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POST-IMPRESSIONISMO

Il postimpressionismo è un termine convenzionale, usato per individuare le molteplici esperienze


figurative sorte dopo l’impressionismo. Il denominatore comune di queste esperienze è proprio
l’eredità che esse assorbono dallo stile precedente. Il postimpressionismo, tuttavia, non può essere
giudicato uno stile in quanto non è assolutamente accomunato da caratteri stilistici unici.
Esso è solo un’etichetta per individuare un periodo cronologico che va all’incirca dal 1880 agli inizi
del 1900. Possiamo dire che, dopo il periodo caratterizzato dalla pittura impressionista, nell’arte di
tutta l’Europa si profilano inedite tendenze in veloce maturazione. Si compongono nuovi gruppi di
pittori, e si incominciano ad evidenziare anche personalità singole con stili originali e con forti
peculiarità. Il termine post-impressionismo fu coniato dal critico inglese Roger Fly nel 1910,
quando, in occasione della mostra a Londra “Manet and the Post-Impressionists”, in cui vennero
esposte le opere che decretarono chiaramente la crisi dell’Impressionismo, indicò le opere e gli
artisti che si ispirano ai concetti innovativi dell’Impressionismo, ma approdano ad un linguaggio
artistico nuovo. Infatti gli artisti Post-impressionisti partivano dai concetti sviluppati
dall’Impressionismo, ma elaborano il tutto con uno stile autonomo e con esiti molto diversi tra loro.
Mentre gli Impressionisti rappresentavano la realtà per come l’artista la vedeva, i Post-
Impressionisti introducono un protagonista nuovo nelle opere d’arte: il punto di vista dell’artista.
Quindi le loro opere iniziano a diventare una rappresentazione soggettiva e non più oggettiva della
realtà, rivelando le potenzialità nuove dell’arte e della pittura. Con il Post-impressionismo l’artista
inizia a comunicare direttamente con lo spettatore, senza porsi il problema della riproduzione della
realtà, ponendo le basi per una rivoluzione totale della pratica artistica e del ruolo dell’arista che
sono visibili ancora oggi. Tra gli artisti che rientrano nella definizione di Post-Impressionisti i più
noti e importanti sono: Georges Seurat, Paul Cézanne, Paul Gauguin, Vincent Van Gogh, Henri de
Toulouse-Lautrec e Henri Rousseau.
GEORGES SEURAT è il massimo esponente del post-impressionismo. Egli porta alle estreme
conseguenze la tecnica pittorica degli impressionisti. Il problema di dar maggior luce e brillantezza
ai colori posti sulla tela era già stato impostato dagli impressionisti; la loro risposta a questo
problema era stato il ricorso a colori puri, non mescolati. Georges Seurat intese dare una nuova
risposta a questo problema. Egli voleva giungere ai risultati di massima brillantezza utilizzando il
«melange optique», ossia la mescolanza ottica. Negli stessi anni, le ricerche sul colore avevano
trovato un notevole impulso scientifico da parte del chimico francese Chevreul. Egli aveva messo a
punto il principio di «contrasto simultaneo», secondo il quale se si accostano due colori
complementari le qualità di luminosità di ognuno vengono esaltate. Il principio non era sconosciuto
agli impressionisti che anzi lo utilizzavano spesso nella loro tecnica pittorica. Ma la grande novità
fu proprio il principio di «melange optique», che formulò per primo proprio Seurat. In sostanza
l’occhio ha una capacità di risoluzione che lo porta a distinguere due puntini tra loro accostati se
questi non sono troppo piccoli. Se i puntini diventano eccessivamente piccoli, o se aumenta la
distanza dell’osservatore dai due puntini, l’occhio dell’osservatore non ha più la capacità di separare
i due puntini ma vede un’unica macchia di colore. Se questi due punti sono di colore diverso,
l’occhio vede un terzo colore dato dalla somma dei due. In tal modo, secondo il principio di Seurat,
un occhio, guardando dei puntini blu e gialli, vede un verde più brillante di qualsiasi verde che
possa ottenere il pittore con la mescolanza dei pigmenti. La grande novità tecnica della pittura di
Seurat furono proprio i puntini. Egli realizzava i suoi quadri accostando piccoli puntini di colori
primari. Ne derivava una specie di mosaico che trasmetteva un’indubbia suggestione. Dalla sua
tecnica derivò il nome dato a questo stile, definito «puntinismo» o «divisionismo. Altro nome che
ebbe questo stile fu di neo-impressionismo, a sottolinearne la sua ideale continuazione con
l’impressionismo.

Georges Seurat, Una domenica pomeriggio all’isola della Grande Jatte, 1884-1886, Chicago
Questo è senz’altro il quadro più famoso di Georges Seurat. La Grande Jatte è un’isola di Parigi che
sorge in mezzo al fiume Senna. Su questa isola, fatta di alberi e prati, i parigini trascorrevano ore
serene e spensierate. L’aria è luminosa e calda. Vi è un notevole affollamento di figure e persone.
Gente che passeggia, che è seduta a terra, che fuma, che pesca. Sull’acqua del fiume si vedono vele
che passano, rematori che remano. Il soggetto del quadro è tipico da pittura impressionista: una
scena di vita urbana vissuta con allegria e spensieratezza. Vi è una aria lieve e rilassata che ispira
sensazioni piacevoli. Ma manca assolutamente quel senso di immediatezza dei quadri
impressionisti. Qui, non solo il tempo non viene colto nella sua estrema variabilità, ma vi è una stasi
ed immobilità che dà l’idea che il tempo si sia del tutto fermato e congelato. Le figure sono
assolutamente immobili anche se colte nell’atteggiamento di camminare. Ma hanno soprattutto una
identica posa: sono tutti o di profilo o in vista frontale. Le figure vengono definite da un contorno
ben evidente; hanno una resa decisamente chiaroscurale; lo spazio appare del tutto nitido e messo a
fuoco. In sostanza, questo quadro è decisamente agli antipodi rispetto alle tele impressioniste dove
tutto è vagamente indefinito e mobile, dove il chiaroscuro era stato del tutto eliminato per ricorrere
unicamente al contrasto tonale. Il quadro è una tela di notevoli dimensioni (circa 2 metri per 3) che
di certo non poteva essere dipinta en plain air. Non solo. La miriade infinita di punti necessari a
ricoprire una tela di tali dimensioni ha richiesto oltre due anni di lavoro. Anche in ciò il pointillisme
di Seurat andava in direzione opposta rispetto all’impressionismo. Alcuni dei tratti caratteristici
della pittura impressionista erano proprio la velocità di esecuzione. Non è però da negare che il
quadro trasmette una sua indubbia suggestione, soprattutto per la sua evidente laboriosa esecuzione
che ne fanno una specie di mosaico coloristico su tela.
PAUL CEZANNE è stato un pittore post-impressionista francese il cui contributo alla storia
dell’arte del Novecento è stato grandissimo. Le opere che realizzò negli ultimi anni, anticiparono gli
studi delle avanguardie storiche sulla scomposizione dei volumi e la costruzione dei corpi e
aprirono la strada della ricerca pittorica, alle avanguardie del post impressionismo e furono
precursori di un nuovo e diverso modo di intendere l'arte in genere e la pittura in particolare.
Cezanne cerca di sintetizzare nella sua pittura i fenomeni della interpretazione razionale che portano
a riconoscere le forme e lo spazio. Ma, per far ciò, egli non ricorse mai agli strumenti tradizionali
del disegno, del chiaroscuro e della prospettiva, ma solo al colore. La sua grande ambizione era di
risolvere tutto solo con il colore, arrivando lì dove nessun pittore era mai arrivato: sintetizzare nel
colore la visione ottica e la coscienza delle cose. Egli disse infatti che «nella pittura ci sono due
cose: l’occhio e il cervello, ed entrambe devono aiutarsi tra loro». Egli non perde mai di vista la
realtà e il suo aspetto visivo. Come per i pittori impressionisti, egli è del tutto indifferente ai
soggetti e li utilizza solo per condurre i suoi esperimenti sul colore. Ed i suoi soggetti sono in realtà
riducibili a poche tipologie: i paesaggi, le nature morte, i ritratti a figura intera. Cezanne è
interessato solo ai volumi, non allo spazio; la sua tecnica pittorica è decisamente originale ed
inconfondibile. Egli sovrapponeva i colori con spalmature successive, senza mai mischiarle.
Per far ciò, aspettava che il primo strato di colore si asciugasse per poi intersecarlo con nuove
spalmature di colore. Era un metodo molto lento e meticoloso. Cezanne è, tuttavia, molto lontano
dai risultati e dagli intenti dei puntinisti. Egli non ricercava una pittura scientifica, bensì poetica. La
sua rimane però una pittura molto difficile da decifrare e spiegare.

Paul Cezanne, Le grandi bagnanti, 1018-1919


Viene considerato il capolavoro assoluto di questo artista. Il tema dei bagnanti (sia uomini che
donne) occupa una parte importante nella produzione di Cézanne. A conclusione di un lungo
percorso di ricerca, cominciato più di vent’anni prima, si collocano le tre composizioni chiamate le
Grandi Bagnanti, opere di grande formato cui l’artista lavorò negli ultimi anni di attività, dal 1895
al 1906, e che vengono considerate il testamento spirituale del pittore. Quella più nota, cui il pittore
si dedicò per sette anni fino alla morte, oggi conservata presso il Museum of Art di Philadelphia, è
quella che viene spesso indicata come l’opera di maggior equilibrio realizzata dall’artista e che sarà
fonte di ispirazione per generazioni di futuri pittori. In primo piano vediamo un gruppo di 14 donne
nude che si rilassano sulla sponda di un ruscello dopo aver fatto il bagno. Ai lati, dei grandi alberi
incorniciano e avvolgono le figure. In secondo piano il ruscello, in profondità l’altra riva con altre
figure umane, in lontananza si intravede un paesaggio urbano. Il soggetto delle opere è di chiara
derivazione classica e riguarda il tema secolare dell’armonia tra l’essere umano e la natura. Rispetto
alle altre due versioni, quella conservata alla National Gallery di Londra e quella della Barnes
Foundation di Merion, dove i grandi corpi costituiscono quasi delle barriere fisiche che
impediscono allo sguardo di andare oltre il primo piano, questa versione ha un impianto
architettonico più solido e di grande respiro, con un paesaggio ampio e spazioso. L’uso del colore
rende l’immagine vibrante e viva, e nello stesso tempo la sua costruzione le conferisce un senso di
monumentalità fuori dal tempo. Il tema è classico: l’inserimento del nudo nel paesaggio. Se i nudi
della tradizione presentavano però una classicità fatta di grazia, armonia e sensualità, Cézanne fu un
innovatore nella forma del soggetto: egli distaccò la sensualità dalle sue bagnanti. A lui,
interessavano l’essenza delle cose, il soggetto come geometria e distanza. Non vi è sensualità, non
vi è desiderio carnale; il corpo delle donne non è più morbidezza e desiderio sensuale, ma diventa
canale per studiare la vita e la natura. Queste bagnanti sono estremamente semplici e dipinte
grossolanamente. Le creature femminili che scherzano sulla riva del fiume non sono aggraziate,
sono piuttosto robuste, spigolose, paffute, goffe nelle loro proporzioni e non hanno nulla di erotico.
Figure e paesaggio così generalizzati arrivano ad avere lo stesso peso e la stessa importanza
nell’opera. Nei grandi dipinti delle bagnanti Cézanne ha espresso il suo ideale di perfetta armonia
tra uomo e natura. Un’armonia in cui l’artista non ha nessun ruolo. Rappresentando in maniera
primitiva le figure, e non chiarendo cosa stiano facendo, il pittore le ha spogliate della loro
individualità e le ha così rese eterne. Sono esseri astratti, incompiuti e senza uno scopo chiaro.
Paul Cezanne, La montagna Sainte-Victoire, 1905,
Zurigo
Un paesaggio, un edificio o un semplice oggetto, attrae irresistibilmente il pittore e lo risucchia in
una sorta di vortice. Finisce per concentrarsi su quello, come se in esso fosse racchiuso il segreto
della sua opera, o della sua vita. E lo dipinge da diversi punti di vista o dallo stesso, in un solo
periodo o a distanza di anni. Creando una serie, come Claude Monet con la cattedrale di Rouen e le
ninfee, oppure opere indipendenti, diverse una dall’altra, come Paul Cézanne con la montagna
Sainte-Victoire. L’ha dipinta quaranta volte a olio, e altrettante ad acquarello. La ripetizione è
caratteristica della sua pittura analitica, tant’è che si concentrò sempre sugli stessi motivi: i
bagnanti, le mele, i giocatori di carte, la moglie. Cézanne aveva avuto quella montagna sotto gli
occhi, poiché era l’attrazione turistica di Aix-en-Provence, la sua città natale. E quando vi tornerà
nel 1902, sarà il suo soggetto preferito. Tutte le ultime Sainte-Victoire sono dipinte da un punto di
vista frontale, con spostamenti a sinistra o a destra che sembrano corrispondere al movimento reale
del pittore. Sono quadri molto simili, spesso dello stesso formato. La Sainte-Victoire di Zurigo è
una delle ultime; Cézanne la dipinge forse intorno al 1904. Le case sono dei volumi senza finestre,
gli archi dell’acquedotto definiscono una linea orizzontale che divide il dipinto in due metà. Negli
altri, eseguiti dieci anni dopo, i contorni appaiono più sfumati e le macchie di colore accennano solo
sommariamente agli oggetti reali: la superficie è quasi astratta, resa attraverso un griglia geometrica
che scompone la natura in tanti piccoli cubi. Ciascuna pennellata, controllata e inserita
meticolosamente, costruisce un paesaggio solido, ormai distante dal modello naturale. Il quadro
sembra dipinto in fretta, con una fitta trama di pennellate verticali, furiose, quasi febbrili.

Paul Cezanne, I giocatori di carte, 1890-1895, Parigi


Era il 1895 quando in Francia Paul Cézanne concludeva “I giocatori di carte“. Abbiamo due signori,
forse contadini, che seduti al tavolo di un bistrot si cimentano in una partita a carte. Uno dei due
probabilmente si chiamava Alexandre ed era il giardiniere della tenuta del padre dell’artista a Jas de
Bouffan. La semplicità che traspare guardando questa scena è veramente unica. Non c’è patos, non
c’è emotività, ma solo sospensione. Osservando bene questi due comuni personaggi non possiamo
fare a meno di notare che ci appaiono come incredibilmente sospesi nel tempo. O meglio il tempo
qui sembra non esserci proprio. Essi non sono né fermi né in movimento. Né in attesa né in azione.
Sono semplicemente sospesi in una realtà che quasi diventa sogno. Stanno giocando una partita
senza giocare le loro carte. Tutto è fermo e immutabile. I due uomini sono esattamente frontali, la
bottiglia che si trova sul tavolo sembra diventare un’asse ideale che divide a metà la scena. L’uomo
di destra indossa una giacca chiara e dei pantaloni scuri, quello di sinistra il contrario.
La precisione dell’ambiente, dei personaggi, dei loro attributi non è rappresentata da dei dettagli,
bensì dalle forme semplici che compongono i vari oggetti che li circondano. È proprio questa la
grande abilità del pittore francese: egli riesce a giungere alle forme prime che compongono il corpo
umano e gli oggetti dell’ambiente che lo circonda, escludendo quei dettagli significativi che
darebbero “tempo” alla scena, che diventerebbero indicatori di un passato o di un presente. Cézanne
scava nelle forme e nel tempo fino a semplificare l’apparenza della realtà: le braccia sono ridotte a
cilindri, le pieghe della tovaglia a triangoli, il tavolo ad un semplice assemblaggio di
parallelepipedi, le bombette a delle semisfere.
PAUL GAUGUIN è stato uno dei protagonisti della fase artistica che definiamo post-
impressionismo. Egli incarna un altro archetipo di artista: l’artista che vuole evadere dalla società e
dai suoi problemi per ritrovare un mondo più puro ed incontaminato. Egli, al pari di tutti gli altri
artisti e poeti francesi di fine secolo, vive sullo stesso piano la sua vita privata e la sua attività
artistica. E le vive con quello spirito di continua insoddisfazione e di continua ricerca di qualcosa
d’altro che lo portò a girovagare per mezzo mondo, attratto soprattutto dalle isole del Pacifico del
Sud. La pittura di Gauguin è una sintesi delle principali correnti che attraversano il variegato e
complesso panorama della pittura francese di fine secolo. Egli partì dalle stesse posizioni
impressioniste, comuni a tutti i protagonisti delle nuove ricerche pittoriche di quegli anni, per poi
superarle e ricercare una pittura più intensa sul piano espressivo. I suoi colori sono “simbolici”
(appartiene infatti al Simbolismo): non servono a rappresentare la realtà, ma ciò che il pittore sente.
Usa sempre colori molto accesi e non naturali e non utilizza ombre. E’ alla ricerca del primitivo, del
puro, del non contaminato.

Paul Gauguin, “La visione dopo il sermone” (1888).


La sua opera più importante. Il quadro appartiene alla fase simbolista e sintetista dell’arte di Paul
Gauguin. E’ idealmente diviso in due parti dalla diagonale del tronco d’albero; nella parte in alto a
destra compaiono Giacobbe che combatte con un angelo, mentre nella metà inferiore sinistra vi
sono le donne che assistono alla scena. Qui non vi è assolutamente naturalismo; il rapporto tra le
figure è infatti molto equivoco e dubbio. Il quadro nega qualsiasi costruzione naturalistica e
prospettica. Ciò viene ulteriormente confermato dal colore rosso steso con tale uniformità da non
far capire se rappresenta un piano orizzontale, verticale, o di altra inclinazione. Anche il soggetto, di
per sé, non può essere considerato naturalistico. Non appartiene alla normale esperienza visiva
vedere un angelo e un demonio che lottano. Se si ha una tale visione, essa proviene di certo dalla
propria interiorità psichica. Interiorità che, come il titolo ci suggerisce, è stata eccitata dall’ascolto
di un sermone. Il contenuto dell’opera è quindi un’allegoria dell’eterna lotta tra il bene e il male che
è uno dei fondamenti su cui si basano tutte le religioni.
In questo senso il simbolismo dell’opera è evidente. Il quadro cerca un significato che va al di là di
un semplice episodio: vuole proporre invece una riflessione più universale sulla capacità di
penetrazione, anche delle persone semplici come le donne raffigurate sul quadro, di quei misteri
invisibili e insondabili quali la lotta tra il bene e il male che governano la reale dinamica della vita e
dell’universo. Il quadro è pertanto pervaso da una religiosità mistica molto evidente.

Paul Gauguin, “Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?”, 1897, Boston
Abbiamo detto che Gauguin viaggiò molto nel corso della sua vita; egli aveva rifiutato la civiltà
moderna e la cultura occidentale ed era alla ricerca di un’autenticità perduta. A Tahiti trovò tutto ciò
che stava cercando e lì dipinse la tela monumentale “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?
“, considerato il suo testamento non solo artistico ma anche spirituale. Si può considerare, infatti, la
somma di tutto il suo percorso di vita, dall’impressionismo parigino alle isole Oceaniche. Il dipinto
è un’opera di dimensioni monumentali (un metro e mezzo per tre e mezzo) che vuole rappresentare
i diversi momenti della vita umana, dalla nascita (a destra) alla vecchiaia (a sinistra), attraverso
figure umane e paesaggi tipici dell’ambiente polinesiano. La tela si presenta infatti a sviluppo
orizzontale con un percorso di lettura che va da destra a sinistra. Dal neonato nell’angolo a destra si
giunge alla donna scura a sinistra passando attraverso le varie stagioni della vita. La donna al
centro, che quasi divide il quadro in due, simboleggia il momento della vita in cui si raccolgono i
frutti, ovvia allegoria del momento della procreazione. La vecchia in fondo a sinistra, già presente
in altre composizione di Gauguin, nella sua posizione fetale con le mani accanto al volto, in realtà
non simboleggia solo la vecchiaia ma soprattutto la paura della morte. Ma straordinaria in questo
quadro è soprattutto l’ambientazione. Il percorso della vita si svolge in un giardino che sa proprio di
Eden. Come dire che, secondo Gauguin, in fondo la vita e la realtà non sono poi male, se non fosse
per l’angoscia di non sapere con certezza a cosa serve tutto ciò. Con questo quadro il senso di
inquietudine e di instabilità, tipico dell’artista e uomo Gauguin, ci appare alla fine come un percorso
senza fine, perché volto a traguardi che non sono di questo mondo. E così il suo fuggire
dall’Occidente verso i paradisi dei mari del Sud, in fondo, altro non è che la metafora della ricerca
perenne ma inesauribile dell’approdo ultimo della nostra serenità. Gauguin vi lavora nel 1897,
durante uno dei periodi più tristi della sua vita, in cui arriverà a tentare il suicidio, ingoiando
dell’arsenico; prima di «farla finita» però, come scrive in una lettera a un amico, «mette giù una
grande pittura», lavorandoci «giorno e notte. Ne risulta un’antologia di tutta la sua pittura tahitiana
(quasi tutte le figure sono presenti già in altre tele) e un tentativo di esprimere, in una forma libera e
originale, quel senso sacrale della natura e del primitivo che la decadente civiltà occidentale ha,
secondo Gauguin, perduto per sempre.

VINCENT VAN GOGH, pittore olandese, nacque in Olanda nel 1853 e morì in Francia nel 1890.
Come Gauguin, è un artista autodidatta, e si accosta alla pittura per necessità. Rappresenta il
prototipo più famoso di artista maledetto, di artista che vive la sua breve vita tormentato da enormi
angosce ed ansie esistenziali, al punto di concludere tragicamente la sua vita suicidandosi. Van
Gogh nell’immaginario collettivo rappresenta l’artista moderno per eccellenza, il pittore maledetto
che identifica completamente la sua arte con la sua vita, vivendo l’una e l’altra con profonda
drammaticità; l’artista che muore solo e disperato, per essere glorificato solo dopo la morte.
L’attività di Van Gogh è stata breve ed intensa e i suoi quadri più famosi furono realizzati nel breve
giro di quattro o cinque anni. Egli, tuttavia, in vita non ebbe alcun riconoscimento o apprezzamento
per la sua attività di pittore; solo una volta era apparso un articolo su di lui. Dopo la sua morte,
iniziò la sua riscoperta, fino a farne uno degli artisti più famosi di tutti i tempi. La difficoltà
d’inserimento di un pittore profondamente solitario e ribelle come lui, in un movimento o in una
corrente è senz’altro palese, ma dalla sua pittura è facile individuare quegli elementi oggettivi che
permettono di definirlo come pittore “post-impressionista di tendenza espressionista”.
Sostanzialmente Van Gogh, guardò agli impressionisti con interesse soltanto per la loro tavolozza
luminosa. Era il colore a sedurlo, mentre non amava la maniera sommaria e poco disegnativa di
quegli artisti. Egli veniva da una pittura tenebrosa, ancorata ai valori del passato (quella olandese);
era un disegnatore abile e riteneva il disegno fondamentale, a differenza degli impressionisti; ma la
scoperta che compì a Parigi fu notevole sotto il profilo cromatico. Parigi, diffondeva infatti
tavolozze chiare, ricche di luce nei paesaggi. In qualche opera, pertanto Van Gogh si adegua al
nuovo stile, lo interpreta a proprio modo, ed è in questi casi che egli somiglia di più agli
impressionisti. Sotto il profilo della genetica della pittura egli deve molto all’impressionismo, pur
non riconoscendosi in esso. La pittura di Van Gogh non possiamo definirla un'arte di impressione,
ma di espressione. E' un'arte che non vuole esprimere la verità apparente ed effimera delle cose, ma
la loro sostanza più profonda. Lasciò che il suo ardore e la sua inquietudine gli guidassero la mano
sulla tela; deformò la realtà guardandola attraverso la lente della sua agitazione interiore, facendo
cadere la legge degli impressionisti. Usa il colore in modo innaturale. Il colore diventa il simbolo
delle sue passioni, il tratto contorto e dinamico delle sue pennellate simboleggia la sua passione
esistenziale. Quindi riassumendo possiamo affermare che Van Gogh fu un post-impressionista, cioè
un artista che tenne conto, superandoli, di alcuni aspetti dell’impressionismo, collocandosi più in là.
I suoi dipinti, a differenza della maggior parte delle opere degli impressionisti, non colgono l’istante
transitorio della realtà; non sono “istantanee”, non fissano l’attimo fuggitivo, ma occupano una
dimensione temporale, eterna. Era figlio di un pastore protestante e rivelò fin da bambino un
carattere inquieto e tormentato. Era il maggiore di 6 figli, dotato di un grande temperamento
religioso. Van Gogh, dopo il soggiorno a Parigi nell'86, aveva un sogno, quello di fondare un atelier
del Mezzogiorno ad Arles, una casa (ricordiamo, a tal proposito, la sua opera “La casa gialla”) per
giovani talenti dove si potevano confrontare, dipingere insieme, discutere sulle nuove tecniche.
Nell’ arco di 10 anni, dipinse molte opere che lo renderanno celebre dopo la morte; l'unica opera
venduta quando era in vita è La vigna rossa. La velocità pittorica di van Gogh è una chiave per
comprenderlo: derivava da una necessità interiore di esprimersi in libertà, abbandonandosi al
sentimento e non alla ragione.
Il periodo iniziale della sua pittura culmina nella tela “I MANGIATORI DI PATATE”, dipinta nel
1885, (che oggi si trova nel museo Van Gogh di Amsterdam). A questo quadro Van Gogh vi
lavorò molti mesi, eseguendone più versioni. Sono già evidenti i caratteri stilistici che rendono
immediatamente riconoscibile la sua pittura. Vi è soprattutto il tratto di pennello doppio che plasma
le figure dando loro un aspetto di deformazione molle. In questo quadro sono più evidenti le
influenze della grande pittura fiamminga del Seicento. Sia per la scelta di rappresentare la scena in
un interno, sia per la luce debole che illumina solo parzialmente la stanza e il gruppo di persone
sedute intorno al tavolo. Il soggetto del quadro è di immediata evidenza. In una povera casa, un
gruppo di contadini sta consumando un misero pasto a base di patate. Sono cinque persone: una
bambina di spalle, un uomo di profilo, di fronte una giovane donna e un altro uomo con una tazzina
in mano, e una donna anziana che sta versando del caffè in alcune tazze. Hanno pose ed espressioni
serie e composte. Esprimono una dignità che li riscatta dalla condizione di miseria in cui vivono.
Nel quadro predominano i colori scuri e brunastri. Tra di essi Van Gogh inserisce delle pennellate
gialle e bianco-azzurrine, quali riflessi della poca luce che rende possibile la visione. Da notare
l’alone biancastro che avvolge la figura della ragazzina di spalle e che crea un suggestivo effetto di
controluce. In questo quadro c’è una evidente partecipazione affettiva di Van Gogh alle condizioni
di vita delle persone raffigurate. La serietà con cui stanno consumando il pasto dà una nota quasi
religiosa alla scena. È un rito, che essi stanno svolgendo, che attinge ai più profondi valori umani. I
valori del lavoro, della famiglia, delle cose semplici ma vere. Non è un’opera di denuncia sociale
(come potevano essere i quadri di Courbet), o di esaltazione della nobiltà del lavoro dei campi
(come era nei quadri di Millet). Questo quadro di Van Gogh esprime solo la sua profonda
solidarietà con i lavoratori dei campi che consumano i cibi che essi stessi hanno ottenuto dalla terra.
Van Gogh e gli Autoritratti
Gli autoritratti sono circa una quarantina e, stilisticamente, seguono la sua evoluzione. Nelle ultime
opere arriva a trasfigurare la realtà in modo personale, secondo il suo sentire interiore. In una lettera
a suo fratello Theo, scrive che voleva che le sue opere mostrassero ciò che era nel suo cuore; si
percepisce dunque nei ritratti un contatto umano che la società gli ha negato, ma che lui invece
cercava sempre di stabilire. Il protagonista degli autoritratti è sempre sè stesso (perché faticava a
trovare persone che posassero per lui perché giudicato pazzo); alcune costanti sembrano
confermarlo: gli occhi intensi e imploranti che si impongono, come un punto focale nel dipinto, e la
firma con il nome, come se volesse rivolgersi ad un amico, cercando un contatto.
A tal proposito va ricordata l’opera “Autoritratto” (1889,Museo d'Orsay di Parigi). Per Van Gogh
l’autoritratto era uno di soggetti preferiti in quanto attraverso l’Autoritratto Van Gogh cercava di
conoscere e rappresentare se stesso e nello stesso tempo forse di lasciare un’immagine di sé e della
sua anima, che durasse oltre la vita. Forse il più bell’ autoritratto di Van Gogh è l’autoritratto del
1889, realizzato nel manicomio di Saint Remy, quando Van Gogh s'era ristabilito da una crisi di
follia durata due mesi. A proposito di questo Autoritratto Van Gogh nel 1889 scriverà al fratello
Theo: "Noterai come l'espressione del mio viso sia più calma, sebbene a me pare che lo sguardo sia
più instabile di prima". Ed è appunto lo sguardo di Van Gogh che colpisce in questo Autoritratto,
oltre allo stupendo sfondo, formato da spirali di colore verde assenzio e turchese chiaro, molto
tenui, ma arrovellate in un concatenamento di volute. Esse hanno un po’la forma delle fiamme, ma
sono delle fiamme fredde, che denotano in Van Gogh una calma assopita, ma pronta a scatenarsi in
maniera primordiale: gli zigomi e la conformazione del cranio di questo autoritratto di Van Gogh
hanno qualcosa di animalesco o comunque di uomo primitivo. La barba ed i baffi, di Van Gogh
sono ordinati, curati e controllati, ma il colore arancione li fa emergere dallo sfondo
dell’Autoritratto e rimanda ad una forza bruta, caratterizzata da un’espressione dura e decisa da
leone ferito, ma pronto a scatenarsi. La durezza e la rigidità dell’espressione di Van Gogh fanno
pensare alla determinazione ed alla durezza dell’autocontrollo, come se Van Gogh si fosse imposto
di apparire disciplinato, ordinato, calmo e ben vestito con la giacca ed i bottoni a posto. Ma quegli
occhi azzurri di Van Gogh, quasi un’emanazione dello sfondo che esprime una calma apparente,
sono allucinati e pieni di una determinazione che non promette niente di buono. Sembra quasi,
infatti, che Van Gogh, al di là della calma autoimpostasi ed interiorizzata dalla dura disciplina del
manicomio, nasconda un animo ferito ed un disegno misterioso, non confessabile di rivincita. Si
percepisce nell’autoritratto del 1889 lo sforzo di Van Gogh di apparire ordinato, controllato, calmo:
il colore blu tenue sottolinea questa calma, fredda ma percorsa da brividi come dal vento che fa
fremere e vibrare un mare calmo. C’è una continuità tra lo sfondo dell’Autoritratto e la figura,
soprattutto il vestito, anch’esso percorso da impercettibili volute, come se dall’infinito dello sfondo,
il continuo movimento preannunci l’arrivo della tempesta.

Abbiamo anche l’”Autoritratto con l'orecchio bendato”, 1889, Courtauld Gallery di Londra
Vincent Van Gogh si raffigura con una evidente bendatura all’orecchio destro. L’artista è rivolto a
destra e indossa un pesante cappotto scuro. Lo sguardo è fisso e pare perso in una sfera interiore.
Gli occhi sembrano allucinati. Le labbra sono fermamente serrate. Le sopracciglia inoltre, sono
aggrottate ed esprimono disagio interiore. Sul capo porta un cappello decorato con una pelliccia
nera. Sullo sfondo, è visibile una stampa orientale e l’interno della sua stanza.
Autoritratto con orecchio bendato fu dipinto da Vincent Van Gogh in seguito ad un crollo emotivo
causato dalla decisione di Paul Gauguin di tornare a Parigi. Vincent Van Gogh mutilò il suo
orecchio il 23 dicembre 1888. La causa va, forse, ricercata nella sua turbolenta relazione con il
pittore Paul Gauguin. Theo van Gogh chiese a Gauguin di recarsi presso la Casa Gialla per
dipingere accanto al fratello. Vincent accolse con grande entusiasmo Gauguin dipingendo per lui la
serie dei Girasoli. Presto, però le discussioni si accesero e i due entrarono in contrasto. Una sera
Gauguin, in seguito all’ennesima lite, si era trasferito in albergo. Sembra che Vincent lo abbia
inseguito con un rasoio. La fermezza di Gauguin, però, bloccò Van Gogh. Tornato a casa si mutilò
l’orecchio sinistro. Avvolse, poi, un foglio di giornale intorno all’orecchio e lo portò come dono ad
una prostituta. Una diversa ipotesi si basa sull’ammirazione che Van Gogh nutriva verso la cultura
giapponese. In tale cultura la pratica della prostituzione era regolata da raffinati cerimoniali. Uno di
questi era lo “shinju”. Si trattava di un pegno d’amore reciproco, a volte, rappresentato da gocce di
sangue, frammenti di unghie, capelli o dita mozzate. Van Gogh consegnò il suo orecchio mozzato
ad una prostituta di Arles di nome Rachel. Gli storici non sono, però, concordi, nel fatto che l’artista
fosse a conoscenza di questa pratica.
Altre opere Van Gogh

Abbiamo “La camera di Vincent ad Arles”, 1888, Arles. Van Gogh ne realizza altre due copie, una
per il fratello Theo, una più piccola per la sorella e per la madre. Queste sono state realizzate tra il
1888 ed il 1889, conservate rispettivamente presso il Van Gogh Museum di Amsterdam, l'Art
Institute of Chicago ed il museo d'Orsay di Parigi. E' una delle opere più apprezzate di questo
periodo. E' la stanza del pittore nella casa gialla di Arles, al primo piano, dove un mese dopo
ospiterà l'amico Gauguin. I colori forti del Mediterraneo incantarono molto van Gogh, che li riversò
in tutte le opere di questo periodo. In una lettera a Theo, il pittore spiega che quest'opera doveva
suggerire la calma del sonno e ne descrive i colori usati. Van Gogh la considerava come il suo
lavoro migliore, l'ambiente è rappresentato da un punto di vista ribassato, tipico di chi guarda
stando seduto in fondo alla stanza. Il letto è vuoto ma rifatto, la camera è in ordine (vedi gli oggetti
sul tavolino), a sinistra ci sono due sedie e sulle pareti ci sono dei quadri che sembrano instabili. Lui
voleva riferire al fratello Theo che in questo periodo era sereno, voleva esprimere il riposo assoluto,
ma il quadro comunica invece una sensazione di vertigine claustrofobica: tutto è mosso, traballante,
e appare trasfigurato dall'uso personale e soggettivo della prospettiva e dei colori. Il punto di vista è
fortemente ribassato, le vertiginose linee prospettiche del pavimento sono spezzate da delle fughe
trasversali e crea un effetto ad imbuto; l'uso di colori senza ombra crea una tensione da cui
l'osservatore ricava ANGOSCIA (è il contrario di quello che voleva comunicare il pittore).
Ancora una volta, compare la sedia vuota, che ha valenza simbolica: lui si identifica nel grande letto
solitario e la sedia che nessuno occupa è il calore umano che non arriva, è metafora dell'attesa (è
come se lui stesse aspettando qualcuno che non arriva). Il vuoto e l'assenza pesano più della
presenza; quello che doveva essere un interno semplice e sicuro, un rifugio, diventa una prigione
dove l'artista urla il suo disagio.

Abbiamo l’opera “Vaso con girasoli”. Al 1888 risalgono le numerose tele con i girasoli; la serie dei
girasoli comprende 4 tele, con le quali il pittore voleva decorare la camera dell'amico Gauguin. I
girasoli esprimono la passione di van Gogh per la luminosità del sole della Provenza. I girasoli sono
realizzati con una tecnica pittorica innovativa detta ad impasto solido: si vede lo spessore della
pennellata, usata sia per i girasoli che per lo sfondo, dipinti in diverse posizioni. Applicava una
grande quantità di colore con energia, tale da lasciare dei grumi su entrambi i lati della pennellata. I
fiori sono disordinati nel vaso, rappresentati attraverso tocchi mobili dei petali e delle foglie; hanno
significato simbolico: sono metafora della vitalità della natura, sia gioiosa che tormentata. In questi
quadri si può riscontrare l'influenza delle stampe giapponesi nell'uso del colore limpido e chiaro,
senza ombre.

“Notte stellata”, 1889. La realizza durante il soggiorno nella casa di cura. E' un'opera straordinaria,
frutto della sua capacità visionaria, capace di esprimere una violenta vitalità drammatica. Ha cercato
di raffigurare il paesaggio notturno di Saint Remy de Provence, poco prima del sorgere del sole.
Van Gogh rimase sveglio per ben 3 notti ad osservare la campagna che vedeva dalla sua finestra,
affascinato soprattutto dal pulsare di Venere (che appare all'alba), come una stella più grande.
L'opera è ottenuta mediante l'uso di segni violenti, le pennellate sono ampie e vorticose, cariche di
colore; forse rappresentano la sua angoscia interiore. Questo ritmo concitato tende al superamento
della visione naturalistica della realtà: se si osserva la parte inferiore del quadro sembra un notturno,
ma nella parte superiore (divisa dalla linea delle colline) tutto diventa più concitato e tende al
superamento della visione oggettiva della realtà. In primo piano ci sono i cipressi, animati da una
forza interiore, che li agita facendoli vibrare come lingue di fuoco. Lui diceva spesso che il cipresso
è come un obelisco egiziano, li vede come mediatori tra cielo e terra, tra vita e morte. Divide la
parte superiore da quella inferiore con la linea ondulata delle colline; la parte inferiore comunica
calma e tranquillità, mentre la parte superiore è pulsante di energia. La struttura del quadro può
risultare tradizionale, ma il linguaggio pittorico è innovativo, il pittore ha saputo fondere una
propria visione interiore con la sua percezione del mondo esterno. La sua è una visione in cui
affiorano elementi che ricordano il paese di origine (come il campanile), ripresi dai ricordi olandesi.

HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC è uno degli ultimi pittori impressionisti. Discendente di una


nobile ed antichissima famiglia francese, la sua vita fu segnata, a quattordici anni, da due cadute da
cavallo che gli procurarono delle fratture ad entrambe le ginocchia. In seguito le sue gambe non
crebbero al pari del resto del corpo, restando egli deforme come un nano. Ciò lo portò a vivere una
vita bohemien nel pittoresco e malfamato quartiere parigino di Montmartre. E in questo povero
universo di ballerine e prostitute egli svolse la sua arte, prendendo di lì la propria ispirazione. Morì
nel 1901 all’età di trentasette anni per problemi di alcolismo. Egli è soprattutto un grande
disegnatore, portando la sua arte su un piano che era sconosciuto agli altri pittori impressionisti:
quello della linea funzionale. Egli con la linea coglie con precisione espressionistica le forme, i
corpi e lo spazio. Non solo. Anche le superfici vengono tutte intessute di linee che si intrecciano a
formare suggestivi intrecci. Questa sua capacità di deformare la linea con grande capacità
espressionistica rese la sua opera pittorica densa di suggestioni per i movimenti pittorici successivi.
Soprattutto l’espressionismo prese ispirazione da Toulouse-Lautrec ma anche la successiva cultura
figurativa liberty che fece della linea la sua principale matrice figurativa. Ed al liberty Toulouse-
Lautrec fornì anche un nuovo ambito di applicazione: quello del manifesto d’autore. Egli, infatti, fu
il primo pittore ad utilizzare le sue capacità artistiche per la produzione di grafica d’autore,
soprattutto in occasione di spettacoli teatrali e cabarettistici. La breve vita di Toulouse-Lautrec
rimane un esempio anch’esso emblematico dell’artista di fine secolo. Ovvero di artista maledetto
che vive la propria vita e la propria arte su un unico piano di intensa partecipazione emotiva. Egli,
pur provenendo da una famiglia nobile ed agiata, preferì vivere la propria esistenza fuori dai comodi
schemi della vita borghese, consumandola con un disprezzo per la vita stessa che lo accomuna ad
altri artisti, non solo pittori, di questa fase. Come Van Gogh e Gauguin anche egli, a suo modo,
evade dalla società. Ma mentre i primi due lo fanno ricercando il mondo dei contadini o i mondi
esotici delle isole del Pacifico, Toulouse-Lautrec evade rifugiandosi in quel mondo equivoco fatto
di bordelli e locali di spettacoli in cui incontrava barboni, reietti, ubriachi, prostitute e con i quali
condivideva anche la sua affettività. Ed essi divennero il soggetto dei suoi quadri, cogliendo in loro
una vera e genuina umanità, a volte struggente e dignitosa. Di Henri de Toulouse-Lautrec abbiamo
numerose opere come “Il Letto”, “Manifesto del Moulin Rouge”,“Al MoulineRouge”.
La più importante è sicuramente “La Toilette”, 1886-1889, Parigi. Il dipinto è realizzato in una di
quelle case di appuntamento in cui il pittore passava la maggior parte del suo tempo. La
rappresentazione coglie un istante di vita quotidiana con un senso di immediatezza molto evidente.
Contribuisce a questo senso di immediatezza il taglio di tipo fotografico con una angolazione
dall’alto verso il basso. La donna viene vista di spalle presentandosi in un aspetto di fragilità quasi
commovente. Le spalle hanno una linea molto armoniosa. Su di esse la testa ha una positura molto
diritta e serena. I capelli sono di un rosso molto delicato, raccolti in modo seducente. Le braccia e le
gambe sono magre e delicate. Tutto ciò crea un contrasto evidente con l’attività della donna la
quale, proprio per questa sua bellezza che non scompare, conserva una sua purezza virginale. La
simpatia del pittore è tutta per lei. La donna ha appena finito di lavarsi in una vasca che si intravede
accanto alla sua testa. Sta asciugandosi seduta a terra su degli asciugamani. Il fatto che sia appena
uscita dall’acqua ne accentua simbolicamente l’avvenuta purificazione. La stanza si presenta povera
e spoglia. Il pavimento è un normale parquet a listoni paralleli su cui sono posati pochi oggetti: la
poltroncina e il divanetto di vimini, la tinozza per il bagno. La tecnica pittorica risulta molto
sapiente e sicura. Toulouse-Lautrec stende i colori secondo linee veloci e marcate. L’immagine
prende mirabilmente forma con tratti che si intessono senza perdere la loro evidenza lineare. I colori
sono molto delicati e definiscono dei riflessi che danno alle cose una sensazione di grande verità. La
pittura di Toulouse-Lautrec ha anch’essa decisamente superato l’impressionismo. Benché egli si
consideri il continuatore di Degas, di cui conserva il tipo di inquadratura evidente anche in questo
quadro, la sua pittura è oramai alla ricerca di significati e di contenuti che non sono più quelli
superficiali e festosi della pittura impressionista.

HENRI ROUSSEAU: sarebbe vano voler etichettare in qualche modo il suo lavoro; come il suo
percorso artistico, anche la sua pittura è estremamente singolare. Nato in una modesta famiglia
originaria di Laval, Rousseau è un pittore autodidatta, descritto dai suoi primi biografi come un
“pittore della domenica”. A lungo impiegato al dazio comunale di Parigi (da cui il soprannome
approssimativo di “Doganiere”, attribuitogli dall’amico Alfred Jarry), comincia a dipingere verso
l’età di quarant’anni. Privo di formazione accademica, cerca di assimilare i codici della pittura
ufficiale a contatto con pittori come Gérôme e Clément, vicino ai quali abita per un periodo, o
ancora Bouguereau, di cui ammira il “color carne”. Nel 1884, ottenuta l’autorizzazione ad eseguire
delle copie al Louvre, l’apprendista pittore si reca anche al museo del Lussemburgo e a Versailles.
Rousseau non segue tuttavia altre regole a parte le proprie, trasformando la pittura liscia degli
accademici in un linguaggio singolare dagli accenti onirici. Ben consapevole dell’originalità della
sua arte, si sforza di conservarne l’apparente ingenuità, acquisita, secondo le sue stesse parole,
attraverso “un lavoro ostinato”. D’altronde, ciò che colpisce nella sua opera è questa costanza nella
maniera, e la coerenza nello stile una volta ottenutane la padronanza. La singolarità dell’opera di
Henri Rousseau ne fa uno dei casi più interessanti della storia dell’arte, a cavallo tra due secoli.
I primi ad interessarsi alla sua opera sono stati i padri dell’avanguardia (scrittori, poeti, pittori…),
forse per via del suo carattere “atemporale”: svincolandosi dai vincoli della prospettiva e servendosi
di un linguaggio pittorico realista per trascrivere sulla tela un’immagine mentale, Rousseau ha
costruito un’opera che è stata per numerosi artisti una base da cui partire per elaborare una sintassi
nuova. I giudizi sul valore delle opere di Henri Rousseau non furono incoraggianti: i critici
denigrarono apertamente il lavoro dell’artista per la scarsa capacità di rappresentare fedelmente la
realtà e per la tecnica rozza e (quasi) infantile. Alcuni artisti tuttavia apprezzarono la forza
“selvaggia” dei suoi dipinti e la prorompente libertà creativa di Rousseau. Le opere di Henri
Rousseau hanno una carica fortemente onirica, i personaggi delle sue opere paiono giungere da una
dimensione fiabesca e irreale, spesso immersi in una fitta vegetazione che avvolge e cattura lo
spettatore con il suo potere ipnotico. Lo stesso Rousseau, mentre dipingeva soggetti immaginari, a
volte si bloccava e quasi spaventato si affrettava ad aprire le finestre, per permettere agli spiriti
evocati dal dipinto di lasciare la stanza. Nonostante appunto, molto spesso veniva criticato, a volte
bonariamente schernito, Henri Rosseau stupì tutti nel 1910, quando esibì al Salon des indépentands
la sua opera più famosa: “Il Sogno”, un immenso viaggio in un mondo irreale e misterioso, che
affascina e atterrisce lo spettatore. L’artista presentò l’opera insieme ad una breve poesia che
narrava la storia celata dietro la tela. È il lascito dell’artista, che morì quello stesso anno.

AUGUSTE RODIN è stato uno scultore e pittore francese. Sebbene Rodin sia universalmente
considerato il progenitore della scultura moderna, l'artista non decise deliberatamente di ribellarsi
contro lo stile precedente. Fece studi tradizionali, ebbe un approccio al suo lavoro umile e simile a
quello di un artigiano e desiderò a lungo il riconoscimento da parte del mondo accademico,
nonostante non sia mai stato accettato nelle più importanti scuole d'arte parigine. Rodin ebbe una
capacità unica di plasmare l'argilla creando superfici complesse, vigorose e profonde. Molte delle
sue opere più famose alla sua epoca furono diffusamente criticate in quanto si scontravano con la
tradizione scultorea figurativa dominante, secondo la quale le opere dovevano essere decorative,
stereotipate o strettamente riferibili a tematiche conosciute. La grande originalità del lavoro di
Rodin sta nell'essere partito dai temi mitologici e allegorici tradizionali per modellare le figure
umane con realismo, esaltando il carattere e la fisicità dell'individuo. Rodin fu consapevole delle
polemiche che i suoi lavori suscitavano ma rifiutò di cambiare stile. Le opere successive finirono
per incontrare maggiormente il favore sia del governo che della comunità artistica. Partendo
dall'innovativo realismo della sua prima grande scultura - ispirata da un viaggio in Italia che fece
nel 1875 - fino ai monumenti in stile non convenzionale per i quali ottenne in seguito commissioni,
la fama di Rodin crebbe sempre più e finì per diventare il più importante scultore francese della sua
epoca. Con l'arrivo del XX secolo era ormai un artista apprezzato in tutto il mondo. Dopo la mostra
che allestì all'Esposizione universale del 1900, facoltosi committenti si contesero le sue opere e
Rodin frequentò molti artisti e intellettuali di alto profilo. Rodin rimane uno dei pochi scultori
ampiamente noti e conosciuti anche al di fuori della ristretta cerchia della comunità artistica. Tra le
sue sculture più importanti ricordiamo “Il Pensatore”, “Il Bacio”, “La Porta Dell’Inferno”,
“L’Età del Bronzo”
SIMBOLISMO
Descrivere il Simbolismo è come attraversare una foresta molto fitta dove si aprono innumerevoli
slarghi e sentieri rivolti in direzioni differenti. Il movimento ebbe, infatti, sfaccettature diverse e
coinvolse non solo le arti visive, ma anche la letteratura (a partire dalle influenze di Baudelaire) e la
musica (elaborando le suggestioni di Wagner) degli ultimi due decenni del XIX secolo. Gustave
Courbet, il grande realista, diceva che non avrebbe potuto dipingere gli angeli perché non li aveva
mai visti, mentre Gustave Moreau esclamava: “Credo solo a ciò che non vedo e unicamente a ciò
che sento”. In queste poche citazioni si riassume il conflitto fra Realismo e Simbolismo. Più che un
movimento artistico stilisticamente unitario, il Simbolismo si propose come un sistema
gnoseologico, cioè di analisi della conoscenza, ed etico, oltre che estetico, dai forti legami con le
correnti filosofiche della seconda metà del secolo, da Schopenhauer a Nietzsche e Bergson.
Quest’ultimo, in particolare, sosteneva che si poteva raggiungere la verità non attraverso la
percezione del reale, ma per mezzo dell’intuizione, termine che potremmo definire come
comprensione istantanea delle cose e non mediata dalla logica. Il movimento prese appunto le
mosse dalla sfiducia nei metodi conoscitivi connotati dalla razionalità. Temi prescelti furono il
sogno, il mistero, la visione, l’erotismo, teorie esoteriche e teosofiche. Il Simbolismo si propose
come una forte reazione a quella poetica realista e naturalista che, legata a una concezione prima
razionalista e in seguito positivista della vita e della scienza, aveva lungamente dominato la cultura
francese ed europea. In Francia vi erano stati grandi precursori come Gustave Moreau (1826-1898)
e Pierre Puvis de Chavannes (1824- 1898), mentre la generazione più giovane era rappresentata
da artisti come Odilon Redon (1840-1916). In Orfeo (1865), Moreau raffigura la testa decapitata
del mitico cantore greco, capace di incantare le belve feroci, deposta sulla sua lira, sostenuta da una
giovane donna che la contempla, in un paesaggio leonardesco. L’opera è carica di significati oscuri
e inquietanti, con aspetti allo stesso tempo sensuali e mistici, tipici delle composizioni complesse di
Moreau. Ragazze in riva al mare (1887) mostra le caratteristiche della pittura di Puvis de
Chavannes, ammirate da Picasso e Matisse all’inizio del Novecento: l’atmosfera è immota e senza
tempo, le forme sono prive di profondità, semplificate, i colori sono opachi e ridotti a una ristretta
scala cromatica. È un sogno mediterraneo in cui l’artista sembra aver rappresentato la stessa figura
di una giovane donna, colta in momenti diversi, ad alludere al delicato tema del passaggio
dell’adolescenza, caro ai simbolisti. Sogno, mistero, paesaggi inquieti e visionari popolano le opere
di Redon, come accade ne Il Ciclope (1914 circa) a raccontare un mondo interiore fatto di
sensazioni, fantasie, ricordi, immaginazione, dove la ragione non esercita più alcun controllo.
In Francia, nel 1899, venne fondato il gruppo dei Nabis, la cui concezione del ruolo dell’artista era
implicita già nel nome, che in ebraico significa ‘profeti’. Il gruppo, che ebbe un portavoce in
Maurice Denis, fu costituito tra gli altri da Paul Sérusier, Ranson, Bonnard, Vuillard, Vallotton,
si dichiarava erede di Gauguin e aveva una forte impronta mistica, tanto che si riuniva in una casa
di Montparnasse chiamata “il tempio”, dove gli accoliti indossavano abiti cerimoniali. Tra le opere
principali del gruppo è Il talismano, dipinto quando Sérusier ha poco più di vent’anni. Teorico del
gruppo, Maurice Denis (1870-1943) concepisce immagini rasserenanti, sospese in tempi e luoghi
indefinibili. In Italia il messaggio simbolista si allontanò dal messaggio
freddamente scientista dei colleghi francesi, privilegiando la natura e i problemi sociali legati alla
civiltà contadina e una stesura che prevedeva pennellate allungate, rapide, spesso sovrapposte,
piuttosto che poste una accanto all’altra come accadeva nel gruppo francese. Riferimento dell’intero
gruppo fu Vittore Grubicy de Dragon (1851-1920), gallerista oltre che teorico e pittore egli stesso. I
suoi contatti frequenti con il Belgio, l’Olanda, la Francia e la conoscenza della stampa artistica
straniera lo misero in condizione di importare in Italia la tecnica del Puntinismo. Luogo di
consacrazione della nuova tendenza fu Milano, con l’Esposizione Triennale del 1891. Tra gli
esponenti più importanti del Simbolismo in Italia ricordiamo Giovanni Segantini, Gaetano
Previati, Angelo Morbelli, Giuseppe Pellizza da Volpedo (ricordiamo a tal proposito la sua opera
più importante, “Il Quarto Stato”)
DALLE SECESSIONI ALL’ART NOUVEAU
Le secessioni furono momenti di scissione e di rottura polemica con le strutture artistiche ufficiali
(specie le Accademie) che caratterizzarono il panorama composito dell'arte europea nella seconda
metà dell'Ottocento, ma soprattutto verso la fine del secolo. Tale periodo coincideva con il rifiuto di
alcuni giovani artisti dei canoni accademici dell’arte e dal conseguente distacco degli stessi dai
circuiti espositivi tradizionali, per protestare contro l’eccessivo conservatorismo del periodo.
Lo scostamento dall'arte classica si ebbe dapprima a Parigi; successivamente l'idea "separatista" si
diffuse in tutta l'Europa. Durante tutto l'Ottocento infatti alcuni artisti francesi si erano ribellati alle
direttive obsolete dell'Accademia, finché nel 1890 la Société Nationale des Beaux-Arts venne
rinnovata, accettando punti di vista molto più liberali. L'Accademia francese fece sue nuove idee,
diversamente da quanto avrebbe fatto più tardi quella tedesca e austriaca, che si sarebbero chiuse
entro le proprie ferree convinzioni. Questa totale modernizzazione della società accademica
francese è storicamente la prima effettiva secessione nell'arte, dalla quale però non uscirono artisti
di valore eccezionale. Sono artisticamente molto più importanti i fenomeni di rottura nei confronti
delle organizzazioni artistiche ufficiali che distinsero il resto dell'Europa ed in particolare i Paesi
Tedeschi alla fine del 1800. Infatti, tanto in Germania quanto in Austria nacquero dei gruppi
secessionisti:

-Il primo a Monaco di Baviera nasce nel 1892


-Il secondo nasce nel 1897 a Vienna
-Il terzo nel 1898 nasce a Berlino

Di questi tre gruppi, i viennesi erano gli artisti più dotati, per cui la loro separazione rimane la
secessione per antonomasia. I gruppi secessionisti sono gruppi ben organizzati, c'è di solito un
promotore, organizzano mostre, si uniscono, si separano, litigano però non vanno immaginati come
gruppi assolutamente codificati, infatti non esiste un manifesto o una dichiarazione esplicita delle
intenzioni del gruppo ed hanno una durata abbastanza breve. Questi gruppi vanno immaginati come
delle entità o realtà più o meno difformi, più o meno organizzate e con una durata più o meno breve.
Possiamo dire che si affermò una nuova concezione dell'arte: l'artista non deve render conto a
nessuno, ma è l'unico a valutare le proprie creazioni. Secondo questa mentalità, l'arte figurativa, e
l'architettura prima di tutte, accettò forme totalmente nuove.

Secessione di Monaco di Baviera


La secessione di Monaco di Baviera che nasce nel 1892 ha come figura principale un pittore in
particolare, Franz von Stuck, che a quella data aveva già una certa notorietà ed era una figura
centrale della cultura di Monaco. L'intenzione di questo gruppo è quello di contrastare la cultura
ufficiale e di aprirsi il più possibile alla cultura europea, rivolgendosi alla città faro che è Parigi. Si
cerca di proporre nella propria città delle esposizioni di artisti di altra provenienza e soprattutto
francesi. Gli altri pittori che ruotano attorno a lui, lo conoscono, lo sostengono nelle lotte contro
le regole accademiche ma niente di più. Gli altri artisti non vanno immaginati come rivoluzionari. Il
loro intento è soprattutto ideologico e la loro pittura resta una pittura in ambito figurativo. Anche la
pittura di von Stuck è figurativa anche se usa una tecnica lievemente differente e con gusto
simbolista. I suoi sono dipinti in bilico tra simbologia, e realtà di sogno e di fantasia, ispirata a fonti
letterarie.
La decisiva rottura che avverrà in seguito a Monaco non sarà per merito della secessione anche se il
movimento è importante perché questo fermento crea un terreno favorevole affinché artisti di altra
provenienza si sentano stimolati a raggiungere Monaco, che in quel momento aveva assunto una
certa importanza e notorietà anche da un punto di vista culturale. E' significativo quindi che artisti
come Vasilij Kandinskij, che viene dalla Russia, e Paul Klee, che viene dalla Svizzera, decidano di
fermarsi a Monaco piuttosto che a Parigi per apprendere la tecnica pittorica. Gli anni tra il 1896 e
1897 sono quelli in cui Kandinskij e Klee arrivano a Monaco ed è significativo il fatto che
Kandinskij piuttosto che iscriversi ad una accademia tradizionale decida di recarsi dallo stesso von
Stuck ad apprendere i primi rudimenti di pittura. La secessione di Monaco è quindi un momento di
fermento e agitazione, un confrontarsi tra pittori per potere andare oltre.

Secessione di Vienna
Più regolamentata è la secessione di Vienna, quella che più di altre ha avuto eco, avendo come
esponente principale del gruppo Gustav Klimt. Anche qui avviene la separazione dalla scuole. La
miccia che fa scoppiare la secessione di un gruppo di artisti nel 1897 è il rifiuto di esporre un'opera
di Josef Engelhart. Quasi sempre l'occasione di una separazione viene costituita dalla mancata
partecipazione di un'opera a una mostra collettiva. La secessione tuttavia non avviene in modo
traumatico, anzi, addirittura il comune di Vienna cede un terreno al gruppo perché possano
costruirvi un edificio in cui realizzare le proprie esposizioni, il cosiddetto Palazzo della Secessione,
per la cui progettazione e costruzione viene incaricato Josef Maria Olbrich. Olbrich per quanto
riguarda l'architettura e Klimt per quanto riguarda la pittura sono i promotori principali della
secessione viennese ma anche loro decidono di separarsi e lavorare in modo indipendente per poter
realizzare mostre in cui accogliere gli artisti emergenti viennesi ed europei. Il movimento è
comunque più organizzato perché ha una propria rivista ufficiale "Ver Sacrum" attraverso la quale
divulgare le proprie idee, ma soprattutto riprodurre le opere degli artisti di maggiore considerazione.
Un fatto interessante della secessione viennese è che il movimento raggruppa pittori, ma è anche
rivolto all'architettura. Il coinvolgimento degli architetti è molto importante perché molto
precocemente avranno la possibilità di intervenire sul tessuto urbano della città di Vienna,
progettando edifici e quindi di incidere sul gusto della cittadinanza. Otto Wagner per esempio viene
chiamato a realizzare alcune stazioni della metropolitana e Josef Hoffmann realizzerà altri edifici.
La caratteristica di questi edifici è quella di cercare di dimenticare quello che era il gusto più
tradizionale nella decorazione a vantaggio di edifici più lineari. Altro aspetto peculiare della
secessione viennese è quello di essersi interessata a tutte le forme artistiche compresa quella delle
cosiddette arti decorative. Molti artisti infatti si erano formati in questo ambito. Nel 1903 verrà a
costituirsi a Vienna la cosiddetta Wiener Werkstatte, che è una sorta di associazione/laboratorio che
realizza in forma artigianale, anche se in serie, degli oggetti di arte decorativa di uso comune -
posate, vassoi, teiere ecc… - progettate dagli artisti, tralasciando le forme più tradizionali a
vantaggio di forme estremamente geometriche.

Secessione di Berlino
L'ultima delle secessioni, in ordine cronologico, è quella di Berlino che nasce, come quella di
Monaco, in modo un po' più disorganizzato. L'occasione è una esposizione che avviene nel 1892 di
Edvard Munch. Munch è un pittore norvegese che aveva avuto contatti con la cultura francese e a
quella data realizzava un tipo di pittura fortemente carica da un punto di vista espressivo, una
pittura che si affidava completamente al colore per realizzare le proprie immagini contravvenendo a
qualunque tipo di regola accademica, anzi creando notevole scandalo. E' naturale che gli artisti più
giovani e rivolti verso una cultura di tipo non tradizionale abbiano guardato all'esposizione di
Munch come ad una esposizione fondamentale.
Quindi intorno a questa esposizione e intorno ad altri artisti, nel 1898 tutto si concretizza con la
Secessione di Berlino. Berlino inoltre è diventata capitale dopo l'unificazione della Germania, è una
città diventata un polo d'attrazione in grande fermento politico, sociale e culturale. Anche la Die
Brucke, il gruppo degli espressionisti tedeschi che si costituisce nel 1905 a Dresda, subito dopo si
sposta a Berlino. Tra gli artisti che fanno parte della secessione di Berlino c'è Max Liebermann,
Kathe Kollwitz, e Lovis Corinth. Le secessioni in realtà sono la manifestazione concreta di uno
spirito che sta investendo tutta l'Europa verso il gusto di una arte nuova, arte più moderna che vuole
investire tutti i campi di azione espressiva. Non per nulla in questo stesso periodo si vengono a
creare i fenomeni dell'Art Nouveau o del Liberty o dello Jugendstil che praticamente sono la stessa
cosa detta in tre lingue diverse.

Joseph Maria Olbrich, Palazzo della Secessione


Un’opera molto importante, simbolo di questo periodo caratterizzato dalle secessioni, è il Palazzo
della Secessione. Fu progettato e costruito tra il 1897-98 dall’allievo di Otto Wagner, Joseph Maria
Olbrich, su commissione degli artisti secessionisti, desiderosi di un luogo da destinare come sede
operativa e spazio espositivo ufficiale del gruppo, funzione a cui è adibito ancora oggi. Concepito
come tempio dell’arte moderna, il monumento divenne dal momento della sua inaugurazione (1898)
il simbolo dell’ “Opera d’arte totale”, ovvero l’unione tra le Arti: architettura, pittura, scultura,
poesia, musica e danza. Ospitò, oltre a quelle locali, diverse esposizioni di artisti moderni stranieri:
Rodin, Van Gogh, Gauguin, Toulouse-Lautrec, Denis, Redon, Segantini, Böcklin, Von Stuck,
Munch. L’attività espositiva proseguì nel tempo con la sola interruzione durante il Primo conflitto
mondiale, quando il Palazzo fu adibito a ospedale. Ancora, tra il 1937 al 1945 fu occupato dai
nazisti, i quali privilegiarono mostre di architettura, vietando l’esposizione agli artisti di origine
ebraica, fino all’incendio doloso nel Secondo conflitto mondale sempre a opera dei tedeschi.
Restaurato nel 1964, nel 1986 fu riallestito secondo gli attuali criteri museali.
GUSTAV KLIMT è il personaggio più vitale ed emblematico delle secessioni e in particolare di
quella viennese. La sua personalità comincia ad acquisire una importante caratteristica intorno al
1890, quando, oltre a proporre temi che riguardavano le secessioni, la sua pittura cominciò ad
avvicinarsi sempre più al clima simbolista europeo, venata di una forte connotazione erotica. Klimt,
utilizzando le innovazioni decorative dell'"Art Nouveau", movimento legato soprattutto alle arti
applicate, di cui divenne il più grande rappresentante nel campo della pittura, sviluppò uno stile
ricco e complesso ispirandosi spesso alla composizione dei mosaici bizantini, da egli studiati a
Ravenna. Klimt nei suoi primi lavori mostra una precisione di disegno e di esecuzione
assolutamente straordinarie.

Basa il proprio stile sulla linea, morbida e ondeggiante, combina astrazione, sintesi e decorazione
con grande armonia e naturalismo; abile paesaggista, fu ricercato soprattutto come ritrattista di
figure femminili della ricca borghesia industriale viennese che ritrasse con immagini eleganti e
languide, che rivelano un erotismo intenso e rispecchiano il temperamento appassionato dell’artista.
La donna di Klimt è sempre in sospeso fra la sacralità e la crudeltà, spesso presentata in posa
frontale come un’icona da rispettare o da temere, dispensatrice di felicità, come nel quadro Il bacio,
o causa di distruzione, come Giuditta I.

Il bacio, 1907-1908= è probabilmente il quadro più famoso di Gustav Klimt, ed uno di quelli che
meglio sintetizza la sua arte. In esso le figure presenti sono due: un uomo ed una donna
inginocchiati nell’atto di abbracciarsi. Un prato ricco di fiori colorati funge da indefinibile piano di
giacitura, mentre l’oro di fondo annulla l’effetto di profondità spaziale. Il quadro ha quindi un
aspetto decisamente bidimensionale. Delle due figure, le uniche parti realizzate in maniera
naturalistica sono i volti, le mani e le gambe della donna. Per il resto l’uomo e la donna sono
interamente coperte da vesti riccamente decorate. Quella dell’uomo è realizzata con forme
rettangolari erette in verticale, mentre la veste della donna è decorata con forme curve concentriche.
La differente geometria delle due vesti è espressione della differenza simbolica tra i due sessi.
Dell’uomo è visibile solo la nuca ed un parziale profilo molto scorciato. La donna ci mostra invece
l’intero viso, piegato su una giacitura orizzontale. Ha gli occhi chiusi ed un’espressione
decisamente estatica. È proprio il volto della donna che dà al quadro un aspetto di grande sensualità.
Nell’arte di Klimt la donna occupa un posto decisamente primario. Rinnovando il mito della
«femme fatale» per Klimt la donna è l’idea stessa di eros. Di quell’eros che è a tempo amore e
morte, salvezza e perdizione. In Klimt è lei la depositaria di quel gioco amoroso che rinnova
continuamente la vita e la bellezza. Anche nel quadro “Giuditta I” l’attenzione del pittore è rivolta
verso la figura femminile, incarnazione del male e simbolo della femme fatale che porta alla rovina
e alla morte il suo amante, secondo un luogo comune della letteratura tra il 1890 e i primi decenni
del ‘900. Inoltre altre opere da ricordare sono “Amore”, che rappresenta il passaggio di Klimt da
un’arte naturalistica e classicheggiante ad una di ispirazione più simbolica, che diverrà in seguito
tipica del suo stile, e “Faggeto”. All’interno di questo quadro, Klimt dimostra non soltanto di essere
pittore simbolista di soggetti femminili ed erotici, ma si dedica anche al paesaggio, pur se questa
sua produzione rimane spesso meno nota.

ART NOUVEAU
L'Art Nouveau (Arte Nuova, in francese), fu uno stile artistico, diffuso in Europa e negli Stati Uniti,
che interessò le arti figurative, l'architettura e le arti applicate, tra il 1890 e il primo decennio del
Novecento. Il movimento assume localmente nomi diversi, ma dal significato di fondo affine. L'Art
Nouveau aprì la strada al moderno design e all'architettura moderna; si avvicinò alla natura, di cui
studia gli elementi strutturali, traducendoli in una linea dinamica e ondulata. Semplici figure
sembravano prendere vita ed evolversi naturalmente in forme simili a piante o fiori. Gli artisti
dell'Art Nouveau, infatti, prediligevano la natura, modificandone gli elementi e ampliando tale
repertorio con l'aggiunta di alghe, fili d'erba, insetti. Un'altra importante fonte di ispirazione furono
le immagini orientali, soprattutto le stampe giapponesi. Altro fattore di grande importanza è che
l'Art Nouveau non rinnegò l'uso dei macchinari; infatti venivano usati e integrati nella creazione
dell'opera. In termini di materiali adoperati la fonte primaria furono certamente il vetro e il ferro
battuto, portando ad una vera e propria forma di scultura e architettura. L'Art Nouveau si configurò
come stile ad ampio raggio, che abbracciava i più disparati campi – architettura, design d'interni,
gioielleria, design di mobili e tessuti, utensili e oggettistica, illuminazione, arte funeraria, eccetera.
Oggi l'Art Nouveau è considerata precursore dei movimenti più innovativi del XX secolo, come
l'espressionismo, il cubismo, il surrealismo, l'Art Deco ed il successivo Movimento Moderno in
architettura (in Italia definito anche Razionalismo).
JOSEF HOFFMANN è tra i più famosi architetti e designer del periodo dell’Art Nouveau. Si unì a
Gustav Klimt, Josef Maria Olbrich e altri per creare la Secessione di Vienna nel 1897. Per la rivista
della Secessione, Ver Sacrum, edita fra il 1898 e il 1903, eseguì illustrazioni (in particolare, vari
progetti d'arredo per interni domestici, o per padiglioni espositivi), fregi decorativi e vignette. Si
occupò quindi degli allestimenti delle periodiche esposizioni viennesi della Secessione nel
padiglione realizzato per lo scopo nel 1898 da Joseph Maria Olbrich, Nel 1903 Hoffmann fondò col
collega Koloman Moser e il finanziere e amatore d'arte Fritz Wärndorfer, la Wiener Werkstätte,
associazione fra designers, artisti e produttori (chiusa nel 1932 ), ispirata alle analoghe inglesi sorte
circa un ventennio addietro. Il suo progetto più famoso è Palazzo Stoclet, costruito nei sobborghi di
Bruxelles: capolavoro di marca viennese in terra belga. Iniziato nel 1905, questo edificio era stato
commissionato da Stoclet, banchiere e collezionista d'arte. Hoffmann non ebbe alcuna limitazione
nei costi, perché l'intenzione del progetto era quella di creare un palazzo suburbano assolutamente
esclusivo per Adolphe e Suzanne Stoclet: uno spazio moderno per esporre rare collezioni d'arte e
dare speciali ricevimenti culturali. Gli elementi di rilievo, disposti in modo da ottenere un equilibrio
dinamico, sono il portico e la torre (sormontata da quattro statue e decorata alla tipica maniera
secessionista), che sarà fonte d'ispirazione per analoghe soluzioni Déco (ad esempio, nei grattacieli
americani). Notevole l'allestimento e la decorazione degli interni.
ANTONI GAUDI è uno degli architetti più originali e innovatori del Novecento. Uomo
profondamente devoto, Antonio Gaudì venne soprannominato già dai contemporanei "l'architetto di
Dio". Questo visionario architetto era uomo dal temperamento appassionato e dotato di una
intelligenza fuori dal comune. Lo stile di Gaudì rivela una stratificata assimilazione dei principali
stili che hanno caratterizzato l'architettura spagnola nei secoli passati, come il gotico, il barocco, lo
stile moresco e l’architettura marocchina. Ma questi influssi sono fusi con una fantasia travolgente
in un complesso autonomo, anzi, originale nella maniera più esuberante. La produzione artistica di
Gaudì è strettamente legata alla città di Barcellona. Barcellona godeva a quel tempo di una discreta
prosperità economica e in Catalogna convivevano il nuovo sviluppo industriale e un'antica
tradizione artigianale. Questa mescolanza tra innovazione e tradizione ha certamente stimolato la
creazione delle grandi opere di Gaudì.
Lo stesso artista ha avuto una formazione tradizionale, essendo figlio di un artigiano del rame e fin
da giovanissimo ha coltivato i suoi interessi per l'architettura. Gaudì fu anche un intellettuale, dedito
agli studi di filosofia e di estetica; colse l'insegnamento dei Preraffaelliti e gli ultimi influssi del
Romanticismo. Si appassionò alle antichità esotiche, considerò la natura come fonte di ispirazione
degli elementi strutturali oltre che decorativi, e fu particolarmente sensibile al valore dell'artigianato
e ai temi di carattere spirituale. Gaudì, riprendendo la tradizione costruttiva medievale, prendeva
parte ai lavori nel cantiere, creava e trasformava le sue opere durante la costruzione, collaborando
con le maestranze degli operai, e degli scultori. Oltre alla “Sagrada Familia”, tra le altre sue
meravigliose opere ricordiamo la Casa Vicens, il sobrio Collegio delle Teresiane, la Casa Batlló,
nonché il meraviglioso Parco Güell.
La Sagrada Familia, la cui costruzione iniziò nel 1882, è oggi uno dei tratti distintivi dell’identità
di Barcellona, riconosciuto in tutto il mondo e visitato da milioni di persone. La parte costruita da
Gaudí è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2005. Il progetto fu
inizialmente affidato a un altro architetto, Francesc de Paula Villar, ma Gaudí lo ereditò alla fine del
1883. Il suo nuovo progetto era molto più ambizioso di quello proposto dal suo predecessore; senza
dubbio il progetto più complesso e singolare di tutti quelli che Gaudí ha intrapreso nel corso della
sua carriera professionale e a cui ha dedicato ben 43 anni della sua vita. Antoni Gaudí, che voleva
creare il tempio perfetto, presenta la vita di Gesù e la storia della fede. Le 18 torri sono dedicate a
figure importanti della Bibbia, come rispecchiato nelle dimensioni: 12 di esse rappresentano gli
apostoli, 4 gli evangelisti, uno la Vergine Maria e la più alta di tutte Gesù Cristo, che sarà
sormontata da una croce che raggiungerà i 172 metri di altezza. Una volta completata, la Sagrada
Familia sarà l’edificio più alto di Barcellona e la chiesa più alta del mondo. Dal 1914 in poi, Antoni
Gaudí ha smesso di eseguire lavori civili e si è concentrato esclusivamente sulla costruzione di
questo tempio. Il 30 novembre 1925 fu completata la costruzione del primo campanile della facciata
della Natività. Ed è l’unico che Gaudí vide costruito, poiché il 10 giugno 1926 morì a causa di un
tragico incidente avvenuto tre giorni prima, quando fu investito da un tram. Infine, la facciata della
Natività fu completata nel 1930.
HECTOR GUIMARD è stato un architetto francese, esponente di spicco dell'Art Nouveau in
Francia. Nel panorama internazionale dell'architettura liberty, Guimard fu una figura singolare e
isolata: non ebbe alcun discepolo che continuasse la sua opera, né alcuna scuola. Per questo motivo
fu a lungo considerato un esponente secondario di questo movimento. Tale scarsa eredità contrasta
però con la grande varietà e fantasia della sua opera architettonica e decorativa. Una delle sue opere
più interessanti è il Castel Beranger (1894-97); si tratta di una residenza in appartamenti, molto
lussuosa. Lo stile art nouveau viene ripreso in alcuni elementi (si ritrova nella linea curva e sinuosa
del balcone), ma altri sono ripresi dal mondo medievale. Interessante l’uso del ferro, tipico dell'art
nouveavu, come accade nel cancello d'entrata, che si ripropone in tutto l'atrio. Più conosciute le
stazioni di metro di Parigi, da cui prende la denominazione stile Metrò, uno stile che verrà poi
riproposto solamente nella sua veste decorativa, senza però assumere le istanze spaziali di libertà.
Le stazioni sono in ferro e vetro, con elementi decorativi ripresi dal repertorio vegetale (come le ali
delle libellule); sono importanti anche per il fatto che furono realizzate utilizzando elementi
prefabbricati interscambiabili sempre in ferro e vetro. Nessun altro architetto francese dell'epoca
raggiunse la coerenza stilistica di Guimard, che si ritrova anche negli oggetti d'arte applicata da lui
disegnati, soprattutto nei bellissimi mobili dalla linea morbida e avvolgente. Fra le sue ultime opere,
la villa Guimard (demolita) a Vaucresson e la casa d'affitto in rue Greuze a Parigi (1928-29).

HENRY VAN DE VELDE è stato un architetto, pittore e progettista di mobili belga, esponente del
movimento Art Nouveau. Una delle figure di maggiore spicco che ha avuto un’influenza
determinante sull’architettura e il design dell’Europa del XX secolo. Fu tra i protagonisti della
ricerca di uno stile “moderno”, conforme alla mentalità e alla sensibilità del tempo. Era conosciuto
come il primo esponente dell’Art Nouveau a lavorare in uno stile astratto e che ha sviluppato il
concetto di unione di forma e funzione. La produzione artistica di van de Velde è molto vasta, va
dalle numerose opere architettoniche, agli arredi, alle ceramiche, ai metalli, ai gioielli e alle opere
pittoriche ed illustrative.
VICTOR HORTA è stato anch’egli un architetto belga, precursore dell'Art Nouveau. Horta ha
rivoluzionato il modo di concepire gli edifici di abitazione, allargando il compito dell'architetto
dalla progettazione degli spazi, interni ed esterni, a una concezione che comprendeva anche lo
studio e la realizzazione delle luci, degli arredi, della decorazione delle pareti, perfino
dell'oggettistica. Secondo la definizione di uno dei suoi ammiratori, l'architetto francese Hector
Guimard, Horta è stato un «architetto artista» che concepiva la casa come opera d'arte "totale".
Progettò numerosi edifici destinati a destare scalpore, quali: la Casa Tassel, Bruxelles 1893; la
Casa Solvay, Bruxelles 1895-1900; la Casa Horta, Bruxelles 1898. Viene giustamente considerato
l'architetto che per primo definì i canoni architettonici dell'Art Nouveau, attraverso il progetto della
casa Tassel. Infatti, è soprattutto nell'interno della casa Tassel, considerata come il primo edificio
promotore del nuovo stile, che Horta manifesta e dà rilievo alla nuova tendenza artistica; la
scalinata, che si sviluppa nell'ingresso della casa, non è modellata secondo forme classiche ma si
compone di agili colonnine di ferro che, come steli di una rigogliosa vegetazione, si protendono
verso l'alto in forme sinuose e ritorte. Il tutto in una incredibile armonia con gli affreschi delle pareti
e della volta e con i mosaici del pavimento. Tuttavia l'opera considerata il suo capolavoro è la
Maison du Peuple (1896-1899) a Bruxelles: l’edificio costruito per il partito operaio belga, distrutto
nel 1964 sempre per decisione del partito, doveva svolgere, in conformità allo spirito socialista
riformatore di fine secolo, tre principali funzioni: politico-sindacale, commerciale, ricreativa. In età
più avanzata, Horta tornò su posizioni più tradizionali, realizzando opere come il Palais des Beaux-
Arts a Bruxelles (1922-1928).
CHARLES RENNIE MACKINTOSH è stato un architetto, designer e pittore scozzese. Esponente
del cosiddetto Glasgow movement, fu l'esponente di maggior rilievo dell'Art Nouveau nel Regno
Unito. Nato a Glasgow, era particolarmente portato per il disegno e la progettazione. Egli fu
l’animatore e l’esponente più autorevole del gruppo conosciuto come “La Scuola di Glasgow” e si
distinse soprattutto per aver recuperato i valori più autentici del vernacolo scozzese e del gusto
neogotico. Il progetto che incrementò la sua reputazione internazionale fu quello della Glasgow
School of Art, inoltre va ricordata anche la Hill House di Helensburgh. Mackintosh disegnò inoltre
la maggior parte delle stanze interne, e dell'arredamento. Infine altri esponenti dell’Art Nouveau
furono Emile Gallè, vetraio e decoratore francese; realizzò numerosi oggetti in vetro e ceramica,
segnati anche da una certa influenza orientale, ed René Lalique, orafo e vetraio francese. Le sue
creazioni, raffiguranti soprattutto elementi naturali, animali e nudi femminili, si distinsero dapprima
nell'ambito dell'Art Nouveau e in seguito in quello dell'Art Déco. Applicò la propria creatività
soprattutto al vetro, dapprima nell'ambito dell'arte orafa e poi sempre più spesso a fini commerciali,
dedicandosi alla produzione degli articoli più diversi e applicando una grande varietà di tecniche.

ESPRESSIONISMO
Il movimento artistico e culturale dell’Espressionismo si sviluppò in Francia e in Germania intorno
ai primi anni del 900. Questa è una tendenza artistica che basa il proprio linguaggio sul modo di
sentire del soggetto, sulle sue emozioni e sui suoi stati d’animo, traducendoli in colori violenti e
forme spesso deformate, semplificate ed essenziali. In senso generale, il termine “Espressionismo”
viene utilizzato per definire qualsiasi forma d’arte che si disinteressa alla rappresentazione della
realtà esterna, ponendosi l’obiettivo di rappresentare il mondo soggettivo dell’artista. L’arte
espressionista non è più frutto dell’impressione che l’artista riceve dal mondo esterno, ma la
drammatica espressione del suo mondo interiore, la proiezione della sua tensione psicologica.
Mentre gli Impressionisti si soffermavano sulle sensazioni suscitate dal mondo esterno, l’artista
espressionista si sforzava di mostrare la propria interiorità, dando voce a sentimenti tormentati.
Nacque così una pittura caratterizzata da tratti irregolari e da forti contrasti di colore, una pittura che
aveva eletto come modelli espressivi il teso simbolismo di Munch e le libere ricerche cromatiche di
Van Gogh. Già nel passato alcuni artisti avevano forzato i termini dell’espressione per accentuare il
potere di comunicazione delle loro opere. Le prime idee dell'Espressionismo si affermarono
contemporaneamente in Francia e in Germania: a Parigi con il movimento “Fauves” (Belve) e a
Dresda con il movimento “Die Brücke” (Il Ponte).
EDVARD MUNCH è senz’altro il pittore che più di ogni altro anticipa l’espressionismo, soprattutto
in ambito tedesco e nord-europeo. Egli infatti esercitò una forte influenza sull’Espressionismo
tedesco, con il quale era stato in contatto diretto da quando il suo “Fregio della vita” (una sequenza
di dipinti sulle fasi della vita umana), esposto a Berlino nel 1892, aveva provocato uno scandalo tale
che la mostra era stata chiusa dopo appena otto giorni. Ciò aveva determinato, da parte degli artisti
locali che ne avevano difeso il valore, la costituzione della “Secessione di Berlino”, ossia di
un’associazione che voleva polemicamente separarsi dalla cultura ufficiale per avviarsi verso
un’arte nuova: un’arte che non copiasse il mondo esterno, ma sapesse riscoprire l’interiorità umana.
Fin dall’infanzia Munch si trova a dover convivere con le immagini della malattia, del dolore, della
morte. La madre del pittore era infatti gravemente malata di tubercolosi, e muore quando Edvard
aveva soltanto 5 anni: pochi anni dopo anche la sorella Sophie che si era occupata di lui in assenza
della madre, muore all’età di sedici anni. Ma la malattia non è per Munch solamente come un
evento che colpisce le persone che lo circondavano: varie infermità gli impediscono di frequentare
regolarmente l’accademia di disegno. Il dipingere, il disegnare, si rivelano cosi strumenti essenziali
efficaci per ricordare, per portare di nuovo in vita quei morti che hanno riempito la sua vita e per
permettergli di convivere con questi fantasmi, con l’angoscia e il dolore che essi gli procurano.
Centro dell’interesse di Munch è dunque l’uomo, il dramma del suo esistere, del suo essere solo di
fronte a tutto ciò che lo circonda. Nell’opera di Munch sono rintracciabili molti elementi della
cultura nordica di quegli anni, soprattutto letteraria e filosofica: dai drammi di Ibsen e Strindberg,
alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard e alla psicanali di Sigmund Freud. Da tutto ciò egli
ricava una visione della vita permeata dall’attesa angosciosa della morte. Nei suoi quadri vi è
sempre un elemento di inquietudine che rimanda all’incubo. L’opera più rappresentativa in questo
senso è “L’Urlo”.

L’Urlo, 1893, Oslo


L’opera, una delle più note dell’artista, è stata realizzata nel 1893 ed è custodita nella
Nasjionalgalleriet di Oslo. Munch prima scrisse, poi dipinse L’urlo. Il senso più profondo del
dipinto si trova infatti dentro l’artista stesso, in alcune pagine del suo diario: “Camminavo lungo la
strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi
fermai, mi appoggiai stanco morto ad una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano
sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… e
sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”. Si tratta quindi di un’opera fortemente
autobiografica; tuttavia il quadro ha un’indubbia capacità di trasmettere sensazioni universali. La
scena risulta ricca di riferimenti simbolici. L’uomo in primo piano esprime, nella solitudine della
sua individualità, il dramma collettivo dell’umanità intera. Il ponte, la cui prospettiva si perde
all’orizzonte, richiama i mille ostacoli che ognuno di noi deve superare nella propria esistenza,
mentre gli stessi amici che continuano a camminare tranquillamente, incuranti dello sgomento,
rappresentano con cruda disillusione la falsità dei rapporti umani. Come sempre in Munch la forma
perde qualsiasi residuo naturalistico, diventando preda delle angosce più profonde dell’artista.
L’uomo che leva il suo urlo terribile è un essere serpentinato, quasi senza scheletro: al posto della
testa vi è un enorme cranio senza capelli, le narici sono ridotte a due fori, gli occhi sbarrati
sembrano aver visto qualcosa di abominevole, le labbra nere rimandano a loro volta alla morte.
L’ovale della bocca è il vero centro compositivo del quadro. Da esso le onde sonore del grido
mettono in movimento tutto il quadro: agitano sia il corpo dell’uomo sia le onde che definiscono il
paesaggio e il cielo. Questo uomo con il suo urlo disperato sembra piegare la natura attorno a sé, ad
eccezione dei due amici che passeggiano indifferenti. L’urlo di chi si è perso dentro sé stesso e si
sente solo, inutile e disperato anche e soprattutto fra gli altri. I colori fortemente contrastanti e le
linee che si creano con la loro stesura giocano un ruolo fondamentale nell’opera. I colori violenti
sono stesi in lunghe pennellate senza alcuna intenzione estetica. I colori sono irreali e non
rispettano, se non parzialmente, i colori locali delle zone del paesaggio. Forse, è l’acqua l’unica ad
essere rispettata, se pur nel suo blu forte e profondo. Il ponte, in legno, è marrone ma di un marrone
molto saturo che riflette il cielo. Questo, infatti, è rappresentato con linee curve e disorientanti di
colore arancio e ocra. Qualche spiraglio di azzurro si intravede tra questi due colori che,
probabilmente, rappresentano le nubi. L’opera simbolo di tutta la produzione artistica di Munch
non rappresenta un momento espressivo isolato. L’urlo fa infatti parte di una grandiosa narrazione
ciclica intitolata Il fregio della vita (1893-1918) e composta da numerose tele, a loro volta suddivise
in quattro grandi temi con forti risvolti psicologici: -La nascita dell’amore- La fioritura e la
dissoluzione dell’amore -La paura di vivere -La morte
L’artista ha realizzato più versioni dell’opera. Oltre a quella appena analizzata, conosciamo almeno
altre due versioni a tempera e una a stampa litografica. La prima versione a tempera che andiamo a
vedere è datata sempre 1893 e si trova al Munch Museet. Alcuni l’hanno interpretata come un
bozzetto, ma molto più probabilmente è una variazione sul tema. La semplificazione dei colori,
ridotti essenzialmente ad un blu carico e intenso e, per quanto riguarda il cielo, a qualche pennellata
di azzurro, giallo e bruno-rossiccio, tende ad un’ulteriore drammatizzazione della scena, tesa ad
evidenziare l’indifferenza dei due amici sullo sfondo. La seconda versione a tempera del L’urlo ha
una storia piuttosto tormentata: è stata infatti rubata per ben due volte, e fortunatamente anche
ritrovata. Oggi si trova anch’essa al Munch Museet. In seguito ai profondi interventi di restauro
necessari in seguito ai due furti, è stata autorevolmente proposta una datazione molto più tarda
rispetto a quella delle altre versioni: il 1910. Questo in considerazione di un’attenta analisi dei
pigmenti dei colori utilizzati e del tipo di pennellata, più denso e pastoso. L’ultima versione di
nostra conoscenza è la versione a stampa, datata 1895. Consiste in una litografia in nero su carta
avorio che riprende in modo schematico tutti gli elementi caratteristici della scena.
La trasposizione grafica in bianco e nero rende la narrazione ancora più cruda e incalzante. Quelle
che prima erano pennellate di colore, ora sono tratteggi, a volte fitti, altre radi. In particolar modo il
cielo sembra sommerso di nubi, piuttosto che infuocato dal tramonto. Infine, uno dei due uomini,
guardando oltre il pontile, va a contrapporre la propria serenità all’angoscia di Munch.
Disperazione, 1893-94, Munch Museet, Oslo
Con Disperazione, Munch declina il tema della Paura di vivere in modo meno universale e più
personale. La scenografia è sempre quella dell’Urlo, quel che cambia è il soggetto in primo piano.
Infatti non si tratta più di una figura con le sembianze di una mummia e simbolo di un disagio
esistenziale cosmico, ma bensì di un uomo in carne ed ossa. Un uomo mesto, con lo sguardo basso,
la testa insaccata tra le spalle, che sente su di sé tutta la propria schiacciante inadeguatezza rispetto
alla vita e alle prove che quest’ultima gli sottopone.
Angoscia, 1894, Munch Museet, Oslo
Anche questo quadro appartiene al tema della Paura di vivere. In questo caso Munch va ad unire lo
sfondo dell’Urlo con un gruppo di inquietanti personaggi molto simili a quelli già rappresentati in
Sera sul viale Karl Johann. In questo dipinto il tema dell’angoscia torna ad essere un problema
collettivo, anche se ciascuno lo vive nella solitudine della propria intimità. I passanti sembrano
fantasmi senza espressione e senza sentimenti. L’angoscia che non riescono ne a comunicare ne a
condividere, li rende apparentemente privi di qualsiasi interiorità. È proprio in questo che consiste il
loro dolore e la loro condanna: non riuscire a comunicare.
Sera sulla via Karl Johan, 1892, museo d'arte di Bergen.
La passeggiata lungo un viale cittadino di Oslo è occasione per Munch di mostrare cosa egli pensa
dei cittadini borghesi in genere: un’umanità spiritualmente vuota che come zombi vive senza
realmente vivere. Il quadro ha un’atmosfera anche gradevole, con i suoi toni saturi che rendono
efficacemente la suggestione dell’ora serale, e ciò crea un contrasto ancora più stridente con
l’immagine cadaverica dei passanti che, più che passeggiare, sembra stiano seguendo un funerale.

Pubertà, 1893, Munch Museet, Oslo


Il soggetto del dipinto, un criticatissimo olio su tela del 1893, è un’adolescente nuda, seduta di
traverso su un letto appena rifatto, simbolo di una verginità ancora intatta. Il corpo della ragazzina,
definito da una linea di contorno decisa, risulta ancora sessualmente acerbo: ai fianchi ormai da
donna, contrastano le spalle ancora infantili e i seni appena abbozzati. Lo sguardo è fisso, quasi
sbigottito, mentre le braccia si incrociano, in un gesto quasi istintivo di vergogna. Negli occhi della
giovane si riconosce il rimpianto per la fanciullezza quasi perduta e la contemporanea angoscia per
una maturità alla quale non ci si sente pronti. Questo senso di angoscia opprimente, sperimentato da
ogni adolescente, viene raffigurato dall’ombra cupa e informe che viene proiettata sul muro,
un’ombra inquietante e quasi indipendente dal soggetto che la genera. Si tratta infatti dell’ombra
delle incognite future, delle sofferenze a cui l’amore e la sessualità inevitabilmente condurranno; in
prospettiva è l’ombra stessa della morte, l’ombra che ha accompagnato l’artista per tutta la sua
tormentata esistenza.
JAMES ENSOR è stato un pittore, disegnatore, incisore e caricaturista di altissimo livello che ha
anticipato il movimento espressionista, e la sua visione ha influenzato profondamente gli artisti che
l’hanno succeduto. Ensor viene associato soprattutto al grottesco, alle sue maschere deformi, ai
colori che fanno a pugni l’uno con l’altro e creano un senso di disagio nello spettatore. Sicuramente
questi sono stati alcuni dei punti più alti e originali della sua carriera, ma Ensor non è soltanto volti
deformi ed espressioni raccapriccianti: Ensor è stato anche un artista di grande talento accademico,
che ha lavorato prima sul tradizionale per poi spostarsi e trovare la propria strada. Inizia il proprio
percorso artistico da giovanissimo, quando il padre nota la sua prepensione per il disegno e lo
spinge a coltivarla. Frequenta l’Accademia di Ostenda e poi l’Accademia Reale di Belle Arti di
Bruxelles, ambienti nei quali si fa già riconoscere per il suo carattere esuberante e mai intimorito
dalle autorità. Già in questa prima fase l’artista realizza opere come l’Autoritratto con cappello
fiorito, del 1883, in cui l’impostazione e i colori dell’opera, e la posa del ritrattato rispondono ai
canoni della grande tradizione fiamminga, ma l’aggiunta del cappellino colorato, accessorio
dichiaratamente femminile, sorprende l’occhio dello spettatore. Tuttavia le opere di questi primi
anni sono molto scure, tanto che si può riconoscere un vero e proprio “periodo scuro”. Per quanto
riguarda i soggetti e i motivi, Ensor si rifà inizialmente alla tradizione della propria terra e guarda
molto agli impressionisti che tanto andavano di moda: dipinge salotti, nature morte, scene di vita
quotidiana borghese. Ma è la luce che svolta tutto nelle sue tele: è sempre molto scura, ogni scena
risulta tetra e quasi opprimente. I salottini borghesi non sembrano luoghi di gioia e spensieratezza,
ma stanze piccole e scure, dove gli avventori si rifugiano, tristi e abbattuti. Ensor è attratto dalla
luce in modo completamente diverso rispetto ai colleghi impressionisti.
Se Monet e gli altri la utilizzano per scomporre il soggetto in tacche di colore, dunque come
strumento e protagonista, Ensor invece la sfrutta come mezzo per alterare le forme reali in forme
nuove, che scaturiscono direttamente dalla sua interiorità. Inoltre, utilizza la luce in chiave
simbolica ed espressionista, per far sì che i suoi soggetti possano esprimersi tramite essa. Dopo il
primo “periodo scuro” durato fino al 1885 circa, Ensor comincia a modificare il proprio stile e i
propri soggetti, arrivando, verso il 1887, alla realizzazione di quelle opere che oggi lo rappresentano
meglio. Si allontana sempre più dal naturalismo e dalla visione del reale, puntando piuttosto verso
una rielaborazione della realtà, in chiave ironica, grottesca, e usando l’arte come strumento di
commento o critica politica e sociale. Nel 1887 inoltre, ritrae per la prima volta gli scheletri e le
maschere carnevalesche, entrambi soggetti chiave della sua produzione matura. Le maschere
compaiono per la prima volta nella tela Le maschere scandalizzate, nel 1883 (Bruxelles, Museo
d'Arte Moderna): Ensor utilizza la maschera come sostituto della figura umana. La maschera è una
e una soltanto e non può cambiare aspetto, nasce con quell’espressione e così morirà, non può
mentire. In questo modo viene utilizzata per rappresentare tutte quelle emozioni umane considerate
scomode dalla società. Tutto quello che l’uomo nasconde, la maschera rivela, sincera e priva di
censure. A tal proposito, il rapporto di Ensor con il pubblico –ma anche con i colleghi- è sempre
stato difficile, quasi impossibile. Difficilmente l’artista veniva compreso e questo gli è sempre
pesato molto. Il pubblico cercava qualcosa di semplice, poco polemico, mentre Ensor infarciva le
proprie opere di idee, opinioni scomode e soggetti sconvolgenti. Una volta comparsa la maschera,
Ensor sembra non riuscire più a farne a meno. Spesso si ritrae circondato da mille esemplari,
attorniato da volti colorati che vestono espressioni sguainate, mentre lui guarda lo spettatore con
espressione mesta.
Del 1888 è la sua tela più celebre, L’entrata di Cristo a Bruxelles (Getty Museum, Los Angeles), il
grande capolavoro dell’artista. Una grande scena di massa dall'imponenza barocca, enfaticamente
celebrativa se non fosse per l'ironica decontestualizzazione dell'evento-tema, il Cristo che entra in
città acclamato dalla folla. La trasposizione temporale colloca il fatto all'epoca moderna, in una città
brulicante di folla, alla presenza di una banda di militari in divisa, in mezzo ad una eterogenea
moltitudine di figure-fantoccio mascherate, pupazzi inespressivi gelidamente ed ambiguamente
sorridenti, mentre gli striscioni con le scritte ed i cartelli colorati conferiscono all'insieme
l'atmosfera di una moderna manifestazione di piazza.
Al centro della grande tela, la figura del Cristo avanza cavalcando un asino, il capo circondato da
una anacronistica aureola, poco divinamente sommerso da una folla chiassosa, cosicchè, privato di
ogni carisma, frustrato da una folla beffarda e irridente, seppellito dal grottesco corteo, il simbolo
della fede cristiana perde ogni valore ideologico per divenire pretesto di una critica della società
moderna ridotta ad una congrega di fantocci urlanti e indifferenti, personaggi caricaturali
volutamente volgari. Il disegno è intenzionalmente grossolano, con deformazioni di stampo
espressionista, mentre il colore anticipa la corrente fauve.

I Fauves
Nel 1905 a Parigi alcuni giovani pittori esposero le loro opere nelle quali, ignorando le regole della
prospettiva, utilizzavano il colore con grande originalità creativa. A osservare i dipinti di Matisse,
Derain, Braque e altri, in quell’occasione c’era anche il critico Vauxcelles, che assegnò a questi
autori l’appellativo di belve per i colori accesi e violenti, per il rifiuto delle convenzioni
prospettiche e del chiaroscuro. Da quel giorno quegli artisti furono definiti fauves. Gli artisti che
fanno parte di questa corrente, sviluppatasi dal 1898, abbandonano, infatti, i toni dolci e sfumati
degli impressionisti preferendo le linee di contorni marcati e i colori puri e intensi impiegati dai
Postimpressionisti, con i quali vogliono esprimere simbolicamente i sentimenti che provano di
fronte alla realtà. Le loro figure, caratterizzate da un segno aggressivo, si riducono a contorni
semplici e a superfici deformate, riempite da colori innaturali, spesso accostati in modo
imprevedibile e sfruttati in tutte le loro potenzialità espressive. I fauves non avevano un programma,
non arrivarono mai alla stesura di un manifesto esplicativo. Nei dipinti dei Fauves sono assenti le
gradazioni di colore e le sfumature, come pure gli effetti di chiaroscuro e di volume; i temi
rappresentati esprimono l’ottimismo della Parigi d’inizio secolo. I soggetti dei fauves sono quelli
impressionisti ma molto lontano dalle armonie cromatiche di Manet o di Monet. Nel 1907 i Fauves
attraversarono un momento di crisi e l’anno successivo il gruppo si sciolse definitivamente: ogni
artista continuò su una propria strada personale.
HENRI MATISSE, esponente più importante dei Fauves, si ritiene tra i grandi innovatori del
linguaggio della pittura. A ventun’anni, durante una malattia dovuta a un fisico debole che lo
obbligava a lunghe soste, incominciò improvvisamente a disegnare; diventò poi il perno attorno al
quale ruotavano le cosiddette «belve selvagge». I suoi quadri sono tutti risolti sul piano della
bidimensionalità, sacrificando al colore sia la tridimensionalità, sia la definizione dei dettagli. L’uso
del colore in Matisse è quanto di più intenso è vivace si sia mai visto in pittura. Usa colori primari
stesi con forza e senza alcuna stemperatura tonale. Ad essi accosta i colori complementari con
l’evidente intento di rafforzarne il contrasto. I temi sono umili: Matisse si interessa solo a
dimensioni quotidiane, a vedute e ritratti. L’intera narrazione ci trasporta in altri tempi, fuori dalla
storia e ci fa sperimentare la “gioia di vivere” e la felicità della pittura. Sono molti i suoi capolavori.

Donna con cappello è un dipinto realizzato nel 1905 e conservato a San Francisco presso il
Museum of Modern Art. L'opera è un ritratto della moglie dell'artista, rappresentata mentre si volge
verso lo spettatore. Gli abiti alla moda e soprattutto il monumentale cappello, ornato da frutti e fiori,
offrono lo spunto per una composizione basata sull'espressività del colore. I colori sono posti sulla
tela in maniera violenta, e quasi sporca. Non vi è alcuna preoccupazione estetica per l’effetto di
poca raffinatezza della stesura a pennellate grosse e sovrapposte, e ciò ovviamente suscitò critiche
non benevole. Ma l’energia che il quadro trasmette è sicuramente inedita. L’immagine ha una forza
espressiva che si può ritrovare solo nelle opere di Van Gogh o Gauguin. Da notare le pennellate
verdi sul volto della donna: sono colori decisamente antinaturalistici, ma che danno forza al volume
del volto senza ricorrere a costruzioni chiaroscurali. Inoltre accosta le macchie di colore in base alla
loro specifica funzione luminosa, fa emergere le masse illuminate con i colori più caldi e chiari,
come le gote gialle e arancio, mentre inserisce le ombre e i piani retrostanti utilizzando i colori
freddi. La grande energia del dipinto è infatti il risultato di una costruzione tutta impostata sul
bilanciamento dei colori complementari: i gialli si accostano ai viola, i rossi ai verdi, i blu ai toni
arancio. Gli occhi, il naso, i tratti del viso e dell'abito si traducono in arabeschi e macchie colorate.
Per dare 'respiro' alle zone di colore così saturo, Matisse lascia dei margini e dei piccoli spazi di tela
non dipinti, in questo modo ogni campo cromatico appare in espansione, ed evita l'effetto di
eccessivo affollamento visivo. Anche le pennellate, apparentemente casuali, sono direzionate
secondo i movimenti delle masse cromatiche che sembrano aggregarsi e muoversi dall'esterno, dove
sono più leggere e trasparenti, verso il centro del quadro, dove invece sembrano concentrarsi e
aumentare di densità. Vi è approssimazione e deformazione dei lineamenti; infatti sono appena
accentuati.

La finestra aperta a Collioure (1905, Washington, National Gallery of Art) è un altro importante
quadro di Matisse. Sul davanzale di una finestra spalancata sul porto, sono appoggiati alcuni vasi di
fiori. Gli infissi si aprono verso l’interno e lasciano filtrare l’atmosfera del mare. Il paesaggio
marino è quello della località di Collioure dove Henri Matisse e André Derain, nell’estate del 1905,
si trovarono per sperimentare un nuovo modo di dipingere. La facciata esterna della casa è ricoperta
da un rampicante che invade anche una parte del balconcino. In basso, sull’acqua, sono ancorate
alcune piccole imbarcazioni, con le vele ripiegate, che ondeggiano tra le onde. Verso l’orizzonte si
sviluppa il mare e, poi, il cielo. I colori sono utilizzati in modo antinaturalistico, arbitrario.
Nonostante ciò, il verde scuro utilizzato da Matisse, per indicare l’ombra della stanza, crea un utile
contrasto per evidenziare la luce esterna. Anche il rosa scuro, a destra permette di rappresentare i
riflessi esterni che si proiettano, comunque, nella parete interna e scura. A partire dalle imposte in
arancione chiaro, passando attraverso i verdi brillanti del rampicante e i colori saturi dei vasi si
arriva, infine, al paesaggio marino con barche e cielo dipinti di colori chiari e vivi. Questa
progressione luminosa permette anche di creare la profondità. I contrasti, quindi, rappresentano la
sintassi del linguaggio cromatico di Matisse, rappresentata dal dialogo fra complementari, il verde e
il rosso, l’arancio e il blu. I colori rimangono una scelta antinaturalistica sebbene i loro rapporti
contribuiscono alla lettura reale della profondità. La prospettiva geometrica è deformata;
contribuisce comunque alla descrizione dello spazio occupato dalle imposte spalancate.
L’inquadratura del dipinto La finestra aperta, crea un particolare gioco di cornici in successione
che si ripete nell’apertura della finestra e nel rettangolo del balconcino. L’effetto è quello di un
quadro dipinto nel quadro.
La gioia di vivere è un dipinto del 1906; l’opera è conservata a Merion, presso the Barnes
Foundation. Rappresenta un vero e proprio sconvolgimento del pensiero pessimista che
accompagnava numerosi artisti del tempo. Così come suggerisce il nome del famoso dipinto, La
gioia di vivere, è un nuovo modo, non più negativo, di guardare ed osservare l’esistenza. Lo stesso
Matisse, durante la propria esistenza, cercò di raggiungere una condizione di piena felicità e gioia,
fondamentali a qualsiasi essere umano, per vivere bene la propria vita. Dunque, proprio
quest’ottimismo, questa voglia di positività, si legge nelle opere del pittore, il quale mescola colori
allegri e strutture semplici, che contribuiscono a creare un dinamismo che va oltre il semplice
sguardo complessivo. L’opera rappresenta dei nudi femminili dipinti a macchie, senza rispettare i
colori naturalistici. Nel dipinto Henri Matisse ripropone il tema di Cèzanne delle bagnanti,
elaborandolo secondo la propria visione personale, posizionandole in uno scenario innocente, dalle
sembianze paradisiache, all’interno del quale l’umanità gioiosa si muove, danzando gioiosamente.
All’interno del dipinto, uno dei fattori da sottolineare, è l’uso di colori piuttosto innaturali; infatti, si
può notare a tal proposito, l’uso del colore rosa, sia per raffigurare un albero, sia alcune parti del
corpo umano, per sottolineare una sorta di fusione uomo-natura. I critici d’arte, suppongono che
l’utilizzo “sbagliato” dei colori, sia in realtà il modo, attraverso il quale Matisse, invitava chi
osserva, a guardare il bello attraverso la semplicità, senza lasciarsi schiacciare da dinamiche
predefinite, dalla quotidianità. La gioia di vivere, rappresenta un’immagine mitica del mondo come
vorremmo che fosse, dove non esistono differenze tra mondo naturale e umano, e tutto è armonico.
Uomo e natura si fondono in una sorta di ritorno al primitivo. Sullo sfondo, Matisse, propone il
ritmico motivo del girotondo, immagine dinamica della visione propria dell’artista. Le figure,
immerse in una sorta di vortice, sembrano quasi elevarsi al cielo. I colori, il dinamismo, quelle
figure, esprimono gioia e sinuosità al tempo stesso, caratteristiche proprie dell’identità artistica del
pittore. La gioia attraverso la semplicità, La gioia di vivere, dunque, non è unicamente il nome di
un’importante dipinto, uno dei più celebri al mondo, ma è una vera e propria formula esistenziale,
che Matisse riprodusse attraverso la propria arte.
Armonia in rosso, è un altro importante dipinto di Matisse, datato 1908, conservato a San
Pietroburgo, nel museo dell’Hermitage. Quadro tra i più famosi di Matisse, «La stanza rossa» è
un’immagine vivace ed intensa che porta alle estreme conseguenze la forza del colore del dipinto.
La quantità di rosso nella scena, presente oltre che sulla tovaglia anche sulle pareti della stanza, crea
la sensazione di interno in maniera astratta ma molto suggestiva. Il rosso, infatti, è disposto in
maniera talmente piatta ed uniforme da non consentire una facile identificazione dei piani
orizzontali e dei piani verticali. Tuttavia crea una sensazione di luce interna molto diffusa e serena.
Così come sereno appare l’unico rettangolo non rosso di questa tela: la finestra che si apre su uno
scorcio di paesaggio consente la vista di verdi, bianchi, azzurri e gialli che danno la sensazione di
una natura calma e tranquilla. Anche l’azione raccontata all’interno della stanza, una cameriera che
sta tranquillamente disponendo su una tavola frutta, pane e bevande, trasmette un senso di grande
pace e serenità. L’immagine, nel suo complesso, appare quindi come una rappresentazione astratta e
simbolica nello stile ma perfettamente aderente alle sensazioni che la situazione in essere
universalmente trasmette. Nell’opera prevale il colore rosso che accostato agli altri colori puri giallo
e blu, brilla e spicca sulla superficie del quadro. L’unico colore secondario che compare è il verde
che rappresenta una porzione di paesaggio del piccolo dipinto. Il contrasto tra complementari è
quindi riservato al dipinto che assume una maggiore profondità proprio grazie alle tonalità
secondarie. Una delle cornici del dipinto, quella verticale è color arancione, complementare
dell’azzurro. Altro importante contrasto di complementari è dato dal rosso della parete contro il
verde del paesaggio. “Armonia in rosso” non presenta alcun chiaroscuro necessario per creare
ombre volumetriche. La luce, infatti, sembra non esistere in questo dipinto. La profondità è quasi
assente e viene suggerita solamente dalla sedia impagliata, ritratta parzialmente sulla sinistra
nell’angolo in basso.
La Danza è il nome di due dipinti di Henri Matisse. La prima versione, risalente al 1909, è
conservata al Museum of Modern Art di New York, mentre l'altra, del 1910, è situata al Museo
dell'Ermitage di San Pietroburgo. Sergej Ščukin commissionò “La danza” a Henri Matisse nel
1909. Ščukin era un mercante e collezionista russo che chiese a Matisse di dipingere due grandi
tele. I due lavori dovevano rappresentare la danza e la musica. Vennero immediatamente
stigmatizzati dal pubblico per la violenza dei colori e il modo in cui questi erano stesi,
frettolosamente sulla tela. Anche la composizione della danza non riscosse immediatamente
successo; l’eccessiva semplificazione della composizione non fu considerata di qualità. Questo
quadro di Matisse, tra i più famosi della sua produzione espressionistica, sintetizza tuttavia, in
maniera esemplare, la sua poetica e il suo stile. Il quadro trasmette una suggestione immediata. Il
senso della danza, che unisce in girotondo cinque persone, è qui sintetizzato con pochi tratti e con
appena tre colori. Ne risulta una immagine quasi simbolica che può essere suscettibile di più letture
ed interpretazioni. Il verde che occupa la parte inferiore del quadro simboleggia la Terra. Segue la
curvatura del nostro mondo e sembra fatto di materiale elastico: il piede di uno dei danzatori
imprime alla curvatura una deformazione dovuta al suo peso. Il blu nella parte superiore è
ovviamente il cielo. Ma si tratta di un blu così denso e carico che non rappresenta la nostra
atmosfera terrestre bensì uno spazio siderale più ampio e vasto da contenere tutto l’universo. E sul
confine tra terra e cielo, o tra mondo ed universo, stanno compiendo la loro danza le cinque figure.
Le loro braccia sono tese nello slancio di tenere chiuso un cerchio che sta per aprirsi tra le due
figure poste in basso a sinistra. Una delle figure è infatti tutta protesa in avanti per afferrare la mano
dell’uomo, mentre quest’ultimo ha una torsione del busto per allungare la propria mano alla donna.
La loro danza può essere vista come allegoria della vita umana, fatta di un movimento continuo in
cui la tensione è sempre tesa all’unione con gli altri. E tutto ciò avviene sul confine del mondo, in
quello spazio precario tra l’essere e il non essere. Il vortice circolare in cui sono trascinati ha sia i
caratteri gioiosi della vita in movimento, sia il senso angoscioso della necessità di dovere per forza
danzare senza sosta. In questo quadro Matisse giunge ad una sintesi totale tra contenuto e forma,
riuscendo ad esprimere alcune delle profonde verità che regolano, non solo la vita dell’uomo, ma
dell’intero universo.
Infine da ricordare è un’altra opera; “Icaro, Illustrazione per jazz”.
Matisse dipinse Icaro in un cielo stellato, mentre abbraccia il blu dell’ignoto e tenta di toccare le
stelle con la punta delle dita. Come mai decide di dipingere proprio questa scena? Quell’abbraccio
sembra, per l’osservatore, rivolto tutto all’ignoto e al cielo, quasi una tensione e uno slancio verso
l’infinito. Non è un caso che la raccolta di cui fa parte si chiami “Jazz ” (Jazz è un libro d'artista del
pittore Matisse contenente XX tavole e scritto a pennello, per un totale di circa 150 pagine): Matisse
amava la musica e nella musica c’è un legame costante con l’infinito. Lo realizzò quando fu
chiamato ad esprimere qualcosa sul jazz, attraverso una tecnica particolare di decoupage – la
papiers decoupès; una tecnica che si esegue attraverso carte colorate, che hanno permesso
all’artista, ormai piuttosto vecchio e praticamente invalido, di disegnare direttamente nel colore. Un
qualcosa di insolito, questa, del pittore francese, eppure profonda. Perfetta commistione di musica,
pittura e retaggi di letteratura. Matisse opera una rivoluzione iconografica. Infatti, viene
improvvisamente escluso il sole, da sempre considerato elemento di vita, eppure triste dispensatore
di morte per Icaro. Il cielo notturno in cui vola è invece sicuro, abitato dalle stelle che diventano sue
compagne di un viaggio a metà strada fra l’oltre vita e la ricerca di verità. Un viaggio della mente e
del cuore, per questo infatti l’artista lo rappresenta volutamente senza le ali. Così Icaro può
diventare simbolo e figura dell’uomo stesso: un uomo che paga i suoi errori; un uomo nella sua
continua tensione verso l’infinito.
Un altro esponente dei Fauves da ricordare è ANDRE’ DERAIN.
André Derain, rispetto ad altri esponenti del movimento, rivela un’arte più serena, luminosa e
composta. La sua produzione decisamente vasta è contraddistinta da un naturalismo riconducibile al
Caravaggio. I vividi colori mediterranei, la luce “che sopprime le ombre”, stregano André, il quale
lavora come un forsennato, una tela dopo l’altra. “I colori diventavano cartucce di dinamite.
Dovevano far esplodere la luce” commenterà negli anni della maturità. Dopo un breve periodo di
vicinanza a Paul Gauguin (durante il quale si verifica una diminuzione della vivacità dei colori),
Derain ha l’occasione di avvicinare Pablo Picasso (ma si tiene lontano dalle tecniche fin troppo
audaci del Cubismo), per poi ritornare al chiaroscuro e alla prospettiva, decisamente più
tradizionali. Sulla scia di numerosi altri artisti europei del suo periodo è dunque protagonista di un
ritorno all’ordine e alle forme classiche. Lo stile di Derain è fortemente influenzato, agli inizi del
Novecento, dal Neoimpressionismo, in particolare dalle opere di Paul Cézanne e Vincent van Gogh.
Rispetto agli altri pittori fauve, Matisse e Vlaminck, Derain è più misurato, più luminoso, più
sereno. Semplifica la figura in modo meno antinaturalistico. Essendo più ragionato, tuttavia, non si
distacca dall’estetica fauve: i colori caldi e freddi sono accostati in modo molto contrastante, stesi
con pennellate larghe, pastose e libere. Tra le sue opere più importanti vanno ricordate “Il ponte di
Waterloo” (1906, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid), e “Donna in camicia” (1906, Statens
Museum for Kunst, Copenaghen).

Die Brücke
Il movimento Die Brücke, in italiano il ponte, nacque nel 1905 dal lavoro di quattro studenti di
architettura, arrivati alla pittura come autodidatti, nella Technische Hochschule di Dresda. Alla
pittura si dedicarono poi solo tre di essi: Ernest Ludwig Kirchner (1880-1938), Erich Heckel (1883-
1970) e Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976). Al nucleo originario si unirono presto Emil Nolde
(1867-1956), Max Pechstein (1881-1955), Otto Mueller (1874-1930) e altri artisti minori. Vennero
poi invitati amici e collezionisti a svolgere perlopiù il ruolo di membri “passivi” del gruppo, non
svolgendo cioè attività di creazione artistica. Si tratta quindi di un gruppo di artisti espressionisti
tedeschi il cui nome intendeva esprimere la fede dei suoi membri nell’arte del futuro, verso la quale
le loro opere costituivano un ponte. Il nome Die Brücke abbiamo visto che tradotto significa proprio
ponte. I loro soggetti consistevano principalmente in paesaggi e composizioni di figure, soprattutto
nudi all’aperto. Lo stile pittorico con cui erano trattati era molto carico, si serviva di colori forti e
spesso non naturalistici e di forme semplificate, energiche e spigolose. C’è un senso di ansia e
inquietudine che traspare nelle opere di questi pittori che spesso erano quasi privi di una formazione
pittorica accademica e professionale. Furono influenzati non solo dall’arte tardo-medievale tedesca,
ma anche dall’arte dei popoli primitivi. Ottennero presto i primi riconoscimenti, ma iniziarono a
perdere l’identità di gruppo mano mano che gli stili individuali si facevano più evidenti. Il gruppo
prese vita a Dresda, ma coinvolse un po’ tutta la Germania. Dal 1911 tutti i membri del Brücke si
spostarono a Berlino, centro di maggiore vivacità culturale. Esposero presso Herwarth Walden,
nella galleria Der Sturm, che doveva ben presto imporre universalmente il termine
“espressionismo”. Die Brücke rappresentò in effetti il cuore originario dell’espressionismo tedesco.
Il nome fu idea di Kirchner e Schmidt-Rottluff e voleva mettere in evidenza gli obiettivi del gruppo.
Gli scopi di questi artisti furono forse sempre un po’ vaghi, ma inizialmente il loro intento fu quello
di rompere con le aride convenzioni della borghesia e creare uno stile pittorico radicalmente nuovo,
più in sintonia con la vita moderna. Gli artisti del Die Brücke si discostavano dai Fauves francesi,
anch’essi espressionisti, per i soggetti e la tecnica artistica. I temi principali affrontati da questi
pittori furono molti. La vita nella metropoli, l’erotismo, la violenza militare. L’emozione e la fede
religiosa, l’angoscia psicologica causata dal disagio sociale. La xilografia diventò una delle tecniche
predilette al gruppo, perché particolarmente adatta nella resa dei forti contrasti cromatici e dei tratti
deformati tipici dell’arte di questi pittori. Per divulgare le idee del gruppo ed entrare in stretto
contatto con il grande pubblico, vennero creati dei giornali e delle riviste. Tra i più famosi Der
Sturm (1909), Die Action (1911) e Relovution (1913) che avranno il compito di far conoscere gli
artisti a livello nazionale. Nel 1913 l’avventura del gruppo terminò a causa delle divergenze
artistiche nate tra i componenti soprattutto dopo il trasferimento di Kirchner a Berlino nel 1911. I
singoli artisti erano ormai indipendenti e i vincoli dell’attività del gruppo non erano più sopportabili
perché visti come ostacoli alle espressività maturate individualmente. Ad ogni modo la miccia era
già stata accesa e il gruppo aveva già dato un forte impulso all’espressionismo in Germania. Un
passo inarrestabile verso la modernità.
Artista inquieto e complesso, ERNST LUDWIG KIRCHNER ha un percorso artistico
fondamentalmente espressionista che si modifica in relazione alle successive esperienze di vita. Nei
primi anni le forme sono semplificate, i colori netti e squillanti, la linea forte ed espressiva. In
gioventù mostrò particolare interesse per l'arte primitiva e africana, la pittura tedesca del
Cinquecento, le stampe giapponesi, la scultura nera e polinesiana, e per autori contemporanei come
Paul Gauguin e Vincent van Gogh, di cui lo colpirono l'immediatezza espressiva e l'uso simbolico e
psicologico dei colori. Le opere di Kirchner, soprattutto paesaggi e ritratti, sono caratterizzate da
semplificazioni formali, contorni marcati e colori accesi stesi in uno spazio non naturalistico: uno
stile simile a quello dei Fauves, carico di vitalità istintiva.
Oltre ai paesaggi e ai ritratti dipinge immagini urbane, con ampie stesure di colori vigorosi che
assumono valore autonomo, al pari delle forme e dei volumi, e che ricordano Gauguin e i selvaggi
colpi di pennello di Van Gogh. In particolare, nelle immagini urbane le curve e le linee assumono
forme irregolari, per sottolineare il contrasto tra la campagna e la grande città.

Marcella, del 1910 (Stoccolma, Moderna Museet), è una delle opere più interessanti di questa fase e
di tutta la corrente. Una giovane donna è seduta in primo piano tra cuscini dai colori forti. La
ragazza è nuda e presenta un’apparenza fragile e indifesa e sembra chiudersi in una posizione di
imbarazzo e disagio. Siede rivolta verso l’osservatore e incrocia le gambe accavallandole. Le sue
labbra sono carnose e tinte da un rosso brillante mentre gli occhi sono segnati da spesse linee nere. I
capelli lunghi sono liberi sulle spalle e solo sulla sinistra sono raccolti da un grosso fiocco bianco.
La giovane si trova all’interno di uno spazio chiuso e molto colorato. Lo spazio della
rappresentazione è appiattito, le superfici e le forme sono forzate e innaturali. L’atmosfera delle
immagini è però lontana dalla gioiosità dei dipinti di Matisse, André Derain e Vlaminck. Infatti la
deformazione della figura nuda della ragazza è sgraziata e disarmonica. Il corpo è magro, fuori asse
e dipinto con pennellate apparentemente disordinate. Il volto di Marcella è semplificato, triangolare
e sgraziato. Gli occhi sono definiti poi da pennellate nere che sembrano delle strisce di trucco
pesante. Pennellate verdi segnano inoltre le occhiaie di Marcella. L’immagine che ne emerge è di
una ragazza magra, non in salute e psicologicamente instabile. Ernst Ludwig Kirchner, in Marcella,
come gli altri suoi compagni di Die Brücke utilizzò colori forti e innaturali. I toni dell’opera sono
sono puri e distesi senza alcuna sfumatura. Interessato a portare su tela, quindi ad esprimere, quello
che è il suo mondo interiore, ed in questo caso l’idea che l’autore ha del passaggio dall’età della
fanciullezza a quella del’adolescenza, Kirchner guarda anzitutto al “collega” norvegese Edvard
Munch. L’immediato precedente di Marzella è infatti La Pubertà, opera del 1894-95. In entrambi i
quadri c’è soltanto l’essenziale; in “La Pubertà”, abbiamo una ragazzina nuda seduta sul bordo di
un letto sfatto che tiene le braccia incrociate in grembo e guarda dritta davanti sé. Guarda
all’avvenire, al suo destino incombente di futura donna, futura moglie e mamma; guarda, insomma,
al ruolo che la società ha in serbo per lei. Simbolo di questa condizione sociale che affligge la
giovane e candida protagonista del quadro, è la macchia nera sulla destra, allusione all’inevitabile
fine dell’età della spensieratezza e della possibilità, cui la fanciulla si sta avvicinando. La Marzella
di Kirchner invece, pur avendo evidenti punti di contatto con la “cugina” norvegese, viene modulata
dall’autore in modo del tutto differente. In gioco non ci sono più i colori scuri, variamente sfumati
ed inframmezzati dal bianco del letto e dal rosa pallido del corpo.
A farla da padroni, in Kirchner, sono i verdi acidi, gli arancioni e l’azzurro. Prevalgono le linee
rette e spezzate, ispessite e marcate al punto da far convergere l’attenzione dell’osservatore verso il
volto della giovane, la parte visivamente più pesante di tutta la composizione. Gli occhi e le labbra
risaltano in modo precipuo sul viso bianco di Marzella, la cui massa di capelli neri ricade
sensualmente sulle spalle e sull’abbozzo del seno appena sbocciato. Sulla tela di Kirchner, dunque,
vi è un’altra ragazza, un altro tipo di donna in divenire: dallo sguardo impaurito e pudico di Munch
si passa alla sensualità evidente di Marzella e quello che esprime il ritratto è un mutato concetto di
femminilità. Kirchner, infatti, porta su tela una donna ben conscia del futuro che l’aspetta, che lei
attende, in un misto di pudicizia e malizia, sul bordo di un letto dal lenzuolo decorato, in una stanza
piena di decorazioni ed oggetti alle pareti. La visione che l’autore ha della realtà è violenta, come lo
sono le linee ed i colori del quadro, e pessimistica: per Marzella l’unico modo per farsi spazio nel
mondo è sfoggiare una sensualità che per il momento stona con la sua condizione ancora di bimba,
ma che di lì a poco potrebbe, purtroppo, diventare la sua chiave di affermazione nella società e nel
mondo privo di candore ed innocenza degli adulti.

Kirchner, Cinque donne nella strada, 1913, Wallraf-Richartz Museum, Colonia


Nel quadro in questione, l’immagine sembra ritrarre delle prostitute; il loro trucco è pesante. La
spigolosità che caratterizzale le donne, i profili diritti e taglienti, i volti cadaverici e inespressivi, le
rendono capaci solo di attrazioni maligne. Sono lunghe e spigolose, continuamente interrotte da un
tratteggio fitto e nervoso e le forme sono semplici. I colori sono acidi e sono resi ancora più cupi
dalla mescolanza con il nero, per i vestiti e i cappelli. Il quadro non ha una spazialità ben definita,
benché le cinque donne, nel loro disporsi in angolazioni diversificate, riescono a disegnare un
cerchio approssimativo. La gamma cromatica è molto ridotta, domina nettamente le tonalità del
verde, da cui si stacca solo il nero che costruisce e separa dall’ambiente le cinque figure. Altri colori
sono il giallo acido e blu scuro per alcune parti dello sfondo e fanno risaltare l'azzurro-verde dei
loro abiti. Infine il rosa solo per i visi delle donne. Ernst utilizza colori freddi, stesi puri e a zone,
sono lividi e cupi e ci sono molti contrasti cromatici. La luce è frontale e le ombre conferiscono
un’atmosfera cupa e poco allegra. Due donne sono in primo piano, due sono in secondo piano ai lati
e l’ultima è dietro a tutte le altre. Il dipinto è asimmetrico, le donne, che all’apparenza sembrano
essere in fila, presentano un ritmo, ma non ci sono strutture modulari.
In questo quadro si ritrovano quindi un po’ tutti gli elementi stilistici tipici dell’espressionismo
tedesco: la semplificazione delle forme, l’uso espressivo del colore, le atmosfere cupe e poco
allegre, la volontà di una generalizzata denuncia contro una società borghese non amata né stimata,
ma soprattutto la volontaria rinuncia alla bellezza come valore tranquillante e consolatorio dell’arte.
Valore, quello della bellezza, apprezzato soprattutto dai borghesi, che nell’arte vedevano un
idilliaco momento di evasione fantastica, ma che non poteva essere condiviso dagli espressionisti
che proprio contro i borghesi rivolgevano la loro arte.

Kirchner, Autoritratto in divisa, 1915, Allen Memorial Art Museum, Oberlin


In quest’opera Kirchner si ritrae con la divisa del 75° reggimento di artiglieria, durante la prima
guerra mondiale. L’esperienza lo lascerà sconvolto, minando per sempre l’equilibrio del suo sistema
nervoso. C’è intensità cromatica e deformazione della figura umana per rappresentare il male di
vivere, l’angoscia esistenziale dovuta anche alla guerra. La divisa, che è di una certa importanza,
rappresenta un grado molto alto nella gerarchia militare. L’uomo è sicuramente un ufficiale di alto
grado. Non è sicuramente contento, infatti gli occhi sono due fosse come due buchi aperti
nell’abisso dell’esistenza. La mano sinistra è deformata, è come se ci fosse qualcosa che la
sorregge, la mano destra è mutilata e questa mutilazione può avere due significati: si riferisce sia
alle mutilazioni della guerra, ma anche a una mutilazione interiore. Abbiamo l’elemento biblico
inteso come mancanza di ciò che è giusto, di ciò che è corretto. La mancanza della mano destra
esprime la mancanza di ciò che serve per svolgere le azioni fondamentali della vita quotidiana.
Dietro, sullo stesso piano, c’è un’altra figura che si guarda in uno specchio. La figura rappresenta la
messa a nudo della sua dimensione interiore. La figura ha un volto maschile, ma il corpo è
femminile. È un’anima tormentata, in cui sono presenti sia l’elemento maschile che quello
femminile, ma in forte contrasto. Lui sente dentro di sé emozioni e sensazioni di natura femminile,
che deve però reprimere, perché contrarie al codice militare. Lui deve reprimere e schiacciare la sua
vera natura, e non potendola riconoscere, la trasforma in azioni violente e abusi. Ma il ruolo che lui
occupa all’interno della società gli impedisce di far venire alla luce la sua vera natura.
Questa figura si guarda allo specchio e vede una maschera rossa, una faccia demoniaca che
rappresenta il male, una faccia che non poteva essere accettata nella società tedesca dell’epoca. Per
il codice militare l’omosessualità è un demone, è il male in persona. La cultura a cui appartiene non
gli permette di liberare la sua vera natura e da qui deriva la devastazione interiore.

ESPRESSIONISMO AUSTRIACO
Quando l’Espressionismo si diffuse in Austria, si sviluppò in modo diverso da quello tedesco. Qui
si preferì indagare nell’inconscio piuttosto che nella realtà sociale e se in Germania si usò la
violenza dei colori per dare impatto visivo, in Austria si fece del disegno la prima arma per colpire
lo spettatore. Grandi protagonisti dell’Espressionismo austriaco, furono Oskar Kokoschka e Egon
Schiele. OSKAR KOKOSCHKA; L’artista austriaco (1886-1980), pur non facendo
parte della Brücke, è da collegarsi all’espressionismo tedesco. Le sue opere presentano uno stile
molto personale, contraddistinto da un segno forte, deformante, pieno, spesso e ricco di curve:
mezzo espressivo di un pittore che vede il mondo non soltanto con angoscia ma anche con amore.
In La sposa del vento (1914) sono rappresentati un uomo e una donna in mezzo ad una tempesta,
trascinati in estasi dal vento, come Paolo e Francesca trascinati dai vortici del girone dei lussuriosi.
In realtà il riferimento è autobiografico e riguarda la grande passione del pittore per Alma, vedova
del musicista tedesco Gustav Mahler. Kokoschka sostiene la necessità di penetrare l’oggetto con la
propria interpretazione, liberandosi dagli insegnamenti accademici e tornando “al primo grido e al
primo sguardo del neonato”, ossia, secondo la tesi tardo-romantica, alla purezza incontaminata del
fanciullo creando pitture visionarie. In lui, come nei suoi contemporanei, confluiscono tutte le
correnti filosofico-letterarie dell’epoca, che tendono all’introspezione del subconscio, come appare
non soltanto dai suoi quadri ma anche dalle sue opere teatrali (L’assassino, speranza delle donne) o
dai cartelloni per la loro messa in scena. Questa è considerata la prima opera di teatro
espressionista. Nella tensione drammatica e nell’atmosfera agghiacciante che permeano sia il testo
verbale che quello figurativo, si concretizzava il profondo malessere dell’autore che si dibatteva tra
gli opposti sentimenti dell’attrazione e della paura verso la donna, del richiamo erotico e della
minaccia mortale. I suoi ritratti sono tutti carichi di espressività e pathos, con sguardi e mani vivi e
vibranti (ricordiamo Ritratto del professore Forel, Autoritratto ecc).
EGON SCHIELE; sebbene anch’egli era svincolato da qualsiasi corrente, l’austriaco Schiele, è uno
dei più tipici espressionisti europei, forse più degli stessi pittori della Brücke. La sua eccezionale
precocità è dimostrata dall’Autoritratto con le dita aperte (1911), dipinto ad appena ventun anni.
Schiele, partito dal decorativismo di Klimt, trasforma la linea della Secessione trasformandola nel
mezzo più efficace per rappresentare il suo “io” altamente tormentato, in una visione del mondo in
cui tutto è destinato alla decadenza, in cui, anzi, tutto “è morto”, come dice lui stesso. Egli è perciò
soprattutto un grafico, più che un colorista. Schiele è uno dei pittori più interessanti e ispirati del
Novecento, uno dei pochi che superò lo sperimentalismo raggiungendo l’opera d’arte. Forse la
brevità della sua vita (è morto appena ventottenne, impedendogli quindi ulteriori sviluppi, non ha
consentito che gli fosse riconosciuto subito il suo effettivo valore, che oggi si è finalmente
affermato. Il tema della corporeità della figura umana fu tra quelli dominanti nell’opera del pittore
espressionista austriaco. Nei suoi primi lavori egli propose numerose raffigurazioni della nudità e
della sensualità, incentrate su un solo personaggio.

In esse la sessualità è tormenta e sembra vi risuoni l’eco del giovane Törless, il personaggio
dell’omonimo romanzo di Musil: “Quando immaginava il corpo libero dai vestiti ai suoi occhi
apparivano immediatamente movimenti contorti, irrequieti, una torsione delle membra e una
deformazione della spina dorsale, quali si potevano vedere nelle raffigurazioni dei martirii, e nei
grotteschi spetta- coli degli artisti da fiera”. Per Schiele l’eros sembra essere una sofferenza, un
ambiguo regno del rimorso. Le sue parole, in proposito, sono molto drammatiche: “Credo che
l’uomo debba soffrire la tortura sessuale finché è capace di sentimenti sessuali”. Tuttavia,
nell’ultimo periodo della sua breve ma intensa stagione creativa riprende il tema del corpo vincendo
la tentazione della solitudine. In una serie di opere successive, in cui anche dal punto di vista
tecnico si esprime una crescente maturità, i corpi appaiono in coppia, alla raicerca di una difficile,
forse impossibile serenità suggerita sempre dalla tensione espressa dalle mani nodose e tese.

ECOLE DE PARIS
L'"École de Paris" è uno dei momenti fondamentali dell'arte parigina ed europea di inizio '900. Per
descriverlo correttamente bisogna distinguere il suo svolgimento storico dalle caratteristiche
stilistiche. Dal punto di vista storico l'"École de Paris" è stata una sorta di contenitore eterogeneo di
artisti d'avanguardia, che hanno animato il dibattito culturale parigino tra il 1907-08 e il 1920.
Questi artisti erano accomunati da:
 il fatto di vivere e lavorare a Parigi,
 uno spirito di sperimentazione formale,
 l'interesse per l'arte primitiva, la scultura negra e cicladica,
 l'ammirazione per l'opera di Paul Cézanne,
 l'estraneità a movimenti o gruppi particolari,
 rapporti di amicizia e scambio intellettuale,
 un certo atteggiamento "bohemienne", se non addirittura "maudit" (maledetto).
Il termine "École de Paris" significa letteralmente "Scuola di Parigi". Ma non si tratta di una scuola
vera e propria, né tantomeno di un gruppo ben caratterizzato. Al contrario, gli artisti che facevano
capo all'École de Paris risultavano piuttosto eterogenei fra loro. Di somigliante era solo il fatto che
tutti operavano in ambito figurativo. In sostanza, la definizione di una "École de Paris" è servita agli
studiosi più che altro per classificare vari artisti di grande rilievo, che non potevano essere
incasellati in nessun movimento noto. Alcuni di essi erano di origine ebrea e provenivano dall'Est
europeo. Altri provenivano dall'Italia, richiamati dal grande vento di novità che giungeva dalla
capitale francese. Tra essi spiccano i nomi di Georges Rouault, Constantin Brancusi, Marc Chagall,
Moïse Kiesling, Marie Laurencin, Amedeo Modigliani, Jules Pascin, Chaim Soutine e Maurice
Utrillo. Tra gli italiani, oltre a Modigliani, si possono includere anche Giorgio de Chirico e Renato
Paresce. Per capire il senso vero dell'École de Paris bisogna considerare il ruolo eccezionale svolto,
in campo artistico, da Parigi nella prima metà del '900. Parigi, in particolare, è stata:
 un luogo di grande apertura, tolleranza e libertà nei confronti di idee e ricerche nuove,
 un formidabile centro di richiamo per artisti e intellettuali da ogni parte d'Europa,
 un terreno di coltura unico per movimenti, correnti e nuove tendenze,
 un grande centro del mercato dell'arte.

Queste prerogative hanno fatto sì che Parigi, in diversi momenti, sia stata il crocevia di multiformi
esperienze artistiche d'avanguardia. Tra gli artisti che la hanno animata alcuni si sono fatti
promotori, o hanno aderito, a gruppi organizzati, movimenti, manifesti. Altri si sono espressi in
maniera più autonoma, o comunque indipendente da ogni forma di arte organizzata.
GEORGES ROUAULT è un artista particolare, spirito libero controcorrente, presente in molti
movimenti avanguardisti ma non classificabile in nessuno di essi, se non genericamente nella
Scuola di Parigi, sostanzialmente un isolato eppure molto aperto ai rapporti con gli intellettuali del
suo tempo, dotato di grande vivacità intellettuale, una curiosità onnivora, una umanità profonda ed
un senso religioso drammatico e sofferto. Il suo linguaggio è sicuramente radicato nel realismo
ottocentesco, sempre inequivocabilmente figurativo, certamente fauve nell'uso del colore denso,
vigoroso, dichiaratamente espressionista nella carica emotiva che trasuda dalle sue tele. In Rouault
è molto importante il tema religioso. Egli arriva al sentimento religioso attraverso un doloroso
percorso personale tra la violenza, il degrado morale, l'ingiustizia sociale, la corruzione, le miserie
della vita degli uomini su questa terra, immergendosi nella sofferenza dell'umanità, facendola
propria come ha fatto Cristo; pronto, come lui, ad andare fino in fondo, con fede autentica, intensa,
tanto che comunemente Rouault è definito, per il '900, il maggior pittore di arte sacra. Tutta la sua
opera, dai cicli pittorici dedicati a giudici, prostitute e clowns (il tema del circo è uno dei più
ricorrenti in Rouault), alle straordinarie incisioni che ne fanno uno dei massimi incisori del nostro
tempo, denuncia una vera e propria vocazione alla drammaticità, ad una meditazione lucida e
disincantata sulla condizione umana. Il volto e la figura del Cristo diventano progressivamente il
tema esclusivo dell'opera di Rouault, Gesù, è l'unico che può capire, per averla sperimentata su di
sè, la dolorosa condizione dell'essere uomo, l'unico che, in quanto figlio di Dio, può avere la
certezza di un riscatto finale, della possibilità di affrancarsi dalla sofferenza proprio espiando
attraverso di essa. Rouault vuole credere, non da mistico, non da santo, ma da uomo, non vuole una
religione consolatoria, spiritualistica, sovrannaturale, vuole una fede terrestre, potente come un
lampo, che sgorga dalle lacrime e dal sangue.

CUBISMO
Nel momento in cui il Fauvismo volge al termine, in Francia due grandi artisti, Pablo Picasso e
Georges Braque, fondano un’altra corrente di avanguardia: il Cubismo. Il termine che definisce il
movimento è occasionale. Nel 1908 Matisse aveva giudica- to negativamente alcune opere di
Braque, definendole composte da “piccoli cubi”, e l’anno successivo Louis Vauxcelles, lo stesso
critico al quale è dovuto l’appellativo fauves, parlò di “bizzarrìe cubiste”. Da allora le tele dipinte in
quegli anni da Picasso, da Braque e da altri vennero chiamate cubiste. Il cubismo, un movimento
rivoluzionario, era nato ufficialmente. Per la prima volta nella storia della pittura occidentale si
cerca di rappresentare i soggetti nella loro totalità. Il punto di partenza era ancora quello di opporsi
alla meccanica riproduzione del reale e alla presunta superficialità di osservazione
dell’impressionismo, per rendere invece il proprio modo di interpretare il mondo esterno. Questo
doveva essere “capito”, non soltanto “visto”: all’impressionismo si rimproverava, quindi, di aver
usato soltanto la rètina e non il cervello. I cubisti partono, così, dallo studio della realtà per
scomporla e ricomporla in un nuovo ordine che cancella la distinzione tra gli oggetti e lo spazio che
li circonda. Un medesimo soggetto viene colto da diverse angolazioni che poi vengono sovrapposte
nella rappresentazione. Le vedute successive di uno stesso oggetto e dello spazio circostante sono
fuse insieme, con l’intento di comunicare la totalità delle percezioni in maniera simultanea, come se
l’osservatore potesse girare intorno al soggetto rappresentato, osservandolo da tutti i punti di vista.
Anche per i Cubisti l’opera d’arte non deve rappresentare la realtà, ma interpretarla: l’arte diventa
uno strumento conoscitivo.
Il processo di scomposizione in piani e di successiva ricomposizione disintegra le forme, elimina la
distinzione tra figura e sfondo, rinuncia definitivamente all’uso della prospettiva rendendo difficile
anche l’individuazione del soggetto di un’opera cubista. In effetti i soggetti preferiti dai Cubisti
(ritratti e nature morte) ben si prestano ad essere “smontati” e “rimontati” attraverso il ribaltamento
dei piani osservati contemporaneamente da più punti vista. Sulla nascita del cubismo influiscono
profondamente la conoscenza dell’arte primitiva dell’Africa e dell’Oceania con le sue forme
schematiche, deformate e geometrizzate. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento e fino ai primi
decenni del Novecento, infatti, era maturata in tutta Europa una forte insoddisfazione nei confronti
della cultura occidentale: entra in crisi il concetto stesso di cultura, intesa come sapere nozionistico,
libresco e tradizionale. Rinasce l’interesse per il “primitivismo” (che include anche l’arte infantile,
arcaica, popolare e quella di malati ed emarginati), per le sue capacità espressive, per la libertà dalle
leggi prospettiche tradizionali, per la sensibilità deformante, per la sua forte spiritualità e per la
creatività istintiva. Il cubismo è profondamente influenzato anche dalla pittura severa ed essenziale
di Paul Cézanne, con la sua geometrizzazione delle forme, tanto che questi ne è considerato il
precursore; si voleva mostrare la realtà non come appare, ma nel modo in cui la mente ne percepisce
l’apparenza: alla realtà vista si sostituiscono così la realtà pensata e la realtà creata. Nel cubismo si
possono individuare tre fasi:
 Cubismo formativo (1907-1909): semplifica le forme e le riduce a puri volumi.
 Cubismo analitico (1909-1912): raffigura il soggetto guardandolo da diversi punti di vista,
anziché da uno solo, come accadeva nella tradizionale visione prospettica. Le forme
vengono scomposte nelle loro parti essenziali e ricomposte sulla tela. Questo però rende i
soggetti dei punti spesso quasi indecifrabili. Qui si può notare il concetto di quarto tempo
creato dalla simultaneità delle immagini
 Cubismo sintetico (1912-1915): semplifica le forme scomposte inserendo piani larghi e
colorati. Spesso è adottata la tecnica del collage polimaterico, cioè fatto con giornali,
cartoni, tele cerate, carte da gioco. Non c'è scopo narrativo: i soggetti, senza importanza,
sono ripetuti numerose volte.
L’immagine naturalistica ha un limite ben preciso: può rappresentare solo un istante della
percezione. Avviene da un solo punto di vista e coglie solo un momento. Quando il cubismo rompe
la convenzione sull’unicità del punto di vista di fatto introduce nella rappresentazione pittorica un
nuovo elemento: il tempo. Per poter vedere un oggetto da più punti di vista è necessario che la
percezione avvenga in un tempo prolungato che non si limita ad un solo istante. È necessario che
l’artista abbia il tempo di vedere l’oggetto, e quando passa alla rappresentazione porta nel quadro
tutta la conoscenza che egli ha acquisito dell’oggetto. La percezione, pertanto, non si limita al solo
sguardo ma implica l’indagine sulla struttura delle cose e sul loro funzionamento. I quadri cubisti
sconvolgono la visione perché vi introducono quella che viene definita la «quarta dimensione»: il
tempo. L’introduzione di questa nuova variabile, il tempo, è un dato che non riguarda solo la
costruzione del quadro ma anche la sua lettura. Un quadro cubista, così come tantissimi quadri di
altri movimenti del Novecento, non può essere letto e compreso con uno sguardo istantaneo. Deve,
invece, essere percepito con un tempo preciso di lettura. Il tempo, cioè, di analizzarne le singole
parti, e ricostruirle mentalmente, per giungere con gradualità dall’immagine al suo significato.

PABLO PICASSO è stato sicuramente l’esponente più importante del movimento. Nacque a
Malaga, in Spagna, da un padre insegnante nella locale scuola d’arte, che lo avviò precocemente
all’apprendistato artistico. A soli quattordici anni venne ammesso all’Accademia di Belle Arti di
Barcellona. Due anni dopo si trasferì all’Accademia di Madrid. Dopo un ritorno a Barcellona,
effettuò il suo primo viaggio a Parigi nel 1900. Vi ritornò più volte, fino a stabilirvisi
definitivamente. Dal 1901 lo stile di Picasso iniziò a mostrare dei tratti originali. Ebbe inizio il
cosiddetto «periodo blu» che si protrasse fino al 1904. Il nome a questo periodo deriva dal fatto che
Picasso usava dipingere in maniera monocromatica, utilizzando prevalentemente il blu in tutte le
tonalità e sfumature possibili. I soggetti erano soprattutto poveri ed emarginati. Picasso li ritraeva
preferibilmente a figura intera, in posizioni isolate e con aria mesta e triste. Ne risultavano
immagini cariche di tristezza, accentuata dai toni freddi (blu, turchino, grigio) con cui i quadri erano
realizzati. Dal 1905 alla fine del 1906, Picasso schiarì la sua tavolozza, utilizzando le gradazioni del
rosa che risultano più calde rispetto al blu. Iniziò quello che, infatti, viene definito il «periodo rosa».
Oltre a cambiare il colore nei quadri di questo periodo cambiarono anche i soggetti. Ad essere
raffigurati sono personaggi presi dal circo, saltimbanchi e maschere della commedia dell’arte, quali
Arlecchino. La svolta cubista avvenne tra il 1906 e il 1907. In quegli anni vi fu la grande
retrospettiva sulla pittura di Cezanne, da poco scomparso, che molto influenza ebbe su Picasso. E,
nello stesso periodo, come molti altri artisti del tempo, anche Picasso si interessò alla scultura
africana, sulla scorta di quella riscoperta quell’esotico primitivo che aveva suggestionato molta
cultura artistica europea da Gauguin in poi. Da questi incontri, e dalla volontà di continua
sperimentazione che ha sempre caratterizzato l’indole del pittore, nacque nel 1907 il quadro «Les
demoiselles de Avignon» che segnò l’avvio della stagione cubista di Picasso. In quegli anni fu
legato da un intenso sodalizio artistico con George Braque. I due artisti lavorarono a stretto contatto
di gomito, producendo opere che sono spesso indistinguibili tra loro. In questo periodo avvenne la
definitiva consacrazione dell’artista che raggiunse livelli di notorietà mai raggiunti da altro pittore
in questo secolo. La fase cubista fu un periodo di grande sperimentazione, in cui Picasso rimise in
discussione il concetto stesso di rappresentazione artistica. Il passaggio dal cubismo analitico al
cubismo sintetico rappresentò un momento fondamentale della sua evoluzione artistica. Il pittore
appariva sempre più interessato alla semplificazione della forma, per giungere al segno puro che
contenesse in sé la struttura della cosa e la sua riconoscibilità concettuale. La fase cubista di Picasso
durò circa dieci anni. Nel 1917, anche a seguito di un suo viaggio in Italia, vi fu una inversione
totale nel suo stile. Abbandonò la sperimentazione per passare ad una pittura più tradizionale. Le
figure divennero solide e quasi monumentali. Questo suo ritorno alla figuratività anticipò di qualche
anno un analogo fenomeno che, dalla metà degli anni ’20 in poi, si diffuse in tutta Europa segnando
la fine delle Avanguardie Storiche. Ma la vitalità di Picasso non si arrestò lì. La sua capacità di
sperimentazione continua lo portarono ad avvicinarsi ai linguaggi dell’espressionismo e del
surrealismo, specie nella scultura, che in questo periodo lo vide particolarmente impegnato. Nel
1937 partecipò all’Esposizione Mondiale di Parigi, esponendo nel Padiglione della Spagna il quadro
«Guernica» che rimane probabilmente la sua opera più celebre ed una delle più simboliche di tutto
il Novecento. Negli anni immediatamente successivi la seconda guerra mondiale si dedicò con
impegno alla ceramica, mentre la sua opera pittorica fu caratterizzata da lavori «d’après»: ossia
rivisitazioni, in chiave del tutto personale, di famosi quadri del passato quali «Les meninas» di
Velazquez, «La colazione sull’erba» di Manet o «Le signorine in riva alla Senna» di Courbet.
Picasso è morto nel 1973 all’età di novantadue anni. Picasso è un emblema della pittura del
Novecento; ha sempre avuto un certo interesse nei confronti della riproduzione di sé stesso.
L'evoluzione della sua arte, infatti, si può scoprire anche grazie ai suoi numerosi autoritratti.

1. Il primo è stato dipinto quando aveva solo 15 anni, nel 1896.


2. Il secondo quando aveva 19 anni (nel 1900). I suoi grandi occhi, sui quali l'artista punterà
sempre molto negli autoritratti (ma non solo), risaltano al massimo su questo carboncino su
carta custodito al Museo Picasso di Barcellona.
3. Dopo un solo anno, nel 1901, ci troviamo all’inizio del cosiddetto periodo blu di Picasso
(che durerà fino al 1904), quella fase del suo percorso artistico in cui le forme sono ancora
molto figurative ed accuratamente eseguite, mentre il colore (orientato proprio verso
l’azzurro) conferisce una strana atmosfera di straniamento e malinconia.
4. Ancora nel 1906 è la sensibilità la protagonista di molte sue opere, una delicatezza che
viene con il tempo sostituita dal un’energia più vivace e dalla pura forma. In questo caso ci
ritroviamo nell’affascinantissimo periodo rosa e Pablo Picasso ci mostra la sua tavolozza di
pittore ma non ricambia il nostro sguardo curioso, dandoci l’idea di essere perso nei suoi
pensieri.
5. Infine abbiamo l’Autoritratto del 1907. Questi sono anni di cambiamenti repentini e di forte
ispirazione. Il 1907, infatti, è l’anno in cui vengono dipinte le Demoiselles d’Avignon e
momento di fervore creativo in bilico tra Primitivismo e Cubismo.

Periodo Blu
Una delle opere più importanti del periodo blu è sicuramente “Poveri in riva al mare” (1903,
Washington, National Gallery). In “Poveri in riva al mare”, possiamo rintracciare diversi elementi
che hanno portato Picasso ad ottenere un’importante reputazione, che successivamente sarebbe
andata a confermarsi con l’avvento del cubismo. In questa composizione, i protagonisti sono una
famiglia povera: un padre, una madre ed il loro bambino, i quali si trovano in riva al mare, con
l’espressione triste, i piedi nudi e con la testa abbassata, rassegnati al proprio destino, privi di
qualunque aiuto, mesti ed infreddoliti. Qui, i tre soggetti raffigurati possono essere identificati quasi
come una sorta di trasposizione metaforica della Sacra Famiglia.
Nel dipinto si percepisce il dolore, si respira la tristezza, l’indigenza e la rassegnazione dei
personaggi; distanti tra loro, scalzi, infreddoliti e silenziosi. Il colore predominante è, appunto, il
blu, nelle sue varie sfumature cromatiche che ne differenziano tratti e confini tra personaggi, cielo,
mare e terra (sabbia). I colori freddi accentuano ancora di più l’estrema povertà che annichilisce
qualunque gesto di umanità o barlume di speranza. La malinconia, la mestizia e la rassegnazione, si
possono cogliere dalla postura, le spalle curve, la testa china, le braccia conserte che riflettono un
senso di chiusura già verso loro stessi. Mancano del tutto i colori caldi, infatti non tutti gli elementi
sono rappresentati: la terra è simboleggiata dalla spiaggia, l’acqua dal mare e l’aria si identifica con
il cielo. L’unico elemento assente è proprio il fuoco, il calore, la cui mancanza è idealmente
rappresentata dall’assenza del sole. Non c’è alcun calore umano, né luce di speranza. Si tratta di un
colore freddo che comunica l’estrema povertà della famiglia rappresentata, un’indigenza che
annichilisce ogni forma di umanità e annienta qualsiasi tipo di vita interiore: ogni personaggio è
chiuso in se stesso e rifiuta di aprirsi al mondo nel gesto espressivo delle braccia conserte. Unico
tentativo di comunicazione sono le mani del bambino, rivolte verso i genitori in una frustrata ricerca
del conforto degli affetti umani. “Poveri in riva al mare” è stato realizzato da Picasso quando
aveva solo 22 anni, ma ne dimostra la grande maturità a livello artistico; da un punto di vista
tecnico, è possibile notare le forti linee marcate attorno ai protagonisti, che mettono in risalto le
parti ombrose nei panneggi dei loro vestiti; inoltre la scelta di rappresentarli tutti distaccati ed in
silenzio è stato un atto volontario da parte di Picasso, il quale ha voluto rappresentare l’impossibilità
di comunicare tra i vari protagonisti, distanti e tristi. Le tre figure umane mostrano chiaramente la
preparazione accademica dell'artista; sono definite da una linea di contorno marcata e presentano un
aspetto plastico grazie alle ombre. Riflettono un senso di chiusura in se stessi, il che determina
distacco e malinconia. Il tema principale è l'incomunicabilità, infatti i personaggi sono statici,
immobili, incapaci di relazionarsi fra loro. Le ombre dure e il tratto nervoso di questo dipinto
sembrano tuttavia alludere, più che alle curve morbide di Matisse o alle campiture larghe di Derain,
alla pittura oscura di Goya. Picasso qui si rivela però anche figlio adottivo e buon erede della
cultura impressionista nella resa dei colori, in quel blu che è anche verde, rosa e giallo. Altre
influenze francesi si possono riconoscere nel realismo dei volti resi lividi dal freddo, ma soprattutto
nella forte carica simbolica del soggetto che ricorda la pittura di Gaugain, in cui la valenza
emblematica del colore risulta evidente.
Il vecchio chitarrista cieco, 1903, The Art Institute di Chicago
Anche questo dipinto fa parte del Periodo Blu dell’artista. Noi vediamo raffigurato un vecchio
mendicante, un povero vestito soltanto con abiti scuciti e sporchi. Questo povero vecchio è
appoggiato ad un angolo di una sconosciuta strada e in quel momento sta suonando forse l'unico
oggetto che gli è rimasto e a lui molto caro, ovvero la sua chitarra. Notiamo nell'opera che a parte lo
strumento musicale che è colorato con una tinta bruna, il resto è tutto realizzato con il colore blu e
le sue tonalità; colori “freddi” e che simboleggiano la miseria e la povertà degli uomini. Ma
soprattutto il colore blu per Picasso in questo periodo artistico sta a significare tanto dolore e la
solitudine, che è uno dei grandi mali che affliggono l'uomo.
Il vecchio raffigurato nell'opera sembra che riesca a fatica a suonare la sua chitarra provato
sicuramente dai lunghi anni passati al freddo e in totale miseria. L'unica consolazione per il vecchio
chitarrista sembra quello di suonare lo strumento. Per un istante tutti i mali del mondo sembrano
svanire, si vive di nuovo e si è in dolce compagnia. Picasso sia fisicamente che anche
simbolicamente nel suo dipinto raffigura la chitarra grande, questa riempie lo spazio che l'esile
corpo emaciato del vecchio lascia vuoto. La chitarra ha una forma rotondeggiante che quasi
contrasta con le linee scavate del corpo umano, vecchio e stanco. Il corpo è allungato, deformato e
sproporzionato nei suoi lineamenti.

Periodo rosa

Madre e Figlio (1905, Stoccarda, Staatsgalerie); intorno al 1904 Picasso abbandona la


monocromia del blu per addentrarsi in quello che sarà chiamato il periodo rosa della sua pittura,
caratterizzato non solo per un cambiamento formale ma anche legato ai soggetti rappresentati, per
lo più appartenenti al mondo malinconico e sospeso del circo: saltimbanchi, acrobati, giocolieri e
arlecchini. Questi personaggi vengono per lo più colti in momenti al di fuori dello spettacolo della
loro arte, in scene che denunciano la loro condizione, se non di povertà e depressione tipica del
periodo blu, quantomeno di emarginazione. In questo delicato quadro, una madre siede a un tavolo
accanto al figlio che indossa ancora il costume da scena. Sono rappresentati in maniera speculare e
simmetrica: si danno le spalle, avvolti su se stessi, hanno lo sguardo fisso e ciascuno sembra assorto
nei propri pensieri. Il disegno si stilizza sempre più, si annulla la tridimensionalità, mentre la
componente cromatica diventa dominante. I corpi sono allungati e le membra estremamente sottili,
mentre la linea, lungi dall'essere spigolosa, delinea con grazia e delicatezza i profili delle figure. La
trasparenza del panneggio della donna, la posizione del capo leggermente reclinato e le ciocche di
capelli rafforzano la bellezza della composizione. Tra madre e figlio non si instaura alcun tipo di
comunicazione, gli sguardi non si incontrano e si perdono nel vuoto, eppure la tela riesce a
infonderci una sensazione di profonda dolcezza e intimità. Picasso riprende qui l'iconografia
cristiana della Madonna con bambino e la trasforma in chiave moderna in una coppia di artisti da
circo.

Ritratto di Gertrude Stein (1906, New York, The Metropolitan Museum of Art)
Tra gli amici sostenitori del cubismo, la più presente fu senz'altro la scrittrice americana Gertrude
Stein. Appartenenti ad una ricca famiglia americana, i fratelli Leo, Gertrude e Michael Stein si
stabiliscono a Parigi tra il 1902 e il 1903, iniziando quasi subito a collezionare opere di Cézanne e
Matisse. Nel 1906 Leo acquista il suo primo Picasso e vuole incontrare l'artista, che presto diviene
un affezionato frequentatore di casa sua. La frequentazione di Gertrude Stein, la più
intellettualmente dotata della famiglia diventa centrale per la maturazione di Picasso. Da lei conosce
Matisse, che stimerà molto, e osserva importanti opere di Cézanne. Ma lo scambio non è a senso
unico, i romanzi della scrittrice sono considerati tra le più esplicite traduzioni delle novità introdotte
da Picasso nella rappresentazione pluridimensionale dell'oggetto. Il ritratto di Gertrude Stein è una
delle più alte testimonianze dell'interesse coltivato in quegli anni per la scultura iberica arcaica,
attraverso cui l'artista riesce a trasfigurare una posa modellata sui tradizionali ritratti, in una figura
già orientata verso la brutalità delle Demoiselles. Gertrude Stein racconta che Picasso inizia a
dipingere il ritratto usando solo il grigio e un bruno uniforme, e parla di un tempo di esecuzione
lunghissimo con 80 o 90 sedute. Dopo l'interruzione di un viaggio, quando Picasso torna cancella il
viso, lo rifà e finisce rapidamente il ritratto. Il risultato è di forte concretezza e peso fisico, ma
anche una decisa tendenza alla sintesi volumetrica, una ricerca di essenziale, come vediamo in
questi lineamenti riassuntivi, che tendono a volumi geometrici. Picasso semplifica il corpo,
condensandolo plasticamente. Soprattutto la testa, rifatta tante volte, è definita con volumi netti e
piani larghi. Picasso non si preoccupa della somiglianza, tanto che Gertrude non si riconosceva e
non amava questo dipinto, ma l'artista si concentra invece sulla resa essenziale, quasi primitiva della
figura. E' evidente il forte condizionamento dell'arte africana. Da notare la plasticità eccessiva di
questo corpo massiccio e della testa che è quasi fastidioso; e questi ''occhi egizi'' così caratteristici,
che diventeranno una costante nella produzione successiva di Picasso. In questo quadro è evidente
l'esigenza dell'artista di trovare un linguaggio capace di andare oltre il naturalismo; il colore, ad
esempio, è quasi abbandonato, sostituito da toni scuri e accordi di marroni e ocra.

Periodo Cubista

Les Damoiseles d’Avignon, 1907, New york, Museum of Modern Art (MoMa)
L’opera che inaugura la stagione cubista di Picasso è il quadro «Les demoiselles d’Avignon». Il
quadro è stato realizzato tra il 1906 e il 1907. Le numerose rielaborazioni e ridipinture ne fanno
quasi un gigantesco «foglio da schizzo» sul quale Picasso ha lavorato per provare le nuove idee che
stava elaborando. Il quadro non rappresenta un risultato definitivo: semplicemente ad un certo punto
Picasso ha smesso di lavorarci. Lo abbandona nel suo studio, e quasi per caso suscita la curiosità e
l’interesse dei suoi amici. Segno che forse neppure l’artista era sicuro del risultato a cui quell’opera
era giunta. I colleghi di Montmartre avevano visto l’opera prima che Picasso la nascondesse, e
l’avevano definita «il bordello filosofico», che in parte identificava il soggetto, ma dall’altra era un
chiaro insulto. L’opera è a tutti gli effetti il ritratto di un bordello di via d’Avignon, a Barcellona,
visto dall’autore prima del suo trasferimento a Parigi. Cinque prostitute nude o semi-coperte,
fissano lo spettatore senza timore, ma i loro corpi sono innaturali, sconvolgenti. In primo piano
l’artista inserisce una natura morta di frutta, strumento che trasporta immediatamente lo spettatore
all’interno della tela. Lo spazio è del tutto innaturale. Manca una prospettiva realistica, anzi manca
qualsiasi tipo di indicazione di profondità. I soggetti e le forme sono spigolosi, pungenti, tesi, e lo
spazio risulta compresso ai lati, dando un senso di lieve vertigine. Convivono diversi punti di vista,
i volti stessi delle donne sono scomposti e ritratti da più angolazioni, alcune hanno il naso di profilo
ma il resto del corpo visto frontalmente. Il colore non sottostà più alle regole delle luci e delle
ombre naturali, ma ne è totalmente slegato, a volte è piatto – come nelle due figure centrali –i
passaggi di luce sono netti e privi di sfumature. I canoni della tradizione pittorica sono stati violati,
dal primo all’ultimo: Picasso ha inventato il cubismo, la prima delle avanguardie pittoriche che
rivoluzioneranno l’arte moderna e sconvolgeranno il Novecento. Inizialmente l’artista intendeva
inserire anche due abitué tra le donne: un marinaio e uno studente di medicina, come testimoniano
alcuni dei numerosi schizzi preparatori (oltre ottocento), realizzati nel corso di soli sei mesi. Per
quanto riguarda i modelli, Picasso sembra prenderne da ogni angolo della storia dell’arte. Prima di
tutto occorre fare il nome di Paul Cezanne, il grande anticipatore del cubismo. Le sue forme
geometriche e il suo colore scomposto in campiture quasi a tinta unita sono stati un’enorme fonte
ispiratrice per Picasso, che le riprende, così come la sua strutturazione dello spazio. È anche da
notare come le figure delle demoiselles picassiane guardino a quelle delle grandi Bagnanti
dell’artista francese, che si inseriscono all’interno dello spazio in modo simile. Per le due figure a
destra, Picasso si lascia affascinare dalle maschere africane e dall’arte primitiva, che ha
probabilmente potuto studiare a Parigi.
Decide di sostituire completamente le maschere ai volti delle donne: è attratto dalle loro forme
inusuali, dagli occhi storti e dai diversi colori e rifiniture. All’artista interessa rompere con il
passato, trovare un linguaggio nuovo rispetto a quello classico visto e rivisto. Il modello africano è
allora qualcosa da poter aggiungere nella tela per ottenere risultati mai visti. Quando l’opera viene
esposta nel suo studio e amici e colleghi la vedono, tutti ne sono inorriditi, o peggio, ne ridono. Da
Félix Fénéon, il critico visionario che aveva difeso Georges Seurat, a Henri Matisse, tutti la
criticano aspramente e ritengono che Picasso abbia perso il senno o, peggio, l’occhio da artista.
L’unico che non sembra irritato o divertito da quei corpi spezzati e da quella visione stravolgente è
Georges Braque, che dopo un primo momento di spaesamento, ammira l’opera e il suo stile.
Nonostante questo, probabilmente abbattuto dalle critiche di amici e critici e insoddisfatto del
proprio lavoro, Picasso abbandona l’opera, che non completerà mai: secondo l’autore stesso, Les
demoiselles è infatti un’opera non finita. Picasso decide di tenerla ben nascosta nel proprio studio,
per nove anni. La storia la porta poi nel 1937 in una galleria di New York, dove Alfred Barr ne
rimane colpito e la acquista per il museo di cui è il direttore: il MoMA di New York, da dove non si
è più spostata. Con una sola tela, Picasso ha dato il via a una nuova arte, aperta a stimoli di
provenienze diverse capaci di convivere nella stessa visione. È proprio questa commistione di
ispirazioni, forme e immagini che contribuiscono a rendere grande Les demoiselles d’Avignon:
nessuno si era mai azzardato a unire le maschere africane con le forme sinuose di Ingres, il tema del
nudo femminile tanto caro alla tradizione accademica con lo sguardo di sfida dell’Olympia di
Manet, il tutto deformando forme, spazio e corpi senza timore. Era il 1907 e l’arte moderna aveva
finalmente un volto.
Altre opere da ricordare sono: “Ritratto di Ambroise Vollard”, “Ritratto di Daniel-Henry
Kahnweiler “, “Natura morta con sedia impagliata”, “Bottiglia di Bass, clarinetto, chitarra,
violino, giornale, asso di fiori”, “I tre musici”.
Ritratto di Ambroise Vollard, 1909-1910, Mosca, Museo Puškin = sembra un’immagine
frantumata all’interno di uno specchio. Le varie parti che compongono il dipinto, infatti, sembrano
schegge monocrome che si compongono nel formare il Ritratto di Ambroise Vollard. Nel dipinto si
riescono ad identificare, sufficientemente bene, gli occhi il naso e la bocca. La barba e la sommità
della testa sono riconoscibili attraverso il colore che li ritaglia dal fondo. Ambroise Vollard sta
leggendo un libro ma è difficile identificarlo all’interno delle figure che si sovrappongono e si
integrano in basso e al centro. Il resto della superficie è costruita con altre schede e incastri di colore
bruno tendente al marrone scuro. Lo spazio dell’immagine rimane fortemente schiacciato sulla
superficie. In primo piano si legge chiaramente il volto di Ambroise Vollard, in alto al centro del
dipinto. Si intuisce che la parte in basso centrale sia il corpo con il libro.
Anche la forma della mano, se si guarda attentamente, emerge al centro, in basso, seguita dal polso
che esce dalla manica. Questa è rappresentata dall’unico segno circolare nel quadrante in basso a
sinistra del dipinto. La composizione è centrale e fortemente simmetrica. Il centro focale e
psicologico e il volto di Ambroise Vollard abbassato verso il libro che sta leggendo. Tutto intorno
ruotano spigoli che si incastrano creando una superficie modulata dal chiaroscuro delle campiture
geometriche. Il tentativo della pittura cubista fu quello di rappresentare la quarta dimensione, il
tempo. Stessa intenzione avevano i pittori futuristi che, però, utilizzavano un’altra strategia per
rappresentare gli oggetti in movimento. I cubisti, per rappresentare il passaggio del tempo
pensavano di rappresentare il soggetto da più punti di vista. Il Ritratto di Ambroise Vollard, infatti,
è costruito mettendo insieme la rappresentazione di più prospettive della stessa immagine. Queste
parti vengono poi geometrizzate e riassemblate in una specie di mosaico ad incastro. A dare questa
sensazione di frantumazione è l’uso di un colore monocromatico che confonde piani e figure.
Ritratto di Daniel-Henry Kahnweiler, 1910, Chicago, Art Institute = nel dipinto compare
l’immagine in chiave cubista-analitica del gallerista di Picasso e Braque.u un mercante d’arte,
scrittore ed editore tedesco. Nel 1907 Kahnweiler aprì una galleria a Parigi e nel 1908 accolse i
lavori di Picasso e divenne suo agente. Inoltre presentò al maestro cubista Georges Braque e diede il
via ad un sodalizio artistico molto importante. Kahnweiler fu un artefice dell’arte moderna
sostenendo gli artisti con il suo lavoro di gallerista. Acquistò molti dei suoi dipinti negli anni tra il
1908 e il 1915. Scrisse poi un testo intitolato “The Rise of Cubism” che rappresentò un
fondamentale quadro teorico del Cubismo. Nel Ritratto di Daniel-Henry Kahnweiler la figura del
protagonista è descritta come frammentata e le superfici assumono un aspetto trasparente. Daniel-
Henry Kahnweiler compare frontale, con lo sguardo rivolto verso l’osservatore. Si distinguono
alcuni caratteri della sua fisionomia e, in basso, le mani strette. Il busto del gallerista è occupato da
una zona frantumata di colore scuro che deriva, probabilmente, dalla scomposizione della giacca.
Lo sfondo, come tipico nei dipinti analitici, è composto da schegge di chiaroscuro che suggeriscono
la frammentazione dello spazio. L’intento principale di Picasso non fu quello di ricreare una
immagine somigliante del gallerista. Piuttosto il Ritratto di Daniel-Henry Kahnweiler fu una
occasione per frammentare le forme osservate e ricombinarle sulla tela. Furono le ricerche condotte
da Paul Cézanne ad influenzare Picasso e Braque. Il maestro postimpressionista infatti scompose lo
spazio attraverso una semplificazione geometrica definita analitico-induttiva. I due artisti cubisti si
concentrarono poi sulla componente spaziale lasciando da parte la ricerca cromatica di Cézanne. I
loro dipinti analitici sono infatti monocromatici, risolti con toni in ocra e grigio. Una ulteriore fonte
di ispirazione, oltre a Cézanne, furono le teorie utilizzate da Seurat sui contrasti di tono e colore.
Il rifiuto del colore oltre ad essere una scelta obbligata per enfatizzare il linguaggio formale
rappresentò anche una presa di distanza verso il colore impressionista. Picasso e Braque nel loro
intento di introdurre la dimensione temporale, partirono secondo gli storici, dalle ricerche di Paul
Cézanne. Nel Ritratto di Daniel-Henry Kahnweiler lo spazio non è più quello che sperimentiamo
nella realtà quotidiana. Per questo motivo i dipinti del periodo analitico creano uno spiazzamento
allo sguardo dell’osservatore. Picasso realizzò una superficie scheggiata al fine di rappresentare i
diversi punti di vista che si ottengono osservando il soggetto da più angolazioni. Ogni scheggia
rappresentata nel dipinto intende mostrare una diversa angolazione. In questo modo Picasso cercò di
registrare sulle due dimensioni il movimento dell’osservatore intorno al soggetto. Il Ritratto di
Daniel-Henry Kahnweiler è ormai una immagine al limite dell’astrazione e poco riconoscibile.
Picasso, comunque, utilizzò alcuni stratagemmi compositivi per guidare l’occhio dell’osservatore
nella comprensione della figura. I centri di attrazione visiva sono rappresentati dalle parti del corpo
più riconoscibili con i capelli, il viso, e le mani. L’incrocio delle diagonali dell’opera si trova in
corrispondenza della cravatta di Daniel-Henry Kahnweiler. Questa disposizione crea una forte
stabilità all’immagine. Infine il busto del personaggio è racchiuso all’interno di uno spazio ovale
delimitato dalle maniche della giacca.

Natura morta con sedia impagliata (1912, Musée National Picasso di Parigi ) l'opera è una di
quelle che apre l'arte alla materia del quotidiano. Essa si inserisce nella seconda fase del Cubismo,
ossia il Cubismo sintetico, e risponde in modo completamente nuovo a quelle critiche che lo vedono
erroneamente allontanarsi dalla realtà. La sperimentazione cubista portò anche all’introduzione
nelle opere d’arte di materiali diversi, quali stralci di giornale, pezzi di carta cerata o da parati, carte
da gioco, sughero, latta, sabbia: è la tecnica del collage polimaterico, realizzata per la prima volta
nel 1912. Anziché essere rappresentato, dunque, l’oggetto viene introdotto direttamente nel quadro
o viene semplicemente citato. Il dipinto rappresenta una composizione di oggetti, solo in parte
riconoscibili, dipinti sulla base della ’memoria’ dell’artista, più che della sua visione diretta. Picasso
attribuì una grande importanza all’opera, tanto che non se ne volle mai separare. Tre lettere a grandi
caratteri maiuscoli rappresentano la memoria del quotidiano (journal) posato sul tavolo. Il volume
degli oggetti è dato unicamente da sfaccettature geometriche. Un motivo stampato a paglia di
Vienna identifica una sedia vista dall’alto; una linea orizzontale, in basso, funge da spalliera. Il
tavolo sembra coincidere con la forma ovale della cornice, delimitata da una vera corda. Si
riconoscono un calice, una fetta di limone e un coltello attraverso i molteplici segni e forme
sovrapposte.

Bottiglia di Bass, clarinetto, chitarra, violino, giornale, asso di fiori (1914, Centre Pompidou) = si
tratta di una pittura su tela nella quale sono rappresentati, disposti casualmente su un tavolo, un
giornale, una bottiglia e una carta da gioco assieme ad un violino. La bottiglia di Bass è spesso
presente nelle composizioni di Picasso, siano esse "costruzioni", tableaux reliefs, oli o ancora
collages. I caratteri tipografici "JOU", stanno per "journal", qui rappresentato parzialmente. La carta
da gioco compare come simbolo dell'imprevisto e della sorte. Sia Picasso che Braque sono lontani
dal Cubismo scientifico e rappresentano la realtà attraverso la memoria. Non c'è in quest'opera
nessuna intenzione di analisi scientifica, di sezionamento della realtà. L'artista non scompone, ma
ricompone gli oggetti in un'unità formale dettata e costituita attraverso le regole, esteriori e interiori
dell'elemento raffigurato. Egli cerca di capire il reale attraverso la forma dando una ricostruzione
ideale del volume. Il violino qui sembra scomposto, smembrato; i suoi elementi sono lontani e
disgiunti. In realtà essi sono uniti dalla forza simbolica che ogni singolo elemento ha in sè. Non è
più necessario dunque raffigurare il violino con la chiocciola e le corde, basta uno di questi elementi
a richiamare la totalità dell'oggetto.

“I tre musici” (1921, Museum of Modern Art di New York) = quest'opera tratta un soggetto
musicale ed è considerata il capolavoro del Cubismo sintetico. L'immagine viene scomposta in zone
geometriche, differenziate soprattutto dal diverso uso del colore, e successivamente viene
ricomposta sinteticamente, formando dunque un'immagine inedita. La celebre opera raffigura tre
personaggi mascherati: al centro c'è Arlecchino con una chitarra, a sinistra Pulcinella, che suona un
clarinetto, e a destra evidentemente Pantalone che canta mostrando lo spartito. La figura sulla destra
dà però sfogo a diverse interpretazioni, infatti, in alcuni libri é identificato come un monaco invece
che con Pantalone. È rappresentato inoltre un cane che siede placido sulla sinistra sotto al tavolo.
Ben noto è il legame di Picasso con l'Italia e con la cultura italiana, commedia dell'arte compresa. Il
suo viaggio a Roma, Napoli e Pompei del 1917 fu occasione per assimilare la figura di Pulcinella.
La visione per quanto riguarda i tre musici è frontale e bidimensionale, ma cambia per quanto
riguarda la stanza in quanto si recupera il senso di tridimensionalità e profondità. La concezione
dello spazio è tuttavia contraddittoria in quanto la parete di sinistra appare innaturalmente più lunga
rispetto a quella di destra, infatti le due linee rette che dovrebbero unirsi per chiudere il pavimento
appaiono palesemente sghembe. I colori di questo dipinto sono piatti e distesi su ampie porzioni del
dipinto. Da notare la differenza di colore tra i dipinti del cubismo analitico (terrosi, neutri, tendenti
alla monocromia) e i dipinti del cubismo sintetico (brillanti).

Ritorno alla figurazione e riscoperta del classico


Come detto all’inizio, nel 1917, anche a seguito di un suo viaggio in Italia, vi fu una inversione
totale nel suo stile. Abbandonò la sperimentazione per passare ad una pittura più tradizionale. Le
figure divennero solide e quasi monumentali. Questo suo ritorno alla figuratività anticipò di qualche
anno un analogo fenomeno che, dalla metà degli anni ’20 in poi, si diffuse in tutta Europa segnando
la fine delle Avanguardie Storiche. Ci fu infatti un ritorno alla figurazione ed una riscoperta del
classico. Le opere da ricordare di questo periodo sono tante.
Abbiamo innanzitutto “Sipario e costumi di scena per il balletto Parade, 1917”. Nella primavera
del 1917, mentre il mondo si era già inabissato nel baratro della Grande Guerra, quattro artisti e un
impresario fra i più rivoluzionari del XX° secolo lavoravano ad un progetto destinato a rimanere
memorabile nella storia del teatro e delle arti in generale. Per il 18 maggio di quell’anno tutti a
Parigi – all’epoca banco di prova di ogni nuove forma d’arte – aspettavano il debutto di Parade,
spettacolo d’ispirazione circense su testo di Jean Cocteau, coreografie di Léonide Massine, musiche
di Erik Satie, scene costumi di Pablo Picasso e, schierati sul palco, i Balletti Russi di Sergej
Diaghilev, il grande impresario che già da qualche anno aveva rivoluzionato il mondo della danza
con spettacoli alla cui riuscita espressiva chiamava a concorrere tutte le arti. Nel tentativo di
mantenere la segretezza sul nuovo progetto e per garantire al lavoro degli artisti la necessaria
tranquillità, Diaghilev decise che le prove non si sarebbero svolte in Francia, ma in Italia, dove
prese in affitto lo scantinato di un antico palazzo romano. Il tutto ebbe luogo come in un clima di
sospensione, fra serrate sedute di lavoro preparatorio e incontri con esponenti dell’avanguardia
Futurista, sullo sfondo di una Roma trasformata in un ospedale da campo, tra un viavai di feriti e
caduti di guerra.
In questo contesto nasceva la più grande opera di Picasso, il sipario di Parade, una tela dipinta a
tempera di 17 metri di base per 10 di altezza, conservata al Centre George Pompidou di Parigi.
Teatro nel teatro, derisione surrealista, parata come opera comica contro la guerra e contro la morte.
Fischi e insulti dal pubblico parigino un secolo fa, alla prima alzata del grandioso sipario. Opera
d'avanguardia, Parade voleva rompere col balletto tradizionale, urlare alla guerra che avanzava
minacciosa in Europa. E grande impatto fu, praticamente un fiasco. Il pubblico non comprese che il
grande sipario non era un oggetto di scena ma opera d’arte in sé compiuta, il più grande dipinto mai
realizzato dall'artista spagnolo. Parade rappresenta anche la piena fusione di ambiti artistici diversi –
danza, musica, pittura. Saranno l’atmosfera delle strade di Roma e di Napoli, dove Picasso si reca
nel marzo del 1917, le rovine di Pompei, le sculture classiche, gli spettacoli della Commedia
dell’Arte a fornire al pittore spunti importanti non solo per Parade ma anche per lavori successivi,
come Pulcinella, che debutterà all’Opéra di Parigi nel 1920. Per il balletto di Cocteau, Picasso
realizza le scene e i costumi aggiungendo, ai personaggi già elaborati da Cocteau, anche le figure di
due Manager, quello americano e quello europeo, di chiara ispirazione cubista. Il pittore, inoltre, da
vita all’immenso sipario, che ritrae un gruppo di attori in un momento di pausa prima dello
spettacolo. Picasso realizza qui un’inversione, mette al centro, davanti agli occhi degli spettatori,
una scena che normalmente sarebbe celata al pubblico, svelando un “dietro le quinte”. È, in fin dei
conti, la stessa operazione condotta da Cocteau che trasforma una parata, un’anteprima delle
performance degli artisti, nello spettacolo stesso, che di fatto non andrà mai in scena.
Abbiamo “Ritratto di Olga in poltrona”, un'opera realizzata nel 1917 e conservata a Parigi al
Museo Picasso. A differenza di molti altri dipinti di Picasso, questo ha un disegno preparatorio
accademico e una colorazione molto precisa. Infatti, si può riconoscere molto bene il volto, mentre
il panno nero decorato a fiorellini è molto preciso ed accurato. Lo sfondo, apparentemente
incompleto, è stato molto criticato. Tuttavia, Picasso ha precisato che per lui doveva ritenersi
concluso così, perché non gli interessava disegnare le cose in modo oggettivo, ma voleva
rappresentarle secondo il suo punto di vista. Durante il soggiorno a Roma, Picasso conobbe Olga
Kokhlova, una ballerina di cui si innamorò, e che divenne motivo di ispirazione e soggetto di molti
suoi lavori.

“Paulo vestito da Arlecchino, 1924, Musèe National Picasso – Parigi” = il 14 gennaio 1921
nacque dal matrimonio con Olga, Paulo, che fu al centro di molte opere di Picasso. L'artista si
rivolse al figlio sempre con una tenerezza e una delicatezza molto lontane dalle sperimentazioni che
lo vedevano occupato in quegli stessi anni, e che si ponevano al confine con quelle del gruppo
surrealista. Il bambino è qui ritratto con il costume di Arlecchino, a cui Picasso era molto
affezionato. L'opera, apparentemente molto convenzionale nel disegno preciso e minuzioso, è
volutamente non finita, come a comunicare al figlio: “ti ho dato la vita, ma tocca a te scegliere i
colori, la tua compiutezza”. La poltrona è scura, in contrasto con il quel vestito dell’arte della
commedia. Due solo colori ma essenziali: azzurro e giallo. Colori che dissociano la luce, semplici,
vivaci, decisi. E’ stata la genialità di Picasso che ha caratterizzato lo spazio e il volume, staccandosi
dal classicismo dell’epoca. Picasso lascia anche intravedere un ripensamento sulla postura delle
gambe. Bambino e sedia sembrano galleggiare senza appigli sulla superficie della tela. Il quadro,
visto da lontano, rivela infatti un corpo piatto quasi a confondersi con la tela. Piedi che cadono
quasi intrecciati e messi a caso, privi di volume, simili a quelli dei burattini. Senza fili perché Paulo
è un uomo e dovrà sentirsi libero.

“Tre donne alla fontana, 1921, New York, Museum of Modern Art
(MoMa)” = sono raffigurati tre soggetti femminili con gli arti, mani, piedi e volti sproporzionati
rispetto al corpo. Sembrano, piuttosto, riproduzioni di sculture medievali. I panneggi delle loro
tuniche bianche e scomposte sono realizzati con pieghe verticali e allineate. Questa disposizione,
soprattutto nella figura di sinistra ricorda il fusto di colonne dei templi classici. Un richiamo al
classicismo si trova anche nella capigliatura e nella fisionomia delle donne.
Il naso allineato con la fronte e il modellato del volto richiamano, appunto, le caratteristiche
fisionomiche delle statue greche. La nudità, delle due donne in piedi, che lasciano intravedere il
seno dalla veste scomposta, è un richiamo al classicismo. I colori sono caldi e prevale, nello sfondo
del paesaggio e nel primo piano un marrone tendente all’arancio. Le vesti sono bianche e
chiaroscurate in grigio e nero. Gli incarnati sono rosa tendenti al bruno. Il modellato dei corpi e
delle vesti è sintetico e tende alla semplificazione geometrica. Si evidenzia soprattutto nel collo e
nelle braccia delle figure. I volumi sono arrotondati e resi importanti dalla superficie levigata e
arrotondata che sembra, quasi, una superficie massiccia e scultorea. Coerentemente con la resa
figurativa e realistica lo spazio è definito in modo più appropriato. La scena è ambientata in un
esterno, una fontana alla quale le donne vanno a riempire le loro anfore. Quella di destra si siede su
di una pietra in atteggiamento classico. Lo spazio è, però, limitato al loro gruppo di figure che
riempiono e saturano tutto lo spazio pittorico. Non vi è una gran descrizione del paesaggio se non
un’anfora appoggiata in alto a destra su di una roccia.
"Il flauto di Pan", 1923, Musée National Picasso, Parigi = Picasso dipinge questo soggetto nel
1923, durante una vacanza ad Antibes. Si tratta dell'opera più emblematica del periodo "classicista"
di cui fanno parte anche "Grande bagnante" e "Donne che corrono sulla spiaggia". Essa contiene gli
elementi da sempre ritenuti classici, come la plasticità, la consistenza volumetrica e la
monumentalità delle figure, che sembrano delle colonne o statue. Le forme sono chiare e semplici e
ricordano quelle geometrizzate di Cezanne. La costruzione compositiva è simmetrica, infatti le due
figure maschili sono rispettivamente messe ai lati, come un sipario che lascia spazio al centro, dove
le due tinte di azzurro lasciano immaginare l'infinito del cielo e del mare. La figura a destra, intenta
ad ascoltare la musica del flauto, ha lo sguardo fisso ed è in posa contrapposta come le statue
classiche. La luce mattutina determina forti ombre che accentuano la plasticità delle figure. Gli
elementi sono pochi ed essenziali, nonostante il progetto originario che, invece, prevedeva un
gruppo mitologico di quattro figure. Semplicità, grandezza ed equilibrio caratterizzano questo
quadro; anche i colori sono ridotti alle tonalità dell'ocra e dell'azzurro (i colori del Mediterraneo).
Nella complessa vicenda di Picasso, Il flauto di Pan può definirsi un’opera quasi “pompeiana”.
Quando nel 1917 l’artista si recò in Italia, rimase particolarmente affascinato dalla bellezza degli
affreschi di Pompei. I ricordi della tecnica e della maniera pompeiana riaffiorarono nella memoria
di Pablo Picasso, nelle opere realizzate al suo ritorno a Parigi. In questo dipinto l’artista recuperò
un’antica leggenda: si narra che la ninfa Siringa, per sfuggire alle brame del dio Pan, si trasformò in
canne palustri. Pan, affascinato dal suono delle canne, le tagliò per farne un flauto, che porta il
nome della ninfa. Le due figure, nella densità dei volumi, mostrano un equilibrio classico filtrato
dall’arte dell’antica Grecia. I corpi dei due giovani costruiscono una poderosa monumentalità.

Anni 30: Surrealismo e impegno politico (età dei mostri)


La vita privata di Picasso, ad un certo punto, era in subbuglio e aveva smesso di dipingere. In
seguito cercò di ritornare al mito classico sotto forma mostruosa.
Minotauromachia, 1935, New York, The Museum of Modern Art (MOMA)
La tecnica si chiama “acquaforte”, un’incisione che mette insieme alcuni personaggi simbolo del
suo repertorio iconografico ed è strettamente intrecciata con le relazioni amorose dell’artista vissute
in quel periodo. Tutte queste figure mitologiche verranno poi riutilizzate in Guernica, soprattutto il
minotauro ricorre molto spesso, a rappresentare la convivenza di una doppia natura ,umana e
razionale da una parte, bestiale e istintiva dall’altra e in cui Picasso stesso si identificava. Sulla
ribalta di una scena raffigurante un paesaggio marino nascosto per metà da un edificio squadrato, i
protagonisti sono da destra verso sinistra: 1)il minotauro cieco (rappresenta Picasso) 2)il cavallo
imbizzarrito 3)la donna torero agonizzante (riversa sul dorso del cavallo) che si sta per trafiggere il
corpo con una spada 4)la bambina che con una mano sorregge una candela e nell’altra tiene un
mazzo di fiori( purezza ,ingenuità) 5)un uomo che fugge salendo una scala. 6) due donne(e una
colomba) spettatrici della storia che si affacciano dalla finestra. Eseguito durante uno dei periodi più
difficili della sua vita, Minotauromachia presenta il dolore e la sofferenza dell’artista attraverso una
mitologia personale. La fine del matrimonio con Olga, a causa della relazione con Marie-Thérèse, il
cui viso ritroviamo nelle donne affacciate alla balconata, trova nella figura ambivalente dell’uomo-
toro la metafora drammatica della vita di quegli anni. Il significato simbolico dell’opera è di
difficile interpretazione. La vita, l’innocenza e la luce sono raffigurate dalla bambina, che
rappresenta il mondo dell’infanzia che non ha paura dei mostri degli adulti; il corpo straziato della
donna torero e il cavallo sono simboli della guerra.
Ritratto di Dora Maar o Dora Maar seduta, 1937, Musée National Picasso di Parigi Pablo
Picasso amava rappresentare le sue amanti e muse ispiratrici del momento nei suoi quadri. Uno dei
suoi ritratti più famosi s’intitola Ritratto di Dora Maar, e rappresenta una delle sue amanti più
durature. Il quadro rappresenta la giovane donna seduta su una sedia a braccioli, in atteggiamento di
riposo, mentre poggia la testa su una mano dalle lunghe dita e dalle unghie laccate di rosso. Il volto,
sorridente, è rappresentato con tecnica cubista contemporaneamente di profilo e di fronte, con un
occhio verde e un occhio rosso, che guardano in direzioni diverse. La donna appare chiusa in uno
spazio stretto, angusto, quasi una scatola. Possiamo dire che l’occhio verde è quello che guarda
all’interno, enfatizzato dalle ciglia molto evidenti e dalla pupilla che sembra quasi uscire dall’orbita,
mentre l’occhio rosso è quello che guarda dritto di fronte a sé, verso il mondo, e dà un’impressione
di serenità. Il corpo della donna si fonde letteralmente con la sedia; è un trionfo di sfere e angoli,
come a rappresentare la femminilità; le mani che vogliono intendere allo stesso tempo la dolcezza e
l’autocritica.

Ritratto di Marie-Thérèse, 1937, Musée National Picasso di Parigi = Picasso ha ritratto con
maggior frequenza un’altra donna, Marie Therèse Walter, che egli ha conosciuto ormai divorziato e
sulla soglia dei quarant'anni, allorché ella aveva appena diciotto anni. Era la figlia di uno svedese
naturalizzato francese, ed aveva assunto tutte le caratteristiche fisiche del padre: era bionda, dagli
occhi azzurri, con un viso dai lineamenti forti, e con un bellissimo corpo, alto e slanciato, dalle
forme nordiche.
Picasso tenne nascosta questa relazione, che durò per decenni, e da cui ebbe anche una bambina; è
certo una delle donne che più ha amato nell'arco di tutta la sua vita. Il dipinto è molto colorato,
Picasso sembra utilizzare i colori dell’arcobaleno; lo intuiamo nel blu dei suoi occhi, nel biondo dei
suoi capelli, nel rosso delle sue labbra; E nei suoi occhi blu, e nelle sue labbra piene di rosso
smagliante, si concentra tutta la bellezza del quadro. Il naso molto acuto di Marie Therèse è stato
del tutto spostato al di fuori del suo viso, deformando in tal modo il suo volto: ma questo non
sembra affatto renderlo meno bello.
Guernica, 1937, Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía = Guernica è il nome di una
cittadina spagnola che ha un triste primato. È stata la prima città in assoluto ad aver subìto un
bombardamento aereo. Ciò avvenne la sera del 26 aprile del 1937 ad opera dell’aviazione militare
tedesca. L’operazione fu decisa con freddo cinismo dai comandi militari nazisti semplicemente
come esperimento. In quegli anni era in corso la guerra civile in Spagna, con la quale il generale
Franco cercava di attuare un colpo di stato per sostituirsi al legittimo governo. In questa guerra
aveva come alleati gli italiani e i tedeschi. Quando la notizia di un tale efferato crimine contro
l’umanità si diffuse tra l’opinione pubblica, Picasso era impegnato alla realizzazione di un’opera
che rappresentasse la Spagna all’Esposizione Universale di Parigi del 1937. Decide così di
realizzare questo pannello che denunciasse l’atrocità del bombardamento su Guernica. L’opera di
notevoli dimensioni (metri 3,5 x 8) fu realizzata in appena due mesi, ma fu preceduta da un’intensa
fase di studio, testimoniata da ben 45 schizzi preparatori che Picasso ci ha lasciato. Il quadro è
realizzato secondo gli stilemi del cubismo: lo spazio è annullato per consentire la visione simultanea
dei vari frammenti che Picasso intende rappresentare. Il colore è del tutto assente per accentuare la
carica drammatica di quanto è rappresentato. Il posto centrale è occupato dalla figura di un cavallo.
Ha un aspetto allucinato da animale impazzito. Nella bocca ha una sagoma che ricorda quella di una
bomba. È lui la figura che simboleggia la violenza della furia omicida, la cui irruzione sconvolge gli
spazi della vita quotidiana della cittadina basca. Sopra di lui è posta un lampadario con una
banalissima lampadina a filamento. È questo il primo elemento di contrasto che rende intensamente
drammatica la presenza di un cavallo così imbizzarrito in uno spazio che era fatto di affetti semplici
e quotidiani. Il lampadario, unito al lume che gli è di fianco sostenuto dalla mano di un uomo, ha
evidenti analogie formali con il lampadario posto al centro in alto nel quadro di Van Gogh «I
mangiatori di patate». Al cavallo Picasso contrappone sulla sinistra la figura di un toro. È esso il
simbolo della Spagna offesa. Di una Spagna che concepiva la lotta come scontro leale e ad armi
pari. Uno scontro leale come quello della corrida dove un uomo ingaggia la lotta con un animale più
forte di lui rischiando la propria vita. Invece il bombardamento aereo rappresenta quanto di più vile
l’uomo possa attuare, perché la distruzione piove dal cielo senza che gli si possa opporre resistenza.

La fine di un modo di concepire la guerra viene rappresentato, anche in basso, da un braccio che ha
in mano una spada spezzata: la spada, come simbolo dell’arma bianca, ricorda la lealtà di uno
scontro che vede affrontarsi degli uomini ad armi pari. Il pannello si compone quindi di una serie di
figure che, senza alcun riferimento allegorico, raccontano tutta la drammaticità di quanto è
avvenuto. Le figure hanno tratti deformati per accentuare espressionisticamente la brutalità
dell’evento. Sulla sinistra una donna si dispera con in braccio il figlio morto. In basso è la testa
mutilata di un uomo. Sulla sinistra, tra case e finestre, appaiono altre figure. Alcune hanno il volto
incerto di chi si interroga cercando di capire cosa sta succedendo. Un’ultima figura sulla destra
mostra il terrore di chi cerca di fuggire da case che si sono improvvisamente incendiate. Guernica è
l’opera che emblematicamente rappresenta l’impegno morale di Picasso nelle scelte democratiche e
civili. E quest’opera è stata di riferimento per più artisti europei, soprattutto nel periodo post-
bellico, quale monito a non esentarsi da un impegno diretto nella vita civile e politica.

Il secondo dopoguerra in Costa Azzurra: il Mito Mediterraneo ritrovato


Alla fine della seconda guerra mondiale, ringiovanito da un nuovo amore, Picasso torna in Costa
Azzurra, riscoprendo le bellezze del Mediterraneo. Dopo aver raffigurato la tragedia di Guernica, la
sua opera si trasforma in questo periodo in un'esplosione di colori, allegria e speranza.

La Gioia di Vivere, 1946, museo Picasso è senza dubbio il quadro più colorato del periodo post-
bellico, in cui Picasso voleva esprimere, con la massima intensità, la folle felicità di cui era colmo
allora; un periodo, durante il quale si sente attratto dall’esplorazione di grandi temi mitologici
fortemente influenzati dalla cultura mediterranea. In questo quadro Picasso riscopre la sua vena
classica e mitologica. E’ un pannello in fibrocemento. Questa donna-fiore, simbolo di bellezza
visionaria e allegoria dell'energia vitale sprigiona un’impressione di felicità, di contentezza. Al
centro è rappresentata una donna, dalle sembianze di un fiore, una figura ondulata dalla lunga
chioma castano e rossiccia, dalla cui danza si sprigiona tutta l'energia che coinvolge gli altri
protagonisti della scena: i due capretti, il centauro che suona il flauto e il fauno che si cimenta con il
diaulo. In riva al mare e sotto un cielo di madreperla, la donna insieme agli altri protagonisti
celebrano la gioia di vivere.

Rivisitazione dei lavori del passato


Massacro in Corea, 1951, Musée National Picasso di Parigi
L'opera rappresenta un episodio della guerra di Corea del 1950, il cosiddetto "massacro di
Sinchon": tra il 17 ottobre e il 7 dicembre 1950 circa 35.000 civili coreani rimasero uccisi nell'area
di Sinchon, nella Corea del Nord sud-occidentale, a seguito di una insurrezione anti-comunista. Il
quadro mostra un gruppo di soldati che stanno per fucilare delle donne e dei bambini; la nudità di
donne e bambini rappresenta l'innocenza e l'impossibilità di difendersi, a denuncia della crudeltà
della guerra, combattuta per le vie della città a discapito dei civili. Questi non venivano incarcerati o
fatti prigionieri, bensì giustiziati sul posto, colpevoli di vivere nel fronte sbagliato. Le donne sono
gravide, come simbolo della fertilità e della vita; infatti Picasso voleva rappresentare l'idea di donna
come Madre, potenza generatrice e non distruttiva. Questo simbolo di vita viene contrastato
dall'immagine dei soldati che, privati dei loro attributi maschili, mostrano, oltre all'assenza di
umanità, il conseguente annichilimento della fecondità. Una delle donne ha lo sguardo rivolto verso
l'alto, le braccia distese in segno di una disperata preghiera, mentre i bambini, spaventati, cercano
conforto tra le braccia delle loro madri: il primo si nasconde dietro la madre, nascondendo il volto
per non vedere cosa accadrà; il secondo è abbracciato alla madre, in attesa della morte; un altro
bambino è colto nella corsa disperata verso la madre, con lo sguardo spaventato rivolto verso i
soldati. L'ultimo bambino sembra non accorgersi di cosa stia succedendo, infatti è intento a
raccogliere un fiore. Il quadro presenta caratteristiche del cubismo nei volti delle donne, straziati dal
dolore e dalla disperazione. Gli uomini, al contrario delle donne che si presentano ferme ad
attendere, si muovono in avanti andando incontro ai civili; ciò è accentuato dal soldato in primo
piano, che porta in avanti la gamba sinistra e come gli altri punta il fucile. Sul capo portano elmi
dalle forme strane, elemento che, unito alla loro nudità, ricorda i guerrieri greci, che combattevano
nudi per avere maggior agilità ma portavano elaborati elmi che potessero incutere timore. I soldati
non presentano stemmi o segni che possano ricondurre all'esercito a cui appartengono, poiché
Picasso non intendeva schierarsi da alcun fronte bensì sottolineare il crimine compiuto da entrambi
gli eserciti. Infatti il quadro dimostra l'impegno pacifista di Picasso, peraltro già ampiamente
mostrato in altre sue opere, tra le quali la celebre Guernica. Un uomo tiene in mano la spada
simbolo del potere; nei suoi occhi si leggono furore e odio, emozioni sottolineate dalla fermezza e
dalla decisione che i loro corpi mostrano nell'atto che devono compiere. A risaltare la drammaticità
della scena sono i colori freddi. L'opera si ispira chiaramente a il 3 maggio 1808 di Francisco Goya,
rappresentante la fucilazione di alcuni ribelli da parte delle truppe francesi.
Colazione sull’erba, 1960, Museo d’Orsay di Parigi = E’ una delle più celebri litografie del
maestro Pablo Picasso, "Les Dùjeuners sur l'herbe", un celebre omaggio che l'artista dedicò
all'omonimo dipinto di Manet. Il quadro di Édouard Manet, insieme alle opere di Claude Monet e
Camille Pissarro, segnò l’inizio di una nuova stagione dell’arte figurativa: finalmente la tradizione
artistica e le tele di significato storico o mitologico dell’Accademia e dei grandi Salon ufficiali
venivano definitivamente superate dall’avvento della modernità. Nota a tutti, questa celebre tela
rappresenta in primo piano una natura morta composta da cibo e vivande, sulla destra un uomo con
bombetta nera siede immerso nel verdeggiante bosco, a sinistra vicino a lui una donna nuda, e, sul
fondo, una figura femminile avvolta in un bianco panneggio si bagna nelle acque di una piccola
fonte. Manet, vissuto a cavallo tra il XIX e XX secolo, è una chiave di lettura fondamentale per
comprendere il passaggio che porta al Novecento e alle Avanguardie. Affascinato dalla visione
innovativa di Manet, Pablo Picasso decide di confrontarsi qui con una delle sue opere più note
(appunto Colazione sull’erba), inserendo nuovi spunti e idee compositive attraverso il suo
inconfondibile linguaggio pittorico. Il pittore spagnolo continuerà a confrontarsi con Manet fino al
1970, con la realizzazione di 27 versioni e 150 disegni preparatori. Picasso continuerà l’opera di
avanguardia liberando il disegno dalle forme ed esaltando la forza dei colori blu e verde, i colori del
Mediterraneo. Le figure diventeranno evanescenti ma paradossalmente fortemente radicate,
presenti. É evidente la sua ossessione per il corpo femminile decostruito, con nasi lunghi, con colori
che accentuano i limiti del corpo. Sembrano assenti, annoiate, assorte in un mondo fatto di sogni.
Hanno qualcosa di primitivo, di sacro, nonostante il loro distacco, celebrano la vita. Le donne sono
quasi sempre presenti nei quadri di Picasso, anche nelle nature morte. Hanno spesso forme
esagerate, non corrispondono all’ideale maschile della bellezza. Picasso ripropone inizialmente il
quadro fedelmente: il paesaggio, la natura morta, la bagnante, l’uomo a sinistra con il braccio
proteso, la donna nuda e il secondo uomo seduto alle sue spalle. Successivamente il pittore
spagnolo si concentrerà sulla posizione dei quattro personaggi, cambiando le distanze e i
movimenti. In seguito si concentrerà sui colori. Alla fine della guerra li renderà più austeri,
declinando il verde e il nero, dando più forma ai personaggi. I protagonisti della tela diventano la
donna e l’uomo che nel quadro di Manet ha il braccio proteso. La raffigurazione femminile di
Manet perde la sua eroticità giudicata tanto scandalosa. Non ammicca più allo spettatore ma si
rivolge all’uomo che le sta di fronte. Sembra avviare un silenzioso dialogo che rimanda all’interiore
dialogo tra Picasso e la pittura. Nel 1960 Picasso ritorna su “Le déjeuner sur l’herbe”, rivedendo
completamente la raffigurazione della donna in primo piano che torna ad essere rotondeggiante. La
scena sembra raffigurare un momento gioioso, festoso: l’uomo è vestito di rosso. Ma a distanza di
pochi mesi il dipinto è rivisto più volte e riacquista toni austeri. Non è soddisfatto e rivoluziona la
tela, spogliando tutti i personaggi, probabilmente prendendo spunto da Cezanne, che aveva ritratto
bagnanti nudi di entrambi i sessi.
Radicalizza ciò che aveva fatto Manet proponendo una donna nuda accanto a uomini vestiti.
L’ultima versione del 1961, più volte riproposta, raffigura la donna accanto al solo uomo con il
braccio proteso, vecchio, calvo, che sembra essere il proprio autoritratto. E se la donna fosse sua
moglie Jacqueline? Nelle diverse raffigurazione la donna appare dapprima piccola, poi della stessa
grandezza dell’uomo, infine enorme. L’uomo è ridotto a una marionetta e sullo sfondo la bagnante è
in una vasca da bagno. L’ultima versione a cui arriva Picasso è una riflessione sulla pittura. Lo
sforzo di Picasso non è tanto quello di copiare il soggetto di Manet reinterpretandolo, ma quello di
porsi nella stessa maniera del pittore francese di fronte alla situazione dipinta, interpretandola con i
suoi occhi. Più che copiare prende in prestito.
Installazione Scultorea, 1967 = grande cavallo stilizzato che diventa un monumento pubblico,
posto nella piazza di Chicago; è fatto di tante lame metalliche.

Georges Braque e il Cubismo


Al principio del Novecento, insieme con il grande amico Pablo Picasso, GEORGES BRAQUE dà
inizio al cubismo. A prima vista i quadri e i disegni di Braque sembrano fatti di tanti frammenti di
forme, scollegati fra loro. In realtà l'artista rappresenta oggetti concreti in modo da mostrare
contemporaneamente i diversi lati osservati da più punti di vista. Nato nel 1882 vicino Parigi,
Braque svolge fin dall'inizio la sua vita sotto il segno dell'arte. Infatti il padre, decoratore murale, lo
spinge a frequentare l'Accademia di belle arti a Le Havre, nella Francia del nord, e poi a Parigi, la
città più importante per gli artisti del secolo scorso. In quel periodo Braque scopre la forza
espressiva dell'arte africana. Le sculture in legno provenienti dall'Africa, le maschere e i totem
essenziali e carichi di energia gli fanno capire come l'arte non deve necessariamente rappresentare
le forme del reale nei minimi dettagli: ciò che conta è riuscire a catturare come per magia un
frammento di realtà e a comunicare l'intensa emozione provata dall'artista nel farlo. All'inizio
Braque si avvicina al grande artista Henri Matisse e al gruppo delle "Belve" (i fauves), che
dipingono con colori puri e fiammeggianti. Ma è l'incontro con Picasso nel 1907 a segnare la sua
vita. Tutti e due imparano molto bene la lezione di un altro grande artista morto da poco, Paul
Cézanne, che aveva rinnovato la pittura rappresentando la natura e le cose come se fossero figure
geometriche da scomporre e ricostruire. Ispirandosi alla forza dell'arte africana e alla geometria di
Cézanne, Braque e Picasso creano il cubismo. I quadri cubisti di Braque non rispettano le solite
regole della pittura: non hanno prospettiva né profondità, lo sfondo e il primo piano non sono
distinguibili, sono presenti vari punti di fuga, le forme appaiono appiattite e i colori bruni e grigi.
Guardando un quadro cubista ci si accorge immediatamente che le cose non sono più riconoscibili,
sistemate come su una scena, come lo sono state per secoli. Per dipingere un bicchiere su un
tavolino un artista del passato avrebbe rappresentato solo la parte visibile frontalmente. Per Braque,
invece, l'artista deve rappresentare la scena totale, deve mostrare che le cose hanno più di due
dimensioni e si compenetrano l'una con l'altra. Dipingere ciò che si conosce di un oggetto significa
per Braque e per i cubisti mostrarne i molteplici lati distesi su uno stesso piano. In questo senso, si
dice che la pittura cubista non illude la vista, ma inganna la mente. Tra il 1909 e il 1914 nascono
una serie di opere memorabili. Le composizioni hanno per soggetto nature morte con frutta,
strumenti musicali, donne che leggono, tavolini. Gli oggetti sono tutti scomposti in blocchi
geometrici e appaiono visti da diverse angolature simultaneamente. Oggetti familiari, a cui non
prestiamo più attenzione, acquistano nuova luce, e l'effetto è quello di una grande armonia
nonostante che le cose appaiano scomposte. Poi lentamente la rappresentazione diventa più
complessa. L'artista comincia a dipingere sulla tela anche lettere e parole. Le tinte sono sempre le
stesse: l'ocra, il marrone e il grigio. A esse si aggiungono il bianco e qualche colore più acceso.
E oltre ai colori a olio fanno la loro comparsa materiali fino ad allora totalmente estranei alla
pittura: sabbia, carta di giornale, carta da parati, legno, paglia, corda. Nel 1914 la sua produzione
artistica si interrompe per un breve periodo: Braque va in guerra e nel 1916 viene gravemente ferito.
Anche se lo spirito della pittura cubista resta sempre presente nell'arte di Braque, dalla fine degli
anni Venti l'artista sviluppa l'ultima fase della sua produzione, la cosiddetta 'fase classica', nella
quale propone un'interpretazione della natura più fedele alla realtà. Si dedica inoltre alla
scenografia, alla scultura di opere in gesso, alle incisioni e al disegno di gioielli.

Case all'Estaque, Braque Georges, 1908, Berna = è considerato il primo paesaggio protocubista
ispirato al dipinto di Paul Cezanne del 1880 che ha lo stesso titolo. Tra i due quadri però vi è una
grandissima differenza. L’opera di Braque è stata realizzata in un soggiorno estivo nella città
provenzale di Estaque, che rappresenta un gruppo di case fra gli alberi dipinte come semplici
volumi squadrati

Violino e tavolozza, 1910, New York = dal 1908 ricorre nei dipinti di Braque la presenza di
strumenti musicali che fornivano nuove iconografie al processo di scomposizione della forma, che
comunque non giunge mai al dissolvimento totale, mantenendo degli oggetti, quali il manico del
violino, le corde, il pentagramma dello spartito e ancora la tavolozza del pittore, appesa ad un
chiodo del quale si coglie l’ombra.
Il Portoghese, 1911, Basilea =l’anno 1911 segna un passaggio importante della pittura cubista:
Braque e Picasso concludono l’esperienza di scomposizione dell’oggetto nello spazio, la cosiddetta
fase “analitica”, per rivolgersi ad un nuovo tipo di linguaggio definito “sintetico”, in cui il rapporto
tra l’artista e la realtà si compie oltre qualsiasi volontà di rappresentazione. Sia Braque che Picasso,
inseriscono delle lettere nelle loro composizioni, in modo da offrire anche le coordinate verbali di
un oggetto. Caratteri tipografici e oggetti sono presi dalla realtà e rielaborati secondo nuovi valori
che uniscono immagine e segno.

Natura morta e limoni, 1926 = Una parte consistente della produzione artistica di Braque si
incentrò soprattutto sulle nature morte, affrontate secondo una nuova visione e secondo molteplici
prospettive e punti di vista coesistenti. In questa splendida incisione a colori firmata in originale,
Braque rappresenta con colori caldi e terrosi, come varie tonalità di marrone e il giallo, una natura
morta composta da due limoni, una teiera e un bicchiere. L'opera è pubblicata sul catalogo ragionato
di Georges Braque di Dora Vallier.ar

Interpretazioni del Cubismo (Cubismo Orfico)


Il cosiddetto cubismo orfico o orfismo (da Orfeo, perché questo tipo di cubismo era visto come più
libero e poetico di quello intellettuale di artisti come Picasso o Braque, da qui il riferimento al
mitico cantore Orfeo) è una corrente che ha avuto un ruolo fondamentale nel legare tra loro le
diverse istanze del Cubismo, portandolo a confrontarsi e dialogare con le nuove tendenze artistiche,
in primis l’astrattismo. Coniato da Guillaume Apollinaire, il termine stava ad indicare un cubismo
in cui il colore la faceva da padrone e ciò che veniva rappresentato sulla tela era sempre meno
legato a un dato naturale o sensoriale ma virava, in certi casi in maniera netta, verso l’astratto.
Il termine è stato ripreso dai critici soprattutto per identificare alcuni pochi ma interessanti artisti
che, soprattutto nell’arco di tre o quattro anni al massimo, seppero creare un ponte tra il cubismo
analitico, il nascente futurismo e l’astrattismo, esaltando la scomposizione dello spazio ma anche il
dinamismo, la separazione dal dato reale me anche l’esaltazione del colore e della luce.

Robert Delaunay, Campo di Marte, La Torre Rossa (1911-1912; New York, Guggenheim
Museum)
Padre e principale esponente dell’orfismo fu indubbiamente Robert Delaunay, artista responsabile
anche di aver, con una sua mostra, ispirato il nome della corrente ad Apollinaire. S’impose sulla
scena parigina, città dov’era nato e dove si era formato, lasciandosi influenzare da tutte le diverse
istanze che in quel tempo trovavano asilo nella capitale francese. Classe 1885, aveva iniziato
giovanissimo a dipingere alla maniera dei fauves, ma poi a partire dal 1908 si era avvicinato al
cubismo e al suo primo rigore formale, un rigore però presto abbandonato man mano che il soggetto
principale dei suoi quadri di quel periodo – la torre Eiffel – trovava sulla sua tela sempre più vigore
e colore. Per quanto riguarda “La torre rossa”, è un dipinto datato 1911 che forse è il primo che si
può far rientrare nella nuova corrente e che rappresenta, appunto, una torre rossa. Delaunay ne
aveva dipinto uno quasi identico l’anno prima, intitolandolo “La torre Eiffel”, ma qui il soggetto
appare al centro, più colorato e vitale, con la torre che abbandona le tonalità grigie e marroni che
aveva avuto nel lavoro precedente, prendendo invece un accento rossastro, mentre dal cielo si
aprono squarci d’azzurro e di verde, oltre che di luce bianca. È come se il colore facesse breccia
nella composizione, illuminando prima la torre ma minacciando poi di spostarsi anche sulle case
attorno, che per ora rimangono grigie ma non si riesce a capire ancora per quanto. In questo dipinto
il colore non è più un elemento di decoro, ma è l'elemento che costruisce le forme: ognuno degli
elementi che compone la torre ha infatti un proprio colore, proprio perché per il cubismo orfico la
scomposizione degli elementi avviene anche sulla base del colore. Con questa particolare
rappresentazione, Delaunay intende mostrare la torre Eiffel da diversi punti di vista nello stesso
quadro: è per questo che ci appare così storta e sinuosa rispetto alle composizioni tipiche del
cubismo "intellettuale". Delaunay realizzerà ancora almeno fino alla fine degli anni Venti
moltissimi quadri dedicati alla torre simbolo di Parigi – che con la sua verticalità e i materiali di cui
era composta rappresentava anche un simbolo di progresso quasi futurista – a volte
rappresentandola in maniera più lineare e fedele alla realtà, altre volte rendendola quasi
irriconoscibile.

Fernand Léger, Nudi nella foresta (o Nudi in un paesaggio), Rijksmuseum Kroller Muller in
Olanda.
Nel cubismo orfico troviamo anche Fernand Léger. Assorbe la lezione di Cézanne, fa proprie le
scomposizioni e le ricomposizioni di Picasso, Gris e Braque, e non nasconde la fascinazione per il
primitivismo di Rousseau Il Doganiere. Sottoposto a continue sollecitazioni grafico-pittoriche,
dall’astrattismo geometrico puro alle soluzioni della nuova figurazione, Léger non tarda a maturare
un personalissimo metro stilistico che fin da subito si impone come una mediazione tra
rappresentazione realistica e sintesi cromo-lineare. Tra il 1909-1910 dipinge “Nudi nella foresta”,
cezanniana all’ennesima potenza, strutturazione pura, trattazione di soggetti e oggetti con la
medesima materia pittorica; venne presentato al Salon des Indipéndants nell’aprile 1911. I volumi si
ingrossano e si moltiplicano, si “fanno in quattro” per mostrarci il saliscendi dei muscoli (dorsali,
pettorali, deltoidi, tricipiti). Il dipinto è caratterizzato da una luce verdastra da sottobosco, come
notò Apollinaire, che pensò al soggetto del quadro come a dei boscaioli sebbene il titolo (“Nudi
nella foresta” o “in un paesaggio”) non ce lo possa confermare, ma Léger in un’intervista parlò di
“taglialegna” quindi più o meno confermò. Apollinaire ha parlato per quest’opera di “pittura
cilindrica” e paragonò le varie figure ad una massa di “pneumatici accatastati”. Ma a ben vedere, se
zoomiamo ogni singolo pezzo, notiamo che è composto da una serie di faccette rettangolari.
Insomma, anche le parti circolari sono state composte da Léger tramite tanti piccoli segmenti ed è
segno che Léger vuole iniziare a costruire un universo alternativo <a quello naturale. È un universo
autofondato, autoreferenziale, rispondente a leggi autonome e non a quelle della realtà visibile. I
volumi composti da faccette rettangolari rispondono allo stesso procedimento di quello che
facevano i divisionisti col colore, e cioè costruivano le figure a partire dal contrasto simultaneo dei
colori.
Juan Gris, Ritratto di Madame Josette Gris, 1916, Museo Reina Sofía di Madrid
Juan Gris (nome d'arte di José Victoriano González, pittore spagnolo cubista) nonostante sia stato
uno dei principali interpreti, unitamente a Pablo Picasso e a Georges Braque dello stile cubista, dal
1912 in poi sviluppa un cubismo più personale, che dal cubismo analitico lo porta verso il cubismo
sintetico; inizia infatti a concentrarsi su colori vivaci (a differenza dei colleghi Braque e Picasso, le
cui opere erano monocromatiche) divenendone uno dei maggiori esponenti. L’opera “Portrait de
Madame Josette Gris” ritrae Josette, musa, modella, moglie e compagna del pittore spagnolo Juan
Gris. La donna appare in primo piano, seduta su una sedia con entrambe le mani poggiate sulle
ginocchia. Dietro di lei si trova un muro ricoperto nella parte inferiore da una serie di pannelli di
legno. Utilizzando la tecnica del collage, l'artista sovrappone più elementi, senza però dargli un
preciso scopo narrativo: i soggetti, senza importanza, sono ripetuti più volte. Gli oggetti nella tela
non corrispondono a realtà, l'artista li concretizza in pittura, ma di essi rimane solo il concetto
formale. L’immagine, nel complesso, appare una sovrapposizione di più piani pittorici, (vengono in
evidenza almeno due piani pittorici: uno anteriore e uno posteriore) tra loro assemblati da tonalità di
colore, per lo più scure, che fungono da specifico collante, donando al dipinto un particolare
dinamismo cromatico. L’opera si compone di una serie di disegni geometrici complessi, cha
attraverso un perfetto gioco di sovrapposizioni emergono dai diversi piani pittorici, evidenziati da
un vivace cromatismo. Si crea, in tal modo, una intensa profondità (o almeno una intensa
sensazione di profondità ottica). Certamente l’opera “Portrait de Madame Josette Gris” richiama lo
stile cubista e, al contempo, risente fortemente dell’influsso di Jean-Baptiste Camille Corot e di
Paul Cézanne. In particolare la postura della figura femminile, seduta con entrambe le mani
poggiate sul grembo richiama la tecnica e lo stile delle opere di Cézanne, mentre la strutturazione
della composizione in senso verticale rientra per lo più nell’arte di Corot.
J. Gris, Chitarra e giornale, 1925, Madrid, museo Reina Sofia
Altra opera, realizzata nel 1925, da Juan Gris. Si tratta di una natura morta raffigurante una chitarra
ed un giornale disposti su un tavolo; si possono distinguere anche una mela ed una tovaglia posta
sotto la chitarra. L’oggetto principale del dipinto è certamente la chitarra, posta al centro del quadro,
della quale non si riesce a distinguere il ponte. Tutte gli oggetti raffigurati appaiono come proiezioni
ortogonali degli stessi, eseguite non secondo prospettive geometricamente corrette, ma sintetizzate
dall’artista secondo la sua particolare visione; gli oggetti appaiono come generati partendo da solidi
geometrici, incastrati tra di loro, bloccati a vicenda dalle reciproche proiezioni e prospettive.
L’unico oggetto che sembra essere immune a questa operazione di proiezione effettuata dall’artista
è il tavolo in legno, il quale appare disegnato seguendo canoni più razionali di prospettiva. Il colore
appare disposto mediante ampie campiture piatte. Dominano gli ocra, i beige ed i grigi, che
generano una piacevole armonia cromatica. Tutti i toni sono piuttosto scuri e poco luminosi.
Tuttavia, il beige tenue e rilassante della chitarra contrasta con l’arancione scuro dello sfondo, che è
il colore più vibrante del quadro e l’unico che trasmette agitazione. La parte superiore del tavolo,
che appare realizzata in modo molto realistico, dà risalto alle venature naturali del legno con cui è
realizzato. Il tratto appare piuttosto grossolano e spesso. Quasi tutte le linee sono rigide e tese, ad
eccezione degli angoli della cassa della chitarra e di una delle pieghe del giornale. Chitarra e
giornale generano linee oblique che hanno origine al centro dell’opera per poi salire verso gli angoli
superiori, generando una grande sensazione di movimento e dinamismo, tanto che la chitarra
sembra quasi in procinto di cadere dal tavolo. Gli spazi sono quasi interamente riempiti; c’è una
grande sensazione di affollamento. La luce (probabilmente artificiale) proviene dall’alto,
proiettando le piatte ombre grigie al di sotto degli oggetti. L’opera può essere inquadrata in pieno
nello stile del cubismo sintetico, di cui Gris sarà uno dei maggiori esponenti. Durante questa fase
l’artista abbandona gli esperimenti degli anni precedenti per dedicarsi ad opere più classiche e
poetiche. Le nature morte saranno ampiamente utilizzate sia da Gris che dagli altri cubisti durante
questo periodo, proprio perchè utili ad esprimere questa nuova interpretazione delle forme e dello
spazio. Le forme, appunto, non vengono più scomposte e poi ricomposte come avveniva nel
cubismo analitico, ma realizzate partendo da immagini geometriche presenti nella mente
dell’artista.
Raymond Duchamp-Villon, Il cavallo (Le Cheval) 1914, Collezione Peggy Guggenheim, Venezia
Vittima della follia di guerra, Pierre-Maurice-Raymond Duchamp (solo nel 1900 adottata lo
pseudonimo di Duchamp-Villon) è tra i primi artisti a porsi il problema di una scultura cubista. In
poco più di dieci anni e senza alcuna formazione accademica alle spalle, nello stile riprende Rodin,
si volge al lascito di Gauguin e di Cézanne. Studia Picasso e il cubismo. Scultore, disegnatore,
architetto e scrittore, Duchamp-Villon compie la sua ricerca nel segno della purezza formale e
dell’espressione delle più diverse manifestazioni dell’animo umano. Nel 1914, durante la prima
Guerra Mondiale, presta servizio come medico nel reggimento di cavalleria dell'esercito francese;
ha modo così di osservare i cavalli e i loro modo di muoversi e di correre. E' in questo periodo che
inizia a lavorare all'originale in gesso del "Cavallo": scultura che rappresenta la testa di un cavallo
composta da parti di animale e parti di macchina, manifesto della padronanza intellettuale
dell’uomo su qualcosa che dall’uomo stesso è stato creato. Numerosi sono i disegni preparatori che
precedono l'opera della quale esistono diverse versioni. In quest'opera gli elementi anatomici del
cavallo e quelli tecnologici della macchina si fondono in un'unica struttura dinamica: l'artista non si
limita alla scomposizione analitica dell'oggetto tipica del cubismo, ma ricompone la realtà
conferendo alla struttura una forza dinamica e rotatoria che conferisce al soggetto una potente
energia vitale che quindi l'avvicina maggiormente al Futurismo italiano. L'analisi oggettiva si
accompagna dunque alla suggestione di questi nuovi elementi creati dall'artista e le superfici liscie e
geometriche conferiscono a questa scultura un aspetto astratto. Più che ad un cavallo questa scultura
somiglia ad una turbina o a qualche altro potente macchinario. L'animale simbolo di energia e
potenza si trasforma nel nuovo mito tecnologico: la macchina, il mezzo che nel giro di pochi anni
ne prenderà il posto anche nell'immaginario collettivo e non solo come mezzo di trasporto.
Jacques Lipchitz, Marinaio con chitarra, 1914, Albright Art Gallery di Buffalo
Scultore lituano naturalizzato francese. Studiò a Parigi, dove fece propri i principi del cubismo e
sviluppò innovativi esperimenti sulle forme astratte. Sperimentò la traduzione della realtà in
semplificazioni di piani e volumi appunto secondo la costruzione geometrica della pittura cubista;
successivamente il suo stile assunse toni più dinamici, manifestando tendenze surrealiste. L'uomo
che suona uno strumento musicale fu uno dei soggetti più cari alla pittura cubista. Anche lo scultore
lituano Jacques Lipchitz ripropose più volte nelle proprie opere il tema del suonatore. Nel Marinaio
con chitarra, sia la figura sia lo strumento cono chiaramente leggibili; il vestito e il cappello
dell'uomo, per quanto semplificati, non lasciano dubbi sul fatto che egli sia un marinaio. L'artista ha
trasposto la scomposizione pittorica cubista in una dimensione prevalentemente volumetrica la cui
sintassi è basata su un rigoroso schema di angoli e curve che forza gli incastri tra un elemento
all'altro e lascia che la luce agisca in profondità, sottolineando con il gioco di chiaroscuro le singole
parti dell'opera. Tuttavia la scultura testimonia la vicinanza dello scultore ad una riproduzione
"naturale" della realtà, in cui la figura e lo strumento musicale non appare "incastrato" in modo
astratto, di forme ondulate.

Alexander Archipenko, Donna che cammina, 1912, Denver Art Museum


Dopo essere cresciuto e aver studiato a Kiev, alla scuola d’arte della capitale, Archipenko frequenta,
per poco tempo, la École des Beaux-Arts di Parigi per poi immergersi immediatamente nel mondo
del movimento cubista. È stata la sua curiosità e la voglia di scoprire nuove tecniche che lo hanno
portato in Francia, per lui terra della innovazione. Qui conosce infatti personaggi attivi nel
movimento cubista che gli offriranno molto, artisticamente parlando. Le realizzazioni e i punti di
vista dell’arte di Alexander Archipenko iniziano a manifestare tendenze che lo portano ad
analizzare la cavità e la materia, la superficie concava e convessa, creando e formando delle opere
che possono essere interpretate come la concretizzazione scultorea dei dipinti cubisti. La
contemporanea passione di Archipenko per l’arte africana – quella formata da affascinanti e
molteplici culture – influenzano lo scultore nella manipolazione ideale delle forme astratte, fino a
portare la sua creatività a una traduzione nel reale caratterizzata da un incredibile movimento
armonico e sinuoso. Intorno al 1912, Archipenko venne attratto e prese ispirazione dalle opere
cubiste di nomi leggendari come Georges Braque e Pablo Picasso. Più o meno nello stesso periodo
iniziò a creare sculture assemblando frammenti di materiali comuni, procedendo in parallelo al
lavoro di Picasso. In opere come la Donna che cammina, realizzata in bronzo, ridusse la figura
umana a forme geometriche e ne squarciò alcune parti mediante concavità e un foro centrale allo
scopo di creare un contrasto tra pieno e vuoto, creando così un nuovo linguaggio per la scultura
moderna. A prima vista la scultura in bronzo verde sembra del tutto astratta, ma osservando più
attentamente è possibile scorgervi unaa figura femminile che cammina. Archipenko realizzò la
scultura giocando con i vuoti creati da immaginarie sezioni scomposte; la testa, per esempio, è
creata dal bronzo intorno al vuoto.
E' probabilmente il primo lavoro della scultura occidentale a introdurre un simile concetto di
costruzione spaziale, rappresentando un radicale distacco dalla tradizione classica. Archipenko
utilizzava pieni e vuoti per creare nuovi modi di considerare la figura umana, parallelamente al
metodo cubista che scomponeva i soggetti ritraendoli simultaneamente da punti di vista diversi.

Julio González, Daphné, 1937, Madrid


Julio González (Barcellona) è considerato il padre della scultura moderna in ferro. Nonostante sia
uno dei nomi più importanti che la Catalogna ha dato all'arte universale (insieme a Gaudí, Dalí o
Miró, per esempio), non ha mai goduto della stessa popolarità. Julio González si è formato come
artigiano nell'industria metalmeccanica di suo padre in un momento in cui Barcellona brulicava di
Modernismo. Ha iniziato la sua carriera come pittore, e come la maggior parte degli artisti del
tempo, si è trasferito a Parigi, un viaggio di sola andata nel suo caso. E’ stato influenzato dalle
correnti artistiche presenti in quel tempo a Parigi, tra cui COSTRUTTIVISMO, ASTRATTISMO,
CUBISMO e SURREALISMO, anche se, l’artista catalano era indipendente da qualsiasi
movimento. La sua formazione artigiana e la sua padronanza della saldatura sono stati fondamentali
per l'ascesa di Julio González come maestro di scultura in ferro. Collaborò con Picasso tra il 1928-
1932. Ed è proprio grazie a questi contatti diretti con Picasso che Gonzàlez riuscì a realizzarsi e a
formare il proprio talento, utilizzando nuovi materiali e nuovi metodi presi in prestito dalla
tecnologia industriale e dalla lavorazione dei metalli. Ha creato un nuovo linguaggio scultoreo che è
stato descritto come astratto. Si basa su una fusione di materia e spazio, un nuovo modo di intendere
la scultura (l'ha definita "disegno nello spazio") che il pubblico può ammirare in capolavori come
Daphne. Nella sua maturità artistica, Julio González si immerse nell'essenza stessa della scultura
come arte dello spazio e del materiale, e di conseguenza nell'astrazione. La scultura Daphné
(Daphne) applica questo nuovo linguaggio, così vicino al non figurativo, a un motivo classico dai
miti raccolti nelle Metamorfosi di Ovidio: la ninfa che si trasforma in un albero di alloro per
allontanarsi dal dio Apollo. Da un punto di vista tecnico, assumere il mito di Dafne rappresenta una
sfida scultorea, dal momento che deve mostrare una persona (Daphne appunto) che si sta
trasformando; si trova tra due mondi naturali, umano e vegetale. La figura di Dafne, una forma
allungata da cui sporgono numerosi alberi di metallo curvi, trasmette una sensazione simile allo
stile astratto delle avanguardie degli anni '30. La sapiente lavorazione delle raffinate sbarre di ferro,
che sembrano delineare la scultura in aria, sono fedeli ricordi della prima formazione dell'artista.
Daphné è un esempio della combinazione della radicale innovazione linguistica e tecnica di
González con la natura umanistica di una scultura che ha sempre mantenuto i suoi legami con la
tradizione occidentale classica.

ASTRATTISMO
Nelle arti figurative il concetto di astratto assume il significato di «non reale». L’arte astratta è
quella che non rappresenta la realtà. L’arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra
esperienza visiva. Essa, cioè, cerca di esprimere i propri contenuti nella libera composizione di
linee, forme, colori, senza imitare la realtà concreta in cui noi viviamo. L’arte astratta ha un
obiettivo: quello della comunicazione. Vuole esprimere contenuti e significati, senza prendere in
prestito nulla dalle immagini già esistenti intorno a noi. L’astrattismo nasce intorno al 1910, grazie
al pittore russo Wassilj Kandinskij. Egli operava, in quegli anni, a Monaco dove aveva fondato il
movimento espressionistico «Der Blaue Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Il suo astrattismo conserva
infatti una matrice fondamentalmente espressionistica. È teso a suscitare emozioni interiori,
utilizzando solo la capacità dei colori di trasmettere delle sensazioni. Da questo momento, la nascita
dell’astrattismo ha la forza di liberare la fantasia di molti artisti, che si sentono totalmente svincolati
dalle norme e dalle convenzioni fino ad allora imposte al fare artistico. I campi in cui agire per
nuove sperimentazioni si aprono a dismisura. E le direzioni in cui si svolge l’arte astratta appaiono
decisamente eterogenee, con premesse ed esiti profondamente diversi.
WASSILJ KANDINSKIJ
Nacque a Mosca. La sua arte è, almeno inizialmente, influenzata dall’espressionismo, a cui lui
fornisce contributi pittorici e critici. Ed è proprio partendo dall’espressionismo che negli anni dopo
il 1910 avviene la sua svolta verso una pittura totalmente astratta. Nel 1911 fonda, insieme
all’amico pittore Franz Marc, «Der Blaue Raiter». Inizia così il periodo più intenso e produttivo
della sua vita artistica. Nel 1910 pubblica il testo fondamentale della sua concezione artistica: «Lo
spirituale nell’arte». È un testo fondamentale per comprendere la sua opera. Al quarto capitolo
Kandinskij scrive che in tutte le arti, specie in quelle dei suoi tempi, è avvertibile una tendenza
all’antinaturalismo, all’astrazione e all’interiorità. E aggiunge che in un confronto tra le varie arti:
«il più ricco insegnamento viene dalla musica. Salvo poche eccezioni, la musica è già da alcuni
secoli l’arte che non usa i suoi mezzi per imitare i fenomeni naturali, ma per esprimere la vita
psichica dell’artista e creare la vita dei suoni». Le riflessioni sui rapporti tra pittura e musica
convincono Kandinskij che la pittura deve essere sempre più simile alla musica e che i colori
devono sempre più assimilarsi ai suoni. La musica, infatti, è pura espressione di esigenze interiori e
non imita la natura: è astratta. Anche la pittura, secondo Kandinskij, deve essere astratta,
abbandonando l’imitazione di un modello. Solamente una pittura astratta, cioè non figurativa, dove
le forme non hanno attinenza con alcunché di riconoscibile, liberata dalla dipendenza con l’oggetto
fisico, può dare vita alla spiritualità. L’artista affronta la pittura astratta attraverso tre gruppi di
opere, che anche nelle loro denominazioni indicano il legame dell’arte di Kandinskij con la musica:
"impressioni", "improvvisazioni" e "composizioni". Impressioni sono i quadri nei quali resta ancora
visibile l’impressione diretta della natura esteriore; improvvisazioni, quelli nati improvvisamente
dall’intimo e inconsciamente; composizioni quelli alla cui costruzione partecipa il cosciente, definiti
attraverso una serie di studi. Successivamente il suo astrattismo conosce una svolta molto decisa. Se
nella prima fase i suoi quadri si componevano di figure molto informi mischiate senza alcun ordine
geometrico (anche i colori erano molto vari, mischiati tra loro, ottenendo infinite varietà cromatiche
intermedie), nella nuova fase i quadri di Kandinskij assumono un ordine molto più preciso. Si
compongono di forme dalle geometrie più riconoscibili e dalle tinte più separate tra loro.
Wasilij Kandinskij, Il cavaliere azzurro (Der Blaue Reiter), 1903, Zurigo
“Der Blaue Reiter”, tradotto in italiano “Il cavaliere azzurro” è forse il più importante dipinto di
Kandinskij realizzato nei primi anni del Novecento. L’opera fa ancora parte del periodo figurativo
dell’artista che poi cominciò a sviluppare il suo stile astratto unendo suoni, colori e pittura. L’opera
non può definirsi astratta perché sono ancora ben identificabili la figura del cavallo e il paesaggio
che fa da sfondo, ma la pennellata non è precisa e abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a uno
schizzo veloce o a un semplice abbozzo. Un cavaliere avanza al galoppo in primo piano traversando
una collina verde. Indossa un mantello di colore blu molto brillante mentre il cavallo ha il manto
bianco. Il profilo della collina è alto e definito inoltre da una evidente curva che scende verso
destra. Sopra di essa crescono poi alcuni alberi dal fogliame autunnale. Dietro le chiome si nota
infine una linea blu di colline e quindi il cielo azzurro attraversato da nuvolette bianche. Il soggetto
di questo celebre dipinto di Vasilij Kandinskij è tratto dalla tradizione russa e del medioevo tedesco.
Infatti in queste culture sopravviveva il mito del cavaliere che combatte il male affrontando prove
pericolose. Questa figura eroica rappresentava così il simbolo della lotta fra bene e male. Inoltre il
colore blu era considerato da Kandinskij come simbolo della spiritualità. Quest’opera è datata 1903
per la precisione e risale al periodo durante il quale l’artista russo visse a Monaco di Baviera. Nella
città tedesca insieme a Franz Marc fondò l’associazione de “il Cavaliere azzurro. Gli artisti de “il
Cavaliere azzurro” si ispiravano a Van Gogh, a Gauguin, al Klimt più astratto e agli espressionisti
tedeschi. Erano inoltre molto attratti dalle forme essenziali e spontanee dell’arte primitiva e dalla
libertà espressiva del mondo infantile, estraneo a ogni regola. Tutte caratteristiche che ritroviamo in
quest’opera che con i suoi colori puri e le forme semplificate sembra cercare una rappresentazione
diversa da quella del reale. Dopo un periodo figurativo, Kandinskij si allontanò dal soggetto e dalla
raffigurazione del reale e nel 1910 realizzò il primo acquerello astratto della storia dell’arte.
Wasilij Kandinskij, Manifesto e Almanacco Der Blaue Reiter, 1911-1912
Da accompagnamento alla mostra, uscì anche un almanacco, chiamato sempre “Der Blaue Reiter”,
che si configurò come il manifesto del movimento astratto. L’almanacco “Der Blaue Reiter” esce
precisamente nel maggio 1912 e al suo interno Kandisnkij spiega la scelta del nome. A lui
piacevano le figure dei cavalieri (che ricorrevano spesso nei suoi primi quadri come simbolo di lotta
e forza), Franz Marc era invece amante del colore azzurro. Anche Kandinskij parla dell’azzurro nel
suo “Spirituale nell’arte” paragonandolo al cielo e quindi alla sfera del trascendente e dello spirito.
Kandinskij lavora alla copertina dell’almanacco e realizza ben dieci bozzetti. In tutti compare la
figura del cavaliere ragazzo a cavallo, su una montagna mentre sventola un fazzoletto azzurro,
simbolo della nuova era dell’arte. Il cavaliere è tra l’altro una figura molto importante nella
tradizione russa, legato alla lotta con il drago. Kandinkij si cimentò in questa iconografia molte
volte nella sua pittura. Proprio per questo, anche il cavaliere azzurro dell’almanacco incarna i valori
della salvezza e della guarigione da un’epoca passata legata al materialismo, che deve essere
superata. L’almanacco conteneva saggi dedicati alla pittura, alla musica e al teatro. Sono presenti
anche quadri di Picasso, van Gogh, Cézanne, Gauguin. Kandinskij e Marc scelsero le opere per le
emozioni interiori che suscitavano, anche se ognuna in modo diverso.

Wassilj Kandinskij, Murnau veduta con ferrovia e castello, 1909, Monaco


Come gli altri artisti, anche Kandinsky fu influenzato dalla nascita della civiltà delle macchine, in
particolare dalla ferrovia. Tuttavia, non si interessò degli aspetti atmosferici che si determinavano
nelle stazioni, né della continuità che provocava il movimento, cosa della quale si interessarono i
futuristi. Per il pittore russo il treno sbuffante diventa l’occasione per dipingere una macchia nera
che senza continuità parte da destra e arriva al limite sinistro della composizione. Kandinsky
rappresenta il paesaggio mondano di Murnau (che amava molto), con la sua folta vegetazione e le
costruzioni, come il castello, nella parte alta, che è attraversato dal treno nero con la sua ombra
proiettata nella parte bassa del dipinto.
La composizione si divide cromaticamente in due parti: abbiamo quella destra, dove predominano i
colori scuri: dal blu al verde e marrone, e quella sinistra che viene illuminata da una luce solare,
dove penetra la sagoma nera del treno con la sua scia nera, dove vengono usati il giallo, il rosso, il
bianco del vapore che sbuffa fuori dal treno, il celeste del tetto della casa, l’arancione delle
costruzioni. Si assiste, insomma, ad una sorta di passaggio dalle tenebre alla luce: secondo le parole
del pittore, si assiste simbolicamente a una rappresentazione “dell’imminente fuoriuscita dalle
tenebre del materialismo”. Un dipinto che lascia vedere il paesaggio così com’è: gli oggetti sono
delineati perfettamente e la tela dà l’impressione realmente di un passaggio dalle tenebre alla luce
del sole.

Wassilj Kandinskij, Improvvisazione 6, ovvero “Africano”, 1909, Monaco.


A maturazione di una profonda riflessione sulla pittura (avviata per la stesura del saggio Lo
spirituale nell’arte) Kandinskij giunge ad identificare le sue opere non più con titoli descrittivi ma
con una sigla e una numerazione progressiva, imitando ciò che i musicisti solevano fare con le loro
composizioni. L’ispirazione musicale conduce Kandinskij ad un progressivo abbandono della
rappresentazione del reale in favore di una pittura sempre più astratta. Guardando “Improvvisazione
6”, in particolare, osserviamo come la ricerca dell’artista, all’alba del 1907, approdi in un vivace
espressionismo dove il colore dissolve la tridimensionalità degli oggetti costruendo un paesaggio
fantastico, specchio della interiorità dell’artista. Il sottotitolo dell’opera, infatti, richiama un periodo
preciso della vita di Kandinskij, periodo che coincide con il viaggio compiuto in Tunisia in
compagnia dell’amico Gabriele Munter. Il ricordo dei profumi, delle suggestioni visive e delle
emozioni provate durante questa visita al continente africano prende vita in “Improvvisazione 6”
attraverso la distorsione e intensificazione espressionista del dato naturale. Su di un cielo giallo-
arancio si distinguono così i profili morbidi di elementi azzurro-verdi che potrebbero richiamare
allo stesso tempo verdeggianti altopiani o morbide onde marine. Sebbene l’elemento figurativo non
sia ancora scomparso del tutto (vi è ancora la parvenza di figure umane, case ed elementi geomorfi),
“Improvvisazione 6” rappresenta la presa di coscienza di un colore sempre più svincolato dalla
forma, libero ed espressivo in modo autonomo. Nell’opera, ricca di magia e spensieratezza,
Kandinskij si abbandona a libere e impetuose stesure di colore accompagnate dall’irregolarità delle
forme, rievocando agli occhi dello spettatore le notti d’oriente, la sabbia che diventa argilla sotto il
sole cocente e gli affascinati riflessi cobalto del mare. L’opera si costituisce così come una somma
di suggestioni dove, mancando una precisa volontà compositiva, si improvvisa un’immagine
partendo da un ricordo.
Wassilj Kandinskij, Composizione IV, 1911, Dusseldorf.
E’un vortice di colori e linee. Il dipinto è diviso bruscamente al centro da due
spesse nere linee verticali. Sulla sinistra, un movimento violento si esprime attraverso
la profusione di linee taglienti, frastagliate e ingarbugliate. A destra, tutto è calmo, con
forme ampie e armonie di colori. L'intenzione di Kandinsky è che la nostra prima reazione
dovrebbe derivare dall'impatto emotivo delle forme pittoriche e dei colori. Tuttavia, una
più accurata indagine rende evidente che l'astrazione di questo lavoro è solo apparente.
Le linee nere di demarcazione sono in realtà due lance tenute da cosacchi dal cappello
rosso. Accanto a loro, un terzo cosacco, con la barba bianca si appoggia sulla sua
spada viola. Stanno davanti a una montagna blu coronata da un castello (la
montagna, figura ricorrente in K., indica l’elevazione spirituale, la ricerca del
trascendente). In basso a sinistra, sono raffigurate due barche Sopra di loro, due
cosacchi a cavallo sono uniti in una battaglia, brandendo sciabole viola. In basso a destra,
due amanti distesi, mentre sopra di loro due figure vestite osservano dalla collina.
Kandinsky ha ridotto la rappresentazione in segni pittografici, al fine di ottenere la
flessibilità necessaria per esprimere una più alta visione cosmica.

Wassily Kandinskij, Primo acquerello astratto, 1910, Parigi


Questo acquerello è la prima opera totalmente astratta di Kandinskij. Nacque come studio per
un’opera più complessa, realizzata nel 1913. Esso tuttavia ha una sua organicità, e un suo primato,
che lo hanno reso una delle opere più famose dell’artista. Al quadro manca una qualsiasi spazialità.
Si compone unicamente di macchie di colore e segni neri che non compongono delle forme precise
e riconoscibili. Non è quindi possibile ritrovarvi una organizzazione di lettura precisa. Lo si può
guardare partendo da un qualsiasi punto e percorrerlo secondo percorsi a piacere.
Ma, come le opere musicali, che hanno un tempo preciso di esecuzione, anche i quadri di
Kandinskij hanno un tempo di lettura. Non possono essere guardati con un solo sguardo. Sarebbe
come ascoltare un concerto eseguito in un solo istante: tutte le note si sovrapporrebbero senza
creare alcuna melodia. I quadri di Kandinskij vanno letti alla stessa maniera. Guardando ogni
singolo colore, con il tempo necessario affinché la percezione si traduca in sensazione psicologica,
che può far risuonare sensazioni già note, o può farne nascere di nuove. Tenendo presente ciò, i
quadri di Kandinskij, soprattutto quelli più complessi a cui diede il nome di Composizioni, si
rivelano essere popolati di una quantità infinita di immagini. Ogni frammento, comunque preso,
piccolo o grande che sia, ha una sua valenza estetica affidata solo alla capacità del colore di
sollecitare una sensazione interiore. Si tratta di un approccio all’opera d’arte assolutamente nuovo
ed originale che sconvolge i normali parametri di lettura di un quadro. Ma è un approccio che ci
apre mondi figurativi totalmente nuovi ed inediti, dove, per usare una espressione di Paul Klee,
«l’arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è».

Wassily Kandinskij, Composizione VIII, 1923, New York


La sua ottava «Composizione» Kandinskij la realizza a distanza di dieci anni dalla prima. In realtà
in questo decennio che separa i due quadri è successo di tutto. Vi è stata la Prima Guerra Mondiale
e la Rivoluzione Russa. Kandinskij torna nella sua patria per partecipare ai primi governi
rivoluzionari. Poi ritorna in Germania, e qui, quasi a riallacciare fili che sembravano interrotti,
riprende la sua attività pittorica. Il suo stile è però diverso. Il suo astrattismo ha perso ogni
componente espressionistica per ricercare forme più rarefatte e regolari. Forse non è stato
ininfluente il contatto con le avanguardie russe, quali il Suprematismo e il Costruttivismo. Di certo
la sua pittura sembra ora rivolgersi, meno alle situazioni psichiche interiori, ma più alla costruzione
di una nuova realtà esteriore. Una realtà in cui le macchine, le industrie, i nuovi materiali, eccetera,
richiedono anche una nuova estetica tutta ancora da definire.

FRANZ MARC
Nel 1910 Marc incontrò il pittore russo Wassily Kandinsky a Monaco di Baviera: all’epoca
Kandinsky faceva parte della Neue Künstlervereinigung, un collettivo di artisti espressionisti
tedeschi. Anche Marc si unì al collettivo, ma ci rimase per pochi mesi: nel 1911 lui e Kandinsky se
ne andarono per fondare Der Blaue Reiter; Marc cambiò stile, avvicinandosi a quello di Kandinsky.
Cerca di entrare in sintonia con la natura, con gli alberi, con gli animali. Egli vede nell'animale una
metafora di purezza e innocenza; usa isolare la creatura in un contesto rurale. Il suo obiettivo è
l'"animalizzazione dell'arte".
Di conseguenza, esamina in dettaglio i "meccanismi interni" degli animali: questo ha portato a
riflettere su come un cavallo, un'aquila, un capriolo o un cane vedono il mondo e al tentativo di
proporre l'immagine del paesaggio così come visto dall'animale invece che come lo vediamo noi
con i nostri occhi. Egli cerca uno stile buono, puro e chiaro in cui almeno una parte di ciò che ha da
dire possa emergere completamente. Marc dà grande importanza al colore.

Franz Marc, Mucca gialla, 1911, New York, Guggenheim Museum


Nelle sue opere, come abbiamo detto, predomina la raffigurazione del mondo animale, ma l’utilizzo
del colore e delle linee conferiscono ad esse una marcata connotazione astratta. In questo quadro la
mucca è l’elemento predominante. I colori accesi e caldi, per lo più, sono accostati alle tinte fredde
in un rapporto armonico che dona una sensazione di serenità ed esprimono la sensibilità soggettiva
dell’artista. Le linee morbide e sinuose, a parte quelle che delineano i tronchi degli alberi, in
accordo con i colori stesi quasi a macchie sulla tela, prescindendo dallo scopo di descrivere dettagli
ambientali, sono carichi di un profondo lirismo. Marc attribuiva al colore forti valenze simboliche.
Il giallo a simboleggiare femminilità, gentilezza e allegria; il blu a significare la mascolinità, la
spiritualità. La mucca gialla rappresenta la gioia e salta libera in una natura magica e irreale
rappresentata da un paesaggio curvilineo e colorato. La protagonista, associata all’elemento
femminile, potrebbe rappresentare la moglie dell’artista, che egli sposò proprio nel 1911, mentre le
montagne blu sullo sfondo potrebbero essere un astratto autoritratto di Marc.
Franz Marc, Cavallo Blu, 1911
Questa tela si distingue per un fascino elusivo e sincero. Il cavallo raffigurato nella foto sembra
rappresentare un uomo forte, al suo apice. L’opera è scritta nel modo originale di questo artista:
linee spezzate, il colore trasmette un significato speciale, il che rende l’immagine un po' insolita
(non vediamo il cavallo blu ogni giorno). Nell’opera “Cavallo blu” l’artista ha usato un gran
numero di sfumature blu, rendendo la figura di un cavallo molto forte per la percezione. La sagoma
dell’animale stesso trasuda anche espressione e potere.

PAUL KLEE
Pittore di origine svizzera, rappresenta, insieme a Wassily Kandinskij, il pittore che ha dato il
maggior contributo ad una nuova pittura fondata su caratteri astratti. Egli però, a differenza di
Kandinskij, non ha mai praticato l’astrattismo come unica forma espressiva, ma l’ha inserita in un
più ampio bagaglio formale e visivo dove i segni e i colori hanno una maggiore libertà di
evocazione e rappresentazione. Si potrebbe dire che, mentre per Kandinskij l’astrattismo
rappresenta una meta, per Klee l’astrattismo è un punto di partenza per rifondare una pittura che
rappresenti liberamente il mondo delle forme e delle idee. La sua formazione è lenta e solitaria. Egli
giunge in contatto con il mondo delle avanguardie storiche solo intorno ai trent’anni, quando nel
1911 conosce gli artisti che hanno dato vita al Cavaliere Azzurro (Alfred Kubin, August Macke,
Wassily Kandinskij e Franz Marc). Nella mostra del 1912 di «Der Blaue Reiter» vengono esposti 17
lavori di Klee. Nello stesso anno conosce a Parigi Robert Delaunay, pittore cubista, le sui ricerche
sul colore e la luce lo influenzeranno in maniera determinante. Decisivo è un suo viaggio a Tunisi
nel 1914. Da quel momento lo stesso Klee afferma di essersi pienamente impadronito del colore.
Può così sentirsi un pittore completo, avendo in effetti fino a quel momento esercitato la sua arte più
sul piano grafico-disegnativo che pittorico in senso stretto. La sua personalità artistica è ricca e
multiforme. I suoi interessi lo hanno portato a spaziare molto al di là della sua disciplina,
interessandosi di filosofia, poesia, musica e scienze naturali. Nella sua ricerca appare sempre
costante il problema di capire cosa è la creatività.
Egli infatti ritiene che l’arte si avvicini alla natura non perché la imiti, ma perché riesce a riprodurne
le intime leggi della creazione. Così egli piega e modella i suoi segni espressivi con grande
padronanza, riuscendo con semplicità a passare dal figurativo all’astratto senza mai far perdere alle
sue immagini una grande carica di espressività. Molto affascinato dal mondo figurativo
dell’infanzia, egli conserva sempre nella sua opera una levità e leggerezza che danno alle sue
immagini semplicità ed eleganza.

Paul Klee, Vergine (sognante) (1903), Zurigo


Umorismo, lirismo e intimità sono alcune delle qualità che definiscono il corpo fantasioso del
lavoro creato da Paul Klee. Oltre ai dipinti, Klee realizzò più di cento stampe, la maggior parte delle
quali erano incisioni e litografie. Il suo interesse per la stampa è iniziato a metà degli anni venti
quando è tornato nella sua città natale di Berna dopo aver studiato arte all'Accademia di Monaco e
in Italia. Tra il 1903 e il 1905 Klee realizzò una serie di dodici incisioni che chiamò Invenzioni , che
considerò il suo primo corpus significativo di opere. Ribellandosi alla formazione classica che
aveva ricevuto alla scuola d'arte, distorse radicalmente l'anatomia del nudo femminile in questa
serie. Parodiando il trattamento tipicamente allegorico dei corpi delle donne, espresse la sua
alienazione dal conservatorismo borghese dell'arte tradizionale e il suo desiderio di ritirarsi nella
sua immaginazione. In questa opera, la donna, avvolta su un albero nodoso e grottescamente
deforme, è rappresentata come l'antitesi di un nudo romantico e idealizzato. I seni cadenti, i quattro
arti su altrettanti rami di un tronco vizzo e nodoso – in una posizione scomoda e, si direbbe,
provocatoria – l'espressione arcigna, la Vergine sognante è, nella sua sconveniente nudità,
oltremodo inquietante. Sogna a occhi aperti quest'ambigua creatura, quasi una maligna dea; la sua
figura esonda, catatonica e terribile.
Paul Klee, Fra le case di St.Germain, 1914
Colore vivido dell’Espressionismo e tendenza a saturare le superfici
Paul Klee, Strada principale e strade secondarie (1929), Colonia
Tra la fine del 1928 e l’inizio del 1929, Klee compie un’ulteriore viaggio in Africa, stavolta in
Egitto. Strada principale e strade secondarie, uno dei quadri che meglio rappresentano l’arte di
Klee, è realizzato proprio nel 1929. Del paesaggio egiziano gli occhi del pittore colgono subito i
colori, il movimento e il rapporto con lo spazio – sia urbano, con le sue strade secondarie, sia
agricolo, di appezzamenti sfiorati dal Nilo – che questi instaurano. L’approdo ad una pittura
astratta, in Klee, ha esiti molto diversi da quelli di Kandinskij. Mentre il pittore russo pratica
un’astrazione totale e rigorosa, Klee sembra divertirsi a depurare le immagini fino a giungere a delle
rappresentazioni che sono più ideografiche che astratte. In questo caso realizza un quadro a linee
incrociate che simulano la planimetria di una città, da qui il titolo «Strade principali e secondarie».
L’effetto è decisamente decorativo, ma non esclude una riflessione sulle nuove realtà metropolitane,
che, già negli anni Trenta, diventano paesaggio artificiale totale, escludendo dal proprio interno
qualsiasi altra varietà morfologica.
Paul Klee, Paesaggio con uccelli gialli, 1923, Basilea
Siamo nel 1923 e Klee lavora in Germania, a Weimar, nella prestigiosa scuola del Bauhaus, dove è
stato chiamato da Walter Gropius in persona per insegnare prima rilegatura e poi pittura. Là si è
costruito la fama di un professore capace di tenere lezioni che incantano i suoi allievi. Forse con
loro rievoca il momento in cui, dopo un viaggio in Tunisia, ha scoperto l'importanza del colore che,
da allora, considera l'essenza stessa della sua pittura. Chissà quante volte, nelle sue lezioni, ha
ripetuto che l'arte "non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non lo è". E quanto si
è sforzato di far capire che "l'arte non deve imitare la natura, ma deve inventarla". Un pittore, per
lui, quando dipinge deve, almeno "per un istante credersi Dio" per creare mondi che abbiano regole
proprie e che traggano ispirazione dalla realtà, pur senza raffigurarla troppo fedelmente. Fino a
inventare, come in questo dipinto, tutta una serie di universi gioiosi fatti di pesci dorati di strane
piante, di figure stilizzate che danzano, di palloncini rossi, di case dai tetti aguzzi, di barche, di
animali colorati e fantastici. Da figlio di musicisti e violinista provetto, di sicuro avrà insistito sul
valore fondamentale della musica, spiegando che una tela può essere come uno spartito, dove
ricreare, con le linee e i segni, la melodia più armoniosa. E dove l'orchestra non si compone di
violini, di flauti o di clarinetti, ma di figure geometriche, di frecce, di cerchi o di triangoli. È quello
un periodo, in cui Klee guarda, con sempre maggiore attenzione, ai disegni, dei bambini, cercando
di mescolare l'espressività infantile con quella dell'arte primitiva: è solito dire che solo "i bambini, i
pazzi o i primitivi, hanno ancora- o hanno riscoperto- il piacere di vedere". Musica, ricordi, disegni
infantili, gusto per il colore: tutto si ritrova in questo paesaggio da favola, dove, in uno spazio senza
profondità, in cui si mescolano cielo e terra, giorno e notte, in una specie di foresta tropicale tra
bizzarre piante variopinte, svolazzano, a volte capovolti, strani uccelli di un giallo vivo.
Paul Klee, Insula dulcamara, 1938
Quadro di grande sensibilità cromatica, nei passaggi graduali dai verdi agli azzurri ai rosa realizza
una sensazione atmosferica come di visione aerea di terre e mare. In questa delicata cromia
inserisce dei tratti neri molto netti, la cui somiglianza con le scritture arabe è fin troppo evidente.
Ma in realtà sono segni che materializzano sprazzi di immagini, quale il viso stilizzato al centro del
quadro, quasi come apparizioni di volti che si nascondono alla vista. La sensazione di esotico è
decisamente chiara, ed è un risultato cercato con un linguaggio decisamente originale, fatto, come
era rigoroso in una pittura di matrice astratta, solo di segni e colori.

FUTURISMO
Il futurismo è un’avanguardia storica di matrice totalmente italiana. Nato nel 1909, grazie al poeta e
scrittore Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di
maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, comprendendo sia poeti
che pittori, scultori, musicisti, e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei
confronti del concetto stesso di arte. Ciò che il futurismo rifiutava era il concetto di un’arte elitaria e
decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in
avanti, per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità contro l’antico, la
velocità contro la stasi, la violenza contro la quiete, e così via. Il futurismo ha una data di nascita
precisa: il 20 febbraio 1909. In quel giorno, infatti, Marinetti pubblicò sul «Figaro», giornale
parigino, il Manifesto del Futurismo. Riassume programmaticamente il proposito di rottura radicale
rispetto alle forme della tradizione; la “violenza travolgente e incendiaria” del movimento vuole
svecchiare l’immaginario estetico e rivolgersi, come fonte d’ispirazione privilegiata, ai nascenti miti
della modernità: la “bellezza della velocità” e dell’automobile, il treno, la motocicletta, le folle del
gran pubblico della Belle époque. Il fenomeno del futurismo ha una spiegazione genetica molto
chiara. La cultura dell’Ottocento era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie
in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile liberarsi. Contro tutto ciò insorse il
futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo per costruire un mondo nuovo
basato su una nuova estetica. L’adesione al futurismo coinvolse molte delle giovani leve di artisti,
tra cui numerosi pittori che crearono nel giro di pochi anni uno stile futurista ben chiaro e preciso.
Tra essi, il maggior protagonista fu Umberto Boccioni al quale si affiancarono Carlo Carrà,
Antonio Sant’Elia, Anton Giulio Bragaglia, Giacomo Balla, Enrico Prampolini, Fortunato
Depero, Gerardo Dottori, Tullio Crali. Il movimento ebbe due fasi, separate dalla prima guerra
mondiale. Lo scoppio della guerra disperse molti degli artisti protagonisti della prima fase del
futurismo. Boccioni morì nel 1916 in guerra. Carrà, dopo aver incontrato De Chirico, si rivolse alla
pittura metafisica e come lui, altri giovani pittori, quali Mario Sironi e Giorgio Morandi, i cui esordi
erano stati da pittori futuristi.
Nel dopoguerra il carattere di virile forza di questo movimento finì per farlo integrare nell’ideologia
del fascismo, esaurendo così la sua spinta rinnovatrice e finire paradossalmente assorbito negli
schemi di una cultura ufficiale e reazionaria. Questa sua adesione al fascismo ne ha molto limitato
la critica riscoperta da parte della cultura italiana che ha sempre visto questo movimento come
qualcosa di folkloristico e provinciale. Il futurismo, tuttavia, nonostante il suo limite di essere un
movimento solo italiano, e non internazionale, ha esercitato notevole influenza nel dibattito artistico
di quegli anni. Il “Manifesto tecnico della letteratura futurista” (11 maggio 1912) e
“L’immaginazione senza fili” (11 maggio 1913) precisano poi alcune parole d’ordine dei nuovi
letterati: le “parole in libertà” e le “tavole parolibere” spezzano radicalmente il lessico e la sintassi
tradizionale. Questi nuovi soggetti, cantati dai poeti futuristi, compaiono anche nelle opere dei
principali pittori e scultori del movimento (Gino Severini, Giacomo Balla, Umberto Boccioni, Carlo
Carrà e Luigi Russolo), ma sortiscono i loro effetti anche in campo teatrale, musicale, architettonico
e cinematografico. Il Futurismo si conferma allora come un movimento organico e complesso, che
dall’iniziale spunto artistico mira a rinnovare e stravolgere ogni aspetto della vita socio-politica.
Tavola Parolibera, da Zang Tumb Tumb, 1914
Ispirata da Apollinaire. Stile letterario introdotto dal Futurismo in cui le parole che compongono il
testo non hanno alcun legame sintattico-grammaticale fra loro e non sono organizzate in frasi e
periodi. Viene abolita la punteggiatura, gli accenti e gli apostrofi.

UMBERTO BOCCIONI
Umberto Boccioni è uno dei principali esponenti e teorici della pittura futurista, la prima
avanguardia artistica italiana di inizio ‘900. Era uno degli esponenti più geniali del panorama
europeo di quegli anni. La sua attività di pittore si è svolta per un arco di circa dieci anni. In questo
periodo Boccioni riesce ad attraversare, e far proprie, le maggiori novità artistiche del periodo, dal
divisionismo al futurismo, dall’espressionismo al cubismo. E lo fa con ispirazione tale da
consentirgli di produrre opere di sempre elevata qualità. Tra le sue opere ricordiamo “La città che
sale”, “Stati d'animo. Gli addii”, “Forme uniche nella continuità dello spazio”.

Umberto Boccioni, La città che sale, 1910-1911, New York, Museum of Modern Art
Il quadro, realizzato nel 1910, può essere considerata la prima opera pienamente futurista di
Boccioni. Il soggetto non si discosta molto da analoghi quadri, realizzati negli anni precedenti, che
avevano come soggetto le periferie urbane. Qui, tuttavia, il naturalismo dei quadri precedenti viene
meno per lasciare il posto ad una visione più dinamica e movimentata.
Solo nella parte superiore del quadro è possibile cogliere una visione da periferia urbana con dei
palazzi in costruzione, impalcature e ciminiere. La gran parte del quadro è invece occupata da
uomini e cavalli che si fondono in un esasperato sforzo dinamico. Vengono così messi in risalto
alcuni elementi tipici del futurismo: l’esaltazione del lavoro umano e l’importanza della città
moderna come luogo plasmato sulle esigenze dell’uomo futuro. Ma ciò che rende il quadro
un’immagine in linea con lo spirito futurista è soprattutto l’esaltazione visiva della forza e del
movimento. La tecnica pittorica che egli utilizza è ancora quella del divisionismo. Le pennellate a
tratteggio hanno andamenti direzionati funzionali non alla costruzione di masse e volumi ma alla
evidenziazione delle linee di forza che caratterizzano i movimenti delle figure. La composizione del
quadro conserva ancora un impianto in parte tradizionale. La scansione delle figure avviene su
precisi piani di profondità con in basso le figure in primo piano e in alto le immagini sui piani più
profondi. Il quadro si divide sostanzialmente in tre fasce orizzontali corrispondenti ad altrettanti
piani. Nel primo in basso Boccioni colloca le figure umane: sono realizzate secondo linee oblique
per evidenziare lo sforzo dinamico che esse compiono. Nel secondo al centro dominano alcune
figure di cavalli. In particolare ne campeggiano tre: uno bianco a sinistra che guarda verso destra,
uno al centro che domina la posizione centrale del quadro, ed uno sulla destra. Questi ultimi due
hanno una colorazione rossa e sulla groppa presentano dei profili di colore blu che assomigliano ad
ali. Infine nel terzo piano compare lo sfondo di una periferia urbana, che va probabilmente
identificata con un quartiere in costruzione di Roma.

Umberto Boccioni, Stati d'animo. Gli addii, 1911-1912, New York, Museum of Modern Art
Che Boccioni sia interessato all’espressione delle interiorità psicologiche viene ampiamente
confermato dai suoi trittici intitolati «Stati d’animo». L’opera si compone di tre quadri, intitolati:
«Gli addii», «Quelli che vanno», «Quelli che restano». Del trittico, Boccioni ha eseguito due
diverse versioni. La prima, risalente al 1910, utilizza ampiamente la tecnica divisionista, dando alle
immagini una risoluzione prevalentemente coloristica. Nella seconda versione, posteriore al suo
viaggio a Parigi, è invece avvertibile l’influenza della pittura cubista. La prima versione de «Gli
addii» è attualmente conservata al Cimac di Milano. La seconda versione è invece in possesso del
Museum of Modern Art di New York. Noi ci occuperemo di questa seconda tela. Il quadro ha per
contenuto delle persone che si salutano, abbracciandosi, sullo sfondo di treni e paesaggi ferroviari.
Il quadro è diviso verticalmente in due parti dall’immagine frontale di una locomotiva a vapore.
Nella metà di destra sono visibili diversi vagoni ferroviari, quasi trasparenti e intersecati tra loro,
ma di cui sono chiaramente individuabili le linee costruttive di contorno. Nella metà di sinistra
appare invece l’immagine di un traliccio della corrente elettrica e la linea ondulata delle colline. È il
tipico paesaggio che si coglie, in genere, dal finestrino di un treno in corsa.
Anche il numero, scritto al centro, rimanda ad una immagine ferroviaria: esso è realizzato con gli
stessi caratteri che contrassegnano i vagoni ferroviari. Nella parte inferiore del quadro si
intravedono diverse sagome di persone che si abbracciano e si salutano. Hanno un aspetto molto
stilizzato e sono visti da diverse angolazioni. Sembrano smaterializzarsi nel vapore che fuoriesce
dalla caldaia del treno a vapore. L’immagine vuole quindi rappresentare la memoria immediata di
chi, dopo aver salutato delle persone, inizia un viaggio in treno. Nella sua mente si sovrappongono
le immagini del treno, del paesaggio che percepisce in corsa, e il ricordo dei saluti che ha appena
scambiato con chi è rimasto nella stazione. L’intersezione e la sovrapposizione di questi elementi
avviene con molto equilibrio, ricorrendo sia alle scomposizioni tipiche del cubismo, sia alla
compenetrazione dei corpi teorizzata dal futurismo. Ciò che unifica il quadro è il verde, utilizzato in
varie gamme, ma sempre su toni spenti. In questo caso il verde ha un valore tipicamente
espressionistico: materializza lo stato d’animo di chi ha appena intrapreso un viaggio con la
sensazione del distacco da persone care. In questo verde Boccioni inserisce il complementare rosso,
sempre su tonalità spente, secondo linee ondulate che sembrano materializzare il senso di
ondeggiamento del treno in movimento che dà forma ondulata alla percezione della realtà
circostante. La grande maestria di Boccioni sta nel sintetizzare, e far proprie, più suggestioni
stilistiche, che egli riesce a padroneggiare con misura e sintesi. In questo quadro vi ritroviamo il
futurismo, il cubismo, l’espressionismo, tutto miscelato in una tecnica esecutiva che è ancora
divisionista. Ma il quadro riesce pienamente nel suo intento di dare immagine a qualcosa di
assolutamente immateriale come uno stato d’animo.

Umberto Boccioni, Forme uniche nella continuità dello spazio, 1913, Milano, Civico Museo
D’Arte Moderna
L’interesse di Boccioni per la scultura si manifesta nel 1912 con la pubblicazione del "Manifesto
tecnico della scultura futurista" e l’anno successivo, con «Forme uniche nella continuità dello
spazio», produce un capolavoro plastico di valore assoluto. Il titolo manifesta l’intenzione di
Boccioni di sperimentare, attraverso la scultura, la possibilità di rendere unica la percezione di pieni
e vuoti, quasi che la materia sia solo una manifestazione accidentale di un’energia dinamica che
riempie tutto lo spazio. Ciò avviene soprattutto attraverso l’uso sapiente di cavità e convessità, che
scompone il corpo in parti non più plasmate dall’anatomia ma dal dinamismo del movimento. Il
senso di potenza che la figura trasmette è decisamente straordinario. La forma antropomorfa senza
braccia diviene così il simbolo dell’uomo moderno lanciato a conquistare il futuro. E,
probabilmente, in nessun’altra opera come questa, il futurismo raggiunge il suo apice poetico e
formale, dimostrando tutta la straordinaria forza di questo movimento, che se non riuscirà a
produrre in seguito analoghi capolavori è stato principalmente per la prematura scomparsa di
Umberto Boccioni, che ha privato la cultura italiana ed europea di un talento destinato a svolgere
ruoli artistici di primissimo piano.

CARLO CARRA’
Pittore, critico d'arte, scrittore, noto come uno dei firmatari del Manifesto Futurista, sperimentatore
di diverse tendenze artistiche, dal Realismo al Divisionismo, dalla Metafisica al "realismo mitico"
degli anni Venti e Trenta. Nonostante inizialmente si avvicinò alle tendenze del futurismo (con
Filippo Tommaso Marinetti e Luigi Russolo, redasse un manifesto del 1909, destinato ai giovani
artisti dell'epoca, con l'obiettivo di esortarli ad adottare un nuovo linguaggio espressivo), si distaccò
dal Futurismo nel 1916, quando dà avvio con De Chirico alla pittura metafisica. Carrà infatti
comincia a sentire l'esigenza di abbandonare i temi della velocità e del dinamismo, cercando un
contatto più strutturato con il reale. Successivamente si avrà una nuova svolta nel percorso artistico
di Carrà, che lo porta ad abbandonare anche la metafisica, spinto dal desiderio di "essere soltanto se
stesso".

Carlo Carrà, I funerali dell'anarchico Galli, 1911, Museum of Modern Art di New York.
Il soggetto dell'opera è il funerale di Angelo Galli, ucciso dalla polizia durante uno sciopero
generale del 1904. Lo Stato italiano temeva che il funerale potesse diventare una manifestazione
politica; impedì dunque l'ingresso degli anarchici in lutto in un cimitero. Alla resistenza degli
anarchici, la polizia rispose con forza e una zuffa violenta ne seguì. Carlo Carrà era presente. Il suo
lavoro incarna la tensione e il caos della scena: il movimento dei corpi, lo scontro di anarchici e
polizia, le bandiere nere volare in aria. Si riconoscono le figure dei manifestanti, che corrono e si
divincolano, delle guardie a cavallo, che intervengono con violenza. Attraverso la disposizione delle
linee percepiamo l'impressione di caotico movimento. Il ruolo dei colori è altrettanto importante: il
rosso domina su tutti e accentua il carattere aggressivo della scena. Carrà realizzò un disegno-
abbozzo della scena e completò il dipinto poi sette anni più tardi, nel 1911 appunto. E’ una delle
prime opere futuriste di Carrà: emerge il forte dinamismo e la scomposizione del movimento, che
ricorda da vicino l’analisi spaziale cubista. L’uso del colore risente della tecnica divisionista di
accostamento dei complementari. L’azione assordante e tumultuosa si propaga confusamente sulla
tela, dove si riconoscono i contorni di figure umane a piedi e a cavallo che si fronteggiano su
opposte spinte compositive, aumentandone il dinamismo.
Carlo Carrà, Manifestazione interventista (Festa patriottica-dipinto parolibero), 1914, Venezia,
Collezione Gianni Mattioli
“Manifestazione interventista” è un dipinto anche conosciuto come “Festa patriottica-dipinto
parolibero”. Nel dipinto, Carrà raffigura un volo di foglietti propagandistici lanciati da un aereo su
Piazza del Duomo a Milano. Nel dipinto Carrà non rappresenta figure umane o elementi del
paesaggio. I volantini interventisti volteggiano nel cielo creando una immagine astratta. Questa
scelta fu giustificata dall’artista in una lettera a Gino Severini come un espediente per rendere la
sensazione di una folla in tumulto. Al centro è dipinto un cerchio pieno dal quale partono alcuni
elementi rettilinei a raggiera. La struttura poi ricorda l’elica frontale di un aereo. Inoltre dal cerchio
nasce una spirale che si sviluppa verso i bordi del dipinto. I foglietti infine sono disposti secondo
tale struttura e le scritte, di diversi formati e colori, sembrano riprodurre i rumori della folla che
manifesta. La superficie è ottenuta con la pratica del collage che ne esalta la piattezza
bidimensionale, utilizzando ritagli di scritte e sovrapposizioni a tempera su questi stessi ritagli.
Alcune frasi o parole risultano riconoscibili: dal centro, “esercito”, “evviva”, “abbasso”, “strada“,
“rumori”, “italiana”, “echi” eccetera: tutti termini che possono essere ricondotti agli slogan urlati
nelle piazze italiane all‘indomani dell’attentato di Sarajevo, l’evento che diede inizio alla Prima
Guerra Mondiale. L’opera venne eseguita, appunto, a pochi giorni di distanza dall’assassinio
dell’arciduca Francesco Ferdinando e venne riprodotta sulla rivista Lacerba, il cui nome compare
nel collage in alto a sinistra. Date queste circostanze si comprende perché il quadro, presentato con
il titolo “Dipinto parolibero (Festa patriottica)”, assunse in seguito quello con cui è più noto:
l’interventismo irredentistico divenne per i Futuristi un punto d’onore. D’altra parte l’origine
dell’opera, da un punto di vista tecnico, sta nelle parolibere di Marinetti: non a caso nell‘angolo in
alto a sinistra compaiono i termini “Zang Tumb Tuum”, cioè esattamente quelli che Marinetti aveva
usato in una sua poesia del 1914. Pur essendo una delle ultime opere eseguite da Carrà prima della
Metafisica, Manifestazione interventista risulta la più fedele ai princìpi enunciati nei Manifesti che
l’autore aveva firmato con i compagni del movimento.
ANTONIO SANT’ELIA
Antonio Sant’Elia non ha costruito molto, ma la storia lo considera comunque una figura che ha
lasciato il segno nella storia dell’architettura. Quelli che abbiamo in eredità da Sant'Elia sono
disegni incredibili, visionari, studi di città che hanno influenzato il pensiero di alcuni stili
architettonici industriali ed ispirato, non solo architetti e designer, ma anche registi e scenografi. A
lui è stata attribuita l’idea dell'esposizione degli ascensori sulle facciate degli edifici ed i suoi
disegni della Città nuova hanno ispirato il regista Fritz Lang per le architetture inserite nel suo
capolavoro cinematografico Metropolis. La mancata realizzazione delle progettazioni santeliane
non dipende tanto dall'inesistenza di piante o sezioni degli edifici, ricostruibili dai disegni esistenti,
quanto dalla non accettazione di proposte così innovative. Sant'Elia è un architetto futurista; scrisse
nel 1914 il Manifesto dell'architettura futurista.

Antonio Sant’Elia, La Città Nuova, 1914, acquerello su carta


Questo schizzo riassume il concetto di architettura e l’idea di città dell’unico movimento
d’avanguardia italiano, il Futurismo. L’opera è il compimento ideologico della modalità di costruire
da parte dei Futuristi, avvenuto attraverso anni di grande e fervida ricerca plastica ed architettonica.
Esso è una delle testimonianze più valide dell’origine dell’architettura italiana contemporanea.
Studio per la Città Nuova fa parte di una numerosa serie di schizzi di edifici monumentali iniziati
nel 1909 e mai pubblicati nella loro globalità, nei quali gli elementi dominanti sono la volumetria
netta delle forme, l’uso massiccio di contrafforti, le grandi scalinate -che danno un andamento
piramidale alla costruzione- e le enormi superfici a forma di cupola. Quest’ultimo elemento, che
Sant’Elia usa in moltissimi altri progetti, gli deriva dallo studio attento e profondo dei lavori
dell’architetto secessionista viennese Otto Wagner che egli considerava uno dei suoi maestri. In
quest’opera la principale ispirazione è la metropoli e i suoi elementi caratterizzanti, quali la
monumentalità e la grandiosità delle forme, il cui forte pronunciamento verticale corrisponde alle
molteplici comunicazioni orizzontali quali il traffico, la velocità delle automobili e della linea
ferroviaria. Sant’Elia, immagina la città come un grande cantiere caotico e dinamico nel quale poter
inventare, osare grazie all’ausilio di materiali innovativi come il cemento armato, il ferro ed il vetro.
E’ una immagine densa dalla quale provengono tutti gli spunti per l’ideazione di una città in
perenne trasformazione. Sant’Elia con questo progetto immagina di dare la possibilità agli uomini
di vivere tra pareti di ferro con mobili d’acciaio e liberarli da esempi di fragilità e di mollezza come
il legno e le stoffe. Tutto è all’insegna del nuovo. L’architettura, dunque, è al servizio della vita
moderna fatta di movimento e di velocità.
ANTON GIULIO BRAGAGLIA
Abbiamo detto come nel primo decennio del XX secolo il Futurismo dilaghi in Italia, giungendo poi
nel resto d’Europa. Il motore di questa grande macchina culturale era racchiuso nella prospettiva del
domani, una spinta violenta e decisa verso il progresso ed il continuo movimento. E questo
“domani” è stato ricercato in ogni tipo di arte figurativa, anche nella fotografia. I futuristi ed in
particolare Boccioni, criticavano ciò che trasmetteva fino ad allora la fotografia, definendola un
mezzo freddo e sterile che non permetteva alla creatività dell’artista di trasparire veramente. Fuori
dalla cerchia di pittori e letterati emerse lo studio di Anton Giulio Bragaglia, noto regista
cinematografico e teatrale dell’epoca, e di suo fratello Arturo, i quali crearono le basi per una prima
connessione tra l’arte futurista e la tecnica fotografica. Nel 1913 Bragaglia realizzò anche un
volumetto intitolato “Fotodinamismo Futurista”, in cui viene ben precisato che l’obiettivo di queste
nuove elaborazioni non è quello di creare semplici foto mosse, bensì movimentate.

Anton Giulio Bragaglia, Il violoncellista (1913)


In Italia i primi esperimenti di fotodinamica ebbero luogo nel 1910 e a teorizzare queste ricerche
(quindi giustificare anche un utilizzo sperimentale del mezzo fotografico) fu appunto Anton Giulio.
La foto-dinamica aggiunge qualcosa a queste ricerche sul movimento. Da una parte è un argomento
a favore della "smaterializzazione" dei corpi in movimento; dall'altra evidenzia le linee andamentali
delle traiettorie. Possiamo vedere come i corpi fotografati siano quasi frammentati nei vari istanti; il
singolo si moltiplica come all’interno dei racconti pirandelliani, dimostrando che la pluralità
dell’essere non si evince solo dalla sua anima ma anche dalla sua fisicità. La parabola formata dal
movimento del braccio o del volto segna il passaggio dal passato al futuro (la missione futurista è
pienamente raggiunta), ciò che è stato e ciò che sarà vengono impressi in eterno su carta. La
fotografia dinamica futurista creò quindi un'unica immagine con sovrimpressioni di figure in
movimento e i primi esempi di dissolvenze e sovrapposizioni. Purtroppo però, nonostante gli intenti
dei fratelli Bragaglia, il pregiudizio dei pittori futuristi verso la fotografia lasciò i Bragaglia e la
foto-dinamica in posizione marginale.
GIACOMO BALLA
Pittore, scultore, fotografo (arte insegnatagli dal padre), scenografo, spesso e volentieri viene
associato solo al movimento del Futurismo. In realtà fu, nella sua prima fase pittorica, uno dei
protagonisti del Divisionismo italiano (Pellizza Da Volpedo, Morelli e Segantini sono alcuni dei
nomi più noti), ma la sua passione per il colore, la partecipazione al Futurismo e la costante ricerca
sul movimento lo portarono nei primi anni del Novecento a dare vita ad una serie di dipinti nei quali
è esplicito l’intento di studiare in pittura la scomposizione del movimento di un oggetto (umano,
animale o di una cosa).

Giacomo Balla, Le mani del violinista, 1912, Londra, The Estorick Collection of Modern Italian
Art
Tra i tanti dipinti riferiti a questo tema (La ragazza che corre sul balcone e Il cane che corre al
guinzaglio) troviamo anche “Le mani del violinista”. Osservando il quadro si ha la percezione
visiva del movimento che il musicista compie nel momento in cui dona vita alla musica. Il taglio
dell’opera è preciso e ben definito, perché Balla rappresenta il momento in cui il violinista
posiziona lo strumento all’altezza della spalla. L’attenzione si concentra tutta sullo studio del
dinamismo delle mani intente a suonare lo strumento a corda. Se si sposta lo sguardo dall’alto a
sinistra, dove il violino e la mano sono ben definiti, verso il basso a destra, si nota una sorta di
sfaldamento progressivo sia del violino che della mano. L’effetto non è casuale e non è la
rappresentazione della scomparsa dell’arto del musicista, ma la scomposizione e la continuità -
veloce- nello spazio del soggetto in movimento. L’effetto ottico che il dipinto restituisce a noi
osservatori è quello di veder scomparire la mano e il violino, ma in realtà c’è la rappresentazione
pittorica della velocità del movimento delle mani del suonatore, così svelte nell’esecuzione
musicale da non essere visibili in modo netto agli occhi di chi guarda. L’effetto di dinamismo
caratterizzato dalle rapide e delicate pennellate a tratti accostati, richiamano un po’ il Divisionismo
della prima fase pittorica dell’artista. A livello cromatico Balla utilizza pochi colori (nero, marrone,
giallo intenso con virate all’arancio e screziature di verde) che fondendosi tra di loro esprimono alla
perfezione la velocità del movimento nello spazio. Le mani del violinista sono un dipinto, ma
l’effetto di movimento e la dimensione spirituale che le caratterizzano, suscitano nella mente di chi
osserva il pensiero di sentir riecheggiare nella mente la musica del violino. Lo studio assiduo del
movimento presente in opere come questa e il successivo approfondimento degli effetti della luce
sui soggetti della realtà porteranno Giacomo Balla ad una fase sintetica, che abbandonerà poi, per
un ritorno alla pittura figurativa.
Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912, Albright Knox Art Gallery di
Buffalo, nello stato di New York.
E’ un efficace esempio del tentativo dei pittori futuristi di rappresentare il movimento delle figure
all’interno dei loro dipinti. Questo dipinto di G. Balla rappresenta una donna con un cane al
guinzaglio che cammina. I piedi, le zampe, la coda, il guinzaglio esprimono un forte dinamismo. I
soggetti seguono la stessa direzione con traiettorie differenti. La luce è diffusa in tutta la scena. Il
dipinto è quasi monocromatico, infatti sono presenti pochi colori e con poche sfumature: bianco,
nero, marrone, viola. La superficie della tela è dipinta con pennellate rapide che creano delle
omogenee zone di colore. In questo caso si tratta delle sagome del corpo del cane e della veste della
donna. La sagoma del bassotto è completamente nera, così come il vestito della sua padrona. Si nota
un maggiore utilizzo del colore nelle traiettorie di movimento delle zampe del cane. In questa zona
Giacomo Balla ha utilizzato una gamma che varia dal rosso al viola. Invece, nella traiettoria della
camminata della donna sono stati utilizzati colori freddi blu e viola. La strada bianca funziona da
sfondo neutro per rappresentare il movimento degli arti. Per rappresentare efficacemente il
movimento tramite lo spostamento delle gambe del cane e dei piedi della padrona lo spazio
geometrico è stato azzerato. La composizione del dipinto “Dinamismo di un cane al guinzaglio“ è
orizzontale e inquadra direttamente i piedi e l’ intera figura del bassotto. L’orizzontalità
dell’immagine sottolinea il movimento e la direzione dello spostamento delle due figure verso
sinistra. Il senso di movimento è assecondato dall’ ondeggiare del guinzaglio metallico bianco che è
rappresentato in quattro posizioni.

ENRICO PRAMPOLINI
Pittore, scultore, scenografo e teorico italiano. Personalità ricca di interessi, Prampolini ha
rappresentato l'elemento di punta nelle manifestazioni d'avanguardia dell'arte italiana della prima
metà del sec. XX. E’ l'artista culturalmente più preparato per affiancarsi agli sviluppi dell'arte
europea. Fu uno dei più noti rappresentanti del futurismo, cui aderì dal 1912, contribuendovi con
«manifesti» e scritti polemici, caratterizzando fin dall'inizio la sua ricerca col prediligere come
mezzo espressivo il collage polimaterico (tecnica utilizzata per la realizzazione di opere di ogni
livello; scolastico, ludico, artigianale, artistico, per esempio di arte povera, prodotte per mezzo di
sovrapposizione di carte, fotografie, oggetti, ritagli di giornale o di rivista. Queste opere o
composizioni sono realizzate con l'utilizzo di materiali diversi incollati su un supporto che può
essere di vario tipo ma generalmente rigido.)
Dopo un periodo preparatorio in cui assimilò, assieme agli elementi futuristi, quelli del cubismo e
dell'astrattismo, Prampolini si avviò verso forme puramente astratte e mezzi polimaterici, verso una
rappresentazione di visioni fantastiche di forte luminosità, oggetti e corpi cosmici, che
simboleggiano di fatto il potere dello spirito umano sulle forze naturali, attraverso i mezzi della
civiltà. Interessante fu anche il suo contributo teorico nel campo della scenografia teatrale;
collaborò con compagnie e autori teatrali di avanguardia (Teatro dei Piccoli di Podrecca, Teatro del
Colore di Ricciardi, Teatro Sintetico Futurista, Teatro degli Indipendenti di Bragaglia, Teatro della
Pantomima Futurista).
Enrico Prampolini, Scenografie per il film Thais, 1917, di A.G.Bragaglia
Nel 1917 cura le scenografie per i film di ispirazione futurista “Thaïs” e “Perfido incanto” entrambi
diretti da Anton Giulio Bragaglia, per i quali crea interni di tipo onirico e soffocante, anticipando,
secondo alcuni commentatori i contenuti del cinema d'avanguardia francese e russo e
dell'espressionismo tedesco. Delineò un ambiente geometrico, astratto, decorativo, con spunti
simbolistici anche molto pronunciati.

FORTUNATO DEPERO
Azione, comunicazione evocativa e sensibilizzazione provocatoria sono le cifre di Depero, in linea
con lo spirito futurista. Fu uno dei primi artisti in Italia ad aderire al movimento futurista nel 1913.
Si distinse all'interno dello stesso movimento teorizzando il Manifesto dell'Arte pubblicitaria (inteso
ovviamente come nuova corrente artistica e non come oggetto da affissione). Grazie alla sua tecnica
pittorica, eccezionale per originalità, e sempre in evidenza per il suo iperattivismo (scenografie
teatrali, poesie, colonne sonore, progetti architettonici), Depero si qualificò come uno dei maggiori
talenti artistici italiani di questo secolo. Si scoprì grafico pubblicitario, portando finalmente il
movimento futurista nella vita quotidiana degli italiani. Con la nascente industrializzazione, si
andava formando anche la società dei consumi di massa, la cui immagine di ricchezza più o meno
presunta serviva al fascismo per accreditare il mito della potenza italiana. Notevole fu la
collaborazione con la Campari. Depero partì alla volta degli Stati Uniti, dove realizzò numerosi
splendidi disegni (soprattutto copertine) per periodici come «Vogue», «Vanity fair» ecc.,
confermando il successo che già aveva raggiunto in Italia. Di grandissima qualità grafica e
significato storico, seppur limitata numericamente, è la sua attività di cartellonista pubblicitario,
espletata sia nel periodo di miglior fervore artistico (anni Venti e Trenta), sia nel primo dopoguerra.
F. Depero, Manifesto Pubblicitario per la ditta Campari, Fine anni 20
Il quadro Bitter Campari Soda, dipinto da Depero, è un manifesto pubblicitario realizzato per la
azienda italiana Campari durante la campagna di comunicazione gestita dall'artista. Fu nel corso di
questo matrimonio artistico e aziendale Campari/Depero che l'artista diede vita a una strategia
comunicativa pari a quelle messe in atto dalle moderne agenzie di comunicazione, e riuscì a unire il
genio dell'arte con quello dell'industria seguendo in questo modo l'ideale futurista. Depero collaborò
con Davide Campari negli anni ’20 e ’30 realizzando i famosi bozzetti per le pubblicità dei suoi
prodotti. Il grande industriale nel 1932 ritenendo maturi i tempi per presentare al mercato il primo
aperitivo monodose pronto da bere, commissiona a Fortunato Depero l’ideazione della bottiglia che
avrebbe dovuto contenerlo. La sua inconfondibile bottiglietta conica, a forma di calice rovesciato, è
ancora oggi icona del design e dell’aperitivo italiano. La forma conica è distintiva dell’opera di
Depero per Campari già dalla metà degli anni Venti. Per Depero “l’arte deve marciare di pari passo
all’industria, alla scienza, alla politica, alla moda del tempo, glorificandole – tale arte glorificatrice
venne iniziata dal futurismo e dall’arte pubblicitaria – l’arte della pubblicità è un’ arte decisamente
colorata, obbligata alla sintesi… arte gioconda – spavalda – esilarante – ottimista”.
Il sodalizio Campari-Depero costituisce un caso nella storia della pubblicità italiana e suggella una
collaborazione creativa che per Depero non avrà riscontro in nessun altro dei rapporti di
committenza avuti nel campo della pubblicità.
Fortunato Depero, Copertina per la rivista “Vanity Fair”, 1930, cromolitografia
Nel corso del 1929, Depero realizzò a New York quattro esposizioni, che lo misero in contatto con
l’ambiente economico americano. In particolar modo, quella all’Adversing Club, fu la mostra che
più favorì questi contatti: qui lavorò, con ottimi risultati, a numerosi progetti per le copertine di
Vanity Fair. Come si può notare nella copertina, alcuni soggetti sono ancora legati al mondo
fantastico del “Teatro Plastico” e ai suoi personaggi meccanici. Questo è un altro esempio del
lavoro dell'artista nel mondo della pubblicità.

GERARDO DOTTORI
L’Aeropittura si sviluppa negli anni Venti, ma si concretizzerà verso la fine del decennio,
accompagnata dal consueto manifesto programmatico, che tuttavia verrà ufficialmente pubblicato
solo nel 1931 da Marinetti, insieme a molti altri futuristi, tra cui Dottori. E proprio quest’ultimo va
considerato uno dei primi interpreti e ideatori dell’aeropittura. Il suo obiettivo era un’arte totale,
l’Areopittura appunto, una prospettiva che riuscisse a cogliere contemporaneamente le diverse
sfaccettature dall’alto. Insieme a Mino Somenzi, infatti, aveva già sperimentato visioni simultanee
aeree a partire dal 1928, anno in cui fu incaricato delle decorazioni per il grande Idroscalo di Ostia.
Certe distorsioni del paesaggio, inoltre, dovute al punto di vista aereo, sono presenti nel suo lavoro
già a partire dai primi anni Venti, principalmente ispirate al soggetto del Lago Trasimeno ed al
paesaggio umbro. Dottori quindi, nonostante la costante attenzione verso i temi della modernità e
dell’evoluzione tecnologica, non abbandonerà mai l’ispirazione legata alla sua terra di origine. Ed è
questa la sua particolarità rispetto a tutto il Movimento; fu infatti uno dei pochi artisti capace di
rivolgersi in pieno alla natura ed al paesaggio, permettendo una svolta stilistica nel suo Futurismo,
che non di rado verrà definito da più parti “mistico”. Il volo infatti viene assunto quale espediente
per varcare le soglie della dimensione terrestre, come viene teorizzato anche nel Manifesto
dell’Aeropittura. Le sue immagini, liriche e contemplative, che uniscono il dinamismo moderno
della visione al senso mistico della natura, coniugano plasticismo con suggestioni astratte creando
vibranti sintesi di colori e forma. La velocità, le macchine e la modernità sono le tematiche care
all’artista, tutte riscontrabili nell’opera Aerei - luci, 1925. All’interno di questo dipinto c’è una
continuità estetica con le macchine dei futuristi. Abbiamo nuovi punti di vista della realtà; una
realtà che viene guardata appunto dall’alto

TULLIO CRALI
L’artista è noto per essere anch’egli uno dei maggiori esponenti dell’aeropittura. Marchio di
fabbrica delle opere di Crali è infatti un Futurismo che unisce un’estetica profondamente
geometrica a dinamiche prospettive aeree. Crali era nato per essere un futurista, dato che il suo
amore per la velocità, la sua passione per il volo, il suo interesse per il movimento e la modernità,
erano genuini e profondi. Amava volare e creava quadri vertiginosi, prospettive dinamiche e un
perfetto equilibrio tra arte figurativa e astratta. Nei quadri di Crali non c'è traccia di meccanica
freddezza. La sua umanità traspare in ogni opera.

Tullio Crali, Incuneandosi nell’abitato, 1939, MART, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea
di Trento e Rovereto.
Sostenitore e diffusore delle tendenze dell'Aeropittura, Crali assume a dogma la teoria della pittura
dinamica e, appassionato di volo egli stesso, dipinge questa visione dall'alto per suscitare
«sensazioni aeree» secondo intendimenti descrittivi. Il quadro raffigura l'interno di una carlinga
d'aereo, con il pilota, di spalle, seduto ai comandi e quasi un tutt'uno con essi; non solo il vetro
anteriore, ma anche quelli laterali lasciano vedere l'esterno, e così pure - stranamente - il soffitto
dell'abitacolo. E la visione esterna è, al tempo stesso, affascinante e terrificante: un paesaggio
urbano fittamente edificato, con un vortice di torri e grattacieli che balzano verso l'alto o, meglio,
che sembrano risucchiati nel volo dell'aeroplano. Si tratta di un volo in picchiata, che trasmette
un'impressione quasi suicida: è come se il pilota, affascinato da quella incredibile prospettiva di
edifici, visti da un'angolazione pressoché perpendicolare, si stesse letteralmente tuffando verso il
suolo (l'altro titolo con cui l'opera è nota, infatti, è proprio In tuffo sulla città). In quest'opera,
dunque, Tullio Crali unisce i due temi a lui più cari e li fonde con straordinaria capacità di
suggestione: quello futurista della città ultramoderna, visionaria e titanica, con echi dell'architettura
di Sant'Elia, ma non certo senza suggestioni della pittura espressionista (si pensi, in particolare, ai
paesaggi urbani di E. L. Kirchner) e, più ancora, di quella cubista (La Torre Eiffel di R. Delaunay);
e quello dell'aeropittura. La fusione dei due temi è realizzata mediante la prospettiva, mentre il
contrasto è affidato al gioco cromatico del marrone scuro in primo piano, nell'abitacolo dell'aereo, e
dei gialli della città. La totale trasparenza dei vetri crea, al tempo sesso, un effetto scenografico di
grande immediatezza e forza plastica, come se l'aereo entrasse nell'abitato o come se l'abitato
entrasse nella carlinga. L'impressione generale non è tanto quella di uno schianto e un disastro
imminente, ma - a dispetto d tutte le leggi della fisica - di una imminente compenetrazione tra due
diversi piani di realtà; come se l'uno stesse per entrare nell'altro senza traumi, ma scivolando al di là
di esso, quasi in un gioco virtuale.
Tullio Crali, Prima che s’apra il paracadute, 1939
In questo dipinto l’artista riuscì a fondere la passione per il volo acrobatico alla pittura per
rappresentare la sfida a superare i limiti; abbiamo prospettive dinamiche e una visione avveniristica
(anticipatore del fututo).

LUIGI COLOMBO (FILLIA)


Luigi Colombo, noto anche con lo pseudonimo di Fillìa è stato un poeta e pittore italiano. Si muove
in modo animato e attivo sul fronte delle avanguardie artistiche, soprattutto abbracciando in tutto lo
spirito futurista. La sua iniziale attività è legata fortemente alla parola, sia nel teatro che nella
poesia, ma sfocia anche nella pittura, con uno stile legato inizialmente all'astrazione per poi
giungere a una figurazione che viene definita cosmica. Da ricordare è la sua opera Mistero Aereo,
1930-1931, realizzata sempre mediante i principi dell’Aeropittura.

OLANDA: NEOPLASTICISMO O DE STIJL


Nei primi decenni del ‘900 il Futurismo non fu l’unica corrente artistica ad influenzare l’arte. Un
altro movimento, il Neoplasticismo, inizialmente circoscritto al mondo artistico olandese, prendeva
piede e veniva formalmente fondato nel 1917 con la pubblicazione della rivista De Stijl. La rivista,
il cui nome tradotto in Italiano è Lo Stile, fu fondata da Theo Van Doesburg che ne fu anche
direttore. Nella sua redazione si sono avvicendati molti elementi di spicco del mondo artistico del
tempo, ma senza dubbio il più rappresentativo è stato Piet Mondrian, principale promotore delle
nuove idee di questo movimento-tendenza. Questa nuova corrente, nasceva in antitesi agli eccessi
decorativi dell’Art Nouveau e si fondava sull’eredità raccolta dai movimenti avanguardistici
dell’epoca, in cui le forme rappresentate venivano semplificate, i volumi ridotti a pari e la visione
prospettica abbandonata. Si teorizzava in essa anche il superamento del principio cubista,
promuovendo una assoluta razionalità e purezza formale. Nella pittura, i neoplastici perseguono
l’astrattismo geometrico, ossia l’utilizzo degli elementi base della geometria, quali la linea e
l’angolo retto. La pittura deve essere bidimensionale, prediligendo la forma rettangolare perché il
rettangolo è formato da linee rette senza curve ambigue. Sul piano cromatico e compositivo è
prevalente l’utilizzo dei soli colori primari (rosso, giallo, blu) affiancati al nero, bianco e grigio.
L’espressività deve provenire dalla linea e dalla coloristica. Angoli retti e colori formano così figure
geometriche semplici – tipicamente rettangoli e blocchi cromatici ripetuti, come nei famosi dipinti
di Mondrian.
Lo scopo dell'arte neoplastica era anche di natura filosofica: raggiungere, utopisticamente, un
equilibrio e un'armonia, non solo nell'arte, ma anche nella società affinché in qualche modo
arrivasse a riflettere il mistero e l'ordine dell'universo attraverso un nuovo modo di vedere il
materiale e lo spirituale. Nel 1920 viene redatto il Secondo Manifesto che allarga i canoni
neoplasticisti al campo della musica, dell'architettura e della letteratura, allo scopo di portare le idee
di "De Stijl" oltre la frontiera olandese. La massima espressione dell’architettura neoplastica è da
ricercare nell’opera di Gerrit Thomas Rietveld, artigiano prima, architetto e designer
successivamente, che nel 1919 aderisce formalmente al movimento “De Stijl”. Già negli anni
precedenti alla sua adesione al movimento aveva realizzato la “Sedia rosso e blu”, ritenuta il primo
oggetto di design, semplificato nella struttura e lineare nella forma, che esprime i criteri della
ricerca di De Stijl. Gli oggetti di design sono il preludio alla sua attività di architetto. Lo stesso
gioco di rettangoli e cromie caratterizza la “Casa Schröder” a Utrecht (1924) – vera icona
dell’architettura De Stjil – nella cui concezione Rietveld realizza una perfetta sintesi delle teorie del
movimento, ove gli oggetti di arredo e la struttura architettonica sposano gli stessi principi
costruttivi.
La casa si sviluppa su due livelli, pian terreno e primo piano. Dal punto di vista progettuale basa su
quattro elementi fondamentali:
 Elementi primari di colore bianco che determinano la forma e la struttura della casa;
 Elementi piani di colore grigio o bianco volti a definire il rapporto tra interno ed esterno;
 Elementi lineari, verticali ed orizzontali – architravi, pilastri, pluviali – di colore giallo,
rosso e blu abbinati al bianco, grigio e nero;
 Elementi funzionali – finestre, porte, ringhiere, scala esterna e lucernario – di colore nero e
bianco.
Nella prima concezione della casa, gli spazi interni sono organizzati in base alla funzione a cui sono
destinati: al piano terra si trovano gli ambienti per mangiare, studiare e lavorare, delimitati da pareti.
Al piano superiore invece, in un ambiente unico, delimitabile attraverso l’utilizzo di pareti
scorrevoli, le zone destinate al dormire e alla vita intellettuale. Gli elementi d’arredo sono altresì
realizzati dall’architetto.

GERMANIA: PROGETTO DI ARTE TOTALE DELLA BAUHAUS


La Bauhaus era stata fondata nel 1919 a Weimar, in Germania, da Walter Gropius (architetto di
orientamento politico socialista) secondo i criteri dell’allora nascente Movimento Moderno (o
International Style), ispirato a un radicale ripensamento del binomio arte e tecnica applicato
all’architettura e al design: l’arte in funzione della tecnica, e in un’ottica più funzionale e
razionalistica. Il termine “Bauhaus” si riferiva alla parola “Bauhütte”, che nel medioevo indicava la
loggia dei muratori. Simbolo della scuola era il “sigillo” del Bauhaus, disegnato da Oskar
Schlemmer, grande artista e insegnante nella scuola. In una sola immagine Schlemmer sintetizza
tutte le caratteristiche della suola: razionalità, essenzialità delle forme, efficienza, centralità
dell’uomo ma anche della macchina (l’uomo sembra quasi un robot). All’inizio la scuola venne
largamente sovvenzionata con fondi pubblici dalla stessa città di Weimar, amministrata dai
socialdemocratici. Ben presto però sorsero subentrarono profondi contrasti con le autorità e nel
1925 la scuola fu spostata a Dessau, dove venne costruito il famoso edificio che ospiterà il Bauhaus.
L’edificio fu progettato dallo stesso Gropius e divenne ben presto il manifesto del nuovo clima
razionalista che andava imponendosi nella cultura architettonica europea. Al Bauhaus si seguiva un
preciso percorso di studi, peculiare e unico nel suo genere.
Fedele ai suoi assunti, la scuola aveva come caratteristica principale la fusione tra arte, tecnologia e
artigianato: l’unione delle arti, non più divise tra loro, si fa simbolo ed espressione di un’unica
volontà ‘creatrice’, di un’unica ispirazione; per questo, ogni corso era tenuto da un artista e da un
maestro artigiano insieme. Un’altra novità era costituita dal Corso Propedeutico, che durava sei
mesi e nel quale gli allievi, di diversa estrazione e provenienza, studiavano materiali, colori. Non
solo: i partecipanti al corso imparavano anche a curare il corpo, il vestiario e l’alimentazione anche
attraverso le filosofie orientali. Seguivano poi tre intensi anni di Seminari e soprattutto di Laboratori
nei quali si apprendevano e si sperimentavano le caratteristiche tecniche e di lavorazione di ogni
tipo di materiale, dalla lavorazione di metalli e legno alla decorazione del vetro, dall’arredamento
alla grafica pubblicitaria. Fondamentale, infine, lo studio della progettazione architettonica, che per
il Bauhuas era di fatto la materia principale, che prevedeva anche tirocini nei cantieri edili. Il
successo della scuola del Bauhaus è legato non solo alla didattica, certamente fuori dal comune, ma
anche e soprattutto ai suoi insegnanti, che di quella didattica furono gli ideatori e i propulsori.
Appartenenti a nazionalità ed estrazioni culturali diverse, i docenti del Bauhaus – che spesso
vivevano all’interno della scuola – erano artisti, architetti, artigiani, designer e sono tuttora figure di
primissimo piano della cultura europea. Primo fra tutti ovviamente Walter Gropius, che dopo
essere stato tra i fondatori, diventò il primo direttore del Bauhaus dal 1919 fino al 1928.
Considerato uno dei più grandi architetti contemporanei ha progettato edifici considerati pietre
miliari dell’architettura, tra cui la stessa sede del Bauhaus di Dessau. Ricordiamo poi anche Wassily
Kandinsky, Paul Klee, il disgner Johannes Itten che insegnava “Teoria del colore”, il pittore e
fotografo Laszlo Moholy-Nagy. Per il design, disciplina fondamentale della scuola, imprescindibile
fu la figura di Marcel Breuer mentre per il teatro centrale è la figura di Oskar Schlemmer. L’arrivo
del nazismo, con il suo odio per l’arte e la cultura contemporanea, sancì la fine della scuola Bauhau.
Senza sovvenzioni statali, con molti docenti licenziati perché ritenuti sovversivi, e con continue
pressioni della Gestapo, l’istituto venne chiuso nel 1933. Fondata sul principio democratico della
collaborazione tra maestri e allievi, sviluppò un importantissimo lavoro di ricerca, il cui scopo era
quello di realizzare il miglior rapporto possibile tra forma e materia, tra forma e funzione
dell'oggetto, nonché tra forma e produzione industriale. La convinzione di Gropius, infatti, era
quella che soltanto attraverso una ricerca di questo genere fosse possibile attribuire all'arte una
nuova funzione entro il quadro della civiltà moderna, contribuendo, al tempo stesso, a conferire un
valore estetico ai nuovi processi di produzione industriale. Il Bauhaus ebbe un enorme impatto sulle
tendenze dell’arte e dell’architettura nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, anche grazie al fatto
che molti dei docenti della scuola furono costretti a fuggire dalla Germania a seguito della chiusura
della sede da parte della dittatura nazista.

FRANCIA: LE CORBUSIER TRA ARCHITETTURA E DESIGN


Charles-Edouard Jeanneret, che scelse di presentarsi al mondo con lo pseudonimo Le Corbusier, è
certamente la figura di maggior spicco nel complesso panorama dell’architettura del XX secolo:
abilissimo costruttore del proprio mito, ha esercitato (e continua a esercitare) un’influenza
straordinaria sulle generazioni che gli sono succedute. E’ considerato il maestro del Movimento
Moderno. È stato fortemente influenzato dalla nascita dell’urbanistica. Per Le Corbusier, infatti,
l’architettura dev’essere funzionale e deve migliorare le condizioni di vita dell’uomo contribuendo a
realizzare una società giusta e democratica. Se lo spazio architettonico dev'essere funzionale, alla
stessa esigenza devono rispondere anche gli arredi che lo completano.
La nuova architettura non deve affrontare solo problemi su grande scala ma anche quelli su scala
ridotta, domestica, quotidiana. Nasce il design. Per Le Corbusier, cinque sono i principi che devono
guidare la mente e la mano dell’architetto:
 I pilotis, pilastri sottilissimi che sorreggono l’edificio e lo sollevano dal suolo. Questa scelta
comporta l’eliminazione del pianterreno, una zona dell’edificio spesso umida e buia, e
riduce al minimo l’impatto ambientale.
 Il toit terrasse, ovvero il tetto a terrazza, con giardino pensile e lucernario, che non isolino lo
spazio architettonico da quello esterno. Via gli spioventi che conferiscono all’edificio un
aspetto lugubre e nuove superfici da restituire allo spazio vitale.
 La fenêtre en longueur, finestra a nastro, una lunghissima vetrata orizzontale che attraversa
tutte le superfici perimetrali. Non più quindi una semplice apertura nel muro ma la
sostituzione della parete stessa con una membrana leggera e trasparente, che inondi l’interno
di luce.
 Il plan libre, cioè piante dei vari piani dell’edificio libere e indipendenti l’una dall’altra,
ognuna con la disposizione degli ambienti adatta alla sua funzione.
 La façade libre, la facciata libera. Tutte le superfici esterne hanno uguale dignità e diversa
funzione.
A questo schema possiamo senz’altro aggiungere altri tre aspetti fondamentali.
PRIMO: l’utilizzo del cemento armato. Tecnica invisa ai sostenitori dell’architettura tradizionale.
Solo con un’anima di ferro è infatti possibile immaginare e realizzare una struttura che sia allo
stesso tempo solida e leggera, ariosa ma stabile. I sottili e agili pilotis non potrebbero altrimenti
sostenere il peso dell’edificio, spingerlo verso l’alto con slancio quasi atletico. Solo attraverso il
cemento armato è inoltre possibile liberare i piani da un disegno ripetitivo.
SECONDO: l’utilizzo di uno schema modulare. Partendo da un modulo prestabilito (l’altezza dei
pilastri, la distanza tra loro o, come chiarità più avanti lo stesso Le Corbusier l’altezza dell’uomo, il
modulor) ogni elemento dell’edificio dovrà essere un multiplo o un sottomultiplo del modulo stesso.
Solo così potrà mantenere un aspetto armonico pur con infinita varietà di combinazioni, con
variazioni tra i piani, tra le facciate, tra gli elementi aggettanti e rientranti.
TERZO: razionalità è semplicità. Linee rette, perpendicolari, pulite descrivono le superfici. Colori
essenziali, campiture uniformi. Seppure Le Corbusier si formi nell’ambito dell’Art Nouveau, dove
tutto è decorazione, linea curva e forma biomorfa, la sua ricerca si spinge su una strada
completamente diversa. Le forme della natura non hanno bisogno di essere contemplate
nell’architettura perché l’architettura stessa non le opprime, non le nasconde, anzi, le rispetta e le
esalta con i suoi vuoti e le sue trasparenze.
Le Corbusier, Villa Savoye a Poissy
Tra il 1928 e il 1931 Le Corbusier realizza l’opera che costituisce la sintesi delle idee formulate
precedentemente. La "Villa Savoye” è uno dei capisaldi del razionalismo architettonico europeo, e
non è che un parallelepipedo bianco sospeso a sbalzo, su esili piloni. Si tratta della residenza di
campagna del ricco finanziere Pierre Savoye, la casa fuori città, immersa nel verde, dove trascorrere
con la famiglia le ore di libertà. La casa si posa sul prato, vicino al bosco, con leggerezza,
delicatezza e rispetto. I pilotis sollevano da terra il corpo centrale, lo elevano sulla linea
dell’orizzonte. Le quattro facciate bianche, o meglio l’unica facciata scandita sui quattro lati, è
attraversata dalla fascia continua di vetro. La natura non subisce violenze, non subisce interruzioni.
Alberi, foglie, cielo, luce entrano nella casa, quasi la completano. La natura vive anche all’interno,
nel giardino sospeso al livello delle camere. La copertura è un solarium, coronato da pareti-separé
(unica concessione alla linea curva) che hanno lo scopo di generare zone d’ombra e all’occorrenza
di riparare dal vento, incanalandolo senza bloccarlo. L’effetto d’insieme è sorprendente: un luogo
allo stesso tempo intimo e aperto, che crea spazio senza porre barriere, che rinuncia al colore e si
tinge di ogni tonalità delle stagioni.

La Chaise Longue di Le Corbusier


La Chaise Longue nasce nello studio di Le Corbusier durante i primi anni ’20, dalla collaborazione
di Le Corbusier e Pierre Janneret con Charlotte Perriand. E’ proprio in questo periodo che i tre
affrontarono il tema dell’arredamento in chiave innovativa, ottenendo pezzi di arredo dal fascino
immortale e senza tempo. La Chaise Longue è stata presentata a Parigi nel 1929 al “Salon
d’Automne des Artistes Décorateurs” ed utilizzata la prima volta nella Villa Church a Ville-
d’Avray, Le Corbusier la definiva “la vera macchina per riposare”. Bella, comoda e funzionale. Le
Corbusier porta l’arredo ad un livello standardizzato, ma sempre mantenendone pregio e qualità; ad
esempio sostituisce il legno con l’acciaio. Ha fiducia nell’industria che con il procedere dei tempi,
produce oggetti di funzionalità e utilità perfette.
Le Corbusier vede nel modo di fare l’industria, nella sua logica e nella sua tecnica, il modello del
moderno design. La Chaise Longue di Le Corbusier ha un’inclinazione variabile con una struttura
in tubo d’acciaio cromato. La base è costruita in lamiera e tubolare di acciaio laccati con vernice
nera opaca. Il materassino con imbottitura in espanso è rivestito in pelle. Anche il poggiatesta è in
espanso con rivestimento in pelle. Il movimento basculante della chaise longue non è regolato da
alcun meccanismo ma viene stabilizzato dal peso del corpo e dalla posizione prescelta di chi la usa.

Le Corbusier, Notre Dame du Haut a Ronchamp


Negli anni cinquanta Le Corbusier si cimenta per la prima volta con un edificio sacro. Un tema
nuovo per lui, laico, illuminista, così abituato ad affrontare problemi con razionalità scientifica e
pragmatismo operativo. Situata a Ronchamp, non distante dalla città di Belfort, Notre-Dame du
Haut è considerata uno dei capolavori dell’architettura contemporanea. L’opera è di un’immane
potenza e crea, in chi la guarda, grande effetto e suggestione. Il lavoro alla stesura del progetto
iniziò nel 1950. Quattro anni dopo – il 4 aprile 1954 – venne collocata la prima pietra. In poco più
di un anno fu conclusa – 20 giugno 1955. Realizzata in calcestruzzo armato, dispone di un’unica
navata irregolare che richiama un antro (cavità profonda). Ai lati della navata sono ricavate tre
piccole cappelle indipendenti che terminano in tre campanili di forma semi cilindrica. La copertura
della chiesa è realizzata con una gettata di calcestruzzo modellata come se si trattasse di una grande
vela rovesciata o del guscio di un granchio.

STATI UNITI: WRIGHT TRA ARCHITETTURA E DESIGN


Considerato “il più grande architetto americano di tutti i tempi”, Frank Lloyd Wright è stato un vero
visionario. Credeva nella potenza della relazione tra l’edificio e i suoi abitanti, sostenendo che
l’architettura fosse la “Madre di tutte le arti”. “Senza architettura”, diceva, “la nostra civiltà non ha
anima”. Frank Lloyd Wright è stato uno dei pionieri dell’architettura organica, con interni ed esterni
in perfetto equilibrio. Secondo questa filosofia, una casa è simile a un essere vivente, in cui le parti
e il tutto sono strettamente correlate, in termini di forma e funzione. Wright si concentra non solo
sull’aspetto estetico di un edificio, ma sulla sua relazione con la vita di chi lo abita. L’architettura di
Frank Lloyd Wright presenta materiali come legno e pietra nella loro forma più autentica, senza
trasformarli in qualcosa di nuovo, una tendenza, questa, che continua ancora oggi. L’architettura di
Frank Lloyd Wright ha lasciato un patrimonio inestimabile per gli architetti del lusso di oggi.
Wright, Fallingwater House, Stati Uniti, 1936-1939
La Casa sulla cascata è il nome italiano con cui è più nota Fallingwater, o Casa Kaufmann dal nome
del suo proprietario, una villa progettata e realizzata sul ruscello Bear Run nei pressi di Mill Run in
Pennsylvania dall'architetto Frank Lloyd Wright e considerata uno dei capolavori dell'architettura
organica. Questa definizione, coniata da Wright, identifica, come detto in precedenza, la volontà di
promuovere un'armonia tra genere umano e natura, la creazione di "un nuovo sistema in equilibrio"
tra l'ambiente costruito e l'ambiente naturale attraverso l'integrazione dei vari elementi artificiali
(costruzioni, arredi, ecc.) e naturali dell'intorno ambientale del sito. Tutti divengono parte di un
unico interconnesso organismo architettonico. Wright adopera per raggiungere la sua architettura
organica non solo i materiali del luogo, come la pietra, ma anche e soprattutto una moderna
tecnologia espressiva, che nonostante la sua apparente dirompenza si integra meravigliosamente con
i suoi volumi nello spazio del luogo.

Wright, Sedia, anni 30


Celebre icona del design del Novecento. Wright realizza oggetti di arredamento per le sue
costruzioni; è una sedia semplice fatta in legno, materiale molto apprezzato da Wright perché è un
materiale naturale. E’ modellata con un cuscino che dà comfort alla seduta
Wright, Museo Guggenheim, 1956-59
L’opera forse più esemplificativa dell’architettura di Frank Lloyd Wright resta però il Guggenheim
Museum a New York, progettato nel 1943. Si tratta di una struttura aperta, ampia e innovativa, con
una scala a spirale che conduce a un arioso lucernario a cupola, grazie al quale lo spazio si riempie
di luce naturale.

DADAISMO
Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. La situazione
storica in cui il movimento ha origine è quello della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di
intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato
da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter, e il loro esordio
ufficiale viene fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato dal
regista teatrale Hugo Ball. Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate
organizzate dai futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e
provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed originale. Ed in effetti i due movimenti, futurismo
e dadaismo, hanno diversi punti comuni (quale l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi
nuovi del fare arte) ma anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso
atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono tutto
sommato favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Altri punti in comune
tra i due movimenti sono inoltre l’uso dei "manifesti" quale momento di dichiarazione di intenti.
Ma veniamo ai contenuti principali del dadaismo. Innanzitutto il titolo. La parola Dada, che
identificò il movimento, non significava assolutamente nulla, e già in ciò vi è una prima
caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della
razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato come una clava per abbattere le convenzioni
borghesi intorno all’arte. Il dadaismo rifiuta ogni atteggiamento razionale, e per poter continuare a
produrre opere d’arte si affida ad un meccanismo ben preciso: la casualità. Il "caso", in seguito,
troverà diverse applicazioni in arte: lo useranno sia i surrealisti, per far emergere l’inconscio umano,
sia gli espressionisti astratti, per giungere a nuove rappresentazioni del caos. Il movimento, dopo il
suo esordio a Zurigo, si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e quindi a Parigi.
Benché il dadaismo è un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la tendenza di
far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni, ebbero
luogo a New York negli Stati Uniti. L’esperienza dadaista americana nacque dall’incontro di alcune
notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano
Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz.
Ma la vita del movimento è abbastanza breve. Del resto non poteva essere diversamente. La
funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta
dell’arte. E questa è una funzione che svolge in maniera egregia, ma per poter divenire propositiva
necessitava di una trasformazione, e ciò avvenne tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo
scomparve e nacque il surrealismo.

I ready-made
Un notevole contributo dato alla definizione di una nuova estetica sono i «ready-made». Il termine
indica oggetti di uso comune prelevati dal loro contesto quotidiano ed esposti come opere d'arte
senza ulteriori interventi da parte dell'artista. In pratica, con i «ready-made» si ruppe il concetto per
cui l’arte era il prodotto di una attività manuale coltivata e ben finalizzata. Opera d’arte poteva
essere qualsiasi cosa. Il valore dei «ready-made» era solo nell’idea; veniva abolito qualsiasi
significato o valore alla manualità dell’artista. L’artista, non è più colui che sa fare delle cose con le
proprie mani, ma è colui che sa proporre nuovi significati alle cose, anche per quelle già esistenti.

Man Ray, Ready-made, ferro da stiro con chiodi saldati sulla piastra (Cadeau), 1921 - 1963,
Chicago.
L'opera in esame si presenta immediatamente con una veste di ambiguità: Cadeau, quindi dono,
diventa oggetto aggressivo, capace di ferire e distruggere, al contrario del comune modo di
intendere un regalo che dovrebbe portare a una sorpresa piacevole o utile. Cadeau è un ready-made,
perché è fatto da un oggetto esistente, un ferro da stiro, che perde la sua funzione originaria, in
quanto sono stati applicati 14 chiodi alla piastra, per cui, invece di stirare, distruggerebbe a brandelli
i tessuti con i quali entrasse in contatto. Il ferro è stato scelto dall’autore con un design decò, perciò
un oggetto assolutamente "vicino" al suo quotidiano, ma, a causa di questi chiodi saldati,
scaraventato di molti secoli nel passato, tanto da farlo rendere assimilabile ad uno strumento di
tortura medioevale. Questa violenta contrapposizione, già implicita nell'imposizione del titolo a un
tale assemblaggio, si accentua ancora di più quando Ray, insieme a questo elemento violento,
distruttivo, suggerisce egli stesso un'immagine molto poetica e sensuale, perché, descrivendo il suo
oggetto come capace di fare a brandelli una veste, "vede" poi questa veste che, indosso a una
giovane donna di colore che danza, ne lascia intravedere le carni, attraverso i brandelli del tessuto,
esaltando la sua avvenenza, in modo tale che anche l'oggetto più mostruoso e crudo possa lasciar
venir fuori la Bellezza.
MARCEL DUCHAMP
L’artista francese Marcel Duchamp viene considerato uno dei maggiori rappresentanti del
dadaismo, benché egli non abbia mai accettato l’appartenenza a questo gruppo. La cosa,
conoscendo il personaggio, non stupisce affatto: la personalità di Duchamp è assolutamente
impossibile da inquadrare in un qualsiasi schema. Egli, in realtà, è stato uno dei più grandi artisti del
Novecento, proprio per il suo modo di essere. Ha, di fatto, costruito un nuovo prototipo di artista da
intendersi come intellettuale sempre pronto a proporsi in maniera inaspettata, anche solo per il
piacere di essere diverso dal normale. Le sue prime esperienze pittoriche mostrano una facilità di
assimilazione delle principali novità stilistiche del momento: dal neoimpressionismo al fauvismo,
dal simbolismo al futurismo. Ma è soprattutto nell’ambito del cubismo che egli si muove con
maggior disinvoltura. Ma nel 1912, il suo quadro «Nudo che scende le scale » fu rifiutato dal Salon
des Indépendants, proprio perché l’opera sembrava più futurista che cubista. Ciò provocò il
definitivo distacco di Duchamp dai cubisti. L’opera, tuttavia, l’anno successivo fu esposta a New
York, e qui divenne famosa. Nella capitale statunitense Duchamp vi arriva nel 1915. In America
entra in contatto con il gallerista Alfred Stieglitz ma soprattutto con Man Ray e con Francis Picabia,
quest’ultimo già conosciuto a Parigi. Duchamp in questi anni diviene soprattutto un operatore
artistico, impegnato più come consulente di collezionisti e gallerie che non come artista. La sua
attività non perde mai il gusto della provocazione, e l’invenzione dei «ready-made» ne è uno degli
esempi più classici.

Marcel Duchamp, Nudo che scende le scale n. 2, 1912, Philadelphia


È l’opera che provocò il distacco di Duchamp dal movimento cubista, ma che nel contempo gli
diede fama in America. Nell’opera pittorica del primo Duchamp vi sono diversi elementi che
realmente lo avvicinano al futurismo italiano. Tra questi vi è la predilezione per le macchine e gli
ingranaggi, ma anche il tema della rappresentazione del movimento, così caro ai futuristi. In effetti
fu proprio questa adesione al futurismo, praticato dai pittori italiani non benvisti dai colleghi
francesi, a indurre il pittore Albert Gleizes a chiedere ai fratelli di Duchamp di convincerlo a ritirare
dalla mostra il quadro. L’opera fu tuttavia inserita tra quelle che, l’anno successivo, furono inviate
in America per una esposizione presso l’«Armoury Show». Gli americani, all’oscuro delle
rivoluzioni artistiche che in quegli anni si svolgevano in Europa, rimasero confusi dal vedere questi
quadri, e quello che più sconvolse il pubblico fu proprio questa tela di Duchamp. È innegabile,
tuttavia, che la tela ha un fascino evidente, riuscendo a trasmettere la sensazione del movimento,
anche meglio di molti quadri di analogo genere prodotti dai futuristi.

Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913


Storicamente, il primo «ready-made» prodotto da Duchamp è stato «ruota di bicicletta». Egli, nel
suo studio a Parigi, decise di montare una ruota di bicicletta su uno sgabello. L’operazione non
aveva alcuna finalità precisa, e probabilmente non fu realizzata per essere esposta. Di fatto, egli
aveva creato il suo primo ready-made «rettificato». Con tale termine egli distingueva quei ready-
made sui quali interveniva con qualche intervento minimo, da quelli sui quali non produceva alcun
intervento.

Marcel Duchamp, Fontana, 1917, Parigi


Il più celebre ready made di Marcel Duchamp è Fontana (Urinoir). Sull’opera sono state avanzate
molte interpretazioni e sono stati scritti molti saggi. L’operazione di Duchamp rimane ad oggi una
grande provocazione sul ruolo dell’arte e dell’artista. Si sono fatte nel tempo molte interpretazioni
di Fontana di Marcel Duchamp. L’artista potrebbe aver voluto denigrare l’idea d’arte facendola
coincidere con un orinatoio. Si è anche voluto vedere la forma della testa velata di una Madonna
rinascimentale nel profilo dell’oggetto rovesciato. In altri casi si sono scomodate altre figure
religiose o opere d’arte. Anche la firma è stata oggetto di ipotesi. Al di là della correttezza o meno
delle interpretazioni dell’oggetto, Fontana ha influenzato molta della cultura occidentale nella
seconda parte del Novecento.
Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q., 1919, ready-made rettificato, Parigi
Per dimostrare al mondo le teorie del movimento dadaista Marcel Duchamp, interviene sull’opera
d’arte più famosa al mondo e compie il gesto dissacrante di disegnare i baffi sul volto della
Gioconda. Marcel Duchamp realizza la “Gioconda con i baffi” coerentemente con le idee del
movimento dadaista. Utilizza una immagine istituzionalmente accademica e considerata icona
dell’arte ufficiale. Compie su di essa una azione di grafica infantile, irrisoria e dissacrante. Si
rifiuta, quindi, di produrre arte in modo tradizionale creando immagini diverse. Viene messa in
discussione l’attività tradizionale dell’artista nel creare immagini.

Marcel Duchamp, Il Grande Vetro, 1915-23, Filadelfia


“La sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche”, più nota come “Il grande vetro”, è un’opera dai
significati complessi e di non facile descrizione. A questa Duchamp ha lavorato per circa otto anni,
dal 1915 al 1923. Il "Grande Vetro" è costituito da due lastre di vetro verticali issate l’una sull’altra.
È una immagine realizzata su vetro con olii, vernici, lamina e filo di piombo, argento, polvere,
acciaio, attraversata orizzontalmente al centro da una sbarra di ferro.
Sulle lastre sono raffigurati diversi elementi e figure che rappresentano, nell'insieme, un amore
impossibile fra una sposa e il suo corteggiatore. L’opera è una specie di rompicapo, creato forse
apposta per disorientare i critici portandoli ad esercizi interpretativi iperbolici come salti mortali.

DADAISMO IN GERMANIA
È tuttavia in Germania che si possono osservare gli sviluppi più interessanti del Dadaismo che, con
la fine del conflitto mondiale, si diffuse oltre i confini svizzeri. In seguito all'abbandono del
movimento, a partire dal 1917, da parte di molti aderenti, numerosi componenti, trasferitisi o
rimpatriati in Germania, diedero vita al Dadaismo di marca tedesca che si distingue per un più
marcato impegno politico e un tono di sarcastica, aggressiva satira sociale.
Hannover - Fra le espressioni del Dadaismo in Germania molto importante è quella di Hannover,
forse la più dadaista e radicale, che non fu una vera e propria "scuola" dato che era rappresentata da
un solo artista, Kurt Schwitters, che sviluppò in maniera personale le idee dadaiste. I suoi collage si
distinguono da quelli cubisti, ordinati secondo precise scelte armoniche, per l’importanza che in essi
ha al caso. Raccolgono infatti di tutto (biglietti di autobus, pezzi di legno e di ferro, chiodi, piume di
gallina, sassi, bottoni, tappi, giornali, combinati senza ordine preciso) e a queste sue composizioni
Schwitters diede il nome di Merz, frammento della parola kommerz, che compariva in un ritaglio di
giornale utilizzato in un collage. Schwitters mantenne contatti contrastanti con i gruppi dada di
Berlino e Colonia.
Berlino - A Berlino gli artisti dadaisti, che fondarono il Dada-Club degli artisti berlinesi, furono:
John Heartfield, George Grosz, Wieland Herzfelde, Richard Huelsenbeck, Raoul Hausmann e
Hannah Höch. Il momento più importante del dadaismo a Berlino fu la Erste Internationale Dada-
Messe del 1920 cioè la prima mostra internazionale del Dadaismo.
Colonia - Anche Colonia, come Berlino, fu molto provata dalla crisi finanziaria della Germania
postbellica, costretta a pagare danni di guerra superiori alle proprie possibilità economiche. Ma il
Dadaismo a Colonia fu molto diverso rispetto alla cellula berlinese. I suoi fondatori, Hans Arp, Max
Ernst e il pittore-poeta Johannes Baargeld riuscirono, data la vicinanza geografica, ad intessere
rapporti sia col gruppo di Zurigo, del quale avevano fatto parte nel periodo precedente la guerra, sia
con quello parigino.
METAFISICA
La Metafisica è l’altro grande contributo all’arte europea che provenne dall’Italia, nel periodo delle
avanguardie storiche. Per la sua palese figuratività la Metafisica è da alcuni esclusa dal contesto
vero e proprio delle avanguardie. Essa, tuttavia, fornì importanti elementi per la nascita di quella
che viene considerata l’ultima tra le avanguardie: il Surrealismo. Protagonista ed inventore di
questo stile fu Giorgio De Chirico. Iniziò a fare pittura metafisica già nel 1909, anno di nascita del
futurismo. Ma rispetto a quest’ultimo movimento, la metafisica si colloca decisamente agli antipodi.
Nel futurismo è tutto dinamismo e velocità; nella metafisica predomina la stasi più immobile. Non
solo non c’è la velocità, ma tutto sembra congelarsi in un istante senza tempo, dove le cose e gli
spazi si pietrificano per sempre. Il futurismo vuol rendere l’arte un grido alto e possente; nella
metafisica predomina invece la dimensione del silenzio più assoluto. Il futurismo vuole totalmente
rinnovare il linguaggio pittorico; la metafisica si affida invece agli strumenti più tradizionali della
pittura: soprattutto la prospettiva. Si potrebbe pensare che la metafisica sia alla fine solo un
movimento di retroguardia fermo a posizioni accademiche. Ed invece riesce a trasmettere messaggi
totalmente nuovi, la cui carica di suggestione è immediata ed evidente. Le atmosfere magiche ed
enigmatiche dei quadri di De Chirico colpiscono proprio per l’apparente semplicità di ciò che
mostrano. Ed invece le sue immagini mostrano una realtà che solo apparentemente assomiglia a
quella che noi conosciamo dalla nostra esperienza. Uno sguardo più attento ci mostra che la luce è
irreale e colora gli oggetti e il cielo di tinte innaturali. La prospettiva, che sembrava costruire uno
spazio geometricamente plausibile, è invece quasi sempre volutamente deformata, così che lo
spazio acquista un aspetto inedito. Le scene urbane, che sono protagoniste indiscusse di questi
quadri, hanno un aspetto dilatato e vuoto. In esse predomina l’assenza di vita e il silenzio più
assoluto. Le rappresentazioni di De Chirico superano la realtà, andando in qualche modo «oltre». Ci
mostrano una nuova dimensione del reale. Da ciò il termine «metafisica» usata per definirla. Le
immagini di De Chirico sono il contesto ultimo a cui può pervenire la realtà creata dal nostro vivere.
La Metafisica, come movimento dichiarato, sorse solo nel 1917, a Ferrara, dall’incontro tra De
Chirico e Carlo Carrà. Quest’ultimo proveniva dalle file del futurismo, ma se ne era
progressivamente distaccato. L’incontro con De Chirico lo convinse al recupero della figura e
all’esplorazione di quel mondo arcaico e fisso che caratterizza la pittura metafisica di De Chirico.
Alla metafisica si convertì anche Giorgio Morandi, che nella purezza e severità delle immagini
metafische trovò la sua cifra stilistica più personale. Alla metafisica aderirono, seppure a tratti, altri
pittori italiani, tra cui Alberto Savinio, fratello di De Chirico, Filippo De Pisis, Mario Sironi e
Felice Casorati. Nel 1921 il gruppo della Metafisica era già sciolto, dato che la maggior parte dei
suoi protagonisti si erano aggregati intorno alla corrente di Valori Plastici. Ma la pittura metafisica
di fatto non scomparve, restando una cifra di fondo, molto riconoscibile, di Giorgio De Chirico e di
molti degli artisti che avevano condiviso la sua esperienza.

GIORGIO DE CHIRICO
Giorgio De Chirico studia innanzitutto in Germania a Monaco, dove venne a contatto con la cultura
tedesca più viva del momento. Si interessò alla filosofia di Nietzsche, Schopenhauer e Weininger e
fu molto colpito dalla pittura simbolista e decadente di Arnold Böcklin e Max Klinger. Si trasferì a
Parigi dove divenne amico dei poeti Valery e Apollinaire, ma rimase estraneo al cubismo che, in
quegli anni grazie a Picasso, rappresentava la grossa novità artistica parigina. Egli rimase comunque
sempre estraneo alle avanguardie, nei quali manifestò spesso atteggiamenti polemici. In quegli anni
dipinse molti dei suoi quadri più celebri che vanno sotto il nome di «Piazze d’Italia». Si tratta di
immagini di quinte architettoniche che definiscono spazi vuoti e silenziosi. Vi è la presenza di
qualche statua e in lontananza si vedono treni che passano.
L’atmosfera magica di queste immagini le fa sembrare visioni oniriche. Nel 1916, all’ospedale
militare di Ferrara, De Chirico incontrò Carrà, ed insieme elaborarono la teoria della pittura
metafisica. Il termine metafisica nasce come allusione ad una realtà diversa che va oltre ciò che
vediamo allorché gli oggetti o gli spazi, che conosciamo dalla nostra esperienza, sembrano rivelare
un nuovo aspetto che ci sorprende. E così le cose che conosciamo prendono l’aspetto di enigmi, di
misteri, di segreti inspiegabili. In questo periodo, oltre agli spazi architettonici, entrano nei soggetti
dechirichiani anche i manichini. Questa forma umana, pur non essendo umana, si presta
egregiamente a quell’assenza di vita che caratterizza la pittura metafisica. Dal 1918 al 1922
partecipa attivamente alla vita di «Valori Plastici», mentre nel 1924 torna a Parigi dove frequenta il
gruppo dei Surrealisti. Benché i surrealisti riconoscono in De Chirico un loro precursore, il pittore
italiano non accettò mai di integrarsi nella loro poetica o nel loro stile. A lui era estranea soprattutto
quella accentuazione della dimensione onirica, fatta di automatismi inconsci. In seguito la sua
pittura si rivolse sempre più ad una classicità di tipo archeologico, dove il ricorso alle mitologie
venne sempre interpretata in chiave metafisica, che rimase comunque il suo principale amore. E alla
pittura metafisica fece costantemente ritorno anche negli anni successivi, fino a quando morì a
Roma nel 1978.

Giorgio De Chirico, L’enigma dell’ora, 1911


Il quadro «L’enigma dell’ora» fu dipinto da De Chirico nel 1911: appartiene quindi al suo
soggiorno parigino. È di questa fase la famosa serie di quadri detti «Piazze d’Italia». Gli elementi
ricorrenti di queste tele sono spazi vuoti delimitati da edifici urbani. La vista è sempre prospettica, a
volte centrale e a volte accidentale, ma mostra sempre dei voluti errori di costruzione geometrica: i
punti di fuga, ed i corrispondenti punti di vista, sono sempre più di uno. In tal modo De Chirico
introduce una deformazione nell’immagine che quasi inavvertitamente viene percepita
dall’osservatore come un primo elemento di mistero. La scena che sembrava a prima vista scontata
diviene inedita. In questi spazi vuoti è quasi sempre assente la figura umana; per lo più vengono
inserite nelle piazze delle statue che spesso hanno una forma ironicamente classicheggiante. In
questo quadro sono assenti le statue e presenti due figure umane: una donna è vista di spalle ed
appare in primo piano, mentre un uomo è inserito nella seconda arcata da destra. In questo, come
negli altri quadri della serie «Piazze d’Italia», non vi è alcuna densità atmosferica: l’aria è sempre
limpida e pulita. La luce quindi non si diffonde, rifrangendosi nell’atmosfera, ma ha una
direzionalità precisa, creando una forte differenza tra zone chiaramente illuminate e ombre nette e
oscure. Il titolo del quadro nasce probabilmente dalla volontà di De Chirico di rappresentare un
orologio fermo. Appare tuttavia logico che, su un quadro, un orologio non potrà mai camminare. E
così, guardando la raffigurazione di un orologio, non sapremo mai se funziona o non funziona.
Tuttavia, è proprio la fermezza e l’immobilità di tutta l’immagine a suggerirci che anche l’orologio
è fermo, anche se non lo sapremo mai.
O forse esso è l’unica cosa che continua a muoversi, segnando un tempo senza senso, perché non
produce più modificazioni nel corso delle cose.

Giorgio De Chirico, Il canto d’amore, 1914


Il quadro ha un fascino misterioso, come quasi tutte le opere metafisiche di De Chirico, perché si
presenta come un enigma la cui soluzione non potrà mai essere trovata. In uno spazio urbano,
dall’aspetto identico a tante sue «piazze d’Italia», sul fianco di un edificio è collocata una testa
enorme, frammento di una statua classica, e un guanto da chirurgo, anch’esso gigantesco; a terra vi
è infine una enorme palla verde. Cosa abbiano in comune questi tre elementi fuori scala, non è dato
sapere, né cosa abbiano in comune con il titolo «Canto d’amore». Il quadro, pur in linea con la
produzione dechirichiana, è di certo il quadro più surrealista da egli prodotto. Non a caso determinò
la conversione a questo stile pittorico di René Magritte, che divenne un pittore surrealista proprio
dopo aver visto questo quadro di De Chirico.
Giorgio De Chirico, Ettore e Andomaca, 1917
Seconda versione di un quadro molto celebre di De Chirico, in questa tela il pittore trasforma in
manichini due figure tratte dall’Iliade: l’eroe troiano Ettore e sua moglie Andromaca. Le ispirazioni
dal mondo greco, e soprattutto da una mitologia dai tratti metafisici, sarà sempre più presente nella
produzione artistica di De Chirico, che, in tal modo, recupera uno degli elementi più forti del suo
passato: l’infanzia trascorsa in Grecia.

SURREALISMO
La nascita della psicologia moderna, grazie a Freud, ha fornito molte suggestioni alla produzione
artistica della prima metà del Novecento. Soprattutto nei paesi dell’Europa centro settentrionale, le
correnti pre-espressionistiche e espressionistiche hanno ampiamente utilizzato il concetto di
inconscio per far emergere alcune delle caratteristiche più profonde dell’animo umano, di solito
mascherate dall’ipocrisia della società borghese del tempo. Sempre da Freud, i pittori, che dettero
vita al Surrealismo, presero un altro elemento che diede loro la possibilità di scandagliare e far
emergere l’inconscio: il sogno. Il sogno è quella produzione psichica che ha luogo durante il sonno
ed è caratterizzata da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica.
O, per meglio dire, possono essere svincolate dalla normale catena logica degli eventi reali,
mostrando situazioni che, in genere, nella realtà sono impossibili a verificarsi. Il primo studio
sistematico sull’argomento risale al 1900, quando Freud pubblicò: «L’interpretazione dei sogni».
Secondo lo studioso il sogno è la «via regia verso la scoperta dell’inconscio». Nel sonno, infatti,
viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo e può quindi liberamente emergere il
suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico. La funzione interpretativa è necessaria
per capire il messaggio che proviene dall’inconscio, in termini di desideri, pulsioni o malesseri e
disagi. Il sogno propone soprattutto immagini: si svolge, quindi, secondo un linguaggio analogico.
Di qui, spesso, la sua difficoltà ad essere tradotto in parole, ossia in un linguaggio logico. La
produzione figurativa può, dunque, risultare più immediata per la rappresentazione diretta ed
immediata del sogno. E da qui, nacque la teoria del Surrealismo. Il Surrealismo è un movimento
culturale sorto a Parigi dopo la Prima guerra mondiale. Nato come corrente letteraria, riguarda
principalmente la poesia. In seguito, si estende alle arti visive, influenzando la pittura, la scultura, il
cinema. Si presenta come un movimento rivoluzionario. Contesta i valori della società borghese e la
cultura che li sostiene.
Per questo, propone una nuova concezione della realtà e una nuova idea di bellezza. Il Surrealismo
intende esprimere ciò che va oltre la realtà tangibile. Si propone di rappresentare, appunto, la
dimensione del sogno, i turbamenti dell’inconscio, le libere associazioni del pensiero. Per fare
questo, è necessario oltrepassare i limiti della ragione e accantonare il buon senso comune, dando
libero sfogo all’immaginazione. Secondo questa concezione, la bellezza di un’opera risiede nella
sua forza visionaria, nella sua capacità evocativa, nell’effetto straniante che suscita. Il Manifesto del
Surrealismo è pubblicato a Parigi nel 1924. Lo redige il teorico del movimento, André Breton.
Breton è approdato alla critica d’arte dopo aver studiato medicina. Interessato alle teorie di
Sigmund Freud sul funzionamento della mente, sostiene che l’arte possa porsi come sintesi fra la
sfera della veglia e quella del sogno. Breton è la figura centrale del Surrealismo. Organizza le
mostre collettive, fonda e dirige le riviste del movimento, e scrive interventi critici. È vicino
all’ideologia comunista, così come lo sono anche gli altri artisti che aderiscono al surrealismo. I
suoi giudizi, spesso inflessibili, determinano l’ingresso o l’uscita dei singoli artisti dal gruppo. La
disciplina imposta da Breton contrasta, dunque, con i propositi del movimento e con la libertà che la
creazione artistica richiede. Tuttavia, gli artisti che partecipano alle mostre del gruppo sviluppano i
propri percorsi a prescindere da queste direttive. Tra gli esponenti più noti del Surrealismo esistono
alcune affinità, ma non esiste uno stile condiviso. Considerato uno dei maggiori esponenti del
Surrealismo, Max Ernst (tedesco naturalizzato francese) colpisce con le sue opere densamente
simboliche: un repertorio di immagini oniriche che lo hanno reso famoso in tutto il mondo. Il
catalano Juan Miró dipinge mondi paralleli, popolati da forme colorate che evocano la vitalità della
natura. Il catalano Salvador Dalí dipinge immagini stranianti, giocando sull’illusione ottica e sul
carattere inconsueto degli accostamenti. Il belga René Magritte si concentra sul rapporto tra la
realtà, la pittura e il linguaggio. L’americano Man Ray sperimenta nuove tecniche fotografiche.
Ricordiamo anche Andrea De Chirico, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio. La storia
del Surrealismo si svolge tra le due guerre mondiali, sullo sfondo di eventi drammatici come
l’ascesa dei totalitarismi e la guerra civile spagnola. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale,
molti surrealisti europei emigrano negli Stati Uniti. Qui, influenzano le giovani generazioni di artisti
che danno vita alle avanguardie del secondo dopoguerra. Per questo, si può affermare che l’eredità
del Surrealismo perdura ben oltre lo scioglimento del gruppo. Ancora oggi alcune creazioni delle
arti visive e del cinema sono influenzate dai suoi princìpi. Opere surrealiste si possono ammirare nei
principali musei di arte contemporanea, come la Tate Gallery di Londra e il Museum of Modern Art
di New York.
Max Ernst, La Vergine sculaccia il Bambino davanti a tre testimoni: Andè Breton, Paul Éluard e
Il Pittore, 1926
Il surrealismo è un’arte provocatoria, irriverente e non si è mai fatta problemi a toccare i temi più
forti per poterli dissacrare. L’intoccabile non esisteva. Di più: abbattere il muro del pudore era il
miglior biglietto da visita per entrare a pieno diritto nella comunità surrealista del tempo. Per Max
Ernst, l’ingresso nella cerchia dei surrealisti invece arrivò nel 1926, con un dipinto che fu
condannato per blasfemia, attirando l’attenzione dell’intera scena artistica: La Vergine sculaccia il
bambino Gesù davanti a tre testimoni: Andre Breton, Paul Eluard e il pittore. Lo scenario è
moderno e la figura della Vergine Maria ha perso ogni carattere classico: è seduta in posizione
autorevole, tenendo fermo il bambino con una mano, mentre l’altra è protesa verso l’alto, pronta a
sculacciarlo. Il titolo del dipinto non lascia scampo a fraintendimenti: quello francese (in quel
periodo Ernst era a Parigi) parla di “correggere”, quello inglese di “castigare”. Il bambino si è
comportato male e sta alla madre dare una punizione. Attraverso un simbolismo molto terreno e
conosciuto da tutti, si distrugge in un sol colpo la connotazione divina di Gesù. Il bambino è
tutt’altro che perfetto, il suo comportamento è sbagliato al punto da dover essere punito. È un
semplice bambino come tutti. Umano come chiunque. Infatti, mentre Maria mantiene ancora
l’aureola, quella di Gesù è caduta per terra. Non c’è dubbio, Ernst vuole rubare al simbolo fondante
del Cristianesimo le proprie basi religiose. I tre testimoni che assistono alla scena da dietro alla
finestra sono la cerchia ristretta del Surrealismo parigino intorno a Ernst. E non si può dire che
stiano mostrando particolare interesse per la situazione. Come a dire che il Surrealismo trova
ininfluente, non interessante, le espressioni profane del sacro. La questione religiosa coi surrealisti
non si pone nemmeno: trattasi fondamentalmente di semplici simboli che possono far comodo
quando è il momento di scagliarsi contro qualcosa.
Max Ernst, La grande foresta,1927
La Foresta fa parte di una serie di opere che Max Ernst realizzò nel corso degli anni venti del secolo
scorso utilizzando una tecnica da lui inventata. O meglio, da lui recuperata, dato che si tratta di un
antico modo di dipingere che il pittore riscoprì e riattualizzò alla sua epoca: la tecnica del frottage o
sfregamento. Creando i suoi primi frottage l’artista fa cadere a casaccio sulle tavole del pavimento
dei pezzi di carta, poi li strofina con una matita o un gesso, ricalcando così le nervature del legno
sulle carte. Successivamente adatta questa tecnica alla pittura a olio, raschiando il colore su tele
preparate con materiali come fili di ferro, paglia da sedie, foglie, bottoni, o pezzi di spago. Usando
la tecnica del grattage o raschiamento Ernst ricopre completamente le sue tele con segni casuali e
poi interpreta le immagini che ne emergono, permettendo così a questa trama di segni di suggerire
la composizione in modo spontaneo. In quest'opera l’artista pone la tela sopra una superficie ruvida
(forse legno), applica il colore a olio con un raschietto sulla tela, poi sfrega, raschia, e infine dipinge
la zona degli alberi. Il soggetto della fitta foresta, come detto in precedenza, ricorre spesso
nell’opera di Ernst a cavallo tra gli anni ’20 e ’30. Queste tele contengono generalmente una parete
di alberi, un disco solare e l’apparizione di un uccello che volteggia tra il fogliame.

ALBERTO SAVINIO
Andrea De Chirico, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio, era il fratello minore di Giorgio
De Chirico. La sua è una pittura ricca di significati simbolici e intessuta di notevoli riferimenti
culturali. Non ha l’immediatezza comunicativa di altri pittori surrealisti, ma richiede un approccio
colto per poter apprezzare appieno il sottile gioco dei vari non-sens che egli attua sui materiali della
memoria culturale. Uno dei tratti più tipici del suo stile è la metamorfosi uomo-animale che
compare di frequente nei suoi quadri. Egli nei suoi quadri attua una particolare metamorfosi tra
uomini e animali, dove ad una struttura corporea decisamente umana si sovrappone una testa non
umana.
Alberto Savinio, La nave perduta 1926
Il tema della memoria è fortemente presente in quest’opera, dove alcuni giocattoli sono posti in un
contesto inusuale, aumentati di volume assumono un carattere monumentale e simboleggiano
l'infanzia perduta, i ricordi dell'artista.

Alberto Savinio, La sposa fedele, 1929


Una figura umana ha la testa di animale e simboleggia Penelope che aspetta il ritorno di Ulisse
guardando il mare. Dalla finestra appare un essere alato che ricorda Hermes, (in latino Mercurio)
che secondo la mitologia greca è il portatore delle notizie.
SALVATOR DALI’
Esponente importante del Surrealismo. Egli infatti vide nelle teorie del movimento la possibilità di
far emergere la sua dirompente immaginazione. Rotti i freni inibitori della coscienza razionale, la
sua arte portava in superficie tutte le pulsioni e i desideri inconsci, dando loro l’immagine di
allucinazioni iperrealistiche. In Dalí non esiste limite o senso della misura, così che la sua sfrenata
fantasia, unita ad un virtuosismo tecnico notevole, ne fecero il più intenso ed eccessivo dei
surrealisti al punto che nel 1934 fu espulso dal gruppo dallo stesso Breton. Ciò tuttavia non scalfì
minimamente la produzione artistica di Dalí, il quale, dopo essersi professato essere lui l’unico vero
artista surrealista esistente, intensificò notevolmente l’universo delle sue forme "surreali". Il
Surrealismo per Dalí era l’occasione per far emergere il suo inconscio. Creò immagini di
straordinaria fantasia, tese a stupire e meravigliare grazie alla grande artificiosità della loro
concezione e realizzazione. La tecnica di Dalí si rifà esplicitamente alla pittura del Rinascimento
italiano, ma da esso prende solo il nitore del disegno e dei cromatismi, non la misura e l’equilibrio
formale. Nei suoi quadri prevalgono effetti illusionistici e complessità di meccanismi che
rimandano inevitabilmente all’esuberanza del barocco iberico. In seguito la sua pittura tende a
trovare una sinteticità più netta, in cui la concentrazione su pochi elementi permette al quadro di
esprimere contenuti più chiari ed univoci. Negli ultimi decenni della sua vita egli ha continuato ad
alimentare a dismisura la sua fama di artista eccentrico, originale e a volte delirante, fino a diventare
prigioniero del suo stesso personaggio: sempre più scostante, altezzoso e imprevedibile.

Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931, New York, Museum of Modern Art (MoMa)
“La persistenza della memoria” è uno dei più famosi dipinti di Salvador Dalì. All’interno di un
paesaggio fantastico sono disposti alcuni oggetti irreali. Dominano la scena alcuni orologi dalla
consistenza deformata. Sono chiamati, infatti, orologi molli. Pur segnando ancora il tempo,
sembrano aver perso la loro solidità. Sopra al parallelepipedo dipinto a sinistra, un orologio è
poggiato per una metà sul piano. Sopra di esso, si è appoggiata una mosca che crea una lunga ombra
verso le dodici. La metà inferiore, invece, pende mollemente lungo il fianco del solido. Un altro
orologio, con la cassa però chiusa, è poggiato più a sinistra. Su di esso alcune formiche, grandi e
piccole, creano un motivo decorativo. Verso il bordo posteriore del solido, un esile tronco morto si
alza verso il cielo e un suo ramo sostiene un altro orologio che pende verso il basso.
Sul terreno, un essere mostruoso composto da un grande occhio chiuso, con lunghe ciglia,
sopracciglia e la lingua al di fuori porta come una groppa un altro orologio. Verso il fondo dello
spazio rappresentato, si apre uno specchio d’acqua. A destra, alcuni faraglioni avanzano verso
l’acqua. A sinistra, invece, è dipinto un piano geometrico che avanza verso la riva. Il cielo è limpido
e privo di nubi. Il giorno in cui Dalì realizzò l'opera "La persistenza della memoria", sarebbe dovuto
andare al cinema insieme alla moglie Gala e alcuni amici, ma la stanchezza accompagnata da un
leggero mal di testa glielo impedì e così decise proprio all'ultimo di restarsene a casa. Quella sera
avevano mangiato tutti insieme un camembert (un formaggio francese a pasta molle) e quando gli
altri se ne erano andati a divertirsi e lui rimase solo, si mise a meditare sul problema filosofico
dell'ipermollezza posto da quel formaggio. Dopo un po' si alzò e andò nel suo laboratorio per dare
uno sguardo a un dipinto su cui stava lavorando, che rappresentava una veduta di Port Lligat (dove
abitava in quel periodo): gli scogli giacevano in una luce trasparente, malinconica e, in primo piano,
si vedeva un ulivo dai rami tagliati e privi di foglie; era a conoscenza che questo sfondo sarebbe
potuto servirgli per idee artistiche future più importanti ma non sapeva ancora come poterlo
sfruttare al meglio. Stava per spegnere la luce e andare a dormire, quando d'un tratto vide la
soluzione: due orologi molli che pendevano dal ramo dell'ulivo. Nonostante il mal di testa fosse
diventato più intenso e si sentiva ancora più debole, prese la tavolozza e iniziò a dipingere quello
che ora è conosciuto come "La persistenza della memoria". Era la prima apparizione dei famosi
orologi molli che diventeranno uno dei simboli più amati di Dalí. Il tempo che si scioglie,
abbandonando ogni pretesa di essere riferimento assoluto, fu messa in riferimento con le nuove
teorie della relatività di Albert Einstein, che per la prima volta metteva in discussione in termini
scientifici una coordinata da sempre considerata inalterabile. E se il tempo non è affidabile nella
realtà, figuriamoci quanto vale nella dimensione onirica, che resta quella prediletta da Dalí e dal
Surrealismo. La persistenza del tempo è quindi relativa: il tempo è instabile e fuggevole, e i nostri
ricordi, la nostra memoria, rischiano di essere l’unico modo di dargli durevolezza e stabilità. Allo
stesso tempo, il concetto di persistenza diventa una beffa: le sensazioni date dal dipinto sono tutto
tranne che garanzia di persistenza e solidità. Questo spiega la presenza degli elementi naturali nel
dipinto, il paesaggio, le montagne e l’ulivo, che diventano così l’ultimo retaggio di un passaggio
dalla dimensione realistica a quella del sogno, che avviene nella mente di Dalí proprio in quel
momento. La figura bianca distesa per terra ha le sembianze di una palpebra chiusa (quindi
dormiente), ma sono in molti ad averla interpretata come un autoritratto dello stesso Dalí, al centro
del suo dipinto. L’orologio più a sinistra, l’unico non molle, è invaso dalle formiche, una delle fobie
personali di Dalí, interpretate in maniera pacifica come il simbolo del decadimento. La mosca
sull’orologio sul tavolo, invece, lascia pensare che il tempo non solo si liquefa, ma imputridisce. Il
tempo, l’ultima delle coordinate a cadere sotto i colpi della modernità, è sotto attacco, e tolto quello
non resta più alcun appiglio solido a cui affidarsi. Il dipinto è l’affresco della perdita di ogni
riferimento certo. Nella prima metà del Novecento non è dunque solo la prima guerra mondiale a
togliere ogni certezza: ad essa si aggiungono le teorie rivoluzionarie di Freud e Einstein, che
dichiarano scientificamente legittima la relatività di ogni percezione. La Persistenza della Memoria
diventerà ben presto manifesto del Surrealismo e simbolo universale della relatività del tempo e
della condizione umana.
Salvador Dalì, Sogno causato dal volo di un’ape, 1944
Immagine, tra le tante, in cui compare Gala la moglie di Dalì. L’ispirazione del quadro venne a Dalì
dalla puntura di un’ape mentre stava dormendo. Il momento del dolore avvenne quindi in un istante
di incoscienza, e produsse quindi una serie di sensazioni ingigantite dalla mancanza momentanea
della coscienza di quanto stava avvenendo. L’immagine è una simultanea rappresentazione di istanti
precedenti e posteriori: l’istante della puntura è dato dalla punta della baionetta che sta per
trafiggere il braccio della donna nuda, l’istante del dolore è invece rappresentato dall’irrompere di
allucinazioni quali le tigri inferocite che fuoriescono dalla bocca di un pesce che a sua volta sorge
da un melograno. Da notare l’elefante, con l’obelisco sulla groppa, e con le gambe di insetto, che
riesce a camminare sul pelo dell’acqua: altra allucinazione che ritornerà spesso in altri quadri di
Dalì.
Salvator Dalì, Telefono Aragosta, 1936
Icona del Surrealismo e una delle opere più immediatamente riconoscibili del XX secolo, il
Telefono Aragosta di Salvador Dalí è stato realizzato in collaborazione con l’amico del pittore e suo
mecenate Edward James, il più attivo tra i mecenati degli artisti surrealisti nel corso degli anni
Trenta. Fu proprio Edward James a spingere Dalí alla creazione del Telefono Aragosta: James si
trovava infatti in visita a casa di una signora dell’aristocrazia quando, nell’atto di rispondere a un
telefono che stava squillando, la signora per errore impugnò un’aragosta. Fu questo accostamento
umoristicamente incongruo tra un telefono e un’aragosta ad accendere la fantasia di James e a far
nascere l’idea per l’opera d'arte. L’aragosta era un simbolo iconico cui Dalí fece spesso riferimento
nella sua arte. Ne era affascinato per via dei contrasti tra durezza e morbidezza e per le sue
associazioni erotiche. Il Telefono Aragosta è una delle opere più riconoscibili di Dalí.
L’accostamento di oggetti di uso quotidiano, al fine di renderli umoristici o d'avanguardia,
costituiva il presupposto stesso del Surrealismo: quest’opera d’arte ne è un classico esempio,
combinando tra loro l’inconsueta Aragosta e un comune telefono.
Salvator Dalì, Venere di Milo con cassetti, 1936, Chicago
E’ una scultura realizzata nel 1936 da Salvador Dalí che riproduce la statua classica con una
variante: ha sparso per il corpo alcuni cassetti apribili grazie a pomelli. I cassetti alludono
metaforicamente alle zone più profonde e segrete del nostro subconscio. Secondo Dalì significa
oltrepassare i consolidati canoni di bellezza ideale tipica dell'arte classica.

JOAN MIRO’
Pittore, grafico e scultore catalano, Miró è profondamente legato alla sua terra: la vita dei contadini,
i loro oggetti di uso quotidiano, l’arte popolare, le luci e i colori del Mediterraneo sono alcune delle
sue fonti di ispirazione. In seguito, i soggiorni a Parigi e la frequentazione di Picasso e degli
esponenti del dadaismo e del surrealismo ne hanno determinato lo stile e le scelte artistiche

Joan Mirò, Paesaggio Catalano (Il Cacciatore), 1923/1924


E’ l’estate del 1923 quando Joan Miró inizia a dipingere Paesaggio catalano. Il quadro è conosciuto
anche come Il cacciatore. Questo suo celebre quadro rappresenta una vista della fattoria dove
abitava la sua famiglia, a Montroig, in Catalogna. Il dipinto è un insieme fantasioso di forme
umane, animali e vegetali che sono visibili all’occhio della mente. E’ un’opera che svela l’ampia
immaginazione di Miró.
E’ una metafora poetica che rappresenta la concezione che Joan Miró ha della sua terra natale,
sfuggendo – come ha detto lui stesso – alle “malefatte dell’umanità”, che non riusciva appunto a
concepire. Mirò riesce nella sua arte a dare un’anima all’oggetto, dandogli un aspetto vivo e
magico. Negli elementi è riflessa la convinzione che ogni oggetto possiede un’anima vivente.
Paesaggio catalano (Il cacciatore) appare come un’opera astratta. Serve tuttavia uno sguardo attento
per vedere rivelarsi un paesaggio popolato da un ricco assortimento di figure umane e animali e
forme naturali che insieme compongono un’iconografia della vita dell’artista. Il cacciatore è la
figura in piedi sul lato sinistro ed è il protagonista della scena. Egli ha un corpo stilizzato, con una
testa rappresentata da un triangolo. Una pipa sporge alla destra dei suoi baffi folti; il cuore del
cacciatore galleggia vicino al suo petto. In una mano tiene un coniglio appena ucciso; nell’altra
mano ha un’arma, ancora fumante per lo sparo che tolto la vita al povero animale. La figura del
cacciatore è un sostituto di Miró ed appare in molte altre sue opere. Nell’angolo in basso a destra, in
primo piano, l’autore dipinge la parola “sard”. Si tratta dell’abbreviazione di “Sardana“: è la danza
nazionale della Catalogna. Questa parola, che appare troncata, fa riferimento anche alle lettere
frammentate e alle parole della poesia dadaista e surrealista, da cui Miró si sentiva influenzato. Il
“Paesaggio catalano” di Joan Miró evoca la vita nella fattoria della sua famiglia. Questa regione
della Spagna è politicamente autonoma e si trova vicino al confine tra Spagna e Francia. La
Catalogna ha un suo parlamento, una sua lingua, e chiaramente storia, tradizioni e cultura. Il
nazionalismo catalano di fatto è stato oggetto di dibattito per oltre un secolo. L’opera ha degli
elementi che le danno una connotazione politica. Le tre bandiere, per esempio, quella francese,
catalana e spagnola fanno riferimento ai tentativi della Catalogna di decentrarsi, di allontanarsi dal
governo centrale spagnolo. E’ un modo, un escamotage che utilizza Mirò per affermare la sua
fedeltà alla causa catalana.

Juan Mirò, Il Carnevale di Arlecchino”, 1924-1925, Albright-Knox Art Gallery di Buffalo (Stati
Uniti d’America)
Nell’opera sono evidenti le impronte surrealiste. Il dipinto venne realizzato prima che Breton scrisse
il “Manifesto surrealista” e venne interpretato come un “chiarimento del subconscio umano”. Venne
definito uno dei capolavori del movimento surrealista perché esprime gli obiettivi e i traguardi di
questo movimento culturale molto diffuso nella cultura del Novecento, che nasce come evoluzione
del Dadaismo. Nell’opera è evidente il gusto per la vivacità cromatica e il senso del fantastico di
tradizione mediterranea. Joan Miró utilizza nella sua opera uno stile sempre più marcato, si distacca
dalla pittura convenzionale e mette in atto la tecnica surrealista dell’automatismo psichico, che
mette a dura prova il corpo per permettere all’immaginazione di perdersi in visioni fantastiche e
surreali.
In questo modo, Mirò si propone di esprimere, con la sua pittura, il reale funzionamento del
pensiero. Nel suo dipinto, possiamo ammirare un gatto, un tavolo, un pesce ed una
scala. Dalla finestra, si intravede un triangolo nero che emerge e che simboleggia con tutta
probabilità la Tour Eiffel. Nel quadro, si notano anche minuscole forme in un grande spazio vuoto,
note musicali, oggetti fantastici, piccole figure indecise tra l’essere umano e l’animale ed infine un
cerchio verde trafitto da una freccia sottile, posto su di un tavolo, che simboleggia probabilmente un
mappamondo. Tutti questi non sono altro che elementi della realtà che si trasformano, dando origine
alla visione pittorica. Nel dipinto compare la scala a pioli, ricorrente nei suoi lavori. E’ evidente che
la scala simboleggia la fuga dalla realtà e rappresenta un trampolino di lancio che parte dalla realtà
e va oltre: è la fantasia, il surreale.

RENE’ MAGRITTE
Il pittore belga René Magritte è tra i pittori surrealisti più originali e famosi. Dopo aver studiato
all’Accademia di Bruxelles, i suoi inizi di pittore si muovono nell’ambito delle avanguardie del
Novecento, assimilando influenze dal cubismo e dal futurismo. Secondo quando egli stesso ha
scritto, la svolta surrealista avvenne dopo aver visto il quadro di De Chirico «Canto d’amore», dove
sul lato di un edificio sono accostati la testa enorme di una statua greca e un gigantesco guanto di
lattice. Nel 1926 prese contatto con Breton, capo del movimento surrealista, e l’anno successivo si
trasferì a Parigi, per restarvi tre anni. Dopo di che la sua vita artistica si è svolta interamente in
Belgio. Magritte è l’artista surrealista che, più di ogni altro, gioca con gli spostamenti del senso,
utilizzando sia gli accostamenti inconsueti, sia le deformazioni irreali. Una delle costanti poetiche di
Magritte è l’insanabile distanza che separa la realtà dalla rappresentazione. E spesso il suo
surrealismo nasce proprio dalla confusione che egli opera tra i due termini. È il caso del quadro
«Ceci n’est pas une pipe», dove una riproduzione perfetta di una pipa è accompagnata dalla scritta
"questa non è una pipa". Il suo surrealismo è uno sguardo molto lucido e sveglio sulla realtà che lo
circonda, dove non trovano spazio né il sogno né le pulsioni inconsce. L’unico desiderio che la sua
pittura manifesta è quello di "sentire il silenzio del mondo", come egli stesso scrisse. In ciò quindi il
surrealismo di Magritte si colloca agli antipodi di quello di Dalí, mancandovi qualsiasi
esasperazione onirica o egocentrica.

Renè Magritte, La Trahison des images (in italiano: Il tradimento delle immagini), 1928-29 e
conservato nel Los Angeles County Museum of Art
A prima vista la tela ci appare come una comunissima pipa su uno sfondo monocromatico,
accompagnata da una scritta in un corsivo anonimo e diligente che afferma: “Ceci n’est pas une
pipe”. La pipa di Magritte, anche se dipinta in modo illusorio e allettante, non è altro che olio su
tela. Possiamo forse fumarla comodamente nel nostro salotto o passeggiando tra le vie
metropolitane?
Ma certo che no: questo non è una pipa, è un quadro che rappresenta un oggetto che conosciamo e
riconosciamo, ma che non è reale, è solo raffigurato. Neppure la parola “pipa” è l’oggetto stesso,
bensì – come l’immagine dipinta – una semplice denominazione, in fin dei conti arbitraria. Il
quadro è il frutto della ricerca di Magritte del rapporto tra immagine e linguaggio. È la parola che
contraddice l’immagine e, pur convivendo con quest’ultima, nega la sua autenticità.
Automaticamente il conflitto si sposta sul binomio osservazione-lettura, creando perplessità
maggiori. Il maestro ribalta il principio della pittura classica, che imponeva l’indiscutibile
verosimiglianza del dipinto con la realtà, e introduce uno stile che ha il fine di decontestualizzare gli
oggetti riconoscibili e in cui la pittura può disporre a suo piacimento delle apparenze imponendo
loro una logica che, mostrandone l’arbitrarietà, contraddica le comuni leggi della percezione. Gli
oggetti che dipinge sono tutti assolutamente riconoscibili, caratterizzati dalla banalità e dalla
quotidianità, ma, nel momento in cui vengono dipinti, seppure in modo accademico come lui stesso
afferma, tutto cambia e inizia a vacillare. Magritte li rappresenta secondo una logica poetica,
secondo un ordine tale da farli apparire in una luce inedita, dotati di una forza del tutto nuova. Ciò
che conta davvero nelle sue tele non è l’aspetto tecnico, bensì la capacità di generare nel fruitore
incredulità e quesiti che lo portino a comprendere l’opera nella sua valenza teorico-filosofica.

René Magritte, "La Condizione umana", (1933)


La condizione umana è il nome di due dipinti realizzati da René Magritte. Il primo di essi risale al
1933 ed è situato alla National Gallery di Washington, mentre il secondo venne realizzato due anni
più tardi ed appartiene alla collezione Simon Spierer di Ginevra. Nel primo dei due dipinti Magritte
rappresenta una tela su un cavalletto davanti una finestra. La tela rappresenta lo stesso paesaggio
retrostante, ma contemporaneamente lo nasconde parzialmente. Il risultato è una perfetta continuità
con la porzione di paesaggio rimasta visibile attraverso la finestra. Soltanto il bordo della tela ci
segnala l’esistenza di una differenza tra la superficie della tela e il paesaggio. Nel secondo dipinto
notiamo che il cavalletto è posto in modo differente rispetto al primo dipinto.
Attraverso questo spostamento il pittore riesce a conferire un taglio, una forma ed una dimensione
all’immagine; i tre elementi che guidano lo spettatore durante l’interpretazione dell’opera e, in
ultima analisi, nel giudizio della realtà. Nei due dipinti, il pittore si muove con sottile equilibrio sul
confine tra realtà e rappresentazione giocando sul tema del quadro nel quadro, compiendo ciò che
possiamo definire una meta-opera. Con questo lavoro, Magritte riflette e ci invita a riflettere sulla
relazione esistente tra conoscenza, riproduzione ed esperienza estetica.

René Magritte, L’impero delle luci, 1954, Venezia


L’impero delle luci è senz’altro uno dei dipinti più straordinari realizzati da René Magritte, per la
sensazione atmosferica che riesce a comunicare, ed è uno dei quadri che richiama di più gli ideali
surrealisti. L’impero delle luci venne realizzato da Magritte nel 1954, usando la tecnica dei colori a
olio su una tela. L’immagine è quasi fin troppo semplice, e sicuramente potremmo chiederci perché
riesce tanto ad affascinare. Apparentemente vediamo una villetta che sembra un po’ isolata nel
verde, immersa in una profonda e totale oscurità. Le uniche cose che attenuano il buio, sono delle
luci artificiali provenienti dall’interno di alcune camere della villetta e da un lampioncino che
rischiara il giardino esterno e il laghetto antistante. A un primo sguardo, ci pare una perfetta
raffigurazione di un normale paesaggio con dettagli quasi fotografici. Magritte realizza un
accostamento tra momenti temporali diversi: guardando il dipinto con più attenzione viene subito da
chiedersi se è giorno oppure notte. Infatti potremmo notare un cielo molto luminoso, percorso da
nuvole bianche, che pare proprio mattutino. Contro questo cielo azzurro e rassicurante si stagliano
però le masse nere e buie degli alberi, accentuati ancora di più dalle luci accese, come se fosse già
sera o notte. Non è più il paesaggio mattutino che sembra all’inizio, ma qualcosa di ambiguo e
molto strano. L’accostamento è inatteso: il cielo è visto di giorno, mentre la metà inferiore, dove c’è
la casa con il lampione acceso, è un’immagine notturna. È proprio questa diversità di luci che,
passando quasi inosservata, riesce a creare un’atmosfera inedita e affascinante, forse inquietante da
vedere perché ci fa pensare a qualcosa di tragico che può accadere da un momento all’altro.
Quest’inquietudine nasce dalla contraddizione tra tutto ciò che conosciamo e di cui siamo certi e ciò
che sembra mettere in dubbio le nostre certezze. Nel quadro L’impero delle luci l’artista mise in
contrasto il cielo chiaro con la parte oscura della villetta, per farci vedere come un paesaggio ameno
possa trasformarsi in qualcosa d’inquietante ai nostri occhi.
Per Magritte, come per tutti i pittori surrealisti, l’immagine non è al servizio della riproduzione
della realtà, ma è una cosa a sé, esiste in maniera del tutto indipendente rispetto alla cosa che
rappresenta. Compito dell’artista, per Magritte, è interpretare la realtà, far emergere la verità
nascosta. Il mistero lo troviamo quindi in queste associazioni inaspettate. L’osservatore è invitato a
interrogare queste immagini il cui senso gli sfugge, a un primo sguardo. Anche il titolo resta un
enigma: L’Impero delle luci non definisce testualmente l’immagine, perché questa non descrive mai
un qualcosa di convenzionale. Il titolo dell’opera doveva sempre spaesare sufficientemente gli
osservatori in modo che si interrogassero sul senso dell’immagine. Era inoltre necessario che il
titolo introducesse a una dimensione poetica, che facesse lavorare l’immaginazione
dell’osservatore, sia con ciò che mostra sia con ciò che non mostra, ma suggerisce.

Renè Magritte, Le chateau des Pyrénées (Il castello dei Pirenei),1959, Israel Museum di
Gerusalemme
Il dipinto appartiene ai soggetti, frequenti in Magritte, delle "pietrificazioni". Si riconoscono diversi
elementi reali: un castello si un'inospitale sommità rocciosa, questa sospesa sul mare, un cielo
chiaro abitato da bianche nuvole. Il mare, in basso, è agitato, come lo voleva il pittore: "Un mare
tempestoso - egli scriveva - cupo come il Mare del Nord della mia gioventù". La compresenza degli
elementi nel dipinto appare impossibile: la roccia diventa un enorme masso sospeso sull'acqua; il
castello è pietrificato e, magicamente, è composto della stessa materia della roccia. Questa domina
l'intera composizione e la sua forza è amplificata dal chiarore del cielo che le fa da sfondo.
Sembrano scontrarsi visivamente due elementi dalla forza titanica: la roccia e il mare. Tutto appare
bloccato in una condizione di immobile irrealtà. Realtà e assurdo sono resi compatibili nello spazio
virtuale del dipinto, grazie all'estremo realismo delle immagini, alla loro precisione quasi
fotografica. Il castello appare ben collocato, fondato sulla roccia, ma questa roccia è in realtà
sospesa nell'aria, si libera nel cielo azzurro, in una dimensione indefinita. Sotto si vede infine il gran
mare su cui tutto poggia: roccia, cielo, castello degli uomini. Il mare con la sua grande onda in
movimento, cangiante, fluida. Possiamo provare ad utilizzare questa immagine come metafora della
filosofia postmoderna: il pensiero (castello) fondato (roccia) nell'infondatezza (cielo) allude a un
senso dell'essere che è domanda aperta, mai esaurita da alcuna risposta (mare), vale a dire che il
castello ben si regge sulla roccia, ma la roccia è sospesa nell'aria: nel nostro mondo sono venute
meno le terre sicure su cui poggiare stabilmente e immutabilmente, il cielo è la nuova condizione
esistenziale, individuale e sociale, incertezza e trasparenza, sospensione e vuoto.
Con tutto questo si deve imparare a convivere, a dialogare, munendosi di un pensiero diverso, meno
preoccupato e ossessionato dall'esigenza della verità. Non disperarsi quindi davanti all'incertezza,
ma imparare a navigarvi, attrezzandosi finalmente di un'altra ragione/pensiero. E se ancora un senso
dell'essere si dà è quello suggerito dal mare sottostante: fluido, in movimento, cangiante e
caratterizzato dall'acqua. L'acqua è l'elemento che, pur rimanendo sempre sé stessa, si curva, si
piega, assume qualunque forma, si adatta a tutto e così supera qualsiasi ostacolo, scava la roccia,
può rovesciare montagne e colline: è la forza della flessibilità, dell'adattabilità. Il castello dei
Pirenei pare allora una convincente suggestione e forse anche anticipazione del soggetto
postmoderno.

TENDENZE FUGURATIVE E ASTRATTISTE DAGLI ANNI 20 AL 2º


DOPOGUERRA
Con la fine della Grande Guerra, in tutta Europa si assistette a un ripensamento generale delle
estreme sperimentazioni che avevano caratterizzato il decennio precedente l’inizio del conflitto,
anche da parte degli stessi protagonisti di quel periodo. La necessità di ritrovare un’armonia davanti
alle macerie della catastrofe bellica, portò gli artisti a rivolgersi verso la grande tradizione
figurativa, rigettando quell’estetica del brutto così tenacemente ricercata dalle avanguardie storiche.
Gli epicentri di questa nuova tendenza estetica, destinata a condizionare per lungo tempo il gusto
artistico non solo europeo, si localizzarono in Francia, in Germania e in Italia, sul finire degli anni
dieci del secolo. In Francia, Ozenfart e Jeanneret (che pochi anni dopo prese il nome di Le
Corbusier) fondarono il movimento purista, con l’intento di superare il cubismo attraverso la ricerca
di un equilibrio tra il bello ideale e la civiltà delle macchine. In Germania, dopo l’estrema
esperienza anti-figurativa del Blauer Reiter, ci si rivolse a un realismo espressionista fortemente
radicato nel contesto sociale, con una lettura capace di evidenziarne le miserie e le contraddizioni,
attraverso l’uso del grottesco e del satirico; tale tendenza si incanalò nella corrente Nuova
Oggettività di Otto Dix e George Grosz. La nuova visione estetica, in Italia trovò applicazioni
teoriche e pratiche più diversificate e diffuse. Se ne fece promotore un gruppo di intellettuali ed
artisti gravitanti attorno alla rivista Valori Plastici, edita dal 1918 al 1922, che già dai primi numeri,
con interventi dei fratelli De Chirico, di Carrà e di Morandi, decise di indirizzarsi verso una
riscoperta del classico, reinterpretato in chiave contemporanea, seguendo il sentiero della pittura
metafisica che Giorgio De Chirico aveva aperto già da alcuni anni. Partendo da questi presupposti,
la critica d’arte Margherita Sarfatti, in stretti rapporti con Mussolini, coordinò un movimento
artistico denominato Novecento che coinvolse, oltre agli artisti di Valori Plastici, pittori come
Severini, Casorati e Sironi, letterati come Bontempelli, architetti come Muzio e Giò Ponti. Da
questo movimento si generarono stili diversi, tra classicismo e arte popolare, realismo magico e
razionalismo, modernismo e tradizione. Il regime italiano – come più tardi quello sovietico e quello
tedesco – favorì gli aspetti più funzionali all’estetica della sua politica per farne strumento di
propaganda. Questo complesso movimento trans-nazionale è passato alla storia dell’arte come
Ritorno all’ordine (Rappel a l’ordre in francese).
Gino Severini, Maternità, 1916
E’ un’opera emblematica della carriera dell’artista, esempio lampante del ritorno alla tradizione e
della convergenza tra passato e presente. Il dipinto raffigura la moglie di Severini, Jeanne, intenta
ad allattare il loro secondogenito Antonio. L’opera segnò la clamorosa svolta dell’artista verso la
forma classica che sperimentò dopo la stagione futurista e che diventò una delle cifre più
riconosciute e importanti del suo linguaggio artistico.

Carlo Carrà, Le figlie di Loth, 1919, MART Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento
e Rovereto
In questo dipinto si può ammirare il superamento della Metafisica, attraverso la ricerca di
un’immagine classico-arcaica che lo portò verso un processo di semplificazione formale e di
“idealizzazione geometrica” del reale; in tale capolavoro si può riscontrare il recupero sia della
tradizione della cultura italiana, sia del linguaggio plastico di Giotto e Masaccio.
In questa tela la volontà di rifarsi alla tradizione pittorica trecentesca è evidente nella semplicità
degli elementi compositivi e nella scelta iconografica, sebbene il racconto biblico viene identificato
solo attraverso il titolo, poiché nessun dettaglio fa pensare che le due figure femminili siano, in
realtà, le figlie di Loth. La spazialità spoglia, i colori intensi e la costruzione austera delle due donne
e dell’animale sono elementi ispirati chiaramente agli affreschi e alle tavole giottesche, nell’
impianto formale, dunque, ma anche contenutistico. L’atmosfera è enigmatica, caratterizzata da una
sospensione di ascendenza ancora metafisica, dove l’aspetto aneddotico dell’immagine viene
bloccato in un’immobilità misteriosa. Del dipinto esiste un disegno preparatorio, del medesimo
anno, dove si notano parecchi ripensamenti nella disposizione delle figure e nel paesaggio dello
sfondo.

Carlo Carrà, Il pino sul mare, 1921


Il quadro appartiene al periodo in cui l'arte di Carrà, superata la fase futurista, sta già passando da
quella metafisica vera e propria a quella 'novecentesca', caratterizzata da un ritorno al linguaggio
figurativo sotto l'influsso della tradizione primitiva italiana, in particolare di Giotto, ma anche della
lezione post-impressionista di Paul Cézanne. La composizione è classica, semplicissima, ridotta
all'essenziale. In primo piano una spiaggia sul mare, la facciata di una casa sulla sinistra e, sulla
destra, un pino marittimo dal tronco liscio e nudo, piegato dal vento verso il centro, con un ramo
monco e altri due che sorreggono una chioma sproporzionatamente piccola. In mezzo, tra la casa e
il pino, uno stenditoio che pare il cavalletto di un pittore, con un panno bianco, forse una tovaglia,
steso ad asciugare; sul terreno, pochi ciuffi d’erba sparsi. Sullo sfondo, un mare liscio e piatto come
un lago; e, al di sopra, un cielo bianco e azzurro trasparente. Dietro il pino, in secondo piano, si
staglia un’isola o, più probabilmente, un promontorio roccioso, con pochi cespi di stentata
vegetazione. I colori sono chiari, luminosi, tranne il mare (insolitamente scuro) e i tre vani
artificiali, i due della casa e quello del promontorio, che non sembrano aperture, quanto piuttosto
vie sbarrate e inaccessibili. Ci troviamo davanti a un paesaggio di tipo metafisico, ma di una qualità
metafisica che prelude alla riscoperta dei volumi corposi, delle forme nette e squadrate (cubiste?)
che richiamano la grande stagione dell’arte italiana tardo-medioevale e del primo Rinascimento. Un
paesaggio metafisico che non ha la qualità angosciosa di quelli di De Chirico; dove è presente, sì, il
senso dell’attesa di qualcosa che deve accadere (suggerito soprattutto da quel panno steso ad
asciugare, nonostante l’assoluta mancanza di figure umane), ma non qualche cosa di allarmante e di
potenzialmente pericoloso.
Il mistero incombe, ma con leggerezza, con grazia, quasi con soavità; incombe, ma non opprime e,
soprattutto, non angoscia né spaventa.

Mario Sironi, L'Italia corporativa. Mosaico, Milano, palazzo dell’Informazione


Futurista a partire dal 1913, Mario Sironi negli anni venti ha espresso l’aspetto più duro della città e
della vita contemporanea, ma insieme ha dato ai suoi paesaggi urbani la forza delle architetture
classiche e alle sue figure la solennità dei ritratti antichi. Di una classicità moderna, è stato infatti
uno dei maggiori protagonisti tra le due guerre: prima con il movimento del Novecento Italiano, che
si forma a Milano nel 1922; poi con il sogno visionario di una rinascita dell’affresco e del mosaico.
Amico personale di Mussolini e fascista, Sironi ha dato forma nella sua pittura murale degli anni
trenta alla dottrina nazionalistica e sociale del regime – non alle leggi razziali che non ha mai
condiviso. Del resto la sua arte, potente e dolorosa, non diventa mai un’arte di Stato. L’opera in
questione è un mosaico, e il suo stile è geometrico e squadrato.

FUORI DALL’ARTE DI REGIME: LA LINEA ESPRESSIONISTA


ITALIANA
Carlo Levi
E’ considerato uno tra i più significativi narratori del Novecento, autore del romanzo capolavoro
Cristo si è fermato a Eboli, ma la prima attività artistica alla quale Carlo Levi si è dedicato con
grande successo è stata la pittura, che egli considerava un’espressione di libertà, in contrapposizione
all’oppressione del fascismo. Le sue opere pittoriche ritraggono gli uomini con cui ha condiviso
questo ideale, quegli intellettuali che lui definisce “i contadini”; e poi l’angoscia del fascismo, la
guerra e la rivoluzione dei contadini, quelli veri. Atmosfere, personaggi e ideali che ritroviamo
anche nella sua produzione letteraria e nella sua visione politica. Nella vita di Carlo Levi arte e
politica si sono fuse in un unico racconto attraverso il quale ha dato voce al suo complesso universo
di valori etici e di impegno sociale, caratterizzati dal rifiuto di ogni autorità costituita. I suoi primi
anni da pittore sono a Parigi, dove si reca nel 1929 e dove entra in contatto con le opere di
Modigliani nelle quali legge un incitamento alla ribellione contro il fascismo. Pittura e politica
corrono sullo stesso filo sin dall’inizio: in quegli anni fa parte del Gruppo dei Sei di Torino che
elaborano una pittura incentrata esclusivamente sul colore come ribellione alla precisione del
disegno dell’arte fascista.
Contemporaneamente conosce i fratelli Roselli, dei quali è esposto il Ritratto di Carlo Roselli e
diventa uno dei principali esponenti del Gruppo Giustizia e Libertà del quale collabora alla stesura
del programma rivoluzionario. Nel 1935 è arrestato per la seconda volta e condannato a tre anni di
confino in Lucania. L’esperienza meridionale, la scoperta della civiltà dei contadini, lo cambia
profondamente sia nei modi sia interiormente e il suo stile diventa più sobrio e realistico. Le opere
realizzate a partire dal 1940 sono caratterizzate da una pittura misurata, con toni severi e la presenza
di simboli che rimandano alle atrocità del fascismo e della guerra.

Il 2º ESPRESSIONISMO IN GERMANIA: LA NUOVA


OGGETTIVITA’
Con il nome di Nuova Oggettività, o Neue Sachlichkeit, dal nome della mostra che questa corrente
tenne alla Kunsthalle di Mannheim nel 1925, si definisce un movimento affermatosi in Germania
negli anni '20, nel clima culturale della Repubblica di Weimar. Contro l'eccesso di emotività
dell'Espressionismo, contro lo spiritualismo dell'arte espressionista, la Nuova Oggettività
rappresenta un brusco ritorno al realismo oggettivo, alla descrizione del mondo nei suoi termini più
crudi, senza filtri né elaborazioni, anche se il linguaggio degli artisti di questo movimento,
nonostante una chiara presa di distanza da ogni sentimentalismo resta sostanzialmente
espressionista e, come l'Espressionismo, "urla" la sua condanna morale per un mondo corrotto che
sta correndo verso la propria rovina. Otto Dix, Georg Grosz, Max Beckmann, Otto Griebel, Ludwig
Meidner, sono i nomi più famosi nel campo delle arti visive, ma tutti i campi delle attività
intellettuali sono coinvolti in questa sterzata in senso realistico. Fonti di ispirazione della Nuova
Oggettività sono gli eventi della vita, la cronaca delle tragedie quotidiane.

OTTO DIX
Non piaceva al regime nazista che trovava i suoi quadri scandalosi, osceni e nocivi alla causa
militare, oggi Otto Dix è annoverato tra gli artisti tedeschi più importanti del XX secolo.
Conosciuto soprattutto per i suoi quadri di critica sociale, Dix è però molto di più. I quadri per cui è
diventato famoso – dalle rappresentazioni dei soldati morenti in trincea, alle luci delle grandi città,
passando per i ritratti di prostitute, marinai e società «equivoca» – suscitano ancora oggi forti
reazioni. I suoi personaggi – che voleva dipingere seguendo la prima impressione, perché è quella
giusta, e senza pensare al loro carattere, perché è dall'esteriorità che si risale all'interiorità – non
lasciano nessuno indifferente. L'hanno chiamata «critica sociale», per Dix – che non è mai stato
attivo politicamente – era trasposizione in pittura di ciò che vedeva, della sua verità. Lo stile di Dix
è cambiato con il mutare dei tempi. Licenziato dall'Accademia di Dresda, dove insegnava, e bollato
come artista «degenerato», non ha voluto lasciare la Germania e ha optato per un'emigrazione
interiore, per un cambio di stile. Nei paesaggi degli anni Trenta e Quaranta, così classici, così
lontani dalle provocazioni del decennio precedente, Dix ha trovato il modo di continuare a
dipingere e di portare nel XX secolo qualcosa dello stile senza tempo dei maestri rinascimentali e
barocchi che tanto amava. Quello che in un primo tempo Dix definì un «esilio nei paesaggi», si
trasforma in esperienza positiva. Già verso la fine degli anni Venti, tuttavia, c'è un cambiamento
nella scelta dei soggetti dei dipinti. L'attenzione di Dix si sposta dalle prostitute ai ritratti di
famiglia, ritratti in cui già si nota una ripresa dei classici. Dix osa, a volte cade, non controlla
completamente ciò che fa, ma aveva sempre qualcosa da insegnare. La sua è una ricerca stilistica
costante, un'infaticabile rivendicazione del proprio modo di vedere e sentire, una verità soggettiva
che diventa bellezza.

Otto Dix, Ritratto della giornalista Sylvia Von Harden, 1926, Centre Pompidou, Parigi
Dix incontrò la giornalista in un caffè berlinese frequentato da artisti ed intellettuali e ne fece un
ritratto spietato accentuandone i difetti fisici. Si tratta di una delle sue migliori opere. Il colore
predominante è il rosa. Tutto segue la sfumatura di questo colore: dal vestito a scacchi, alle pareti
fino al portasigarette sul tavolino. Il taglio corto, il monocolo e i lineamenti marcati richiamano al
mondo maschile. La conseguenza dell’emancipazione della donna è la perdita di femminilità.
Le labbra scure e gli occhi cerchiati le danno un’aria di stanchezza. Le mani sono grandi e scarne e
assumo l’aspetto di artigli. Sotto il vestito a scacchi la calza abbassata introduce al tema della
sessualità e della decadenza morale che all’epoca si respirava. La sigaretta è un ulteriore elemento
di emancipazione. Sul tavolino abbiamo un cocktail, un pacchetto di fiammiferi e anche uno di
sigarette: tutto riassume i vacui riti della Berlino alla moda. I dipinti di Dix sono aperte proteste
contro gli orrori della guerra, e spesso rappresentano lavoratori, mutilati e prostitute. In questo
ritratto invece, egli cerca di racchiudere il fascino decadente della Germania della Repubblica di
Weimar. Dix è quindi consapevole del mutamento dei tempi, e vuole che il soggetto divenga
espressione di una società che si avvia alla modernizzazione. Le immagini della donna e della morte
si intrecciano infatti con il tema della metropoli e delle ossessioni che la devastano. La sessualità
femminile è esibita nel suo aspetto più degradante, ovvero quello della mercificazione del corpo. La
donna è derubata della sua sensualità naturale, e l’artificio che essa sostituisce è svelato in tutta la
sua agghiacciante meccanicità.
Otto Dix, Metropolis, 1928
Il Trittico della metropoli è un’opera esemplare del realismo tedesco della fine degli anni venti e, in
particolare, dello stile del suo autore, che vi esprime un’aspra critica nei confronti dei costumi
berlinesi all’epoca della Repubblica di Weimar. La tripartizione del dipinto rivela un’intenzione
allegorica: ricollegandosi infatti all’arte gotica medievale, in cui il trittico celebrava la santità dei
soggetti raffigurati, Dix intende mostrare con evidenza e per contrasto il degrado materiale e morale
della società a lui contemporanea. Il pannello centrale presenta l’interno di un locale alla moda,
ritrovo ideale per una società incentrata sul denaro, il lusso e il consumo. Gli avventori, ricchi
borghesi, si divertono al ritmo di una band jazz; una donna con i capelli “alla maschietta”, ricoperta
di perle e di plissettature, sventola un grande ventaglio di piume; una coppia al centro della pista
balla freneticamente; un’altra seduta osserva con indifferenza l’orchestrina; alcune persone sono
raccolte attorno a un tavolo da gioco. Tutte le figure, le donne in particolare, sono emblema del
lusso e dello sfarzo: trasformati in una sorta di merce pregiata, questi personaggi riescono grazie al
denaro a rappresentarsi in modo esteriormente perfetto. Nel pannello di destra è raffigurata una
grottesca parata notturna. Equivoci personaggi femminili sembrano scendere e salire da una scala,
che poi si solleva dal piano della strada fiancheggiata da una costruzione di stampo barocco. Nelle
due donne in primo e secondo piano l’artista sottolinea fortemente il richiamo sessuale, che assume
toni grotteschi. L’abito della prima, infatti, un vestito rosa con un lungo spacco verticale circondato
da un collo di pelliccia, rievoca nelle forme e nei colori il sesso femminile. La donna alle sue spalle
invece mostra senza vergogna un grosso e flaccido seno nudo. La fila delle signore si muove
indifferente al mutilato di guerra che, accovacciato a terra, rivolge un saluto militare. Sono due
realtà inconciliabili: quella fittizia del piacere e quella priva di illusioni della distruzione fisica. Nel
pannello di sinistra, infine, Dix rappresenta con realismo un quartiere povero e malfamato. Alcune
prostitute con lo sfarzo grossolano dei loro vestiti mostrano il livello più basso della sessualità e
della morale, riducendo i loro corpi a merce di minimo valore. Ai segnali di allettamento sessuale
rispondono segnali di impotenza: un altro mutilato guarda le donne con desiderio, che non potrà
avere soddisfacimento; un cane abbaia mentre un secondo uomo giace ubriaco a terra. A fare da
sfondo questa volta un banale muro di mattoni e squallide vetrine e abitazioni. Le scene raffigurate
nei tre pannelli corrispondono ad altrettanti livelli di piacere, che esprimono al contempo diversi
stadi di dissoluzione morale, simboleggiati soprattutto dalle modalità in cui sono presentati i corpi
femminili. Il livello più alto nel pannello centrale: il degrado e il vizio si nascondono sotto lo sfarzo
e la vivacità della serata.
Un livello medio-basso in quello di destra, in cui l’offerta sessuale ha bisogno di travestimenti e
maschere ben oltre il buon gusto. Nel pannello di sinistra la forma del sesso senza trucco, ridotto a
pura e bestiale fisicità. Nell’opera la pittura di Dix risulta molto precisa e accurata e, nella stesura
dei colori, ricca di velature e trasparenze. L’autore si ricollega esplicitamente alla tradizione gotica
e rinascimentale tedesca e fiamminga, non solo per la struttura a trittico, ma anche per
l’impostazione moraleggiante e visionaria. Anche nella tecnica è, infine, molto evidente il rimando
alle figure allungate della tradizione pittorica nordica. In questo capolavoro Dix ha dosato le varie
componenti del suo stile intrecciandole sul piano del racconto: il realismo analitico e duro si è qui
caricato di elementi grotteschi nei gesti, nelle espressioni, nei corpi. Alle forme della tradizione
gotica si è sommato l’Espressionismo moderno, generando una atmosfera pesante e insieme irreale.
Le contraddizioni nell’apparentemente spensierata vita quotidiana della Germania degli anni venti,
desiderosa di lasciarsi alle spalle la drammatica esperienza della guerra, trovano una raffigurazione
inquietante e definitiva nel linguaggio spregiudicato del capolavoro di Otto Dix.

MAX BECKMANN
Inquadrabile fra gli artisti della Nuova Oggettività, Max Beckmann difende i pregi della pittura
tradizionale, l’armonia e il realismo della forma, la ricca patinatura della pennellata ad olio “che
troviamo in Rembrandt e Cézanne”. La sua sostanziale tendenza alla figurazione ha inoltre radici
nei contatti con il Dadaismo e soprattutto con la pittura italiana contemporanea realistica o verista
che, come la Neue Sachlichkeit, cerca di depurare il proprio linguaggio dalla soggettività esasperata
e dallo spiritualismo dell'arte espressionista, oltre che nella pittura metafisica di De Chirico. Ma la
vita di Bechmann verrà drammaticamente sovvertita dall’esperienza della guerra, durante la quale
fu infermiere al fronte: parallelamente ad un drammatico mutamento psicologico, con un grave
esaurimento nervoso che lo porta sull’orlo della pazzia, la sua pittura cambia profondamente, lo
spazio della rappresentazione si contrae implodendo, il colore si fa acre, il segno duro e compresso,
la pennellata rigida e secca. Come per tutti gli artisti della Neue Sachlichkeit, quello di Beckmann è
un atteggiamento ibrido, che vorrebbe abbandonare le aspirazioni espressioniste e gli eccessi
dadaisti a favore di una oggettività solo apparente.
+
Max Beckmann,"Die Nacht", 1918/19, Düsseldorf
E’ un quadro assolutamente espressionista, permeato di emozione e di umano dolore, nel quale la
tragedia rappresentata è pretesto per una sofferta autoanalisi alla quale Beckmann non seppe mai
sottrarsi in tutta la sua opera. Metafora della condizione umana, tragica celebrazione della fallita
rivoluzione tedesca del ’19, del brutale assassinio dei marxisti Rosa Luxenburg e Karl Liebknecth,
la cruenta rappresentazione raffigura l’eccidio di un rivoluzionario, al centro di una messa in scena
movimentata e confusa. Il quadro mostra l'assalto ad una famiglia. Tre assassini hanno fatto
irruzione nella stretta mansarda. Uno di loro impicca il padre alla trave. Un altro torce il braccio del
moribondo. Il terzo assassino ha preso il bambino. Resta incerto se la madre appesa per le mani sia
stata violentata. Anche il ruolo della donna in rosso sullo sfondo del quadro è incerto. Dagli utensili
sparsi - piatti, candele, tovaglie, coltelli - si può concludere che l'assassino ha cenato prima
dell'intrusione. Beckmann ha determinato il momento notturno della scena dal buio fuori dalla
finestra e lo ha sottolineato con il titolo dell'opera. Ma allo spettatore non viene presentata una
scena abbandonata dopo che le atrocità sono state completate. Diventa invece spettatore e testimone
contro la sua volontà. In modo spaventoso, tutte le persone, davanti e dentro l'immagine, sono
coinvolte nell'azione. E, come se fosse un processo compulsivo come in un sogno, nessuno può
farci niente. Nel segno calcato e deformato, nella versione cromatica contrastata ed accesa, nel nero
che appesantisce i volumi creando ombre lugubri ed irreali, troviamo le tracce di una disperazione
esistenziale che nulla ha di oggettivo, un dolore che non può e non vuole essere cosmico, ma solo
profondamente ed acutamente personale, quello di un uomo solo e senza via d’uscita.
ART DECO’
Per Art Déco si intende uno stile e un modello di gusto estetico che si diffonde in Europa e negli
Stati Uniti tra i “ruggenti anni Venti” e gli anni Trenta del Novecento. Il nome Déco deriva dalla
dicitura “Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes” (Esposizione
internazionale di arti decorative e industriali moderne) tenutasi a Parigi nel 1925, che ha dato il via
a questo nuovo fenomeno che ha coinvolto arti decorative, arti visive, architettura e moda. Per via
delle sue origini l’Art Déco è chiamata anche “Stile 1925”. L’Art Déco è caratterizzata
essenzialmente da forme classiche e simmetriche, geometrie nette e plasticità nelle figure. Da
questo punto di vista, il Déco visivamente si contrappone allo stile Liberty, caratterizzato invece da
forme flessuose che riprendono la natura e la sua dolcezza. La contrapposizione è netta anche nella
filosofia che sottende le due filosofie: tanto è romantico, dolce e sognante lo stile Liberty quanto è
energico, compatto e mondano lo stile Déco. Del resto, la parola d’ordine dello stile Déco è
“modernità”. Automobili, aerei, grattacieli, transatlantici, dirigibili e luci elettriche sono i nuovi miti
di una società che guarda con disprezzo a tutto ciò che è considerato “vecchio”. Le fonti di
ispirazione dell’Art Dèco sono tuttavia molteplici: dall’arte extraeuropea, come quella delle antiche
civiltà egiziana, cinese o precolombiana fino al Cubismo e al Futurismo, affermatisi negli anni
antecedenti il primo conflitto mondiale. Lo stile Déco, soprattutto nella sua fase iniziale, trova
ampio spazio nel campo arti decorative, riuscendo a ridare nuovo slancio al settore del design di
oggetti ed arredi. Gli arredi Déco sono di foggia elegante e curata, preziosi anche nella scelta dei
materiali: lacca, legno intarsiato, pelle di squalo o di zebra, acciaio inossidabile, alluminio, vetro
colorato. Nella pittura si afferma la pittrice polacca Tamara de Lempicka, che con le sue donne
bellissime, fredde e mondane riesce ad incarnare l’anima dello stile Déco. L’Art Déco si esprime in
gran parte attraverso l’architettura: sale cinematografiche, stazioni ferroviarie, palazzi pubblici,
transatlantici, residenze borghesi costruite negli anni Venti recano spesso inconfondibili tracce di
questo stile. Tra gli esempi più famosi ci sono l’Empire State Building, il Chrysler Building e gli
interni del Radio City Music Hall, tutti nella città di New York. Lo stile Déco comincia a passare di
moda quando diventa “di massa”. Quando cioè, grazie alla produzione industriale, gli oggetti di
design e di arredamento di gusto Déco possono entrare in tutte le case, facendogli perdere
quell’aurea di esclusività che ne aveva contraddistinto l’ascesa.
Tamara de Lempicka, Autoritratto sulla Bugatti verde, 1928-1932
Poche opere come Autoritratto sulla Bugatti verde del 1929 ben rappresentano Tamara de Lempicka
e l’epoca in cui visse il suo successo, nel pieno della liberazione femminile dal potere totalitario
maschile. Celebrata dagli uomini già nel 1907, da Filippo Tommaso Marinetti nel 1908 e dalla
successiva estetica futurista, solo nei primi anni venti l’automobile si confermò come l’oggetto
necessario per una donna che si volesse sentire moderna. L’opera rappresenta uno dei ritratti più
piccoli di Tamara. La donna nel tempo si guadagnò titoli come “Venere moderna”, “pittrice delle
donne” e altro ancora. La pittrice si raffigurò in caschetto e guanti di daino alla guida di una Bugatti
che in realtà non possedette mai, rivendicando con spavalda sicurezza un ruolo che fino ad allora
era stato solo maschile. Dietro a questo autoritratto c’è anche una storia legata al mondo dei giornali
e della moda. La direttrice di Die Dame, una rivista tedesca di moda, incontrò Tamara a Monte
Carlo nel 1929, mentre la donna era in vacanza dopo il divorzio dal primo marito. La direttrice,
avendo visto la Lempicka alla guida della sua macchina, le commissionò un autoritratto per la
copertina di un numero della rivista. Tamara colse al volo l’occasione e nacque così questa
personificazione di una donna moderna, indipendente, vagamente annoiata, con lo sguardo fermo e
altèro. Nel dipinto l’artista cambiò le carte in tavola per rappresentarsi al meglio. Sostituì la sua
Renault gialla con una Bugatti verde, perché era un tipo di macchina molto più prestigiosa. Inoltre,
nonostante sia un autoritratto, Tamara non si rappresentò in maniera fedele alla realtà, ma costruì un
inno alla Venere moderna che avrebbe poi ispirato l’immaginario di generazioni di donne
emancipate. Facendo questo autoritratto per la copertina di una rivista ampiamente distribuita, la
nuova idea di bellezza pensata da Tamara diventò il riferimento per una moderna generazione di
donne. A prima vista, lo sguardo glaciale di Tamara cattura immediatamente la nostra attenzione in
questo autoritratto. La figura si impone per la sua prepotenza visiva. Tutto il corpo è lanciato in
avanti con l’automobile, mentre la velocità e l’elettricità scorrono davanti a noi. Le proporzioni
vengono stravolte. La gamma cromatica è limitata a due o tre colori, le ombre sono decise tanto che
separano quasi a metà il viso. La donna si prende un momento per guardarci con i suoi occhi grandi,
dalle sopracciglia sottili e perfettamente delineate. Le labbra sono carnose e rosso fuoco e tutto di
questo volto ci trasmette emancipazione. Nei ritratti della Lempicka la donna fatale, che inebria con
una nuvola di profumo e scompiglia la vita all’uomo, prende forma così come nelle pellicole
cinematografiche. Le automobili diventano oggetto dell’estetica avanguardista, dei futuristi di
Marinetti in particolare. Ed è proprio alla guida dell’automobile che le donne dimostrano la loro
emancipazione.

REALISMO AMERICANO: EDWARD HOPPER


Molto importante è anche il "Realismo americano", un movimento artistico che ha precise
caratteristiche stilistiche e la tendenza ad un figurativismo spinto, in termini molto realistici sia per
la figura che per il paesaggio. Uno degli esponenti più interessanti di questo movimento è Edward
Hopper, che ritrae tipici paesaggi rurali americani e che, ad un certo punto della sua vita, sposta la
sua sede da Filadelfia a New York, dove l'osservazione della vita urbana gli sarà di ispirazione per
celebri quadri di interni metropolitani e di scene quotidiane viste con l'occhio analitico del
fotografo. La sua pittura, ispirata sempre alla scena americana, è al tempo stesso quotidiana e
metafisica, simbolo di due culture lontane e diverse, quella americana e quella europea, che l'artista
conosce ed ama in egual misura. Straordinario creatore di atmosfere sospese, Edward Hopper si
colloca nel filone definito "Precisionismo", per l'attenzione ai particolari, per la meticolosità
rappresentativa di sconfinati paesaggi nordamericani. Influenzato dagli studi psicanalitici di Freud e
dalle teorie intuizioniste di Bergson, Hopper insegue una comprensione soggettiva dell'uomo e delle
sue problematiche, che restano comunque inespresse e congelate in figure anonime che non
comunicano, in una vita stagnante e desolata, in ambienti enormi dominati da un silenzio irreale. Il
mondo di Hopper si caratterizza attraverso l'assenza, attraverso atmosfere vuote e silenziose,
ambienti deserti e rarefatti, paesaggi malinconici e solitari, trasmettendo così un’acuta sensazione di
solitudine esistenziale ontologica e di invalicabile incomunicabilità.

Edward Hopper, I nottambuli, 1942, Chicago


I nottambuli (titolo originale Nighthawks) è un quadro del 1942 di Edward Hopper, uno dei
maggiori artisti del “Realismo americano”. Hopper è uno dei pittori che meglio interpreta il
malessere della società americana dopo la Grande Depressione causata dal crollo di Wall street nel
1929, ritraendo situazioni che manifestano la solitudine dell’essere umano, l’incomunicabilità,
inserendo i soggetti in paesaggi e interni architettonici silenziosi, infatti veniva chiamato “il pittore
che sapeva dipingere il silenzio”. I suoi personaggi, spesso malinconici, sembrano il più delle volte
in attesa di qualcosa che, forse, non avverrà mai. Il quadro I nottambuli rappresenta un bar di notte:
la via è deserta, l’osservatore è all’esterno del locale, caratterizzato da ampie vetrate da cui proviene
una forte luce al neon che contrasta con l’oscurità, luce accentuata dall’accecante biancore della
parete interna. Le strade sono perfettamente pulite, i palazzi sembrano abbandonati, unico segno
della presenza umana è un registratore di cassa nel negozio di fronte al bar, nel complesso si ha
l’impressione di essere in una città fantasma.
All’interno del locale tre avventori (una coppia e un uomo solo, di spalle) sono seduti e appoggiati
al bancone, unico soggetto in movimento è il barista, apparentemente socievole ma ignorato dai
clienti. I numerosi sgabelli sono vuoti, Hopper focalizza così l’attenzione sui pochi personaggi
presenti e la loro solitudine. Questi non parlano, non comunicano, ognuno è chiuso nei propri
pensieri, in un vagabondare notturno meditabondo, più mentale che fisico. La coppia ha le mani che
quasi si toccano, ma tra loro sembra esserci una grande distanza. Sono la rappresentazione della
borghesia americana, con le sue malinconie, rimpianti e disillusioni, reduce dal disastro economico
del 1929. Hopper usa sapientemente i colori, basando tutta la composizione sul verde, rosso e
giallo, oltre al bianco. Due colori complementari (verde e rosso), due primari (rosso e giallo): forti
contrasti che dovrebbero donare vivacità, e perciò vitalità, ma che Hopper riesce a trasformare in
uno sfondo inanimato, un palcoscenico che accoglie incontri fortuiti e senza futuro nella
rappresentazione della solitudine esistenziale.

MURALISMO MESSICANO
Il muralismo ha avuto inizio come programma di arte pubblica finanziata dal governo durante la
rivoluzione messicana (1910-1920). Consisteva in pitture murali di grandi dimensioni su edifici
pubblici: le raffigurazioni di affreschi facevano parte della tradizione preispanica, ma vennero
riportate in auge come forma espressiva e complessiva, in quanto gli artisti la trovarono adatta a
essere compresa dal popolo e a veicolare un messaggio sociale e politico anche in tempi moderni.
Dopo la rivoluzione infatti, il governo si è trovato di fronte il difficile compito di trasformare un
Messico diviso in fazioni, in una nazione coerente, e per fare ciò era necessario creare una storia
ufficiale del Messico, in cui i cittadini si sarebbero potuti ritrovare in modo facile e immediato. I
temi principali del muralismo di conseguenza riguardavano le civiltà precolombiane, la conquista
coloniale spagnola e il culmine dell’era moderna, raggiunta con la Rivoluzione messicana del 1910.
Le tecniche usate erano inizialmente quelle antiche, tipiche dell’affresco. Successivamente,
iniziarono ad utilizzare anche prodotti industriali e vernici a rapida essiccazione. Su una serie di
artisti, tre emersero come i più celebrati e prolifici, tanto da essere conosciuti come Los Tres
grandes (“I tre grandi“), José Clemente Orozco, Diego Rivera, e David Alfaro Siqueiros.
Ovviamente non tutti i muralisti affrontano gli argomenti sopracitati nello stesso modo. Anzi, le
posizioni, le opinioni, le idee politiche ed artistiche, sono molto diverse una dall’altra e spesso, tra
questi artisti, si innescano discussioni accesissime. Prendiamo per esempio la conquista spagnola.
Per il muralista Orozco si tratta di un momento eroico, mentre per Rivera e Siqueiros rappresenta
l’inizio della fine, un evento di cui si pagavano ancora le conseguenze in termini di povertà e
differenze sociali. Spesso tuttavia, le posizioni individuali degli artisti nei confronti della storia è
confusa. A livello tecnico, risulta un movimento estremamente articolato: Orozco e Rivera, per
esempio, si ricollegano ai metodi tradizionali dell’affresco e dell’encausto (tecnica pittorica
applicata, che si basa sull'uso di colori mescolati alla cera attraverso il calore). Siqueiros, invece,
ricercava soluzioni innovative e industriali. Nel muralismo sfocia un linguaggio sostanzialmente
omogeneo, di marcato tratto espressionista, di forte cromatismo, di solenne grandiosità compositiva.
Verso gli anni ’30 Rivera, Siqueiros e Orozco si trasferiscono dal Messico negli Stati Uniti, dove
esportarono la loro esperienza artistica, ricevendo anche commissioni pubbliche per la realizzazione
di murales. Da questa commistione culturale prende l’avvio un fenomeno artistico di portata
mondiale, il graffitismo metropolitano, che pur avendo, rispetto al muralismo messicano, sostanziali
differenze di fondo, formalmente tuttavia ha con esso strette analogie. Come il murale, il graffito è
espressione di protesta, soprattutto giovanile e generazionale, in quanto vuole appropriarsi dello
spazio pubblico per trasmettere un messaggio forte ed esteso.

FRIDA KAHLO
Frida Kahlo è un punto di riferimento come modello di forza, indipendenza e stile. La storia di
Frida Kahlo è molto affascinante: una vita di costante sofferenza che è riuscita a convogliare e
raffigurare attraverso la sua più grande passione: l'arte. A fare di questa pittrice un’icona è stata la
sua caparbietà, quella di una donna che nella prima metà del ventesimo secolo ha mosso i passi
verso una vera indipendenza. Frida Kahlo è stata molto più di un’artista: è diventata un’icona, una
bandiera, un volto da esibire sulle magliette. Un simbolo di forza e di volontà che ancora oggi tutti
celebrano con mostre, canzoni, sfilate. Frida Kahlo è considerata una delle più importanti pittrici
messicane. Molti la annoverano tra gli artisti legati al movimento surrealista, ma lei non confermerà
mai l’adesione a tale corrente.

Frida Kahlo, Le due Frida, 1939


Le due Frida (Las dos Frida in spagnolo) è uno dei più celebri dipinti di Frida Kahlo. La sua vita è
stata piena di intemperie. Nel settembre del 1925 avvenne un incidente fra un autobus su cui Frida
viaggiava e un tram e la giovane ne ebbe conseguenze gravissime. L'evento che cambiò la vita di
Frida oltre a quest'incidente fu l'incontro con l'illustre pittore messicano Diego Rivera, con il quale
si sposò due volte. Era un amore incondizionato ma allo stesso tempo distruttivo, caratterizzato
perlopiù da tradimenti e menzogne. “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita, il primo è stato
quando un tram mi ha investita, il secondo è stato Diego.” Parole riportate dalle tante lettere scritte
dalla pittrice, racchiuse nel libro “Lettere appassionate” dove racconta la sua vita, la sua arte, le sue
tragedie (la poliomielite contratta da piccola e, appunto, l'incidente stradale che, diciottenne, la rese
invalida costringendola a continue operazioni), i suoi sogni e i suoi amori. La loro fu una turbolenta
relazione, segnata da diversi tradimenti e litigi ma al contempo è stata appassionante e intensa.
Questo amore ha reso la vita di Frida indissolubilmente legata a quella di Diego. Entrambi
provavano un forte amore per l’arte, la pittura e condividevano forti valori politici. Questo è il
dipinto che rappresenta non solo le due personalità dell'artista, ma anche in modo più emblematico
la relazione tra Frida e Diego, perché analizza in momento della separazione dei due. L'opera in
questione infatti, nasce in un momento di grande dolore per l’autrice, causato dalla sofferenza per il
divorzio con l'amato marito, Diego Rivera.
L’episodio che mette definitivamente in crisi questo matrimonio è l’avventura che Diego intesse
con Cristina, la sorella di Frida, che, ormai separata dal marito, è accorsa ad aiutala dopo
l’intervento di amputazione delle dita del piede destro. Il quadro parla da solo. Ci sono due Frida
con fogge diverse che si tengono per mano, connesse tra loro da una vena che collega due cuori
pulsanti, uno dei due però è irreversibilmente ferito. La Frida di destra è la donna amata da Diego,
vestita con abiti della tradizione messicana e custodisce gelosamente la foto del suo amore. L’altra
Frida, quella a sinistra, è la Frida abbandonata da Diego, veste con fogge europee, che alludono al
suo viaggio nel continente delle avanguardie, il suo cuore duole e la vena che parte dalla foto
dell’amato e passa attraverso i due cuori è interrotta, recisa dalle forbici. Il dissidio interiore
dell’artista è qui enfatizzato dalla figura speculare, surreale, delle due donne a confronto. E’ un
dialogo solenne tra la sofferenza dell’abbandono e la consapevolezza che ogni rottura è anche segno
di innovazione, ecco il perché degli abiti europei, simbolo di emancipazione. Il raddoppiamento di
Frida esalta molto la sua solitudine. Ma la nuova condizione le insegna a proteggersi e fortificarsi
da sola.

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