclo narrati- vo d’Orfeo affrescato in un atrio del Palazzo del Giardino in Sabbioneta, la cui traccia iconografica riecheggia tradizioni figurative mantovane: !Orieo del Parnaso mantegnesco per lo studiolo d’Isabella d’Este Gonzaga. Per 105 Monteverdi tacer la persistenza figurativa delle decorazioni delle stampe dei poeti favo- riti, e altra iconografia» 3, La rilevanza di queste componenti, cosi come la questione dei suoi due finali, portano comunque Striggio a distanziarsi da quello che dovette essere Pantecedente piti diretto della sua fatica letteraria, cio® L’Euridice di Rinuccini, al quale lo legavano Pidentita del soggetto e forse delle ragioni ultime che ne avevano dettato la scelta: per quelle prime rappresentazioni tutte cantate, quale vicenda migliore di un tale paradigmatico exemplum della potenza della musica unita alla poesia, quale viene celebrata dal coro ultimo dell’Euridice e dal prologo dell’ Orfeo? Le diversita di soluzioni tra i due autori sono a volte notevoli. Iniziano gia il titolo, che con Striggio ancor prima che si cominci sposta Pattenzione sul reale protagonista della vicenda (di cui Euridice @ piuttosto un riflesso passivo), ed il prologo, al quale Rinuccini aveva conferito compiti teorici che riassumevano dibattiti intelletcuali dell’ambiente fiorentino, Differente @ anche il taglio della scena cruciale in cui viene annunciata la morte di Euridice: in Rinuccini la tremenda notizia é data da Silvia solo al termine del suo racconto, e le fanno immediato seguito un breve lamento di Orfeo — che poi scompare di scena ~ ed un compianto generale; in Striggio essa & improwvisa, ¢ nel suo lamento successivo Orfeo maturera ‘a vista’ la decisio- ne di scendere agli inferi, senza attendere Pintervento esterno e Papparizio- ne — fuori scena~ di Venere, secondo quanto viene solo narrato in Rinucci- ni, Tutte agite direttamente davanti agli occhi degli spettatori sono poi le scene infernali, specie il contrasto Orfeo-Caronte e pitt tardi ’assai vivace ritorno di Orfeo in compagnia di Euridice con la sua perdita definitiva, in Rinuccini mancanti o solo raccontati. Dotato d'inferiore sapienza e finezza letterarie rispetto a Rinuccini, Striggio coglie perd in maniera pid bruciante la sostanza drammatica, per realizzare le finalita espressive della quale inventa anche congegni scenici di largo respiro efficacemente teatrali quali quelli costituiti ad esempio dai primi due atti in blocco, che dalla musica ricaveranno un’ulteriore capacita comunicativa. Nel testo di Striggio Monteverdi infatti trovava anzitutto quelle occasio- ni di realistico far musica in scena cosi frequenti in quei primi saggi di recitazione cantata: cid accade specie nei due atti iniziali, quelli cio’ dedicati ad illustrare la sereniti del mondo pastorale finalmente coronata dalla corrispondenza amorosa di Euridice con Orfeo. Nell’atto 1 i cori «Vieni, Imeneo, deh vieni», omoritmico e sacrale, e «Lasciate i monti>, imitativo ¢ poi omoritmico e con ritornelli (anche danzato), cost come Vintervento solistico di Orfeo «Rosa del ciel, vita del mondo ¢ degna», vero e proprio «‘madrigale’ monodico» !**, sono sollecitati da espliciti inviti a cantare da parte rispettivamente del Pastore («cantiam, pastori,/in si soavi accenti/che sian degni d’Orfeo nostri concenti>), della Ninfa alle Muse («sia il vostro canto al nostro suon concorde»), di nuovo del Pastore ad Orfeo («perch’ora al suon de la famosa cetra/non fai teco gioir le valli e i poggi?/Sia testimon del core/qualche licta canzon che detti Amores), NalPatto IU'illeggiadro canto strofica di Oso incerealace da tena strumentali «Vi ricorda, 0 boschi ombrosi» @ annunciato dai Pastori: «Dun- 106 Alla corte dei Gonzaga que fa degni, Orfeo, /del suon de la tua lira/ questi campi>. «Possente spirto ¢ formidabil nume>, nelPatto II, rappresenta la pit: impegnativa esibizio- ne ‘professional’ di Orfeo, teso a commuovere Caronte: a questo brano assai complesso e difficile, ma per scopi espressivi, Monteverdi alludera pid tardi in una lettera da Venezia del 9 dicembre 1616 indirizzata a Striggio (L. 21), asserendo che «I’Orfeo [J'aveva portato] ad una giusta preghiera». Strofico nel basso sia delle parti cantate che dei ritornelli stru- Mentali, accompagnato da coppie di strumenti obbligati (violini, cornetti, arpa doppia, ancora violini), questo brano nella partitura @ presentato in | due versioni: la prima distesa, in canto spianato, la seconda irta di elaborati virtuosismi. Ma oltre a cantare, Orfeo si esibisce come strumentista: il magico suono della sua cetra, che ammansira Caronte addormentandolo, @ reso con una «sinfonia» che una didascalia dice essersi sonata «pian piano, con viole da braccio, un organo di legno e un contrabasso de viola da gamba». Nell’atto V, da ultimo, il duetto finale (secondo la partitura) che si svolge tra il cantore Orfeo ed Apollo dio della poesia e della musica, anch'esso assai virtuosistico, ® giustificato dalle qualita dei personaggi in scena, dalla situazione e dal testo («Saliam cantando al cielo»), mentre la didascalia aggiunge: «Apollo e Orfeo ascendono al cielo cantando». ‘Anche altre pagine si offrono come brani conchiusi, definiti da contorni precisi e ben delineati. II prologo anzitutto, cantato dalla Musica e precedu- fo da una «toccata» (poco pitt che una fanfara per annunziare che si va a cominciare), strofico ~ con lievi varianti nella linea del canto ~ e governato da precise simmetrie attorno ad un asse centrale: la terza strofe (sono in tutto cinque) @ Punica che inizia ad una diversa altezza ~ una quarta pid in basso -, mentre il ritornello che incornicia le singole stanze (legato al ‘passeggio’ per la scena del personaggio che fa il prologo) si. presenta abbreviato nelle esposizioni tra una strofe e Paltra, pitt esteso nella prima e nelPultima. Simile a quello delEwridice per aleuni aspetti musicali (la stroficita), il prologo dell’ Orfeo rispetto a quello mostra, dal punto di vista testuale, minori consapevolezze teoriche. Non dichiara né giustifica la novita della rappresentazione (tale almeno per Mantova) e si limita al generico topos delle capacita espressive della musica: «Io la Musica son, etrai dole accenti/so far tranquillo ogai turbato core/ et or di nobil'ira et or Wamore/possinfiammar le pit gelate mentin. La sua funzione @ quella tradizionale delbesposizione dell’argomento, secondo moduli poetici che ricordano gli incipit delle narrazioni epiche (): cid avviene dunque senza rispondere ad esigenze di ‘verismo’ scenico, ma per analogia con quanto segue e precede, condividendone la pastoralita "°°, Pastore «Ma s’il nostro gioir dal ciel deriva» Non bisogna perd credere che nelle parti in stile recitativo tutto si svolga pid o meno al medesimo livello declamatorio, interpretando restrittiva- mente ed immiserendo il cacciniano «quasi che in armonia favellare» *. Sulla genesi del recitativo usato nelle prime pastorali tutte in musica, Jacopo Peri nella prefazione dell’ Ewridice (1601) afferma: stimai che gli antichi greci ¢ romani (i quali, secondo Popinione di molti, cantavano su le scene le tragedie intere) usassero un’armonia che avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che piglias- se forma di cosa mezzana. E questa é la ragione onde veggiamo in quelle poesie aver’avuto luogo il jambo, che non si innalza come lesametro, ma pure & detto avanzarsi oltr’ confini de’ ragionamenti famigliari. E per cid, tralasciata qua- Iunque altra maniera di canto udita fin qui, mi diedi tutto a ricereare l'imitazione che si debbe a questi poemi; ¢ considerai che quella sorte di voce che dagli antichi al cantare fu assegnata, [a quale essi chiamavano diastematica (quasi trattenuta € Sospesa), potesse in parte affrettarsi e prender temperato corso tra i movimenti del canto sospesi e lenti, e quegli della favella spediti e veloci, et accomodarsi al proposito mio (come Faccomodavano anch’essi, leggendo le poesie et i versi Eroici), avvicinandosi allaltra del ragionare, la quale continuata appellavano: il 109 Monteverdi che i nostri moderni (benché forse ad altro fine) hanno ancor fatto nelle musiche loro. Conobbi, parimente, nel nostro parlare alcune voci intonarsi in guisa che vi si pud fondare armonia, ¢ nel corso della favella passarsi per molte altre che non si intuonano, finché si ritorni ad altra capace di movimento e di nuova consonan- za. Et avuto riguardo a que’ modi et a quegli accenti che nel dolerci, nel rallegrarci et in somiglianti cose ci servono, feci muovere il basso al tempo di quegli, or pitt or meno, secondo gli affetti, ¢ lo tenni fermo tra le false e tra le buone proporzioni finché, scorrendo per varie note, la voce di chi ragiona arrivasse a quello che nel parlare ordinario intonandosi apre la via a un nuovo concento. E questo non solo perché il corso del ragionare non ferisse Porecchio (quasi intoppando negli incontri delle ripercosse corde, dalle consonanze pitt spesse) 0 non paresse in un certo modo ballare al moto del basso, e principalmen- te nelle cose 0 meste o gravi, richiedendo per natura Valtre pit liete pit spessi movimenti: ma ancora perché l'uso delle false, 0 scemasse 0 ricoprisse quel vantaggio che ci s’aggiunge dalla necessiti di intonare ogni nota: di che, per cid fare, potevan forse aver manco bisogno ’antiche musiche. E perd, si come io non ardirei affermare questo essere il canto nelle greche e nelle romane favole usato, cosi ho creduto esser quello che solo possa donarcisi dalla nostra musica, per accomodarsi alla nostra favella ! Ma gia Doni, nel suo Trattato della musica scenica, attenuer’ il rigore di quelle formulazioni (non applicate alla lettera neppure da Peri), auspicando ed approvando uno stile recitativo pitt duttile e variato: se noi intendiamo che un’azione si canti tutta in quello stile che secondo alcuni @ il vero recitativo, e da’ giudiziosi compositori si usa solo nelle narrazioni ¢ ragionamenti senz’affetto, il quale si trattiene assai nelle medesime corde e fa poca diversita di aria; 0 anco, di quello che imita, anzi esprime giustamente quei medesimi accenti che si fanno nel parlare quotidiano: dico che a continuarlo troppo a di lungo, presto verrebbe in fastidio, E se dunque queste azioni cantate dilettano, come veramente fanno, cid nasce perché i musici accortisi che quella troppa semplicita non riusciva bene, si allontanano assai da quello stile. E sebbene tutto chiamano recitativo, intendendo ogni melodia che si canti ad una voce sola, ¢ perd molto differente dove si canta formatamente quasi alla guisa de" madrigali, e dove regna quello stile semplice e corrente che si vede in due lettere amorose pubblicate dal Monteverdi col suo lamento d’Arianna [nel 1623], ¢ il racconto della morte di Orfeo nell’Ewridice. E se tutte le azioni si componessero in questo stile, non ha dubbio che meno diletterebbono che le cose suddette, perché sebbene un canto mezzano tra’ recitare e il modulare artifiziosamente, hon per questo le cose mezzane sempre piacciono pit, ché altrimenti pit gusterebbe la lontra, che mezza pesce e mezza carne, che la carne di cappone ¢ i pesce storione [...] Nell’Orfeo anche lo stile recitativo di Monteverdi procede assai varia- mente, ricorrendo anzitutto alla semplice declamazione a note ribattute 110 Alla corte dei Gonzaga Es, 30 ‘Messaggera (atto I) | Ed ec-co im man-ti- nen - te sco - lo- A= . - |e SED tok | stir- sil bel vizso mei suoi Iu= mi spa- rir a _ — ; of 3 4 3 usata anche come formula per le situazioni solenni o sacrali: Es. 31 Speranza (atto II) e | La~scia-te o-gni spe-ran == za Uno Spirito (atto IV) (4 =. \§ re eo © de-glia-bi-ta-tor de Pon-dee - ter - e 111 Monteverdi Ribattendo precipitosamente la nota di declamazione si ottiene invece un effetto di concitazione recitativa che Monteverdi svilupperi ampiamente nella sua produzione futura: Es. 32 Orfeo (atto IV) bop pePERPSHITT EET Con tal fu-ror le fu-riein-na-mo-ra-te per ra-pir-mi il mio ben Sia che adempia a necesita narrative o di mera funzionalita drammatur- gica, sia che si distenda in zone di accentuato lirismo, sempre lo stile recitativo monteverdiano ricerca il massimo della comunicazione espres va. Essa @ pid evidente, toccandovi i vertici del patetismo, nelle scene relative alla morte e poi alla definitiva perdita di Euridice, Anche il racconto della Messaggera all’atto II 2 segnato da cromatismi e scontri dissonanti col basso, Es. 33 Messaggera (atto II) = Ne Do-poun gra-ve so - spi-ro Spi- rd fra que-ste brac-cia eo, — SSS da patetici salti discendenti di sesta e settima minori: Es. 34 Messaggera (atto Il) ae fom f las - sa Ahi stel - le 112 Alla corte dei Gonzaga $a ae Pa - stor, la - scia- teil can - to Tutte queste tecniche si addensano nel successivo lamento di Orfeo, uno dei luoghi di maggior tensione della «favola»: Es. 35 Orfeo (atto M1) $C —==T¢" Tu sei mor- ta, sei mor- ta, mia vir (ep = 10, Tu sei da me par- i- ta £ Ge In genere poi la linea del canto si sforza di riprodurre figure retoriche ed andamenti oratori del testo, ad esempio rendendo con una progressione il frantumarsi e Pincalzare di un verso, Es, 36 Orfeo (atto 11) Se nin - fa che por- ti? 113 Monteverdi oppure un’anafora: Es, 37, Speranza (atto IIT) SaaS Ec-co Va-tra pa - lu - de, ec- coil noc-chie - 10 L’andamento della linea di canto registra come in un diagramma ’ascesa e il declino dell’onda emotiva: si veda il principio dellatto V, dove la prima vetta melodica @ toccata dal , il compositore elenca la serie di «Stromenti> da impiegarsi (in quantita comungue inferiore a quelli effettivamente richiesti dalle successive didascalie): «duoi gravicembani, duoi contrabassi de viola, dieci viole da brazzo, un arpa doppia, duoi violini piccoli alla {rancese, duoi chitaroni [recte tre], duoi organi di legno, tre bassi da gamba, quattro. tromboni [cinque], un regale [pit d'uno}, duoi cornetti, un flautino alla vigesima seconda [due], un clarino con tre trombe sordine» cui vanno aggiunty anche < a sette (ottava voce, quella inferiore, non @ che un basso Seguente) @ limitato agli atti infernal’, forse come effetto di grandiosa terribilit, mentre del tutto eccezionale @ il passo a quattro («tre viole da braccio et un contrabasso de viola tocchi pian piano») che accompagna il canto di Orfeo «Sol tu, nobile dio, puoi darmi aita» nell’atto III, volen- do probabilmente con tali sonorita rendere Pipotetica armonia della cetra classica. Con L’Orfeo per la prima volta Monteverdi poteva cost sperimentare in campo monodico con agio e radicalita maggior’ quelPatticudine ad_una seritura persuasivamente eloquente che gia aveva prodotto i madrigali del Quarto e Quinto libro. Di essi riprendeva, adattandoli al genere di canto a voce sola, anche i tratti pit caratteristidi dello stile patetico e le tendenze a strutturare la composizione secondo linee di sviluppo non ricalcate in maniera supina e meccanica sulla lettera piti esteriore della forma poetica. Ragione ultima di questo come di ogni altro elemento posto in opera é la sua efficacia drammatica in quel punto della vicenda: dalla vocalita alla strumen- tazione, dalParticolazione scenica ai vari stili adottati, tutto lascia trasparire una tensione espressiva sensibilissima e tanto pid notevole in quanto realizzata in un genere di musica teatrale da Monteverdi mai prima tentato. 16. Gli Scherzi musicali a tre voci (1607). Qualche mese dopo la recita dell’ Orfeo, nell’estate del 1607, uscivano sempre a Venezia da Ricciardo Amadino, ma a cura del fratello Giulio Cesare Monteverdi, gli Scher2i musicali a tre voci. Dedicati anch’essi, come 115 Monteverdi Al 1609 (che, come si ricordera, @ anche lanno della pubblicazione dell’ Orfeo) risale anche il progetto di una composizione non identificata cui si fa cenno nell’epistolario (L. 7, da Cremona il 24 agosto 1609, a Striggio): Ho riceuto una lettera di V.S.III."™ con insieme certe parole da mettere in musica i comissione di S.A.S., et la riceuta fu eri che fu alli 23 del presente; quanto prima mi porrd a comporle et finite ne dard raguaglio a V.S.IIL"* 0 purre le porterd io a Mantoa perché in breve voglio essere al servitio; queste ho pensato prima di farle ad una voce sola, et se poi S.A.S. comandera che riporti quel aria a cinque tanto fard [...]. Durante il consueto soggiorno estivo a Cremona, in quel 1609, Monte- verdi presenzid anche ~ il 27 settembre — ad una seduta di quell’accademia degli Animosi in cui era stato ammesso due anni prima 2°, Al periodo 1607-10 si possono assegnare anche le canzonette spirituali conservate (solo per la parte del soprano) alla Biblioteca queriniana di Brescia in un manoscritto intitolato Canzonette e madrigaletti spirituali a 2 e 3 voci d’auttori diversi. Libro VIII (segnato MS. L. IV 99) che reca Pindicazione: «Mich. Parius scribebat Parmae anno 1610». Accanto a com- posizioni dello stesso Pario, di Bertani, Ghizzolo, Vecchi, Scaletta, Franzo- ni, Salomone Rossi, Pecci, Gesualdo, Nenna ed altri, figurano cinque brani monteverdiani: tre di essi («Su fanciullo», «O rosetta che rossetta», «Dolce spina del mio core» [«D’una spina del Signore insanguinata»]) spiritualizza- no altrettanti «scherzi» tratti dalla raccolta del 1607 (rispettivamente: «Da- migella», «O rosetta che rosetta», «Lidia spina del mio core»), mentre i restanti due («Se d’un angel il bel viso» [«Quam dilecta tabernacula, etc.»] e «Fuggi fuggi, cor, fuggi a tutte ’or») non hanno riscontro nella precedente produzione finora nota di Monteverdi 2°” 20. La messa ed i vespri della Beata Vergine (1610). Non poco ambiziosi, in campo sia sacro che profano, erano i progetti cui Monteverdi lavorava nell’estate del 1610, ed il cantore e vicemaestro di cappella Bassano Cassola il 26 luglio cosi soddisfaceva la curiosita di Ferdinando Gonzaga: I Monteverdi fa stampare una messa da cappella a sei voci di studio et fatica grande, essendosi obligato maneggiar sempre in ogni nota per tutte le vie, sempre pid rinforzando le otto fughe che sono nel motetto «In illo tempore del Gomberti [= Gombert] e fa stampare unitamente ancora di salmi del vespero della Madonna, con varie et diverse maniere d'inventioni et armonia, et tutte sopra il canto fermo, con pensiero di venirsene a Roma questo autumno per dedicarli a Sua Santita. Va anco preparando una muta di madrigali a cinque voci, che sara di tre pianti: quello dell’Arianna con il solito canto sempre; il pianto di Leandro et Ereo [= Ero] del Marini; il terzo, datoglielo da $.A.S.™, di Pastore che sia morta la sua Ninfa, parole del figlio del sig.’ conte Lepido Agnelli in morte della signora Romanina [...] 7°, 154 Alla corte dei Gonzaga Gia nell’autunno del 1608 (si veda ad esempio la lettera del 2 dicembre 1608, L. 6) Monteverdi aveva manifestato il proposito di lasciare il servizio di Mantova. La pubblicazione di questa messa e vespri (a Venezia, presso Riceiardo Amadino nel 1610), dedicata a papa Paolo V, costituisce il pis concreto tentativo da lui messo in ato per ottenere questo scopo 7%, Volendo seguire personalmente la cosa, Monteverdi si recd anche a Roma, dove sperava di conseguire due risultati: un’udienza dal papa per potergli offrire brevi manu la sua raccolta sacra, ed un posto gratuito per il figho Francesco «nel seminario romano con benefitio da chiesa che li paghi la donzena, essendo io povero; et senza la quale nulla potrei sperare da Roma in aiuto di Franceschino gia fatto pretino per vivere et morire in tale vocatione» (L. 10, da Cremona il 28 dicembre 1610). Una volta a Roma, avrebbe anche potuto saggiare la possibilita di una nuova sistemazione. Tutti gli obiettivi pero furono mancati, pur essendosi Monteverdi fatto precedere da commendatizie del duca Vincenzo presso i cardinali Montalto e Borghese 21°, ‘Al viaggio romano il compositore alludera nella lettera - presumibilmen- te al cardinale Ferdinando Gonzaga — da Cremona del 28 dicembre 1610 (L. 10: «Avanti mi partissi da Roma...»), in cui mostra di non aver perso tutte le speranze di collocare il figlio: che se Roma con il favore di V.S.IIl.™ no lo aiutasse, resterebbe egli et un altro fratello suo poveri si che apena potrebbono andarsene in capo del anno con pane et vino, mancandole io; cercherd qualche benefitio semplice o altro che possa portare pensione sufficiente per ottenere la gratia di questo bisogno da Sua Santita, se V.S.IIl.™ si degnera volerlo favorire lui et io insieme (come spero dalla infinita bonta sua) 0 presso Sua Santita 0 presso a monsignore ill."° Dattario, che in altra maniera temendo di averla fastidita troppo quando fui a Roma, non oserei di ben novo dimandarle gratia alcuna. Per esteso, il frontespizio di questa nuova opera monteverdiana suona: Sanctissimae Virgini missa senis vocibus ad ecclesiarum choros ac vespere pluribus decantanda cum nonnullis sacris concentibus, ad sacella sive princi- ‘pum cubicula accommodata, opera a Claudio Monteverde nuper effecta ac beatiss, Paulo V pont. max. consecrata. Il lungo titolo esplicita, non senza controversie, contenuti ¢ funzionalita della raccolta. Quanto ai primi, @ agevole annoverare anzitutto una messa a sei voci ed i vespri a piti di sei (anche sette, otto e dieci, cui vanno aggiunte fino ad otto parti strumentali), con alcuni ‘concerti’ sacri: il tutto in onore della Vergine e dungue presumi- bilmente da usarsi soprattutto in occasione delle festivita a lei dedicate, le piti importanti delle quali erano la nascita (8 settembre), Pannunciazione (25 marzo) e V’assunzione (15 agosto). Le seconde riguardano la messa, definita adatta alle cappelle musicali ecclesiastiche: il resto invece ~ pare — agli oratori e cappelle di corte. Il rilancio del culto mariano — in funzione antiprotestante — fu un fenomeno diffuso nel mondo cattolico dopo il concilio di Trento, prolun- gantesi anche nel Seicento. In campo musicale ne furono segnate intere raccolte di mottetti e madrigali spirituali: il Mariale di Jacob Regnart (Innsbruck, 1588), le Eccellenze di Maria Vergine di Philippe de Monte 155 Monteverdi (Venezia, 1593), i due libri di madrigali spirituali di Palestrina (il primo dei quali, del 1581, concluso dalla canzone petrarchesca alla Vergine e l’altro, del 1594, sottotitolato Priego alla Vergine), Pantologia Rosetum marianum curata nel 1604 da Bernhard Klingenstein, i Canoni et oblighi di cento e dieci sorte sopra l’Ave maris stella di Francesco Soriano (Roma, 1610). Relativo al culto mariano @ anche il mottetto «Jn illo tempore» del fiammingo Nicolas Gombert (1500 ca. - 1556 ca) che da il nome alla messa con cui si apre la raccolta monteverdiana. All’interno del volume essa & definita «Missa da capella [cioé scritta in polifonia vocale, sostenuta dall’or- gano] a sei voci [pid il basso continuo, in effetti seguente, per Porgano], fatta sopra il mottetto “/n illo tempore” del Gomberti le fughe del quale sono queste»: qui seguono dieci temi musicali estratti dal mottetto di Gombert mutandone solo certi valori di durata ed in due casi (settima e decima «fuga») rendendo piti essenziale la linea melodica. Nel mottetto dorigine le «fughe» monteverdiane sono a volte soggetti completi (a pri- mae la terza), ma pidi spesso segmenti tagliati ad un certo punto per ragioni modali (volendo ottenere un materiale musicale omogeneamente ionio), isolati e tolti dal contesto. Es. 51 CompeRT e- — f oe Lo-quen-te Ie - su ad ———— wr -— bas MONTEVERDI N.2 eat = oo Quin im = = = = = = mo MONTEVERDI. N.10 . Se ee f In Gombert esse corrispondono ai passi seguenti 2": 1. «ln illo tempore», battute 3-7 del basso 2. dloquente Iesu ad tur[bas}», battute 14-17 del sesto 3. «Beatus venter qui te portavit», battute 36-39 del basso 4. «et custodiunt», battute 81-82 del basso 5. «At ille difxit}», battute 57-59 del sesto 6. «extollens vo[cem]», battute 21-23 dell’alto 156

You might also like