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INDICE ..............................................................................................» p. 3

INTRODUZIONE ...............................................................................» p. 5

1. PERCHÉ VIAGGIARE?

1.1 Premessa: uno sguardo al presente ............................................» p. 7

1.2 La figura del viaggio .................................................................» p. 21

2. LETTERATURA PER L'INFANZIA E VIAGGIO

2.1 Narrare: le storie, le fiabe .........................................................» p. 33

2.2 Analisi di alcuni viaggi nella letteratura per l'infanzia .............» p. 43

3. VIAGGIO VIRTUALE: IL COMPUTER E LA NAVIGAZIONE

3.1 Il viaggio in realtà virtuale ........................................................» p. 63

3.2 Una Rete di soggetti: come viaggiare ........................................» p. 74

4. VIAGGIARE IN UN GEMELLAGGIO

4.1 Un progetto, un viaggio: intervisto una maestra .......................» p. 81

4.2 Osservazioni su un viaggio didattico ..........................................» p. 94

CONCLUSIONI: PER UNA “PEDAGOGIA DEL VIAGGIO” ..........» p. 105

BIBLIOGRAFIA ..................................................................................» p. 111

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro vuole argomentare a favore del concetto di “viaggio” in senso


lato. I significati che qui si attribuiscono a tale parola sono ritenuti cruciali per la
formazione dei bambini dai sei ai dieci anni. Il viaggio viene trattato come figura
archetipica utile alla formazione della coscienza del cittadino contemporaneo. A
partire dalla definizione di “viaggio” come “atto di spostarsi da un luogo all'altro
compiendo un certo percorso” si sottolinea la valenza pedagogica che esso può
assumere, in particolare rispetto a certa letteratura per l'infanzia e rispetto alla
fruizione dello strumento Internet.

Il viaggio, nell'istituzione scuola, su un livello pratico, vuol dire soprattutto


“viaggio didattico”. Viene quindi analizzata un'esperienza di gemellaggio fra due
classi di Scuola Primaria dislocate in città diverse, allo scopo di metterne in luce gli
aspetti più rilevanti volti a una formazione adeguata del bambino.

La prospettiva filosofica in cui è calato questo scritto fa riferimento innanzi tutto


all'approccio fenomenologico-trascendentale di Bertin, a sua volta ispirato a quello
problematico-razionalista di Banfi. Accanto ad esso figura il filone del pensiero
psicoanalitico di Freud. È a partire da questo sfondo teorico che vengono prese le
mosse per approdare agli assunti più strettamente pedagogici. Questo quadro teorico
lega a sé, in un'ottica interdisciplinare, altre teorie importanti quali sono l'approccio
sistemico/ecologico, il metodo storiografico e, parlando di viaggio, l'approccio
antropologico culturale. Viene poi dato particolare rilievo al rapporto tra cultura e
linguaggio. Partirò, nel primo capitolo, proprio col delineare il quadro teorico di
riferimento, che - lo sottolineo - non è di tipo aprioristico, e che trova la sua ragion
d'essere nella più quotidiana “concretezza”.

Lo stile della mia argomentazione uscirà di tanto in tanto dagli orizzonti


strettamente educativi, nell'intento di leggere la complessità dei fenomeni attraverso
una visione globale: si menzioneranno aspetti che potrebbero offrire spunti per
ulteriori sviluppi, si apriranno finestre su altre modalità di osservazione, su altre
prospettive, su altri giardini di conoscenza. Vi saranno inoltre - anche attraverso le

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note - dei rimandi interni al volume stesso.

Com'è comprensibile, la mia identità e la mia vita privata influenzano il


messaggio che trapela dal presente lavoro e possono avermi indirizzato verso certe
ipotesi invece che verso altre. Mi pare quindi opportuno fornire una piccola nota
biografica. Innanzi tutto ho fatto in prima persona un'esperienza di viaggio.
Nell'anno accademico 2008/2009 ho partecipato, in seno al mio corso di laurea, al
soggiorno di studio presso l'Università di Malaga (Spagna), della durata di dieci
mesi: era un progetto Erasmus promosso dal Professor Nicola Cuomo (Università di
Bologna). Inoltre nel mio curriculum di studio mi sono interessato in particolare agli
aspetti di psicoanalisi e di linguistica italiana. Sono da tempo appassionato di poesia
e musica che coltivo attivamente attraverso pubblicazioni e concerti; la politica e
l'impegno civile, poi, sono aspetti sui quali ho la possibilità di confrontarmi
regolarmente con un gruppo di cari amici.

In questo scritto il mio sforzo, dicendolo con Calvino, è stato quello di dire le
cose più pesanti con la maggior leggerezza possibile1.

Ringrazio in particolare la Prof.ssa Mariagrazia Contini e la Dott.ssa Erika


Caramalli.

Un sentito ringraziamento alle famiglie Lorenzoni, Marchignoli e Cenesi nonché


agli amici del Cenacolo e ai Divanofobia.

1 Cfr. Leggerezza in Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar
Mondadori, Milano, 1993.

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1. PERCHÉ VIAGGIARE?

1.1 Premessa: uno sguardo sul presente.

Immersi nell'ottenebrante Zeitgeist2 contemporaneo, alla ricerca di una guida per


fare ordine dentro e fuori noi stessi, può essere utile individuare un filo rosso che ci
aiuti, come educatori e come persone, a dare un indirizzo alla nostra coscienza e al
nostro agire quotidiano. Lo spirito contemporaneo contiene dentro di sé molteplici
stili esistenziali, diverse modalità interpretative, è abitato da differenti corpi3. Quindi
come orientarsi, come potersi finalmente narrare di fronte agli altri e di fronte a noi
stessi, rendendo più sereno ed efficace il nostro agire professionale e il nostro agire
privato? Il viaggio, nelle sue molteplici connotazioni, può rispondere a questo nostro
bisogno, in particolare in questo momento storico, in cui si rileva un habitus diffuso
di passività e assoggettamento. È in atto, peraltro, un'omologazione della cultura
verso il livello basso. Ciò avviene a discapito della soggettività individuale, che però
per sua natura non sembra disposta a rimanere imprigionata se non assumendo le
forme della patologia. Ma prima facciamo un passo indietro per delineare lo sfondo
teorico sul quale ci muoviamo e che peraltro giustifica questo “elogio del viaggio”.

Iniziamo gradualmente, con l'osservare che la presenza abnorme delle televisioni


nelle case riduce sensibilmente le occasioni di reciproca narrazione e impedisce
l'emergere di quei sani conflitti famigliari che mettono al riparo da ben più
drammatiche violenze. Anche il navigare in Internet può dare l'illusione di non
essere soli, riempiendo, in realtà, il sostanziale vuoto che deriva dalla mancanza di
amicizia e amore. Si è costituito nel tempo quello che la Contini chiama “il contesto
che non c'è”, talmente pervasivo e condiviso da non essere più percepito. Il soggetto
contemporaneo rischia di divenire, per dirlo con Heidegger, un “soggetto senza
logos”, cioè privo di quelle capacità di ascolto4 e di parola di cui, in potenza, è

2 “Spirito dei tempi” in lingua tedesca.


3 Ci si riferisce alla concezione di corpo che hanno i filosofi Husserl e Merleau-Ponty nelle loro
fenomenologie. Si tornerà più avanti su questo.
4 Mariagrazia Contini individua nella quotidianità quattro modalità di ascolto improduttive: “a)
ascolto 'simulato' (si assume l'espressione di chi ascolta e si pensa ad altro); b) ascolto 'rassegnato'
(non si intravedono mai motivi d'interesse in ciò che l'altro dice); c) ascolto 'giudicativo' (mentre
si ascolta, si 'affilano' le armi per poi emettere i propri giudizi); d) 'non ascolto' (il dialogo si
traduce in un alternarsi di monologhi incuranti l'uno dell'altro)”. M. Contini, Per una pedagogia

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capace: esso non sa più scegliere il suo senso, la sua direzione, il suo scopo.

“Gli studiosi della comunicazione commentano osservando che un fenomeno può


risultare inspiegabile 'finché il campo di osservazione non è sufficientemente vasto
da includere il contesto in cui il fenomeno si verifica'”5. Dal punto di vista
metodologico, risulta quindi indispensabile osservare un fenomeno con la
consapevolezza del quoziente di ambiguità che lo connota e ricercando un contesto
più ampio attraverso il quale analizzarlo. Rifacendoci al mito della caverna di
Platone, potremmo dire che è necessaria un'educazione che consenta di riconoscere
ciò che si vede come l'ombra di qualcos'altro.

Ciò detto, procediamo nel discorso. Osserviamo che la mancanza di strumenti


conoscitivi, per orientare e progettare l'esistenza, si concretizza, all'interno
dell'attuale contesto sociale, nella diffusa pratica della “chiacchiera”. La chiacchiera,
secondo Heidegger, “è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna
appropriazione preliminare della cosa da comprendere”6. La spinta anti-dogmatica
che mi guida, mi spinge a non vedere nella “chiacchiera” niente di male, se la
consideriamo come una pratica consapevole e di leggerezza episodica; ma essa, col
tempo, è assurta a “genere letterario”, serio e quasi “scientifico”. Essa viene
utilizzata, anche per temi cruciali, nell'ambito politico e nei conflitti interpersonali.
Tutto sembra appiattirsi su questo piano di cattivo spontaneismo. Allargare il
contesto di riferimento consente di “appropriarsi delle cose”, consentendo di fare
delle scelte rispetto a una situazione. Questo avviene, paradossalmente, perché rende
più complessa la situazione stessa, arricchendola di variabili e di opacità, e facendo
maturare l'atteggiamento del dubbio. Ciò non significa raggiungere una condizione
paralizzante che impedisca qualsiasi scelta, ma piuttosto significa conseguire
un'istanza di problematicità che consenta di fare scelte più adeguate rispetto al
contesto storico in cui ci si trova. L'adeguatezza di tali scelte la misuro attraverso la
loro capacità di creare - in un'ottica di obiettivo trascendentale - una serenità diffusa

delle emozioni, La Nuova Italia, Firenze, 1992, p. 64.


5 Mariagrazia Contini, La comunicazione intersoggettiva fra solitudini e globalizzazione, La Nuova
Italia, Firenze, 2002, p. 10.
6 M. Heidegger, Essere e Tempo, Longanesi, Milano, 1970 (ed. orig. 1927), p. 264: ho tratto da M.
Contini, op. cit., La comunicazione..., p. 59.

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tra gli esseri umani: mi riferisco alla dignità di ogni singola persona, al diritto alla
convivenza pacifica, all'opportunità di realizzare la propria soggettività e soprattutto
a quello che mi piace chiamare il “diritto alla conoscenza”7.

Il fenomeno della chiacchiera è connesso a quello della perdita di significato delle


parole. Un numero sempre maggiore di lemmi di straordinaria importanza come
felicità, giustizia, solidarietà, libertà hanno perso il loro peso, ossia la loro
fondamentale pregnanza. Il campo semantico che le circonda è stato distorto e
sterilizzato nell'interesse di qualcuno: la felicità a cui si fa riferimento negli spot
pubblicitari non ha nulla a che vedere con la felicità; la giustizia di cui si parla in
politica spesso non ha nulla a che vedere con la giustizia; l'amore di cui si parla nei
talk show non ha nulla a che vedere con l'amore, e via dicendo. Queste parole hanno
perso la loro storia, fatta di vissuto personale ma anche di artisti, pensatori e
intellettuali. Esse sono state violentemente private del loro significato, frutto di
un'elaborazione secolare di storia umana.

Per descrivere l'attuale situazione storica, è di moda, tra certi pensatori,


l'espressione “società della conoscenza”. Ma siamo così sicuri di essere in una
società dove è dato un posto di rilievo alla conoscenza? Non stiamo cadendo in
un'ambiguità? Non stiamo per caso confondendo la “conoscenza” con qualcos'altro?
Certo, è vero che in Occidente vi è una certa fruibilità della conoscenza rispetto al
passato grazie al diritto allo studio e grazie ad Internet. Ma non basta. Questa, che
tipo di conoscenza è? Penso che si debba allargare il contesto: considerare che il
termine “società della conoscenza” nasce in ambito economico, di pari passo con il
termine “società dell'informazione”, e si riferisce al “valore economico della
conoscenza come risorsa strategica”8. Si indica, cioè, quella conoscenza che è utile

7 Il ruolo sociopolitico che assume la conoscenza è messo in luce da Gramsci quando afferma che
“la tendenza democratica [...] non può solo significare che un operaio manovale diventa
qualificato, ma che ogni 'cittadino' può diventare 'governante' e che la società lo pone, sia pure
“astrattamente” nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far
coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati), assicurando
a ogni governato l'apprendimento gratuito delle capacità e della preparazione tecnica generale
necessaria al fine [...] formandolo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di
controllare chi dirige”: Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere. Gli intellettuali e
l'organizzazione della cultura, Editori Riuniti, Roma, 2000, pp. 141-142. Ho tratto da Massimo
Baldacci, Personalizzazione o individualizzazione?, Erickson, Trento, 2005, p. 54.
8 http://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_dell%27informazione, (29/07/2010).

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ai fini del ritorno economico. Viene dunque da chiedersi se i bisogni degli esseri
umani siano riconducibili solo al denaro. E se la risposta fosse negativa si
giungerebbe al nodo problematico della parola “conoscenza”. Essa infatti non indica
solamente le competenze spendibili nel mercato del lavoro. Il significato di
“conoscenza” ingloba dentro di sé una storia umana lunghissima, durante la quale ci
si è interrogati, non solamente su temi economici, ma anche sulla felicità, sulla pace,
sulla giustizia e su molto altro ancora. La conoscenza è utile ma non
necessariamente è utilitaristica. Conoscenza vuol dire anche esperienza, alfabetismo
emotivo, vissuti di condivisione con gli amici, filosofia, gioco e altro ancora; aspetti,
questi, che necessitano di tempi lunghi: il tempo della conoscenza reciproca, il
tempo dello studio, il tempo del pensiero, il tempo della scrittura. Agli occhi di molti
nostri concittadini, tutta questa parte di significato sembra risultare invisibile. Di
certo non i suoi effetti.

Conoscenza è anche meta-conoscenza, ossia sapere quali sono le condizioni e le


modalità che rendono possibile l'acquisizione intima della stessa. In sostanza
conoscenza significa anche conoscere i tempi e i modi dell'apprendimento. Questa
attitudine non si coltiva in tutti i corsi scolastici o universitari e tanto meno matura
usando Internet.

Nella prospettiva di far acquisire senso alla nostra realtà ritengo che sia più
corretto usare il termine “società dell'informazione” piuttosto che quello di “società
della conoscenza”. Oltretutto, in tal modo, si specifica meglio il riferimento esistente
all'information technology.

Dice Morin:

«Si tratta, nell'educazione, di trasformare le informazioni in conoscenza, di


trasformare la conoscenza in sapienza [...]»9.

L'informazione è anche “notizia dell'ultima ora”:

9 Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello
Cortina Editore, Milano, 2000, p. 45.

10
«[...] le parole della cronaca, quelle che rivendicherebbero l'oggettività, la fedeltà
del descrivere e raccontare: [...] risultano inaffidabili, nell'eccesso del loro proporsi e
riproporsi gridato, rivolto all'effetto, e insufficienti a produrre conoscenza,
confermando il celebre interrogativo “di quanta perdita di conoscenza è responsabile
l'eccesso d'informazione?”»10 (Contini).

Politici e commercianti, a seconda del bisogno contingente, utilizzano parole


cruciali per la vita umana con leggerezza velenosa: queste parole, spesso,
conservano, nel loro significato “sterilizzato”, solo quell'alone di fantasiosa
positività che oscilla tra il fanatico e il sentimentalista. Sto parlando di quelle che la
Contini chiama “parole logore”, ossia quei “bozzoli vuoti” che in un questo
momento storico hanno l'urgenza di essere rigenerati. Questo può essere fatto, su
larga scala, solo riportando al livello dei dirigenti politici la nozione di conoscenza e
il suo cruciale valore per la vita umana. La conoscenza ha infatti bisogno di
visibilità per essere un diritto di tutti.

Ma certamente è nella scrittura che possiamo individuare, all'interno del sistema


formativo in generale, una chiave per la possibile emancipazione da un potere che
svilisce la persona e il linguaggio. La scrittura, per la sua stessa natura lineare,
conduce al pensiero e alla problematizzazione, consentendo anche una
“rigenerazione” della parola. Essa si profila come esercizio teoretico e azione etica,
consentendo alle parole di diventare pesanti, “vincolanti nei confronti di ciò che
dicono”11.

Il linguaggio e la cultura di una società sono strettamente connessi, e questo è


evidente se si prende in considerazione, da una parte il linguaggio che caratterizza la
società occidentale contemporanea, cioè l'immagine multimediale dei mass media, e
dall'altra la sua cultura, che è connotata da caratteristiche quali la brevità, la velocità,
la frammentarietà, la prestazione, l'importanza attribuita al corpo “visibile”. Appare
evidente quanto siano simili i tratti del linguaggio e quelli della cultura.

10 Mariagrazia Contini, Elogio dello scarto e della resistenza. Pensieri ed emozioni di filosofia
dell'educazione, CLUEB, Bologna, 2009, p. 122. Il corsivo è mio.
11 Ivi.

11
Il linguaggio visivo, poi, ha un elemento di complessità relativo all'attività di
traduzione. Acquisire consapevolmente il contenuto di un'immagine vuol dire
poterla “metterla in parole” attraverso una descrizione e una spiegazione. “La
descrizione di un'immagine richiede un passaggio dalla modalità simultanea, che
caratterizza la visione, a quella lineare alla quale costringe il linguaggio”12. Nella
quotidianità, però, non abbiamo a disposizione il tempo necessario per elaborare tutti
i segnali multimediali che ci pervengono durante la giornata e questo comporta il
rischio di perdere il significato dei segni in cui siamo immersi. Oltre a ciò, i ritmi
frenetici del linguaggio visivo proposto dalla televisione e dai videogiochi,
costituisce un fattore di rischio per l'insorgere di problematiche di distrazione,
incapacità di soffermarsi e irrequietezza.

Ecco dunque l'esigenza educativa, nell'attuale società, di guidare l'uomo verso la


fiducia nella funzione conoscitiva del linguaggio: quella che, tra gli altri, professava
il poeta Edoardo Sanguineti, recentemente scomparso. Attraverso la sua poesia, colta
e ricca nel vocabolario, egli riusciva a scavare mirabilmente nel complesso mondo
dell'emozione umana, quasi alla ricerca di una descrizione che consentisse, in
qualche modo, di poterla conoscere. Era sempre lui che aveva sostenuto una stretta
connessione tra linguaggio e ideologia.13 Un alto livello di padronanza, sia
linguistica sia metalinguistica, è quindi fondamentale perché veramente sia
riconosciuto il “diritto alla conoscenza”. Come dice Dallari, “l'idea della
conoscenza, intesa come possibilità di formulare e condividere rappresentazioni, è
strettamente legata a quella di linguaggio e il conoscere è visto all'interno della
storicità e della contestualità”14.

Scrive Salvatore Natoli: “le parole risultano sapienti di per sé e per questo, ogni
volta, prima ancora di pronunciarle, bisognerebbe ascoltarle: come all'inizio dei
tempi. Infatti, non sono nostre, le parole, ma ci sono state donate, le abbiamo
apprese. Perché non suonino vane è necessario che non se ne perda l'eco profonda,
12 Hilda Girardet, Vedere, toccare, ascoltare. L'insegnamento della storia attraverso le fonti, Carocci
Faber, Roma, 2004, p. 84.
13 Cfr. Enrico Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Giulio Einaudi Editore,
Torino, 2005.
14 Marco Dallari, La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, Erickson,
Trento, 2005, p. 221.

12
che nel dirle si sia capaci di risentirle – quasi a trattenerle – per evitare che con il
suono ne svanisca anche il senso”15.

Queste parole mi riportano inaspettatamente a Morgan16, musicista italiano tanto


controverso quanto interessante, che nell'incipit sorprendente della sua canzone
“Altrove” sembra evocare, innanzi alla parola (in questo caso però), proprio quella
sensazione di allucinato stupore e insieme di impegno sociale:

«Però, cosa vuol dire però? [...]»17.

Proseguendo lungo il filone “sonoro” dei musicisti, mi sembra esemplare il


monologo teatrale di Giorgio Gaber, scritto a quattro mani con Sandro Luporini. Il
musicista-attore si interroga, con ironia ed angoscia, sul concetto di “senso”.
Sebbene il tono sia disilluso, amaro, e, a tratti, qualunquista, questo monologo ha il
pregio di sviscerare, esemplificandolo, il problema che stiamo dissertando:

«Secondo me è un periodo che non si capisce più niente. No, dico nelle
conversazioni, no? Sia che si parli di noi, sia che si parli del mondo.

No, perché io posso anche capire che uno abbia delle idee politiche… beato lui. Che
si spieghi. Ecco, che non dica parole che non vogliono dire niente… o tutto. Che poi
io gli rispondo, e lui mi risponde, e io gli rispondo, e mi fa incazzare, e finisce che si
litiga senza avere neanche capito bene di che cosa stiamo parlando.

Ordine ci vuole, ordine, a cominciare dalle parole. Bisogna ridargli un senso,


specialmente a quelle parole soggette a cambiare nel tempo. Eh! Perché se uno dice
"fascismo", non è che si sa tanto bene cosa vuol dire, però l’altro capisce che non è
una gran cosa. Perfetto, si sono accordati sul senso.

Ma se uno mi dice "democrazia", io gli do lo stop: "Stop! Adesso tu mi dici se per te


è una cosa buona o una schifezza!". Allora lui mi spiega con altre parole e io: "Stop!

15 S. Natoli, Povere parole senza peso, nel tempo della chiacchiera, “L'Unità”, 16 Maggio 2006, in
M. Contini, op. cit., Elogio dello scarto..., p. 122.
16 Nome d'arte di Marco Castoldi, già leader del gruppo musicale Bluvertigo.
17 “Altrove”, prima traccia dell'album Canzoni dell'appartamento, Columbia, 2003.

13
Stop! Stop!".

Mi evitano. Solo perché voglio che ci si accordi sul senso. Ma certo, anche per
difendermi. Ma dico, se uno a tavola ti dice "compagno", tu non sai se ti sta dando
del cretino o no! Si potrebbe capire sapendo lui come la pensa, questo sì, ma se te lo
dice uno per strada, eh? "compagno"... Dal tono forse:

"Compagno!". Questo è chiaro.

"Compagnooo…". Anche questo è chiaro.

"Compagno?!". Questo non si capisce, per esempio.

E poi, anche se si capisse, a questo punto non si sa più perché bisogna usare le
parole. Basterebbe fare: "Heee… blll… huuu… huuu...".

Bisogna decidere, su! O essere delle mucche o ridare un senso alle parole. Un senso
storico. Perché è la storia che come sempre fa casino, capisci? Ti cambia da un
giorno all’altro il significato delle parole, perché lei, la storia, c'ha un suo percorso,
no? e allora tu prima di parlare con uno devi sapere a che punto sta lui della storia,
no?

Io lo guardo un po’ poi gli faccio: "Tu dove stai?".

Mi evitano.

E fanno male, perché non stanno attenti, sono disordinati. Ma dico io, se uno non sta
dietro alle cose nell’arco di una vita una parola come "coppia", ecco "coppia",
"coppia"… quando ero piccolo erano due persone che si volevano bene. Poi c’è stato
un periodo che erano due persone… nemmeno due persone, era una schifezza
proprio! Adesso sta rimontando, vedi? Per coppia si intende "coppia critica", e cioè
loro sanno che è una schifezza ma va bene così. Perfetto! Perfetto! Va benissimo, si
sono accordati sull’imperfezione dell’amore, eh!

Amore? Stop! Bisognerebbe ridargli un senso. Anche le ragazze mi evitano.

14
Ma allora bisogna usare solo parole come cane, gatto, albero, cavallo! Ecco, se uno
mi dice "cavallo" lo so cos’è, eh! Non mi diverto ma lo so. Eh sì, perché se la gente
parlasse solo di animali, di verdure… di cassapanche, non si gode ma ci si capisce.

E invece allora parole di pace, di inflazione: stop! Energia, Einstein: stop! Cultura:
stop! Sfratti, religione: stop! Politica: stop! Stop! Stop! Accordiamoci sul senso!

Il senso?

Ma che senso ha il senso?»18.

Ora, nella nostra prospettiva, queste considerazioni possono essere il motore che
ci muove verso l'attivazione di un ciclo di negoziazione ermeneutica sul “senso”
delle parole. Dobbiamo recuperare il piacere dell'ascolto, quello che ci consente, per
dirlo con Gaber, di individuare “a che punto sta della storia” la persona che ogni
giorno vive accanto a noi. E questo, poi, non è altro che l'attitudine educativa
auspicata dalla Contini del “realizzare se stessi realizzando l'altro”: stile esistenziale
che, si badi bene, non ha niente a che vedere con uno spirito di sacrificio dal sapore
religioso. Infatti, se ci si pensa, la serenità della persona all'interno di un contesto di
convivenza è possibile solo se è realizzata la serenità dell'altro; e questo non avviene
respingendo nel nostro profondo i desideri e le legittime aspirazioni ma, anzi,
consentendone la vitale fuoriuscita.

È dunque attraverso una descrizione della realtà odierna che possiamo


rintracciare una direzione che ci orienti nel nostro percorso di educatori.

Per poter giustificare in maniera esaustiva l'importanza della figura del viaggio è
necessario però fare ancora qualche riferimento teorico che ci aiuti ad interpretare lo
Zeitgeist attuale.

Abbiamo già osservato come certi significati e certe direzioni di senso siano

18 Monologo Il senso di Gaber e Luporini, inserito nello spettacolo “Io se fossi...Gaber”, andato in
scena al Teatro Giulio Cesare di Roma dal 4 al 10 Marzo 1985, registrato da Polygam Italia e
reperibile nell'album musicale omonimo. In data 29/07/2010 il testo è consultabile su
http://wikitesti.com/index.php/Il_senso_-_Giorgio_Gaber (29/07/2010).

15
messi da parte nella contemporaneità, con conseguenze nefaste per la vita degli
esseri umani. Tra questi, però, va menzionata anche la visione dicotomica tra mente
e corpo: sapere dell'esistenza di tale concezione ci permette di leggere con più
compiutezza quel “contesto che non c'è”19, nel quale noi tutti siamo immersi. Infatti
una tradizione culturale che va da Platone a Cartesio fino ai giorni nostri ha maturato
la comune concezione, nel mondo occidentale, di una dualità gerarchica tra corpo e
mente che vede quest'ultima come legittima dittatrice sull'altro.

Scrive Platone: “e così, liberati dalla follia del corpo, ci troveremo, come è
plausibile, in compagnia di esseri simili, e conosceremo, da noi stessi, tutto ciò che è
semplice, ossia ciò che, con ogni probabilità, è la verità stessa”20.

Liberati dalla follia del corpo conosceremo la verità, scrive dunque nel Fedone il
filosofo ateniese, avviando un tipo di sguardo sui corpi che permarrà, con
sostanziale continuità di fondo, almeno fino a metà del Novecento. Questo modello
risulta però fortemente inadeguato per interpretare il mondo in ottica olistica e in una
prospettiva di felicità esistenziale. Come spiegare i fenomeni diffusi di
autolesionismo, di ipocondria, di angosciante disamore per il proprio corpo, e anche
gli episodi di innamoramento, di empatia o di improvvisa collera se non in termini di
relazione col corpo? Non è possibile far finta che questi aspetti dell'essere umano
non esistano, magari relegandoli alla categoria di “malattia genetica”21; non accettare
la propria gettatezza22 vuol dire, in ultima analisi, avere difficoltà di adattamento
all'ambiente. È opportuno quindi riferirsi a un modello diverso che veda mente e
corpo come parti di un'unica entità: il processo cognitivo, infatti, è incarnato
nell'azione corporea ed è fondamentale dunque un'educazione “all'essere il nostro
corpo”, ascoltandolo e rendendolo oggetto di riflessività, opponendosi all'idea
diffusa di “avere il nostro corpo”. Accolgo quindi “l'accezione husserliana, che
differenzia il Leib, il corpo vivente – e dunque il soggetto che io sono, imparentato

19 M.Contini, op. cit, La comunicazione ..., p. 2.


20 Platone, Fedone, 67a, in U. Galimberti, Psiche e techne. L'uomo nell'età della tecnica, Feltrinelli,
Milano 1999, p. 125.
21 Cfr. R.C. Lewontin, S. Rose, L.J. Kamin, Biologia, ideologia e natura umana: il gene e la sua
mente, Mondadori, Milano, 1984.
22 Termine heideggeriano, con significato di “condizione data” (termine di Bertin). Anche il nostro
corpo in certa misura fa parte della condizione data.

16
con Leben, la vita e Liebe, l'amore – dal Körper, organismo oggettivato”23,
scegliendo il Leib come figura guida del mio agire pedagogico. Assimilare nei nostri
pensieri il concetto di Leib significa riconoscere a noi stessi e a gli altri una storia
personale24, con la straordinaria conseguenza di poter cogliere le ragioni profonde di
un certo tipo di fusionalità25 o di conflittualità di un soggetto. Trovare nelle radici
esperienziali, culturali, famigliari, le possibili ragioni di un certo modo di
comportarsi vuole dire avere la possibilità di fare i conti “con quella storia, narrarla a
se stessi e all'altro, interpretarla, re-interpretarla e sollecitarne interpretazioni
altrui”26. In altre parole in questo modo possiamo instaurare una comunicazione
autentica, l'unica veramente feconda nella prospettiva di convivenza pacifica e di
serenità individuale. “ È a partire dalla comprensione che si può lottare contro l'odio
e l'esclusione”27.

Il maestro di Scuola Primaria deve essere consapevole del modello relazionale


introiettato nel contesto famigliare, quello che agisce, come imprinting remoto,
dentro se stesso e dentro i suoi alunni. Egli per di più, come suggerisce Anna Freud,
rappresenta nel contesto scolastico la figura genitoriale: è utile saper sfruttare questo
ruolo per regolare il monologo interiore dell'alunno, “alleandosi” col suo Super-Io28.
Nell'azione educativa in questa direzione, essere consapevoli del proprio e dell'altrui
Leib significa anche saper gestire in maniera professionale la propria comunicazione
non verbale.

Emerge da queste considerazioni quanto la psicologia sia strumento


23 Paola Manuzzi in Contini, Fabbri, Manuzzi, Non di solo cervello. Educare alle connessioni
mente-corpo-significati-contesti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, p. 63.
24 Rolando Dondarini e Beatrice Borghi propongono una “didattica della storia personale”. Questa
consiste nel partire dal presente e dall'analisi delle fonti storiche vicine al bambino (la casa, la
famiglia, la scuola, la città) per fare scoprire l'identità e per riconoscerla come esito di un percorso
interculturale di lunga durata nonché come strumento indispensabile per progettare il futuro.
Inoltre, nell'ottica di ricondurre la storia personale ad una storia collettiva comune al genere
umano, si possono analizzare con gli alunni le origini interculturali delle tradizioni come Babbo
Natale o Halloween. Cfr. B. Borghi, Come volare sulle radici. Esperienze di didattica della
storia, Pàtron, Quarto Inferiore (Bologna), 2005.
25 Tale termine si riferisce alla relazione tonico-affettiva che si instaura nella prima infanzia tra
madre e figlio: cfr. P. Manuzzi, Pedagogia del gioco e dell'animazione. Riflessioni teoriche e tracce
operative, Angelo Guerini, Milano, 2002, pp. 115-120.
26 M.Contini, op. cit., La comunicazione..., p. 4.
27 E. Morin, op. cit. , p. 50.
28 Cfr. Anna Freud, Il periodo di latenza in Opere, 1922-1943. Volume primo, Boringhieri, Torino,
1978.

17
indispensabile nel contesto educativo. “La pedagogia infatti non può non ricorrere
alla psicologia come sua scienza fonte privilegiata, e in assenza di una visione
psicologica complessiva, il processo educativo viene di norma descritto solo alla
luce delle fasi evolutive del bambino e senza tener conto di possibili dinamismi
evolutivi dell'adulto, che pure costituisce sempre l'altro inevitabile polo della
relazione educativa”29.

Facciamo ora un ultimo passo indietro per tentare di completare una visione
teorica d'insieme che possa consentire una comprensione adeguata della proposta
pedagogica che si sostiene in questo lavoro.

È necessario descrivere ora quella filosofia dell'educazione che governa, come


impianto teorico superiore, il metodo con cui, qui, vengono individuati i bisogni
educativi della società odierna.

Il riferimento fondamentale, a cui si è ricorso in maniera sotterranea anche nelle


precedenti argomentazioni, si individua nel problematicismo razionalista di Banfi e
nella rivisitazione che ne fa Bertin in chiave pedagogica, nella sua fenomenologia-
trascendentale. Questa prospettiva educativa è di tipo critico-progettuale, è rivolta al
mondo, ed è interessata all'esistenza dei soggetti; promuove possibilità per tutti, per
gli “ultimi” in particolare. Sostiene una progettualità che consenta agli individui di
costruire la loro esistenza non da esecutori di copioni altrui, ma da protagonisti
animati da speranza e capaci di “osare” l'utopia. Molto influente risulta la lezione
husserliana che vede la filosofia “come strenge Wissenschaft, [...]ovvero come
integratrice delle singole regioni del sapere, le scienze particolari [...]. L'uso
dell'epoché30 e il ritorno alle 'cose stesse' agiscono a favore di un orientamento
critico, aperto, antidogmatico”31 (non c'è una legge aprioristica). È una visione
questa che accoglie e accetta la complessità dei fenomeni, muovendosi in una
prospettiva che la Contini chiama paradigma della complessità (dove assume valore
il lemma anche). Essa consente di approdare al pensiero “ecolocizzante” sostenuto
29 Maria Teresa Moscato, Il viaggio come metafora pedagogica. Introduzione alla pedagogia
interculturale, Editrice La Scuola, Brescia, 1994, p. 11.
30 Traslitterazione dal greco antico ἐποχή , con significato di “sospensione del giudizio”. Cfr.
http://it.wikipedia.org/wiki/Sospensione_del_giudizio (20/08/2010).
31 M.Contini, op. cit., Elogio..., pp. 26- 27.

18
da Morin, ossia quello che “situa ogni evento, informazione o conoscenza in una
relazione di inseparabilità con il suo ambiente culturale, sociale, economico, politico
e, beninteso, naturale”32. Questo si riflette anche nella reciprocità con cui viene
concepita la duplice natura umana: “l'umanità non si riduce affatto all'animalità; ma
senza animalità non c'è umanità”33.

Un assunto importante è che “il problema morale non è posto per il singolo né
deve essere risolto dal singolo, ma è posto per l'umanità e risolto nell'umanità”34. La
verità non esiste “in sé”: si può dire che essa è prodotta dal nostro Leib, il quale –
attraverso la ragione - la fa esistere.

Il problematicismo-razionalista è influenzato inoltre dal quel pensiero freudiano


che ci esercita a un “sospetto” sistematico sulle nostre scelte teoriche e sulle nostre
modalità di attenzione selettiva alla realtà. Ribadisco ancora, anche in questo
frangente, che tale modus operandi non porta ad un inconcludente relativismo o alla
rinuncia di attuazione delle scelte, ma piuttosto conduce, attraverso l'allenamento al
dubbio e alla ragione, verso la capacità di fare le scelte più opportune in un
determinato contesto.35

L'esperienza, poi, è intesa come rapporto di integrazione (più correttamente di


tensione all'integrazione) fra le due polarità io e mondo, dove il mondo, si badi bene,
sono anche io stesso. Tale integrazione è sempre approssimativa e parziale;
l'obiettivo vale come idea limite, regolativa, trascendentale. Tale filosofia non
prevede la permanenza del pensiero all'interno della problematicità, ma un
superamento di quest'ultima in direzione della massima integrazione possibile, ossia
in direzione di ragione. All'interno di una problematica trovano posto innumerevoli,
e talora contrastanti, esigenze e finalità, e la metodologia d'analisi che sembra più
opportuna per fare ordine è quella che procede per antinomie. Alcuni esempi di
antinomie in ambito educativo, e non solo, sono: individualità/collettività,
spontaneità/autodominio, democrazia/totalitarismo, imposizione/negoziazione. È nel

32 E. Morin, op. cit., p. 19.


33 Ibidem, p. 37.
34 A. Banfi, in M. Contini, op.cit., Elogio..., p. 28.
35 Cfr. Le ragioni del soggetto, in M. T. Moscato, op. cit.

19
continuum tra i due opposti che, considerando la situazione storica contingente,
l'educatore può scegliere la direzione che meglio rispecchia il suo obiettivo. Questo
a sua volta è allineato con quello di preservazione della dignità e della serenità di
tutti gli esseri umani, che sono diversi tra loro per natura.

Fare una scelta vuol dire anche accettare l'elemento di finitudine: è un gesto di
coraggio che, insieme alla paura e all'angoscia, offre però anche chances di
cambiamento e di felicità. È attraverso il conflitto infatti che è possibile
l'adattamento all'ambiente e di conseguenza, come idea limite, la felicità. La ragione
problematicista è innanzi tutto un'esigenza, che può essere assecondata o meno dal
soggetto umano, e che contempla e accetta la dimensione del tragico come parte
dell'esperienza.

Conseguenza di questa visione, è la possibilità di promuovere, oggigiorno, ciò


che si prefigura come inattuale. Infatti, nell'antinomia nuovo/vecchio, considerati i
rimandi che queste due parole sono venute ad acquisire nel tempo e osservando - ad
un tempo - il contesto storico odierno, appare preferibile il secondo dei due poli.
Infatti il “nuovo” richiama alla mente immagini come: prodotti commerciali, moda,
velocità, efficienza, performance, competizione; mentre il vecchio ci conduce a
figure come: lentezza, inefficienza, regalo, artigianato, morte, famiglia. Viste le
problematiche che rileva attualmente l'educatore nel tessuto sociale – bambini
esagitati, difficoltà di attenzione, difficoltà nel linguaggio, depressione, violenze
famigliari, povertà – appare decisamente più opportuno fare una scelta in direzione
del vecchio, dell'inattuale appunto. In questo momento storico lo stile di vita ci
appare orientato in maniera eccessiva al consumo rapido e all'individualismo.
Questo giudizio scaturisce dalla constatazione che le conseguenze provocate dagli
elementi del “nuovo” non sono funzionali alla realizzazione di una serenità diffusa
ma anzi determinano disagio. Dobbiamo correggere il tiro, abbandonarci al recupero
dei “tempi lunghi”, alla gratuità, alla creatività individuale, al coraggio di affrontare
le paure, al dialogo e alla solidarietà famigliare. Inattuale va inteso anche nel
significato che gli attribuiva Nietzsche “quando affermava che 'spirito libero' era da
considerarsi chi osava pensare e sentire in modo inattuale, appunto, e cioè

20
divergente rispetto ai modi di pensare e di sentire del 'gregge' del suo tempo”36.
Osserviamo che oggi è inattuale tutto ciò che è scarto: quindi quello che è scarto,
rispetto a “ciò che conta”, richiede nella contemporaneità una visibilità sociale
maggiore. È necessario un riavvicinamento allo scarto inteso anche come distanza
temporale, come “tempi lunghi”, appunto.37 Insomma si profila un atteggiamento
pedagogico che sia, come sostiene la Contini, un esercizio di resistenza rispetto al
pensiero comune.

Ora siamo pronti ad accostarci, con una consapevolezza migliore del contesto di
riferimento, al nostro tema del viaggio. A partire dalla visione del mondo che sin qui
si è descritta, possiamo ricostruire una direzione di senso che vede nel viaggio un
potente strumento concettuale a cui può ricorrere l'educatore. Nelle sue sfaccettature
il viaggio può assumere una forte valenza formativa.

1.2 La figura del viaggio

Il dizionario della lingua italiana Sabatini-Coletti, edizione online, definisce il


viaggio come “atto di spostarsi da un luogo all'altro compiendo un certo percorso” 38.
È da questa semplice definizione che prendiamo le mosse per far emergere
l'interesse che desta questo vocabolo. Innanzi tutto l'atto di spostamento si rivela
subito degno di attenzione pedagogica: esso rinvia alla necessità del maestro di
spostarsi da un punto di vista all'altro in maniera quasi incessante, per far fronte ai
bisogni educativi dei propri alunni. La flessibilità e la capacità di decentramento
rispetto all'egocentrismo cognitivo sono abilità che la figura dell'educatore deve
maturare. Infatti, l'atteggiamento antidogmatico del pensiero, a cui ci si è riferiti in
precedenza, è allenato da un'abitudine al “viaggio” tra punti di vista diversi. Questo
vuol dire anche auto-formazione permanente, che attraverso lo studio e
l'osservazione, consenta un costante viaggio dentro le relazioni umane e dentro se
stessi. Tale tipo di spostamento implica un viaggio nel proprio passato e nel passato

36 M. Contini, op. cit., La comunicazione intersoggettiva..., p. 38.


37 Cfr. M. Contini, op.cit., Elogio...
38 http://dizionari.corriere.it/dizionario_italiano/index.shtml, alla voce “viaggio” (20/08/2010).

21
degli alunni, alla ricerca di tracce che ci aiutino a ricostruire un possibile contesto
nel quale inserire i nodi problematici della realtà scolastica. È poi direttamente
sequenziale la necessità di una competenza linguistica che permetta di distinguere e
confrontare le osservazioni e le ipotesi quotidiane. Sono questi strumenti razionali
che costituiscono quel “certo percorso” che l'insegnante segue nel suo viaggio
educativo.

A ben vedere, queste competenze dell'educatore sono in ragione della necessità


che gli alunni stessi le “incorporino” via via in forma embrionale. È infatti legittimo
affermare che l'insegnante, assumendo le spoglie del genitore, costituisca uno
specchio, un modello significativo, che avrà le sue implicazioni nel futuro del
bambino. L'insegnante, come professionista, è in grado di individuare la direzione di
senso più opportuna per un adattamento virtuoso alla società e per primo la assume
dentro se stesso.

Torniamo ora alla nostra definizione iniziale. Nello “spostarsi da un luogo


all'altro”, il “luogo”, oltre che mentale o temporale, rappresenta ovviamente un
luogo spaziale. In ambito scolastico viaggio può voler dire varie cose: visita al
museo, visita alla biblioteca di quartiere, uscita didattica in genere, vissuti di
lontananza dai nuclei istituzionali della famiglia e della scuola in senso stretto. Alla
luce delle riflessioni sinora fatte e per meglio chiarire l'interesse pedagogico che
ammanta questo “spostamento” spaziale, è utile riferirsi a una di quelle “censure
pedagogiche” che individuava Frabboni nel '89:

«Storicamente la scuola è cresciuta come agenzia “segregante”: e perciò


ingessata, inglobante, istituzionale, scissa dal territorio socioculturale a lei adiacente.
L'immagine che si raccoglie frequentandola è quella di un bunker fortificato,
impenetrabile, allergico alle ventate esterne, giudicate profanatorie e inquinanti i riti
didattici che quotidianamente celebra. Col risultato di relegare la propria utenza
dentro ad un santuario culturale “claustrale”: che ripudia l'ipotesi di uso didattico
dell'ambiente come “bacino” di cultura, come inesauribile moltiplicatore di
esperienze, ricerche, scoperte: “alfabetiere” di linguaggi “antropologici”,
multiblocco logico di percorsi sociali e naturali, glossario di valori etici, politici,

22
civili incisi sulla pelle di una collettività»39.

Ecco allora che uno spostamento dello sguardo – ma anche dei corpi – al di fuori
delle mura dei plessi scolastici, sembrava, negli ultimi anni ottanta, un'urgenza
pedagogica. Ma ben pensando alle riflessioni sin ora fatte le cose non sembrano
essere cambiate molto, o, quanto meno, tale urgenza rimane all'ordine del giorno.
Infatti la società, dovendo confrontarsi con il fenomeno dell'immigrazione, con i
cambiamenti sociali repentini e clamorosi, con un'informazione sensazionalistica e
senza misura ed essendo spesso orfana di istituzioni politiche “illuminate” ed
eticamente responsabili, appare eccessivamente pervasa da paure e aggressività
sintomatiche. Mi spiego meglio. Paura e aggressività sono dettate in primo luogo
dall'incapacità emotivo/cognitiva di far fronte alle sfide e alle difficoltà quotidiane, e
le cause sono da ricercarsi in una perdita del “senso del Sé” 40: la propria soggettività
sembra smarrirsi nelle tante identità che ci vengono proposte come migliori, come
vincenti41. Ciò avviene proprio a discapito delle esperienze “diverse” e cioè di una
ricerca della propria identità attraverso il confronto con le persone che ci circondano.
A sua volta questo fenomeno è riconducibile a quella “sovrastruttura” economica
che in larga parte coincide con lo “spirito dei tempi”. Se a ciò si aggiunge un deficit
politico rispetto agli investimenti economici ed umani destinati alla scuola pubblica
e un deficit rispetto alla promozione della cultura in genere, il quadro che ne
scaturisce non è dei più incoraggianti. È l'istituzione formativa pubblica, infatti, che
gioca nella società un ruolo nevralgico per conferire quegli strumenti esperienziali
che poi consentiranno la maturazione dell'individuo e che potranno condurlo verso
un'esistenza serena, integrata nel tessuto sociale. Affinché si realizzi pienamente
l'umanità deve essere mantenuto vivo il ciclo di trasmissione culturale.
L'organizzazione esistente fra gli uomini è frutto di una lunga storia di entusiasmi,
errori e prese di coscienza, e tutto questo bagaglio di conoscenza straordinario non
può essere precluso a nessuno. Conoscere i fatti, che eppure in molte nazioni è una

39 Franco Frabboni in Riccardo Massa (a cura di), Linee di fuga. L'avventura nella formazione
umana, La Nuova Italia, Firenze, 1990. Sono di Frabboni le idee di sistema educativo aperto e di
aule didattiche decentrate.
40 Cfr. Lis, Stella, Zavattini, Manuale di psicologia dinamica, Il Mulino, Bologna, 1999, pp.
266-267.
41 Ci si chiede: cosa vuol dire vincenti?

23
possibilità esistente, non basta. Serve un cammino in direzione di analisi, verso
ipotesi di risoluzione dei problemi: ma, per fare questo, l'educazione (quella “vera”)
deve rimanere tra le pietre miliari delle istituzioni. Oggi siamo carenti di educazione
pedagogica e di educazione psicologica (educazione al rapporto amoroso di coppia,
alle differenze di genere, al sentimento, alle emozioni), di educazione alle nuove
tecnologie (nel senso tecnico di come si costruiscono) e, ancora, di educazione
filosofica e storica. A sproposito si parla di “società della conoscenza”, quando
invece i saperi sono sempre più divisi in compartimenti stagni, con bassissime
occasioni di interscambio42. I saperi sono sempre meno visibili alla società; mancano
occasioni educative serie e pianificate su vasta scala.

Riprendendo le fila del discorso, possiamo dire che il fatto di “mettere il naso”
fuori dalla scuola, usufruendo, come suggerisce Frabboni, delle risorse culturali e
umane del territorio, costituisce un punto qualificante dell'istituzione educativa, che
in questo modo abitua il bambino ad avere fiducia nelle esperienze di conoscenza.
Infatti esperienza vuol dire in buona sostanza incontro col diverso, sua assimilazione
nel proprio Sé e infine serenità. Ecco dunque la ragione ultima che giustifica
l'opportunità di muoversi fisicamente dalla propria scuola. Essa è la possibilità di
accostarsi ad un luogo sconosciuto e a ritmi temporali inconsueti; è l'opportunità di
prendere confidenza con la distanza dalla famiglia e di incontrare persone diverse.

Oltre a ciò, l'intento educativo è quello di “seminare” tra gli alunni una sorta di
“germe cosmopolita”. Esso, col tempo - che è quello scarto che fa maturare i
risultati - permetterà loro un'integrazione migliore all'interno di quello che Hannerz
chiama “ecumene globale”. A tal proposito l'antropologo svedese afferma che:

«il cosmopolitismo genuino è in primo luogo un orientamento, una volontà di


interagire con l'Altro; esso prevede un'apertura intellettuale ed estetica verso
esperienze culturali divergenti, una ricerca dei contrasti più che dell'uniformità.
Trovarsi a proprio agio con più culture significa diventare un aficionado, concepirle
come prodotti culturali. Nello stesso tempo, il cosmopolitismo presuppone
competenza, in senso generale e in senso più stretto, specialistico: si tratta della

42 Cfr. E. Morin, op. cit.

24
prontezza, dell'abilità personale nell'orientarsi nelle altre culture, ascoltando,
guardando, intuendo e riflettendo, come pure della competenza culturale nel senso
più stretto del termine, un'innata capacità di muoversi con destrezza in un particolare
sistema di significati. [...]

Tuttavia il desiderio di avere a che fare con l'Altro, e la preoccupazione di


guadagnare competenze in culture che inizialmente risultano estranee, sono cose che
riguardano il “Sé”. Dunque il cosmopolitismo ha una valenza narcisistica: il Sé si
struttura nello spazio dove le culture si rispecchiano l'un l'altra.

La competenza riguardo alle culture estranee porta a un senso di padronanza come


aspetto del Sé: la comprensione personale si espande, un'altra piccola parte del
mondo finisce sotto il controllo»43.

Sebbene secondo Hannerz sia necessaria una “innata capacità di muoversi”, va


detto che noi, come educatori, dobbiamo consentire che questa strada verso il
viaggio e verso la diversità culturale venga quantomeno aperta. Dobbiamo offrire ai
nostri allievi la possibilità di esperire, in sedicesimo, questo sguardo verso il mondo,
in modo tale da poter dare a tutti delle opportunità verso quell'orizzonte. Credo che,
anche senza arrivare ad una vera e propria “formazione al cosmopolitismo”,
l'esperienza di viaggio nella Scuola Primaria sia una straordinaria opportunità di
crescita. Essa contribuisce a quel processo esperienziale di adattamento che fortifica
il senso del Sé, e abbiamo già rilevato quanto ciò sia necessario nel nostro sistema
sociale. Constatiamo che l'apertura al diverso e la disponibilità all'aiuto sono
attitudini possibili solo qualora vi sia serenità, ossia solo fortificando il proprio Sé.
Dobbiamo però puntualizzare che il cosmopolitismo non deve essere associato a
qualsiasi forma di viaggio. Scrive ancora Hannerz:

«molte persone viaggiano con l'idea di “casa più”: Spagna è “casa più sole”, India
è casa più servitori, Africa è “ casa più elefanti e leoni”. E per alcuni, naturalmente,
viaggiare è idealmente “casa più affari migliori”. Qui non si dà nessuna apertura di
massima a qualsivoglia imprevedibile varietà di esperienze; i benefici della mobilità

43 U. Hannerz, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 131. La sottolineatura è mia.

25
sono strettamente regolati. Viaggiare in questo modo non è da cosmopoliti e non
crea cosmopolitismo»44.

Ben diverso è il caso dell'esule, per il quale “la vita in un altro paese può essere
'casa più salvezza', o 'casa più libertà', ma spesso semplicemente non è casa: egli è
circondato dalla cultura straniera ma non ci si immerge”45.

La necessità del contatto col diverso e con ciò che sta “fuori dalla scuola” è
importante perché la vita sociale contemporanea richiede un'assimilazione all'interno
della propria identità di un vastissimo e complesso contesto culturale che non può
esaurirsi dentro le mura scolastiche. Per quanto la scuola non sia l'unica agenzia
formativa che si occupa delle nuove generazioni, essa rimane un cardine
fondamentale.

Ormai non funziona più - se mai ha funzionato - la corrispondenza


identità/cultura/nazione/Stato che poteva funzionare tempo fa. Oggi chiedere a
qualcuno “di dove sei?” potrebbe risultare, in alcuni casi, una domanda inadeguata
perché riflette, in ottica essenzialista, una sovrapposizione concettuale fra luogo di
origine e identità culturale. Bisogna prendere atto di un cambiamento sociale che
richiede una fuoriuscita dal provincialismo per un'apertura al mondo. Ferma
restando la crucialità del bisogno di una rappresentazione identitaria, e anzi proprio
per questo, reputo che sia importante che la scuola faciliti la “transizione” verso la
diversità, evitando cioè di propendere eccessivamente per una didattica fatta di
ritualità quotidiana, che pure, sia detto, gioca un ruolo importante. La nostra
pedagogia, per quanto possibile, deve cominciare a ragionare in termini di persone
più che in termini di culture, solo questo modello potrà consentirci di leggere il
presente con un occhio verso un futuro di convivenza pacifica; ricondurre alla
persona (al suo Leib) le ragioni di una situazione problematica consente di
recuperare quella soggettività, quell'autodeterminazione, quel costume critico, quel
senso del Sé e quella dignità che sembrano costituire gli elementi più funzionali
della nostra visione esistenziale.46
44 Ibidem, p. 133.
45 Ibidem, p. 134.
46 Cfr. Vincenzo Matera, Antropologia in sette parole chiave, Sellerio, Palermo, 2006.

26
La questione multiculturale non si esaurisce chiaramente lungo il confine di
questi aspetti: strettamente connessi figurano i problemi politico economici a livello
internazionale, i quali impediscono un confronto autentico fra i cittadini del mondo.

Il viaggio è formativo anche rispetto a un'educazione alla creatività. Assumo qui


il significato che ne dà l'artista e designer Bruno Munari. Sebbene l'autore faccia
riferimento alla creatività nell'ambito più strettamente artistico, si può scorgere nel
suo pensiero un'utilità trasversale che va oltre l'educazione grafico-pittorica. Ma
andiamo per gradi.

Marco Dallari spiega molto chiaramente che:

«[...] Bruno Munari individua significati differenti per i termini fantasia,


invenzione e creatività, anche se si tratta di funzioni limitrofe e in qualche modo
complementari: la fantasia indica la capacità di concepire, di pensare, ciò che prima
non c'era. Quando la fantasia comincia a “funzionare” ecco l'invenzione, che fa
diventare immagine ideale e progetto il lavoro della fantasia. Il “materiale” di cui
l'invenzione si serve è ciò che già si conosce, ciò che c'è già, ma l'invenzione
consiste proprio nel ricombinare idealmente questo materiale, empirico o astratto
che sia, in modo nuovo e originale. La creatività è infine, per Munari, la capacità-
possibilità di realizzare e mettere in pratica (che significa anche far entrare in
relazione con gli altri) ciò che la fantasia ha concepito e l'invenzione ha trasformato
in progetto. Appare così evidente come, nella concezione munariana, l'invenzione e
la creatività non hanno bisogno solo di “doti” intellettuali, non sono solo idee e
pensiero: nascono e vivono anche grazie ai luoghi e ai materiali attraverso cui è
loro data la possibilità di prendere corpo. Ed è, d'altra parte, ben chiaro che anche la
fantasia, se non è alimentata, incoraggiata, allenata dall'abitudine e dalla pratica
inventiva e creativa, si ottunde e scompare dall'orizzonte del pensare e del fare:
diventa, come direbbe Vygotskij, fantasticheria»47.

Perché vi sia creatività, quindi, vi devono essere, nell'esperienza del singolo,


anche “luoghi” e “materiali”. Se attraverso il viaggio aumentiamo l'esperienza del

47 M. Dallari, op. cit., La dimensione estetica..., p. 204. Il corsivo è mio.

27
singolo, aumentiamo anche il “materiale” a cui egli può attingere per il suo pensiero
creativo, alimentiamo quello che Calvino chiama il “cinema mentale” che non è
altro che il nostro processo immaginativo di invenzione, ossia quella visione
interiore necessaria alla creazione effettiva48. A ben pensare questo tipo di pensiero
ha risvolti che vanno oltre il mondo dell'arte in senso stretto: infatti esso nutre quello
che J.I. Guilford ha definito pensiero divergente, ossia quella capacità di organizzare
gli elementi intellettuali in maniera originale, permettendo, ad esempio, di dare
risposte diverse allo stesso quesito. È un'attitudine questa che consente al soggetto di
svelare stereotipi e pregiudizi.

Si configura quello che possiamo chiamare “atteggiamento creativo” che non è


altro che il risultato di quel “allargamento di contesto”, rispetto all'oggetto di analisi,
che trova utilità sia a livello metodologico sia a livello esperienziale. Come dice
Dallari “ciò significa, in termini di educazione (e di autoeducazione) che aumentare
e differenziare intenzionalmente il più possibile il flusso delle percezioni accresce il
numero delle relazioni possibili fra esse, aumenta i dati e i modelli a disposizione del
percepiente e allarga l'orizzonte possibile delle sue scoperte percettive”49.

L'esperienza “vera”, che si distingue dalla fantasticheria, ha il pregio di dare al Sé


un senso di controllo sulla realtà50. Ciò allontana il soggetto da quelle paure
irrazionali che a loro volta si trasformano in pregiudizi e pensieri riduzionistici.
Come ben osserva lo psicologo statunitense G. Allport, “i timori immaginari
possono provocare sofferenze reali”.51 L'autore nella sua opera The nature of
prejudice analizza nel dettaglio tutti quei meccanismi conflittuali che “naturalmente”
coinvolgono il comportamento umano. Esser consapevoli di tali dinamiche e
problematizzare la realtà - anche con l'ausilio di esperienze di viaggio - sarebbe per
il genere umano una grande conquista. È purtroppo ancora attuale quello che
affermava lo stesso Allport, nella sua America multietnica, durante il 1954, a pochi
48 Cfr. I. Calvino, Visibilità in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,
Mondadori, Milano, edizione 2002, pp. 93-94.
49 Ibidem, p. 207. Il corsivo è mio.
50 È interessante il ruolo che ricopre la fantasticheria nelle nevrosi sino ad arrivare alle psicosi.
L'esperienza di viaggio potrebbe, in certa misura, assumere un ruolo come fattore protettivo e
preventivo rispetto al disagio psicologico.
51 G. Allport, La naturaleza del prejuicio, EUDEBA, Buenos Aires, 1962 (ed. orig. 1954), p. 7. La
traduzione è mia.

28
anni dalla fine della guerra :

«È falsa l'opinione che la scienza debba dedicarsi al progresso materiale,


lasciando la natura umana e le relazioni sociali abbandonate a un senso morale
innato, senza guida. Ora sappiamo che gli avanzamenti tecnici, da soli, creano più
problemi di quanti ne risolvano»52.

Ci resta da considerare ora un'ultima componente importante del viaggio, ossia


quella dell'avventura. Il Devoto-Oli definisce l'avventura come “vicenda singolare e
straordinaria, caso inaspettato” e ancora come “impresa rischiosa ma attraente per
ciò che vi si prospetta d'ignoto e vi si vive di fuori del comune”; fa derivare la parola
dal latino adventura col significato di “le cose che accadranno”53.

Appare subito chiaro che l'avventura determina la rottura con la routine e prevede
l'incontro con la diversità: questo fa paura e attrae allo stesso tempo. Le parole
“vicenda”, “caso”, “impresa” ci riportano alla dimensione istantanea più che a quella
processuale o a lungo termine che invece suggerisce il viaggio. Ma non si può
pensare di eliminare dall'esperienza di viaggio il suo aspetto avventuroso, il quale ne
è parte costitutiva e integrante. Alla luce di alcune argomentazioni che a tal
proposito fa il filosofo e musicologo francese Jankélévitch, possiamo considerare
l'avventura come un modo di concepire il tempo che, nonostante si esprima nel
presente, si rivolge al futuro, all'avvenire appunto. Nell'avventura si sa che ci sarà
un futuro ma non si sa come esso sarà: per essa c'è attrazione ma allo stesso tempo
spavento. L'avventura è gioia del cominciare e del creare ma, soprattutto, è un
sentimento passionale riconducibile in una certa misura all'Es freudiano. Ora,
facendo nostra un'altra istanza individuata da Jankélévitch, possiamo dire che il
viaggio è connotato da serietà, ossia dalla capacità di coordinare razionalmente il
tempo nel suo insieme. Esso deve fare i conti non solo con i tempi dell'avventura ma
anche con i tempi della noia (altra istanza posta in essere dal filosofo)54. Per dirlo
integrando alcuni termini psicodinamici, potremmo affermare che la serietà è il

52 Ibidem, p. 9. La traduzione è mia.


53 Devoto-Oli, Vocabolario della lingua italiana 2007, Le Monnier, Firenze, 2006.
54 Cfr. Vladimir Jankélévitch, L'avventura, la noia, la serietà, Lampi di stampa, Milano, 2000 (ed.
orig. 1963).

29
nostro Sé, il quale per vivere e farci sopravvivere ha bisogno di accettare e di
“incorporare” la sua libido; libido che, a sua volta, ora tende verso la noia ora tende
verso l'avventura. Quest'ultima quindi, per la sua natura “libidinosa”, racchiude in sé
una dose di morte possibile, di tragedia, cioè quel rischio di perdere il controllo
sulle cose, di non riuscire a dominarle. Vivere un'avventura significa sapersi
vulnerabili. Anche nel caso dell'“avventura amorosa” essa si compie quando si è
riusciti, per un momento, a lasciarsi alle spalle i fantasmi, quelle paure primigenie di
abbandonarsi unicamente all'istinto. È per queste ragioni che l'avventura può
configurarsi come tabù: è in essa che stanno gli elementi di rottura e di trasgressione
che sono propri del viaggio.

Il viaggio oltre che essere esperito in prima persona nelle sue molteplici forme -
come sin ora abbiamo visto - può essere trasmesso attraverso mezzi e codici: ci
interessa ora soffermarci sulla trasmissione attraverso la scrittura e la narrazione.
Nel prossimo capitolo ci soffermeremo sull'immaginario del viaggio nella letteratura
per l'infanzia ma prima di fare questo è necessario chiarire le ragioni teoriche che ci
spingono ad occuparcene.

Le fiabe e certi tipi di storie molto conosciute hanno un peso sociale spesso non
riconosciuto. Queste narrazioni sono caratterizzate dalla fama che riscuotono nella
società e dalla “presa” che hanno al suo interno. Esse racchiudono in sé qualcosa di
straordinario, qualcosa, potremmo dire, di mitico. Secondo Vanna Iori il mito “è la
narrazione poetica di eventi remoti e straordinari, di personaggi eccezionali,
fantastici e tuttavia reali, che esprime, nel contesto collettivo della civiltà che lo
produce, una interpretazione della realtà o modelli di comportamento o qualità a cui
aspirare”55. È nelle ripercussioni che questi miti hanno sulla società – che a sua volta
è quella che li ha generati – che sta il loro peso sociale, la loro influenza, la loro
importanza. “Bruner teorizzava, già nei primissimi anni Settanta, la necessità di una
società 'mitologicamente istruita', in cui cioè si fosse consapevoli sia della funzione
orientativa della metafora, della fiaba e del mito nei processi educativi, sia della
irrinunciabilità della funzione mitologizzante nella vita umana; infatti da questa

55 V. Iori, Il mito evento educativo originario, in AA. VV., Pedagogia al passato prossimo, La
Nuova Italia, Firenze 1991, p. 17. Ho tratto da M. T. Moscato, op. cit. , p. 98.

30
tendenza irrinunciabile deriva la costante rigenerazione di miti contemporanei, oggi
variamente manipolati dai mass media”.56 Si pensi a certi modi di pensare
riconducibili alla mitologia contemporanea: l'immaginario di diventare “famosi”,
magari tutto d'un tratto, quando qualcuno si accorgerà del nostro talento
straordinario; l'immaginario inconfessabile di diventare ricchi e potenti, magari
proprietari di villa con piscina, con donne o servitori a piacimento, invidiati dagli
altri; e ancora l'immaginario del furbo, magari anche belloccio, che alla fine vince
sempre e ha successo. Questi sono alcuni esempi che estraggo dall'inconscio
collettivo della contemporaneità il quale, a ben vedere, ha tanto il sapore di una
nevrosi sociale. Infatti molti elementi di questa mitologia sembrano essere
totalmente disadattivi all'ambiente, totalmente lontani da un orizzonte di convivenza
serena. Non ci sorprende scoprire che questo immaginario mitologico sia
accompagnato dallo svuotamento di senso di parole come “felicità”, “amore”,
“giustizia”, “maturazione”, “vincita”, “successo”, “femminilità”, “mascolinità”.

In questo passaggio il riferimento è a Jung. Egli ci permette - senza approfondire


in questa occasione il suo pensiero - di trovare nelle “rappresentazioni archetipiche”
un “orientamento psichico inconscio che, quale che sia la veste simbolica assunta nel
concreto e particolare contesto culturale, esprime una modalità universale di
rappresentazione della coscienza umana”57. Vale a dire che nelle narrazioni che
formano l'immaginario collettivo di un gruppo di persone, si nasconderebbero alcuni
archetipi, ossia alcuni modi della coscienza che accomunano tutti gli esseri umani.
Tra queste figure archetipiche, dal punto di vista pedagogico, ve ne sono alcune
molto importanti per il benessere del genere umano: si pensi alla figura del padre,
alla figura della madre, alla relazione genitore/figlio.

Considerando la complessità dell'epoca attuale non è possibile, in questo lavoro,


individuare, analizzare e scegliere in maniera del tutto esauriente quelli che
dovrebbero essere i profili mitici da promuovere. Stiamo seguendo qui un preciso
filo conduttore: ci limiteremo a proporre qualche narrazione nell'ambito della figura
archetipica del viaggio. Anch'esso infatti ha una potenza mitologica che attraversa

56 Ivi.
57 Ivi.

31
tutte le culture e che ritroviamo in tutti gli immaginari fiabeschi del mondo.
Cercheremo di individuare quelle narrazioni di viaggio che più ci sembrano
assumere una valenza formativa.

32
2. LETTERATURA PER L'INFANZIA E VIAGGIO

2.1 Narrare: le storie, le fiabe

Abbiamo rilevato quanto sia importante il linguaggio nella nostra prospettiva


pedagogica. Resta però da sottolineare in maniera più esauriente l'aspetto narrativo
del linguaggio, il quale risulta strettamente connesso a quello semantico. Infatti
scrivere e parlare, o più in generale narrare, ci permette di immergere l'oggetto in un
contesto sintattico intellegibile, evitando che il significante si svuoti di significato,
andando in pasto a mistificazioni cieche o a paure irrazionali. Come dice Dallari:

«[...] è solo guardando l'oggetto in riferimento a una direzione di senso e


nominandolo che la percezione diviene vissuta (attraverso i processi di apprensione,
rappresentazione) e genera rappresentazione. Possiamo dunque dire che una cosa è
rappresentata quando diviene pensiero, e pensiero detto, cioè offerto alla
condivisione, e dunque a un ulteriore livello di modifica e aggiustamento della
rappresentazione. Ciò trasforma la percezione, fenomeno prettamente bio-fisiologico
e soggettivo, in rappresentazione, evento culturale e intersoggettivo. Perché ciò che
vediamo non è mai la cosa, ma, per dirla con Husserl, il suo noema»58.

Abbiamo bisogno di capacità linguistico-sintattiche per poter interiorizzare


consapevolmente gli oggetti, per mantenere vitale quel continuo ciclo di costruzione
rappresentativa necessario alla vita umana59. Va osservato che, per poter condividere
le rappresentazioni, e per avere l'opportunità di connotarle di problematicità, pare
necessaria una rappresentazione superiore, ossia una struttura mentale che leghi in
maniera consequenziale e ordinata le sotto-rappresentazioni. Quel modulo sintattico
– che appare del tutto razionale – è individuabile, appunto, nel concetto di
narrazione. L'epistemologo Bateson – in linea peraltro col pensiero bruneriano –
dice di più: sostiene che una caratteristica peculiare degli esseri umani è quella di
“pensare per storie”. Egli infatti ritiene che “solo le strutture della narrazione sono
capaci di dare senso e ordine a ciò che degli esseri umani pensano e scoprono del

58 M. Dallari, La dimensione estetica della paideia. Fenomenologia, arte, narratività, Erickson,


Trento, 2005, p. 216.
59 Dallari parla di laboratorio ermeneutico delle rappresentazioni.

33
mondo ma anche alle rappresentazioni che gli individui costruiscono di se stessi.
L'immagine dell'identità personale è dunque un'identità narrata, e ciò che costruisce
l'unità e la condivisibilità dell'identità personale di un individuo è il suo 'sé
narratore'”.60 Vediamo qui come la narrazione sia cruciale, ancora una volta, per
l'emergere di quel “Sé” che abbiamo considerato come elemento deficitario nella
contemporaneità.

Per “allontanarci” da una società che censura i propri desideri e le proprie paure,
e per marcare le distanze dalla prospettiva di una collettività di persone “insicure”,
defraudate del diritto ad avere un'identità integra e originale e, ancora, per vivere
una società che tenda utopicamente alla serenità di tutti e alla libertà del pensiero, è
necessaria una seria e consapevole educazione al linguaggio e alla narrazione.
Immergendoci fra le righe di un libro o ritagliandoci qualche tempo per prendere in
mano una penna e scrivere, ci rendiamo più liberi, ampliamo le nostre possibilità di
stupirci ed emozionarci; ma soprattutto impariamo a gestire le nostre ansie, le nostre
paure, a ipotizzare quelle degli altri, scopriamo di avere delle idee personali da
difendere e, alla luce di nuove conoscenze e consapevolezze, mutiamo il nostro
giudizio su qualcuno o qualcosa. Tutto ciò grazie alla cifra analitica e ordinata della
narrazione. A tal proposito, scrive Morin:

«È il romanzo che estende il regno del dicibile alla complessità infinita della
nostra vita soggettiva, che utilizza l'estrema precisione della parola, l'estrema
sottigliezza dell'analisi per tradurre la vita dell'anima e del sentimento»61.

Quindi noi come educatori - per professione e non - siamo tenuti a far edificare e
a far vivere quel “regno del dicibile” di cui ci parla Morin. Come fanno i nostri
alunni, i nostri figli o i bambini che timidamente salutiamo per strada, a vedere
riconosciuto il loro diritto ad avere una personalità equilibrata, il loro diritto di
affrontare con coraggio le sventure e di prendere godimento dei momenti felici, se
non offriamo loro le occasioni per padroneggiare in maniera eccellente il
linguaggio? Come faranno costoro a gestire i loro conflitti interpersonali se non

60 M. Dallari, op. cit., La dimensione estetica..., p. 223. Il corsivo e mio.


61 E.Morin, op. cit., p. 47.

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avranno conosciuto attraverso la lettura la possibilità di “mettersi nei panni”
dell'altro, se non sapranno cogliere le sfumature psicologiche sempre mutevoli di cui
ognuno di noi è portatore? Sì, perché per quanto la “narrazione per storie” possa
essere considerata un elemento umano innato, in una società complessa e ambigua
come l'attuale - che nei secoli ha maturato conoscenze mirabili – si rende
indispensabile un sostegno in questo senso da parte dell'istituzione scolastica, e poi,
a ruota, da parte di ogni singola persona. Bisogna impegnarsi in prima linea per
conservare - “nella narrazione” - quello splendido patrimonio culturale umano,
patrimonio di conoscenze scritte e di conoscenze “parlate”, di cui siamo portatori.
Per avvicinare il bambino alla narrazione vi sono naturalmente varie modalità
didattiche possibili: su queste per ora non ci soffermeremo.

Osservata la valenza formativa che la narrazione ha “di per se stessa”, ci


interessa ora prendere in rassegna alcune opere letterarie specifiche che in
particolare ritengo possano essere validamente utilizzate coi bambini di Scuola
Primaria. Più esattamente, continuiamo a seguire il filo conduttore del viaggio.
Quest'ultimo rappresenta uno strumento formativo aggiunto rispetto alla narrazione
“in sé”. Infatti abbiamo scoperto alla fine del capitolo precedente che il viaggio si
profila come figura archetipica e quindi come elemento di “presa” inconscia
sull'individuo umano a prescindere dalla sua etnia. Abbiamo anche rilevato come
esso assuma una particolare valenza formativa in questo contesto storico. Una forma
di viaggio dunque è vivibile anche attraverso la fiaba, il racconto, il romanzo per
ragazzi. Nel prossimo sottocapitolo entreremo nel merito di alcune opere per
l'infanzia di autori del Novecento. Prima però è indispensabile soffermarsi sulla
matrice primigenia di tutta la letteratura per l'infanzia, ossia quell'istanza prima che
connota di mitologico e di “appeal archetipico” tutta la scrittura per ragazzi. Mi sto
riferendo alla fiaba e al concetto di fiabesco.

Se prendiamo in esame alcune fiabe a caso, salta subito agli occhi la profonda
analogia che intercorre fra di esse, da cui si evince il loro legame con qualcosa di
comune, con qualcosa di archetipico appunto. Il linguista e antropologo Vladimir
Jakovlevič Propp prese cento favole dell'antica tradizione popolare russa, e scoprì

35
che in esse potevano cambiare gli attributi dei personaggi, le loro identità, i modi di
esecuzione delle loro azioni ma mai le loro “funzioni”: Propp ne enumerò trentuno 62.
Marco Dallari riassume lo schema della fiaba individuato dallo studioso russo nel
seguente modo:

« [...] succede una disgrazia, avviene un furto, un rapimento, un assassinio, una


trasgressione, insomma un “danneggiamento”. Viene chiesto aiuto a un eroe. Egli
parte. Per strada incontra qualcuno che lo sottopone a una prova, e lo ricompensa
con un mezzo magico. Grazie a questo mezzo magico egli trova quanto cercava, e
risarcisce il danno originario. L'eroe torna e viene premiato»63.

Trent'anni dopo l'analisi di Propp, l'antropologo francese Claude Lévi-Strauss


paragona le funzioni nella fiaba alla sintassi del linguaggio: quale che sia la parola
adoperata, la sintassi rimane sempre la stessa. C'è poi chi sostiene che tali analogie
“sintattiche” siano dovute alla strutturazione del pensiero umano, ossia alla
sostanziale impossibilità di produrre mito e fiaba, se non nel modo in cui appunto
esse sono state finora prodotte. Vi sarebbe una sorta di “limitatezza creativa”
dell'uomo in questo senso.

Si aprono così le porte verso un altro modello di analisi che non sia unicamente
formalista ma che invece osi penetrare le perturbanti dinamiche psichiche dell'essere
umano. Sulla scorta di Freud e Jung infatti possiamo rilevare, sia nel sogno sia nel
linguaggio fiabesco, le espressioni dei desideri repressi, degli impulsi irrazionali e
delle ancestrali paure “abbandoniche”. Quantomeno l'approccio psicoanalitico
spiegherebbe la presenza nella fiaba del desiderio di trasgredire e insieme quello di
non perdere “la strada verso casa” e anche la presenza della componente magica che
aiuta ad affrontare le paure e i timori più orrorifici. La magia, rileva Schwarz, “è
legata ai sentimenti infantili di onnipotenza, ed ha un ruolo nella lotta del bambino
contro il suo ambiente”64. La valenza mitico-archetipica della struttura individuata

62 Cfr. Vladimir Ja. Propp, Morfologia della fiaba. Con un intervento di Claude Lévi-Strauss e una
replica dell'autore, a cura di Gian Luigi Bravo, Einaudi, Torino, 1988 (ed. orig. 1966).
63 M. Dallari, La fata intenzionale. Per una pedagogia della fiaba e della controfiaba, La Nuova
Italia, Firenze, 1980, p. 11. Il corsivo è mio.
64 E.K. Schwarz, Studio psicoanalitico delle favole, in H. Marys, Psicoterapia infantile, Roma,
Armando, 1970, pp. 69-70. Ho tratto da M. Dallari, op. cit., La fata..., p. 15.

36
da Propp starebbe quindi nel fatto di essere la proiezione verso l'esterno di alcune
dinamiche psichiche proprie della natura umana. Scrive Schwarz:

«Le favole le troviamo in tutte le culture di tutti i tempi. Il loro scopo, conscio o
inconscio che sia, è quello di elaborare in forma simbolica alcuni problemi dello
sviluppo»65.

Per quanto lo studioso si riferisca più esattamente alla favola, anche la fiaba,
direi, assolverebbe a precisi bisogni psichici.66 Osserviamo quindi come la
morfologia della fiaba sia connessa in maniera biunivoca alle istanze psichiche della
biologia umana. Con Piaget, potremmo dire che il linguaggio simbolico svolge una
funzione di assimilazione, la quale infatti fatica ancora - in questa fase di sviluppo
del soggetto - a realizzarsi sul piano concreto.

Lo spavento che il bambino vive sul piano simbolico immergendosi in una fiaba,
lo aiuta a vivere più serenamente i momenti di spavento che vivrà nelle situazioni
esperite in prima persona nella realtà. Egli non ha ancora le conoscenze e la maturità
biologica per controllare e prevedere l'ambiente che lo circonda: la dimensione del
magico - mantenuta sul piano simbolico - lo soccorre in tal senso, consentendogli il
mantenimento dell'equilibrio psichico in questa fase dello sviluppo. Ci accostiamo in
questo passaggio alla valenza catartica della fiaba: essa traspone sul piano simbolico
le paure e i conflitti che animano il bambino nel suo viaggio verso l'adattamento.
Anche l'animismo - che secondo Bettelheim, rimane una peculiarità del bambino
sino alla pubertà67- permettendo di trasporre in oggetti o animali qualità umane o
magiche, diventa uno strumento potente di rielaborazione del materiale psichico del
soggetto che matura. Dallari nota con acutezza un'altra possibile funzione del
“magico”:

«[...] il concetto di magico è, a mio avviso, di per sé garante delle possibilità da


parte del bambino di introiettare alla fruizione della fiaba le categorie del diverso,

65 Ivi.
66 La distinzione tra fiaba e favola non è netta. La differenza verrà chiarita più avanti. In questo
passaggio ci basti osservare che entrambe sono componimenti brevi, e che entrambe sono generi
che rientrano nella letteratura per l'infanzia (sebbene la loro fruibilità non si esaurisca in essa).
67 Cfr. M. Dallari, op. cit., La fata..., p. 23. Bruno Bettelheim (1903-1990), psicoanalista austriaco.

37
del “non sempre controllabile” e quindi a prepararsi ad essere esistenzialmente
disponibile ad una interpretazione del mondo di tipo non necessariamente
meccanicistico e chiuso [...]»68.

Per conferire chiarezza e tentare di mettere ordine alla nostra argomentazione è


necessario a questo punto esplicitare le differenze fra fiaba e favola. Partiamo col
dire che il confine è labile, tant'è che nell'uso comune i due termini sono spesso usati
l'uno per l'altro. Inoltre essi denotano alcune caratteristiche che possono essere
considerate trasversali ai generi letterari; al punto che in alcuni casi sarebbe più
opportuno parlare di fiabesco e di favoloso: vi può essere del fiabesco in una favola
e vi può essere del favoloso in una fiaba. Comunque sia, la differenza esiste, e hanno
cercato di delinearla autori come Propp e Bettelheim. Mi propongo di mettere
chiarezza alla distinzione che adotto nel presente lavoro.

La fiaba è un breve componimento che ha come protagonisti personaggi


fantastici (fate, orchi, giganti...). In secondo luogo ritrae un immaginario che
propone un modello di individuo che afferma i suoi desideri personali e che,
realizzandoli, trionfa. Dunque viene dato spazio all'eros e alla libido, fino a dar
luogo persino alla fantasticheria. Bisogna fare attenzione però a non escludere le
componenti di “paura” e di “difficoltà” che parimenti sono insite nella trama
fiabesca.

La favola è un breve componimento in prosa o in versi che ha come protagonisti


animali antropomorfizzati o esseri inanimati (leoni parlanti, sassi...). In secondo
luogo ritrae un immaginario che propone un modello di individuo che deve
sottostare alle leggi insite nella vita concreta e a cui viene negata la possibilità di
trasgredire. Dunque viene proposta una narrazione in cui il Super-Io gioca un ruolo
importante: il senso allegorico e morale è esplicito. Su questo piano la favola è
imparentata col mito e con la parabola.69 Quel che preme qui sottolineare è che
entrambi i generi coinvolgono l'infanzia e che entrambi racchiudono in sé una
struttura archetipica riscontrabile in tutte le culture.
68 Ibidem, p. 73.
69 Cfr. ibidem, p. 25 e anche http://it.wikipedia.org/wiki/Fiaba e http://it.wikipedia.org/wiki/Favola
(12/08/2010).

38
L'insegnante/educatore sarà in grado di gestire la propria didattica muovendosi
consapevolmente fra il polo del “fiabesco” e il polo del “favoloso”, ossia fra la scelta
di narrazioni che lasciano libero spazio alla fantasia e la scelta di narrazioni che
propongono in forma allegorica messaggi morali e quindi che richiamano a una
dimensione più realista. Resta da osservare che la dimensione più autenticamente
infantile è quella del fiabesco, mentre quella più legata al pensiero adulto è la
dimensione del “favoloso”. Quello che piace al bambino di una favola, di una storia
o di un romanzo non è l'aspetto “favoloso” ma l'aspetto fiabesco. Inoltre, stando alle
considerazioni sin ora fatte, quello che mi pare l'aspetto da privilegiare è proprio
quest'ultimo, perché è tramite esso che l'individuo può costruirsi una morale, ossia
può costruirsi autonomamente il “proprio mondo favoloso”.

Il fiabesco è anche un immaginario sovversivo e disubbidiente; è connotato di


sogno e di Altrove; consente di confrontarsi con la difficoltà e con la paura: i riti
iniziatici che contiene sono quelli che mancano nella società contemporanea che
appare incapace di riconoscere vera dignità e autonomia al giovane. Le metamorfosi
dei personaggi magici proposte dall'immaginario fiabesco sono quei cambiamenti
che oggigiorno non sembrano possibili o addirittura, e ancor peggio, non sembrano
nemmeno esistere. La foresta, che è il paesaggio privilegiato della fiaba, rappresenta
quegli ostacoli che le persone non hanno il coraggio di affrontare; il fiabesco può
allenare al piacere dell'avventura e del rischio. Non si può definire la propria identità
se non si ha il coraggio di percorrere il “bosco”. È poi curioso notare come dentro la
foresta avvenga spesso un dialogo con se stessi: lo conferma Milena Bernardi
quando dice che “lo sdoppiamento del viandante-eroe in conflittuale dialogo con se
stesso, solo fra le fauci della foresta, è un topos delle storie in cui si erge il bosco
divorante”70. Ci ritorna alla mente quel “sé narratore”, tanto importante, di cui parla
Dallari.

La fiaba si configura in un doppio aspetto: da un lato diventa il dono rassicurante


che la persona adulta porge al bambino quando essa è raccontata71, dall'altro diventa

70 Milena Bernardi, Infanzia e fiaba, Bononia University Press, Bologna, 2005, p. 261.
71 La fiaba e anche il libro in sé possono essere considerati “oggetti transizionali”. Cfr. D. W.
Winnicott, Sulla natura umana, Raffaello Cortina, Milano, 1989, pp. 121-123.

39
l'occasione per il bambino di vivere delle iniziazioni che, seppure siano metaforiche,
conferiscono autostima e senso di autonomia. Nella contemporaneità, per via della
struttura sociale che si è venuta creando, vengono meno i riti di passaggio72 (li
intendiamo qui, in particolare, come occasioni di distacco dagli affetti primari). Ve
ne sono di falsi, quelli che a ben vedere sono più che altro dei surrogati, incapaci di
restituire al giovane quel senso di soddisfazione, fiducia in sé, autostima e
autonomia che invece produce il vero rito di passaggio. Non vi sono cioè delle prove
personali che mettono davvero il ragazzo di fronte al compito di trovare la propria
identità: la realtà scolastica, e la società contemporanea in genere, ci rivelano una
situazione di eccessiva protezione del genitore nei confronti del figlio anche nei
momenti in cui questi avrebbe bisogno di non averne. Si registra un problema
collettivo di ansietà e preoccupazione. Ecco allora che il fiabesco può rappresentare
un piccolo tassello che sviluppi nel futuro adulto la consapevolezza di quel vitale
bisogno di mettere alla prova le proprie idee, senza vivere l'errore come una
tragedia. Ci si aspetta che il rito di passaggio vissuto in forma simbolica nel
fiabesco, possa un giorno essere vissuto in forme uguali e diverse nella vita adulta e
reale. Il giovane che non si mette alla prova non riuscirà ad adattarsi all'ambiente,
non riuscirà ad essere sereno. Nella fiaba i bambini, che sono dei non-iniziati,
incontrano personaggi che stanno tra la vita e la morte, dialogano con le paure più
intime trovando strategie per farvi fronte; mettono in scena quel teatro mentale in
cui sperimentano emotivamente le problematicità che dovranno affrontare nella vita
adulta. Tutto ciò avviene in un contesto protetto in cui, per dirlo con Freud, “nulla ti
può accadere”73. Stiamo parlando, tra l'altro, di quella funzione evolutiva che ricopre
anche il gioco simbolico.

Vi è dunque, nell'orrore che è insito nel fiabesco, un valore iniziatico: l'orrore è


quel trampolino che spinge verso la metamorfosi sia il protagonista della fiaba sia,
simbolicamente, il piccolo fruitore della stessa. A tal proposito ricordiamo che va
posta molta cautela nel consumo dei cartoni animati di stile disneyano. Bisogna
infatti tenere presente che questo tipo di cartone animato addolcisce di parecchio i

72 Cfr. Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino, 1981 (ed. orig. 1909).
73 Cfr. Sigmund Freud, Personaggi psicotici in scena, in Opere, vol. 5, Torino, Bollati Boringhieri,
1989.

40
toni della fiaba. Ciò si sposa con la prospettiva di una fruizione solitaria, ovverosia
consumata in una cornice di incantamento e non di condivisione, in una cornice che
non necessita la presenza dell'adulto, che fa a meno di un sostegno emotivo che
possa sostenere gli stati di ansietà. Dallari ci spiega cosa significa tutto ciò in termini
pedagogico/didattici:

«Si tratta dunque di un problema che gli psicologi definirebbero “di soglia”;
esiste dunque un livello al di sotto del quale la presenza di coscienza di un contesto
pauroso, inquietante o anche angoscioso, può avere degli effetti educativi nella
complessità del suo portato pedagogico; ed esiste una soglia al di sopra della quale
non possono scattare che meccanismi di rifiuto che annullano e addirittura
contraddicono la positività dell'operazione “uso della fiaba”»74.

È opportuno quindi saper osservare e scegliere particolari circostanze, momenti


contingenti della giornata - presenza o meno dei genitori, stato emotivo del bambino,
situazione evolutiva del bambino - in cui vada privilegiato un fiabesco molto
orrorifico piuttosto che un fiabesco più “asettico”, “anestetizzato”, addolcito, più
disneyano appunto. Va monitorata la soglia di paura operante in ciascun singolo
momento.

Il grande valore del dolore, che è ciò che si vive affrontando la paura, lo si può
cogliere constatando che la sparizione, la perdita, la morte, il problema, il
“danneggiamento” in genere, costituiscono le condizioni indispensabili per la
narrabilità. Un fiaba, una storia, un romanzo, non possono essere scritti senza queste
caratteristiche: non vi potrebbe essere attribuzione di significato, di senso. Nella vita
è lo stesso: se si vuole la serenità del soggetto, bisogna essere formati al coraggio di
affrontare le paure e le difficoltà. Dice la Bernardi:

«Nonostante il ribollire di citazioni la fiaba non c'è, come succede quando le si


vuole negare quel “po' di criminalità”, quando la si ripulisce dai suoi conflitti e dalle
sue potenti metafore e la si imprigiona in schematiche formule confezionate per
rassicurare in assenza di intreccio, di devianza e quindi di narrabilità»75.
74 M. Dallari, op. cit. La fata... , p. 79.
75 M. Bernardi, op. cit., Infanzia..., p. 283.

41
Mi pare d'uopo puntualizzare che la magia presente nelle fiabe non è una
componente che esaurisce la sua funzione nel contesto evolutivo dell'infanzia, ossia
per compensare alla mancanza di alcune competenze o di dati biologici necessari ad
affrontare le paure dell'adattamento. Dobbiamo riconoscere che la magia, quella
narrata nella finzione, continua a svolgere un suo ruolo anche nella vita adulta.
Spiega ancora la Bernardi che “il pensiero di Block intorno al fiabesco inserito nel
corpus della cultura popolare, rivaluta gli aspetti utopici delle fiabe di magia quali
'proiezioni dell'insoddisfazione umana rispetto alle condizioni esistenti'76 e in tal
senso, come Zipes spiega, ci parla del bisogno di utopia a cui i vari tipi di pubblico
del fiabesco o delle sue innumerevoli citazioni anche frammentarie, rispondono
quasi sempre inconsapevolmente”77.

A questo punto appare prendere forma una caratteristica peculiare della fiaba che
è quella di “permanere migrando”. La Bernardi ipotizza infatti “un movimento
migratorio continuo della fiaba, sia come 'estetica del fiabesco', sia come struttura
testuale, sia come scheletro di storia dell'umano e di temi arcaici, sia come sintesi
estrema del bisogno e del desiderio di sogno, d'utopia e di risarcimento e non di
meno come deposito di memoria storica e fantastica del cammino della vita. Ciò non
impedisce al fiabesco di sviluppare una propria mutevolezza dovuta alle diverse
esigenze sociali e culturali attraverso cui si trova a transitare”78.

Recuperando la parola a noi cara in questo lavoro, posso considerare la fiaba


come una narrazione, metaforica e universale, del viaggio iniziatico: viaggio verso le
paure e le difficoltà e, in ultima istanza, verso la morte. La fiaba è un racconto che
“vive, oltre che di gioco, di sacro; arriva dal mondo iniziatico del rito, conserva il
sapere segreto del mistero, era forse un Mito e come il mito si insinua ancora oggi
tra le maglie strette del cogito e della Scienza per rinnovare il Simbolo, luogo
dell'“autentico”, del “vero” per l'uomo [...]”79.

76 Jack Zipes, Spezzare l'incantesimo, Mondadori, Milano, 2004, p.157. Ho tratto da M. Bernardi,
op. cit., Infanzia..., p. 216.
77 M. Bernardi, op. cit., Infanzia..., p. 216.
78 Ibidem, p. 210.
79 L. Marchetti, Il fanciullo e l'angelo. Sulle metafore della redenzione, Palermo, Sellerio, 1996, p.
241 in M. Bernardi, Infanzia e metafore letterarie. Orfanezza e diversità nella circolarità
dell'immaginario, Bononia University Press, Bologna, 2009, p. 11.

42
2.2 Analisi di alcuni viaggi nella letteratura per l'infanzia

È affascinante ora rivolgere le nostre attenzioni alla letteratura per l'infanzia del
Novecento alla ricerca di tracce di viaggio, e di viaggio che vada d'accordo con le
scelte pedagogiche che abbiamo fatto sin qui.

Ho selezionato cinque opere che presenterò in successione seguendo il criterio di


età minima di fruibilità: partirò da quella per bambini di cinque anni fino ad arrivare,
via via, a quella per bambini di nove/dieci anni. Il primo autore in cui ci imbattiamo
è Gianni Rodari80.

Prendendo in mano il libro I viaggi di Giovannino Perdigiorno edito da Emme


Edizioni nel 2007 (l'edizione originaria è del 1980), con le illustrazioni di Valeria
Petrone, siamo subito trasportati in un immaginario di infanzia allegra e leggera. Il
volumetto costituisce un'ottimizzazione sistemica di tutti i mezzi comunicativi che
contiene: le dimensioni, i colori chiari, l'impaginazione, la leggibilità, richiamano
atmosfere di serena condivisione materna e suscitano uno spirito inebriante di
avventura e di desiderio; i caratteri della scrittura stampata variano all'interno del
libro, così come la disposizione delle parole nello spazio della pagina. Questa opera
di Rodari raccoglie quattordici componimenti in versi che narrano di altrettanti
viaggi compiuti dal piccolo protagonista Giovannino Perdigiorno. Questi servendosi
dei più disparati mezzi di locomozione approda in paesi e pianeti dalle buffe
caratteristiche.

Sul piano formale l'autore si richiama molto alla favola. Infatti troviamo, in
ciascun breve componimento, la struttura in versi, e spesso l'ultima strofa, pur
mantenendo un certo stile dissacrante e aggiornato, presenta un'eco moralizzante.
Anche se alla lontana, l'aspetto “favoloso” lo si rileva anche nella personificazione
degli oggetti, come è il caso degli “uomini-nuvoloni” o degli “uomini di carta”. Il
richiamo alla tradizione latina di Esopo e Fedro non impedisce a Rodari di chiedere
in prestito qualcosa anche alla fiaba, la quale, così facendo, rimane fedele al quel
“permanere migrando”81 di cui abbiamo parlato. Infatti il tema stesso del viaggio
80 Vedi biografia su http://it.wikipedia.org/wiki/Gianni_Rodari (15/08/2010).
81 Vedi p. 42 del presente lavoro.

43
attraverso paesi e città, le cifre dello strano e del perturbante – in versioni
edulcorate – la presenza di figure come il cavallo e il re, sono tutti elementi di
matrice chiaramente fiabesca.

Ogni strofa delle composizioni è costituita da quattro versi e ha come schema


metrico delle rime ABCB. L'uso della rima, oltre a costituire un piacere musicale e
prosodico a cui il bambino non è immune, consente di sviluppare le prime capacità
epifonologiche necessarie allo sviluppo delle capacità scrittorie e di lettura.82 Allo
stesso scopo risultano utili anche i giochi linguistici e le destrutturazioni dei “modi
di dire”: nel testo vengono attuate anche queste operazioni. Alcuni metodi per
“risvegliare” la distanza tra uso “proprio” del linguaggio e uso “figurato” sono ben
esplicitate da Renzo Zuccherini nel suo “Manuale del parlare”83. Il valore
pedagogico di tali aspetti linguistici, che è strettamente connesso a una graduale
presa di coscienza delle relative implicazioni sociali, lo troviamo nel già citato
Bruner84, ma anche, riflettendo, nel libro “Metafora e vita quotidiana” di Lakoff &
Johnson85.

Il primo episodio de I viaggi di Giovannino Perdigiorno si intitola “Gli uomini di


zucchero”. Il protagonista viaggiando in elicottero arriva al paese degli uomini di
zucchero, dove tutte le cose sono contraddistinte dalla dolcezza.

Subito appare chiaro che gli elementi fantastici sono aggiornati ad una
contemporaneità fatta di famiglia nucleare, vita borghese, vita cittadina, vita
industrializzata. La potenza dell'Altrove fiabesco permane, incarnandosi nella

82 Cfr. Ivo Monighetti, La lettera e il senso. Un approccio interattivo all'apprendimento della lettura
e della scrittura, La Nuova Italia, Firenze, 1994, p. 170.
83 Renzo Zuccherini, Il manuale del parlare. Una retorica per i ragazzi, La Nuova Italia, Firenze,
1988, in particolare pp. 111-118.
84 Vedi p. 30 del presente lavoro.
85 “[...] la metafora non è solamente una questione di linguaggio, cioè di pure parole. [...] I processi
di pensiero umani sono largamente metaforici, ed è questo che intendiamo quando diciamo che il
sistema concettuale umano è strutturato e definito in termini metaforici”: George Lakoff & Mark
Johnson, Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano, 2004 (ed. orig. 1980), p. 22. Nel 1980 i due
autori tracciano nel loro libro una mappa del senso comune della cultura americana analizzando le
metafore che vi sono sottese. Sulla valenza formativa del pensiero analogico: cfr. P. Manuzzi, op.
cit., Pedagogia del gioco e ..., pp. 123-125. Sulla comunicazione didattica più opportuna in relazione
al linguaggio metaforico insito in essa e quindi sull'opportunità - in seno ai pensieri di Antonio
Gramsci e Aurelio Agostino - di insegnare come atto di porgere le conoscenze alla mente: cfr. M.
Baldacci, Personalizzazione o individualizzazione?, Erickson, Trento, 2005, pp. 66-74.

44
stranezza di questo paese; compaiono espressioni scientifico-industriali – ma
domestiche – come “Glucosio il Dolcificatore” (che non è altro che il nome del re
del paese) o come “Zolletta” (il nome di una persona). Si evidenzia nella descrizione
che viene fatta da Rodari il doppio piano della dolcezza: quella sensoriale del sapore
e quella metaforica delle emozioni. Nell'ultima strofa l'autore “smaschera”
un'espressione codificata con un gioco di parole azzeccato: infatti con sarcasmo, e
aggiustando un po' il tiro rispetto allo stile “sdolcinato” usato sino a quel punto,
l'autore fa dire a Giovannino:

«[...] Ma almeno ce l'avete

un po' di sale in zucca?

No? Allora me la batto?

Questo paese mi stucca»86.

Giovannino se ne va e finisce su “Il pianeta di cioccolato”. Come accadrà anche


per i successivi episodi la veste grafica della pagina cambia totalmente, anche per
quanto riguarda i caratteri di stampa. Vi sono slittamenti semantici e ironici
“inserimenti” apparentemente fuori contesto, come ad esempio:

«[...] Di cioccolato i banchi

della scuola e s'intende

che i ragazzi ci studiavano

magnifiche merende [...]»87.

L'aspetto caratterizzante di questa seconda filastrocca è che tutte le “f”, presenti


nello scritto, sono stampate in maiuscolo: in tal modo questa lettera si “staglia”
sopra le altre e prende risalto agli occhi del piccolo lettore il quale troverà così,

86 Gianni Rodari, I viaggi di Giovannino Perdigiorno, Emme Edizioni, Trieste, 2007 (ed. orig.
1973).
87 Ibidem.

45
insieme al formatore, un'occasione di “segmentazione”88 alfabetica del codice
scritto.

Il nostro protagonista se ne va ancora una volta finendo fra “Gli uomini di


sapone”. L'immaginario moralizzante che ci viene proposto è fatto di uomini e
signore “sempre puliti” e che “mandano buon odore”; sono persone prodighe di
“belle parole” che però sono “bolle di sapone” di cui, quando si alza il vento, “non
rimane più niente”. Notiamo che compaiono due figure: quella del papà e quella del
professore di latino. In particolare quest'ultima può trasmettere osmoticamente al
lettore - per dirlo con i due sociologi Bourdieau e Weber - un habitus di un certo
ceto sociale89 che vede la conoscenza e il suo insegnamento come cose famigliari.

Dopo essere stato nel paese de “Gli uomini di ghiaccio”, ossia niente meno che
nel frigorifero, ambientazione più che mai domestica e “moderna”, Giovannino
capita nel paese de “Gli uomini di gomma”. La loro testa è piena d'aria e non
possono pensare. Ecco che l'autore in modo surrettizio ci dà il suo messaggio morale
e fa dire al piccolo protagonista:

«[...] Ecco, volevo ben dire...

Il paese pareva bello;

ma la testa qui serve solo

per tenerci il cappello».

Si registra poi in questo episodio la vicinanza al mondo quotidiano del bambino:


incontriamo il “cavallo a dondolo”, il “pallone”, una “sbucciatura”.

Con una navicella spaziale il “nostro eroe” sbarca su “Il pianeta nuvoloso”, dove
però le troppe facce scure lo spingono a spostarsi verso altre galassie.

88 Cfr. I. Monighetti, op. cit.


89 Sul concetto di ceto di Max Weber: cfr. Elena Besozzi, Società, cultura, educazione. Teorie,
contesti e processi, Carocci, Roma, 2006, pp. 59-62; sul concetto di habitus nell'accezione di
Pierre Bourdieu: cfr. ibidem, pp. 87-89.

46
Dopo essere stato, senza soddisfazione, ne “Il pianeta malinconico”, Giovannino
approda su “Il pianeta fanciullo”. Qui tutti vogliono rimanere piccoli per non avere
“brutti pensieri” come invece hanno “i grandi”. Ma in chiusura Rodari esterna il suo
spirito di scommessa sul futuro facendo dire al protagonista: “Arrivederci, fifoni!”.

La filastrocca successiva dal titolo “Gli uomini PIU'”, descrive un paese in cui
ciascuno degli abitanti “è campione del mondo in qualche specialità”, fino al
paradosso che l'uomo “PIU' buono” non sa nemmeno di esserlo. Anche qui è chiaro
l'ironico intento moralizzante. Interessante ed espressiva è la scelta grafica di
scrivere la parola “più” in carattere maiuscolo.

Dopo il viaggio nel paese de “Gli uomini di carta”, dove la vita gli appare troppo
finta, il piccolo eroe giunge nel paese de “Gli uomini di tabacco”, dove però le cose
non sembrano andare molto meglio:

«[...] Giovannino tossiva:

“Diavolo d'un posto!

Qui c'è soltanto fumo

e nemmeno un po' di arrosto”».

Si nota una decostruzione dell'espressione codificata “tanto fumo e niente


arrosto”. Tale operazione è utilissima per lo sviluppo nel bambino di capacità
metacognitive, critiche, creative.

La filastrocca successiva racconta che “tra Salamanca e Saronno” Giovannino


capita ne “Il paese senza sonno”. Qui “Le mamme ai loro bambini / non cantano la
ninna-nanna, / ma cantano: 'Sveglia! Sveglia, / tesoro della mamma!'”. Presto, preso
dal sonno, il Perdigiorno decide di andarsene anche da questo posto, fino a capitare
tra “Gli uomini a vento”.

In questo paese tutti fuggono nella stessa direzione degli altri, seguendo il vento.
Il piccolo eroe però cammina controvento perché “di gente fatta così” ne ha “già

47
veduta anche troppa”.

Bella questa piccola “ parabola favolistica”: le persone devono scegliere con la


propria testa, e questo nonostante andare insieme al “gregge” sia più facile che
andare “controvento”.

L'ultimo episodio ha come titolo “Il paese del 'ni'” e narra di gente timida che non
prende posizione: “volete la pace? Ni; “volete la guerra'? Ni”. A questo “insulso
paese” però Giovannino Perdigiorno dice “tre volte no”.

Nelle ultime due facciate del libro Rodari spiega, con una filastrocca a metro
libero, che il nostro protagonista ha “perso la via” e ha pure “perso la testa”, che
però “era vuota”. Questo elemento di paura, di inquietudine e di perturbante -
benché abbia qui una forma sfumata - è qualcosa che abbiamo visto nel fiabesco ed è
parte integrante dell'esperienza di viaggio. Oltretutto, nell'illustrazione di Valeria
Petrone, Giovannino è ritratto con la testa che si stacca dal corpo e che assume un
colore e una trasparenza da fantasma; l'espressione del suo viso è di perplessità e
spavento. Il sogno di un paese senza errore, dove tutto sia perfetto e bello non è stato
soddisfatto dall'esperienza di viaggio; certo gli stili di vita “estremisti” o “univoci”
non sembrano essere fonte di appagamento ma la ragione forse sta nel fatto che
quella fonte va cercata dentro noi stessi. Gianni Rodari col suo sguardo critico sulla
società ma allo stesso tempo con la sua vena ottimista e con la sua spinta alla
curiosità e all'utopia, ci parla di un viaggio dentro e fuori noi stessi che ci può
portare a “perdere la testa”, come succede al nostro protagonista, ma anche un
viaggio che, alla fin fine, è condizione necessaria per maturare e per raggiungere
“l'allegria”. È infatti con questo spirito che si chiudono le avventure di Giovannino:

«[...] ha perso le staffe, ha perso l'ombrello,

ha perso la chiave del cancello,

ha perso la foglia, ha perso la via:

tutto è perduto fuorché l'allegria».

48
La seconda opera che prendiamo in esame è dello stesso Rodari e si intitola
Gelsomino nel paese dei bugiardi. Questo libro dalla forte valenza allegorica, con
illustrazioni sempre di Valeria Petrone, viene considerato dall'editore Einaudi come
adatto a partire dai sette anni. La pedagogia alla base del testo è la medesima che
abbiamo osservato nei “Viaggi di Giovannino Perdigiorno”; si aggiunge la
promozione del valore dell'amicizia. La forma prosaica, e più estesa, permette una
maggiore articolazione dei temi e dell'universo fantastico che viene rappresentato.

Gelsomino è un bambino “leale” e “sincero” che vive in un “paese” non meglio


definito facendo il contadino. I genitori sono morti e gli amici sono “caduti in
guerra”. Il protagonista ha una voce potentissima tanto che con essa può far cadere i
frutti dagli alberi senza muovere un dito: i vicini di casa, all'accorgersi delle capacità
del bambino, arrivano a definirlo “un santo” o “uno stregone”. La voce non riesce a
controllarla: è troppo forte e a volte gli fa rompere gli oggetti. Se ne vergogna. Sin
dalle premesse appare chiaro il debito da saldare col fiabesco: ritroviamo infatti un
eroe collocato in un Altrove senza spazio e senza tempo; rileviamo lo stato di
orfanezza dello stesso protagonista che aumenta di “drammaticità” per la solitudine
affettiva in cui riversa; e, ancora, individuiamo l'elemento magico rappresentato
dalla voce dagli straordinari poteri.

Lungo la narrazione si osservano molte metafore esplicite. Ad esempio: “come


uccelli migratori”90; “come un monello che è andato a rubare le pere e l'ha fatta
franca”91; “occhi spalancati come portoni”92. Troviamo anche metafore “contratte”
sino al simbolico come: “la spina gli cadeva dal cuore”93. Abbiamo già menzionato i
risvolti positivi delle capacità metaforiche: essi si individuano nella conoscenza di
sé, nella creatività, anche scientifica, e nelle capacità decisionali e di confronto in
ottica sistemica.

Gelsomino se ne va dalla terra natia e finisce “nel più strano paese di questo
mondo”. Lo coglie un senso di rabbia al confrontarsi con la gente di questo nuovo
90 G. Rodari, Gelsomino nel paese dei bugiardi, Einaudi ragazzi, Trieste, 2010 (ed. orig. 1958), p.
19.
91 Ibidem, p. 106.
92 Ibidem, p. 114
93 Ibidem, p. 152.

49
posto: tutti gli sembrano “parlare alla rovescia”. Ad esempio la gente chiama
salumeria quella che invece è una cartoleria, e viceversa ... Avviene in questo
passaggio un dialogo fra Gelsomino e la sua voce/alter ego. Essa vorrebbe gridare a
squarciagola contro quel paese in cui “tutto va storto”94: questa situazione ci
restituisce l'eco degli eroi fiabeschi che parlano fra sé e sé dentro il bosco/Altrove95.

Poi ecco comparire “l'aiutante magico”, ossia un gatto parlante disegnato sul
muro il quale grazie alla voce potente del nostro eroe acquista la libertà di muoversi.
È un gatto di nome Zoppino - per via di una gamba mancante - il quale spiega a
Gelsomino che non è capitato in un mondo alla rovescia ma nel paese dei bugiardi.
Qui per legge tutti devono dire bugie. Il paese è governato dal Re Giacomone Primo
il quale ha promulgato delle leggi che rendono obbligatoria la bugia, attuando altresì
una riforma del vocabolario. Con ironia Rodari ci dice che tutto ciò, per i “somari”
in matematica, “era una vera bazza”. Il Re è il primo a credere alle proprie bugie e
“nel paese dei bugiardi, la più piccola verità fa più rumore di una bomba atomica”.
Zoppino in qualche modo incita gli altri gatti alla rivolta contro il governo, dando
inizio a un'operazione di cambiamento su larga scala insieme a Gelsomino. Lungo la
narrazione compaiono i personaggi più interessanti e strani che più o meno
consapevolmente si alleano alla rivoluzione culturale promossa da Zoppino e
Gelsomino: Bananito, Zia Pannocchia, Romoletta, Benvenuto-Mai seduto. Chi dice
la verità è considerato un pazzo e finisce in galera o in manicomio. Molto
94 Ibidem, p. 24.
95 Dialoghi con se stessi si rintracciano in varie fiabe: in “Cappuccetto Rosso” dei fratelli Grimm
quando la protagonista smarrisce la strada nel bosco: “ Cappuccetto Rosso pensò: per tutta la vita
non correrai più da sola fuor della strada nel bosco quando la mamma te l'ha proibito”; in
“Pinocchio” quando il burattino ascolta il suo alter ego, il grillo: “Non ti fidare ragazzo mio, di
quelli che promettono di farti ricco dalla mattina alla sera. Per il solito, o sono matti o
imbroglioni! Dài retta a me, ritorna indietro”; in “Pollicino” di Perrault in cui i fratelli
rappresentano una parte della soggettività del protagonista stesso: “non temete, fratelli, i nostri
genitori ci hanno abbandonati qui, ma io vi ricondurrò esattamente a casa, dovrete solo seguirmi”;
o, ancora, in “Barbablù” quando la moglie si chiede se sia una buona idea trasgredire alla
proibizione del marito: “[...] riflettendo che le sarebbe potuto capitare qualcosa di brutto per
essere stata tanto disubbidiente”. Cfr., nell'ordine, Jacob e Wilhelm Grimm, Fiabe, Einaudi,
Torino, 1992 (ed. orig. 1812), p. 99; Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, BUR, Milano,
1999 (ed. orig. 1883), p. 61; Charles Perrault, Fiabe, Fabbri Editori, Milano, 2002 (ed. orig.
1683), p. 147 - ma anche p. 150 - e p. 103.
Questa doppiezza dei personaggi rimanda oltretutto a quel concetto di monologo interiore -
pedagogicamente utile - di cui parla la Contini rifacendosi al pensiero dello psicologo Ellis. A tal
proposito: cfr. M. Contini, op. cit., Per una pedagogia..., pp. 70-75; A. Ellis, Ragione ed
emozione in psicoterapia, Astrolabio, Roma, 1989 (ed. orig. 1962), p. 47; in generale, M. B.
Arnold, Emotion and personality, Columbia University Press, 1960.

50
interessante per noi è il personaggio di Benvenuto-Mai seduto, il quale non è mai
stanco di viaggiare e di aiutare le persone che incontra, anche se ciò lo fa
invecchiare più velocemente. Si ferma nel Paese dei Bugiardi per aiutare le sue
genti, genti che gli appaiono profondamente infelici.

In questo strano paese “le cose andavano di solito così”:

«Ogni anno il giornale organizzava una corsa nei sacchi a tappe, che non veniva
disputata per nulla. Certi ambiziosi, per avere il loro nome sul giornale, pagavano
per iscriversi e offrivano ogni giorno una certa somma per vincere la tappa. Chi
offriva di più veniva proclamato vincitore, e le sue gesta venivano narrate nel
giornale con cascate di paroloni che lo definivano “un eroe”, “un superasso”
eccetera. L'ordine di arrivo era soltanto l'ordine delle offerte»96.

Questo passaggio, con un occhio critico alla contemporaneità, sarebbe un ottimo


spunto di riflessione tra educatore e bambino o tra insegnante e bambini.

Bananito è un pittore magico che ritrova la felicità iniziando a dipingere cose


vere: non come vuole la legge. Egli lavorerà nello zoo e anche al ministero dei
generi alimentari ma finirà in manicomio a causa delle sue idee “sovversive”.

Benvenuto-Mai seduto muore e al funerale è Gelsomino che canta per lui, e lo fa


per la prima volta senza rompere nulla. Ora sa controllare la sua voce: il viaggio,
l'avere affrontato le difficoltà (tra cui un ginocchio gonfio che gli impediva di
camminare) e la morte del suo amico lo hanno fatto maturare.

Quando Gelsomino con la voce fa crollare il manicomio per liberare le persone


sincere che vi sono imprigionate, tra le sentinelle, “nessuno disse semplicemente che
aveva paura, perché erano troppo abituati a dire bugie”97.

Il Re si deve arrendere alla rivoluzione culturale in atto nel paese. Quindi se ne


va. Egli ha sempre nascosto al mondo di essere calvo, curandosi di mostrarsi in
pubblico solo con parrucchini rigogliosi: quando la sua calvizie diventa di dominio
96 G. Rodari, op. cit., Gelsomino..., p. 85.
97 Ibidem, p. 138.

51
pubblico, Rodari, con ironia e sapienza pedagogica, prospetta per l'ex sovrano
un'iscrizione al “Club dei calvi” che a più riprese definisce, questa volta senza
ironia, “dignitosissimo”. Alla fine della storia, una piccola bambina di nome
Romoletta diventa maestra, Gelsomino studia musica per poter dare un “vero
concerto”, i ministri del nuovo governo sono democratici, non vogliono più fare la
guerra: al suo posto vogliono una partita di calcio. Si nota dunque, alla fine del
viaggio narrativo, un'acquisizione da parte dei personaggi - e di riflesso da parte del
lettore - di un'esperienza di problematicità, di un'integrazione con l'ambiente e di
una certa maturità.

L'appendice, alla fine di “Gelsomino nel paese dei bugiardi”, raccoglie qualche
filastrocca di Rodari attinente la storia. Ne riporto di seguito una, che in una società
che vede come esteticamente piacevole solo la giovinezza, mi pare utile:

Capelli bianchi

Dedicata a Benvenuto-Mai seduto


Quanti capelli bianchi
ha il vecchio muratore?
Uno per ogni casa
bagnata dal suo sudore.

Ed il vecchio maestro,
quanti capelli ha bianchi?
Uno per ogni scolaro
cresciuto nei suoi banchi.

Quanti capelli bianchi


stanno in testa al nonnino?
Uno per ogni fiaba
che incanta il nipotino.

Prima di lasciare Rodari, voglio spendere qualche parola sulla sua opera Le
favolette di Alice, indicata dall'editore Einaudi come adatta a partire dai sette anni.
Questa è una piccola raccolta di storielle che vedono come protagonista una
bambina minuscola che ha il brutto vizio di cascare dentro ogni cosa: Alice
Cascherina. L'antologia racchiude “favolette” pubblicate in momenti e luoghi

52
diversi: talune furono pubblicate per la prima volta nel “Corriere dei Piccoli” e poi
inserite in “Favole al telefono”, altre sono totalmente inedite su volume, o trovate fra
le carte dell'autore. Le illustrazioni sono di Francesco Altan.

Anche in quest'opera si individuano importanti metafore d'iniziazione che


mettono in luce in sedicesimo gli effetti formativi dell'esperienza, dell'avventura, del
viaggio:

«[...] Nel curiosare in cucina era caduta nel cassetto delle tovaglie e dei tovaglioli
e ci si era addormentata. Qualcuno aveva chiuso il cassetto senza badare a lei.
Quando si svegliò, Alice si trovò al buio, ma non ebbe paura: una volta era caduta in
un rubinetto, e là dentro sì che faceva buio [...]»98.

È evidente che la soglia del pauroso, se così possiamo chiamarla, cambia


decisamente in Rodari rispetto alla tradizione fiabesca: al posto del bosco e dell'orco
c'è il buio di un cassetto per le tovaglie e il buio di un rubinetto. Per quanto si possa
leggere una certa drammaticità anche nell'ambientazione domestica borghese, appare
netta la differenza. Questo è il riflesso di una società che cambia e in cui le difficoltà
cui far fronte - almeno sul piano apparente - sono minori99.

È di nostro interesse la favola dal titolo “Alice nelle figure” nella quale la piccola
cade dentro un libro di favole illustrate e interagisce a casaccio con i personaggi
delle diverse storie. Questa sorta di “meta-favola” può essere un'occasione per
rivisitare con disincanto le storie classiche già conosciute dal bambino. La tipologia
di viaggio che fa Alice è proporzionale alle sue dimensioni: basti pensare che il
viaggio più lontano - a bordo di una bolla di sapone - lo fa nel terrazzo dei vicini di
casa. Interessante rilevare la presenza di un elemento fiabesco che caratterizza lo

98 G. Rodari, Le favolette di Alice, Einaudi Ragazzi, Trieste, 1995 (ed. orig. 1980), p. 10.
99 L'opportunità di costruire le conoscenze a partire dalle esperienze vissute dal bambino, ci spinge a
considerare le ambientazioni di Alice Cascherina come pedagogicamente accettabili. In fondo
oggi è la casa cittadina l'ambiente più vicino al bambino, è da lì che inizia la scoperta del mondo.
Lo stesso Rodari osserva che “la prima avventura del bambino, appena è in grado di scendere dal
seggiolone o di uscire dalla prigione del 'box', è la scoperta della casa, dei mobili e delle macchine
che la popolano, delle loro forme e dei loro usi. Sono essi che gli forniscono la materia delle
prime osservazioni ed emozioni, che gli servono per fabbricarsi un vocabolario, che funzionano
per lui come indizi del mondo in cui cresce”: G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione
all'arte di inventare storie, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1973, p. 103.

53
sviluppo della personalità femminile, il segreto: “[...] Alice non raccontò mai a
nessuno quello che le era capitato”100.

Di Alice, però, quello che ci interessa di più è la sua piccolezza. Infatti questa
caratteristica ha un connotato “repertuale” e archetipico; è rielaborazione in chiave
moderna – e quindi edulcorata – della fiaba di “Pollicino” di Charles Perrault che a
sua volta, come del resto anche “Hänsel e Gretel”, ha radici medievali. Sebbene non
sia presente nelle avventure di Alice un dato orrorifico e perturbante paragonabile a
quello di “Pollicino”, possiamo fare rientrare la nostra eroina nella cerchia di quelli
che Milena Bernardi chiama i Pollicini. Ci interessa infatti la valenza metaforica e
formativa che questa figura rappresenta attraverso il suo connotato resistenziale e
attraverso la sua capacità di adattamento. Lascio la parola alla Bernardi:

«Il pollicino può essere metafora dell'infanzia che guarda se stessa nella sua
piccolezza straordinaria, nell'atto eroico della nascita, nell'estrema vulnerabilità della
condizione infantile.

Il pollicino può essere metafora di tenacia e forza di sopravvivenza, di vivace


intelligenza e astuzia resistenziale. Ed ancora può essere metafora di invisibilità e
del rapporto ancestrale che l'invisibilità intrattiene con il mistero [...]»101.

Per fare una summa del viaggio che abbiamo fatto attraverso gli immaginari di
alcune opere di Rodari, dobbiamo registrare gli elementi formativi che in esse ho
individuato: utopia, scommessa sul futuro, sguardo critico ma sereno, metafora,
resistenza sociale, autonomia, maturazione, cambiamento/metamorfosi, tempi
lunghi, habitus colto. Non possiamo fare a meno di rilevare il basso tasso di
“criminalità” e di “perturbante”, presente in queste storie, che però si potrà
compensare con qualche lettura di genere fantasy o qualche fiaba tradizionale. Si
sente quel sapore contemporaneo di animazione “disneyana”. Tuttavia per bambini
molto piccoli queste opere restano valide anche sul piano del perturbante. Sul
versante formativo rimangono decisivi i punti di forza individuati, i quali a ben
vedere possono essere raccolti tutti insieme a confluire nella nostra figura-guida: il
100 G. Rodari, op. cit., Le favolette..., p. 18.
101 M. Bernardi, op. cit., Infanzia e metafore... , p. 10.

54
viaggio.

Già abbiamo notato come la cosiddetta letteratura per l'infanzia abbia in realtà un
pubblico che attraversa tutte le età. Quel linguaggio simbolico che il bambino ricerca
inconsapevolmente, l'adulto lo riconosce consapevolmente, lo rielabora in funzione
delle sue esperienze di vita e magari vi ritrova la via verso se stesso. L'Altrove, dove
tutto è possibile, seduce il bambino così come l'adulto. Una “buona” letteratura che
favorisca lo sviluppo nel bambino di un immaginario esistenziale che consenta la
sua e l'altrui serenità, è un tassello importante che consentirà al futuro adulto di non
dovere fare i conti con dei “fantasmi infantili” per nulla risolti. In questo senso la
celebre opera di Antoine De Saint-Exupéry Il piccolo principe sembra essere un
valido strumento che, a partire dagli otto anni, può donare all'uomo contemporaneo
preziosi spunti filosofici, esistenziali ed emotivi. I loro effetti nella società
potrebbero manifestarsi nella più concreta vita quotidiana.

Anche nel caso del “Piccolo Principe” è in atto un viaggio fantastico - con
elementi “fiabeschi” ed elementi “favolosi” - e già in questo vediamo la sua valenza
pedagogica. Però ciò che qui vogliamo fare è isolare un episodio specifico che
ritengo di grande impatto “mitologico” e di natura quasi “parabolica”: mi riferisco
all'incontro con la volpe. Essendo tale episodio della storia ormai noto mi limito a
metterne in luce gli elementi di pregnanza pedagogica. Mi interessa analizzare il
concetto di “addomesticare” e il concetto di “rito”, due consapevolezze di cui la
contemporaneità è deficitaria.

Cerchiamo di capire cosa significa addomesticare102 ascoltando le parole stesse


della volpe. Questo concetto “è una cosa da molto dimenticata. Vuol dire 'creare dei
legami'...”103. Rivolgendosi al Piccolo Principe la volpe afferma: “[...] se tu mi
addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. [...] tu hai dei capelli color dell'oro.
Allora sarà meraviglioso quando tu mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato,
mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano...”. L'animale parlante
102 Il verbo addomesticare deriva da domestico il quale a sua volta deriva dal latino domestĭcus e
quindi da domus (ossia “casa”). Letteralmente addomesticare significa “rendere appartenente alla
casa”. Sappiamo che la casa può essere simbolo di donna e di famiglia (http://www.treccani.it).
103 A. De Saint-Exupéry, Il Piccolo Principe, Tascabili Bompiani, Milano, 1994 (ed. orig. 1943), p.
92.

55
dice ancora che: “non si conoscono che le cose che si addomesticano” e aggiunge
che per farlo “bisogna essere molto pazienti”104. Anche l'acqua che i due personaggi
hanno cercato in mezzo al deserto viene addomesticata. Leggiamo:

«Quest'acqua era ben altra cosa che un alimento. Era nata dalla marcia sotto le
stelle, dal canto della carrucola, dallo sforzo delle mie braccia. Faceva bene al cuore
come un dono»105.

Quindi addomesticare, in buona sostanza, significa conoscere, significa attribuire


una storia e un senso alle cose (e quindi farle proprie), significa essere disposti
all'attesa. Addomesticare dà luce, dà visibilità agli oggetti. Sul piano emotivo regala
la meraviglia per le cose e ci permette di amare.

Sotto un ulteriore angolo di osservazione, addomesticare significa “sentirsi vivi”,


“essere sereni”, “saper dialogare con la morte”. Tale azione è la chiave di accesso ai
“lumi della conoscenza”, che sono le luci di una razionalità che non è solo quella di
illuministica memoria, ma è anche il riconoscimento e il governo delle nostre
emozioni.

L'altro concetto che ci siamo proposti di considerare - il rito - è legato a doppio


filo con quello appena trattato e ne è parte integrante. È sempre la nostra volpe che
ci viene in aiuto:

«Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad
essere felice. Col passare dell'ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le
quattro, comincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma
se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... Ci
vogliono i riti».

Un rito “è quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre
ore”106. Dalle parole che ci regala l'animale evinciamo un'idea di rito come
ricorrenza temporale che consente di addomesticare la realtà e che, creando
104 Ibidem, pp. 93-94.
105 Ibidem, p. 108.
106 Ibidem, p. 94.

56
aspettative nell'animo, genera benessere ed emozioni.

Nella contemporaneità ci accorgiamo della presenza di differenti forme di rito. Ci


sono le ricorrenze scandite dai programmi televisivi, le aspettative per la continua
uscita di un nuovo prodotto commerciale abilmente pubblicizzato. Vi sono anche i
riti scanditi dalle Chiese e dalle pratiche religiose. Naturalmente anche la vita
“privata” di ciascuna famiglia conserva nel suo grembo pratiche ricorsive e
appaganti.

Essere pienamente consapevoli della ritualità e della sua funzione ai fini di un


umore equilibrato dell'individuo, significa anche saper riconoscere quando tale
pratica è fine a se stessa o è compensatoria rispetto a compiti che dovrebbero essere
assolti da altro: dalla narrazione, dalla razionalità, dall'esperienza vissuta (esperita
col proprio Leib, per capirci). Quello che intendo dire è che va posta attenzione ai
pericoli che possono determinare in particolare l'economia di mercato esasperata e
la religione delle Chiese. Queste ultime mantengono sempre in sé un aspetto
fondamentalista e integralista per il fatto stesso di essere anche delle istituzioni. Ci
tengo a dire che si possono ricercare forme di rito che, rispetto ad altre, siano più
funzionali alla serenità: penso ad esempio alla ricorsività che è insita nell'attesa
dell'ispirazione in ambito musicale e poetico o a quella che troviamo nell'attività di
ingegno nell'ambito scientifico. Sulla scorta di queste riflessioni, e di quelle
filosofiche fatte nel primo capitolo, penso risultino chiare le ragioni pedagogiche che
ci spingono a considerare di nostro interesse “Il Piccolo Principe”. Sappiamo infatti
che nelle nostre scelte educative i concetti di conoscenza, storia, senso e attesa
(“tempi lunghi”) sono centrali.

Chiudo questa breve rassegna di “viaggi letterari” con un romanzo di Roberto


Piumini che ci regala, attraverso la parola, un mondo semplice e complesso che può
essere apprezzato a partire dai nove/dieci anni. Sto parlando de Lo stralisco. La
storia narra di Sakumat, un pittore turco chiamato ad allontanarsi dalla sua città per
abbellire le pareti fra cui vive un bambino. Questo si chiama Madurer ed è colpito da
uno strano malanno. Si creerà un intenso rapporto fra il pittore, il bambino e il padre
di quest'ultimo, tanto che dormiranno insieme nella stessa stanza. Le figure che

57
prenderanno forma e vita sulle pareti non saranno solo ornamento: potremmo dire
che esse costituiranno una sorta di “sfondo integratore”107 mutevole e vitale, il quale
registrerà la storia di una profonda amicizia. Le immagini create sulle pareti saranno
il frutto di un intenso confronto fra il bambino e il pittore: Sakumat infatti spiega al
piccolo: “devi accompagnarmi a fare un viaggio nel tuo pensiero”. Il pittore non
vuole assecondare l'invito del ragazzo a prendere spunto dalle illustrazioni di un
libro: infatti “le figure dei libri” le vuole “raccontate dalle parole”. I due amici
vogliono in qualche modo rappresentare “il mondo” ma, per fare questo, devono
“mettere un po' di ordine” al loro “progetto”108.

Isoliamo alcune frasi che Sakumat rivolge a Madurer e al padre:

«Non stai sbagliando, Madurer. Stai decidendo. Questo è sempre difficile: ma si


può fare.»

«Noi non abbiamo fretta, Madurer. Nessuna fretta davvero».

«Il mio corpo e la mia mente sono ben vivi, e in mio possesso, signore. Non c'è
un solo istante del tempo che passò in questa casa che non sia da me voluto ed
amato».

Osserviamo che quella del pittore è una visione che vede l'errore e l'attesa come
parti integranti della vita; è una visione che interconnette virtuosamente corpo e
mente, dando luogo a un “senso del Sé” stabile, il quale guida la persona a vivere
con convinzione e appagamento ciò che ha deciso di fare (senza magari avere il
bisogno di ricche ricompense).

Vi è ancora un passaggio che desidero proporre:

«Il bambino riunì le mani sulla coperta, appoggiandole quietamente sul ventre.
Era uno degli atteggiamenti di Sakumat, e spesso, volendolo o no, Madurer li
imitava».

107 Cfr. P. Zanelli, Uno sfondo per integrare, Cappelli, Bologna, 1986 e anche P. Manuzzi, op. cit.
Pedagogia del gioco...
108 Roberto Piumini, Lo stralisco, Einaudi Ragazzi, Trieste, 1993, p. 25.

58
Questa acutezza osservativa di Piumini svela quelle modalità di cambiamento e di
assunzione identitaria insite nella relazione umana. In quest'ultima i corpi e le menti
si influenzano e dialogano fra loro di continuo.

Sakumat se ne andrà dalla casa del bambino, il quale morirà della malattia che lo
affliggeva. Il pittore per la sua opera non vorrà ricche ricompense, tornerà nella sua
città di origine, rimarrà lì per un breve periodo e poi si ritirerà in un villaggio vicino
al mare. Smetterà di dipingere, conoscerà nuovi amici, berrà tè... Il viaggio concreto,
simbolico e umano che fa lo cambierà profondamente. Il viaggio - è evidente - è non
solo del bambino ma anche del pittore.

I punti d'interesse nella narrazione di Piumini sono molteplici: il rapporto parola-


immagine, che ci riporta alle riflessioni già fatte a tal proposito; l'amicizia, che si
configura anche come virtuoso modello genitoriale ed educativo; la descrizione di
un progetto creativo, che ci riporta alle riflessioni di Bruno Munari e ai relativi
risvolti educativi che abbiamo individuato; e, ancora, troviamo un immaginario
attento alla psicologia dei personaggi e alle connessioni corpo-mente.109

Ritengo, in chiusura di questo capitolo, che sia opportuno puntualizzare qualcosa.


Va preso atto che i mass media e la famiglia sono agenzie educative molto più
“forti” della scuola e - allargando il contesto - è ancor più influente sui futuri adulti,
l'organizzazione sociale nazionale e internazionale. Il potere accattivante delle
immagini e della multimedialità sempre a portata d'occhio e, ancor più, la
significatività dei rapporti affettivi all'interno della famiglia, mettono in minoranza
l'istituzione scuola. Quest'ultima, però, dalla sua parte ha la quantità di tempo che
offre agli alunni e, la Scuola Primaria, il fatto di accogliere delle soggettività ancora
plasmabili. È infatti attiva nel bambino una sensibilità al modello genitoriale e
quindi alla figura del maestro. È su questo piano che l'insegnante deve giocare le
carte a sua disposizione, anche quelle per promuovere l'attività di lettura e scrittura.
Essa conserva a tutt'oggi una valenza formativa fondamentale, e la conserva “in sé
per sé”. L'obiettivo primario è quello di far scoprire ai bambini la piacevolezza
109 A proposito della letteratura sul viaggio al femminile possono essere utili due romanzi per
ragazzi che qui non vengono presi in esame: Bibi. Una bambina del nord e Pippi Calze Lunghe. È
possibile fare su di essi una lettura in chiave femminista. Sono adatti per bambini di dieci anni.

59
dell'atto di lettura e scrittura, senza rinunciare a ricorrere a strumenti accattivanti e
con l'obiettivo di restituire a questa azione piena significatività. La volpe del Piccolo
Principe spiegherebbe che il codice scritto va addomesticato. Individuo poi un
obiettivo ideale, che è quello di avvicinare il più possibile l'alunno a quella che -
sotto il profilo pedagogico - si ritiene essere la migliore letteratura per ragazzi. Nel
presente capitolo ho fatto delle scelte in questa prospettiva.

Nella Scuola Primaria la didattica da attuare con le opere che ho proposto, è una
didattica integrata, ovvero inserita in maniera coerente nella programmazione
didattica annuale. Il lavoro con una di queste opere dovrà avere attinenza con un
progetto in atto nella comunità scolastica, in maniera che possa dare la possibilità di
vedere uno stesso oggetto di studio da punti di vista diversi (la pittura per esempio).
L'attinenza e la coerenza tra loro delle attività didattiche permette di attribuirvi
senso e di renderle più facilmente narrabili e quindi più facilmente memorizzabili. È
auspicabile che la programmazione integri stimoli culturali esterni alle mura
scolastiche: spettacolo teatrale, proiezione cinematografica, museo... Il metodo
didattico da usare consiste nel costante ascolto e nella costante osservazione dei
bambini: è da loro che devono partire le nostre azioni. Quindi, ad esempio,
bisognerà indagare il livello di gradimento di un opera rispetto ad un altra o rifarsi
agli interessi e alle propensioni che rintracciamo nei discenti. Il monitoraggio in
questo senso dev'essere costante.

Il role playing, o talune forme di gioco, ci possono venire in aiuto per rielaborare
i contenuti di una fiaba o di un romanzo. Dallari propone fin'anco una
destrutturazione della fiaba in chiave dissacrante e creativa - quella che lui chiama
controfiaba110 - che favorisca una rielaborazione di tipo attivo e che allontani dal
pericolo di un pensiero rigido, ripetitivo e unico. Questo pericolo si nasconde in
particolare nella letteratura per i bambini più piccoli, che in alcuni casi può assumere
connotati stereotipici.

L'attesa e i “tempi lunghi” assumono valore anche in ambito didattico: essi


determinano l'aumento delle occasioni di apprendimento significativo, e di un

110 Cfr. M. Dallari, op. cit., La fata...

60
apprendimento realizzato dall'alunno in circostanze e prospettive diverse. Dallari
sostiene che “gli insegnanti che vogliono fare uso dell'elemento fiabesco debbono
porsi come primo compito quello di tenere a lungo in piedi un lavoro attorno allo
stesso nucleo fiabesco o addirittura alla stessa fiaba”111.

111 Ibidem, p. 142.

61
62
3. VIAGGIO VIRTUALE: IL COMPUTER E LA NAVIGAZIONE

3.1 Il viaggio in realtà virtuale

Dopo aver analizzato il viaggio in relazione alla scrittura, è opportuno ora


considerarlo anche nella sua accezione virtuale, quella che lo vede prendere forma
attraverso lo strumento “tecnologico” per eccellenza: il computer. Questo oggi è
collegato in rete con altri computer e diviene così, oltre che strumento elettronico ed
informatico, anche mezzo di telecomunicazione. Ci chiediamo ora: è possibile
viaggiare con l'ausilio di un calcolatore? La risposta è affermativa, dato che il
computer è un prodotto tecnico dell'uomo così come lo è la scrittura; e si è visto
quanti viaggi possano essere compiuti, in forma metaforica, attraverso la narrativa
per l'infanzia. Non risulta difficile credere che, col computer, in forma di finzione, il
viaggio sia possibile. Se ci pensiamo, attraverso un moderno calcolatore, di
“spostamenti da un luogo all'altro” - in maniera simulata - se ne possono fare
moltissimi. Da un link all'altro il soggetto scopre nuovi elementi, individua inediti
percorsi del pensiero, giungendo ad esiti e siti inaspettati. In questa caratteristica sta
il tratto avventuroso della navigazione. È d'altra parte evidente la diffusione che ha
assunto nella società moderna la locuzione “viaggio virtuale”.

Prima di proseguire è indispensabile accordarci sul significato di alcune parole.

Soffermiamoci sul termine “tecnologia”. È una parola composta da tecno- e


-logia e significa “studio della tecnica e della sua applicazione” 112. La tecnica a sua
volta è definita come “insieme delle norme su cui è fondata la pratica di un'arte, di
una professione o di una qualsiasi attività, non soltanto manuale ma anche
strettamente intellettuale”113. Se si pensa all'uso che si fa attualmente della parola
tecnologia emerge come il calco, fatto dall'inglese in maniera acritica, ne abbia
snaturato il significato. Nell'uso più ampio e più recente infatti tale parola ricalca
technology indicando quei prodotti di tecniche elettroniche ed informatiche che

112 Tecnologia deriva dal greco τεχνολογία, letteralmente “trattato sistematico di un'arte”, dove arte
indica il saper fare, la tecnica. Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Tecnologia (26/08/2010);
http://www.treccani.it (26/08/2010); Luigi Guerra (a cura di), Educazione e tecnologie. I nuovi
strumenti della mediazione didattica, Edizioni Junior, Bergamo, 2002, p. 8.
113 http://www.treccani.it (26/08/2010).

63
sarebbe invece più corretto definire strumenti elettronici. È importante essere
consapevoli di questi intrecci di significato perché le traduzioni da un codice all'altro
possono sempre nascondere delle ambiguità. A noi ciò appare ancora più importante
perché la parola in questione ha, nella nostra prospettiva e per i nostri scopi
educativi, un'importanza notevole. Vedremo fra breve il perché. Intanto “possiamo
considerare la tecnologia come l'attività incessante di riflessione sulla natura della
tecnica”114.

Intendo ora sondare il significato della parola “virtuale”. Il Devoto-Oli lo


definisce come “ciò che è in potenza e non in atto”, contrapposto spesso a “reale”, e
anche come “rispondente ad una volontà o a un progetto ma privo di riscontro reale
o di manifestazione concreta”. La derivazione è dal latino medievale dei filosofi
scolastici virtualis, che a sua volta è derivato da virtus che significa “facoltà”,
“potenza”, “forza”, “coraggio”. Infatti l'origine di questo significato è da
individuarsi, a sua volta, in vir, ossia “uomo” in latino. L'uso moderno però è dovuto
al latino cristiano: Dante, tra i padri fondatori della lingua italiana, usa “in virtù” col
significato di “in potenza”: “ed in virtute / Ne porta seco e l'umano e 'l divino”115.

Per procedere nella nostra argomentazione è necessario ancora considerare la


forza del mezzo visivo e le potenzialità dei mezzi multimediali. Abbiamo già
osservato che l'immagine ha nell'essere umano un forte potere attrattivo; essa
richiama la sua attenzione, potremmo dire, “per natura”. Al contrario ad esempio
della scrittura, infatti, essa riproduce in maniera molto fedele e suggestiva la realtà
esperita in prima persona col nostro corpo. Se all'immagine aggiungiamo il suono e
la possibilità che le figure grafiche si muovano e interagiscano con noi, il risultato è
una riproduzione multi-sensoriale della realtà di ancor più grande impatto emotivo.
Oltre alla riproduzione “fedele” della realtà, come può essere in un film, la
multimedialità può consentire anche di rappresentare, grazie al computer, una realtà
virtuale ossia una realtà del tutto verosimile o immaginabile ma completamente
avulsa dalle caratteristiche proprie dal resto dell'ambiente in cui l'essere umano è

114 Daniele Castellani, La coda del topo. Principi di educazione info-ambientale, Edizioni Junior,
Azzano San Paolo (BG), 2007, p. 61.
115 Cfr. Devoto-Oli.

64
calato116.

Ritengo che sia proprio nel potere seduttivo e di finzione ipnotica117 che stia la
cifra di ambiguità delle nuove tecniche elettroniche. Esse catturano l'attenzione
dell'essere umano sino al punto di farlo incorrere nel rischio – osservabile nel
disagio psicologico – di smarrire la coscienza della realtà “non rappresentata”, cioè
di quella realtà che mi piace chiamare vivente. La realtà vivente sembra l'unica in
grado di soddisfare a pieno i bisogni ineludibili dell'essere umano. Ecco allora che
un'eccessiva esperienza virtuale può generare nel giovane, e nelle persone in
generale, problemi di adattamento a quella parte di ambiente che non è
rappresentazione ma è ambiente biologico vivente. Mentre la narrazione teatrale o
cinematografica in senso stretto provocano uno straniamento in cui il “'qui ed ora' si
dilata, si espande e si trasforma in Qui e Altrove”118 (dando vita a un viaggio
virtuoso verso un contesto rappresentativo più ampio), le nuove tecniche
informatiche rischiano di produrre una coscienza alterata in cui il Qui è Altrove,
ossia rischiano di produrre una fantasticheria. Senza scadere in alcuna
stigmatizzazione tout court del computer e della sua virtualità, va riconosciuto che è
necessario conoscerne i fenomeni sottesi per acquisire piena coscienza delle
problematiche tecnologiche che si pongono.

Il computer può rappresentare per l'individuo un fine di per sé. Questo è un dato
di fatto col quale il soggetto dovrà sempre misurarsi. La consapevolezza dei pericoli
insiti nell'uso di tale strumento, però, consente di “vivere” l'apparecchio elettronico
anche e soprattutto come mezzo per raggiungere i propri scopi. Ciò consente di
gestire i propri comportamenti in direzione di senso e di equilibrio emotivo.

In ambito educativo è importante rifarsi al significato letterale di tecnologia, ossia


ragionare in termini meta-cognitivi. In un oggetto “in sé” non c'è nulla che sia
educativo. A scuola il computer è un mezzo e noi dobbiamo chiederci come usarlo
per raggiungere i nostri scopi disciplinari e formativi. Non basta di certo mettere i
116 Gettato, per dirlo con Heidegger.
117 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Ipnosi; Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi. Prima e
seconda serie di lezioni, Bollati Boringhieri, Torino, 1978 (ed. orig. 1917).
118 M. Bernardi, Il tappeto dell'Altrove in Emy Beseghi (a cura di), Infanzia e racconto. Il libro, le
figure, la voce, lo sguardo, Bononia University Press, Bologna, 2003, p. 48.

65
bambini davanti al computer per fare educazione tecnologica. Il maestro infatti
riflette sul modo di utilizzare i media, si concentra sul processo che vuole innescare;
egli è il portatore di una padronanza tecnologica prima che tecnica. Più avanti
menzionerò qualche esempio di uso didattico del computer. Adesso resta ancora da
chiarire qualche cosa.

La realtà è definita dal vocabolario come “concetto fondamentale che esprime in


compendio la qualità di ogni cosa in quanto 'è', in sede oggettiva e soggettiva”119.
Quindi la realtà è tutto ciò che esiste fuori e dentro di noi. Anche il viaggio virtuale
è realtà, e lo è nel momento stesso in cui postuliamo la sua esistenza. Allora perché è
importante distinguere la realtà vivente da quella virtuale? Prima ancora di
rispondere, va detto che “virtuale” è una parola collocabile fra le parole “logore”,
svuotate di significato. Essa invece dovrebbe tornare ad essere “vincolante”; è
portatrice di un significato importante da non smarrire; questo lemma è in grado di
differenziare la realtà dei computer dalla realtà degli esseri viventi. Venendo dunque
alla risposta lasciata in sospeso, posso affermare che la depauperazione del
linguaggio da un lato e il potere suggestivo delle “nuove tecnologie” dall'altro,
creano, soprattutto nei giovani a lungo esposti ai calcolatori elettronici, una
confusione di tipo disfunzionale tra la realtà vivente e la realtà virtuale: queste
devono quindi poter essere distinte dalla coscienza anche per mezzo di un
linguaggio opportuno e consapevole.

La confusione fra le due realtà, poi, mi appare come il riflesso di quella


dicotomia corpo-mente che abbiamo osservato contraddistinguere la modernità
occidentale: in essa infatti vi è il rischio che si viva come vivente la realtà virtuale
creata dalla mente e come virtuale la realtà vivente, ossia quella vissuta in relazione
col corpo. Gli effetti di questo fenomeno sono ansia, nevrosi e disagio sociale; il
corpo è dimenticato e la possibilità di una realtà immaginata dalla mente viene presa
a ostinato modello interpretativo della realtà vivente. Si rompe quel legame
dialogico tra mente e corpo e tra io e mondo che rappresenta l'equilibrio psico-
sociale-ambientale che auspichiamo. Si corre infatti il rischio che il viaggio virtuale,
qualora diventi totalizzante, possa condurre l'individuo alla forma psicologica della
119 Cfr. Devoto-Oli.

66
fantasticheria. Consideriamo che questo rischio lo si può correre anche facendo un
uso eccessivo della narrativa. Però, a differenza della finzione narrativa, la realtà
virtuale ha dei connotati molto più pervasivi in virtù della suggestione ipnotica e
multimediale di cui è capace. È per questo che come educatori dobbiamo essere più
prudenti rispetto a questo mezzo, la cui potenza va saputa gestire.

Ci si può chiedere, sulla scia dell'immaginario contemporaneo, se sia possibile


costruire, per paradosso, una “realtà virtuale vivente”. Credo di no. Infatti questo
vorrebbe dire creare un contesto nel quale si possano percepire sensazioni con tutto
il corpo e attraverso tutti i sensi. Questo non è ancora possibile. Inoltre bisognerebbe
dar vita ad un ambiente imperfetto come quello naturale, in cui si possa trovare
l'infinito e l'errore anche nelle misurazioni più attente. Si tratterebbe poi di
ricostruire la stessa natura in cui già siamo immersi. Come esseri umani, siamo il
risultato dell'adattamento alla realtà vivente data, e quindi non possiamo sentirci vivi
in una realtà che non sia biologica. Emerge quanto questa operazione “avveniristica”
sia priva di senso, priva di scopo.

La sola cosa che si può sostenere è la possibilità che la realtà virtuale, attraverso
nuove macchine, muti ancora, giungendo a risultati ancora più suggestivi e
affascinanti. Credo, a tal proposito, che nelle nostre coscienze vadano distinti bene i
due tipi di realtà anche perché il rischio di confusione fra le due potrebbe ancora
aumentare di pari passo con gli sviluppi tecnici. Di qui l'urgenza di una
consapevolezza educativa rispetto a questo fenomeno. Il computer e la realtà virtuale
sono incredibilmente suggestivi ma devono rimanere soprattutto strumenti propri
della realtà vivente. Strumenti di piacere o di lavoro ma pur sempre strumenti.
Abbandonarsi a questi mezzi come proprio fine è una prospettiva da assumere di
rado e in casi eccezionali: è un atteggiamento che non alimenta in alcun modo la
serenità se non per pochi istanti. Tale ottica sembra più che altro funzionale agli
interessi economici delle aziende produttrici di macchine elettroniche.

Le dicotomie corpo-mente, ambiente-io che abbiamo visto manifestarsi anche in


ambito tecnologico, vengono diffuse nel tessuto sociale attraverso specifici miti che
surrettiziamente si insinuano nelle coscienze degli individui. Daniele Castellani

67
individua sette miti fortemente interconnessi120:

● «il mito della tecnica (o di Prometeo) per cui lo sviluppo tecnologico è


condizione essenziale per la costruzione e il benessere di ogni civiltà;

● il mito del progresso per cui, di fronte all'indiscutibile miglioramento


delle condizioni di vita e davanti alla promessa di un futuro ancora migliore,
vengono giustificate numerose azioni di sistematica distruzione
dell'ambiente;

● il mito dell'utilitarismo per cui ogni entità vivente e non vivente acquista
un determinato valore solamente in funzione dell'utilizzo che l'uomo ne può
fare;

● il mito della superiorità dell'uomo per cui la natura si deve piegare ai


suoi bisogni, sancito dai diversi miti della creazione presenti in numerose
religioni e in alcune dottrine politiche che sono giunte fino alla teorizzazione
della superiorità di una razza di uomini sulle altre, o, in maniera più subdola,
di una classe sociale sulle altre;

● il mito della rigenerazione, della inesauribilità delle risorse naturali e


della capacità della natura di ricostituirsi, secondo dinamiche eco-
organizzatrici, e di assorbire ogni ferita prodotta dall'azione umana, nato in
seguito allo sviluppo di una maggiore sensibilità ai problemi dell'ambiente;

● il mito della superiorità della ragione economica sulla ragione politica,


presente oggi in molte società industriali e post-industriali, per cui, il sistema
della libera produzione e del consumo di beni prevale su ogni pretesa di
equilibrata, ecologica gestione e distribuzione delle risorse;

● il mito della libertà individuale per cui ogni individuo può scegliere da
solo quali comportamenti adottare tenendo essenzialmente conto del

120 L'autore usa il termine mito sottolineando ironicamente il paradosso che ne scaturisce. Qui con
tale parola infatti si indicano dei modi di pensare che si basano su un presunto razionalismo
tecnico-scientifico (in realtà alimentano risposte emotive ed irrazionali ai problemi).

68
soddisfacimento dei propri bisogni materiali e spirituali»121.

Anche la parola ambiente è stata travisata dal mondo dell'informatica e del


linguaggio delle nuove tecniche elettroniche. La locuzione “ambiente di
apprendimento” - o semplicemente “ambiente” - è diffusissima nel mondo
informatico, basta aprire un qualsiasi libro sul tema; essa però viene utilizzata in
luogo della più corretta espressione “ambiente virtuale di apprendimento” - o
“ambiente virtuale”. Sono sempre le parole di Castellani che ci aiutano a chiarire il
nostro pensiero:

«La pericolosa separazione generata dal concetto tecnocentrico di “ambiente di


apprendimento”, bandiera del “determinismo tecnologico” contrapposto al concetto
di “ambiente” definito a livello internazionale e di “ambiente di apprendimento”
della tradizione pedagogica delle culture occidentali, non può essere in questa sede
accettata.

Nell'idea di “ambiente virtuale di apprendimento”, visto come luogo di trasmissione


e costruzione del sapere, si pone al centro del discorso pedagogico la tecnologia, il
medium, e si trascura la perdita di contatto diretto con la realtà e con gli esseri
viventi. [...] lo strumento di comunicazione informatico [...] non regge il confronto
con la realtà delle cose e con la complessità del nostro sistema percettivo, né
esaurisce l'intensità e il bisogno tutto umano di relazioni concrete con persone, esseri
animati, oggetti, ambienti»122.

Abbiamo preso coscienza di alcuni elementi complessi della virtualità. Ora


possiamo volgere l'attenzione agli aspetti più strettamente didattici del “viaggio
virtuale”.

Per fare ordine e per comodità possiamo distinguere due tipi di viaggio virtuale:

il viaggio immersivo123, che può essere vissuto sia in rete telematica che solo
121 D. Castellani, op. cit., p. 12.
122 Ibidem, p. 100.
123 Immersivo è un neologismo che si sta diffondendo in Rete e nell'uso corrente, non è riportato nei
comuni vocabolari. È un'espressione più efficace per dire coinvolgente, suggestivo. Il punto di
vista è immerso nello spazio virtuale costruito.

69
attraverso il computer; esso è connotato da una grafica coinvolgente e il suo grado di
immersività varia a seconda dei casi; è contraddistinto da una visione grafica
verosimile ed è quindi emotivamente coinvolgente; il viaggio immersivo per
eccellenza è quello che si compie nella Realtà Virtuale in senso stretto (indicata con
l'acronimo RV124) ossia quella che si propone di avvicinarsi il più possibile ad una
riproduzione fedele di un contesto, proponendosi cioè di coinvolgere tutti i cinque
sensi;

il viaggio informativo, che può essere vissuto sia attraverso la Rete sia per mezzo
di archivi in forma ipertestuale su cd-rom; può essere intrapreso in generale
attraverso tutti i mass media ed è finalizzato alla ricerca di informazioni; esso ha un
grado di seduzione minore rispetto al tipo precedente ma è pur sempre un viaggio
“in potenza”.

Ai fini didattici individuiamo alcuni esempi utili di viaggio immersivo. Rolando


Dondarini focalizza l'attenzione sui musei virtuali, “ovvero dei siti e dei supporti
informatici che riproducono il museo in uno spazio cibernetico. Con essi si può
perseguire una variabilità e flessibilità inedite dei percorsi museali simulando
un'apparente ubiquità del visitatore e cercando di presentare gli oggetti esposti in
ricostruzioni ipotetiche dei loro contesti originari”125. Lo stesso autore mette in luce
l'utilità didattica di questi mezzi in particolare per le potenzialità spazio-temporali.
Ci suggerisce un paio di esempi concreti:

«Si pensi alla possibilità di muoversi, raggiungere e focalizzare a diversa scala


tutti i punti del pianeta consentita da Google Earth: una opportunità di imparare ad
orientarsi nello spazio prima ancora che nel tempo; oppure alla facoltà di
raggiungere in pochi istanti le sedi museali più diverse e disparate, da quelle più
prestigiose (Vaticani, Louvre, Hermitage, British, Guggenheim) a quelli più
specialistici e locali nei quali sempre più spesso sono fruibili percorsi didattici
appositamente preparati»126.
124 Cfr. Alessandro Colombi, Realtà virtuale e processi di simulazione, in L. Guerra (a cura di), op.
cit., pp. 43-52.
125 Rolando Dondarini, L'albero del tempo. Motivazioni, metodi e tecniche per apprendere e
insegnare la storia, Pàtron Editore, Quarto Inferiore (Bologna), 2007, p. 135.
126 Ibidem, p. 171.

70
Sebbene presentino un grado di immersività minore a causa dell'impossibilità di
partecipare attivamente all'interno dello spazio grafico riprodotto, anche negli
archivi multimediali come You Tube, Google o Vimeo sono possibili viaggi virtuali
immersivi. Attraverso i video infatti si può “viaggiare” agevolmente in spazi e tempi
diversi da quelli in cui si sta vivendo. Ai video si integrano le componenti di
interattività - blog, forum, indici di gradimento, possibilità di condividere il proprio
materiale - e anche di ipertestualità, che consentono di visualizzare i video divisi per
categorie e di accedere al materiale correlato. Inoltre i motori di ricerca inclusi in
questi tipi di portale, attraverso l'uso delle tag, consentono di accedere a video
specifici digitando delle parole chiave. I filmati messi a disposizione da tali siti
Internet possono essere ottimi strumenti didattici in particolare per motivare
emotivamente gli alunni o per approfondire un argomento disciplinare o una
questione problematica emersa in classe.

Fra i viaggi informativi, invece, menzioniamo quelli offerti da diversi servizi,


come i cataloghi on line, le biblioteche digitali, le enciclopedie wiki, i forum e i
blog. Oltre che sulla Rete, la ricerca di informazione può avvenire anche in archivi
ipertestuali, memorizzati nell'hard disk del computer o su supporti esterni come i cd
rom (si pensi alle enciclopedie). Come spiega Elena Pacetti, “grazie allo sviluppo e
alla diffusione di Internet, il modo di compiere una ricerca bibliografica è
completamente cambiato: non è più necessario spostarsi tra biblioteche ma
bibliografie e cataloghi sono reperibili direttamente in Rete. Le bibliografie sono
spesso contenute in siti dedicati a un determinato argomento o disciplina; i cataloghi
on line più comunemente usati sono quelli delle biblioteche e vengono chiamati
OPAC (Online Public Access Catalog)”. Questi ultimi sono costituiti da un
database, dotato di un proprio motore di ricerca, e da un'interfaccia di accesso ai
dati127.

Vi sono poi vere e proprie collezioni di testi in formato elettronico messe a


disposizione da biblioteche e associazioni. Solitamente si tratta di archivi di opere
classiche esenti ormai dal copyright. Sebbene si incontrino ancora difficoltà tecniche
per una diffusione larga di queste biblioteche digitali esse possono già essere
127 Elena Pacetti, in L. Guerra (a cura di), op. cit., p. 216.

71
sfruttate dall'insegnante e dagli alunni per procurarsi materiale per i percorsi
didattici. Sono diversi i Progetti che hanno dato vita a biblioteche digitali
accreditate: Progetto CIBIT (Centro Interuniveristario Biblioteca Italiana
Telematica), http://cibit.humnet.unipi.it; Progetto Manuzio,
http://www.liberliber.it/biblioteca; Progetto Gutenberg (la più antica iniziativa nel
settore128), http://www.gutenberg.org; menzioniamo anche un metacatalogo
multilingue: http://www.babelot.com129.

Informazioni enciclopediche o archivistiche possono essere reperite e costruite


anche per mezzo delle pagine wiki a cui tutti gli utenti della Rete possono
contribuire. Bisognerà in questi casi fare molta attenzione alle fonti da cui sono
tratte le informazioni. Torneremo su questa forma di portale nel prossimo
sottocapitolo. Possono essere utili anche i forum e i blog, nei quali gli utenti possono
più o meno liberamente scrivere le proprie opinioni o suggerimenti su un dato tema.
Essi forniscono degli spunti di riflessione, risorse per affrontare un problema
informatico o della vita quotidiana. Anche in questo caso, e ancor più del
precedente, è d'obbligo la prudenza e l'uso critico delle informazioni.

Ora, affinché le nostre riflessioni siano più esaustive, è opportuno presentare


qualche dato statistico. Ciò infatti potrebbe aiutarci a cogliere meglio la dimensione
problematica delineata dall'uso del computer e della Rete da parte dei bambini della
prima età scolare. Tentando di comprendere il fenomeno informatico nella società
italiana, facciamo riferimento al rapporto Istat sulle indagini Multiscopo condotte
nel Febbraio 2008130.

Alla voce La disponibilità di beni tecnologici nelle famiglie si registra che “in
Italia i beni tecnologici più diffusi sono il televisore, presente nel 95,4% delle
famiglie e il cellulare (88,5%). Seguono il lettore DVD (59,7%), il videoregistratore
(58,1%), il personal computer (50,1%) e l'accesso ad Internet (42%)”. Tra le
famiglie si osserva inoltre “un forte divario tecnologico da ricondurre a fattori di tipo
128 Cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_Gutenberg (28/08/2010).
129 Cfr. E. Pacetti, op. cit, p. 217.
130 L'indagine dell'Istat (Istituto nazionale di statistica, ente di ricerca pubblico) aveva come
campione 19 mila 573 famiglie per un totale di 48 mila 861 persone. Cfr. www.istat.it
(17/09/2010).

72
generazionale, culturale ed economico. Le famiglie costituite da sole persone di 65
anni e più continuano ad essere escluse dal possesso di beni tecnologici: appena il
7,1% di esse possiede il personal computer, soltanto il 5,5 % ha l'accesso ad Internet
[...]. All'estremo opposto si collocano le famiglie con almeno un minorenne che
possiedono il personal computer e l'accesso ad Internet rispettivamente nel 74,3 % e
nel 60,9% dei casi.”

Alla voce L'utilizzo delle tecnologie da parte degli individui si osserva che i
soggetti di sesso femminile dai sei ai dieci anni hanno utilizzato Internet negli ultimi
dodici mesi nel 21,4% dei casi, mentre quelli di sesso maschile nel 23,1% dei casi.

Un'altra rilevazione che può essere di nostro interesse è che “le persone di 6 anni
e più che si sono connesse ad Internet negli ultimi 3 mesi hanno utilizzato la Rete
prevalentemente per comunicare attraverso l'uso della posta elettronica, ovvero per
mandare o ricevere e-mail (76,1%), per cercare informazioni su merci e servizi
(66,3%) e per apprendere (58,3%)”.

Isolando dall'ampio rapporto Istat questi dati, possiamo individuare alcune


osservazioni chiave. In Italia lo strumento elettronico più diffuso è il televisore, solo
la metà delle famiglie italiane possiede un PC; quasi i tre quarti delle famiglie con
almeno un minore possiede un computer; fra i bambini dai sei ai dieci anni
nemmeno un quarto fa un uso abituale di Internet; il servizio della Rete più usato è
la posta elettronica. Pur consapevoli dell'incertezza racchiusa in queste osservazioni
- dovuta ad esempio, ma non solo, al fatto che i questionari dell'Istat con ogni
probabilità non vengono compilati dai bambini bensì dai loro genitori - nel
prossimo sottocapitolo non esiteremo ad utilizzare tali rilevazioni per alcune
considerazioni di ordine operativo. Ipotizziamo altresì che il fenomeno informatico
sia destinato ad espandersi quantitativamente. Infatti sempre secondo la ricerca Istat
“rispetto al 2007, la quota degli utenti sia del personal computer sia di Internet
aumenta di oltre tre punti percentuali tornando a crescere in modo significativo dopo
due anni di stagnazione”131.

131 Dal rapporto Istat del 27 Febbraio 2009, www.istat.it (17/09/2010). Il corsivo è mio.

73
3.2. Una Rete di soggetti: come viaggiare

Dopo aver considerato che cos'è il viaggio virtuale in relazione agli strumenti
informatici diffusi nella società e aver preso atto dell'utilità didattica che esso può
assumere, resta da descrivere il come esso vada intrapreso quando si realizza nella
Rete.

Per fare questo vediamo prima di capire meglio che cos'è il Web e che cos'è
Internet.

Senza dare spiegazioni informatiche approfondite, mi pare opportuno


puntualizzare che Internet - detta anche semplicemente Rete - non è il Web. Internet
è la rete planetaria di tutte le reti collegate tra loro e che comunicano con lo stesso
protocollo (Internet Protocol): è chiamata “la rete delle reti”. Il Web - forma
contratta di World Wide Web (WWW) - è la rete più popolare fra quelle che
costituiscono Internet. Il WWW è un gigantesco ipertesto multimediale dotato di
un'interfaccia di facile uso: ha uno schema di identificazione dei contenuti che si
chiama URL (Uniform Resource Locator), il protocollo di comunicazione a livello
applicazione è l'HTTP (Hyper Text Transfer Protocol) e l'architettura generale è di
tipo client-server. Quest'ultima si differenzia dall'architettura peer-to-peer lungo
l'asse del potere che hanno i singoli soggetti della comunicazione. Nell'architettura
del Web il server è un computer che fa da database e gestisce i contenuti e gli
accessi dei client(s) (noi fruitori per esempio). Nell'architettura peer-to-peer (ad
esempio quella dell'applicazione di condivisione E-mule) i nodi della rete che
comunicano/collaborano rivestono ruoli interscambiabili e svolgono le stesse
funzioni132. Torneremo su questo fra breve.

La Rete, anche dal punto di vista metaforico e della sua struttura, è uno strumento
che ci appare molto valido. È indispensabile però acquisire le conoscenze per saperci
navigare. Così come condurre una nave in mezzo al mare richiede una certa
preparazione, in particolare per le insidie e gli imprevisti che si possono presentare,
così anche la navigazione su Internet richiede l'educazione a certe consapevolezze.

132 Cfr. A.A.V.V., Progetto A3. Fondamenti di informatica, Zanichelli, Bologna, 2007 (due volumi).

74
Abbiamo già rilevato nel sottocapitolo precedente che la “navigazione” è
finalizzata a raggiungere una obiettivo/meta, e che è inopportuno usare il mezzo che
si ha a disposizione come se esso stesso fosse il fine. Nella scuola le macchine sono
facilitatori, sono strumento accessorio dell'ambiente di apprendimento. Rolando
Dondarini è su questa lunghezza d'onda quando spiega che la visita virtuale al
museo può essere sì un ottimo espediente didattico ma lo è solo in qualità di mezzo
propedeutico volto a preparare e motivare a quella che sarà poi la visita “vivente”
ossia la visita al museo vero e proprio133:

«In questo contesto anche gli strumenti informatici acquisiscono maggior


significato e non rischiano di sostituirsi con una fallace dimensione virtuale al
contatto fisico e visivo della vista. Attraverso copie o immagini che li introducono, è
possibile predisporre dei percorsi euristici che rendano il supporto informatico uno
strumento propedeutico all'apprendimento museale. Non quindi sudditanza allo
strumento e alle sue opportunità, ma avvicinamento creativo alle tematiche che si
sono individuate e alle metodologie già selezionate»134.

Per ciò che riguarda in particolare la Rete bisogna considerare che dentro di essa
quasi chiunque può comunicare su qualsiasi argomento. È una rete abitata da
soggetti che possono avere degli scopi discutibili o che si lasciano andare agli istinti
più irrazionali. Quindi è fondamentale fare un uso critico dello strumento Internet.
Bisogna tener viva quell'attitudine ad allargare il contesto di analisi dell'oggetto. Ad
esempio dobbiamo interrogare i documenti e i materiali che stiamo consultando
cercando la presenza di riferimenti a enti accreditati o a libri. Bisogna valutare i
possibili scopi dell'autore del prodotto che stiamo visionando, consapevoli del fatto
che il prodotto multimediale può essere falsato, manipolato, distorto. Risulta
indispensabile non essere vittime del potere seduttivo e decontestualizzante
dell'immagine, la quale distoglie la nostra attenzione dallo scopo ultimo della

133 Castellani individua due filoni storici di utilizzo del computer nella didattica, propendendo per il
secondo: “uno tecno-centrico che assume il computer come strumento positivo per definizione e
vincola l'attività didattico educativa centrandola sul suo utilizzo; uno edu-centrico che vincola la
presenza e l'utilizzo del computer solo in precisi momenti delle attività di insegnamento e
apprendimento, progettati secondo logiche tutte pedagogiche: didattiche ed educative”. D.
Castellani, op. cit., p. 76.
134 R. Dondarini, op. cit., p. 137.

75
comunicazione. Molti documenti scritti sui siti Internet sono privi di bibliografia e
spesso non sono firmati o sono firmati genericamente dallo “staff del sito”. In
sostanza bisogna rifarsi al metodo storiografico e filologico che utilizzano gli
studiosi. Risalire alle origini e alle ragioni di un certo materiale reperito significa
ricercarne l'attendibilità e l'autenticità. I bambini necessitano di un'educazione che li
orienti nel mondo dell'informazione. In particolare devono conoscere le tecniche
pubblicitarie, i loro effetti, gli abusi di potere che possono essere commessi per fini
di arricchimento spropositato. I nostri alunni devono sapere che, dietro l'accattivante
apparenza di uno schermo colorato e che si anima, sono nascosti dei soggetti con le
loro personali volontà. Queste ultime devono essere prese in esame e confrontate
con la propria identità alla ricerca di accordi e dissonanze.

La possibile mancanza di attendibilità della rappresentazione che Internet e i suoi


documenti ci danno della realtà, può essere dovuta anche a motivi di potere e di
censura. Ho infatti menzionato l'architettura client-service che caratterizza il Web, il
più usato fra i servizi Internet. Ebbene tale struttura consente delle censure e degli
aumenti di visibilità. Porto un paio di esempi. I video caricati dagli utenti su
YouTube possono essere eliminati liberamente dal gestore del server qualora ritenga
qualcuno di essi inopportuno o sconveniente. Nelle discussioni sul Web si trovano
navigatori sospettosi su tali pratiche: ad esempio c'è chi ipotizza una censura operata
in Italia riguardo ad alcuni video sulla mafia e sui crimini giudiziari. Anche le
modalità con le quali un certo motore di ricerca orienta i suoi utenti ha enormi
ricadute sociali ed economiche. Senza parlare delle pubblicità a pagamento e della
selezione delle notizie operata dai grandi portali. Ovviamente ai vertici della
piramide della struttura gerarchica della rete le autorità governative dei paesi posso
prendere decisioni radicali che possono arrivare sino all'oscuramento dei siti o
all'interdizione della connessione. A tal proposito c'è chi inizia a ipotizzare l'accesso
ad Internet come un diritto fondamentale dell'uomo135.

Nonostante tutto va riconosciuta all'interno della Rete, almeno al momento

135 Un sondaggio condotto dalla BBC e pubblicato il 9 Marzo 2010 rivela che il novanta per cento
degli intervistati (27.000 adulti provenienti da 26 paesi) ritiene che l'accesso ad Internet vada
annoverato fra i diritti fondamentali dell'uomo. Cfr.
http://news.bbc.co.uk/2/hi/technology/8548190.stm (29/08/2010).

76
attuale, una libertà di espressione e informazione maggiore rispetto ad altri mezzi di
comunicazione come la televisione o la radio. Infatti c'è una sorta di filosofia e di
etica nel popolo di Internet, emanazione forse dalla sua stessa struttura reticolare. In
linea di massima non sembra che gli aspetti critici del Web abbiano compromesso la
sua cifra di sostanziale libertà. A questo ha contribuito il farsi strada di una maniera
di costruire e vivere il Web che va sotto il nome di Web 2.0.

Il Web 2.0 è uno stato di evoluzione del WWW caratterizzato da uno spiccato
livello di interazione sito-utente. Infatti la tendenza degli ultimi anni è rendere più
semplice il processo di authoring e permettere a tutti di scrivere contenuti anche
senza avere specifiche conoscenze tecniche136. La figura del lettore e dell'autore è in
larga parte sovrapponibile, come alle origini del Web137. Tale tendenza generale vede
la partecipazione, l'interattività, la collaborazione e la condivisione come elementi
caratterizzanti. Blog, forum, chat e sistemi quali Wikipedia, You Tube, Facebook.
Myspace, Twitter e Gmail sono applicazioni online che riflettono questo
cambiamento di paradigma comunicativo sul Web. I wiki in particolare sono siti
Web di pagine ipertestuali i cui contenuti sono modificabili direttamente durante la
navigazione da tutti gli utenti. Il padre del primo wiki fu Ward Cunningham il quale
ne inventò il concetto stesso nel 1995138.

Anche per ciò che concerne l'attendibilità dell'informazione su Internet, si


registrano negli ultimi anni delle forme di monitoraggio specifiche. Il wiki, ad
esempio, presuppone una forma di continuo controllo reciproco fra gli utenti.
Specifici software come Wikipedia139 (applicazione pubblica esistente in lingua
italiana dal 2005) hanno sviluppato altri sistemi di controllo. Ad esempio è prevista
la registrazione degli utenti che vogliono collaborare al progetto di scrittura; sono
state messe a punto alcune linee guida, continuamente modificabili dagli utenti, che

136 Questo anche grazie a intuitivi strumenti di modifica “WYSIWYG” (What You See Is What You
Get, ossia “quello che vedi è quello che ottieni”).
137 Cfr. Progetto A3..., op. cit.
138 Cfr. Progetto A3..., op. cit. Il termine deriva dalla locuzione di lingua hawaiana “wiki wiki “che
significa “rapido”, “molto veloce”.
139 Letteralmente “cultura veloce”: wiki, “veloce”; -pedia, suffisso con significato di “cultura”.
Wikipedia annovera fra i suoi sostenitori Umberto Eco il quale cita spesso dai suoi contenuti (si
veda a titolo di esempio A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico, Bompiani,
Milano, 2006).

77
regolano l'uso del portale stesso. Wikipedia si propone poi, come regole basilari
d'uso, “cinque pilastri” non modificabili che rappresentano la filosofia stessa del
wiki e nei quali si rimarca la necessità di usare e citare fonti attendibili che
consentano agli utenti di fare delle verifiche; si descrive altresì una sorta di etica del
wikipediano. I pilastri che vengono descritti sono consultabili su
http://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Cinque_pilastri e si intitolano: Wikipedia è
un'enciclopedia, Wikipedia ha un punto di vista neutrale, Wikipedia è libera,
Wikipedia ha un codice di condotta. L'aspetto qualificante di questa enciclopedia
pubblica, che si propone di favorire la diffusione del sapere nel mondo, è che le voci
che costituiscono l'ipertesto non sono sotto il controllo di un singolo o di
un'oligarchia di soggetti, ma sono sotto il controllo di tutti gli utenti.

Il paradigma del Web 2.0 è rappresentato anche dalle reti sociali in linea, i
cosiddetti “social network”: Facebook, Orkut, LinkdIn, Myspace ne sono degli
esempi. Sono la manifestazione di una sempre maggiore partecipazione attiva degli
utenti sul Web. Entusiasti di questa tendenza che rientra nei nostri principi
pedagogici - costruzione attiva del sapere, diritto alla conoscenza, condivisione,
collaborazione - siamo però anche attenti agli aspetti critici riguardanti la
multimedialità e il Web.

Imparare come viaggiare nelle Rete ha un'utilità trasversale a tutti gli ambiti della
vita. L'approccio critico ai fenomeni è uno strumento fondamentale che il maestro
deve fornire all'alunno per formarlo ad uno stile esistenziale sereno ed equilibrato140.

Restano ancora da considerare le possibili modalità di avvicinamento del


bambino al mezzo informatico. Infatti le consapevolezze sin qui rilevate devono
riflettersi nella pratica dall'educatore; il giovane non acquisisce l'approccio critico
unicamente di riflesso al modello virtuoso di adulto che ha di fronte e tanto meno lo
fa di colpo. Ciò avviene gradualmente attraverso il filtro dell'adulto che, in famiglia
e a scuola, deve sapere come porgere al bambino lo strumento e le nuove
conoscenze. Mi sto riferendo ora a un come più strettamente pedagogico. In

140 Per educare all'approccio critico all'informazione può essere utile analizzare insieme ai bambini
la stessa notizia riportata da giornali diversi.

78
particolare ci interessa esemplificare alcuni accorgimenti per consentire l'uso sereno
del computer e per preservare la salute del giovane che naviga. Dai dati che abbiamo
proposto alla fine del sottocapitolo precedente emerge che in Italia l'uso del personal
computer e di Internet non è un fenomeno largamente diffuso. Solo la metà circa
delle famiglie italiane possiede un computer e fra i bambini dai sei ai dieci anni
sembrano pochi quelli che navigano su Internet. Il fatto però che le famiglie con
almeno un minore abbiano a disposizione un PC quasi nei tre quarti dei casi e
considerato che ci aspettiamo nei prossimi anni un'espansione del fenomeno
informatico, pare opportuno avviare una riflessione tecnologica e pedagogica. Ciò
giustifica le analisi sinora fatte e quelle che ci apprestiamo a fare.

Pur ripudiando gli allarmismi, le smisurate paure e le angosce che vengono


talvolta strumentalizzati da un certo modo di fare politica e pur denunciando l'abuso
della parola “sicurezza” commesso spesse volte nel dibattito politico, riconosciamo
il bisogno di protezione e di scaffolding141 di cui è portatore il bambino che utilizza il
computer e la connessione Internet. Consultando il sito della Polizia di Stato e del
Telefono Azzurro si possono trovare dei suggerimenti utili per il genitore/educatore.
In questa sede mi pare opportuno menzionarne principalmente quattro.

1. Collocare il computer in una stanza di accesso comune della casa,


piuttosto che nella camera dei ragazzi, e rendere l'uso di Internet un'attività
per tutta la famiglia, oppure usare il computer assieme ai figli. A scuola
tenere il PC in classe ad uso di tutti e sotto la supervisione del maestro.

2. Può essere opportuno rinforzare la protezione on-line installando i


cosiddetti “filtri”, software per impedire l'accesso ai siti non desiderati
(violenza, sesso, giochi d'azzardo, ecc.), che si basano su una serie di parole
chiave proibite, nonché su un elenco predefinito di indirizzi da evitare.

3. Leggere e visionare le e-mail insieme ai bambini (abbiamo già rilevato


che il servizio di posta elettronica è quello più usato in Italia). Molti pedofili
allegherebbero foto di pornografia infantile alle e-mail inviate ai minori. La

141 Ossia quel sostegno all'apprendimento di cui parla Jerome Bruner. Letteralmente “impalcatura”.

79
pornografia potrebbe essere utilizzata dal pedofilo per convincere il bambino
che altri bambini compiono atti sessuali.

4. Operare affinché l'uso del PC non divenga totalizzante nella vita del
bambino: le attività con lo strumento informatico devono essere oggetto di
discussione e condivisione in famiglia così come a scuola. La continua
riflessione critica realizzata assieme al bambino nella quotidianità dovrà
dedicare particolare attenzione alle “amicizie” che il giovane può aver fatto
in chat o via mail.142

Ora, dopo questi suggerimenti pratici, è il momento di passare a un'esperienza di


viaggio concreta. Nel prossimo capitolo, tramite un'intervista, analizzeremo un
soggiorno didattico realizzato da una classe Quinta di Scuola Primaria.

142 Cfr. http://www.poliziadistato.it/ e http://www.azzurro.it/(19/09/2010). Possono essere utili le


riflessioni contenute in Piero Bertolini (a cura di), Navigando nel cyberspazio. Ricerca sui
rapporti tra infanzia e Internet, BUR, Milano, 1999.

80
4. VIAGGIARE IN UN GEMELLAGGIO

4.1 Un progetto, un viaggio: intervisto una maestra

Il viaggio didattico143 è una risorsa che mi propongo di analizzare attraverso


un'intervista alla Dott.ssa Erika Caramalli, maestra di Scuola Primaria nonché tutor
ai tirocini presso la facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna.

Il viaggio a cui mi riferisco fa parte di un progetto di lungo periodo che


consisteva in un gemellaggio fra due classi di Scuola Primaria dislocate una a Sasso
Marconi (Bo) e una a Pellaro (RC), l'una nella scuola “Capoluogo” dell'Istituto
Comprensivo del Comune, l'altra nella scuola “A. Cassiodoro” del Circolo Didattico
omonimo. Tale percorso prevedeva uno scambio epistolare che coinvolgesse
attivamente i bambini. Inizialmente esso non pianificava come indispensabile lo
scambio reciproco di visita delle due classi, lo riteneva solo possibile. Il viaggio
verrà fatto: uno nel Maggio 2005 della classe di Pellaro a Sasso Marconi e l'altro nel
Maggio 2006 della classe di Sasso Marconi a Pellaro. Intanto riporto di seguito il
progetto di partenza, il quale coinvolgerà tre anni scolastici, e che è stato redatto
dalle stesse insegnanti della scuola di Sasso Marconi, fra cui Erika Caramalli.

PROGETTO/LABORATORIO DI CORRISPONDENZA

Il Progetto coinvolge i bambini della classe III A della scuola elementare Capoluogo
dell'Istituto Comprensivo di Sasso Marconi.

Analisi della situazione e dei bisogni educativi e formativi

Nel corso dei due anni scolastici precedenti si è evidenziato come gli apprendimenti
più significativi siano stati quelli che hanno stimolato e coltivato la curiosità dei bambini:
obiettivo trasversale a tutti i saperi. A seguito di queste considerazioni le insegnanti
avevano già dallo scorso anno ipotizzato un percorso di scambio epistolare che
coinvolgesse attivamente i piccoli. Requisiti da ricercare nei corrispondenti erano:

143 Le origini “archeologiche” del viaggio d'istruzione possono essere individuate nel Grand Tour,
pratica in voga dal Seicento fino all'Ottocento tra i giovani aristocratici europei che, con l'ausilio
di un tutore, allo scopo di fortificare e maturare, compivano un viaggio di mesi o anni attraverso
l'Europa, con particolare attenzione all'Italia. Cfr. Attilio Brilli, Quando viaggiare era un'arte, Il
Mulino, Bologna, 1995.

81
● che fossero bambini di scuola elementare e partecipassero come classe allo
scambio

● la lontananza geografica (possibilmente in Calabria o Sicilia) pur rimanendo


in Italia

● la possibilità loro di utilizzare la posta elettronica.

La richiesta della provenienza era legata alla possibilità di conoscere la storia greca
e romana attraverso gli occhi di coetanei che la vivono come quotidianità di luoghi.
Dapprima si erano contattate le scuole di Siderno (RC) – Comune gemellato con Sasso
Marconi – ma con queste non si è pervenuti a nessun accordo. Si è così ricorsi a
“passaggi di parola” e a contatti forniti da colleghi ed andati a buon fine. Il progetto
messo in campo ha l'ambizione di non esaurirsi in questo anno scolastico ma di
proseguire nei prossimi non escludendo uno scambio reciproco di visita. Inoltre prevede
la ricerca di nuovi corrispondenti sia in Italia che all'estero.

Obiettivi

Gli obiettivi che andiamo ad elencare hanno un valore educativo e formativo


interdisciplinare ed extradisciplinare

1. Scambio epistolare di informazioni relative ad usi e costumi, alle relazioni sociali


caratterizzanti il luogo, alle caratteristiche geografiche del nostro e loro
ambiente di vita.

2. Contenuti ed obiettivi specifici di storia e di educazione musicale. Approccio


ravvicinato coi luoghi della storia anche attraverso le tradizioni musicali.

3. La comunicazione nel tempo:

3.1 Evoluzione e velocizzazione dei mezzi di comunicazione: dalla posta


ordinaria alla posta elettronica. La rapidità della comunicazione al giorno d'oggi.

3.2 La corrispondenza: il testo formale e informale.

3.3. La lettera: acquisto, scrittura, il francobollo, l'invio. Analisi dell'indirizzo nelle


sue parti: intestatario, via, CAP, provincia e Stato. Il mittente.

82
Modalità di lavoro

Si lavora talora per piccoli gruppi e talora nel grande gruppo. Le lettere inviate e
ricevute vengono scritte materialmente dai bambini al computer, pertanto:

a) La stesura avviene come SCRITTURA COLLETTIVA durante le ore di


compresenza delle insegnanti che partecipano attivamente coi bambini alla
lettura e rielaborazione della risposta. I bambini spontaneamente - senza
essere sollecitati – parlano e decidono cosa dire e cosa chiedere. Le diverse
frasi vengono appuntate dalle insegnanti. Al termine della conversazione
l'elenco delle cose dette/chieste viene riordinato secondo percorsi logici
condivisi dai bambini.

b) A questo punto abbiamo un testo scritto a mano da più persone.

c) I bambini vengono divisi in due gruppi di lavoro, di cui, a rotazione, uno lavora
in classe con un'insegnante e l'altro si reca nell'aula d'informatica delle Scuole
Medie “G. Galilei”. Tutte le settimane si effettua il lavoro in piccoli gruppi in aula
e nell'aula delle Scuole Medie durante le ore di compresenza delle insegnanti.

d) I bambini già dall'anno scolastico scorso avevano avviato un percorso di


conoscenza del programma di video scrittura Word. Pertanto utilizzando questa
competenza acquisita precedentemente dagli alunni si ricopia il testo della
lettera: ogni bambino ha da copiare una porzione di lettera. Al termine del
lavoro individuale l'insegnante “raduna” i pezzi scritti dai singoli bambini e li
ricompone nel testo unico.

e) Ogni bambino ha un'importanza fondamentale al fine del lavoro comune: si


collabora per la realizzazione di un prodotto a cui altri hanno già dato il loro
contributo. È da ricordare che, alternativamente, solo metà classe redige la
lettera.

Tempi

I presupposti si erano avviati lo scorso anno sia all'interno del team che coi genitori.
Il lavoro è settimanale e coinvolgerà l'intero anno scolastico essendone parte
integrante. I docenti delle due scuole hanno il proposito di svilupparlo anche nei
prossimi anni scolastici.

83
Risorse

Per l'attività con i bambini si utilizzeranno le ore di compresenza delle insegnanti.


Per la programmazione aggiuntiva si attingerà alle ore di Progetto disponibili per il
Plesso pagate col F.I.S. Per l'acquisto dei materiali fotografici e didattici necessari, si
attingerà al fondo dell'Autonomia.

Progetti correlati

Il progetto/laboratorio costituisce il legame di senso di tutta l'attività scolastica. Di


seguito elenchiamo i progetti ad esso riferiti con le rispettive indicazioni di
finanziamento:

a) Informatica: laboratorio a costo zero.

b) Uscite: a Misa, al museo di paleontologia, a teatro (“Gli gnomi di Natale”, “Il


riciclone”, “Il manifesto dei burattini”), al cinema (“Il popolo migratore”) ed altre
eventuali da calendarizzare: trasporti in parte finanziati coi fondi messi a
disposizione dal Comune per l'utilizzazione del pullman privato (euro 146,04), in
parte pagati dalle famiglie per quel che riguarda il pullman di linea e il treno;
ingressi a carico delle famiglie.

c) Scuola di musica: finanziata coi fondi messi a disposizioone dal Comune per
un totale di dodici incontri.

d) Vigili: percorso di educazione stradale curato dalla Polizia Municipale di


Sasso Marconi a costo zero.

e) Copaps: progetto di riqualificazione ambientale in cui ci si affiancherà alle


classi seconde per l'attività di compostaggio. Progetto a costo zero.

Modalità di verifica

Questionario da somministrare ai bambini sull'interesse riscosso dall'attività di


scambio epistolare.

Documentazione

Lettere prodotte, materiale fotografico e video, testi e appunti dei docenti.

84
Questo progetto, la documentazione e anche altro materiale usato per
l'organizzazione operativa dell'attività mi sono stati gentilmente messi a disposizione
dalla Dott.ssa Caramalli. Ho approntato un'intervista alla docente sulla base di questi
materiali e alla luce del mio interesse pedagogico sul viaggio.

Dopo qualche saluto cordiale e una lettura congiunta delle domande, si è svolta,
con una certa flessibilità di struttura, la mia intervista.

Bologna, ore 11.00, 23/07/2010

Come è stato accogliere gli alunni di Pellaro?

È stato abbastanza all'improvviso perché ha coinciso con un anno scolastico


molto particolare, per noi. C'era una situazione particolare a livello di dirigenza. È
stato molto complicato perché c'era parecchia tensione all'interno della scuola, per
altri motivi, sembra una sciocchezza ma non lo è. I rapporti erano molto tesi con la
nostra dirigente, quindi rischiavamo di non poterli accogliere in modo adeguato. Si è
posto proprio un problema di accoglienza, nel senso più semplice della parola,
avevamo paura che la dirigente opponesse delle resistenze a fare entrare i ragazzi.
Per fare entrare chiunque a scuola tu devi avere l'autorizzazione del dirigente
scolastico, anche se sono bambini di un'altra scuola. Non puoi fare entrare chi ti pare
quando ti pare. Quindi, i rapporti molto tesi con la dirigente - eravamo già a Maggio
e l'anno scolastico stava già “esplodendo” - non ci agevolavano nell'avere la
possibilità di procedere; perché loro (gli alunni di Pellaro, N.d.R) ce l'hanno detto
abbastanza tardi; per loro appunto è stata più una gita con i genitori, è stata un'uscita
diversa da quella che poi abbiamo fatto noi. Però è andata bene. Abbiamo trovato
l'albergo per loro. Poi con la rappresentante dei genitori, che è stata la persona che
mi ha aiutato di più, siamo riusciti ad organizzarci anche su alcuni momenti da avere
assieme. Alla fine, la dirigente li ha accolti in presidenza per un'accoglienza
ufficiale, però si è limitata a quello, non abbiamo avuto le autorizzazioni che ci
servivano. Loro sono stati in Emilia quattro o cinque giorni, che hanno coinciso col

85
fine settimana. Noi non abbiamo avuto l'autorizzazione per portare fuori i nostri a
fare le uscite con loro. Siamo riusciti a farne soltanto una alla Fondazione Marconi
- il sabato che andavano a fare il giro per il centro storico di Bologna non abbiamo
potuto assolutamente portarli - e un'altra a Marzabotto il venerdì pomeriggio: ci sono
stati dati i bambini... Ma assumendoci noi la responsabilità. La scuola non ci
copriva; però ci siamo riusciti. Quindi... erano diversi i fattori.

Un po' le difficoltà le hai già dette. Invece parlando delle soddisfazioni?

Le soddisfazioni... le ho avute da parte dei miei genitori, che comunque


nonostante le particolarità di quell'anno, mantenevano una relazione con noi
insegnanti molto chiara, cioè una relazione di fiducia. Quindi ci hanno lasciato i
bambini per andare a Marzabotto; ce li hanno lasciati la mattina per andare nel
centro storico di Bologna. Soddisfazione è stata anche che i bimbi sono stati molto
bravi, accoglienti, interessati e curiosi... Poi c'è sempre il doppio piano... Che tutte le
difficoltà organizzative i bambini non le devono percepire...

Loro (gli alunni e i genitori di Pellaro, N.d.R) sono arrivati da noi con delle
ceste... Noi invece li abbiamo accolti con piccole cose. Molto diverso il tipo di
accoglienza, ma nel senso proprio della “forma”. Però siamo riusciti anche noi a fare
alcuni gesti di accoglienza. Poi c'è stato il saluto serale in cui sono venuti tutti i
genitori coi bambini.

Dell'incontro fra gli alunni delle due classi, ti ha colpito qualcosa? Qualche
reazione in particolare?

Le reazioni erano quelle di bambini che da due anni si scrivevano delle cose, si
erano visti in foto, però non si erano mai incontrati. Molto curiosi, nel farsi
domande. Tant'è che, mentre prima mandavano le lettere, però le mandavano in
maniera collettiva o in gruppetti, dopo questo incontro, ogni bimbo si era scelto
individualmente un “amico di penna” ben preciso; hanno iniziato una
corrispondenza mirata tra di loro che si è protratta fino alla nostra visita nel loro
paese. Si è creato sicuramente un legame, che io però non so come sia proceduto,

86
perché eravamo già in quinta... Poi c'è stato il momento dell'attesa: quando li hanno
visti arrivare, si era creato inevitabilmente nei nostri l'aspettativa di poter andare là.
Questo è stato il problema successivo perché, non eravamo in una scuola media,
dove dai per scontato che puoi muovere i bambini per più giorni: ottenere
l'autorizzazione per portarli via e farli star via tanti giorni non era una cosa così
scontata.

C'è qualcosa che ti ha colpita particolarmente nel comportamento degli


alunni durante le visite?

Quando sono stati qua loro, abbiamo fatto le cose talmente in fretta, con talmente
tanti altri problemi, che la concentrazione era molto più orientata sulla sicurezza dei
bambini: che non si facessero male, che non si perdessero. Io ero fuori con dei
bambini totalmente affidati a me, non avevo coperture. Per cui non è che mi sia
occupata tanto della loro reazione, anche perché una fetta della loro (alunni di
Pellaro, N.d.R) attività per luoghi culturali l'hanno fatta per i fatti loro. Quindi non li
ho visti. C'era una netta differenza fra i due gruppi di bambini: anche se bisogna
considerare che loro si muovevano coi genitori. Quello ti fa la differenza perché,
muoverli con i genitori, significa che diventano “i figlioli che fanno un po' quello
che pare loro”. Quando abbiamo fatto la nostra visita in Calabria, i miei (alunni
N.d.R.) si sono mossi con noi insegnanti, a loro è stato richiesto tutto un altro grado
di maturità, rispetto al distacco dalla famiglia: perché, sembra, ma bambini che non
avevano mai fatto un giorno fuori di casa si sono “sparati” cinque giorni - con le
notti - con emeriti estranei, perché noi eravamo le maestre e la rappresentante di
classe, però eravamo comunque degli estranei.

Rispetto a questo ci sono stati dei problemi? I bambini hanno retto


emotivamente?

Non c'è stato nessun problema. Hanno retto, sono stati fantastici, è stata più una
paura dei genitori che una realtà.

Invece, per quanto riguarda i genitori, com'è stato l'incontro fra quelli delle

87
due classi?

I loro genitori si sono incontrati con tutti i nostri genitori perché, come ti ho
detto, abbiamo fatto un rinfresco alla fine, per salutarci. Tra le famiglie è andata
benissimo. Tra l'altro, il fatto che fossero venuti i genitori, mi ha creato anche questo
problema e cioè che le famiglie in visita auspicavano che, in occasione del nostro
viaggio a Pellaro, andassero giù anche i nostri, di genitori. Invece su questo siamo
molto diversi! Da noi non esisteva che i genitori potessero venire in viaggio
d'istruzione – giustamente. Mentre per loro erano tutte scampagnate. Così i miei
genitori - c'era qualcuno che tirava a venire, per ansie o anche per curiosità - è stato
più problematico frenarli. Infatti in alcuni casi non ci siamo riusciti. La cosa che
siamo riusciti a fare è stato mantenere distinto il gruppo bambini-insegnanti dal
gruppo genitori. Tant'è che poi, quando i genitori sono venuti giù, si sono andati a
fare dei giri coi genitori calabresi, si sono dati appuntamenti per l'estate dopo, hanno
fatto cene. Si è creato un legame... Poi... Chi più chi meno, con tutte le varie
differenze...

Un po' ne abbiamo già parlato... Passiamo però adesso al viaggio dei


bambini di Sasso Marconi a Pellaro. Quali sono state le difficoltà e le
soddisfazioni nell'organizzare e nel realizzare il viaggio?

I bambini dovevano avere la sorveglianza di un adulto; non potevamo regolarci


come coi ragazzi delle scuole medie o anche più grandi, dove tu dici “quella è la
vostra stanza da tre”. Assolutamente no. Dove c'erano loro ci dovevamo essere noi.
Quindi uno dei problemi è stato chiedere degli alloggi che prevedessero un numero
di posti letto adeguato perché, se no, mi sarei trovata dei bambini senza nessuno a
sorvegliarli e questo non poteva andare. Eravamo in stanze da cinque bambini e un
adulto. A livello di socializzazione è stato bello... Avevo diviso io le camere,
considerando il tipo di relazioni che intercorrevano tra accompagnatrici ed alunni e
considerando le caratteristiche di ciascun bambino e le caratteristiche di ciascun
adulto. C'era la collega, che era la collega di team e non di classe; c'era la
rappresentante dei genitori, che era lì ma l'accordo era che, se c'era da sgridare,
dovevo sgridare io perché, comunque sia, lei era un genitore. Sua figlia come

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avrebbe fatto a sgridarla? Non poteva non sgridare sua figlia. Anche rispetto all'altra
collega, i ragazzi sapevano che i conti li dovevano rendere a me e ... “Guai sgarrare”
rispetto a quello che le dicevano. È andata benissimo...

I ruoli erano chiari...

Erano chiari i ruoli... e poi hanno rispettato le regole. I bambini, senza i genitori,
sono d'una maturità incredibile... quando sono piccoli, più di quando sono grandi.

Essendo nel periodo di latenza144... In un certo senso, sì... Se hanno una guida
valida...

Sicuramente devi avere una relazione con loro per cui te la giochi singolarmente
a prescindere, ma questa non te la crei lì, l'hai creata negli altri quattro anni
precedenti. Potevo permettermelo con loro. Perché comunque avevamo una
relazione che si era creata cinque anni prima, non era una cosa improvvisata, se no
non andava... E non solo per questo, perché anche altre classi le ho avute dalla
prima, ma non erano nelle condizioni per poter fare una cosa del genere – al di là
delle ansie dei genitori ... Anche se soprattutto per le ansie dei genitori... Perché, alla
fine, i bambini vivono le ansie dei genitori e, di conseguenza, la relazione che hanno
con loro inficia la relazione con l'altro adulto, e questo non ti aiuta per fare certi
percorsi. Per questo dico che non è irrilevante il rapporto con le famiglie. È
attraverso di loro che capisci qual'è lo spazio di azione che hai effettivamente con i
ragazzi.

Interessante. Ci sono state reazioni particolari dei tuoi alunni durante la


visita al plesso di Pellaro?

La nostra scuola non è che fosse architettonicamente una meraviglia. È un


vecchio stabile ristrutturato, quindi tutto sommato non male. Sicuramente è proprio
l'edilizia scolastica che salta all'occhio. È molto diversa. Poi ci hanno portato un
giorno a mangiare in una scuola media e sembrava di essere in un carcere... la 626
144 Mi riferisco allo stadio evolutivo (dai sei anni alla pubertà) individuato da Freud, nel quale la
libido è dormiente. Si sviluppano senso di competenza, moralità, autostima. Cfr. Lis, Stella,
Zavattini, op. cit.

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esiste?! È una legge italiana?! (si riferisce al decreto del 1994 per la sicurezza sul
lavoro in Italia, N.d.R.). Fra colleghe ci siamo dette: “e noi ci lamentiamo dei nostri
edifici scolastici!”. Anche i bambini hanno notato la particolarità di questo posto. I
vetri degli infissi erano sottilissimi, vetri che, se ci sbatti contro, “hai ammazzato
qualcuno”. Un dato di pericolosità che era percepibile dagli adulti, dato l'occhio
allenato al pericolo, ma i bambini stessi erano un po' a disagio.

C'è qualcosa che ti ha colpita particolarmente, nel comportamento degli


alunni, durante le visite ai luoghi d'interesse storico?

Io, sui miei, questo dato l'ho rilevato tantissimo... erano bambini sicuramente
interessati, famiglie molto attente, già in partenza; il lavoro fatto negli anni ha dato i
suoi frutti; erano appassionati di storia e di geografia, quindi questo era un dato
rilevante.

Voi avevate già parlato delle cose che sareste andati a visitare là?

Sì, le avevano studiate in storia e in geografia... Non li riuscivi a tirar fuori dai
musei. Questo è sempre stato un dato che li ha caratterizzati, a prescindere dal loro
atteggiamento là, anche qua. Quando li portavamo in un museo il nostro problema
era il treno che utilizzavamo per rientrare: rischiavamo di perderlo tutte le volte.
Erano bambini che quando entravano in un museo facevano tantissime domande,
tutte pertinenti, erano interessati alle risposte. Se queste contraddicevano con quello
che avevano studiato, letto o sentito, facevano una “testa così” alla guida. Le guide
poi si divertivano, quindi si presentava il problema di “staccarglieli”. Proprio una
soddisfazione! I miei non ne volevano mezza del gelato, volevano stare nel museo a
vedere i bronzi di Riace, e tutto il resto del museo archeologico. Oltretutto per gli
spostamenti hanno fatto delle marce sotto il sole molto lunghe, senza un lamento.
Fantastici!

Probabilmente nelle ore quotidiane di classe, avevate abituato i bambini a


capire, a fare domande... No?

Allora. Loro non erano una classe tranquilla. Parti dal presupposto che questa fu

90
una classe nella quale in prima ci fu un lavoro di, chiamiamolo, “riconduzione
all'ordine” fuori misura. Erano bambini molto testardi, volevano l'ultima parola su
tutto; in prima erano dodici femmine e sei maschi. Parlavano, si muovevano,
litigavano, le bambine menavano i maschi in continuazione. Dei caratterini! Dopo
l'ennesima sgridata, facemmo un cartello con scritto “siete venuti qua per imparare a
stare assieme, quindi la prima cosa è il rispetto reciproco”; avevamo disposto la
regola di alzare la mano per prendere la parola... Ma quando volevano metterti in
scacco lo sapevano fare anche in modo velenoso. Erano abituati a rispettare le mie
decisioni, “e non si scherza”, ma anche a relazionarsi con l'adulto in modo attivo. Se
avevano delle domande le facevano.

Quindi - per concludere - sotto quali aspetti, secondo te, è stato formativo
l'incontro fra due classi di scuole geograficamente lontane?

L'obiettivo di partenza era didattico. Io non avevo la garanzia – eravamo in


seconda elementare quando partì l'idea – di poter fare incontrare le due classi, anche
se ci avevo pensato. Il dato relazionale era importante ma era più importante il dato
strettamente didattico: ed era il motivo per cui scelsi un posto che fosse vicino a ciò
che avrebbero studiato poi in terza. Successivamente si è rivelato materia di studio
anche per la quarta e quinta. Quindi il bilancio è stato nettamente positivo perché
loro hanno avuto effettivamente una fortissima motivazione a studiare per tre anni lo
stesso argomento. Conta che in terza abbiamo fatto la storia fino ai Romani e, l'anno
seguente, è subentrata la Moratti (subentrata al Governo Italiano come Ministro
dell'istruzione, N.d.R.) e quindi abbiamo dilatato la trattazione. È andata benissimo
perché è diventato un approfondimento e, ti dirò, è andato “da Dio!” perché ai
bambini piaceva avere la possibilità di dare risposte ad interrogativi rimasti aperti. Si
è trattato di studiare ancora meglio alcune cose – pensa in geografia alla regione
Calabria – che hanno poi potuto vedere. Ci hanno portato a vedere, a Gioia Tauro, lo
scalo dei container: pure in mezzo ai container erano interessati! Da dove venivano?
come li caricavano? Ci hanno spiegato che è uno dei porti più grandi di tutto il
mediterraneo... anche io ho imparato delle cose incredibili! Quindi c'è stato un dato
didattico importantissimo; in più il dato relazionale. Sono stati in grado di reggere

91
emotivamente il distacco dalla famiglia. C'erano quelli che avevano i genitori dietro
che erano imbufaliti. Non li volevano. Però, questi genitori, sono stati bravi perché
si sono mantenuti a lato. Gli altri alunni avevano il cellulare, ma la regola era che si
utilizzava solo per chiamare i genitori una volta al giorno. Non hanno sgarrato; non
avevi bisogno di richiamarli, neanche di ricordarglielo. L'autonomia, le competenze,
l'identità sono obiettivi che puoi mantenere fino alla fine degli studi. Emerge
l'aspetto di organizzare la tua valigia – per quanto sotto la nostra supervisione –
tener dietro alle tue cose....Poi si rileva l'autonomia affettiva rispetto alla famiglia,
rispetto a un contesto abituale... Perché un conto è dire “vado a dormire a casa di
un'amica a Sasso Marconi” e un conto è dire “vado a ottocento chilometri da casa”.
È stata una verifica, guarda... Era la seconda metà di Maggio della quinta: è valsa
più quell'attività lì di tante altre verifiche. Hai dei dubbi su che voti dare in storia e
geografia a dei bambini che se li porti dentro un museo hai dei problemi a tirarli
fuori? Quando noi siamo andati giù abbiamo girato per i paesi, visto le vetrine. E
c'era una mia alunna che leggeva i cartelli che vedeva lungo le strade, cartelli che a
volte avevano degli errori di ortografia. Come nel caso di quelli di un fruttivendolo.
Allora mi diceva: “Erika, ma perché a noi ci correggete? Guarda come scrivono!”.
Anche trovare gli errori nei cartelli! Se la organizzi, un'attività così valida, non ti
viene! Erano molto genuini, correggevano la gente... Ci chiedevano: “perché parla
così?”... Perché magari la costruzione della frase era particolare. Gli alunni di
Pellaro, comunque sia, erano scolarizzati, quindi, quando erano venuti a Sasso
Marconi, i miei bambini non avevano notato nessuna particolare caratteristica nel
loro modo di parlare. Invece quando tu vai in giro, là, incontri le persone, che hanno
anche più anni e che magari non è detto che abbiano chissà quale livello di cultura.
Noti molto di più le differenze linguistiche quando sei là, nonostante l'accento dei
bambini di Pellaro fosse spiccato.

Durante il viaggio hai scoperto una caratteristica che non ti saresti aspettata
di qualche bambino, o che ti ha sorpresa o che semplicemente non conoscevi?

Il grado di conoscenza reciproca era molto buono. Vedi, dipende molto da come
fai l'insegnante in classe. Se li osservi i bambini – è vero che ti mancano degli

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aspetti - ma è difficile avere delle grosse “sorprese”. Era un percorso seguito e
monitorato da cinque anni ormai, erano “blindati”. È stato solo uno stare bene
insieme, con tutte le nostre caratteristiche. Come, poi, non è stata una sorpresa per
loro l'adulto che si son trovati davanti per ventiquattro ore, per cinque giorni...
Rigirala dalla loro parte... Tu dici “i bambini”... Ti dico, dipende da come sei te
come insegnante... Devi aver fatto un lavoro prima. Questo viaggio è stato solo un
tassello, tant'è che non è stata nemmeno la conclusione, perché poi la conclusione è
stata dopo... C'è stato un altro contatto epistolare fra le due classi prima della fine
della scuola.

Quindi, secondo te, il viaggio ha avuto una valenza formativa?

Il viaggio ha una valenza formativa, ma va considerato anche come e perché lo


fai. Noi, per quest'attività, ci siamo pagate tutto, noi tre accompagnatrici intendo. La
rappresentante dei genitori ha sborsato per sé e per la figlia. Perché aveva una
valenza formativa un'attività del genere? Perché avevo in classe bambini che, in
seno alla famiglia, non è detto che avessero le possibilità economiche di fare un
soggiorno di quel tipo. Spostare una famiglia ha un costo, spostare un bambino con
la scuola ne ha un altro... La valenza formativa in quel caso era anche legata al fatto
di dare un'opportunità a tutti i bambini. Io avevo bambini che erano stati in giro per
il mondo, ma a me non interessava quel dato, quello è un dato di provenienza.

Inizialmente due bambine non potevano venire, stando a quello che dicevano i
loro genitori, a causa della coincidenza del viaggio d'istruzione con il periodo delle
cresime. Abbiamo spostato alla settimana successiva le date del soggiorno, per dare
a tutti l'opportunità di partecipare. La nostra priorità era: “massima partecipazione”.
Ma a quel punto abbiamo capito che in realtà la madre di una di quelle due bambine
non voleva che la figlia venisse, e aveva approfittato della cresima per usarla come
falsa giustificazione. Infatti la signora è arrivata imbestialita perché noi avevamo
spostato le date e, in questo modo, rimaneva esclusa dall'attività solo sua figlia. Noi
abbiamo detto: “lei deve affrontare con sua figlia il fatto che non vuole farla venire!
È rispettabile. Ma non è un problema degli altri genitori. Non rimane a casa un altro
bambino perché lei non è in grado di rendere i conti a sua figlia! O di affrontare le

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sue di difficoltà...” Ah, guarda, è venuto fuori un colloquio che ha rotto un
rapporto... Per fortuna che eravamo alla fine della quinta.

Quindi abbiamo affrontato anche il tema delle difficoltà operative di


accessibilità al viaggio d'istruzione: dal punto di vista economico, organizzativo
e psicologico, per poter garantire la massima percentuale possibile di bambini
partecipanti.

Grazie mille.

Prego, figurati.

4.2 Osservazioni su un viaggio didattico

L'intervista che ho riportato nel sottocapitolo precedente offre spunti per


molteplici osservazioni di nostro interesse e vale la pena soffermarci su di essa. Le
ipotesi che assumerò nell'analizzare le parole dell'insegnante non vogliono, com'è
ovvio, assumere una valenza statistica né tanto meno vogliono rappresentare una
verità assoluta. Più modestamente mi limito a fare un'analisi parziale e a livello
micro – ma utile – di un gruppo-classe all'interno del sistema scuola; una
descrizione qualitativa che si colloca nella cornice teorica di questo lavoro145.

Grazie a questa testimonianza riusciamo a cogliere nella sua complessità cosa


significa “fare un viaggio” nella Scuola Primaria, a livello pratico e nella
concretezza delle situazioni contingenti. Dalle parole della Caramalli traspaiono i
conflitti interpersonali in ambito lavorativo, le pratiche burocratiche da espletare, la
relazione all'interno del sistema scuola coi genitori, il problema della sicurezza
scolastica e, ancora, le strategie didattiche, le riflessioni - in divenire - sulle relazioni
umane e anche l'esigenza di chiarezza dei ruoli. Viaggiare, a scuola, significa anche
tutto questo: si incontrano molte difficoltà, forse troppe, ma è anche in tutti questi

145 Sulla differenza fra analisi quantitativa e qualitativa, cfr. Rita Gatti, Che cos'è la pedagogia
sperimentale, Carocci, Roma, 2002; sullo studio qualitativo e micro cfr. Corrado Ziglio, Roberto
Boccalon, L'attività osservativa in educazione. Un paradigma scientifico, UTET, Torino, 2006.

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aspetti interconnessi che sta la sua utilità formativa.

Il primo aspetto in cui ci imbattiamo è quello della “tensione” all'interno della


scuola. I rapporti con la dirigente scolastica e con i genitori - nel caso che ci narra la
maestra - hanno generato delle difficoltà negli insegnanti. Per quanto riguarda il
rapporto con la dirigente scolastica, non sappiamo bene a che tipologie di problemi
la maestra si riferisca, ma con ogni probabilità essi riguardano contrasti, gelosie,
paure, pettegolezzi, ossia quei “veleni e sostanze” - come li chiama Corrado Ziglio -
che le organizzazioni producono146. È importante per un professionista – e non solo
per lui – saper riconoscere e saper gestire tali tensioni. Servono cioè abilità
interpersonali. Ad esempio nel contrasto con la madre - di cui ci narra la maestra al
termine dell'intervista - rileviamo nell'educatrice un atteggiamento proattivo, un
comportamento di “attacco dell'errore” e non “della persona” e congiuntamente il
ricorso agli strumenti del dialogo e dell'assertività. Ciò ha consentito all'insegnante
di gestire, o quanto meno di tenere sotto controllo, le situazioni problematiche in cui
si è imbattuta. Certo, forse poteva farlo meglio, evitando di “rompere un rapporto” e
cercando le risorse emotive per assecondare147 la madre su alcuni punti. Questo però
al lato pratico non sempre è facile e possibile. Pare invece il caso di sottolineare
positivamente altri elementi: l'atteggiamento propositivo e di assunzione volontaria
di responsabilità, ossia un atteggiamento proattivo; il dialogo nel merito del
problema e non all'insegna del conflitto irrazionale; la capacità di “dire quello che si
pensa”, ovvero l'attitudine assertiva: è questo che consente all'insegnante di
mantenere l'equilibrio emotivo e la serenità professionale. Come spiega Ziglio
attraverso le sue ricerche, covare rancori, rimorsi e rivalse non è proficuo a un buon
clima professionale148.
146 Cfr. Ziglio, Telleri, Guidi, Viaggio nelle professioni. Virus, veleni e antidoti. Edizioni Junior,
Azzano San Paolo (BG), 2004.
147 Mi riferisco a quell'atteggiamento che si ispira alla Validation Therapy. Questa porterebbe alla
diminuzione di stress e ansia nel paziente attraverso un riconoscimento di validità e di dignità.
Tale terapia asseconda le frasi sconnesse pronunciate dai malati di Alzheimer. Ziglio rileva in essa
strumenti utili in ambito professionale. Per questa e altre strategie: cfr. ibidem.
148 Queste strategie relazionali consentono di evitare che l'insegnante si incammini verso le vie di
fuga dalla professionalità. Mi riferisco alle ormai celebri quattro “vie di fuga” di cui parla lo
psiconalista W.R. Bion, riprese più volte dai pedagogisti e dagli studiosi dei contesti professionali.
Le riassumo brevemente di seguito: dipendenza/delega delle responsabilità; capro espiatorio su
cui riversare le responsabilità; coppia/clan: vi è un piccolo gruppo unito che si crede migliore
degli altri; attesa del messia: in ambito scolastico può significare: “quando cambierà il dirigente
scolastico/ministro dell'istruzione, sì che le cose cambieranno”. A queste vie di fuga

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Notiamo come gli aspetti relazionali possano influenzare o compromettere
l'attività didattica o le iniziative professionali dell'insegnante: la maestra senza le
autorizzazioni che avrebbe dovuto fornire la dirigente scolastica si trova a doversi
assumere in prima persona la responsabilità dei bambini in uscita dalla scuola.
Burocrazia, progetti didattici e aspetti relazionali, dunque, si compenetrano
vicendevolmente all'interno del sistema scuola. In questo progetto di gemellaggio
osserviamo come tali difficoltà siano state compensate da altri elementi del contesto,
da altri “nodi della rete scolastica”: penso al rapporto di fiducia coi genitori, alla
collaborazione di una madre che ha dato il suo contributo, a una certa disponibilità
di risorse economiche; senza dimenticarci della professionalità delle insegnanti, le
quali hanno perseguito un progetto con spirito propositivo, attivo ed entusiasta.
Hanno dimostrato sicurezza in sé; hanno saputo offrire agli alunni regole di
convivenza e ruoli chiari.

Altri due punti di peso educativo sono il distacco dalla famiglia e la fiducia.
Infatti è in particolare in quest'ambito che vedo l'utilità di un soggiorno lontano da
casa già a partire dalla prima età scolare. Si è già osservato il valore che riveste nella
nostra prospettiva la paura e il suo superamento ai fini di uno sviluppo sereno della
persona umana. Ecco allora che il distacco relativamente lungo dalla famiglia, in un
bambino di dieci anni, può significare un positivo allontanamento da genitori
iperprotettivi e ansiosi. Il bambino, soffocato in quest'humus famigliare ansiogeno,
può faticare a trovare fiducia in se stesso, autostima e autonomia. Egli rimane
imprigionato dalle paure famigliari. Allora un'esperienza di questo tipo può essere
occasione di emancipazione, di rafforzamento del Sé, di graduale acquisizione di
fiducia nelle proprie possibilità e strumento per conoscere sotto altri punti di vista se
stesso e gli altri. D'altra parte è esperienza comune quella di scoprire solo dopo una
convivenza prolungata - magari in vacanza - di non andare d'accordo con un amico
su certe cose. Attraverso la cosiddetta “gita”, agli “occhi” del bambino, il mondo
aumenta di complessità e di problematicità, aumenta la gamma di esperienze vissute
e quindi anche il bagaglio di conoscenze acquisite: è questo che noi vogliamo.

“tradizionali”, come suggerisce Ziglio, se ne possono aggiungere altre a seconda dello specifico
contesto lavorativo. Cfr. W.R. Bion, Esperienza nei gruppi e altri saggi, Armando, Roma, 1971
(ed. orig. 1948).

96
Inoltre un viaggio può significare per il bambino attestazione di fiducia da parte dei
genitori e da parte degli insegnanti. La fiducia ha un ruolo decisivo in educazione: lo
sostiene Miguel López Melero149 il quale nella sua esperienza nell'ambito
dell'educazione speciale ha individuato tale concetto come decisivo. Ha osservato
come le persone con discapacità motorie o con specifiche patologie visibili a livello
corporeo, siano spesso messe nelle condizioni di non poter esprimere le proprie
capacità. L'ipotesi è infatti che la mancanza di aspettative da parte dei genitori e
degli insegnanti rispetto alle competenze di persone con “bisogni speciali” non
consenta uno sviluppo sufficiente - per dirlo con Vygotskij - lungo la zona di
sviluppo prossimale. La necessità di fiducia in ambito educativo sta alla base del
“Progetto Roma” che il professor Melero ha condotto in collaborazione col professor
Nicola Cuomo dell'Università di Bologna150. Tale ipotesi, d'altronde, è in accordo
con il celebre effetto Pigmalione che, rifacendosi al mito greco, suggerisce l'idea che
l'aspettativa sull'alunno, esprimendosi più o meno consapevolmente nei
comportamenti dell'educatore, finisca col realizzarsi concretamente, assumendo così
le forme di una profezia che si autoadempie. La fiducia nelle capacità e nelle
competenze del bambino, in piena fase di sviluppo corporeo, riveste, in particolare
in questo momento storico, un ruolo importante: rappresenta un'urgenza pedagogica.

Nell'esperienza di gemellaggio di cui sopra, è interessante rilevare la creazione di


relazioni significative151 tra persone di aree geografiche diverse. Infatti abbiamo una
classe del nord e una classe del sud Italia. Si sono instaurati rapporti non solo fra i
bambini, attraverso l'attività di corrispondenza e l'incontro fisico, ma anche fra i
genitori e fra gli insegnanti. Come emerge anche da questa intervista, è ipocrita
negare una differenza culturale e ambientale tra i due estremi geografici del nostro
paese. Questa diversità può essere una risorsa per le insegnanti, le quali per esempio
possono vedere il modo di lavorare delle loro colleghe o soppesare ciò che
potrebbero pretendere di più o di meno dall'Istituzione Scuola in cui lavorano; senza

149 È stato mio professore presso l'Università di Malaga (Spagna).


150 Cfr. Miguel López Melero, El Proyecto Roma. Una experiencia de educación en valores,
Ediciones Aljibe, Archidona (Málaga), 2003.
151 Consideriamo significativo tutto ciò che assume un “senso” profondo per il soggetto. È
significativo ciò che coinvolge ad un tempo affettività e processi cognitivi, corpo e mente. È una
condizione che coinvolge quello che Husserl chiama Leib.

97
dimenticare che anche per loro il viaggio è un'esperienza di apprendimento. La
Caramalli dice nell'intervista: “anche io ho imparato delle cose incredibili!”. La
creazione di amicizie fra i genitori, poi, può rappresentare una risorsa per lo stesso
futuro dei figli che avranno un'opportunità di proseguire un confronto con una realtà
diversa da quella in cui abitano, conoscendo nuove persone, nuove realtà, nuovi
affetti. Anche sul piano della coesione sociale, così facendo, si alimenta una spinta
aggregante, una rete di reciproco aiuto che non può che favorire una cultura della
convivenza pacifica e razionale.

L'iniziativa didattico/formativa di cui stiamo parlando rappresenta sul piano


concreto quell'allargamento di contesto a cui rinviano le teorie da cui siamo partiti.

Ora di seguito riporto alcuni frammenti epistolari, scritti dagli alunni durante la
corrispondenza. Mi sembra che essi esprimano la valenza emotiva, affettiva e
cognitiva che assume tale attività. Si è rivelata appunto un'esperienza significativa.

I bambini di Sasso Marconi

«[...] Le nostre maestre sono gentili perché ci spiegano molto bene gli esercizi e
ci fanno fare tante gite scolastiche. Le nostre tradizioni sono, la “Fiera di Sdaz” in
Luglio dove ci sono bancarelle con dolci altre con vestiti o giochi, poi c'è la “Festa
del tartufo” verso Novembre con bancarelle piene zeppe di tartufo e un po' di vino.
Alla “Festa della birra” invece si beve solo birra. La “Festa della salsiccia” la fanno
vicino alla scuola materna e l'altro vicino al chiosco dei gelati dove si può andare a
giocare.

Sì, siamo andati al museo etrusco. Abbiamo visto l'acropoli, dove si facevano le
cerimonie religiose. [...]» (questo stralcio è estratto da una lettera frutto di scrittura
collettiva)

«Cari amici,

lo studio da noi va bene. Anche noi stiamo approfondendo il programma di terza


ma stiamo imparando tante cose nuove. Con la maestra di italiano stiamo studiando i

98
gradi dell'aggettivo. Li state studiando anche voi? Con l'Erika l'insegnante di
matematica siamo fermi sulle divisioni a due cifre. La Clara ci insegna anche storia e
geografia e in questo periodo stiamo studiando i Sumeri. Di geografia studiamo la
collina. Per Natale noi facciamo un albero decorato con palline di tutti i colori di
collane fatte di perle blu e rosse luci di tutti i colori. Facciamo anche il presepe che
rappresenta Gesù bambino ed è composto dalla gente, da Maria e da Giuseppe. Da
noi c'è ancora la neve. E da voi?

Un saluto da R.»

«Cari bambini

io sono E. Io sabato 18 e domenica 19 Dicembre sono stato a Vipiteno un paese


sulle Alpi, là faceva molto freddo e abbiamo fatto una partita con la squadra che si
chiamava A.C. Sasso Marconi e siamo arrivati settimi su 20 con squadre molto forti.
È un buon risultato? Con lo studio stiamo andando “bene” perché stiamo
approfondendo le cose di terza nel fascicoletto scopriamo meno cose nuove perché
la maggior parte delle”cose nuove” chiamiamole così sono nel sussidiario di terza. E
voi cosa ne pensate? Anche noi stiamo facendo le divisioni a due cifre nel divisore e
a me sembrano un po' difficili ma se si impara il meccanismo sono molto più facili.
Le nostre maestre vorrebbero fare una gita se riescono ma sarà difficile e qui in
classe tutti speriamo di venire. Tanti saluti e buon Natale.

E.»

I bambini di Pellaro

«Cari bambini della III A,

mi chiamo B. e frequento la III C della Scuola Elementare “A. Cassiodoro”. Nella


mia classe siamo 25. È una bella scuola da poco ristrutturata, c'è un cortile
grandissimo. Intorno c'è anche un giardino con tanti begli alberi, che guardo dalla
finestra. La mia casa è vicina alla scuola, quindi non è necessario andarci con
l'automobile. Io sono brava, amo disegnare e colorare. Mi piacciono molto anche gli

99
animali, ho un gatto che è un gran coccolone, un uccellino tutto giallo e una coniglia
bianca e marrone con un simpatico musetto rosa. A me piace tanto la neve, peccato
però che da noi non cade mai. Nel mio paese infatti fa caldo soprattutto in estate, ma
c'è il mare azzurro e pulito.

B.»

«Cari bambini,

sono F. , la maestra di storia ci ha detto che l'anno prossimo studieremo l'Italia


quindi la vostra regione e il vostro paese. L'anno scorso sono arrivati due bambini
che si chiamano F. e S. Noi siamo in classe più di voi, siamo venticinque. Qui a
Reggio Calabria non fa mai molto freddo, il clima è mite.

Ciao a tutti

F.»

«Cari ragazzi della III A,

mi chiamo A., ho otto anni.

La mia scuola per ora non possiede la palestra, perché ci sono da tempo lavori di
ristrutturazione, quindi non possiamo svolgere un'attività fisica. Mi piacerebbe fare
un viaggio per conoscere voi, le vostre maestre e la vostra città.

Ciao

A.»

Dalle parole dei bambini emerge la curiosità del conoscere e la ricerca del
confronto con l'altro. Troviamo temi a noi cari come i tempi lunghi e l'attesa. Queste
caratteristiche appartengono da un lato al progetto didattico in generale, il quale ha
coinvolto gli alunni dalla classe terza alla classe quinta, e dall'altro al viaggio, nel
quale l'incontro con gli “amici di penna” è stato un evento lungamente atteso. È

100
avvenuto quello che la volpe del Piccolo Principe chiamerebbe un paziente
“addomesticamento”152.

Riporto di seguito il programma messo a punto per il viaggio a Pellaro dalle


insegnanti di Sasso Marconi. Il programma verrà poi leggermente modificato per
quel che riguarda i tempi.

PROGRAMMA DI MASSIMA PER VIAGGIO D'ISTRUZIONE A PELLARO (RC)


DELLA CLASSE V A DELLA SCUOLA PRIMARIA DI CAPOLUOGO

Si delinea a “grandi linee” il programma che si intende proporre:

● Ma 16/05/06 Partenza nella serata alle ore 21.23 dalla stazione di Bologna
Centrale in treno per Reggio Calabria Centrale.

● Me 17/05/06 Arrivo a Reggio C. previsto per le ore 9.20 e trasferimento con


pullman comunale a Pellaro. Sistemazione in albergo e visita alla scuola, al
paese e agli scavi archeologici presenti sul luogo.

● Gi 18/05/06 Visita alle località della Magna Grecia: Locri, Gerace e Stilo
(pullman privato).

● Ve 19/05/06 Giornata a Reggio Calabria, visita al museo civico archeologico


(bronzi di Riace), castello aragonese, lungomare (scavi), cattedrale.

● Sa 20/05/06 Visita a Scilla ed al castello Ruffo, Chianalea, Sant'Elia


(Aspromonte).

● Do 21/05/06 Giornata al mare. In serata, alle ore 20.25 partenza in treno


dalla stazione di Reggio Calabria Centrale per Bologna Centrale.

● Lu 22/05/06 Arrivo previsto per le ore 07.55 a Bologna Centrale: consegna


degli alunni alle rispettive famiglie.

Per la classe V A il lunedì 22/05/2006 non sarà prevista attività didattica. Il sindaco di

152 Vedi pp. 55-56 di questo lavoro.

101
Reggio Calabria e il dirigente scolastico della D.D. “A. Cassiodoro” del luogo si stanno
interessando per farci avere tutti gli ingressi ai musei gratuiti e anche i trasporti
comunali e non. Le date del 18 e 19 potranno subire un'inversione di programma in
quanto sarà da verificare la disponibilità del pullman.

Il Programma ci mette di fronte alla logistica dell'esperienza di viaggio a scuola,


la quale richiede molte energie da parte del personale scolastico. Vediamo dunque
realizzarsi nel concreto quell'Altrove e quel senso di avventura che fin'ora avevamo
promossi più che altro sul piano simbolico.

Come ho già detto in altri casi, anche per il viaggio didattico, è necessario che
esso non sia un'esperienza isolata senza alcun legame narrativo con un prima e un
dopo. È questa consapevolezza che ha condotto le insegnanti della classe di Sasso
Marconi ad inserire l' “uscita” come una tappa di un percorso. Lo stesso vale per la
le visite ai musei. Scrive a tal proposito Rolando Dondarini:

«In ambito scolastico in particolare la didattica museale non può essere


circoscritta al momento di presenza nel museo, ma dovrebbe comprendere una fase
particolarmente significativa di preparazione e di approccio che conferisca attesa,
motivazione e significato alla visita, che diviene così scoperta e conquista. [...]

Come coronamento di queste fasi ve ne dovrebbe essere una successiva di messa a


punto dell'esperienza [...]»153.

A conclusione di questo capitolo voglio riflettere sull'accento positivo che ho dato


all'opportunità del viaggio didattico. Infatti se da un lato ho spiegato le ragioni che
mi spingono a considerare utile tale attività, dall'altro devo dare però il giusto peso
alle numerose variabili in gioco. Infatti non sempre e non in tutti i casi è
possibile/opportuno programmare un viaggio didattico. Abbiamo visto quante
difficoltà bisogna superare e a volte non vi sono le condizioni o le risorse umane ed
economiche per farlo. Le caratteristiche degli alunni e delle loro famiglie, le
relazioni interpersonali a scuola, i tempi a disposizione, le indicazioni ministeriali,

153 Rolando Dondarini, L'albero del tempo. Motivazioni, metodi e tecniche per apprendere e
insegnare la storia, Pàtron Editore, Quarto Inferiore (Bologna), 2007, pp. 136-137.

102
sono tutti esempi di variabili da considerare e che influenzano il sistema della
scuola. Sicuramente però un sostegno economico adeguato da parte dello Stato alla
Scuola Pubblica sarebbe un elemento di facilitazione: ciò potrebbe consentire di
neutralizzare molti degli ostacoli presenti, riconoscendo così ai cittadini “diritto alla
conoscenza” e pari opportunità154.

154 A proposito di viaggio nell'infanzia, può essere interessante quello spostamento dal sud al nord
Italia di oltre 70.000 bambini poveri che venne promosso dall' UDI (associazione femminista) e
dal PCI nel secondo dopoguerra. Ne sono raccolte le testimonianze nel libro di Giovanni Rinaldi I
treni della felicità. Storie di bambini in viaggio fra due italie, Ediesse, Roma, 2009.

103
104
CONCLUSIONI: PER UNA “PEDAGOGIA DEL VIAGGIO”

In questo lavoro si è preso in esame il viaggio come concetto. Esso indica prima
di tutto un'esperienza fisico/emotiva concreta e poi un'esperienza metaforica; può
essere rappresentato attraverso la scrittura o attraverso mezzi multimediali.

Ho individuato in questo concetto una valida guida esistenziale per l'educatore


contemporaneo. Il viaggio è stato considerato in questo volume:

1. un movimento fisico/emotivo;

2. un movimento metaforico che consiste nell'allargare per quanto possibile


il contesto di osservazione dei fenomeni;

3. un percorso che include sul piano concreto e simbolico un passaggio


attraverso la difficoltà, la paura e il dolore come unica via percorribile verso
la serenità individuale e quindi collettiva;

4. una manifestazione dell'istinto di vivere: perché senza movimento non c'è


vita serena ma disagio (il viaggio è metafora di vita);

5. un movimento che per sua natura induce l'uomo alla necessità di


conoscere l'ambiente in cui vive. L'ambiente è costituito dal suo corpo, dal
corpo degli altri e dal contesto abiotico. Il corpo dell'uomo include anche la
mente che quindi va ugualmente conosciuta: parliamo in questo caso di
metaconoscenza;

6. una via concettuale che conduce alla scoperta del linguaggio e dei codici
alfabetici come strumenti indispensabili per poter conoscere;

7. un processo che conseguentemente ai precedenti conduce l'uomo a sapere


che il proprio corpo ricerca la serenità;

8. un percorso evolutivo che conduce ad una rappresentazione soddisfacente


ed ecologica di se stessi (corpo-mente) in relazione col mondo:

105
raggiungimento di un senso del Sé in continuo cambiamento e motore di
creatività;

9. percorso concettuale e rappresentativo che conduce il soggetto a


riconoscere un proprio ruolo nella società;

10. raggiungimento dell'esigenza di trovare strumenti conoscitivi ed etici per


condurre e progettare la propria vita in maniera virtuosa.

Il percorso conoscitivo che mi ha condotto a questo decalogo semantico - ma


anche il decalogo stesso - include principalmente due teorie filosofiche: la
fenomenologia-trascendentale di Bertin e la psicoanalisi di Freud. L'assunzione di
queste teorie nella personale rappresentazione del vivente mi sembra che, nella
contemporaneità, possa strutturare uno stato di coscienza stabile e sereno nel tempo
e nello spazio. Nel presente lavoro ho ipotizzato questa prospettiva come, in
generale, pedagogicamente opportuna.

Attorno alle due teorie citate ruotano ovviamente altri approcci:


sistemico/ecologico, delle scienze della comunicazione, etnografico, critico-
semantico e conflittualista (Marx e Weber).

Attraverso le nostre argomentazioni e sulla base dell'approccio esistenziale


descritto, abbiamo raggiunto in questo lavoro alcune consapevolezze. Queste,
nell'attuale contesto storico, ci spingono verso specifiche direzioni pedagogiche:

1. favorire nel soggetto la formazione del Sé, accogliendo positivamente le


sue esternazioni originali (creatività) e favorendo un allargamento del
contesto osservato;

2. recuperare il Logos – inteso qui nell'accezione assunta da Heidegger - del


soggetto, ossia la capacità di ascoltare oltre che di dire, la capacità di
scegliere uno scopo possibile per conferire senso ai fenomeni;

3. favorire un dialogo con le proprie paure riconoscendo una funzione vitale

106
al rischio e al coraggio;

4. promuovere il diritto alla conoscenza favorendone l'accessibilità ma anche


la visibilità, incluso in funzione di una diminuzione dell'ansia e dell'eccessiva
apprensione dei genitori; promuovere l'attitudine critica;

5. recuperare la fiducia nella funzione conoscitiva della parola scritta e orale


anche ove questo sia offuscato dalla finzione ipnotica dei mezzi
multimediali; operare a favore di parole vincolanti e pregne di significato;

6. educare al sapere pedagogico e alla consapevolezza che il maestro e i


genitori sono modelli sia sotto il profilo strettamente comportamentale, sia
sotto quello tonico-fusionale ed emotivo; educare alla consapevolezza della
lentezza e della complessità del processo maturativo del bambino e del
soggetto in genere: i singoli percorsi di sviluppo possono essere diversi ma
condurre allo stesso esito, si possono verificare regressioni seguite da
recuperi con avanzamento155;

7. riconoscere il mito come immaginario archetipico irrazionale presente in


ognuno di noi e utilizzarlo consapevolmente per muoversi verso l'obiettivo
utopico e trascendentale di costruire una società di individui che convivano
pacificamente;

8. riconoscere la ritualità come istanza primigenia insita nell'uomo,


comportamento reiterato che è peculiarità della vita stessa e quindi
ineludibile; individuare personali forme di rito che non siano dogmatiche
(come invece quelle delle Chiese, della televisione o del mondo
commerciale) ma, in qualche misura, creative: arte, scienza, dialogo (dire e
ascoltare), lettura, attività ginnica, impegno civile; favorire, per quanto
possibile, forme di rito di passaggio: soggiorno fuori dalla casa dei genitori,
lungo soggiorno di studio all'estero, tras-loco dalla casa dei genitori;

155 Si vedano il modello di paesaggio epigenetico e il concetto di equifinalità in George


Butterworth, Margaret Harris, Fondamenti di psicologia dello sviluppo, Psychology Press, New
York, 1998 (ed. originale 1994), pp. 19-21.

107
9. educare ad addomesticare: a rendere famigliare, a creare reciproci legami
e quindi al sentimento, all'attesa, all'accoglienza.

10. attestare fiducia agli educandi, e alle persone in genere, nella prospettiva
di “realizzare se stessi realizzando l'altro”. Ciò è possibile solo costruendo il
“senso del Sé”, istanza dinamica che lascia spazio ai desideri del soggetto
facendoli filtrare dalla ragione.

Questi dieci punti si compenetrano vicendevolmente; la loro enunciazione


analitica costituisce una mappa per orientarci meglio.

Anche sul piano didattico abbiamo trovato alcuni strumenti interessanti:

1. fiabe, in particolare come strumento per esperire in forma metaforica i riti


di passaggio e le paure (lavorare con una didattica integrata alla
programmazione e operando su singoli nuclei tematici);

2. cinque opere di narrativa sul viaggio su cui poter lavorare: consapevoli


della valenza archetipica della figura del viaggio e della sua utilità, troviamo
nelle opere di Rodari, di Antoine De Saint-Exupéry e di Piumini possibili
strumenti formativi;

3. strumenti che consentono viaggi virtuali immersivi: museo virtuale,


Google Earth, You Tube (questo tipo di mezzi va usato con la
consapevolezza della “seduttività ipnotica” che gli è propria);

4. strumenti che consentono viaggi virtuali informativi: biblioteche digitali,


cataloghi on line (OPAC), Wikipedia;

5. in generale applicazioni on line di generazione Web 2.0: wiki, blog,


forum, social network, videoteche;

6. viaggio/soggiorno didattico: il distacco dalla famiglia, l'opportunità di


vivere in prima persona ciò che si è studiato, l'occasione di conoscere
persone e culture differenti dalla propria, le componenti progettuali e

108
avventurose, la spinta al confronto e, in generale, l'allargamento del contesto
esperienziale fanno di esso un strumento educativo estremamente valido
(come in ogni attività educativa, devono essere previste attività
propedeutiche e attività di rielaborazione conclusive: il tutto inserito in uno
sfondo integratore che narra e fa ricordare).

Al termine di questo viaggio critico nonché di questo percorso di scrittura, siamo


giunti, grazie al concetto di viaggio, a indicazioni utili sui piani esistenziale,
pedagogico e didattico.

Non mi resta che augurarmi che le mie riflessioni possano offrire spunti per
ulteriori sviluppi nell'ambito della ricerca pedagogica.

109
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