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Limes 2021 08
Limes 2021 08
14,00
15,00
8/2021 • mensile
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AL 1° POSTO IN
ITALIA IN RICERCA
E SVILUPPO.
ANCHE DI SOGNI.
L’eccellenza tecnologica è una nostra priorità, da sempre. Investiamo 1,5 miliardi per cercare
sempre nuove soluzioni all’avanguardia, per migliorare i prodotti esistenti e, soprattutto, per
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Roberto CARPANO - Giorgio CUSCITO - Andrea DAMASCELLI - Federico D’AGOSTINO - Emanuela C. DEL RE
Alberto DE SANCTIS - Alfonso DESIDERIO - Federico EICHBERG - Ezio FERRANTE - Włodek GOLDKORN
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TOULABOR - Turchia: Yasemin TAŞKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI
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Rivista mensile n. 8/2021 (agosto)
ISSN 2465-1494
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– Con Shaul Chorev, Nicola Pedde, Francesco Zampieri. ore 15.30: Il caso Trieste nella competizione fra i porti
Introduce/modera: Fabrizio Maronta italiani – Con Zeno D’Agostino, Massimo Deandreis, Luca
ore 14: Speciale Mappamundi – Con Lucio Caracciolo, Sisto, Vincenzo Vitale. Introduce/modera: Giorgio Cuscito
Dario Fabbri, Giuseppe De Giorgi. Conduce: Alfonso ore 17.30: Conclusioni – Lucio Caracciolo
Desiderio
ore 15: Visita guidata alla mostra cartografca –
Con Laura Canali
ore 16: Stretto di Sicilia e faglia di Caoslandia – Gli eventi si svolgeranno in presenza a Trieste, Centro
Con Fabio Cafo, Giuseppe De Giorgi, James R. Holmes, congressi – Molo IV, in ottemperanza alle misure di
Christophe Pipolo. Introduce/modera: Alberto de Sanctis contenimento del Covid-19. Sarà possibile seguire i
dibattiti dal sito www.limesonline.com, dai social
ore 10: L’uomo e il mare – Con Dario Fabbri, Giorgio Cuscito,
della rivista e su repubblica.it
Geofrey Till. Introduce/modera: Federico Petroni
EDITORIALE
7 Dalla Luna alla Terra, via mare
LIMES IN PIÙ
303 Lucio CARACCIOLO - Per Antonio Pennacchi
AUTORI
307
IEST
E Sara
Unione Europea jev
e Italia SPAGNA ari ROMA o
Bale TURCHIA
I.
Sardegna KABUL
alusia
Primi 10 paesi di origine And Sicilia AFGHANISTAN
per sbarchi in Italia SIRIA
MALTA IRAQ IRAN
Creta
SPAGNA MAROCCO
I. Canarie
(Unione Europea)
EGITTO
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BANGLADESH
Prime 10 nazionalità dichiarate dai migranti
al momento dello sbarco in Italia
dal 1° gennaio al 1° settembre 2021 ERITREA
Tunisia 11.020 Eritrea 1.557 Migranti sbarcati in Italia
SUDAN nei primi otto mesi 39.422
BAMAKO Bangladesh 5.275 Marocco 1.464 del 2019, 2020 e 2021
Egitto 3.504 Sudan 1.459
GUINEA Costa d’Avorio 2.664 Iraq 1.132
19.390
Iran 1.679 Altre* 8.030
COSTA Guinea 1.638 Totale 39.422 6.251 km
D’AVORIO 5.256
* In corso d’identifcazione distanza stradale
Kabul-Trieste 2019 2020 2021
Fonte: dati Istat, ministero della Difesa e Cruscotto del ministero dell’Interno
LEZIONI AFGHANE
vole acribia a segarne le basi. Noi invece dipendiamo per la nostra si-
curezza dal capocordata. Non possiamo asserragliarci nella fortezza
nordamericana protetta dalle immensità di Pacifco e Atlantico. Sia-
mo medioceanici, non oceanici. Punti di appoggio nei circuiti delle
potenze. Gradevole area ristoro. Il Belpaese è medaglia d’oro anche
in questa disciplina. In ciò equamente apprezzato da amici e nemici,
più terroristi e guerriglieri vari.
Invece l’America, che non è organizzazione umanitaria né ente
morale, si occupa (male, al momento) di sé stessa. Dei soci atlantici,
solo nel tempo libero. Oggi davvero minimo. Se nella discordia ame-
ricana residua un Washington consensus, consiste nel bollarci futili
scocciatori. La differenza è fra chi lo dice, chi lo sussurra e chi per
educazione se lo tiene per sé. Messi alle strette da una minaccia esi-
stenziale, i decisori americani ci scaricherebbero come zavorra, sen-
za nemmeno provare a usarci per l’ultima volta. Esattamente come
faremmo noi se fossimo al posto loro, ove mai riatterrassimo sul pia-
neta di origine. Prospettiva lontana per gli stralunati che siamo.
Nell’Europa ideale che esiste solo nelle fantasie degli europeisti, il
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1. G. FRIEDMAN, The Storm before the Calm. America’s Discord, the Coming Crisis of he
2020’s, and the Triumph Beyond, New York 2020, Doubleday.
2. G.W.F. HEGEL, Lineamenti di flosofa del diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in
compendio, Roma-Bari 1999, p.4. La prima edizione è del 1821. 13
DALLA LUNA ALLA TERRA, VIA MARE
3. Passo riportato in K. ROSENKRANZ, Georg Wilhelm Friedrichs Hegel Leben, Berlin 1844,
pp. 214-215, posto in esergo ad A. KOJÈVE, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano 1996,
Adelphi, p. 13.
4. Cfr. B. FRANKLIN, Memories, Washington 1817, United States Department of States, vol. II,
p. 48. È passo di una lettera indirizzata dall’autore a Sarah Bache il 26/1/1784.
5. T. PAINE, Rights of Man, Common Sense and Other Political Writings, Oxford 2008, Oxford
14 University Press, p. 53.
LEZIONI AFGHANE
IG
DAKOTA NEW YORK
DALLA LUNA ALLA TERRA, VIA MARE
WYOMING MASSACHUSETTS
A N
IOWA RHODE ISLAND
NEBRASKA PENNSYLVANIA CONNECTICUT
NEVADA OHIO
S T A T I U N I T I ILLINOIS INDIANA NEW JERSEY
UTAH WEST
COLORADO DELAWARE
CALIFORNIA KANSAS VIRGINIA MARYLAND
MISSOURI VIRGINIA
KENTUCKY WASHINGTON D.C.
NORTH
OKLAHOMA
AR
KA TENNESSEE CAROLINA
ARIZONA NS
NEW MEXICO AS GE
AL OR
AB GIA SOUTH CAROLINA
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MI AM
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TEXAS LO ISS
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FLO
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Rimozioni A
al 28 agosto 2020 M E S S I C O G o l f o
d e l M e s s i c o ALASKA
TURKMENISTAN Faizabad
Kunduz
Mazar-e-Sharif
Mashhad Baghlan
Gilgit
Jammu
Bamiyan PAKISTAN e
Chaghcharan
Herat Kabul Kashmir
Jalalabad
Peshawar Srinagar
AFGHANISTAN Parachinar
Ghazni
Khost Islamabad INDIA
Shindand
Farah TRIBAL
Tarin Kowt AREA
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Lashkar Gah Kandahar Turkmeni 1,2%
Nuristani 1%
3,2% Arabi Altri 1%
IRAN Zaranj 3,2% Aimak
6% Uzbeki
Pashtun
Pashtun Durrani Uzbeki Nuristani Tagiki e 38,5%
Parsiwani
Pashtun Ghilzai Turkmeni Pashai 21,3%
Altri Pashtun Kirghisi Tagiki Hazara
Hazara Baluci Tribù miste e Sayyidi
Aimak Kizilbash Aree poco abitate 24,5%
o disabitate
Terre dell’Islam F. Talas
2 - L’ASCESA DEI CALIFFI nel 632 751 Impero bizantino 610 ca.
nel 656 Lago Impero sasanide 610 ca.
nel 756 d’Aral
Battaglie decisive Samarcanda
della conquista islamica
Incursioni
642 Date delle conquiste
IMPERO Mar
DI KHAZARIA Caspio KHORASAN
O
732 (717-8) Kerbela I M P E R O P E R S IANO SASANIDE
N
Oceano Atlantico Tolosa TI 680
721 AN Baghdad
B IZ
O Yarmuk Golfo Persico
Narbona Roma 636
I M P E R Rodi 654 Qadisiya
720 CIPRO 636
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Saragozza
714
Toledo Gerusalemme 638
712
Lisbona 720 Mar Creta 654 Ajnadain 634
Cordova Mediterraneo PENISOLA ARABICA
711 711 Cartagine Alessandria 642
Arabico
698
720
Barca 643 Medina 622
re
Badr 624
a
Fez EGITTO
M
e
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A
(berberi) ER
BBirāk
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irāk al- ME Z
Z A T R O L IF
Zona militarizzata Ad Fuq L UNA P E
irī ah
Sa
Sabhā
abhā ā'
al-Šarāra Tam
Giacimenti di petrolio
a L I B I A
Mu Um Zaw ssa Controllo del territorio
rzu Tar m ila
q āġi al- in Libia
Postazioni turche F e z z a nT n Arā Esercito nazionale libico (Enl)
aǧ a l
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supportato dai russi
Basi aeree Gna Ġāt
Ġā
Ġāt arh -Q
ī
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a ṭr
Località sotto ūn Governo di accordo
il controllo del Gna K
Ku
Kufrah nazionale (Gna)
aal-Wīġ
l-W
-WWīġ
Aree desertiche
M
ar
Paesi in guerra Mar Nero
Ca
Sa
ra
spi
Paesi fortemente instabili Roma
o
jev
o
Potenze extraeuropee ITALIA Kabul
coinvolte nell’area TURCHIA
AFGHANISTAN
Faglia di Caoslandia
SIRIA
TUNISIA
Tensione MAROCCO
permanente
Marocco/Algeria
EGITTO
ALGERIA QATAR
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LIBIA E.A.U.
Ryad
AREA DI RESPONSABILITÀ
DEL TRIANGOLO STRATEGICO ARABIA SAUDITA 6.251 km
distanza stradale
NIGER SUDAN Kabul-Trieste
MALI Agadez Triangolo strategico
di tensione saheliana Berlino
Fascia Parigi
Bamako CIAD
Gibuti Roma
GUINEA base italiana
Conakry
ETIOPIA Potenze esterne
infuenti in Nord Africa
Arco di confitto
LEZIONI AFGHANE
tare tutte le sue terre attorno alla Penisola via sistema marittimo uni-
tario: «Romanae spatium est Urbis et orbis idem», cantava Ovidio (Fa-
sti, 2,684), intendendo orbis l’insieme del dominio romano, terrestre e
marittimo. La deriva geopolitica dei continenti avviata dal VII secolo,
raccontata effetto dello scontro di civiltà fra mondo arabo-islamico e
cristianesimi d’impronta romano-germanica, segna tuttora lo spazio
dentro e attorno a noi. Il nostro Occidente continua a servirsi dell’Al-
tro islamico – paradossalmente rappresentato da soggetto geopolitico
unitario – quale determinazione in negativo della propria identità.
La storia di un libro ci aiuta a cogliere il senso di questa teatralizza-
zione di un’alterità permanente.
delle sue puntute repliche ai critici. Seriosi, alcuni. Non c’è dubbio
che per diversi aspetti la sua costruzione sia rivedibile. Poggiando sul-
la pletora di fonti varie emerse negli ultimi decenni, grazie agli scavi
archeologici, ad aggiornati metodi di analisi e datazione dei reperti,
al raffnamento della flologia, al progredire degli studi. Ma è altret-
tanto palese che la sua interpretazione del crocevia che dalla antichi-
tà tarda induce verso la nebulosa medievale resta inaggirabile, alme-
no per chi crede che nella storia le partizioni abbiano senso. Il punto
resta: la discontinuità fra terre arabo-islamiche ed euro-occidentali
13. Ibidem.
14. L’opera era quasi pronta per la pubblicazione alla morte dell’autore (25 ottobre 1935),
ma Pirenne amava scrivere due volte i suoi libri. Spetta al suo allievo Fernand Vercauteren
il merito di averla rivista e corretta. Non possiamo però sapere se nella seconda, defnitiva
versione l’autore avrebbe apportato modifche importanti, o solo stilistiche. Comunque la
Tesi è maturata nel tempo, visto che una sua prima esposizione, con lo stesso titolo, risale
a molti anni prima, sotto forma di articolo nella Revue Belge de Philologie et d’Histoire, tome
I, fasc. 1, 1922, pp. 77-86.
15. H. PIRENNE, op. cit., p. 146, nota 23: «Questa battaglia non ha l’importanza che le si
attribuisce, e non si può paragonare alla vittoria riportata su Attila. Essa segna la fne di
un’incursione, ma non arresta nulla in realtà. Se Carlo (Martello, n.d.r.) fosse stato vinto,
non ne sarebbe risultato che un saccheggio più considerevole del paese». Che queste righe
abbiano ispirato a Fabrizio De André «Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers»? 23
DALLA LUNA ALLA TERRA, VIA MARE
segnata dalla divisione del mare romano, quali ne siano cause, tem-
pi, modi, è un fatto. E persiste. Le sue conseguenze geopolitiche sono
più attuali che mai, enfatizzate dai radicalismi identitari, moltipli-
cate dai terribili semplifcatori mediatici. Maometto e Carlomagno è
e si vuole solo storia. Ma presto diventa arma geopolitica.
Questo monumento merita di resistere alle brutture della cancel
culture. E di non fnire strumento di propaganda neocrociata, di chi
quotidianamente ricombatte Lepanto a tavolino. Onestà impone che
avanti di prendere questo toro per le corna, esposta la Tesi si dia conto
in sintesi delle obiezioni elaborate dalla gilda storiografca, che non
ne diminuiscono - anzi! - fama e interesse.
Primo. L’enfasi sul fattore religioso e sull’elemento etnico è mistif-
cante. L’islam stabilito nelle sue varie declinazioni, con i suoi dogmi,
le sue pratiche e i suoi rituali, è il prodotto non la causa delle con-
quiste classifcate arabo-islamiche. I califfati sono centrati fuori della
Penisola araba e proiettati anche via mare, Mediterraneo occidentale
incluso. Vale per l’omayyade (661-775) imperniato su Damasco e
per l’abbaside (750-1258) con capitale Baghdad, come anche per gli
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Treviri
Marsiglia
543
Roma 542
543 Costantinopoli
542
542
Antiochia
542
Cartagine
542-543
Pelusio
541
Impero romano
Alessandria
Direttrici di difusione della peste
542 da
Zone di difusione iniziale della peste ll’E
tio
p ia
3 - LA PESTE DI GIUSTINIANO, PRIMA ONDATA
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16. Cfr. C. PICARD, La Mer des Califes. Une histoire de la Méditérranée musulmane, Paris
2015, Seuil. 25
DALLA LUNA ALLA TERRA, VIA MARE
na della Romània e del suo impero più che alla pressione periferica
dall’Arabia profonda. Non la frattura del circuito mediterraneo ma
la frana al centro dell’impero apre la strada ai califf.
Argomenti che non tangono i polemisti intenti a deformare Mao-
metto e Carlomagno in catechismo islamofobo. È lo stesso Pirenne, in
verità, ad aprire loro un varco sotto il proflo del metodo, in un passo
(almeno) del suo studio: «Con l’Islam un nuovo mondo entra nel ba-
cino del Mediterraneo, dove Roma aveva diffuso il sincretismo della
sua civiltà. Ha inizio una lacerazione che durerà fno ai nostri giorni.
Sulle rive del Mare Nostrum si stendono ormai due civiltà differenti
ed ostili; e se ai nostri giorni quella europea ha sottomesso quella
asiatica, tuttavia non l’ha potuta assimilare (entrambi i tondi sono
nostri, n.d.r.). Il mare, che era stato fno allora il centro della cristia-
nità, ne diviene la frontiera. L’unità mediterranea è rotta» 18. Pirenne
è convinto di avere scoperto l’origine della massima faglia geopolitica
19. Cfr. B. EFFROS, «The Enduring Attraction of the Pirenne Thesis», Speculum, vol. 92, n.
1 (gennaio 2017), pp. 184-208. Vedi anche D. WOLLENBERG, «Defending the West: Cultural
Racism and Pan-Europeanism on the Far-Right», Postmedieval, n. 5/3 (2014), pp. 308-319.
20. Cfr. Gates of Vienna, https://bit.ly/2Vooz0i
21. Intervista della redazione di Valeurs actuelles a E. ZEMMOUR, « Soit on résiste à l’invasion
migratoire, soit on se soumet», www.valeursactuelles.com
22. Qualche traccia di questa inclinazione nella stessa Bonnie Effros, vedi nota 19. 27
DALLA LUNA ALLA TERRA, VIA MARE
C’era una volta la soglia di Gorizia (in effetti della Drava, stante
la postura antisovietica della Jugoslavia). C’è oggi la soglia dello Stret-
to di Sicilia (carta 4). Di fronte a noi non ci sono più i sovietici, in
compenso i loro epigoni russi, che in Cirenaica stanno tracciando e
presidiando il limes di Sirte, inteso confne con la Tripolitania turca.
Ankara è a Tripoli per restarci, tentando di allargarsi verso il Magh-
reb (carta a colori 3). La Francia, non solo qui consonante con la
Russia, è appena intervenuta, con i poco affdabili associati emiratini
ed egiziani, per arginare la penetrazione della Turchia in Tunisia –
golpe Saïed, palesemente eterodiretto. La Cina tiene proflo basso, ma
traffca con tutta l’area, sua proiezione commerciale e geopolitica al
crocevia fra Levante, Africa ed Europa. Gli Stati Uniti si manifestano
in zona via basi militari, specie sicule, forze speciali e spionaggio
concentrato su segnali e immagini aeree o satellitari a compensare la
scadente intelligence umana, con la Marina al minimo, risucchiata
dai Mari Cinesi. Qui il Pentagono vorrebbe responsabilizzare i reni-
tenti soci europei della Nato, Italia e Germania su tutti, mentre con
la Francia «non allineata» i militari americani si trovano alla grande
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SARDEGNA Z3 Cetraro
M a r T i r r e n o N
73 MN
7M
86 MN
12
MN
Capo Carbonara
52
A
DALLA LUNA ALLA TERRA, VIA MARE
173 MN Ustica
Y Stromboli
Capo Vaticano
Salina W
159 M
N V 80 MN Z 4 Vibo Valentia
Alicudi Lipari N
31 MN
136
MN Isole Eolie M
X 34
28 MN
S. Vito Lo Capo S Capo Gallo N U Messina
R 48 M
96 MN
O Isole Egadi Villa
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105 MN
Canale di Sardegna
138
S. Giovanni
Palermo
I T A L I A
MN
S Marettimo Trapani
Favignana Cefalù
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M A R M E D I T E R R A N E O N
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45 MN C 78
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51 MN
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82
35 M
N Gozo
74 MN
Linosa Malta I
MN Miglia nautiche F MALTA Valletta
1 miglio nautico equivale a 1,852 km Isole Pelagie H
Monastir
Porti turistici
79 MN G 101 MN
Lampedusa
Fonte: Portolano Cartografco
LEZIONI AFGHANE
Canale
d’Otranto
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SARDEGNA S I C I L I A
M a r L i g u re Ma r Tirr en o Mar Ad ri at i co
Etna
I. D’ELBA M. Fumaiolo 3.350 m.
(TOSCANA/ (SICILIA)
Gennargentu E.-ROMAGNA) Le Madonie
Monviso (SARDEGNA) 1.407 m. (SICILIA)
(PIEMONTE) 1.834 m. Pizzo Carbonara 1.979 m.
3.841 m. M. Amiata
(TOSCANA)
1.738 m. Zona alpina
M. Argentera M. Cimone
(PIEMONTE) Zona appenninica
(E.-ROMAGNA)
3.297 m. 2.165 m. Isole maggiori
LEZIONI AFGHANE
ca dei nostri territori sulla grande scala, a partire dalla tesi forse ba-
nale, quindi probabilmente vera, che il differenziale di statualità fra
Italia e altre nazioni europee ben più eterogenee della nostra derivi
anzitutto dai troppi secoli di occupazioni e partizioni straniere, così
diverse le une dalle altre? Senza farne dogma all’italiana, consolato-
ria formuletta applicabile dalle Alpi al Lilibeo. Studiandone invece
l’impatto su spazi e comunità specifche lungo l’arco dello Stivale,
per stabilire da dove cominciare a suturare le ferite che la bassa pres-
sione istituzionale ci ha inferto, compromettendo la nostra azione
nel mondo. Scopriremmo così quanto analiticamente sterile, peggio
traviante, sia la secca contrapposizione Nord/Sud. La scissione fra
cittadino e Stato non è questione socioeconomica ma geoculturale.
La mappatura storica delle fenditure scavate nella Penisola dall’in-
differenza alla cosa pubblica servirebbe poi a ridurre i vuoti di civi-
smo che invitano ai separatismi o al puro caos. Questione non solo
meridionale. Evidente nella prospettiva di lunghissimo periodo, l’uni-
ca valida in tempo d’incertezza. Basti limitarci alla modernità preu-
nitaria, prendendo a campione quegli spazi poco istituzionalizzati,
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infatti carichi di ribellismi, che scendono dalla riva destra del Po oltre
la confuenza con l’Adda fno alla foce, per diramarsi verso alcune
marche centrorientali, quali le legazioni pontifcie, oltre ai mini-du-
cati d’impronta spagnola o austriaca. Per poi sforare le province set-
tentrionali delle borboniche Due Sicilie – altra storia, ma non troppo.
Disegniamo su carta questo proflo e vediamo apparire coste e ter-
re che specie sui versanti di Est-Sud subiscono oggi il primo contatto
con le correnti d’instabilità esterna. Dal trapassato remoto all’attuali-
tà che urge. Come quasi sempre, quando di mezzo c’è Limes.
35
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LEZIONI AFGHANE
Parte I
che COSA IMPARARE
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dall’ AFGHANISTAN
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LEZIONI AFGHANE
LA SCONFITTA AFGHANA
E UNA NUOVA STRATEGIA
PER L’AMERICA di George FRIEDMAN
La guerra ai taliban è un esempio della nostra tentazione di
combattere conflitti non esistenziali. Serve un pensiero geopolitico
e disciplinato per distinguere ciò che conta da ciò che non conta.
Altrimenti i cinesi creeranno diversivi per dissanguarci.
taliban hanno ripreso il controllo con rapidità. A scioccarmi è che la gente non
capisce che le sconftte sono fatte esattamente così.
A scioccarmi sono state anche la decisione americana di andare in guerra nel-
la «tomba degli imperi» e quelle dei vari presidenti di restarci per due decenni. Le
guerre non sono gesti simbolici. Decidere di rimanere in un confitto è la scelta più
signifcativa che può fare un capo perché perdere è un risultato terribile.
La guerra è iniziata ancor prima di completare la lista dei morti e dei feriti
dell’11 settembre. Nessuno dai 25 anni in giù è abbastanza vecchio da ricordarselo.
Il resto di noi si ricorda bene quel giorno. È stata la Pearl Harbor dei nostri tempi,
un attacco di un nemico che non pensavamo abbastanza scaltro da colpirci in quel
modo. Gli attentati, ben organizzati e progettati brillantemente, sono stati eseguiti
da uomini disposti a svolgere il proprio compito con calma davanti a morte certa.
Quel tipo di volontà era del tutto aliena al nostro senso del dovere e ci ha posti di
fronte al dilemma di come fermare persone che attaccano in tal maniera. Se fosse-
ro stati capaci di riprodurre quella attenta progettazione, quegli uomini avrebbero
potuto compiere altri attentati.
Molte persone che conosco dicono che l’11 settembre non li ha terrorizzati.
Mentono a loro stessi. La nazione nel suo complesso lo era e chi davvero non lo
era aveva perso il contatto con la realtà. Il peggio era che non sapevamo veramen-
te che cosa fosse al-Qå‘ida o quante cellule avesse fra di noi. Temevamo che l’at-
tacco successivo sarebbe stato peggiore, con armi chimiche o nucleari. Se era po- 39
tuto accadere l’11 settembre, tutto era possibile.
LA SCONFITTA AFGHANA E UNA NUOVA STRATEGIA PER L’AMERICA
bi i lati del confne. Gli Stati Uniti si erano alleati coi pakistani per creare i mujåhidøn
allo scpo di sconfggere i sovietici. Ora quel gruppo, ancora legato a Islamabad, si
volgeva contro gli Stati Uniti. Sia che i pakistani mentissero o stessero scivolando
in una rivalità con Washington, il nostro unico potenziale alleato, quello decisivo,
non ci avrebbe fornito pieno supporto.
La seconda cosa è che, avendo fallito la missione primaria di catturare bin
Laden, gli Stati Uniti non avrebbero fatto la cosa più logica (spostare i combatti-
menti altrove) ma avrebbero seguìto il manuale del nation building. Aveva funzio-
nato in Germania e in Giappone dopo la seconda guerra mondiale, pensava la
classe dirigente, quindi avrebbe funzionato anche in Afghanistan.
Quando gli Stati Uniti intraprendono una missione di riforma morale come
questa e falliscono, la logica dice di andarsene. E andarsene assomiglia a una scon-
ftta. Perché questa è la realtà: gli Stati Uniti sono stati sconftti. Andarsene dopo
aver perso bin Laden sarebbe stato logico, ma allora la gente avrebbe preteso di
sapere perché il presidente non l’aveva preso, come se i presidenti fossero qualco-
sa di più che spettatori delle guerre segrete. Per mettere della distanza temporale
fra il fallimento di Tora Bora e il ritiro, la missione si è trasformata da una caccia
all’uomo in una guerra di trasformazione e redenzione – degli afghani.
I media hanno condannato Biden per la sua presunta incompetenza. Implicito
in tutto ciò è che ci possa essere un altro modo per gestire la fne di un confitto.
Ma non c’è alcun modo per terminare con competenza una guerra davvero stupi-
40 da. Un giorno devi fnirla e basta. Idealmente, il compito del presidente sarebbe di
LEZIONI AFGHANE
far sembrare una rotta una vittoria. I commentatori come me possono elucubrare
su quanto egli sia incompetente, ma non dicono mai come l’avremmo potuta ge-
stire diversamente. Alla fne, l’unico modo per evitare la fguraccia era continuare
la guerra. Quand’è stato chiaro che ce ne saremmo andati, i taliban hanno sferrato
l’offensiva totale. Cos’altro avrebbero dovuto fare?
L’intera strategia nazionale in Afghanistan poggiava sul fatto che ogni presi-
dente avrebbe tenuto in piedi la guerra per lasciare l’amaro calice al successore.
Dopo vent’anni, quel calice è stato bevuto e la fne si è svolta nell’unico modo
possibile. Il caos era congenito al sistema. Tutti siamo convinti che avremmo potu-
to fare meglio.
La cosa sorprendente è che, avendo reso l’Afghanistan il più duro possibile per
i russi, non abbiamo afferrato che quello non è un posto da devastare e dove co-
struire una nazione. I taliban sono pronti a morire per ciò in cui credono. Non
hanno i nostri valori morali non perché non li conoscano ma perché li disprezza-
no. E batterli a casa loro non è possibile. Loro là ci vivono, non possono andarse-
ne da nessuna parte, non in vent’anni e neppure in cento. Possiamo dolerci per la
sorte delle donne o per chi ha lavorato per noi, ma abbiamo perso la guerra e non
abbiamo più voce in capitolo.
Rudyard Kipling avrebbe deriso i decisori americani e i loro critici. Ha scritto
una verità basilare sull’Afghanistan: «Quando vieni ferito e lasciato sulle piane af-
ghane, e le donne vengono fuori a fare a pezzi ciò che resta, prendi il tuo fucile,
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2. Gli Stati Uniti hanno combattuto guerre per quasi tutto il XXI secolo e siamo
solo nel 2021. Mentre nel XX secolo sono stati in guerra solo per il 17% del tempo,
periodo in cui hanno vinto i due confitti mondiali. Se li avessero persi, avrebbero
subìto trasformazioni esistenziali e di conseguenza lo stesso sarebbe capitato all’or-
dine internazionale. Fortunatamente, hanno perso soltanto in Corea e in Vietnam
– guerre che non costituivano una minaccia esistenziale – esattamente come in
questo secolo hanno perso in Iraq e in Afghanistan.
Ciò potrebbe suggerire che gli Stati Uniti s’impelagano in troppi confitti non
decisivi e non si curano di come li combattono, mentre combattono le guerre im-
portanti con grande precisione. Ma per capire perché, non possiamo non partire
dalla realtà geopolitica degli Stati Uniti. La geopolitica defnisce gli imperativi e i
vincoli di una nazione. La strategia plasma quella realtà in azione. E la sconftta in
Afghanistan dopo vent’anni obbliga a una rivalutazione della strategia nazionale
americana. Non solo come combattiamo le guerre. Ma pure come determiniamo
quali guerre combattere.
Il punto delle grandi guerre è che sono rare o almeno dovrebbero esserlo. Il
sistema internazionale tipicamente non si sviluppa abbastanza velocemente da
permettere alle maggiori potenze di sfdarsi per un lungo periodo. Eppure, fra il
secondo confitto mondiale e la Corea sono passati solo cinque anni, il Vietnam
è venuto 12 anni dopo, poi negli anni Novanta ci sono stati Desert Storm e il Ko- 41
LA SCONFITTA AFGHANA E UNA NUOVA STRATEGIA PER L’AMERICA
sovo, quindi a inizio secolo l’Iraq e l’Afghanistan. La frequenza delle guerre pone
due interrogativi fondamentali: se gli Stati Uniti sono stati costretti a combatterle
o hanno scelto di farlo e se la storia si sta ora muovendo tanto velocemente da
accelerare anche il ritmo della guerra. Se il secondo non è vero, allora è fortemen-
te possibile che gli Stati Uniti stiano seguendo una strategia perdente che ne in-
debolisce profondamente la potenza, riducendo la loro capacità di controllare gli
eventi mondiali.
Basi principali
Basi con libero accesso
DIEGO GARCIA per le forze Usa
(A) (M) (Ma) (E) Esercito
(A) Aviazione
AUSTRALIA
Darwin (Ma) (M) Marina
(Ma) Marines
non può essere allontanata dagli interessi defniti dalla geopolitica perché così fa-
cendo la potenza americana si disperde dietro gruppi che non rappresentano una
minaccia esistenziale.
Infne, ci sono ovviamente questioni di politica estera che devono essere sbri-
gate ma che non costituiscono una parte signifcativa della strategia nazionale. Il
problema è che chi ci lavora le ritiene d’importanza suprema ed è così che si deve
comportare. Ma ciò a sua volta le rende questioni burocratiche o politiche. I fun-
zionari del dipartimento di Stato cercano di fare carriera, esattamente come i pre-
sidenti cercano voti. La strategia nazionale può essere chiara, ma la sua amministra-
zione è complessa. Sta al presidente fssare paletti sempre mobili e preservare i 45
LA SCONFITTA AFGHANA E UNA NUOVA STRATEGIA PER L’AMERICA
caratteri essenziali della strategia. Altrimenti, questioni minori fniscono per diven-
tare guerre importanti. E per distruggere una presidenza.
to loro i combattimenti. Ciò aveva fatto tutta la differenza del mondo nel dinami-
smo politico domestico. In Vietnam, gli Stati Uniti dovevano prevalere in una
guerra non strategica – una guerra che non sembrava essenziale e che non lo era.
La necessità di preservare il consenso popolare per il confitto in Vietnam non
era un lusso. Era cruciale. Ma i dirigenti americani credevano che le Forze armate
avrebbero rapidamente distrutto i vietcong e l’esercito del Vietnam del Nord. Il
problema era che i militari statunitensi erano pensati per una guerra europea, una
guerra strategica. Erano addestrati a scontrarsi con le corazzate sovietiche con ae-
rei, altri mezzi corazzati e una complessa logistica necessaria a sostenere tanto
sforzo. Non erano costruiti per combattere contro una fanteria leggera, mobile, in
un terreno collinare e nella giungla. Washington dava per scontato che gli attacchi
aerei su Haiphong avrebbero costretto il nemico a capitolare e non teneva in con-
to il fervore quasi religioso delle truppe vietnamite né la spregiudicatezza del regi-
me del Nord. Gli Stati Uniti sono arrivati davvero vicini alla vittoria dopo la fallita
offensiva del Tet, ma gli errori nella catena di comando, i problemi logistici e gli
ostacoli operativi, assieme ai rapidi rinforzi assicurati al Nord, l’hanno resa impos-
sibile. A tutto ciò si è aggiunta una diffusa incomprensione degli eventi da parte
della stampa americana che ha giocato un ruolo nel volgere l’opinione pubblica
contro la guerra.
Il problema del confitto in Vietnam è stato che non era necessario alla strate-
gia americana. La popolazione avrebbe appoggiato una vittoria facile, non una
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guerra senza fne. Capiva che né la teoria del domino né la credibilità statunitense
dipendevano da essa. I comandanti militari avevano combattuto anche nella secon-
da guerra mondiale, dove entrambi i fronti erano essenziali dal punto di vista stra-
tegico. Né loro né le loro truppe erano abituati ad accettare un confitto che sareb-
be durato sette anni prima della capitolazione americana.
In Afghanistan si è svolto un processo simile. Come paese non era strategico
per gli Stati Uniti. Al-Qå‘ida vi aveva pianifcato l’11 settembre. Per sconfggerla
aveva senso usare, come venne fatto all’inizio, Cia, forze speciali e tribù antitali-
ban. Poi però i qaidisti sono scappati in Pakistan e bisognava decidere se ritirarsi
o se assumere il controllo dell’Afghanistan. La risposta ovvia era andarsene, ma si
è scelto di restare e di iniziare a lanciare attacchi aerei contro varie città control-
late dai taliban, allo scopo di sconfggerli. Quando questi ultimi se ne sono anda-
ti, si sperava di aver vinto la guerra. Ma il nemico si era semplicemente ritirato e
disperso e nel tempo si è raggruppato nelle aree da cui proveniva e che conosce-
va meglio.
La missione si è dunque evoluta nel tentativo di distruggere una forza ben
radicata nella società e nella geografa afghane. I taliban potevano essere conte-
nuti, al prezzo di discrete perdite, ma era impossibile annientarli. Se i vietcong
combattevano con impegno quasi religioso, i taliban hanno combattuto con im-
pegno genuinamente religioso. Gli Stati Uniti hanno provato a creare un esercito
nazionale afghano flo-americano, esattamente come avevano creato quello della
Repubblica del Vietnam. L’idea di mettere in piedi un’armata in mezzo a una 47
LA SCONFITTA AFGHANA E UNA NUOVA STRATEGIA PER L’AMERICA
guerra ha diverse lacune, ma la più grande è che le prime reclute sono state in-
viate dai comunisti o dai taliban. Il risultato è stato un esercito con posizioni di
vertice occupate dal nemico. Il quale è stato in grado di anticipare ogni grande
offensiva contro di esso.
Una forza militare si crea per soddisfare imperativi strategici. Quando combat-
ti una guerra non strategica, le possibilità che la tua forza, in particolare la struttura
di comando, non sia pronta sono schiaccianti. Per perdere il Vietnam ci sono vo-
luti sette anni. Per l’Afghanistan venti. Nessuna delle due guerre è fnita perché è
fnita la pazienza degli americani. Sono terminate perché il nemico è maturato: le
truppe americane ruotavano dentro e fuori; quelle avversarie erano a casa. Sono
fnite perché è diventato manifesto ciò che era implicito, ma vero, da anni: gli Sta-
ti Uniti non potevano vincere e la fne di entrambe le guerre non ha causato alcun
danno particolarmente grave ai segreti americani.
Nessuna delle due guerre rientrava nella strategia imposta agli Stati Uniti dalla
realtà geopolitica. In nessuna delle due le nostre forze erano progettate per com-
battere contro un nemico agile, esperto e determinato. E in entrambe magari ab-
biamo sottostimato l’avversario ma abbiamo assolutamente sovrastimato i nostri
impreparati militari. A fallire non sono state le truppe sul campo. È stato un falli-
mento dell’addestramento, della catena di comando. E soprattutto è contato il fatto
che i nostri soldati volevano andare a casa. Mentre i taliban erano a casa.
La geopolitica defnisce la strategia. La strategia defnisce la forza. Il prezzo di
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combattere guerre non strategiche è alto, così come la tentazione di entrarci. L’al-
larme che ci spinge dentro è vero, ma poi scivolano lentamente nel fallimento.
Altrettanto importante è che distraggono dalle priorità strategiche nazionali. La
guerra del Vietnam ha signifcativamente indebolito le capacità americane in Euro-
pa, debolezza di cui i sovietici non sono stati in grado di approfttare. L’Afghanistan
non ha indebolito le Forze armate, ma ancora una volta una sconftta ha colpito la
loro fducia in sé stesse e quella dell’opinione pubblica statunitense. Non ha co-
munque diminuito la potenza americana.
I due confitti sono durati così tanto perché i presidenti coinvolti (è sempre il
presidente) hanno trovato più semplice continuarli che fnirli. Perdere una guerra
è dura. Stabilire di averne persa una in corso e fermarti è ancora più dura. Ed è il
prezzo che paghi per le guerre non strategiche.
6. La minaccia sovietica in Europa e nell’Atlantico è stata gestita senza la guer-
ra. La natura strategica del pericolo costringeva a una visione lucida, a forze ade-
guate e al supporto politico-popolare. Nel corso degli anni, la parte più debole, i
sovietici, è rimasta schiacciata dalla pressione economica imposta dagli Stati Uniti.
Questo è il risultato strategico ideale.
La minaccia in Europa è nettamente diminuita. I russi cercano di recuperare
terreni perduti ma non sono nella posizione di minacciare il continente. La struttu-
ra dell’Alleanza transatlantica creata dagli Stati Uniti non è più rilevante e non lo
sarà per anni, se mai tornerà a esserlo. Le alleanze sono vitali per generare poten-
48 za militare ed economica suppletiva. Forniscono vantaggi geografci e alterano la
LEZIONI AFGHANE
Stati Uniti non hanno minacciato di farlo, ma i cinesi devono agire sulla base dello
scenario peggiore. Hanno inoltre creato un’alleanza informale che preoccupa Pe-
chino. Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine, Indonesia, Vietnam e Singapo-
re sono tutti formalmente o informalmente allineati agli Stati Uniti o semplicemen-
te ostili alla Cina. Inoltre, l’India, l’Australia e il Regno Unito sono attivamente
coinvolti in questa quasi-alleanza. La Cina deve dare per scontato che a un certo
punto Washington cercherà di fare pressione se non sui porti almeno con un em-
bargo sulla prima catena di isole.
Gli Stati Uniti sono pressappoco nella posizione in cui erano durante la guerra
fredda. Dispongono di un’alleanza che fornisce le necessità geografche richieste
per affrontare un attacco cinese, per lanciare un attacco in prima persona o anche
solo per stare fermi. È la Cina che deve agire per cambiare questo stato di cose.
Un’opzione è fare ampie concessioni economiche. Un’altra è lanciare un attacco
progettato per spezzare la linea di contenimento. Un’altra ancora è mantenere le
posizioni e aspettare che siano gli Stati Uniti a fare la prima mossa. Oppure la Cina
potrebbe fare quello che hanno fatto i sovietici: creare minacce non strategiche a
cui gli americani non sappiano resistere, visto il nostro ben noto appetito per ciò
che non è strategico.
Scatenare una guerra spalanca le porte alla sconftta così come alla vittoria. La
Cina non può essere certa di ciò che accadrà e non è chiaro quale conto paghe-
rebbe in caso di disfatta. La sua economia è sempre sotto pressione, considerato il
vasto numero di persone relativamente povere. Concessioni in questo campo non 49
LA SCONFITTA AFGHANA E UNA NUOVA STRATEGIA PER L’AMERICA
sono percorribili. Stare fermi permette agli Stati Uniti di fare la prima mossa e, visto
che dal suo punto di vista noi siamo degli avventurieri militari, Pechino non può
essere sicura che non sovrastimeremo la sua potenza. Dunque, la scelta più proba-
bile è creare un diversivo.
I cinesi hanno la capacità di indurre un cambio di regime in tanti paesi di mo-
do da farla sembrare una sfda diretta agli Stati Uniti, esattamente come accaduto
in Vietnam e in Afghanistan. La tendenza americana ad accettare queste sfde non
strategiche investe fra gli altri l’Iraq e la Corea. Pechino potrebbe giungere alla
stessa conclusione dei sovietici, cioè che gli Stati Uniti risponderanno a una minac-
cia anche se non strategica. La Repubblica Popolare non fa queste cose da tanto
tempo, ma oggi rischia le penne assai più che in passato. Creare un diversivo po-
trebbe essere vista come opzione a basso rischio.
Questo è il problema fondamentale del secolo americano: siamo reattivi e a
volte reagiamo a esche lanciate sull’acqua dai nostri nemici nella speranza di farci
abboccare all’amo. Il problema centrale è che la strategia americana non è guidata
da ciò che è strategico e il risultato è che è diffcile discernere fra lo strategico e il
non strategico. All’America serve un nuovo approccio per dotarci della disciplina
necessaria a evitare i tentativi cinesi di distrarci.
Il risultato ideale della disputa sino-americana è una sistemazione negoziata.
Nessuna delle due potenze può assorbire il costo di una guerra, nonostante gli
Stati Uniti abbiano un vantaggio geografco in grado di neutralizzare ogni arma che
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la Cina possa aver sviluppato. Ed è questo il punto della strategia. La guerra deve
essere rara, non la norma. Evitarla richiede un pensiero geopolitico, strategico e
disciplinato. Gli Stati Uniti hanno tenuto il fronte in Europa per 45 anni e hanno
concluso il confitto con l’Unione Sovietica pacifcamente, a eccezione del confitto
in Vietnam, che non ha avuto conseguenze materiali. Washington e Pechino ma-
novreranno nel Pacifco occidentale ma se ci concentriamo sulla strategia probabil-
mente non andrà a fnire in guerra. La preparazione a combattere è essenziale.
Gettare al vento quella preparazione per distrazioni sanguinose e non strategiche
è un’abitudine americana che dobbiamo superare.
50
LEZIONI AFGHANE
VIA DALL’AFGHANISTAN
O DELLA PALINGENESI
DELL’AMERICA di Dario FABBRI
Quella che appare disfatta è manovra riuscita, malgrado il caos di
Kabul. Gli Usa si affrancano da un paese ingestibile, in cui rischiano
di finire invischiati gli avversari di sempre. Il destino del Numero Uno
non cambia, purché gli americani non cedano all’emozione.
52 1. Cfr. D. FABBRI, «In viro veritas», Limes, «Il mondo virato», n. 3/2020, pp. 39-47.
LEZIONI AFGHANE
universali, immemore di come nel corso della storia questi siano stati imposti
agli altri popoli attraverso la colonizzazione e non con la superiorità delle idee.
Cittadini di molti paesi europei sono convinti che l’America non sia più
in grado di guidare il mondo perché venuta meno alla promessa di diffondere
all’estero tali diritti, perché ha abbandonato il popolo afghano con colpevole
crudeltà.
Equivoci determinati dalla cronica assenza nel nostro continente della geo-
politica, bandita dagli Stati Uniti per sedare ogni affato revisionistico.
Contrariamente a quanto si crede alle nostre latitudini, l’attuale esito è stato
prodotto interamente in Afghanistan, non può essere considerato una imposi-
zione dall’esterno. Benché addestrati e ideologizzati in Pakistan, i taliban incar-
nano perfettamente la dominante etnia pashtun. Tanto che, pure se contrari al
radicalismo islamico propugnato dagli «studenti», i locali capitribù li preferiscono
a un qualsiasi governo di matrice occidentale. Consapevolezza condivisa da Joe
Biden, che nel discorso alla nazione del 31 agosto ha ricordato come gli affari
interni dell’Afghanistan pertengano soltanto agli afghani 4.
Perché non esiste regime, neppure quello più sanguinario, che possa af-
fermarsi senza consenso interno. Quella in fuga è una parte minoritaria della
popolazione, esposta al protettorato americano appena dissolto e allo stile di
vita nostrano – peraltro pure nei vent’anni di occupazione statunitense centinaia
di migliaia di afghani sono migrati in Occidente, soprattutto in cerca di migliori
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condizioni economiche.
In ogni caso, nel medio periodo l’atteggiamento dei clientes europei verso la
superpotenza non subirà alcuna variazione. Questi non dispongono della forza
per agire unilateralmente, per rinunciare al sostegno di Washington – cui po-
trebbe sommarsi l’inevitabile rappresaglia americana in caso di iniziative troppo
audaci.
Certo, nei prossimi anni alcune cancellerie del continente sfrutteranno il
percepito disimpegno statunitense per giustifcare una maggiore integrazione
sul piano della Difesa. Ma dovranno presto rinunciare per ostilità dell’egemone,
ormai abituato ad agire ex post, e per la freddezza della opinione pubblica locale.
Il goffo ritiro resta funesto esclusivamente per l’amministrazione Biden, as-
surta al potere giurando d’essere diversa dalla precedente, di prediligere diritti
umani e democrazia, prima di affdare l’Afghanistan ai taliban. Senza alcun ri-
morso, come più volte dichiarato dal presidente. E non basta che a siglare rac-
cordo di Doha sia stata l’amministrazione Trump, dichiaratamente indifferente
all’aspetto umanitario.
Palese è l’incongruenza bideniana quanto insignifcante, considerato il carat-
tere superfuo dei vari gabinetti politici.
Decisamente più rilevante, le principali potenze del pianeta hanno vissuto
con terrore il ritiro di Washington. A conoscenza della realtà, preoccupate dalla
4. Cfr. «Biden’s Speech on Withdrawal from Afghanistan: Full Transcript», The New York Times,
31/8/2021. 55
56
LE AREE DI RESPONSABILITÀ DEI COMANDI AMERICANI
NORTHCOM E U C O M
COMANDO
SPAZIALE
Peterson Air Force Base
M
VIA DALL’AFGHANISTAN O DELLA PALINGENESI DELL’AMERICA
(COLORADO) T CO
CE N
I N D O PACO M
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I N D O PACO M
AFRICOM
INDOPACOM
NORTHCOM SO U T H COM
E U CO M
Polo Nord SOUTHCOM
Polo Sud
Antartide
AFRICOM
©Limes
LEZIONI AFGHANE
possibilità che l’Afghanistan collassi sotto i loro occhi. Evento drammatico di cui
dovrebbero occuparsi.
4. Oltre ogni amenità su declino e dintorni, in questa fase gli Stati Uniti
vogliono razionalizzare la loro azione. In formula: intendono intervenire mili-
tarmente soltanto quando strettamente necessario, quando sono in ballo i loro
interessi strategici, disinteressandosi degli altri contesti. Senza alcun pudore.
Scopo del ritiro dall’Afghanistan è indurre le altre potenze a occuparsi del
paese. Possibilmente fnendo incastrate nel locale mosaico etnico, oppure travol-
te da una endemica instabilità. Nella consapevolezza che il territorio è strategico
per molti soggetti, ma non per gli Stati Uniti, perfettamente indifferenti a quanto
capita laggiù.
Evoluzione pienamente colta dai nemici, per molti anni impegnati a tratte-
nere gli americani sul territorio, continuando a fnanziarne la bizzarra impresa,
come nel caso della Cina, oppure magnifcando la minaccia jihadista, per come
raccontata dalla Russia. Dopo l’accordo di Doha i medesimi soggetti si sono
sbracciati per entrare in contatto con i taliban, investiti dagli Stati Uniti della
potestà sul paese.
Nel corso dei mesi Pechino ha trattato intensamente con gli «studenti», pre-
occupata dagli attentati capitati in Pakistan contro cittadini cinesi, non attribuibili
ai mullah eppure una spaventosa anteprima di ciò che potrebbe capitare.
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terra, tranne dove questa tocca regioni cruciali per la Repubblica Popolare, come
nella penisola coreana. Attitudine propria della talassocrazia, detentrice della più
rilevante dimensione militare, lontana dalla postura autolesionistica.
Elementi di un vantaggio netto per gli Stati Uniti, scambiato in Europa per
grande disfatta, possibile scatto in avanti nella partita contro la Cina. A patto che
la popolazione d’Oltreoceano non si abbandoni alla depressione.
5. Per l’America l’unico rischio della vicenda afghana risiede nel fattore
umano. Nelle prossime settimane la popolazione d’Oltreoceano potrebbe vivere
con eccessiva sofferenza una dipartita tanto difettosa. Poco conta che questa
non avrà conseguenze negative sulla traiettoria nazionale. Travolgente è la sug-
gestione quando si è coinvolti in prima persona, quando si è persi nella nebbia
del momento.
In preda alla rabbia e allo sconforto, gli americani potrebbero chiudersi in sé
oppure reclamare una rabbiosa risposta militare. Reazioni in grado di danneggia-
re la congiuntura della superpotenza molto più della sconftta nell’Hindu Kush.
Da alcuni anni attraversata da una notevole tempesta interiore, qualora si
chiudesse ulteriormente in sé l’America potrebbe precipitare sulla soglia di una
guerra civile, sviluppo esiziale per la propria supremazia globale. Oppure co-
stringere i suoi apparati ad agire militarmente in qualche dimenticato angolo del
mondo, magari riaprendo l’incredibile guerra al terrorismo, altro movimento che
58 la condurrebbe a dilapidare risorse preziose.
LEZIONI AFGHANE
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5. Cfr. N. R AKICH, «What Americans Think About The End Of The Afghanistan War And Biden’s
Handling Of It So Far», FiveThirtyEight, 20/8/2021. 59
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LEZIONI AFGHANE
PERSEVERARE
DIABOLICUM di Rosario AITALA
La risposta americana all’11 settembre, basata sul principio d’irrealtà,
è naufragata in Afghanistan. Una parabola molto istruttiva, da cui
gli Stati Uniti non sembrano aver tratto lezioni. La territorializzazione
del jihåd riguarda anche noi. La Tunisia come possibile piattaforma.
Prodromi
Questa storia inizia l’11 settembre 2001 con gli attacchi terroristici su suolo
americano. Vero? No. Comincia molto prima, negli anni Ottanta, quando america-
ni e sauditi decidono di sostenere la guerriglia di resistenza antisovietica in Afgha-
nistan, progetto del presidente pakistano Zia-ul-Haq, generale golpista dalle in-
tense simpatie islamiste, di cui si incarica il servizio segreto militare, l’Isi. Washing-
ton vuole avversare il Cremlino; Riyad galvanizzare la causa del puritanesimo re-
ligioso in salsa wahhabita; Islamabad intende impiantare a Kabul un governo
amico islamista e oscurantista. Gli Stati Uniti contribuiscono con armi, fra cui i
micidiali missili terra-aria Stinger che decimeranno l’aviazione sovietica, con i
dollari e con le competenze per mettere in atto le più sofsticate e mortali tecniche
di sabotaggio fra cui il confezionamento di bombe e autobomba. Islamabad man-
tiene gelosamente l’esclusività dei rapporti con la guerriglia selezionando solo le
fazioni più fanatiche di mujåhidøn allevati nelle scuole coraniche fondamentaliste.
Nascono i taliban. In lingua pashto, studenti. La strategia non si esaurisce in azio-
ni militari antisovietiche, organizzate e gestite sul terreno dagli strateghi dei servi-
zi pakistani; le bombe colpiscono indiscriminatamente e senza requie civili, fun-
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le Torri Gemelle a New York e uno sul Pentagono; il quarto viene abbattuto in
Pennsylvania. Tremila i morti.
È un momento defnitorio. I terroristi, che la stessa potenza imperiale aveva
involontariamente contribuito a generare, risvegliano in pochi istanti paure ance-
strali stordenti in una società ricca e assuefatta al securitarismo che d’improvviso si
scopre vulnerabile, tremante, nuda. Cercano la reazione, una drammatizzazione
che renda la loro causa grandiosa, universale, eterna. La risposta supera ogni aspet-
tativa. Il capo della nazione dichiara la «guerra al terrore» assurdamente sfdando
un’astrazione, un metodo politico da sempre praticato soprattutto da governi, di-
rettamente o per procura. Il nemico è incerto, oscuro, è dovunque e da nessuna
parte. Bush sulle rovine fumanti delle Torri promette che la vendetta si abbatterà
su «una rete radicale di terroristi e ogni governo che la sostiene». Epigono, proba-
bilmente inconsapevole, di Theodore «Teddy» Roosevelt che cento anni prima, nel
settembre 1901, dopo l’assassinio per mano sovversiva del presidente William
McKinley, del quale era vice, aveva dichiarato davanti al Congresso «guerra all’a-
narchia», una chiamata alle armi universale rivolta alle «nazioni civili» che però
aveva un contenuto strategico ben più pregnante, la difesa dell’ordine sociopolitico
dominante che iniziava a traballare.
Il contagio all’intero Occidente è immediato. Le immagini del rogo, delle torri
sbriciolate, dei poveri corpi che si lasciano cadere nel vuoto si imprimono a fuoco
in ogni mente. Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Dei diciotto terroristi dell’11 settembre quindici sono sauditi e una guerra in
Afghanistan è assurda e astrategica – basta ripassare la storia: nessuno straniero è
mai uscito vittorioso dalle inospitali alture dell’Hindu Kush – ma il nemico indivi-
duato è il regime talibano che protegge e rifuta di consegnare bin Laden. Boots on
the ground: si invade. Il 7 ottobre inizia il confitto più lungo della storia americana.
L’obiettivo ultimo è «sconfggere la rete globale del terrore». La missione afghana si
prefgge «solo» la cattura di bin Laden, elevato a nemico numero uno, la disartico-
lazione di al-Qå‘ida e la liquidazione del regime talibano.
Intanto il motto inizia a manipolare i suoi stessi ideatori. Come, dove combat-
tere la guerra? Contro chi? La logica strategica – si fa per dire – dietro la formuletta
è costituire un passepartout che permetta di dispiegare appieno il soverchiante
potenziale planetario della potenza imperiale per riconfgurare il mondo a sua im-
magine e somiglianza. Non basta più colpire i terroristi e i loro protettori con la
macchina militare più potente del globo, bisogna esportare la democrazia. Con una
guerra, si dice, «asimmetrica»: da una parte ci sono Stati veri, soggetti reali, dall’altra
un’entità allo stato gassoso. Tutto e niente.
Effetti collaterali
Gli eventi di questi giorni dimostrano che i taliban hanno sconftto gli americani
già nel febbraio 2020 – quando l’amministrazione Trump ha frmato la resa – e il
governo Ghani nei mesi subito successivi, ben prima del 15 agosto. È una vittoria 63
PERSEVERARE DIABOLICUM
più politica che militare. Gli americani si sono ritirati per cogenti esigenze di politica
interna e per dedicare le risorse militari, politiche e fnanziarie ad avversare il nemi-
co vero, la Cina. Coltivando la speranza, diffcilmente realizzabile, che l’Afghanistan
diventi un pantano per russi e cinesi. L’esercito nazionale ha sostanzialmente rinun-
ciato a combattere. La lealtà di un soldato afghano prima che all’istituzione o al go-
verno si rivolge al suo gruppo tribale di riferimento. Sono le entità clanico-tribali ad
avere deciso. D’altronde nessun movimento insurrezionale può prevalere senza il
supporto popolare che in Afghanistan signifca sostegno territoriale, tribale. I taliban
non sono amati da tutti; le tracce delle guerre civili combattute da afghani contro
altri afghani sono segnate sulla pelle di tutti. Ma sono stati scelti dalla maggior parte
del sistema clanico-tribale, non solo delle aree pashtun del paese. Hanno giocato
ruoli decisivi la sfducia nel governo Ghani – considerato corrotto, rapace, disinteres-
sato al bene della gente comune – e la stanchezza per l’occupazione americana, che
agli occhi degli afghani ha tradito tutte le aspettative. I vecchi signori della guerra
hanno fallito: Dostum è stato vinto a Sheberghan, Ismail Khan a Herat. All’inizio di
settembre, dopo un assedio ermetico, è stata piegata la fevole resistenza del Panjshir
tagiko, del tutto priva di sostegni esterni, guidata dal fglio del leggendario Ahmad
Shah Massud – «leone» della resistenza anti-talibana assassinato qualche giorno prima
dell’11 settembre durante una fnta intervista da terroristi di al-Qå‘ida tunisini ma-
scherati da giornalisti – e da Amrullah Saleh, già «primo ministro» del governo Ghani
ora fuggito all’estero. Non è da escludere che la sconftta sia stata propiziata o verrà
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capo dell’Uffcio politico. Baradar, taliban della prima ora e già vice del primo capo
dell’Emirato e supremo comandante dei taliban, mullah Muhammad Omar, era
stato arrestato nel 2010 dal servizio segreto militare pakistano, verosimilmente per
interrompere le trattative che stava conducendo in segreto con il governo Karzai e
permettere a Islamabad di sedersi al tavolo del negoziato di pace, come poi in ef-
fetti fece esercitandovi grande infuenza. Fu liberato su richiesta americana nell’ot-
tobre 2018 in modo da consentirgli di partecipare alle trattative di Doha.
L’accordo si articola su tre punti: l’impegno talibano che a nessuno sarà con-
sentito usare il territorio afghano per condurre attacchi contro gli Stati Uniti e i suoi
alleati; il ritiro completo delle forze straniere; il cessate-il-fuoco totale da concor-
darsi con attori interni cui è lasciata anche la determinazione del futuro politico del
paese («political roadmap»).
La natura giuridica dell’atto è oscura. Certamente non si tratta di un trattato
internazionale – espressione che designa l’accordo concluso fra Stati, fonte di nor-
mazione internazionale 5 – giacché interviene fra uno Stato e un’entità incerta desi-
gnata con la stravagante locuzione di «Emirato Islamico dell’Afghanistan» non rico-
nosciuto dagli Stati Uniti come Stato e noto come «taliban». Verosimilmente i taliban
al momento della frma si potevano qualifcare come movimento insurrezionale,
termine che indica attori non statali operanti nei confitti armati cui viene ricono-
sciuta limitata personalità giuridica internazionale. I movimenti di insorti, diversa-
mente da semplici milizie armate e dai movimenti di liberazione nazionale, sono
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nistro dell’Interno, dunque diverrà responsabile della sicurezza dei tanti americani
e occidentali rimasti e sarà il massimo garante della promessa dell’Emirato di im-
pedire il radicamento di organizzazioni terroristiche nel paese. Frattanto centinaia
di terroristi, anche vicini ad al-Qå‘ida e allo Stato Islamico, sono stati rilasciati
dalle prigioni afghane. È questa la vera sconftta degli Stati Uniti, essere costretti a
trattare con i neo-taliban, sul presupposto che siano meno terroristi di altri. È ciò
che ha sempre ripugnato all’America: scendere a patti con i bad guys.
L’onore forse è perso, ma l’Occidente ha il dovere di non lasciare indietro
nessuno.
L’Italia in queste settimane ha dato prova di maturità e umanità. Il lavoro della
Farnesina, del ministero della Difesa e delle agenzie di informazione per individua-
re, assistere e trasferire i cittadini italiani insieme a cinquemila afghani si è svolto in
modo impeccabile. Il personale diplomatico, i militari del generale Portolano, i
carabinieri del Tuscania hanno dato al mondo misura della solidità istituzionale del
nostro paese. Il presidente del Consiglio Draghi sta dedicandosi in prima persona
a coltivare l’istinto giusto, riunire quanti più attori possibili attorno al tavolo del G20
che dovrà presiedere, anche se il gioco di veti incrociati e gli interessi divergenti
sono diffcili da superare. Il ministro degli Esteri Di Maio ha promosso un Piano
d’azione interministeriale per l’Afghanistan e coordina sul doppio livello istituzio-
nale interno-internazionale una cabina di regia per le iniziative a favore di rifugiati
e sfollati, la tutela di donne e minoranze, la formazione, l’assistenza economica e
sociale. La ministra della Giustizia Cartabia sta promuovendo a Bruxelles azioni per 69
PERSEVERARE DIABOLICUM
E ora?
2 maggio 2011. Barack Obama, premio Nobel per la pace, annuncia la morte di
Osama bin Laden: «Justice has been done». Giustizia è fatta. Il decano dei terroristi, le
cui mani grondano di sangue innocente, reso icona immortale dalla propaganda di
coloro che più odiava, è stato scovato e ucciso in un edifcio vicino a Islamabad. Era
disarmato. Il corpo sepolto in mare, dicono i rapporti uffciali. 27 ottobre 2019. Il
presidente Donald Trump comunica al mondo che al-Baôådø, il califfo dello Stato
Islamico, è «morto come un cane». Braccato dalle forze speciali si è fatto esplodere
insieme a due dei suoi fgli. Le dichiarazioni dei due comandanti in capo contengo-
no un doppio messaggio. Il primo è rivolto all’opinione pubblica americana, usa
alla violenza, che pretende vendetta: lo avevamo promesso, l’abbiamo fatto. L’altro
è più universale: la guerra è vinta. No. Il «vecchio» bin Laden era lontano dai giochi
ma ha trionfato lui. Ha attirato e impantanato gli americani e gli altri occidentali in
un vicolo cieco, sparso il germe del jihåd in decine di paesi e somministrato la pau-
ra in tutto il mondo. Al-Baôådø era ridotto allo stato virtuale, certo. Il suo califfato è
rimasto senza territorio. Ma il progetto dello Stato Islamico è vivo e attuale.
«La guerra è fnita male ma abbiamo battuto il terrore». È la consolazione di
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questi giorni. «Siamo riusciti a evitare che il paese diventasse un porto sicuro del
terrorismo». Vero? No. Il metodo della paura è immortale; ha attraversato il tempo
e lo spazio, sempre al servizio del potere. Basterebbe questo, ma c’è dell’altro.
Dopo l’intervento militare in Afghanistan, al-Qå‘ida non è affatto sparita, è rimasta
nel paese a impiantare bombe nei mercati, lungo le strade, si è estesa a ogni con-
tinente. In quegli anni colpisce, per esempio, a Bali nel 2002, a Madrid nel 2004, a
Londra e a Šarm al-Šayœ nel 2005, per citare gli attentati più gravi. Nel 2021 sono
più di trenta gli attentati terroristici in Afghanistan, prima della caotica fuga degli
occidentali da Kabul.
Dal 2009 ha poi preso forma un’esperienza geopolitica nuova, un’organizza-
zione articolata che usa il metodo terrorista principalmente per avversare i regimi
della regione, ritenuti corrotti e indecenti – «il nemico vicino» – e per coltivare una
vocazione politico-territoriale. Il campo di battaglia è l’Iraq, in preda al caos dopo
l’intervento militare americano che ha disarticolato le istituzioni civili e di sicurezza
e ha fatto esplodere il settarismo. La nuova creatura del terrore si estende poco
dopo alla Siria dove il despota ha represso nel sangue le rivolte popolari delle
«primavere arabe» e diverse potenze regionali nemiche hanno alimentato il disordi-
ne fno a perdere il controllo della situazione. Nel giugno 2014 l’Organizzazione
dello Stato Islamico ormai controlla una superfcie di novantamila chilometri qua-
drati, un territorio pari al Portogallo. Quando i terroristi colpiscono l’Occidente, i
mezzi di comunicazione di massa amplifcano la minaccia a dismisura, propagan-
70 dando ovunque il messaggio della paura e galvanizzando le vocazioni terroristiche.
LEZIONI AFGHANE
Tre anni dopo lo Stato terrorista, bersagliato da eserciti regolari regionali e interna-
zionali e da opache reti di milizie informali mandatarie di Stati, resta (quasi) senza
territorio. L’esperienza però continua, estendendosi ad altri quadranti. Una delle
sue propaggini è quella resa famosa dagli attacchi di questi giorni a Kabul: lo Stato
Islamico-Provincia di Khorasan, una piccola formazione nemica dei taliban che
non a caso il 16 agosto, appena assunto il controllo delle carceri, hanno trascinato
fuori da Pul-e-Charkhi il precedente leader della formazione Abu Omar Khorasani
e lo hanno passato per le armi senza tante cerimonie.
Il pericolo ora è l’effetto di galvanizzazione del trionfo talibano sul jihåd glo-
bale. In Siria, Somalia, Yemen, Pakistan, nel Sahel si è festeggiato un modello di
successo dal forte carattere territoriale. È un passo avanti – o un passo indietro –
nella geopoliticizzazione del jihåd che interviene mentre l’islamismo politico è
morente. Dopo la recente caduta del governo tunisino, di cui era parte fondamen-
tale Ennahda, movimento islamista moderato ispirato alla Fratellanza musulmana,
gli islamisti politici controllano solo Gaza (Õamås) e brandelli di territorio della
Siria nord-occidentale (Hay’at Taõrør al-3åm). La vittoria dei taliban rafforzerà la
convinzione che la strada giusta per prendere il controllo politico di territori e di
risorse sono le armi, non la politica parlata 10. Molti paesi sono in pericolo, fra que-
sti il Pakistan, con le sue testate nucleari, dove i movimenti terroristici sono forti e
radicati. Noi dovremmo guardare con molta attenzione al Mediterraneo, in partico-
lare alla Tunisia. La disperazione, l’esclusione, l’assenza di prospettive di migliaia
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10. S. KITTLESON, «Taliban victory in Afghanistan could inspire terrorists, armed groups throughout
Middle East», Al-Monitor, 1/8/2021. 71
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LEZIONI AFGHANE
rale l’impulso a distanziarci dalle atrocità commesse. E ci ripetiamo: «Mai più, ab-
biamo sbagliato tutto, non avremmo dovuto farlo».
È pertanto comprensibile che buona parte dell’opinione pubblica si ripeta
che l’Italia non doveva andare in guerra in Afghanistan o che ci è andata per di-
fendere i nostri valori e i diritti delle donne. Abbiamo combattuto per quasi
vent’anni e il risultato è stato un ritiro umiliante. Abbiamo speso 8,8 miliardi di
euro. Ci abbiamo spedito 50 mila nostri connazionali. In 54 non sono mai tornati;
in settecento sono rimasti feriti; incalcolabile il numero di chi non riuscirà più a
dormire la notte. Qualcuno deve aver fatto scelte errate. Deve esserci un motivo
umanamente accettabile.
La reazione è comprensibile, ma comunque sbagliata. L’Italia non ha scelto di
partecipare alla guerra in Afghanistan. Nessuno lo ha scelto. Era necessario che, «in
un modo o nell’altro», vi prendesse parte. Doveva accadere, perché così funziona
la grammatica strategica. I paesi satelliti di un impero, per quanto informale come
quello dell’America, combattono per l’egemone, partecipano del suo destino. In
particolare il nostro.
Abbiamo perso la seconda guerra mondiale, siamo stati sconftti e occupati
dagli Stati Uniti. È questo il nostro status in un mondo che funziona ancora con
le gerarchie del dopo-1945. In quanto nazione esportatrice e priva di ingenti ri-
sorse naturali, dipendiamo da rotte marittime che non saremmo in grado di pro-
teggere da soli e che soltanto l’America mantiene aperte e liberamente transitabi-
li. Spesso, le dobbiamo pure la protezione dalle speculazioni sul nostro immane 73
LA LEZIONE DEL GULISTAN, TOMBA DEGLI ITALIANI
debito. Le nostre Forze armate sono reparti ancillari dell’esercito imperiale. Inca-
paci di combattere da sole, non per scelta o per incompetenza, ma perché pro-
gettate per fornire competenze specifche a un sistema militare più ampio. E come
noi tutti gli altri europei, con le ovvie differenze di rango, carattere e disponibilità
di ciascuna nazione.
Nessuno poteva completamente deflarsi. Nemmeno l’attore più attaccato a
una parvenza di autonomia come la Francia, che ha compensato in Afghanistan il
no all’invasione dell’Iraq. Neppure di fronte a obiettivi irraggiungibili, come muo-
vere guerra al terrorismo (una tattica, non un nemico) o far sì che l’Afghanistan non
ospitasse mai più jihadisti. Anche se avessimo avuto la lucidità per spiegarglielo,
l’America non sarebbe stata certo ad ascoltarci. Da noi pretendeva un contributo.
Magari non che l’aiutassimo in ciò in cui eccelle: sfondare la porta e invadere. Ma
di certo in ciò di cui non è capace perché non ne è in grado nessuno: occuparsi
dei cocci rotti in contesti ostili alle priorità occidentali.
2. Questa lunga premessa per dire che ciò di cui realmente si dovrebbe discu-
tere in Italia non è se sia stato giusto andare in Afghanistan. È come ci siamo stati.
Perché ci serva da lezione. Privi di libertà decisionale strategica e in parte pure
tattica, in futuro potremo almeno decidere come impiegare sul campo i nostri uo-
mini e le nostre donne. E sapere che cosa chiedere in pegno.
Un angolo di Afghanistan aiuta a illustrarlo. È un angolo minuscolo, abitato da
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soli 89 mila individui su una superfcie pari a quella delle Marche. Ma è un angolo
sanguinoso, costato la vita a dieci nostri connazionali, quasi un quinto degli italia-
ni caduti in Afghanistan. I loro nomi: Alessandro Romani (36 anni, Col Moschin);
Gianmarco Manca, Marco Pedone, Francesco Vannozzi e Sebastiano Ville (32, 23,
26, 27 anni, alpini); Matteo Miotto (24 anni, alpino); Gaetano Tuccillo (29 anni,
esercito); Roberto Marchini (28 anni, paracadutista); Michele Silvestri (34 anni, ge-
niere); Tiziano Chierotti (24 anni, alpino). Tutti morti sotto il fuoco nemico, non
per incidenti, suicidi o cause naturali, come altri nostri uomini persi laggiù.
Quell’angolo corrisponde ai distretti di Bakwa e Gulistan, nella provincia sud–
occidentale di Farah (carta). È il teatro più lugubre in cui sono stati i nostri in Af-
ghanistan e per soli due anni (settembre 2010-autunno 2012). Senza però essere
stato il più violento, quello dove abbiamo sparato di più. A Bala Murghab, al con-
fne settentrionale della provincia di Badghis, il contingente italiano ha allargato la
bolla di sicurezza, cioè combattuto in prima persona per sottrarre territorio ai tali-
ban. E a Shindand, poco più a nord di Farah, le nostre forze speciali hanno con-
dotto diverse operazioni mirate.
Il Gulistan è invece rimasto molto impresso nella memoria collettiva delle For-
ze armate. Fra i reduci è noto soltanto così, senza Bakwa, benché anche qui sia
caduta una parte di quei dieci soldati. Al punto che lo scrittore Paolo Giordano gli
ha dedicato un romanzo, Il corpo umano, rarissimo episodio di letteratura bellica
in un paese che ha rimosso la guerra, in cui racconta una missione fnita in trage-
74 dia, verissima come tutti i romanzi ben scritti.
LEZIONI AFGHANE
TU RK ME N I S TAN
Verso Gormach
Teheran ITALIA
SPAGNA
I RA N Bala
Murghab
SPAGNA
Provincia ITALIA
Qala-yi Nau Provincia
di Herat
(Prt) d i Badghis
Task Force Verso
ITALIA North Kabul
SPAGNA
Herat Cagcaran
Base Usa in costruzione Qala-yi Mir Davud
(sotto comando
Enduring Freedom)
Provincia
Task Force di Ghor
Center
Task
Shindand Force
45 Provincia
di Farah Bagran
di Uruzgan
Provincia
ITALIA Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Il motivo per cui il Gulistan è rimasto impresso, per cui Bakwa viene dimenti-
cata, per cui Giordano ci ha scritto un libro è lo stesso: la sensazione che in quella
valle qualcosa sia andato storto.
3. La provincia di Farah non è un posto come gli altri in cui hanno messo
piede gli italiani in Afghanistan. È quanto di più simile abbiano visto ai santuari dei
taliban. Confna con l’Helmand, uno dei bastioni degli «studenti» del Corano. Nelle
sue terre vivono tribù pashtun, di cui sono espressione i taliban. Per esempio, il
Gulistan è abitato da un ramo occidentale dei Nurzai, la stessa gente da cui provie-
ne l’attuale guida religiosa del movimento, l’emiro dei credenti Haibatullah
Akhundzada. I taliban contro cui abbiamo combattuto a Bala Murghab o a Shin-
dand erano piccole enclave oppure confnanti con comunità persiane o tagike. Qui
erano perfettamente omogenei al territorio.
A lungo Farah era rimasta relativamente tranquilla. Dopo la cacciata da Kabul
nel 2001, i taliban si erano raggruppati altrove, per esempio nell’Helmand e attor-
no a Kandahar. Quando in queste due province americani, britannici e canadesi
hanno iniziato a picchiare duro 1, gli insorti hanno cominciato a usare il Gulistan
come retroterra per rifugiarsi, riposarsi oppure fuggire attraverso gli impervi vali-
chi montani verso nord. Se il nemico più debole scappa, l’avversario più forte lo
insegue. Così un plotone di marines si è spinto sino alla valle del Gulistan. Corre-
va l’anno 2008. Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
1. Uno splendido racconto della guerra dei marines nell’Helmand in R. CHANDRASEKARAN, Little America:
76 The War Within the War in Afghanistan, New York 2012, Knopf.
LEZIONI AFGHANE
locali chi fosse il più forte. Hanno pure stretto relazioni amichevoli con uno dei
clan principali, quello favorevole a riaprire le scuole e soprattutto con più uomini
armati. Al prezzo tuttavia di inimicarsi l’altro clan più numeroso, poi diventato ter-
reno fertile per il ritorno del nemico 2.
Dimostrazione lampante di come l’allargamento della presenza militare ai più
remoti angoli dell’Afghanistan abbia contribuito ad alimentare il consenso dei tali-
ban, non a stroncarli 3. Farah d’altronde era stata tra le prime aree a insorgere nel
1979 contro l’occupazione sovietica. Potenza delle generazioni.
4. Nel 2010, gli statunitensi hanno chiesto agli italiani di riprendersi il Gulistan
e Bakwa. L’offerta: voi riassumete il controllo e in cambio noi vi sgraviamo del
grosso delle operazioni intorno a Farah 4. La logica: l’insurrezione talibana si era
allargata a nord-ovest, dunque a Farah era necessario attaccare con le forze specia-
li e controllare le vie da e verso l’Iran. Essendo però la provincia sotto la respon-
sabilità italiana, gli americani volevano semplifcare la catena di comando per
chiedere ogni volta autorizzazioni a un contingente straniero.
I vertici militari italiani non hanno rifutato l’offerta, hanno rilanciato: ridateci
Gulistan e Bakwa, ci teniamo anche Farah. Nella decisione hanno pesato quattro
fattori. Primo, a Farah stavamo svolgendo un’importante attività di addestramento
dell’esercito afghano e non volevamo che qualcun altro se ne intestasse i meriti.
Secondo, nei due distretti i dirigenti militari erano convinti di poter replicare i suc-
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cessi di Bala Murghab, cioè l’espansione della bolla di sicurezza. Terzo, più per far
numero nella giustifcazione agli americani: cedere Farah avrebbe contraddetto il
principio di unità amministrativa per cui gli Stati Uniti ci volevano ridare i due ter-
ritori. Quarto, probabilmente decisivo: quando gli americani avevano chiesto Gu-
listan e Bakwa, i nostri si erano sentiti messi da parte («e che? non siamo in grado
di controllarli?»). Riprenderseli costituiva, se non una rivincita, almeno un modo per
dimostrare che dell’Italia ci si può fdare.
Così è stata creata la Task Force Sud-Est, che il 1° settembre 2010 ha assunto
il controllo dei due distretti, più quello confnante col Gulistan di Por Chaman,
dove non ha mantenuto posizioni fsse.
La sua composizione era però molto diversa da quella dei marines che l’ave-
vano preceduta. Entrambi contavano su 450 soldati. Ma americani e georgiani
erano tutti o quasi operativi: pattugliavano, sparavano, riposavano. La Sud-Est in-
vece aveva una compagnia comando, una compagnia trasmissioni, una compagnia
del genio e, cruciale, due sole compagnie fucilieri, invece delle tre richieste. L’ali-
quota logistica era molto più corposa, la potenza di fuoco assai più ridotta. Ogni
giorno potevano uscire solo due plotoni e mezzo. Per di più, gli operativi sono
arrivati molto dilazionati. La seconda compagnia fucilieri è giunta in teatro ben tre
settimane dopo l’ingresso dei commilitoni. La terza è arrivata solo a fne novembre,
dopo i primi cinque caduti. Questa diluizione è stata giustifcata con la necessità di
attendere che fosse autorizzato da Roma l’invio di nuove truppe in Afghanistan (tra
fne 2009 e fne 2010 dall’Italia sono stati spediti 1.400 militari in più, un aumento
del 50%). Ma non è chiara la logica di inviare prima la logistica rispetto a chi im-
bracciava i fucili in un’area molto pericolosa.
Con meno soldati in grado di sparare, la Task Force Sud-Est si è schierata su
meno avamposti rispetto a chi l’aveva preceduta. I marines avevano cinque posi-
zioni: una base avanzata (fob, in gergo) a Bakwa; una patrol base a Buji, all’imboc-
co della valle del Gulistan; un posto di blocco tre chilometri a nord di Buji; uno tre
chilometri a sud; un’altra patrol base ben dentro la valle, nei pressi della residenza
del governatore del distretto. Gli italiani sono stati costretti a smantellare i due po-
sti di blocco. E a schierare a Buji solo un plotone, cioè una trentina di soldati, in-
vece dei 120 precedenti.
Gli avamposti non sono solo diminuiti, sono diventati pure più comodi. Quel-
li dei marines erano più che spartani: nessun servizio igienico, nessuna possibilità
di mangiare altro che le razioni K. La Sud-Est ha trasformato quegli accampamenti
(Buji esclusa) in fortini vivibili: a parte rinforzare le difese, ha creato cucina, docce,
sistema di smaltimento delle acque refue. Attività che avevano bisogno di tempo
e personale appositamente dedicato.
Gli americani d’altronde erano organizzati molto diversamente in Afghanistan.
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5. Il Gulistan è una vicenda esemplare. Racchiude molti dei nostri vizi nel
concepire le missioni militari.
Quella valle non aveva nessun valore operativo. Nel ragionamento dei nostri
vertici militari, doveva servire a mostrare il valore degli italiani. Esattamente come
le nostre missioni militari dovrebbero servire a mostrare agli Stati Uniti quanto va-
liamo. Senza che loro ci chiedano espressamente di esibire le prove della nostra
capacità o della nostra fede. Il complesso d’inferiorità fra le cause del nostro ingres-
so in Gulistan è una costante nel nostro rapporto con gli americani.
Tuttavia, in quella valle non abbiamo fatto quello che ci era stato chiesto. Gli
statunitensi volevano che ostruissimo le vie di fuga al nemico mentre loro preme-
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aveva l’aiuto di due compagnie di fanteria americane, forze speciali dei marines,
un battaglione afghano e due elicotteri Apache a fornire copertura aerea. Probabil-
mente anche noi fniamo per confonderci con la nostra stessa narrazione.
Una volta rifutata l’offerta di Farah, in Gulistan non potevamo inviare più sol-
dati che sparassero: i limiti legislativi non lo consentivano. Così siamo entrati in due
distretti di ridottissima utilità consci che tutte le nostre restrizioni di tipo logistico,
normativo e culturale avrebbero esposto le nostre truppe a un notevole pericolo.
Tipico cortocircuito di un paese anziano ed economicista, seriamente convinto che
l’articolo 11 della costituzione vieti la guerra, che però la guerra si trova costretto a
combatterla, curandosi di raccontarla come «missione di pace».
Ma gli americani non ci faranno sconti solo per questo: continueranno a pretende-
re da noi di partecipare al contenimento economico di Pechino e di assumerci re-
sponsabilità ben più pesanti vicino casa. Non gradiscono che gli europei vadano
nei mari cinesi se questo comporta scoprire il fanco tra Mediterraneo e Atlantico.
Il nostro contributo per l’Indo-Pacifco lo possiamo dare vigilando sui nostri mari,
al massimo fno agli stretti della Penisola Arabica 6.
Il Gulistan e l’Afghanistan devono poi insegnarci a stemperare la nostra dram-
matica abitudine a offrire aiuto con entusiasmo sincero ma senza chiedere in cam-
bio niente di tangibile. Il nostro apporto è apprezzato e ci mancherebbe pure che
non lo fosse, visto che non pretendiamo nulla di realmente scomodo. Il massimo
che otteniamo è farci perdonare occasionali scappatelle con russi e cinesi oppure
la garanzia che gli americani ci salvino dal fallimento, cosa che avverrebbe comun-
que visto che non siamo la Grecia. Probabilmente ne ricaviamo anche preziose
informazioni con cui la nostra intelligence ha sinora tenuto al riparo il nostro pae-
se da attentati jihadisti, ma quel terrorismo da noi non ha ancora colpito perché ha
terreno di coltura assai meno favorevole che altrove. Quelle informazioni sono
utili, ma non decisive e non è detto che ci terranno al sicuro per sempre. Nel frat-
tempo, il nostro proflo nel Mediterraneo peggiora vertiginosamente. Non abbiamo
alcuna possibilità di usare l’America per perseguire i nostri imperativi, cioè tenere
lontane dai nostri confni potenze avverse che potranno un domani manipolarci.
80 6. Si veda F. PETRONI, «Quel poco che può fare l’Italia nel Medioceano», in questo volume alle pp. 147-155.
LEZIONI AFGHANE
Se le missioni militari, come spesso si sente dire, sono il principale strumento della
politica estera italiana, allora i casi sono due: o le missioni non piacciono poi così
tanto ai nostri alleati (ma tutto dice il contrario) oppure servono obiettivi di brevis-
simo periodo, nemmeno a evitare il nostro progressivo indebolimento. Segnale
tragico per il nostro paese.
Darci contingenti adeguati vorrà dire prepararci a nuove operazioni perché le
missioni come quelle in Afghanistan e in Iraq appartengono al passato. Le nostre
Forze armate restano ancillari, ma non dobbiamo più fornire nicchie così specif-
che. Nel prossimo futuro potremmo essere chiamati a combattere in prima perso-
na, al fanco di altri satelliti europei. Occorre recuperare un certo grado di autono-
mia, di completezza del comparto militare. Da soli non andiamo da nessuna parte.
Pensiamo a un nucleo più ristretto di paesi. Non sarà l’Europa della difesa perché
gli Stati Uniti sabotano sistematicamente ogni tentativo di creare un patto militare
che li escluda (la Nato continua a esistere unicamente per evitare che una potenza
europea possa mai dominare militarmente nel Vecchio Continente). Però possiamo
abbozzare una divisione geografca dei compiti. I tedeschi già guardano all’Est
Europa, dove gli americani hanno delegato loro parte del compito di tenere eco-
nomicamente in piedi l’Ucraina. Noi e i francesi dobbiamo occuparci del Mediter-
raneo. Il Regno Unito non può stare fuori. Occorre trovare un’intesa minima su
come appianare le rispettive divergenze di percezione su ciò che costituisce una
minaccia. Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
di intuibile come le Roe di Enduring Freedom e Isaf fossero molto meno restrittive
in relazione all’uso della forza rispetto a quelle della missione Alba. A ciò si aggiun-
ga che quando si opera in contesti internazionali a fanco di contingenti di altri
paesi, le regole di ingaggio vengono stabilite a livello sovranazionale – ad esempio
in sede Onu o Nato – al fne di garantire una certa omogeneità. In tali missioni, il
singolo paese può comunque porre delle limitazioni alle Roe, i cosiddetti caveat,
per limitarne la portata e renderle compatibili con la propria interpretazione del
mandato internazionale e con il diritto interno (così ad esempio il divieto di con-
segna dei prigionieri alle autorità del paese in cui si svolge l’intervento internazio-
nale qualora rischino la pena di morte, come in Afghanistan), oppure per ragioni
squisitamente politiche.
Vale la pena aggiungere che nell’aula del Senato l’allora ministro della Difesa
aveva specifcato che il comando Usa a capo di Enduring Freedom non aveva an-
cora fornito alcuna indicazione sulle regole di ingaggio applicabili, che non erano
state vagliate: vi è quindi la possibilità che esse siano formulate unilateralmente
anche da altro Stato.
Se le Roe vengono concepite ed elaborate ai massimi vertici della struttura
politico-militare, esse discendono successivamente nella loro applicazione pratica
a livello strategico-operativo, poi a quello tattico e infne al singolo militare sul
terreno, per il quale risultano essere le direttive che disciplinano l’uso della forza.
Per la migliore applicazione delle Roe, tuttavia, tale percorso deve essere compiuto
82 anche a ritroso per permettere all’autorità politico-militare di adeguare le regole di
LEZIONI AFGHANE
devono inquadrarsi come atti amministrativi (si discute se nella sottocategoria del-
le direttive/regolamenti o in quella degli ordini gerarchici) e, come tali, devono
rispettare le norme di rango superiore: i princìpi costituzionali, la costituzione e,
tramite questa, il diritto internazionale, ma anche le leggi e gli atti con forza di
legge. Le Roe vengono però citate nell’articolo 19 della legge 145/2016. Detta di-
sposizione stabilisce che non è punibile il personale che per la necessità delle
operazioni militari faccia uso ovvero ordini di fare uso delle armi, della forza o di
altro mezzo di coazione fsica «in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio
ovvero agli ordini legittimamente impartiti», salvo il caso dei crimini di cui allo sta-
tuto istitutivo della Corte penale internazionale.
In tal modo, il rispetto delle Roe diviene una precisa causa scriminante della
condotta del personale impiegato nelle missioni internazionali (in verità riprodu-
cendo disposizioni già presenti nelle precedenti leggi che autorizzavano o rifnan-
ziavano le missioni all’estero), inserendola positivamente nella generica fattispecie
dell’esimente «necessità militare». Nelle intenzioni, tale complesso normativo rende-
rebbe il rispetto delle regole di ingaggio – così come delle direttive e degli ordini
legittimi – una barriera insuperabile per chi dovesse o volesse controllare ex post le
condotte dei militari, competendo la delimitazione della «necessità militare» esclu-
sivamente all’autorità militare, dal vertice più alto fno, concretamente, agli uomini
impiegati nelle operazioni.
A questa ottativa costruzione, però, devono essere posti due limiti, uno di
carattere tecnico giuridico e uno, più generale, di tipo politico sociale. 83
LA LEZIONE DEL GULISTAN, TOMBA DEGLI ITALIANI
Per quanto attiene al primo aspetto, la stessa legge 145/2016 prevede che pos-
sa essere punito colui che utilizza o ordini di utilizzare armi, forza o coazione fsica
eccedendo colposamente i limiti della legge, delle direttive, delle regole di ingag-
gio e degli ordini legittimi. Al riguardo, l’agente può eccedere per errore sul fatto,
ritenendo cioè erroneamente che la situazione concreta gli imponga l’uso della
forza. Se tale errore è scusabile – dovendo però considerare anche la sua perizia e
l’addestramento – egli dovrà essere ritenuto privo di responsabilità, altrimenti do-
vrà essere condannata la sua condotta se l’esito delle sue azioni confgura un reato
colposo. Diversamente, la condotta andrà sempre perseguita qualora l’agente ab-
bia errato in diritto, cioè abbia percepito correttamente la situazione fattuale ma
abbia applicato un precetto sbagliato (ad esempio usando armi pesanti invece che
leggere).
Vi è poi l’ipotesi in cui l’ordine o la regola di ingaggio sia incompatibile con il
diritto interno. In tal caso, può essere sanzionato l’agente che commette un atto
«manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costitu-
isce comunque manifestamente reato» ai sensi dall’art. 729 del testo unico sull’ordi-
namento militare. Stante la necessità di una criminosità evidente, dovrà essere ac-
certato se essa era avvertibile dall’agente in base alla sua concreta scienza e cono-
scenza. Alla stessa fattispecie, poi, potrebbe essere ricondotto il caso in cui le Roe
siano contrarie ai princìpi di proporzionalità, necessità e tempestività nel risponde-
re alla minaccia. Ciò risulta rilevante anche perché nell’ambito di missioni interna-
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una volta tornati in patria. La mancanza di una coscienza sociale, politica e giuridi-
ca sulla questione, unita a un’evidente ritrosia nell’affrontarla, rende i nostri contin-
genti costretti nel recinto di regole troppo stringenti che non ne permettono il
concreto utilizzo per il conseguimento degli interessi strategici italiani – come indi-
viduati dall’autorità governativa – benché i militari sul campo possano comunque
pagare un grave e a volte esiziale prezzo, come purtroppo accaduto.
85
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LEZIONI AFGHANE
LIMES Da comandante militare, come valuta il ritiro degli Stati Uniti e degli alleati
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Nato dall’Afghanistan?
CAMPORINI Il ritiro si doveva concepire e attuare diversamente. Sarebbe stata neces-
saria una concertazione interna all’Alleanza Atlantica per defnire un piano che non
si traducesse in tragico fuggi fuggi generale. L’unica cosa che ha funzionato sono
stati i legami personali tra alti comandi militari alleati, mentre è mancato completa-
mente il coordinamento istituzionale. Risultato: un’operazione più che discutibile
non solo nella sua genesi, ma anche nella sua indecente realizzazione. Culminata
nella strage del 26 agosto a Kabul, che peserà a lungo, soprattutto in America.
LIMES Come è possibile che la superpotenza americana non abbia saputo organiz-
zare un ritiro decoroso?
CAMPORINI Gli apparati federali statunitensi non funzionano come un tempo. Il
caso afghano lo conferma. Sul malfunzionamento incide anche il fattore umano. I
servizi di intelligence si compongono di due categorie: una schietta, incurante
dell’interlocutore istituzionale, che generalmente resta inascoltata; l’altra più asser-
vita, pronta a produrre informazioni utili alla classe politica. La Casa Bianca, in
particolare con il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan, ha scelto di
dare ascolto a questa seconda categoria, che rassicurava sulle modalità di ritiro,
sottovalutandone rischi e implicazioni. Il Pentagono è stato tagliato fuori comple-
tamente, al pari della Cia. L’ex capo del controterrorismo dell’Agenzia per l’Asia
meridionale e sud-orientale Douglas London, supervisore delle attività in Afghani-
stan dal 2016 al 2018, ha affermato che la débâcle afghana è un fallimento geopo- 87
‘CON QUESTA AMERICA LA NATO NON FUNZIONA. COSTRUIAMO UN NUCLEO CON BERLINO E PARIGI’
ni britanniche. Dalla russofobia di Stati baltici e Polonia, alla opposta visione di noi
italiani imperniata sul Mediterraneo, a quella autocentrata della Francia. E poi c’è
l’ectoplasma tedesco.
La Germania, focalizzata sui Balcani, sul piano geopolitico è estremamente cauta e
su quello militare è in piena deriva. Prendiamo l’opt-out durante l’intervento Nato
in Libia nel 2011, che ha creato problemi seri all’Alleanza in quanto Berlino a un
certo punto ha deciso di ritirare gli uffciali inseriti nelle unità operative. Ad esem-
pio, quelli della fotta di velivoli radar di stanza a Geilenkirchen, i cui equipaggi
sono misti. Personale non rimpiazzabile nell’immediato. Così i tedeschi hanno
bloccato o complicato i voli.
La macchina militare tedesca non funziona e nessuno lo sa meglio dei militari te-
deschi. A metà del decennio scorso venne stilato un rapporto sullo strumento na-
vale della Germania, stando al quale dei sei sottomarini U-212 in servizio, macchi-
ne eccezionali, nessuno poteva prendere il mare per problemi di manutenzione ed
effcienza. E quand’anche fossero stati effcienti, sarebbero potuti salparne soltanto
quattro causa mancanza di equipaggio. A conferma che la qualità umana delle
Forze armate tedesche è segnata da problemi strutturali, anche perché la carriera
militare, in un paese che ai giovani offre for di opportunità, non è appetibile.
LIMES Quindi noi italiani che dovremmo fare?
CAMPORINI Sono un sognatore. Ritengo che un trauma come quello afghano possa
costituire la scintilla che fa detonare l’ordigno. Nell’Europa a 27 è pressoché impos-
sibile raggiungere un consenso, specie in materie delicate come quella militare. E 89
‘CON QUESTA AMERICA LA NATO NON FUNZIONA. COSTRUIAMO UN NUCLEO CON BERLINO E PARIGI’
allora che si mettano intanto d’accordo Italia, Francia e Germania e diano vita a un
nucleo capace di un salto di qualità istituzionale. Pensiamo a una qualche forma
federativa che preveda un accentramento delle funzioni di politica estera. A questo
punto diverrebbe ragionevole ipotizzare la formazione di Forze armate comuni.
LIMES Ammesso che il sogno si realizzasse, non si tradurrebbe in un triangolo a
conduzione francese?
CAMPORINI In circostanze usuali probabilmente l’Esagono si ergerebbe a primus
inter pares, ma la congiuntura in cui ci troviamo è straordinaria. La Germania si
prepara alla fne dell’èra Merkel ed è in cerca del prossimo cancelliere. In Francia
il presidente Macron versa in una situazione di estrema debolezza, testimoniata
dalla lettera frmata l’aprile scorso da migliaia di alti uffciali dell’esercito che ne
criticavano l’operato. L’Italia invece può contare su Draghi, l’unico leader capace
di aggregare consenso in Europa. E probabilmente anche Oltreoceano, visto che è
molto comodo disporre di paesi satelliti, ma lo è ancor di più avere come riferi-
mento un interlocutore percepito come paritetico, anche se il paese che rappresen-
ta non lo è affatto. Perciò sostengo che esistano le condizioni minime per il trian-
golo Italia-Francia-Germania.
LIMES Italia e Germania diverrebbero potenze nucleari.
CAMPORINI Lo sono già, sebbene non formalmente. Abbiamo armi nucleari sul no-
stro territorio, peraltro inutili sotto il proflo militare e geopolitico. Durante la guer-
ra fredda i reparti Strike, dotati cioè della capacità operativa di bombardamento
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
soldati e ai mezzi loro in dotazione. A detrimento dei reparti che non possono
essere adoperati in missioni internazionali. Tanto che se all’epoca mi fosse stato
chiesto di far partire tutti i nostri carri armati, se ne sarebbero messi in moto una
ventina, forse meno, e non è detto che, oltre il motore, gli altri sistemi avrebbero
funzionato.
LIMES Il mondo intorno a noi è cambiato e continua a muoversi, a partire dalla
sponda Sud del Mediterraneo, dove si sono installati turchi e russi. Eppure conti-
nuiamo a spiegare soldati in paesi per noi astrategici, come il Mali. Che ci stiamo
a fare?
CAMPORINI È una presenza meramente scenografca. Inviamo truppe soltanto per-
ché ce lo chiedono gli alleati o per motivi elettorali, domestici. Così dimostriamo
– fngiamo, nel caso del Mali – di curare alla radice fenomeni come quello migra-
torio. Anche perché c’è da superare la resistenza di nostri partner europei, quali i
francesi, che d’altronde in Mali fno a poco fa non ci volevano.
Il Libro bianco per la sicurezza e la difesa presentato nel 2015 dall’allora ministro
della Difesa Roberta Pinotti defnisce, benché in modo generico, le nostre aree di
interesse primario. Ma è rimasto lettera morta. E oggi si parla già di stilarne uno
nuovo. Il problema non è redigere un Libro bianco, è concretizzarlo. E qui pesano
le annose diatribe fra le Armi. In termini di ripartizione delle risorse ma anche di
teatri di interesse. Ad esempio, per la Marina il Mediterraneo allargato va dal Golfo
di Guinea alle coste occidentali dell’India, mentre per l’Aeronautica comprende
l’Islanda, il Baltico e così via. 91
‘CON QUESTA AMERICA LA NATO NON FUNZIONA. COSTRUIAMO UN NUCLEO CON BERLINO E PARIGI’
(Isi)?
CAMPORINI Il sostegno fornito dall’Isi ai taliban è stato totale, ma non si è mai tra-
dotto nel pieno controllo da parte pakistana. L’obiettivo di Islamabad era evitare
qualsiasi interferenza dell’India e l’ha raggiunto, ora quindi sente meno l’esigenza
di spendersi. Il problema riguarda più l’America, intenta a concentrare le risorse in
funzione anticinese e ad arruolare sodali. L’India, essenziale al contenimento della
Cina, è infatti la grande delusa della gestione americana del ritiro dall’Afghanistan.
Il rischio concreto è che si riapra la questione del Kashmir, visto il locale puzzle
geopolitico, nonché si accentui la tensione nel triangolo Delhi-Islamabad-Pechino.
LIMES Come risponde a quanti sostengono che i nostri militari siano morti invano?
CAMPORINI Concordo con il presidente del Consiglio Draghi, che ha sottolineato
come il sacrifcio dei 54 nostri soldati non sia stato inutile. Abbiamo perso degli
uomini, i quali hanno tuttavia lasciato un segno in Afghanistan. Ci sono semi che
una volta piantati si preparano a germogliare in un futuro più o meno prossimo:
gli sconftti del 1848 hanno preparato il terreno per l’unità nazionale dopo soli 13
anni. Purtroppo in Occidente la questione afghana continua a nutrirsi di clamore
mediatico-emotivo. Non si dibattono seriamente gli aspetti cruciali, geopolitici e
strategici. Per noi italiani, è la conferma di quanto siamo provinciali e superfciali.
Vizio antico, diffcilmente estirpabile.
92
LEZIONI AFGHANE
PERCHÉ E COME
SIAMO ANDATI
IN AFGHANISTAN di Germano DOTTORI
La partecipazione a Enduring Freedom e alle missioni Isaf e
Resolute Support come specchio di un modo ormai obsoleto di usare
la forza da parte italiana. I timori dei politici. Le lezioni apprese:
perché non abbiamo portato a casa quanto avremmo potuto.
valere punti di vista differenti rispetto a quelli del Pentagono. Questa volta – questo
era il ragionamento – l’America avrebbe dovuto essere totalmente libera nella de-
terminazione degli obiettivi e della maniera di conseguirli. Alla Nato venne per-
messo soltanto di trasferire sul territorio americano gli Awacs che peraltro gli stessi
gli Stati Uniti avevano concesso in uso comune all’Alleanza, in modo tale da poter
utilizzare i propri altrove, ovunque Washington lo avesse ritenuto più opportuno.
Sotto il completo ed esclusivo comando e controllo nazionale, l’America avviò
l’Operazione Enduring Freedom alla quale avrebbero preso parte, in posizione
subordinata, molti tra i maggiori alleati degli Stati Uniti.
Vi partecipammo subito anche noi, inviando nell’Oceano Indiano la portaerei
leggera Giuseppe Garibaldi, dalla quale si sarebbero levati in volo i nostri AV-8B
per illuminare dei bersagli che i velivoli dei marines avrebbero colpito sul suolo
afghano. Altri paesi amici degli Stati Uniti avrebbero fatto anche di più, prendendo
parte alle operazioni terrestri con le quali, dopo la caduta di Kabul, si era cercato
di catturare Osama bin Laden. Va comunque ricordato come Rumsfeld e il genera-
le Tommy Franks fossero riusciti in brevissimo tempo ad aver ragione dei taliban
impiegando poche dozzine di commandos inquadrati nei cosiddetti Alpha Teams 1.
Nessuno, a quel tempo, pensava a una vera occupazione, che era stata esclusa in
quanto si temeva suscettibile di innescare un’insurrezione 2. L’Afghanistan sarebbe
invece dovuto tornare nelle mani dei signori della guerra che se lo erano conteso
fno al 1996, con un debole esecutivo centrale nella capitale, guidato da una per-
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1. Le loro peripezie sono narrate in un volume di un certo interesse che il Pentagono ha fatto oscu-
rare in più punti. Cfr. G. BERNTSEN, R. PEZZULLO, Jawbreaker. The Attack on Bin Laden and Al-Qaeda,
New York 2005, Crown.
2. Scrisse il generale Tommy Franks: «Il segretario Rumsfeld e io eravamo d’accordo sul fatto che non
dovessimo riempire il paese con larghe formazioni di truppe convenzionali. “Non vogliamo ripetere
gli errori dei sovietici”. (…) La nostra impronta doveva essere leggera, per ragioni tanto militari quan-
94 to geopolitiche». Cit. in T. FRANKS, American Soldier, New York 2004, William Morrow, p. 324.
LEZIONI AFGHANE
3. Sappiamo dalle memorie di Tommy Franks che ai vertici del Central Command una richiesta di
opzioni operative per l’Iraq giunse dal segretario Rumsfeld già il 27 novembre 2001. Ivi, p. 315.
4. A esporsi in questo senso era stato il colonnello Roger King, all’epoca portavoce di Enduring Free-
dom, nel corso di una conferenza stampa tenuta nella base di Bagram il 3 febbraio 2003.
5. Il clima è reso effcacemente da quanto si può leggere nei resoconti di chi vi partecipò. Si segna-
lano a questo scopo G. BATTISTI, Penne nere in Afghanistan. Cronache dalla Missione Nibbio 1, Man-
tova 2004, Editoriale Sometti e E. CRAINZ, Missione in Afghanistan. Diario di un medico paracadutista
della Folgore, Milano 2006, Mursia Editore.
6. S.M. MALONEY, Enduring the Freedom: A Rogue Historian in Afghanistan, Washington 2005, Poto-
mac Books, p. 174. 95
PERCHÉ E COME SIAMO ANDATI IN AFGHANISTAN
4. Nel 2007 era ormai divenuto chiaro che l’Afghanistan non poteva più con-
siderarsi una storia di successo da contrapporre al disastro maturato in Iraq. Anche
le differenze originarie tra i mandati dell’Isaf e di Enduring Freedom svanirono,
perché entrambe le missioni si confrontavano ormai con gli stessi avversari. Gli
americani ripresero il controllo della situazione, assumendo anche il comando del-
la missione atlantica, che gli europei non avrebbero più esercitato. Al medesimo
generale statunitense sarebbe stata affdata la guida di entrambi i dispositivi. Si
stabilì altresì di ricorrere ai reparti inquadrati in Enduring Freedom in tutti i casi nei
quali fosse stato giudicato impraticabile l’impiego di effettivi alleati: ad esempio,
per effettuare omicidi mirati oltre la Linea Durand che separa l’Afghanistan dal
Pakistan. Casa Bianca e Pentagono avrebbero tentato di venire a capo del ginepra-
io in tutti i modi. Privilegiando a tratti l’approccio cinetico – cioè la potenza di
fuoco – e poi tentando di esportare nel teatro afghano la dottrina della counterin-
surgency elaborata da David Petraeus e da questi già testata con successo a Bagh-
dad, senza che peraltro ve ne fossero le condizioni. Vi sarebbe stato anche un
7. Si veda ad esempio S. COWPER-COLES, Cables from Kabul. The inside story of the West’s Afghanistan
campaign, London 2011, Harper Collins, pp. 116-118.
96 8. H. KISSINGER, «Perché gli Usa hanno fallito in Afghanistan», Corriere della Sera, 27/8/2021.
LEZIONI AFGHANE
2004
2005
2006
2007
2008
2009 1° dicembre 2009 - Gli Usa inviano ulteriori 30 mila soldati
2010
2 maggio 2011 - Bin Laden è ucciso in un’operazione
Barack Obama
2011
delle Forze speciali in Pakistan
2012
2013
2014 28 dicembre 2014 - La Nato termina la sua missione bellica nel paese
2015
2016 21 maggio 2016 - Il leader talibano Mullah Mansour è ucciso da un drone Usa
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2017
Donald Trump
2018
2019 29 febbraio 2020 - Gli Usa frmano un accordo storico
con i taliban per concludere il confitto e ritirare le truppe
2020
2021 14 aprile 2021 - Gli Usa annunciano l’evacuazione di tutto il personale militare entro il successivo 11 settembre
30 agosto 2021 - A mezzanotte un C-17 trasporta gli ultimi soldati americani via dall’Afghanistan
surge afghano, sotto Obama, che avrebbe dovuto procurare all’America il tempo
per negoziare con i taliban da una posizione di forza. Tutto invano. Per le sorti
dell’impresa si sarebbe rivelata decisiva la caduta d’interesse degli americani per
l’Afghanistan, successivamente allo scoppio delle «primavere arabe» e all’elimina-
zione di Osama bin Laden nel 2011. Da quel momento, infatti, l’impegno america-
no e occidentale sul suolo afghano sarebbe costantemente diminuito, mentre si
cercava di allestire Forze armate e di polizia locali in grado di rimpiazzarlo.
In tutto questo, dopo il 2007 l’Alleanza Atlantica sarebbe andata a rimorchio e
noi italiani con essa, tanto nella fase del potenziamento quanto in quella successiva
del ridimensionamento delle forze schierate. Il nostro paese avrebbe continuato a
occuparsi della regione occidentale afghana fno al termine dell’intervento nel giu-
gno scorso, occasionalmente schierando anche dei reparti a Kabul e ingaggiando 97
PERCHÉ E COME SIAMO ANDATI IN AFGHANISTAN
torio nazionale, in un teatro nel quale in apparenza non avevamo e non abbiamo
tuttora alcun particolare interesse da perseguire. In realtà, tuttavia, si tratta di un
giudizio affrettato, che non tiene conto delle reali motivazioni della nostra missione,
sensibilmente differenti da quelle con le quali la si è giustifcata.
Abbiamo perso, certamente. Ma non siamo stati noi a defnire gli obiettivi poli-
tici e le strategie utilizzate nel corso della campagna. La sconftta è stata statunitense
e atlantica, piuttosto, ed è maturata non a causa dell’invincibilità dell’avversario, ma
della crescente diffcoltà incontrata dai governi occidentali nello spiegare alle proprie
opinioni pubbliche le ragioni di un intervento costoso e privo di reali ritorni tangibi-
li. Dopo l’eliminazione di bin Laden e soprattutto l’emersione in Siria e Iraq dello
Stato Islamico, è divenuto più diffcile argomentare che si dovesse restare in Afgha-
nistan per combattere contro un terrorismo che aveva ormai allestito le sue centrali
in paesi assai più vicini. Anche la speranza di aiutare gli afghani a darsi uno Stato
moderno e rispettoso dei diritti umani avrebbe perso progressivamente la propria
9. Si tratta del sergente Andrea Adorno, autore assieme a Gastone Breccia di Nome in codice Ares,
Milano 2017, Mondadori. La motivazione della concessione dell’onorifcenza è eloquente: «Caporal
Maggiore Scelto, Alpino paracadutista, nel corso dell’Operazione Maashin IV, mirata a disarticolare
l’insurrezione afghana, conquistato l’obiettivo, veniva investito con la sua unità da intenso fuoco ostile.
Con non comune coraggio e assoluto sprezzo del pericolo, raggiungeva d’iniziativa un appiglio tattico
dal quale reagiva con la propria arma all’azione dell’avversario. Avvedutosi che il nemico si apprestava
a investire con il fuoco i militari di un’altra squadra del suo plotone, non esitava a frapporsi tra essi e
la minaccia interdicendone l’azione. Seriamente ferito a una gamba, manteneva stoicamente la posizio-
ne garantendo la sicurezza necessaria per la riorganizzazione della sua unità. Fulgido esempio di
98 elette virtù militari». I fatti ebbero luogo a Bala Murghab, nella provincia di Badghis, il 16 luglio 2010.
LEZIONI AFGHANE
presa, a dispetto delle reazioni emotive osservate dopo la vittoria talibana. Il motivo
vero che ci aveva portato a Kabul e Herat – e altri a Lashkar Gah, Kandahar, Kunduz
o Mezar-e Sharif – era stato la necessità di renderci utili agli Stati Uniti. E di condivi-
dere con loro il rischio dell’esposizione al combattimento e alle perdite. Anche nello
scorso agosto, nei giorni dell’evacuazione, siamo stati in fondo al fanco dei nostri
maggiori alleati ed è stato notato. In questo senso, siccome non spettava a noi il
compito di vincere o perdere la guerra, ma soltanto quello ancillare di sostenere gli
americani nel loro sforzo, la nostra missione non è affatto stata un insuccesso.
Costituiscono peraltro un persistente problema i limiti cui siamo andati incon-
tro anche in questa circostanza quando si è trattato di tradurre in benefci effettivi
i sacrifci sopportati. In altre parole, forse anche per l’impossibilità di mediatizzare
quanto facevamo davvero sul campo di battaglia, non siamo stati capaci di riven-
dicare per noi un ruolo di più alto proflo nell’Alleanza di cui facciamo parte, né di
convertire in margini di manovra più ampi per il nostro paese sulla scacchiera in-
ternazionale il prezzo pagato sotto forma di vite perdute e denaro speso per stare
in Afghanistan, dove si sono avvicendati in poco meno di venti anni oltre 50 mila
giovani in divisa al costo di 8,8 miliardi di euro e sono stati uccisi 54 militari italia-
ni. Tutto questo è forse dipeso anche dal mutare del contesto geopolitico comples-
sivo, una circostanza di cui dovremo tenere conto in futuro se vorremo evitare di
ripetere gli stessi errori. Il modello d’impiego cavouriano del nostro strumento
militare come pedina cui ricorrere per maturare crediti è probabilmente per il mo-
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rientali della squadra guidata dalla portaerei leggera Garibaldi, integrata dalla fre-
gata missilistica Zeffro, dal pattugliatore Aviere e dalla rifornitrice Etna, costituì il
primo atto della maggiore campagna militare di sempre nella storia italiana. Il con-
fitto – combattuto a 6 mila chilometri di distanza dalle basi nazionali – si è trasci-
nato per quasi 20 anni ed è stato caratterizzato in primo luogo dalle formidabili
complessità logistiche e operative del teatro. L’Afghanistan è un paese privo di ac-
cesso al mare, dunque diffcilmente raggiungibile, con una rete viaria arretrata e
ferrovie praticamente inesistenti, nonché contrassegnato da un territorio morfologi-
camente impervio e da un’instabilità sociopolitica diffusa. Complessivamente l’Italia
ha ruotato nel paese centroasiatico oltre 50 mila militari di tutte le sue Forze arma-
te, contando 54 caduti (compresa una cooperante) e circa 700 feriti. La missione ha
avuto un costo di 8,8 miliardi di euro, una cifra ragguardevole per un paese che in
media spende ogni anno un miliardo di euro per le missioni all’estero.
A fne 2001 la prima a intervenire fu appunto la Marina militare, in virtù delle
sue superiori capacità di proiezione che le consentirono di prendere parte alle
fasi iniziali dell’invasione fornendo supporto aerotattico alle forze di Stati Uniti e
Gran Bretagna nell’ambito dell’Operazione Enduring Freedom. La nostra fotta
partecipò inoltre al pattugliamento delle rotte passanti fra il Golfo Persico e l’O-
ceano Indiano e, nel complesso, mantenne una presenza continua in zona d’ope-
razioni con l’avvicendamento di altre 14 unità navali nell’arco dei cinque anni
successivi. Nel dicembre 2001 fu la volta dei reparti di terra: dapprima una dozzi-
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talibana nelle province. Fu così che durante la primavera 2004 l’avvicinarsi delle
elezioni presidenziali di ottobre e la situazione militare complessivamente precaria
spinsero il comando dell’Isaf a chiedere agli alleati di attivarsi direttamente per
garantire la cornice di sicurezza della cruciale tornata. La Difesa italiana mobilitò la
task force Cobra, composta in prevalenza dai 500 alpini del battaglione Susa (3°
reggimento della Taurinense), che operarono nell’ambito della missione Sparviero
come riserva mobile durante le settimane del delicato processo elettorale concluso
con la conferma al potere di Karzai. Nel 2005 lo spiegamento italiano venne ulte-
riormente ampliato, balzando a oltre 2.500 unità, per fronteggiare l’espansione
della nostra area di responsabilità nelle province occidentali di Herat (la base del
nostro contingente venne installata a Camp Arena), Farah, Badghis e Ghor e per
dare supporto alle nuove attività di ricostruzione svolte dagli occidentali a favore
della popolazione civile. Contestualmente il generale Mauro Del Vecchio assume-
va il comando dell’Isaf fra l’agosto 2005 e il maggio 2006; l’uffciale dell’Esercito è
stato il penultimo comandante non americano della grande missione internaziona-
le prima che gli statunitensi decidessero di assumerne direttamente il controllo dal
2007. In questo periodo vennero attivate diverse unità operative per far fronte ai
compiti specifci legati alla nostra presenza in teatro. Come la task force Victor su
base 185° reggimento ricognizione acquisizione obiettivi dell’Esercito, attiva dal
2003 al 2014 per la ricognizione, la sorveglianza e l’acquisizione obiettivi; oppure
la task force Air-Al Bateen dell’Aeronautica militare, basata dal 2002 negli Emirati
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Arabi Uniti (dal 2015 al 2021, task force Air-Al Minhad) per garantire l’indispensa-
bile appoggio aereo e logistico al nostro contingente in Afghanistan e negli altri
teatri operativi in cui l’Italia mantiene una presenza militare a est di Suez (Iraq,
Kuwait, Gibuti e bacini del Corno d’Africa). Altrettanto emblematiche la sfuggente
task force 45, l’unità di forze speciali attiva per un decennio a partire dal 2006
nell’Afghanistan occidentale per dare la caccia ai capi dell’insorgenza al fanco
delle controparti alleate e afghane, e la task force Genio su base 5° reggimento
genio guastatori e poi 21° reggimento guastatori dell’Esercito, che ebbe il compito
di assicurare la mobilità delle truppe della coalizione nel settore Ovest del paese e
di contrastare la grave minaccia rappresentata dagli ordigni esplosivi improvvisati.
Nel complesso la presenza militare italiana in Afghanistan si è mantenuta nu-
mericamente stabile fno al 2009, anno in cui il contingente lievitò a 3.200 unità
prima di superare la soglia dei 4 mila militari nel triennio 2010-12. Fatte le dovute
proporzioni, l’andamento ha seguìto quello della presenza militare americana sul
suolo afghano. Nel triennio in questione, infatti, gli Stati Uniti arrivavano a schiera-
re fno a 100 mila unità di personale combattente (dalle circa 30 mila del 2008) per
sconfggere l’insurrezione talibana, assistere le forze di sicurezza di Kabul e stabi-
lizzare il paese nell’ambito della nuova strategia di controinsorgenza dell’ammini-
strazione Obama. Nel biennio successivo la riduzione dei contingenti stranieri,
compreso quello italiano (sceso a 2.900 militari nel 2013 e poi a 1.872 nel 2014),
avrebbe anticipato la conclusione di Isaf e la sua sostituzione dal 2015 con la nuo-
va missione Resolute Support di assistenza e formazione alle forze di sicurezza 101
PERCHÉ E COME SIAMO ANDATI IN AFGHANISTAN
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102
LEZIONI AFGHANE
RITRATTO
DEI ‘NUOVI’ TALIBAN
VITTIME DEL SUCCESSO di Antonio GIUSTOZZI
A Kabul va in scena lo scontro tra leader politici e capi militari del
movimento: pragmatici e spiazzati dagli eventi i primi, oltranzisti e
miracolati i secondi. L’esito: emirato buio o islamismo all’iraniana. La
geografia dei sottogruppi. Il ruolo della vecchia élite. Il caos incombe.
camenti, che si sono intensifcati e allargati dal 2018 in poi. Non solo Karzai, ma
diversi leader della Società islamica (Jama’at-e-Islami) e del Partito dell’unità islami-
ca (Hezb-e Wahdat-e Islami) hanno cominciato a intrattenere contatti diretti e non
con i taliban, soprattutto per la sensazione che il successore di Karzai, Ashraf Gha-
ni, intendesse emarginarli.
Tali contatti hanno gradualmente iniziato a coagularsi nel piano sponsorizzato
dall’inviato speciale degli Stati Uniti, Zalmay Khalilzad, di un governo ad interim
che rimpiazzasse Ghani e presiedesse a negoziati volti a defnire un nuovo assetto
politico-istituzionale, mentre i taliban avrebbero dichiarato un cessate-il-fuoco. La
leadership politica dei taliban sembrava convinta di poter trarre benefcio da tale
piano, che congelando il confitto avrebbe impedito ai comandi militari talibani di
assumere un ruolo dominante. Tra leader militari e politici dei taliban, infatti, da
tempo non corre buon sangue: i primi sono per lo più restii a compromessi e ri-
vendicano un ruolo ai vertici del processo decisionale.
I taliban discutevano degli accomodamenti necessari a raggiungere un accor-
do con le élite politiche di Kabul: il governo provvisorio ventilato pubblicamente
da Khalilzad e dal segretario di Stato americano Antony Blinken avrebbe dovuto
sfociare in un governo ibrido che coniugasse elementi dell’Emirato e della Repub-
blica Islamica. I taliban sembravano puntare a un regime di stampo iraniano senza
peraltro ammetterlo, per non irritare gli elementi più ostili all’Iran che albergano
nei loro ranghi. Non doveva trattarsi di un clone, anche perché i taliban – prigio-
nieri della dottrina sunnita – mai potranno produrre qualcosa come il velayat-e 103
RITRATTO DEI ‘NUOVI’ TALIBAN, VITTIME DEL SUCCESSO
più dura e militarista. L’élite politica di Kabul si divide tra chi è riparato all’estero
perché vi si trovava al momento del collasso o perché era troppo compromesso con
Ghani, chi si è rifugiato nel Panjshir con la speranza di fondare un movimento di
resistenza e chi è rimasto deliberatamente nella capitale afghana per riannodare il
negoziato con i taliban. Tra questi ultimi fgurano l’ex presidente Karzai, Abdullah
Abdullah (capo dell’Uffcio per la riconciliazione) e Gulbuddin Hekmatyar (capo del
Partito islamico, Hizb-e Islami) che aveva già rapporti molto cordiali con i taliban.
Per una decina di giorni dopo la conquista di Kabul sembrava che i negoziati
per un governo di coalizione si fossero arenati. I capi militari e gli altri fautori del-
la linea dura avevano buon gioco a imporre la loro posizione: niente negoziati
sfbranti su ipotetiche architetture politico-istituzionali. Secondo diverse fonti (in-
terne ed esterne ai taliban, presso gli altri partiti afghani e in Iran) i taliban sembra-
vano indirizzarsi con decisione verso la proclamazione del secondo emirato e un
governo monocratico. Alla presidenza e al gabinetto dei ministri intendevano so-
vrapporre un consiglio guida, capeggiato dal loro leader supremo. Le ragioni prin-
cipali di tale linea sarebbero state due: la volontà di stringere il controllo sul paese
per contenere il caos incipiente e l’idea che la dissoluzione della Repubblica Isla-
mica attestasse lo scarso peso delle sue élite.
Nel nuovo corso la vecchia dirigenza politica avrebbe pertanto dovuto accon-
tentarsi di sponsorizzare nomine quali viceministri, capi dipartimento ed eccezio-
nalmente ministri per funzioni molto delicate come gli Esteri, le Finanze e la Sanità.
Alcuni membri della vecchia élite potevano essere nominati al Consiglio supremo,
dove sarebbero stati in minoranza rispetto ai taliban. Il presidente sarebbe stato
uno dei vice del leader Baradar: Yakub o Haqqani.
L’idea di indire elezioni suscitava ormai scetticismo; una fonte nel Consiglio
della leadership menzionava verso la fne di agosto che l’approccio preferito dai
taliban fosse una loya jirga, un consiglio dei rappresentanti delle diverse comunità
scelti dal potere centrale (ovvero dagli stessi taliban).
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ban nel Nord-Est sono ex miliziani di Rabbani che si sentivano emarginati dai lea-
der del partito. Non si può escludere che una simile disaffezione prenda piede nel
futuro, stavolta in direzione opposta.
concessioni ai volti nuovi della politica etnica, come Ahmad Massud, considerati
più rappresentativi e dotati di reale infuenza tra la popolazione. Massud vorrebbe
un’autonomia per le aree tagiche a nord di Kabul e nel Nord-Est, ma i taliban non
hanno alcuna intenzione di concedergliela.
Tra quanti concordano con Baradar sulla necessità di migliorare l’immagine
internazionale del regime molti preferirebbero affdare la presidenza a una fgura
neutrale piuttosto che a Karzai, visto come un manipolatore.
I taliban tagiki, sospettosi dei commilitoni pashtun, si sono risentiti e già si im-
maginano perdenti. Intanto i taliban dell’Est sono sempre più nervosi perché
sentono che quelli del Sud si apprestano a monopolizzare ancora una volta il
potere. Impazienti e poco fduciosi di poter ottenere rappresentanza ai vertici
dello Stato, alcuni taliban dell’Est hanno votato coi piedi e sono passati allo
Stato Islamico (Is). Nangarhar è la provincia affitta più seriamente. Dopo appe-
na due settimane dalla conquista del potere si è registrata la prima defezione
signifcativa: quella di Mansur Hesar, al comando di cinque unità per un totale
di 70 uomini. Secondo fonti locali Mansur avrebbe optato per la defezione per-
ché ignorato nelle nomine ai vertici della provincia di Nangarhar. Pochi giorni
dopo un altro gruppo di circa cento taliban operante tra Nangarhar e Kunar è
passato armi e bagagli all’Is.
Si tratta ancora di piccoli numeri, anche se sorprende la tempistica. La diri-
genza dei taliban sa che c’è il rischio di uno smottamento molto più ampio,
come accaduto nel 2014-15. Un comandante talibano proveniente dal Sud e
oggi assegnato alla sicurezza di Kabul spiega che nelle diatribe in corso i taliban
dell’Est minacciano frequentemente le controparti meridionali di passare all’Is e
quelli del Sud rispondono senza mezzi termini che i veri taliban sono loro, non
altri. Se i taliban non riescono a diventare pienamente rappresentativi del loro
stesso movimento, come potranno esserlo a livello statale? L’impasse tra leader
politici per lo più pragmatici e leader militari per lo più radicali rischia di far
deragliare la «rivoluzione». Al riguardo, l’arrivo di Haibatullah a Kandahar dal 107
RITRATTO DEI ‘NUOVI’ TALIBAN, VITTIME DEL SUCCESSO
Pakistan a fne agosto è importante: gli scettici tra i taliban sostenevano non si
trattasse del vero Haibatullah, ma di un sosia. Vero o presunto, il leader condur-
rà una vita ritirata come già il mullah Omar e pochi eletti vi avranno accesso
diretto. Il suo arrivo prepara comunque il terreno per una decisione importante
e controversa sugli assetti politici, che Haibatullah dovrebbe legittimare.
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108
LEZIONI AFGHANE
LA PROFEZIA DI GROMOV
OVVERO COME I RUSSI
SI SCHIERANO NEL DOPOGUERRA
La fallimentare spedizione americana in Afghanistan potrebbe
destabilizzare il fragile giardino di casa russo in Asia centrale. Per
questo Putin e Xi serrano le file e trattano con i taliban. La strana
coppia gode, per ora, del fiasco di Washington.
di Orietta MOSCATELLI
1. M. GORDON, «Putin rejected role for U.S. Forces near Afghanistan at summit with Biden», Wall Street
Journal, 19/8/2021, on.wsj.com/3mwYOpF
2. «Russia shows tentative willingness to let U.S. use Central Asia bases», The Moscow Times, 21/7/2021,
bit.ly/38bIdzw 109
110
ASIA CENTRALE TRA RUSSIA E CINA
CINTURA Lago
SUD-ORIENTALE d’Aral K A Z A K I S T A N
DELLA RUSSIA
KIRGHIZISTAN
Paesi favorevoli Competizione 10/8/21 inizio
russo-cinese X i n j i a n g esercitazione
al dialogo con i taliban per gli idrocarburi Dušanbe militare congiunta
Confne elettrifcato Termez TAG I KIS
TA Cina/Russia
N
(144 km)
Confne fragile
Provincia afghana di Kunar sede turkmeno-afghano
dello Stato Islamico-Provincia lungo 804 km
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di Khorasan (circa 2.200 terroristi
Kabul Jammu
afliati alla branca afghana dell’Is) C I N A
LA PROFEZIA DI GROMOV OVVERO COME I RUSSI SI SCHIERANO NEL DOPOGUERRA
AFGHANISTAN e
Aree tribali (Pakistan)
Islamabad Kashmir T i b e t
Poligono militare
Confne tra Cina e Afghanistan
sotto stretto controllo cinese
da ieri. Il leader russo ha deciso almeno sei anni fa di scommettere sugli studenti
coranici e strutturare una relazione certo pericolosa, potenzialmente profcua e
ancora tutta da mettere alla prova. L’inviato presidenziale per l’Afghanistan Zamir
Kabulov si è convinto 3 – e poi ha convinto i vertici russi – che i taliban non ab-
biano mire fuori dal paese, né territoriali né ideologiche o dottrinali. E che valga la
pena di assisterli nella fase attuale, in cui controllano buona parte del territorio e la
guerra civile è opzione dietro l’angolo. Tanto più che le delegazioni talibane danno
alle repubbliche ex sovietiche dell’area, Uzbekistan e Turkmenistan in particola-
re, le stesse rassicurazioni fornite a Mosca, quindi meglio fare chiarezza in fretta
sulla gerarchia degli interlocutori. La Russia, tuttavia, non ha le forze e neppure
suffcienti motivazioni per una strategia indipendente da applicare all’Afghanistan
post-americano. Ammette e accetta che ogni iniziativa dovrà passare al vaglio della
Cina, del Pakistan, oltre a fare i conti con l’insofferenza indiana e con gli interessi
non secondari dell’Iran e della Turchia. Da qui l’attivismo diplomatico di Mosca,
avvantaggiata nelle sue aspirazioni negoziali da buoni rapporti con tutti i paesi
destinati a contare nel primo tempo della nuova partita afghana. L’idea che guida
i russi è molto semplice in teoria. A complicarla ci penserà la pratica, sempre che
alla pratica si arrivi. Il Cremlino vorrebbe una sorta di patto tra potenze regionali
per impedire in prima istanza la disintegrazione dell’Afghanistan dall’interno e un
3. «Afghanistan after US withdrawal: a security vacuum forever?» Valdai Club video, 21/7/202, bit.
ly/3gC9X4P 111
LA PROFEZIA DI GROMOV OVVERO COME I RUSSI SI SCHIERANO NEL DOPOGUERRA
rilancio dei fussi jihadisti verso l’esterno. L’intesa di massima prevede l’accettazio-
ne del primato dei taliban, che a loro volta accettano di rinunciare al monopolio
assoluto del potere fuori dalle loro aree di reale controllo. Vanno combattuti grup-
pi e gruppuscoli terroristici inevitabilmente tendenti al superamento delle porose
frontiere afghane, evitando doppi o triplici giochi per proteggerne uno e inde-
bolirne un altro. La produzione di oppio va frenata, se non azzerata, e bisognerà
mettere sul piatto i fondi per compensare i coltivatori oltre ai mezzi per contrastare
i traffcanti. I taliban vietarono le colture di oppio ai tempi del loro primo giro al
potere, nel 2000, e per la Russia con milioni di tossicodipendenti, morti da overdo-
se in impennata nel 2020, incidenza di Hiv in ascesa e controtendenza mondiale,
il problema dell’eroina di origine afghana è essenziale. La questione ha creato
tensioni anche con gli Usa, sordi alle richieste russe di sradicamento coatto delle
coltivazioni, a parte una simbolica operazione di distruzione di quattro laboratori
nel 2010. Secondo i russi, questi pochi punti rappresentano un interesse minimo
condiviso in diversi gradi da tutti, perseguibile indipendentemente da quale parte
etnica o politica del puzzle afghano si voglia favorire.
Alla base del ragionamento c’è la più evidente delle minacce che la regione
torna ad affrontare con la ritirata statunitense. «Non intendiamo ritrovarci con guer-
riglieri di un tipo o dell’altro, magari con lo status di rifugiati, come accaduto negli
anni Novanta e a metà del primo decennio del secolo, quando la guerra è arrivata
di fatto nel Caucaso del Nord», ha detto Vladimir Putin il 23 agosto 4, criticando le
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4. «Putin warns against spill over of radical Islam from Afghanistan», 23/08/2021, bit.ly/3kx6WEi
5. «Russia will not hurry to recognize Taliban regime in Afghanistan: Special Envoy», 15/8/2021, bit.
112 ly/3gxOLwO
LEZIONI AFGHANE
Tagikistan, dove un alto funzionario ha ipotizzato accoglienza per 100 mila, subito
smentito dal ministero degli Esteri. Numeri di poco conto, che sono tali perché
Turkmenistan e Uzbekistan (favorevoli al dialogo con i taliban) non accettano
collaboratori degli americani in cerca di rifugio e in generale perché non ci sono
mezzi per fronteggiare spinte migratorie più consistenti. Sulla scia del ritiro Usa, il
Tagikistan ha rimpatriato almeno 1.500 cittadini afghani. L’Uzbekistan a scanso di
equivoci si era già dotato di una doppia barriera elettrifcata lungo i 144 chilometri
di confne con l’Afghanistan. Gli Stati centroasiatici temono inoltre che la vittoria
talibana si trasformi in una nuova primavera dell’estremismo religioso in casa loro,
con le conseguenze del caso. Anche per questo alzano un po’ il tiro, prospettando
scenari estremi di disordini e combattimenti che travalicano all’interno dei loro
confni. Sviluppo comunque ritenuto possibile anche da diversi osservatori della
regione, come Jennifer Murtazashvili dell’Università di Pittsburgh 8, secondo cui
gruppi e schegge della galassia Is sono meno interessati alle dirette sorti dell’Afgha-
nistan che ai paesi ex sovietici più a Nord, con gli occhi anche alla Russia.
Qala-yi Bagram
Bamiyan
Chaghcharan Jalalabad
Herat Srinagar
Kabul
Panjab
A F G H A N I S TA N Ghazni Gardez Islamabad
Shindand
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Moqor PA K I S TA N
Tarin Kowt
Farah Punti d’entrata dei supporti
LA PROFEZIA DI GROMOV OVVERO COME I RUSSI SI SCHIERANO NEL DOPOGUERRA
12. B. GROMOV, D. ROGOZIN, «Russian advice on Afghanistan», The New York Times, 10/1/2010, nyti.
ms/3yho3yI 117
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LEZIONI AFGHANE
LA GRANDE
MUTAZIONE di Francesca MARINO
L’invenzione dei ‘nuovi taliban’, buoni, aperti e gentili. Come si è
costruita la rappresentazione rassicurante dei terroristi afghani,
sostenuta da Pakistan e Cina. I giovani signori dei troll imparano
in fretta e penetrano perfino nel New York Times. Il caso Haqqani.
ta dappertutto le impronte degli Haqqani. E però, questi sono i taliban 2.0, «en-
tità distinte», secondo Washington, dagli Haqqani. Ai taliban bisogna dare una
possibilità, gli Haqqani e soprattutto l’Is-K non hanno nulla a che vedere con gli
ex studenti di teologia. Il fatto che l’Is-K abbia strettissimi legami sia con i taliban
sia con la rete Haqqani, e che Haqqani e taliban lavorino insieme da vent’anni,
non signifca nulla.
La campagna d’immagine
Come non signifca nulla il fatto che il Pakistan, dove tutti questi signori
hanno soggiornato negli ultimi vent’anni, gestisca da remoto le organizzazioni
suddette facendole giocare nella stessa squadra o l’una contro l’altra a seconda
della convenienza. Riproponendo la vecchia storia dei terroristi buoni e terroristi
cattivi: i «taliban 2.0» sono buoni e vogliono la pace, l’Is-K è cattiva. Bisogna da-
re sostegno ai taliban, e soprattutto riaprire i cordoni della borsa, se si vuole
sconfggere l’Is-K. La strategia ha dato per anni i suoi frutti, e continua a darli.
Anche perché adesso è supportata da una campagna di immagine in grande
stile. I taliban sono nuovi, difatti, almeno da un punto di vista: la presenza sui
social e la strategia mediatica. «I taliban odierni sono estremamente capaci ed
esperti nell’adoperare la stampa e i social media. Niente a che vedere con i tali-
120 ban di vent’anni fa» ha commentato Rita Katz, direttore esecutivo del Site Intelli-
LEZIONI AFGHANE
In corsivo le tribù pashtun, Turi e Zazi appartengono alla stessa unità tribale.
Fonte: schema di C. Schetter, secondo S.Z. Kahn, “Afhan Refugees in Pakistan: the Possibility of Assimilation”, in E.W. Anderson, H. Dupree (a cura di),
The Cultural Basis of Afghan Nationalism, Oxford 1990, p. 146; A.H. Khan, The Durand Line. Its Geo-Strategic Importance, Islamabad 2000.
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degli attacchi suicidi e poi la gestione della sicurezza del nuovo governo di Ka-
bul, e i due gruppi hanno campi di addestramento comuni in Afghanistan e in
Pakistan. E visto che il for fore della dirigenza taliban, i «taliban 2.0», ha vissuto,
ha studiato ed è stato addestrato negli ultimi vent’anni in Pakistan, anche per
quanto concerne la gestione dei media e social media conviene non guardare
troppo lontano e dare un’occhiata, prima di tutto, oltreconfne. E ricapitolare un
po’ di dati interessanti riguardo alla presenza dei taliban sui social.
Secondo una ricerca condotta di recente da Alto Analytics, i taliban hanno
dimostrato una impressionante capacità di distribuire e generare contenuti social
per diffondere il loro verbo. Riescono a generare circa 1.700 tweet in meno di
due ore: il che vuol dire, sempre secondo Alto Analytics, pubblicare in quel las-
so di tempo otto video, una media di quattro contenuti scritti e una cinquantina
di comunicati stampa. Secondo un’indagine pubblicata dal New York Times, inol-
tre, a partire dal 9 agosto sono stati creati più di cento nuovi account su Twitter
e Facebook, legati ai taliban o a loro aperti sostenitori. Che si aggiungono agli
svariati account già in mano ad alti papaveri del gotha del jihåd locale, sia paki-
stano sia afghano. Questa vera e propria rete di reali e più spesso falsi account
social lavora di concerto per pubblicare video, slogan, immagini varie e comuni-
cati stampa. Lo stesso messaggio viene condiviso e ritwittato da ciascun account
fno a raggiungere fatalmente siti e utenti che con i taliban non hanno nulla a
che vedere. In quel momento, la notizia viene rivestita da una vernice più o
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meno labile di verità perché proviene da una fonte «convenzionale». Suona fami-
liare? A chi si occupa di organizzazioni jihadiste, comprese quelle di Stato, certa-
mente sì. Conviene quindi, come sempre quando si parla di taliban e altri jihadi-
sti assortiti, dare un’occhiata dalle parti di Islamabad, tanto per restare sul sicuro.
mond, una «giornalista freelance con base in Francia». Beaumond, che secondo
il network è francese, ha preso due lauree alla Sorbona e ha «colloborato con
tutti i maggiori media francesi», ha vissuto sette anni in Cina, in particolare a
Ürümqi, capitale del Xinjang. E sostiene di non riconoscere affatto, nel Xinjiang
descritto dai media occidentali, in cui avvengono persecuzioni ed è in atto un
vero e proprio genocidio culturale e fsico, il Xinjiang da lei sperimentato. Beau-
mond accusava di mistifcazioni i media occidentali, e descriveva il suo persona-
le Xinjiang come il paese dei campanelli. Assomiglia moltissimo ai tweet di Lijian
Zhao? Non è un caso. Perchè Laurène Beaumond, così come Katherine George,
non esiste. Di lei non c’è traccia in nessuna redazione francese, all’ordine dei
giornalisti locale o sui social media. Madame Beaumond è difatti parte dell’ulti-
ma trovata propagandistica dell’unione tra Pechino e Islamabad: i falsi giornali-
sti. Anzi, le false giornaliste. Meglio se bionde e occidentali. Nota a margine:
l’unico altro sito ad avere ripreso e pubblicato integralmente l’intervista alla falsa
Beaumond è stato Defence.pk, gestito dall’esercito pakistano. Il principio è in
realtà molto semplice: fai ripetere la stessa affermazione falsa da fonti multiple,
disparate e «autorevoli» e diventa automaticamente una quasi-verità.
Taliban 2.0
Così come sta diventando vangelo il brand «taliban 2.0», che a questo punto
124 viene amplifcato, come già messo in evidenza, non soltanto da bot e falsi ac-
LEZIONI AFGHANE
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operato in Pakistan e dal Pakistan negli ultimi venti anni. Dal suo rifugio si è
spostato soltanto per andare a occupare il proprio posto a Kabul, come capo
della sicurezza del nuovo governo. Chi meglio di un terrorista può controllare e
gestire altri terroristi? Intanto, su media e social media, la charm offensive per
trasformare un gruppo di tagliagole nei «taliban 2.0» è cominciata da subito. Il
principio è sempre quello: ripeti una cosa e falla ripetere fno a che diventa vera.
Anche se la verità dei fatti la smentisce.
L’offensiva social dei taliban parte da lontano e inizia, secondo l’Atlantic
Council di Washington, nel lontano 2011 quando gli ex studenti di teologia si
sono evidentemente laureati e sono sbarcati su Twitter per creare poi, nel 2014,
il loro primo canale Telegram. I primi video girati da operatori jihadisti hanno
cominciato a circolare timidamente negli anni seguenti per arrivare, nel 2019, a
una vera e propria offensiva. Al momento la presenza sui social media dei tali-
ban è di tutto riguardo. Pubblicano su Twitter, Telegram e WhatsApp in sei lin-
gue: arabo, inglese, pashto, persiano, turco e urdu. Alcune chat sono riservatis-
sime, altre no, ma tutte funzionano più o meno allo stesso modo. E siccome i
messaggi condivisi mostrano il numero di telefono dei partecipanti, se ne dedu-
ce che simpatizzanti o aspiranti jihadisti provengano in maggioranza da Arabia
Saudita, Kuwait, Pakistan, Emirati Arabi Uniti e dallo stesso Afghanistan. Esiste
poi Al Emarah, canale uffciale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, che fun-
ziona da rivista e anche da agenzia di stampa. Al Emarah viene diffuso via Tele-
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gram ma possiede anche un sito Web uffciale. Dall’8 agosto, Al Emarah è com-
parso anche su Twitter per condividere video e notizie che riguardavano la
conquista di città e cittadine nell’avanzata verso Kabul. Contemporaneamente, si
sono attivati qualche centinaio di account pro taliban che hanno condiviso e
ritwittato i video lanciati da Al Emarah totalizzando più di mezzo milione di vi-
sualizzazioni in meno di 24 ore.
Gli stessi video sono stati in seguito lanciati da una fonte più uffciale. Un
noto think tank di open source intelligence con sede a Londra è diventato difat-
ti dalla sera alla mattina uno dei più grossi sostenitori dei «nuovi taliban», insi-
stendo sul fatto che bisognerebbe dare una possibilità a questi poveri ragazzi di
provare al mondo la loro buona fede. Lo stesso think tank, per mano di uno dei
suoi dirigenti, postava video dei combattenti mentre si divertono sulle macchini-
ne dell’autoscontro, mentre mangiano un gelato, mentre vanno sull’altalena.
Commentando che «in fondo, questi ragazzi non hanno mai avuto un’infanzia».
Certo, il dirigente in questione era «scomparso» di recente da Karachi per cinque
giorni, gradito ospite delle prigioni segrete dell’Isi. Ma di sicuro questo non ha
nulla a che vedere con l’improvviso cambio di rotta. E Clarissa Ward della Cnn,
prima di essere costretta a scappare da Kabul perché presa di mira dai poveri
ragazzi senza un’infanzia, commentava (cito testualmente): «Urlano “morte all’A-
merica”, ma sembrano tanto amichevoli». E amichevolmente, kalashnikov alla
mano, esponenti di secondo rango dell’organizzazione cominciano ad apparire
126 alle spalle di anchor televisivi afghani durante il telegiornale.
LEZIONI AFGHANE
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LEZIONI AFGHANE
COSA VUOLE
L’IRAN
DAI TALIBAN di Giorgio CAFIERO e Arman MAHMOUDIAN
Memore dell’oltranzismo talibano negli anni Novanta, Teheran è oggi
pronta a intavolare relazioni pragmatiche con gli ‘studenti’, lieta che
gli Usa smobilitino. Purché Kabul rispetti gli sciiti e non destabilizzi
il confine comune. Intanto, la Repubblica Islamica riarma a est.
relazione con l’Afghanistan è stata complessa per decenni – osserva con attenzione
gli sviluppi. Teheran teme nuove ondate di rifugiati, armi, droga ed estremismo; si
interroga inoltre sul futuro degli interessi iraniani nel paese, che includono la sicu-
rezza delle comunità sciite hazara. Eppure, l’Iran può anche trarre vantaggio dal
ritorno dell’Emirato Islamico d’Afghanistan.
Le reazioni iraniane ai recenti sviluppi afghani evidenziano la cautela con cui
la Repubblica Islamica si sta muovendo per adattarsi alla nuova realtà del vicino
orientale. L’approccio è pragmatico e punta a minimizzare i rischi che promanano
dal paese. Per analizzare la prospettiva iraniana sull’incerto futuro dell’Afghanistan,
è però fondamentale comprendere storia e natura delle relazioni Iran-taliban.
Nel 1998 il gruppo fondamentalista sunnita degli studenti coranici attaccò il
consolato iraniano a Mazar-e-Sharif, uccidendo otto diplomatici e un giornalista.
L’episodio portò Iran e Afghanistan sull’orlo di un confitto armato. All’inizio della
«guerra al terrorismo» statunitense successiva agli attacchi terroristici dell’11 settem-
bre 2001, Teheran agevolò il rovesciamento dei taliban da parte degli Stati Uniti e
dei loro alleati. Malgrado la lunga storia di ostilità con Washington, ciò non deve
stupire: la Repubblica Islamica considerava infatti gli «studenti» una grave minaccia
a sé stessa e agli sciiti afghani.
Tuttavia, negli ultimi vent’anni i rapporti tra Iran e taliban sono cambiati.
Teheran e il gruppo afghano hanno intessuto relazioni pragmatiche, la prima mo-
tivata soprattutto dall’idea che il secondo avrebbe potuto trarre grande vantaggio
dall’eventuale ritiro delle forze americane e della Nato. Non estranea all’equazione 129
COSA VUOLE L’IRAN DAI TALIBAN
è l’ascesa della costola afghana dello Stato Islamico (Is), il cosiddetto Is-Khorasan
nemico di Iran e taliban, che di fronte alla minaccia posta dalla formazione hanno
fatto causa comune. Ciò spingerà verosimilmente Teheran a cooperare con il nuo-
vo governo dei taliban, malgrado persistenti tensioni come quelle relative al desti-
no della valle del Panjshir, che hanno creato un primo screzio.
Oggi in Iran e nel mondo ferve il dibattito sull’attuale natura dei taliban. Alcu-
ni iraniani affermano che gli studenti coranici del 2021 differiscano sostanzialmen-
te da quelli dei tardi anni Novanta e primi Duemila: a giugno Kayhan, quotidiano
iraniano ultraconservatore, ha affermato che «i taliban odierni non sono più quelli
che decapitavano la gente» perché quest’anno il gruppo non ha «compiuto crimini
orribili simili a quelli dello Stato Islamico in Iraq» 1. Il giornale affermava anche che
i taliban non rappresentano più nemmeno una minaccia agli sciiti afghani. Più di
recente alcuni falchi iraniani hanno evidenziato la postura anti-occidentale dei ta-
liban, affermando che questa sia un motivo suffciente per accogliere di buongrado
il ritorno al potere del movimento, malgrado i passati contrasti.
Altri dissentono e si dicono preoccupati del fatto che Teheran non comprenda
la misura in cui i «terroristi talibani» minacciano il loro paese e il confne con l’Iran.
Persone di lingua persiana in Iran e Afghanistan hanno espresso sui social media
l’idea che la dirigenza iraniana stia sorvolando sul passato violento degli studenti
coranici, compreso il duro trattamento di donne e afghani hazara. In questo conte-
sto, alcune autorità religiose sciite hanno chiesto ai governi dei paesi stranieri, ma
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anche a quello iraniano, di agire contro i taliban 2. Alcuni hanno messo in guardia
Teheran dal «fdarsi» del gruppo 3. In ogni caso, il rapporto con i «nuovi» taliban
sarà motivo di continuo dibattito in Iran, dov’è probabile che al riguardo non emer-
gerà mai un consenso unitario.
Inoltre, come mesi fa i droni iraniani sono stati impiegati a Gaza, in Iraq e nello
Yemen, è possibile che l’Afghanistan sia la prossima arena in cui i velivoli verranno
adoperati dai clientes di Teheran. Resta comunque da capire quale impatto sulle
relazioni con i taliban avrebbe l’uso di queste milizie sciite da parte dell’Iran.
Sotto questo proflo, occorre infatti considerare che l’Afghanistan è uno dei
principali mercati per i prodotti iraniani. Il valore medio dell’export iraniano nel
paese è di due miliardi di dollari 4. Mantenere aperto tale mercato è vitale per Tehe-
ran, specie fntanto che le sanzioni ne schiacceranno l’economia. È facile prevede-
re che qualsiasi azione drastica dell’Iran contro i taliban ostacolerebbe l’accesso
iraniano all’economia afghana.
La Repubblica Islamica ha anche altri interessi minacciati dall’instabilità in Af-
ghanistan. Il progetto di Chabahar ne è un chiaro esempio. Nel 2016 Iran e India
raggiunsero un accordo 5 in base al quale Delhi si impegnava a investire 1,5 miliardi
di dollari nello sviluppo del solo porto oceanico dell’Iran, Chabahar appunto, co-
struendo tra l’altro una ferrovia che lo connettesse a Zahedan. Fine ultimo del dise-
gno era connettere l’India all’Afghanistan, il che avrebbe schiuso alla prima le copio-
se risorse minerarie del paese centroasiatico per un valore di oltre mille miliardi di
dollari 6. Il progetto incrementa il valore geopolitico dell’Iran per l’India, oltre a for-
nire a Teheran una notevole fonte di entrate e ad aiutarla a sviluppare il Balucistan,
regione iraniana prossima al Pakistan la cui volatilità si ripercuote sulla Repubblica
Islamica. Il successo della strategia dipende tuttavia dalla stabilità dell’Afghanistan,
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pertanto un aumento del caos afghano sarebbe nocivo sia per l’Iran sia per l’India.
proprio territorio.
L’Iran trae pertanto vantaggio da alcuni sviluppi in Afghanistan. Per esempio,
gli iraniani possiedono ora molte armi di fabbricazione statunitense consegnate
loro da afghani rifugiatisi oltreconfne 14. Tuttavia, la Repubblica Islamica si è pre-
parata allo scenario peggiore: quando l’uscita degli Stati Uniti dall’Afghanistan è
apparsa inevitabile, ha rafforzato il quartier generale «martire Ghajarian» dei Guar-
diani della rivoluzione sul confne orientale stabilendo cinque nuovi centri opera-
tivi a ridosso della frontiera 15. Inoltre ha cercato di proteggere i propri alleati da
eventuali attacchi dei taliban. Ismail Khan, grande amico dell’Iran ed ex governa-
tore della provincia di Herat, dopo essere stato interrogato dai taliban è volato in
Iran e ora vive a Mashhad sotto la protezione dei pasdaran 16, il che dimostra che
Teheran si tiene comunque pronta a una guerra diretta o per procura con i taliban.
Si può dire insomma che l’Iran è ottimista circa la sua relazione con gli studenti
10. «Iran resumes a crucial lifeline to Afghanistan: Fuel», Al Jazeera, 24/8/2021.
11. Z. Cohen, K. Bo WilliamS, B. StaRR, «Afghanistan withdrawal will likely dismantle a CIA intelligence
network built up over 20 years», Cnn, 18/4/2021.
12. «I taliban hanno ucciso il fratello del comandante del gruppo terroristico Jaish al-Adl», Tasnim
News, 19/8/2021.
13. Cfr. il tweet di V. naSR del 19/8/2021, urly.it/3f95r
14. I. naaR, «Video: Afghan military fee near Iran border prior to Taliban push», Al Arabiya, 14/8/2021.
15. «Aggiornamento della base di Shahid Qajarian con cinque posti operativi nell’area di confne», Irib
News, 6/2/2021.
16. S. JaafaRi, «Former warlord Ismail Khan led a militia against the Taliban. He spoke to The World
132 days before Afghans lost the fght», The World, 16/8/2021.
LEZIONI AFGHANE
sciita, astenendosi altresì dal compiere qualsiasi azione che minacci la sicurezza
nazionale iraniana. Pur avendo condannato i «nuovi» taliban per non essersi mo-
strati inclusivi e per il loro «ricorso alle armi» 17, Teheran desidera dare loro l’oppor-
tunità di intavolare relazioni positive. Ciò dipenderà in gran parte da come i taliban
imposteranno le loro politiche verso l’Iran e da come quest’ultimo deciderà di tu-
telare i propri interessi in Afghanistan.
Parte II
nel MEDIOCEANO
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di CASA
ci SONO gli ALTRI
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LEZIONI AFGHANE
PERCHÉ L’ITALIA
NON IMPARERÀ
LA LEZIONE AFGHANA di Dario FABBRI
Incapaci di elaborare una strategia, cediamo alla moralistica, alle
fantasie sull’esercito europeo. Le ragioni storico-antropologiche di
tanta inettitudine. Qualche antidoto: intervento in Tripolitania,
vigilanza sullo Stretto di Sicilia, cauta presenza nell’Indo-Pacifico.
di perseguire i suoi obiettivi e di rendersi utile agli americani, esempio per noi
irraggiungibile. Con la Tunisia emblema della nostra caduta, segnata in que-
ste ore da una lotta per l’infuenza tra potenze esterne cui non partecipiamo,
preferendo attardarci nell’inutile dibattito sulla diffusione della democrazia nel
Maghreb. Ennesimo cortocircuito, conseguenza di errori mai risolti.
G
Lajes Field, Azzorre
(Aeronautica)
Aviano (Aeronautica)
ROMANIA
Vicenza Mihail Kogălniceanu
(Esercito) Deveselu (Congiunta)
(Nato) Ma r
PORTOGALLO Mar Nero
Pisa-Livorno (Esercito) Ca sp io
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SPAGNA
ITALIA
Napoli (Marina)
Kürecik
Rota (Marina) (Congiunta)
TURCHIA İncirlik
GRECIA (Aeronautica)
e sofferenza. Cui nelle ultime ore si sono aggiunte altre distrazioni di stampo
ideologico, utili per peggiorare la nostra congiuntura, già ampiamente com-
promessa.
3. Redigere una corretta scala di priorità è compito decisivo per ogni col-
lettività. Una popolazione che non sa riconoscere ciò che conta è destinata
a ripetere i medesimi errori – fno a estinguersi. Indugiare in dolci sofsmi
mentre Roma brucia è un lusso che può costare caro. Attitudine tipicamente
italica, condotta al parossismo nelle ultime settimane. Quando, al fanco delle
speculazioni afghane da intellettualismo impegnato, sono apparse imperdibili
elaborazioni riguardanti le Forze armate europee.
A coltivare tanta immaginazione soggetti disparati. Gli ultramoderni che
ritengono démodés gli eserciti nazionali, politologi che ripetono l’immaginifca
cantilena per cui in un mondo multipolare (quale?) soltanto un’Europa unita
(quale?) può dire la propria, fno agli aedi dell’integrazione comunitaria a più
velocità, pronti ad applicare alla Difesa quanto realizzato con la moneta unica,
certi della dimensione progressiva della costruzione europeistica.
Faccenda cui non varrebbe neppure la pena occuparsi, se non per chiu-
dere il discorso. Giacché l’esercito europeo non nascerà mai. Non solo per
l’assenza di un governo comunitario, realtà che ogni critico tende a ricordare
immediatamente, spesso condendo tale valutazione con il dispiacere per la
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tori che passano dal territorio maghrebino. Senza provare dispiacere per la
nostra irrilevanza nel golpe in corso, di cui pure potremmo benefciare se saprà
ridurre il peso di Ankara. Condizione tragicamente lontana da quanto capitava
nel 1987, quando la nostra intelligence insediò a Tunisi Zine El-Abidine Ben
Ali, rimasto al potere per un quarto di secolo prima d’essere rovesciato dalla
rivoluzione dei gelsomini, ovviamente benedetta dai media italiani, ignari delle
ripercussioni geopolitiche.
Proprio nel quadrante che dovrebbe interessarci di più. Dirimpetto allo
Stretto di Sicilia, collegamento inaggirabile tra i due oceani più importanti del
mondo, solcato da molteplici potenze. Specie dal Regno Unito, in piena frene-
sia da sfaldamento interno 2. Oltre che dalla Russia, dalla Cina, dall’immanca-
bile Turchia.
Senza che questo incida sul nostro sconsiderato andare al mondo. Indiffe-
rente a quanto capitato in Afghanistan e nel nostro intorno.
4. Non servono antichi adagi per stabilire con discreta certezza che, in
assenza di puntuta autoanalisi, si è destinati a ripetere i medesimi errori. Nel
prossimo futuro l’Italia continuerà ad agire a rimorchio degli Stati Uniti, incu-
rante del proprio bene, salvo impensabili miracoli. In quanto provincia di un
impero altrui il nostro margine di manovra è alquanto risicato, verità che spes-
so sfugge agli osservatori meno smaliziati, persuasi della natura arbitraria di
una sfera di infuenza. Ignorare le richieste di Washington resterà diffcilissimo,
pena incappare in consistenti rappresaglie. Ma con maggiore acume è possibile
muoverci al fanco della superpotenza senza risultare autolesionistici.
Così agiscono Regno Unito, Francia e perfno Germania, principali nazio-
ni tributarie degli Stati Uniti, in grado di perseguire il loro interesse pure se
costrette in un sistema straniero. Da sempre Parigi irradia la sua infuenza nel
mondo dentro il campo washingtoniano, anche in forma velleitaria, sfruttando
il notorio complesso di inferiorità che gli americani conservano nei confronti
della République.
Londra partecipa al contenimento statunitense della Cina anche per tra-
sferire verso l’esterno le tensioni provocate nel Regno dalle rivendicazioni
delle genti celtiche, per garantirsi il sostegno della superpotenza contro il
revanscismo scozzese e nordirlandese. Berlino fornisce il minimo apporto alle
richieste americane, spesso solo attraverso la propria intelligence dipendente
dalla Cia, al fne di non sciupare i rapporti con la Repubblica Popolare e con
la Russia.
Esempi utili al Belpaese, apparentemente sprovvisto di tale accortezza.
Defcienza destinata ad approfondirsi nei prossimi anni, quando gli americani
pretenderanno dagli europei occidentali di schierarsi contro la Cina. Impegno
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da fornire entro uno schema assai rigido, come richiesto dal capo del Penta-
gono, Lloyd Austin, che lo scorso luglio ha preteso perfno dai britannici una
condotta maggiormente disciplinata durante le sortite nell’Indo-Pacifco 3, se-
gnalando la propria insofferenza per iniziative troppo disinvolte, in grado di far
precipitare la situazione. Esigendo da Londra anche un maggiore impegno tra
Mediterraneo e Artico. Senza dubbio il più rilevante pronunciamento dell’anno,
teso a segnare i confni entro i quali dovranno stare i clientes. Durezza che al
solito consiglierà Roma di muoversi contro i suoi interessi, per mero spirito
di partecipazione. A differenza di Francia, Regno Unito e Germania che, pure
all’interno della partizione della Nato immaginata da Washington 4, sapranno
certamente conservare le loro prerogative.
Formalmente appartenenti all’Indo-Pacifco in quanto detentori di Réunion,
Mayotte, Nuova Caledonia, Wallis e Futuna, Polinesia nazionale, i francesi già
contribuiscono alle iniziative contro la Cina per propria volontà, senza attende-
re l’eventuale chiamata americana, conservando buoni rapporti con Pechino.
Addirittura, ergendosi a fttizi protettori dei tagiki del Panjshir, improbabile
resistenza contro il dominio dei taliban sull’Afghanistan.
3. Cfr. K. HILLE, J. CAMERON-CHILESHE, D. SEVASTOPULO, «Britain “more helpful” closer to home than in Asia,
says US defence chief», The Financial Times, 27/7/2021.
4. Cfr. D. FABBRI, «Nord Stream 2. La Cina val bene un tubo», canale Youtube di Limes, 23/7/2021. 143
PERCHÉ L’ITALIA NON IMPARERÀ LA LEZIONE AFGHANA
con la classe politica divisa sulle cosiddette misure d’accoglienza, giammai sul-
le iniziative da adottare per aumentare la nostra infuenza nel Nord Africa op-
pure nei Balcani, luoghi inaggirabili per la sopravvivenza del Belpaese. Senza
comprendere come agire nella situazione in cui siamo conftti. In barba a ogni
comprensione dell’esperienza afghana.
144 5. Cfr. D. FABBRI, «La nuova acrobazia degli americani», Limes, «Se crolla la Russia», n. 6/2021, pp. 83-91.
LEZIONI AFGHANE
ad arginare la presenza della Russia, senza curarsi del cliente che svolge tale
compito.
Medesimo discorso per la perlustrazione dello Stretto di Sicilia, nostra mas-
sima necessità, braccio di mare che gli americani non vogliono concedere ai
cinesi, affdando tale onere a chiunque voglia accollarselo, al momento soprat-
tutto a francesi e britannici. Quindi dovremmo mostrarci fortemente contrari
al dominio tedesco sull’Europa, altro dossier cui gli Stati Uniti sono molto sen-
sibili, disarticolando l’eccessiva ingerenza di Berlino, per evitare che questa ci
soffochi, per magnifcarci Oltreoceano – stando attenti a non perdere i soldi del
Recovery Fund garantiti dalla cancelleria tedesca. Ancora, dovremmo ritrovarci
nell’Indo-Pacifco con sofsticata cautela, per partecipare al contenimento della
Repubblica Popolare senza distruggere la relazione bilaterale, come capita a
ogni satellite americano, compreso il Regno Unito.
Quanto basterebbe per razionalizzare la nostra azione, per contare sul
concreto conforto degli Stati Uniti. Evoluzione tanto indispensabile quanto im-
probabile. Nonostante la lezione afghana.
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LEZIONI AFGHANE
ci aspetta là fuori.
L’Italia sconta un drammatico calo della rendita strategica agli occhi degli Stati
Uniti. In geopolitica vive di rendita chi è in grado di usare la propria posizione
geografca per soddisfare i propri bisogni. Tale capacità non è mai solo frutto delle
abilità di una nazione. Conta anche, spesso soprattutto, quanta importanza ti attri-
buiscono gli altri. Specie se sei satellite di una sfera d’infuenza. Cioè se ti è sottrat-
ta parte della libertà di manovra strategica e tattica. Dunque se le decisioni che ri-
guardano la tua difesa dipendono da ciò che fa o non fa la potenza egemone.
Questo secondo fattore è particolarmente decisivo nel caso dell’Italia. La no-
stra Penisola ha svolto un ruolo cruciale nel soddisfare gli imperativi strategici degli
Stati Uniti. È stata il primo territorio sul quale gli Usa hanno messo piede durante
la seconda guerra mondiale per puntare al cuore del continente, sconfggere la
Germania e sottomettere l’Europa occidentale. In seguito, è stata teatro della com-
petizione con l’Urss perché infltrata da possibili clienti del nemico (aveva il più
grande partito comunista dell’Ovest) e praticamente confnante con la sua sfera
d’infuenza (specie in mare, con la Marina sovietica che operava al largo di Puglia
e Sicilia). L’America ha domato le minacce alla sua esistenza anche a partire dall’I-
talia.
Questa importanza soggettiva ci conferiva un non disprezzabile margine di
manovra. Ci ha permesso di rilegittimarci dopo il crollo del fascismo. Ha fatto pro-
sperare la nostra economia. L’ha allacciata alle altre del blocco europeo dell’Ame-
rica, soddisfacendo la nostra necessità di sfogare il surplus produttivo all’estero. Ci 147
QUEL POCO CHE PUÒ FARE L’ITALIA NEL MEDIOCEANO
connessi fra loro da traffci di merci, cavi e navi da guerra. E per di più segmenti
della medesima strategia, quella americana, che ha in Asia l’unico rivale davvero
temibile ma in Europa la sfera d’infuenza più preziosa. Tuttavia, la mancanza di
una minaccia esistenziale nel Medioceano occidentale impedisce alla pianifcazio-
ne statunitense di saldarlo a quello asiatico. E di conseguenza all’Italia di profttare
come in passato della centralità geografca. La penetrazione della Cina nei porti del
Mediterraneo è in stallo: una volta che le neghiamo infrastrutture e tecnologie sen-
sibili abbiamo fatto la nostra parte. La cortina di ferro con la Russia si è spostata
centinaia di chilometri verso est, allontanando da noi la fascia di territorio europeo
che assorbe il grosso delle attenzioni americane. Paesi come la Romania sono oggi
più importanti del nostro nella gestione operativa dello schieramento militare.
L’Italia ottiene davvero che l’America si preoccupi di noi soltanto quando è in
gioco la nostra sopravvivenza. Interviene per questioni di vita o di morte, perché
se il nostro paese fallisse andrebbe in crisi la gestione della sua sfera d’infuenza
europea. La nostra valenza sistemica è evidente nell’Eurozona: gli Stati Uniti ap-
poggiano le richieste nostre e dei francesi di archiviare l’austerità tedesca nel dopo-
virus per sottrarci al baratro, non per reindustrializzarci. Questa carta ha effetto
lungo l’asse alpino-renano della nostra geopolitica. Non lungo quello mediterra-
neo. Dal mare semplicemente non provengono ancora minacce tali da far temere
un collasso dell’Italia. Osservato dallo Stretto di Sicilia, il nostro potere di ricatto
appare molto sbiadito. Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Dinamica già evidente nelle Libie, dove con la scusa di sostenere la guerra di Õaf-
tar sono arrivati saltando di oasi in oasi alle porte del Ciad. Da lì, alcuni guerriglie-
ri ciadiani al soldo del Gruppo Wagner hanno approfttato della copertura e
dell’addestramento ricevuto per lanciare un’offensiva nel paese di provenienza,
fnendo per uccidere il presidente Idriss Déby. Non è escluso che l’eliminazione
dell’uomo forte di N’Djamena rientri nel disegno di Mosca di destabilizzare il Sahel
per condurvi i propri uomini. Anche perché a sud del Ciad c’è la Repubblica Cen-
trafricana dove ormai i russi si sono sostituiti ai francesi come potenza di riferimen-
to, al punto che Emmanuel Macron defnisce le autorità di Bangui «ostaggio del
Gruppo Wagner» 2. Il patrocinio di Mosca viene invocato persino dai golpisti in
Mali, che hanno inscenato una patetica manifestazione florussa a Bamako per at-
tirarsi le grazie del Cremlino.
L’obiettivo di Mosca di creare una continuità territoriale fra mare e Centrafrica
è palese in un’altra tentata incursione, quella in Sudan, per il momento in stallo.
Nel dicembre 2020 i russi annunciavano un accordo per una base navale a Porto
Sudan, ad aprile la Marina locale è stata istruita a impedire l’ingresso della fotta
straniera 3 e a luglio il governo di Khartûm ha dichiarato di voler cambiare alcune
clausole dannose del contratto.
La Turchia ha paura di non poter sfogare la sua ambizione nazionale a tornare
grande potenza. Di continuare a subire l’esclusione dal mare. Pertanto, si è lancia-
ta nelle guerre libiche sostenendo il governo di Tripoli che noi italiani avevamo
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governi locali – peraltro in calo, il Ciad ritira metà dei 1.200 uomini al fronte. L’o-
pinione pubblica preme per riportare a casa les gars, peraltro con la classe guer-
riera in odor di insubordinazione perché mandata a combattere l’ennesima folle
guerra al terrorismo mentre in patria la convivenza con i musulmani assume toni
da guerra civile 5.
Proprio il fronte interno è l’altro motore della fobia parigina. La Turchia spa-
venta perché la Francia ce l’ha in casa. Forma gli imam, controlla luoghi di culto,
incoraggia il separatismo sociale a cui Macron ha dichiarato guerra. Anche i saudi-
ti o i marocchini fanno lo stesso, ma il punto è che i turchi sono in competizione
con i francesi per spazi marittimi e nordafricani, dunque possono coltivare quinte
colonne per agevolare i propri obiettivi. Se la sfda russo-francese è latente e miti-
gata dalla tradizionale utilità di Mosca in funzione antitedesca, la sfda turco-fran-
cese è già caratteristica strutturale della geopolitica mediterranea. Dal Marocco a
Cipro, passando per l’Algeria, la Tunisia, le Libie, non esiste teatro in cui Ankara e
Parigi siano dalla stessa parte. L’ideologia non c’entra nulla: il fatto che la Turchia
usi i Fratelli musulmani come vettore di proiezione non è dirimente. Nemmeno per
i regimi per cui l’islam politico è oppositore interno: Arabia Saudita, Emirati Arabi
Uniti ed Egitto, sempre più schierati con la Francia e contro la Turchia. Continue-
ranno a dar battaglia ai turchi anche quando questi smetteranno di poggiare sulle
fliali della Fratellanza. L’asse franco-arabo non vuole permettere ad Ankara di
estendere la sua sfera d’infuenza. Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
5. F. AGNOCCHETTI, «Le lettere dei militari, Macron e il futuro della Francia», limesonline, 21/5/2021. 151
QUEL POCO CHE PUÒ FARE L’ITALIA NEL MEDIOCEANO
no l’ostilità verso gli etiopi e gli algerini quella verso i marocchini. Il tutto mentre le
potenze esterne soffano felici sul fuoco, con russi e turchi a vendere armamenti agli
algerini anche perché il Marocco si è ultimamente avvicinato ad arabi del Golfo,
Israele, America e Francia in cambio della legittimazione dell’annessione del Sahara
Occidentale. Il rischio di guerre fra Stati diventa sempre più concreto.
Il quadrante più preoccupante per l’Italia è ovviamente quello Libie-Tunisia.
Nelle prime vige una tregua armata in vista di elezioni che non decideranno niente,
al massimo certifcheranno l’infuenza turca sull’esecutivo di Tripoli e daranno la
scusante agli esclusi per riprendere le armi, con l’interessato apporto di chi vorreb-
be cacciare il turco. Il fatto che i russi abbiano scavato un vallo fra Tripolitania e
Cirenaica e stiano rinforzando la loro presenza formale (militari e agenti d’intelligen-
ce) rende velleitario lo pseudo-accordo (peraltro preliminare) con cui Mosca e
Ankara si impegnano al «graduale» ritiro dei mercenari. Un ritorno della violenza
spazzerebbe via tutti gli sforzi di Italia, Francia e Germania per ricostruirsi una pre-
senza in un teatro in cui non controllano niente perché hanno rinunciato a sparare.
La Tunisia è il perfetto esempio di che cosa dovrebbe suscitare il terrore italia-
no. Mentre il nostro paese dibatte seriamente se l’accentramento dei poteri com-
piuto dal presidente Kaïs Saïed sia costituzionale o un golpe e se sia in pericolo
l’«esperimento democratico» locale, ciò che conta sono due aspetti. Primo, potenze
diverse dall’Italia si contendono l’infuenza a Tunisi. Secondo, il paese è sempre
meno controllabile.
152 Il colpo di Saïed di fne luglio è stato salutato da sauditi, egiziani, emiratini e
1 - IL MEDIOCEANO NELLA STRATEGIA AMERICANA
M e d i o c e a n o a r t i c o
Federazione Russa
Germania
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Oceano Oceano Indiano
ano
Atlantico Cerchio eurasiatico
Perni del Cerchio
eurasiatico
Australia Giuk gap
Gibilterra
Nuova Zelanda Canale di Suez
Bāb al-Mandab Paesi asiatici
Avversari degli Usa alleati Usa
Stretti di Malacca
Numero 1 Medioceano occidentale Medioceano asiatico Stretto di Taiwan
Protezione Poco impegno Usa Forte pressione Usa e dei soci Pressioni Usa
Numero 2 della Stretto di La Pérouse dal Pacifco
e qualche delega a Regno Unito asiatici per il contenimento
Numero 3 madrepatria e Francia di Pechino Stretto di Bering verso la Cina
I colli di bottiglia
2 - LA MARCIA TURCA 1
1 Kerč’
Tar Mar Nero
Ma an 2 Bosforo
rsa to 2
xlo 2 3 Ankara
Bis kk Mar 3 Dardanelli
er t (M 1 Aliağa (İzmir) T UR CH IA Caspio
a ALT 4 Gibilterra
4 5 A) Konya
TUN. 3 6 7 8 5 Stretto di Sicilia
Sfax
6 Mare di Creta
Tājūrā’
Oceano Tripoli 4 5 Misurata
6 7 Dodecaneso
Atlantico .
al-Watiyya 9 8 Golfo di Alessandretta
A LG ER IA 9 Canale di Suez
Mar
Ramo atlantico
Ro
ss
o Ramo indo-pacifco
M A LI Corridoio del Mediterraneo centrale
Sawākin 9
NIG ER
Dakar 7 SENEGAL
SUDAN
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GAMBIA 10
S O MA L IA
Infrastrutture costruite o controllate dalla Turchia E TI OPI A
1 Porto di Aliağa Origine del corridoio afro-oceanico Oceano
2 Porto di Taranto della Turchia Indiano
3 Porto di Malta Sbocchi oceanici dell’Anatolia
4 Aeroporto internazionale di Mitiga (Tripoli) Snodi imprescindibili del corridoio 8 Mogadiscio
5 Aeroporto militare e base navale di Misurata afro-oceanico della Turchia K E N YA
6 Base aerea di al-Watiyya
. Paesi di rilevanza strategica per il
corridoio afro-oceanico della Turchia
7 Aeroporto internazionale Blaise Diagne di Dakar
Arco d’interdizione mediterraneo
8 Aeroporto internazionale e porto commerciale di Mogadiscio della Turchia - Zee turca
9 Progetto di base militare turca sul Mar Rosso Arco d’interdizione mediterraneo TANZA NI A
Centri di addestramento delle Forze armate libiche della Turchia - Zee libica
Russia Libano
Israele
Cipro
Mar Nero
Crimea Turchia
Egitto
Bulgaria Creta
Romania
Grecia
Albania
Mont.
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Libia
Croazia
Sicilia Malta
Italia
Francia
Algeria
O c e an o
A tl a n t i co
Spagna
Marocco
3 - MEDIOCEANO DI CASA
Fonte: www.marinevesseltrafc.com
4 - LA SICILIA ALLA DERIVA Golfo di Italia in crisi
Taranto esistenziale
S ardegna
Ponte sullo Stretto,
necessità strategica
Cagliari Capo Carbonara Calabria
Via della seta
Gioia Tauro marittima
Verso Gibilterra Zona controllata
ORDOLANDIA Palermo da milizie amazigh
Messina Reggio Calabria (berberi)
C A O S L A N D I Favignana
A S I TA L I A Capo Spartivento al-Haṭṭ
tr Strada litoranea
S i c i l i a Sigonella
Biserta
e Mazara del Vallo Reticolato lungo
il confne Tunisia/Libia
tt Niscemi
Augusta
o Direttrici migratorie
Capo Bon
Tunisi
d Basi Usa in Italia
Pantelleria i Portopalo di Capo Passero
S Radar italiani
ic La Valletta
il
Linosa MALTA O L A N D I A
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Lampione S L A N D I A
C A O
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TUNISIA Lampedusa Verso Suez
ALGERIA
nel caos Tratto della rotta dei tre oceani:
Atlantico-Indiano-Pacifco
Pro
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ra M A R M E D I T E R R A N E O lan
Ben Guerdane wā d ia
Zu Tripoli
al-Hatt Limite delle acque interne libiche non riconosciuto dall’Italia
(la linea) Tripolitania Cirenaica
turca Misurata Golfo della Sirt e rus s a
LEZIONI AFGHANE
francesi, informati preventivamente dal presidente dei suoi intenti. Hanno benedet-
to l’iniziativa e poi fnanziato il regime per stroncare l’ingresso della Turchia me-
diante la vendita di armamenti (tra cui i richiestissimi droni) e il fnanziamento
della branca locale della Fratellanza musulmana. Al punto che Erdoãan ha convo-
cato ad Ankara il leader del partito islamista Ennahda a riferire degli eventi tunisini.
Assenti, se non con parole pro forma, gli Stati Uniti, cui interessa soltanto che una
potenza ostile non si installi sull’altra estremità dello Stretto di Sicilia, di cui già
controllano la sponda Nord e che ad agosto, a golpe avvenuto, hanno ribadito
nella loro disponibilità organizzandovi una parte dell’esercitazione African Lion.
Altrettanto rilevante, il parlamento controllato da Ennahda è stato esautorato
con esorbitante supporto popolare. Alla manifestazione di protesta organizzata dal
partito islamista non c’era praticamente nessuno. Prova della crisi di legittimità di
uno dei pochi attori collettivi rimasti in Tunisia, oltre alle forze di sicurezza, sulle
quali si scatenerà la gara a farsele clienti (i turchi ci contano per non venire estro-
messi). È un segnale inquietante della sempre maggiore incontrollabilità di 11 mi-
lioni di persone senza prospettive: la disoccupazione giovanile è sopra il 30% e il
39% delle piccole e medie imprese ha chiuso. Il collasso della Libia ha causato un
calo del pil di un quarto per via delle mancate rimesse di operai e professionisti
che vi lavoravano. Lo spazio tunisino rischia seriamente di fnire fuori controllo.
Dopo il 2011, i tunisini sono emigrati al ritmo di 50 mila persone l’anno, so-
prattutto verso l’Italia. Tunisini sono i responsabili dei principali episodi terroristici
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darebbero scacco matto alla nostra sicurezza. Non potremmo farci rappresentare
dai francesi perché verremmo giustamente presi per ridicoli, dal momento che le
loro operazioni nordafricane si giocano da un secolo e mezzo anche in funzione
anti-italiana. Senza attitudine al mare e senza interesse popolare per quanto accade
al largo della Sicilia, non potremmo nemmeno giustifcare con la pressione pubbli-
ca un sussulto nordafricano.
Condannata all’immobilismo nell’immediato, l’unica cosa da fare per l’Italia è
preparare il futuro, anche prossimo. Iniziando quantomeno a esplicitare la nostra
strategia: impedire al caos di superare lo Stretto di Sicilia. È pure già disponibile
una narrazione internazionalmente accettabile: l’Italia contribuisce al mantenimen-
to dell’ordine alle porte dell’Ue e sul fanco Sud della Nato. Dovremmo poi artico-
larla in una serie di tattiche. Ma servono presenza in Nord Africa e rango sui mari.
L’Italia al momento non ha nessuno dei due in termini sostanziali. Questa coppia
di imperativi disegna due assi prioritari. Il primo va per mare dalla Sicilia a Gibuti,
dove abbiamo una base da mantenere perché sbocco del Medioceano presso Båb
al-Mandab. Il secondo va dalla Sicilia fno in Niger.
Immaginiamo cinque tattiche lungo questi due assi, dalla più concreta alla più
futuribile (vedi carta a colori 4 dell’editoriale).
La prima: recuperare la responsabilità delle nostre acque. Gli americani vo-
gliono che gli europei si concentrino sul Medioceano occidentale. Un confitto
Usa-Cina nel Medioceano asiatico inevitabilmente scaricherebbe qualche mareg-
154 giata in quello occidentale. Dunque stiliamo piani di guerra, conduciamo eserci-
LEZIONI AFGHANE
tazioni e facciamoci intestare la protezione di uno o più segmenti delle rotte più
importanti del mondo, che conferiscono rango a chi le garantisce. Iniziativa mol-
to più utile che un viaggio dimostrativo delle nostre navi nell’Indo-Pacifco, poco
più di una crociera di piacere.
La seconda: trovare un’intesa con le potenze a noi più vicine. Con la consueta
dabbenaggine, l’idea americana è che per inerzia Francia e Regno Unito freneranno
lo slancio russo-turco nel Mediterraneo. Ignorando le decisive differenze nelle per-
cezioni della minaccia: i britannici demonizzano i russi e firtano con i turchi; i fran-
cesi l’esatto contrario. Fra i due, sceglieremmo Parigi perché meno lontana dalle
nostre percezioni e dotata di mezzi meno che fantastici, dunque disposta a sfruttarci
per raggiungere i suoi obiettivi. Nella mentalità transalpina (e degli europei tutti),
Europa e Mediterraneo sono nettamente separati. Compito della nostra diplomazia
è spiegarle che non è così ed è per noi impossibile impegnarci in un trattato come
quello del Quirinale senza prima intenderci su come usarci a vicenda sul fronte Sud
(ovviamente non sta avvenendo, ciò che declassa l’accordo a mera coreografa).
La terza: ricostruire l’infuenza italiana in Tunisia, con l’obiettivo di reinstallare
una classe dirigente almeno in parte espressione della nostra capacità.
La quarta: concentrare le missioni militari lungo i due assi appena schizzati. Nei
nostri schieramenti deve esserci una ratio geografca, non si può mandare un con-
tingente nel Golfo di Guinea e uno al largo della Somalia, in nome di un non meglio
precisato interesse europeo o collettivo. Facendo un poco tutti, si fa la sicurezza di
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Roma dal mare – dove i romani si attestano per fronteggiare la pirateria, ma anche
per cogliere le enormi opportunità che il mare offre. Ostia però non sarà mai un
grande centro di navigazione. Come porto non funziona: i sedimenti portati dal
Tevere ne insabbiano costantemente i fondali. Lo sapeva bene Claudio, che vi
spese somme ingenti con scarsi risultati. Traiano riuscì a dargli una sistemazione
soddisfacente, ma non tale da renderlo un porto commerciale: non ne aveva le
caratteristiche.
LIMES Qual è allora lo sbocco al mare decisivo per Roma?
CAPOGROSSI COLOGNESI Ce lo dice il primo importante documento di storia romana a
noi pervenuto: il trattato tra Roma e Cartagine riportato da Polibio, datato in modo
affdabile al 509 a.C., primo anno della Repubblica, quando Roma si afferma sugli
etruschi e arriva a dominare il Lazio. Lì sono indicate come dipendenti da Roma
solo le città marinare: Anzio, Ardea, Terracina, che i cartaginesi si impegnano – se
espugnate – a non aggredire o comunque a conservare, restituendole intatte a Ro-
ma. La ragione del trattato sta nelle persistenti relazioni con i circuiti marinari, anche
nel momento in cui si distacca dagli etruschi, avviandosi ad assumere una rilevanza
autonoma nel Lazio e nell’Italia centrale. Con essa evidentemente i cartaginesi,
grandi navigatori, intendono conservare buoni rapporti. In cambio Roma si impe-
gna a non navigare a ridosso delle coste cartaginesi, in un patto di non belligeranza
che sarà poi rotto dalle guerre puniche. Quanto fossero rilevanti gli interessi marit-
timi per Roma arcaica lo attesta anche il fatto che, oltre ai porti richiamati nel tratta-
to con Cartagine, questa città avesse una relazione tutta particolare con Cerveteri, 157
158
Impero romano nel 180 d.C. Giorni di navigazione
Alexandria-Massilia: 30
Fortezze legionarie Puteoli-Alexandria: 15-20
Roma-Caesarea: 20
Eburacum Rotte marittime Alexandria-Cyrene: 6
Deva Byzantium-Caesarea: 20
Strade
Isca Colonia Gades-Ostia/Roma: 9
Londinium Agrippina
‘IL MARE SECONDO ROMA’
Dubris
Gesoriacum Panticapaeum
Mogontiacum
Rotomagus Augusta T. Castra Regina
Lutetia Aquincum
Vindobona Potaissa
Augustedunum Trapezus
Aquileia Sinope
Viminacium
Lugdunum Patavium Odessus Satala
Burdigala Ravenna Salonae Naissus Melitene
Byzantium
Arelate Ancyra
Massilia Ancona
Tolosa Narbo
Roma Thessalonica Nicephorium
Ostia Pergamum Tarsus
Tarraco Brundisium
Capua Antiochia
Side
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Puteoli Tarentum Palmyra
Toletum Ephesus
Felicitas Julia Athenae
Damascus
Emerita Augusta
Sparta Tyrus
Carthago Messana Rhegium
Corduba Nova
Syracusæ Cnossus Caesarea
Gades Malaca
Hippo Regius Gortyn Gaza
Carthago
Cirta Petra
Tingis
Pelusium Aelana
Theveste Alexandria
Cyrene
Leptis Magna Berenice Memphis
Sabrata
Myos Hormus
Leucos Limen
Thebae
IL MEDITERRANEO DI ROMA Berenice
LEZIONI AFGHANE
anche, se non soprattutto, con il suo grande emporion marittimo di Pyrgi, dove nel
1964 fu rinvenuta la famosa lamina d’oro in tre lingue – punico, etrusco e greco, i
tre grandi idiomi del Mediterraneo preromano. Tutto ciò conferma, per l’età com-
presa fra fne VI e inizio V secolo avanti Cristo, la consolidata integrazione di Roma
nel sistema mediterraneo, da cui repubblica e impero traggono linfa. Nell’età imme-
diatamente successiva all’espansione romana in Campania, un ruolo fondamentale
sarà assolto dal grande porto di Pozzuoli. La sua consistenza, infatti, permette l’at-
tracco di grandi navi da carico, rendendolo lo snodo da cui transiterà nel corso
delle età repubblicana e imperiale un’enorme quantità di merci e di materiali anche
di grandi dimensioni (si pensi alle colonne provenienti dalla Grecia o agli obelischi
egiziani) oltre a un enorme numero di schiavi. Più che la forza lavoro da essi forni-
ta, sarà il loro apporto tecnico-culturale (parlo di schiavi con elevate competenze e
di gran valore commerciale) a contribuire notevolmente alla crescita economico-
sociale di Roma. È una storia, questa, che ha inizio con l’acquisizione di Capua, e
delle fertili terre campane che insieme alla Sicilia e poi alle importazioni dalle pro-
vince concorreranno ad alleviare la cronica penuria alimentare – soprattutto di
grano – che Roma s’è trovata a fronteggiare nel corso della sua storia più antica.
LIMES Perché questo interesse dei romani per il mare?
CAPOGROSSI COLOGNESI Perché fno al secondo millennio il mare è la grande arteria
di comunicazione che unisce la Penisola italica al mondo orientale. A quello elle-
nistico, prima, che dà le basi culturali alla civiltà romana e che è il riferimento an-
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affacciano perché necessitano dei materiali ferrosi che si trovano nell’isola d’Elba e
in altre zone minerarie della fascia tirrenica. Materiali che servono a formare le le-
ghe metalliche che ne determinano il primato tecnico e bellico. Almeno fno alla
seconda guerra punica questi materiali avranno una grande importanza per la
stessa Roma, che infatti ne fa razzia.
LIMES Con le guerre puniche Roma completa il circuito del Mediterraneo: nasce il
mare nostrum.
CAPOGROSSI COLOGNESI Quest’abusata espressione è però tarda e non rifette affatto
la visione geopolitica romana di fne repubblica e di prima età imperiale. Le fonti
antiche non la riportano prima del III-IV secolo, tanto da farci sospettare che sia
d’origine tardo-antica o bizantina. I tentativi di farla risalire – l’idea, non già l’e-
spressione che non c’è – a Cicerone sono dunque fasulli. La grande sistemazione
territoriale dell’impero per province effettuata da Augusto e trasmessa ai successo-
ri è riferita esclusivamente ai territori. Il mare ne è escluso. Quest’ultimo è conce-
pito come un’area neutra e pacificata. Specie dopo la liquidazione di Cartagine,
l’assoggettamento dei grandi porti greci e la neutralizzazione dei pirati balcanici
– spina nel fianco adriatico della Penisola italica fino all’età augustea, fatta salva
una parentesi relativamente breve dopo la prima repressione a opera di Pompeo.
Ma il mare non è oggetto di dominio diretto, né di una pretesa egemonia assoluta
come invece nella logica inglese d’età moderna. Di qui anche il ruolo della classis,
la fotta: concepita per intervenire in caso di pericolo, non per esercitare un con-
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trollo «poliziesco».
LIMES Questa concezione del mare ha un rifesso giuridico?
CAPOGROSSI COLOGNESI Certamente: nel diritto romano il mare è bene di tutti. Dalla
tarda repubblica e fno ai Severi i giuristi parlano di una res soggetta a uso pubbli-
co, che però non è una res publica rientrante sotto il dominio sovrano di Roma,
come invece l’ager publicus, le viae publicae o i fumi pubblici, tutti beni di perti-
nenza dello Stato romano. Il mare, al pari delle spiagge – litora maris – o dell’aria
è defnito già nel III secolo da Marciano, uno degli ultimi giuristi «classici», come res
communes omnium: defnizione che avrà un impatto enorme sulla dottrina medie-
vale e moderna, sino al revival dei «benecomunisti» odierni. La dottrina giuridica
non ci dice molto sul pensiero politico romano intorno al mare – specie all’Adria-
tico – e ai suoi usi, ma inquadra un sistema di riferimenti piuttosto diversi da qual-
siasi concezione «proprietaria», cui invece il lemma mare nostrum sembra alludere.
Anche se poi, ovviamente, la comunicazione delicatissima tra Egitto e Italia, da cui
dipendeva il rifornimento di grano a Roma e dunque la tranquillità politica dell’im-
pero, era costantemente monitorata dagli alti magistrati romani e in primo luogo
dal praefectus annonae, direttamente nominato dal principe, cui rispondeva anche
il governatore dell’Egitto.
LIMES L’importanza della dimensione mediterranea consente di defnire Roma una
talassocrazia, una potenza marittima?
CAPOGROSSI COLOGNESI Nella sua Römische Agrargeschichte (Storia agraria di Roma)
160 del 1891 Max Weber, riprendendo Theodor Mommsen, defnisce quella romana
LEZIONI AFGHANE
un’aristocrazia commerciale di tipo greco. L’analisi per tipi e modelli della storio-
grafa weberiana rende l’affermazione apparentemente avventata, se non palese-
mente inesatta. I clan gentilizi che danno vita a Roma e ne costituiranno il patrizia-
to originario sono infatti un’aristocrazia fortemente territoriale, tanto che la pode-
rosa macchina bellica romana – per mezzo della quale la piccola città Stato si
espande e si fa impero – nasce e resta imperniata sulle unità di terra, le legiones. È
per compensare il legionario dei servizi resi che Roma opera continue assegnazio-
ni fondiarie con espropri massicci e devastanti dislocazioni di popolazione nella
Penisola italica, creando così le premesse della diffusa instabilità socioeconomica
che fa da sfondo alla lunga stagione delle guerre civili cui Augusto pone fne. Ma
a caro prezzo: il congedo onorevole, la honesta missio, vede sostituirsi ai fondi dei
vitalizi in denaro, il che – terminata l’epoca delle espansioni territoriali – rende
l’esercito romano una macchina terribilmente dispendiosa, un passivo costante per
l’erario. Ed è dell’esercito di terra che parliamo, sebbene nel frattempo Roma sia
andata anche per mare. Potenza sì, dunque, ma non talassocratica. Roma usa il
mare, ne comprende l’importanza e lo concettualizza, ma per mentalità e pratica
geopolitica resta un impero essenzialmente terrestre. La conquista del Mediterra-
neo si ferma quasi dappertutto alle coste mentre l’espansionismo s’indirizza oltral-
pe, arrestandosi su Reno e Danubio e, a nord, alla Scozia dopo il breve salto ma-
rittimo oltremanica. La historia militaris romana è quasi esclusivamente storia di
legioni, sebbene molti scontri militari decisivi – si pensi a Cartagine – Roma li
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combatta sul mare, grandi fgure militari come Agrippa comandino anche la fotta,
i marinai siano inquadrati in un corpo apposito e, per quel poco che sappiamo da
ciò che resta delle lussuose navi di Nemi recuperate tra il 1928 e il 1932 e andate
distrutte nel 1944, la tecnologia navale romana fosse piuttosto avanzata.
LIMES Weber sbaglia dunque?
CAPOGROSSI COLOGNESI No. Perché malgrado la forzatura – meglio, grazie a essa –
coglie appieno l’essenza di una nobilitas protoimperialista, dunque fortemente
aggressiva, che pur partendo dalla terra e alla terra restando aggrappata giunge
presto a comprendere l’importanza strategico-economica del mare. Ciò non ne
muta il Dna culturale, ma le consente di sfruttare il mare ai fni della propria gran-
dezza e di quella di Roma. L’apice di questa lunga parabola si ha appunto con
Augusto, che reimpostando su base commerciale e transattiva, non più predato-
ria, il rapporto tra Penisola italica e province determina la foritura degli scambi
anche attraverso un Mediterraneo pacifcato. L’eredità augustea durerà per alme-
no quattro secoli, consentendo al mondo ellenistico di recuperare quel ruolo
preminente che aveva sempre avuto in virtù di un’abbondanza, agricola e non,
nettamente maggiore rispetto all’Italia e alle province occidentali (l’Iberia è un
importante bacino minerario ed è ricca di ulivi, ma non molto di più). Volendoci
spingere oltre, nella Pax Augustea – e nel vano ma fondamentale tentativo di
Giustiniano di recuperarla – stanno in parte le premesse del Rinascimento italia-
no: senza gli scambi con l’Oriente non ci sarebbe stato l’esarcato di Ravenna, ma
nemmeno Genova e Venezia. 161
‘IL MARE SECONDO ROMA’
nuto eccessivamente oneroso – quel mondo non si ribella a Roma, anzi. Anche se
non si può dimenticare che un punto di permanente debolezza dell’impero è pro-
prio costituito dalle frontiere sud-orientali: con i parti, prima, e poi con l’impero
persiano. Certo è che l’espansione islamica determina una frattura nel circuito
mediterraneo che non è stata mai più sanata. Così complicando l’attuale colloca-
zione geopolitica dell’Italia, che invece di trovarsi al centro di un circuito marittimo
è collocata alla frontiera con le sponde islamiche.
Quella romana sulle coste del Mediterraneo fu una presenza tutt’altro che episodi-
ca, e duratura ne è l’eredità. Non potrebbe essere altrimenti, data l’importanza che
il mare giunse ad avere per l’impero. Un’importanza i cui lasciti vanno ben oltre
l’islamizzazione di Bisanzio e la germanizzazione dell’impero d’Occidente. Ripren-
derne piena coscienza ci aiuterebbe non poco a capire, se non a infuenzare, cosa
ci accade intorno.
162
LEZIONI AFGHANE
mula: «Essere presenti e in forze». All’atto pratico la gestione è certo più sfumata,
ma siccome nella regione si intersecano interessi americani di vasta portata –
dall’Europa al Medio Oriente, fno al Mar Nero e oltre – articolare una strategia più
sofsticata e onnicomprensiva in grado di ricomprenderli tutti si è generalmente
rivelato assai diffcile.
Detto altrimenti: il grosso degli interessi primari statunitensi che coinvolgono il
Mediterraneo è periferico rispetto a esso. Questo mare risulta una base ideale per
proiettare forza in svariate direzioni e per esercitare un ascendente su nazioni po
tenzialmente rivali che dipendono da quelle acque. Se gli Stati Uniti restano poten
za impareggiata e inattaccabile nella regione, i suoi rivali non oseranno sfdare lo
status quo; gli eventuali problemi possono essere affrontati prima che divengano
effettivamente tali, mentre una rete di amici e alleati si prodiga per mettere l’Ame
rica nella condizione di rispondere effcacemente laddove emergano (rare) minac
ce alla stabilità. Questa, almeno, è la teoria.
Senza dubbio la «strategia» è stata profcua: ha tra l’altro aiutato l’Europa a
rompere i suoi antichi cicli di confitti, ha contenuto l’espansionismo sovietico, ha
generato capitale diplomatico con cui istituire meccanismi stabilizzanti tra ex ne
mici storici, ha preservato vitali fussi marittimi di beni ed energia. Ma l’assenza di
un’organica strategia americana in grado di ricomprenderne i molti interessi peri
ferici ha spesso generato una visione distratta e miope, con spreco di risorse ed
eccessiva dipendenza da soluzioni militari reattive a scapito di investimenti non
bellici in aspetti più sottili della pratica statale. Ciò ha verosimilmente pregiudica 163
ALTRA SPIAGGIA, ALTRO MARE: L’AMERICA FA ROTTA A EST
to la stabilità di lungo periodo della regione. E siccome l’America è stata solo ra
ramente sfdata davvero e obbligata ad agire nel Mediterraneo, è diffcile che la
sua strategia si riveli effcace in un’èra che vede sfbrarsi la Pax Americana. Con
gli interessi regionali di Washington che si spostano parzialmente verso il Pacifco
e la stessa America relativamente indebolita rispetto a potenze revisionistiche
anch’esse dipendenti dal mare, gli Stati Uniti avranno bisogno di una strategia più
coerente e puntuale. Una strategia che designi chiaramente le priorità e dia meno
per scontata la relativa stabilità dei mari – Mediterraneo incluso – tipica degli ul
timi cinquant’anni.
2. L’importanza del Mediterraneo per gli Stati Uniti non va sottovalutata. Attra
verso le sue acque passano ogni anno centinaia di miliardi di dollari di merci e
materie prime dirette verso le coste americane. Tutelare questi fussi è il principale
interesse statunitense nella regione, come lo è in altre acque remote pattugliate
dalla U.S. Navy. Certo, questo interesse si è in parte affevolito con il boom di gas
e petrolio non convenzionali (da scisti) negli Stati Uniti, eppure resta vitale: in par
te per ragioni economiche direttamente afferenti all’America (che dipende ancora
dagli idrocarburi stranieri e verosimilmente dovrà tornare a importarne grandi
quantità dal Medio Oriente in tempi non lontani), in parte perché dalle rotte medi
terranee dipende la prosperità di tutti i paesi rivieraschi. Lo status di singolo garan
te (tra l’altro) di una navigazione stabile e sicura dà pertanto a Washington enorme
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Sulla sponda meridionale insistono invece cinque Stati africani, quasi tutti pas
sibili di precipitare in un’instabilità estrema sfruttabile da altre potenze e/o da atto
ri non statali ostili. Qui i maggiori interessi di Washington sono prevenire la desta
bilizzazione interna (cosa che le riesce spesso diffcile, fnendo magari per peggio
rare la situazione con interventi tardivi che seguono mancati investimenti in pre
venzione) e impedire ai governi nordafricani di sfruttare il proprio vantaggio geo
grafco per sabotare rotte marittime vitali. La minaccia potenzialmente maggiore
all’interesse americano è la chiusura del Canale di Suez da parte egiziana, o più
verosimilmente che un soggetto non statale sfrutti le lotte perpetue negli apparati
di governo dell’Egitto per assumere il controllo del paese. Unitamente alla tutela di
Israele e ad altre priorità connesse alla guerra fredda, ciò ha fatto sì che l’America
si spendesse per mantenere Il Cairo vicina e dipendente dall’aiuto militare statuni
tense.
Sulle coste orientali vi sono la Turchia e il Levante. Qui le priorità statunitensi
possono risultare diffcili da individuare, ma in generale sono abbastanza simili (e
analogamente ardue da centrare) a quelle in Nord Africa. Vi si aggiunge il timore
che i paesi in questione cadano sotto il controllo di una potenza ostile, come l’Iran
o in misura minore la Russia. Un fattore di costante complicazione è rappresentato
da Israele: che proteggere lo Stato ebraico dai suoi molti nemici sia davvero un
interesse vitale degli Stati Uniti è discutibile, ma sostenerlo è imperativo elettorale
di ogni leader americano e quindi passa per obiettivo strategico.
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La Turchia è un altro paese che gli Usa sovente faticano a incorporare in una
strategia più ampia. Durante la guerra fredda Ankara era un alleato indispensabile
e la sua preziosa base aerea di øncirlik era fondamentale per proiettare forza nella
periferia sovietica. Le ambizioni strategiche della Turchia sono sempre andate oltre
l’ospitare forze nucleari di qualcun altro; a lungo Washington si è dunque adope
rata per evitare che il paese (intenzionalmente o meno) pregiudicasse l’equilibrio
regionale. Inizialmente ha puntato a gestirne l’ascesa incoraggiandone l’adesione a
strutture istituzionali come la Nato, ma questa tattica non ha sortito l’esito sperato
e la stessa øncirlik è divenuta un grattacapo almeno tanto quanto resta strategica.
Al momento gli Usa mancano di una strategia per gestire l’aumento delle capacità
militari e di proiezione turche; la Turchia è ormai abbastanza forte da non sentire
più il bisogno di conformarsi alle direttive dell’America onde mantenerne il sup
porto militare. Tuttavia, non pone una minaccia tale da spingere gli Stati Uniti a
sorreggere l’oneroso sforzo di affrontarla direttamente.
I due paesi condividono però numerosi interessi alla periferia turca. L’America,
improvvisamente conscia della necessità di non restare invischiata nelle sabbie
mobili degli Stati falliti mediorientali, è sempre meno propensa a sostenere opera
zioni di stabilizzazione in teatri come la Siria. Usa e Turchia potranno divergere su
alcune tattiche e punti specifci riguardo al martoriato paese, ma nel complesso
Washington sarebbe sollevata se Ankara mostrasse di volere e poter ristabilire una
parvenza di ordine almeno nel Nord della Siria, impedendo a jihadisti e Iran di
approfttare del vuoto di potere. 165
ALTRA SPIAGGIA, ALTRO MARE: L’AMERICA FA ROTTA A EST
Ma è a nord che si trova l’asset di gran lunga più strategico della Turchia: il
controllo di Bosforo e Dardanelli, dunque dell’accesso al Mar di Marmara. È proba
bile che l’America divenga sempre più diffdente della capacità turca di disporre, nel
caso bloccandolo, del traffco da e per il Mar Nero. Anche perché, nel frattempo,
Ankara è sempre più preda del timore che la Grecia usi la sua vasta rete di isole
orientali per ostacolare l’uscita dai Dardanelli attraverso il Mar Egeo. Ma dato che gli
Stretti, in particolare il Bosforo, sono anche un’effcace valvola per limitare la capa
cità della Russia (oggi partner della Turchia, ma ieri e forse domani sua grande av
versaria) di proiettarsi nella sfera marittima, c’è ampio spazio per una possibile coo
perazione tra Ankara e Washington. Sempreché quest’ultima trovi il modo di adat
tarsi all’ascesa e alle crescenti ambizioni della prima: un esito per nulla scontato.
mento sulle soluzioni militari, magari tardive e reattive invece che preventive,
senza investire adeguatamente il notevole capitale diplomatico in misure volte a
scongiurare le crisi. Ciò risulta problematico anche perché, malgrado l’ineguagliata
forza militare, il bilancio degli interventi militari americani nella regione è quanto
meno in chiaroscuro se misurato in termini di pace e stabilità durature. E questo
sebbene dalla seconda guerra mondiale tali operazioni abbiano avuto luogo quasi
esclusivamente contro attori deboli, provvisti solo di scarsi arsenali convenzionali.
Ne deriva che, paradossalmente, la forza militare statunitense risulta effcace
soprattutto in tempi di pace. Gli Stati Uniti sono insomma più bravi a preservare
pace e stabilità che a imporle. Certo, l’America ha passato buona parte degli ulti
mi trent’anni a esplorare i limiti della sua forza e della tolleranza, da parte del
proprio elettorato, di onerose avventure militari condotte sulla scorta di vaghe
teorie di vittoria e rischi abbondantemente sottostimati. Altre potenze emergenti
hanno preso nota, specie di quest’ultima limitazione, e hanno cominciato a pen
sare che con ogni probabilità gli Usa non scenderanno in guerra contro un avver
sario capace per tutelare interessi marginali. Così la Turchia vede schiudersi l’op
portunità di affermare aggressivamente i propri interessi nel Mediterraneo orien
tale, certa che l’America abbia ben poca voglia di correre in difesa dei diritti di
perforazione greci o egiziani.
In questo quadro, i limiti del pensiero strategico statunitense nel Mediterra
neo stanno per essere messi in luce da un profondo spostamento dell’attenzione
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168
LEZIONI AFGHANE
LIMES Che cosa ci insegna la lezione afghana e che conseguenze avrà sull’Indo-
Pacifco?
DUFOURCQ L’Afghanistan è stato il fallimento della Nato e del modo americano di
condurre le operazioni militari con gli alleati. In tutti questi anni i contingenti eu-
ropei sono stati un semplice strumento nelle mani degli Stati Uniti, peraltro inca-
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paci di risolvere problemi fondamentali per la stabilità del paese come il traffco
della droga. Gli eserciti europei hanno operato in maniera molto diversa fra loro
e le missioni si sono evolute col passare del tempo, ma il vero dato su cui dobbia-
mo rifettere è che se questa storia ha avuto una conclusione tanto tragica è stato
per l’assenza di coordinamento politico fra Washington e gli alleati. L’ultimo esem-
pio è il negoziato fra americani e taliban, da cui gli altri occidentali sono stati
esclusi con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Il punto è che la condi-
visione degli obiettivi e l’unità d’intenti nella direzione strategica di una campagna
militare sono alla base del buon funzionamento di una coalizione. Il fatto che la
Francia non abbia potuto incidere sul controllo della missione afghana è sempli-
cemente inaccettabile.
KEMPF Abbiamo combattuto in Afghanistan per venti anni ma già nel 2001 a noi
europei non è ben chiaro quale sia l’obiettivo della guerra. Poi nel 2003 l’attenzio-
ne degli americani si sposta sull’Iraq e anche loro si dimenticano del perché sono
andati in Afghanistan. La situazione si aggrava nel 2006 con l’avvio della missione
Nato, inizialmente incentrata su Kabul, fno a che tutto diventa di colpo ancora più
assurdo a partire dal 2011, quando gli americani scovano e uccidono Osama bin
Laden in Pakistan. Quello sarebbe il momento di andare via, invece rimaniamo.
Continuiamo a combattere senza uno scopo, un fatto gravissimo che porta inevita-
bilmente al momento in cui chi comanda dice di averne avuto abbastanza. Il ritiro
è la tentazione di Obama, poi è l’annuncio di Trump e infne è diventato l’ordine 169
‘LA FRANCIA NON HA UNA STRATEGIA, L’AMERICA NEMMENO’
del Sud e Taiwan e un’altra europea non ancora perfettamente strutturata. Ma sa-
rebbe un errore considerarle come due entità perfettamente distinte. Washington
guarda a Pechino, oltre che dalle coste e dalle basi del Pacifco, anche direttamen-
te da Gibilterra, da cui si dipana un asse medioceanico che tocca Israele prima di
passare per i confitti in Iraq e in Afghanistan – specialmente il secondo ha permes-
so agli americani di esercitare una formidabile pressione sulla Cina dalla pancia
dell’Asia. Quanto alla rottura dell’armonia atlantica mi viene in mente un paragone
con la crisi di Suez del 1956, che fu uno shock di fducia capace di mandare in
crisi i rapporti fra inglesi e francesi – la cui intesa privilegiata perdurava dalla prima
guerra mondiale. Dopo il fasco nel canale egiziano i primi decisero di concentrar-
si sulla loro relazione speciale con gli americani, noi invece di percorrere la via
dell’autonomia strategica da Washington. Da quel momento le strade di Londra e
Parigi si separarono.
ABDERRAHIM Oggi nell’Indo-Pacifco vedo un punto di convergenza molto forte che
lega Cina e Russia nel contenimento dell’islamismo, vissuto come una minaccia da
entrambe le potenze. A questa priorità è collegata la ripresa delle relazioni di Pe-
chino e Mosca con l’Arabia Saudita, che ha l’obiettivo di ridurne l’infuenza in
Africa e Medio Oriente. Negli ultimi 30 anni Riyad ha fnanziato circa 1.500 mo-
schee nei paesi dell’Africa occidentale a maggioranza cristiana come Benin, Togo
e Burkina-Faso, per favorire la crescita dell’islam politico e dunque poter incidere
sulla stabilità di questi paesi. La mia impressione è che Russia e Cina si stiano in-
170 serendo con forza in queste dinamiche, proponendosi come interlocutori di riferi-
LEZIONI AFGHANE
mento per paesi e regimi dal Maghreb all’Asia centrale. Da questo gioco la Francia
è completamente assente. Lo dimostra l’ultima visita del presidente Emmanuel
Macron in Iraq, dove il capo dell’Eliseo è stato accompagnato da una delegazione
di dubbio livello che ha trasmesso un messaggio di implicita indifferenza agli ira-
cheni nonostante gli annunci di sostegno alla ricostruzione del loro paese. Lo con-
ferma il fatto che Parigi fatichi a comprendere il ruolo del progresso tecnologico
nella competizione geopolitica del XXI secolo. Mentre cinesi e russi hanno inonda-
to Nord Africa e Maghreb di loro vaccini, a fne agosto tre alti funzionari dell’Insti-
tut Pasteur si recavano in Israele per chiedere consiglio alle controparti dello Stato
ebraico impegnate nella lotta al Covid-19. Segno lampante che la Francia è in dif-
fcoltà anche in settori dove un tempo vantava un primato assoluto e universal-
mente riconosciuto, come appunto le scienze e le vaccinazioni.
LIMES Il fatto che Cina e Russia abbiano un interesse comune a contenere il jihadi-
smo signifca che gli americani lo sostengono?
ABDERRAHIM Di fatto è quello che fanno da quarant’anni a questa parte mediante la
loro relazione con i sauditi.
KEMPF Non so dire se si tratti di una scelta voluta o di un approccio strategico
ancora agli albori. Riconosco però che in più di un’occasione Washington abbia
chiuso volutamente gli occhi davanti alla reale natura del regime saudita. Il che è
un problema.
DUFOURCQ Il punto da capire è che gli americani utilizzano ogni strumento a loro
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è stato solo grazie all’intervento di altre potenze. Nel paese nordafricano i nostri
interessi sono usciti battuti. Nel frattempo l’emergenza islamista si diffonde dalle
sponde meridionali del Mediterraneo alle sabbie del Sahel, acquisendo una pro-
fondità strategica che prima non aveva. Con l’islam politico che ambisce ad acqui-
sire una dimensione istituzionale per esercitare il potere, mi domando quale rispo-
sta possano escogitare le diplomazie di Francia, Italia e degli altri paesi europei. In
Marocco gli islamisti sono riusciti a fare proseliti nonostante la presenza dell’argine
monarchico, lo stesso è avvenuto in Algeria e Tunisia. Poi c’è un altro problema di
tipo strategico legato alla crescita dell’infuenza turca nella regione. Assieme al ra-
dicamento in Tripolitania, registro la cooperazione sul piano della sicurezza fra
Ankara e Algeri e la vendita di droni a Tunisi e in futuro anche a Rabat.
LIMES È giusto considerare la Turchia come il grande burattinaio dei Fratelli musul-
mani e di altri gruppi islamisti?
ABDERRAHIM Non ne sarei così sicuro. L’islamismo in fondo è un fenomeno molto
variegato. Ad esempio c’è un islam di stampo monarchico in Marocco, un islam
rivoluzionario in Algeria, un islam conservatore in Tunisia e uno appunto in Tur-
chia. Certo, il fattore che li accomuna è la loro progressiva ideologizzazione in
un’ottica di conservazione o di acquisizione del potere.
KEMPF Vorrei aggiungere che l’islamismo non è solo quello dei Fratelli musulmani
ma anche di jihadisti territorializzati come lo Stato Islamico in Siria e Iraq e di altri
gruppi a vocazione globale come al-Qå‘ida. Senza dimenticare il wahhabismo, che
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è una forma come le altre di islamismo, il sunnismo che ispira potenze regionali
molto ambiziose come appunto Turchia e Qatar e l’islam politico sciita della poten-
za persiana. Dunque è chiaro che parlare di islamismo e basta è fn troppo sempli-
cistico, mentre concordo con Kader sul fatto che il fattore più preoccupante con
cui dobbiamo fare i conti è la crescita dell’infuenza turca in Nord Africa e nel
Sahel. Ecco, di fronte a tutti questi fenomeni, mi domando cosa voglia o cosa in-
tenda fare la Francia. Il problema è che la cultura strategica della nostra classe di-
rigente è pressoché nulla.
LIMES Se non avete una strategia forse vi siete posti almeno degli obiettivi?
KEMPF No. Prendiamo il caso della visita di Macron in Libano, un anno fa. Il presi-
dente è arrivato a Beirut portandosi dietro i vertici di alcuni grandi gruppi industria-
li, ha fatto dei bei discorsi ai politici e alla folla ma nessuno è riuscito a capire
quale sia la nostra strategia libanese, fguriamoci quella mediterranea. Tanto che mi
domando se a gestire i nostri affari esteri sia l’Eliseo oppure i gruppi d’interesse che
gli gravitano attorno…
DUFOURCQ Sono circa trent’anni che studio la politica mediterranea della Francia e
posso dire con certezza che al nostro paese manca del tutto una visione strategica
del mare di mezzo. Ci siamo interessati seriamente a questo spazio geopolitico
solo dopo la fne della guerra fredda, complice naturalmente il crollo del mondo
sovietico. A quel tempo ci domandavamo che fare ma non avevamo una risposta
univoca, così nei primi anni Novanta partecipammo a iniziative quali il processo di
172 Barcellona salvo affdarci alla visione di chi era più avanti di noi, come gli spagno-
LEZIONI AFGHANE
li. Poi è emersa l’ambizione di dare una veste istituzionale al bacino proprio come
avveniva in Europa e a questo scopo concludemmo dei partenariati con i paesi
nordafricani. Si è trattato di un processo lungo e travagliato, culminato nel grande
fasco che è l’Unione per il Mediterraneo.
Oggi la politica mediterranea della Francia si compone di almeno tre grandi dimen-
sioni. La prima è interna e ha a che fare con la storia e l’eredità dei francesi che si
sono ritagliati un posto di primo piano nella colonizzazione o che comunque sono
gli abitanti tradizionali dello spazio mediterraneo. Parlo soprattutto di corsi, marsi-
gliesi ed ebrei. La seconda è quasi flosofca e ci riporta alla fne dell’impero e alla
nascita della Repubblica fondata su laicismo e modernità, che ha trasformato gli
spazi nordafricani e maghrebini complice la domanda di progresso dei locali. In
questo senso l’Algeria degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento rappresenta
una sorta di laboratorio della modernità francese. La terza dimensione, invece, ha
a che fare con la nostra condizione di paese continentale e con il fatto che lo spa-
zio d’avventura del Mediterraneo rappresenta una porta sull’Africa che ci distrae
dall’imperativo strategico di difenderci dai pericoli del continente.
Nella nostra storia le minacce sono sempre arrivate da est e per questo abbiamo
scelto di includere la Germania nel sistema multilaterale da cui è nata l’Ue – che
garantisce pace e sicurezza alla Francia – mentre non abbiamo mai rinunciato a
interagire con il mondo russo in funzione antitedesca.
In tempi recenti si è posta la questione delle nuove potenze africane, intrecciata
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agli interessi dei grandi gruppi industriali francesi presenti da tempo nel continen-
te. Questa dinamica ci ha messo in rotta di collisione con altri paesi europei – pen-
so specialmente all’Italia in Tunisia e in Algeria – perché abbiamo pensato di poter
gestire i nostri interessi di ex potenza coloniale in splendida autonomia, senza
cogliere le nuove dinamiche geopolitiche in atto. Ancora una volta abbiamo evi-
denziato un’assenza di visione strategica verso il Mediterraneo e il Nord Africa e ci
siamo affdati a iniziative estemporanee, destinate all’insuccesso. Oggi il mondo è
profondamente cambiato, l’Ue è in panne e non possiamo rinunciare al dialogo
con i nostri principali partner mediterranei, come Italia, Spagna e Grecia. Abbiamo
il dovere di trovare dei punti di convergenza con loro e di inserirli in una politica
nazionale. Specialmente in Europa il mare non deve essere visto come una barrie-
ra ma piuttosto come un grande connettore con il resto del mondo.
Da questo punto di vista chi ci può capire meglio di altri è proprio l’Italia, che
occupa una posizione centrale nel bacino mediterraneo e deve la sua prosperità al
mare. Noi siamo confnati nel Mediterraneo occidentale, il Maghreb è vicino ma
tanto per citare due paesi chiave come Libia ed Egitto questi sono ben fuori della
nostra sfera d’infuenza. Per contare nel mare di mezzo la Francia ha dunque biso-
gno dei suoi alleati latini, perché altrimenti il rischio che corriamo è che il Nord
Africa torni a essere un mondo chiuso e totalmente alieno dal nostro.
LIMES Cosa volete esattamente dall’Italia?
KEMPF Il problema è che a Parigi il Mediterraneo non è visto come uno spazio a sé
stante ma come una pertinenza dell’Europa o come una risorsa per contare di più 173
‘LA FRANCIA NON HA UNA STRATEGIA, L’AMERICA NEMMENO’
nel Vecchio Continente. È una visione miope. Chi ci governa non capisce fno in
fondo che il mare è in primo luogo un punto d’unione che ha bisogno della sua
strategia dedicata. In questo senso l’avvicinamento all’Italia, di cui il trattato del
Quirinale è la manifestazione più eclatante, può aiutare la Francia a dotarsi di una
sensibilità propriamente mediterranea.
ABDERRAHIM Il Mediterraneo nasce come un concetto flosofco-culturale fno a che
gli europei – specialmente noi francesi, ma anche spagnoli e italiani – lo hanno
declassato a mera sezione delle politiche comunitarie senza riuscire a concettualiz-
zarlo come spazio strategico a sé stante. Ma se per alcuni lo spazio geopolitico del
Mediterraneo è un’invenzione vetero-europea, per altri addirittura non esiste. Gli
arabi in fondo lo guardano da un punto di vista diametralmente opposto al nostro
e l’attualità che viviamo ci ricorda che l’ambizione di mettere d’accordo tutti i rivie-
raschi corre il rischio di tramutarsi in una bella idea irrealizzabile.
LIMES Soltanto Roma è riuscita nell’impresa di realizzare l’unità del bacino…
DUFOURCQ Esattamente. Parliamo di un mare che ha la sua fsicità e che con la glo-
balizzazione ha ritrovato centralità grazie alla possibilità di concentrarvi interessi e
fussi. Per queste acque passano scambi ancora rilevanti e nel bacino contiamo
passaggi vitali per il controllo delle rotte marittime come lo Stretto di Sicilia, il Bo-
sforo e Gibilterra. Di qui l’imperativo di promuovere una presa di coscienza collet-
tiva sull’importanza del Mediterraneo, specialmente in Europa. Se non ci riuscire-
mo, e la responsabilità è in primo luogo di noi francesi e di voi italiani, altri lo fa-
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ranno per noi: turchi, russi e cinesi sono già molto attivi in Africa settentrionale e
di certo non si limiteranno a quella regione.
174
LEZIONI AFGHANE
SENZA CIPRO
L’ANATOLIA
APPASSISCE di Daniele SANTORO
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1. C
IPRO È LA TRACHEA DELLA TURCHIA, CONDUCE
ossigeno mediterraneo nel polmone anatolico. La «piccola patria» (yavru vatan) è
organo vitale della madrepatria (Anavatan). La questione è strategica. La consan-
guineità degli abitanti del Nord dell’isola, il sentimento di affetto nei loro confronti
che ne deriva hanno in principio valenza ancillare. In termini strutturali, la presen-
za di una corposa minoranza turca è questione tutt’altro che determinante. Perché
da una prospettiva anatolica l’importanza geopolitica di Cipro è tale che nulla la
può ulteriormente accrescere.
«La Turchia si batte per la propria sicurezza, per il proprio benessere e per il
proprio futuro, non per i turchi ciprioti. Non ce ne importa nulla se i turchi ciprioti
spariscono. Anche se a Cipro non rimanesse un solo turco, il nostro interesse per
l’isola resterebbe immutato». «Persino se a Cipro non ci fosse un solo turco musulma-
no, la Turchia avrebbe comunque una questione cipriota. Nessun paese potrebbe
restare indifferente a un’isola [collocata] nel cuore del proprio spazio vitale». A Cipro,
le radicali differenze ideologiche tra Mustafa Kemal Atatürk e Ahmet Davutoãlu si
riducono a una sfumatura aggettivale 1. Da quando la Turchia è Anatolia, su Cipro
1. La frase di Atatürk è riportata ad esempio in Y. Bayer, «Atatürk’ün Kıbrıs vasiyeti» («Il lascito ciprio-
ta di Atatürk»), Hürriyet, 5/3/2002, bit.ly/2VBQV72; A. DAVUTOÃLU, Stratejik Derinlik. Türkiye’nin
Uluslararası Konumu (Profondità strategica. La posizione internazionale della Turchia), østanbul
2001, Küre Yayınları, p. 179. 175
SENZA CIPRO L’ANATOLIA APPASSISCE
non si è mai cambiata idea. Perché l’isola mediterranea è il lascito geopolitico del
Gazi, il desiderio strategico inespresso della generazione che ha salvato la patria.
La frase pronunciata da Atatürk il 27 settembre 1932 in occasione del celebre
incontro a Palazzo Dolmabahçe con il suo ammiratore Douglas MacArthur – «se
camperò abbastanza a lungo annetterò ai territori turchi Kerkük, Mosul, Süleyma-
niye, Cipro, le isole dell’Egeo e la Tracia occidentale inclusa Salonicco» – è verosi-
milmente apocrifa 2. Ma le velleità erano genuine. L’apocrifa del kemalismo ha
funzione pedagogica, dunque geopolitica. Serve a mettere in bocca al Gazi quanto
voleva ma non poteva dire, men che meno fare – vedi la sfda lanciata all’amba-
sciatore fascista che rivendicava Antalya 3. Laddove lo scopo dell’õadøñ postuma-
mente attribuito a Kemal non è segnalare la sua propensione all’espansione terri-
toriale, ma permettergli di includere Cipro nei territori del Patto nazionale. Di fargli
calare in acqua la linea terrestre tracciata dopo l’armistizio di Mudros del 30 ottobre
1918. L’esclusione di Cipro dai territori dello Stato immaginato dal Gazi durante la
rivoluzione del 1919-1923 è uno dei grandi equivoci del trapasso dall’impero alla
repubblica. Conseguenza diretta dell’irriducibile realismo del Grande Condottiero,
ossessionato dalla commisurazione tra obiettivi e mezzi, profondamente convinto
di dover privilegiare lo sviluppo umano sull’espansione territoriale.
Cipro era stata occupata nel 1878 dai britannici, che le attribuivano una crucia-
le valenza strategica. Rivendicarla apertamente avrebbe signifcato inimicarsi colo-
ro con i quali Atatürk avrebbe dovuto negoziare il riconoscimento della sovranità
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turca sull’Anatolia. Tatticismo che in ragione della mitizzazione del genio di Kemal
rischiava di trasfgurarne le intuizioni, restituendo alla nazione una visione distorta
dell’impostazione strategica impressa dal Gazi alla Repubblica. Di cristallizzare per
ragioni ideologiche la percezione di rapporti di forza per loro natura mutevoli. Che
Atatürk stesso vedeva mutare.
Nel 1937, arringando i soldati nel corso di un’esercitazione ad Antalya, Kemal
stabilì che «se Cipro cadesse in mani nemiche, le nostre linee di rifornimento ver-
rebbero recise. Bisogna fare attenzione a quell’isola, per noi è estremamente im-
2. C. AKALIN, Atatürk-MacArthur Görüş mesinin øçyüzü. Bir Soãuk Savaş Yalanı (La vera storia dell’in-
contro Atatürk-MacArthur. Una menzogna della guerra fredda), østanbul 2017, Kaynak Yayınları.
3. Patrick Kinross considera vero l’episodio, che in tal caso compendierebbe la strabordante persona-
lità di Atatürk. Questa la parabola: nel 1934, dopo il discorso di Mussolini sulle ambizioni asiatiche e
africane dell’Italia, Kemal vede l’ambasciatore italiano e il suo omologo albanese seduti a un tavolo
dell’Ankara Palace Hotel. Li raggiunge e ignorando il primo dice al secondo: «Asaf Bey, vedo un sac-
co di foto spassose sui giornali. Che succede in Albania? State mettendo in scena un’operetta? Che
cosa non andava nella Repubblica? Come mai avete deciso di farvi governare da un re? State seguen-
do una politica pericolosa. Gli italiani vi useranno per infltrarsi nei Balcani». Al primo cenno di insof-
ferenza dell’ambasciatore fascista, il Gazi lo fulmina con i suoi occhi celestiali e così lo apostrofa per
mezzo di un interprete al quale chiede di parlare con voce stentorea: «Mi viene detto che i vostri
giovani manifestano sotto alla nostra ambasciata perché vogliono Antalya. Antalya non ce l’ha in tasca
il nostro ambasciatore, sta qui. Perché non ve la venite a prendere? Ho una proposta per Sua Eccel-
lenza il Duce. Faremo sbarcare i soldati italiani. A sbarco terminato combatteremo. Chi vince, si
prende Antalya». «È una dichiarazione di guerra?». «No, parlo da semplice cittadino. Solo la Grande
Assemblea Nazionale può dichiarare guerra in nome della Turchia. Però cerchi di non dimenticarsi
che quando verrà il momento la Grande Assemblea Nazionale terrà in considerazione i sentimenti di
semplici cittadini come me». Gli italiani non sbarcarono ad Antalya. P. KINROSS, Atatürk. The Rebirth of
176 a Nation, London 1993, Weidenfeld & Nicolson, pp. 479-480.
LEZIONI AFGHANE
sta di Londra alla minaccia tedesca e la sua posizione tra Mediterraneo orientale e
Medio Oriente molto meno solida di quella inglese. Se l’inganno siriano produsse
gli esiti immaginati da Kemal, il bluff al tavolo cipriota non disorientò i luogotenen-
ti di Sua Maestà. Ma la freccia era stata scoccata, la direzione di marcia nitidamente
indicata. Non è naturalmente un caso che Cipro sia stata teatro dell’unico interven-
to militare condotto dalle Forze armate turche allo scopo di occupare (in)diretta-
mente un territorio al di fuori dei propri confni nazionali – così come internazio-
nalmente riconosciuti in quel momento – tra il 1922 e il 2016. Operazione resa
possibile dalla commistione di «culture politiche» diverse.
A incarnare la causa cipriota in Anatolia dopo la morte di Atatürk fu Alparslan
Türkes¸, nato a Lefkoşa (Nicosia) mentre la prima guerra mondiale volgeva al ter-
mine, due settimane prima della presa britannica di Gerusalemme. Le origini ciprio-
te del fondatore dei Lupi grigi – a conferma della natura essenzialmente strategica
della questione cipriota – sono tuttavia un dettaglio trascurabile. I suoi ascendenti
paterni e materni erano originari di Kayseri, vennero esiliati a Cipro dal sultano
Abdülaziz negli anni Sessanta del XIX secolo. Lo stesso Alparslan si trasferì con la
famiglia a Istanbul già all’età di 16 anni – peraltro per mezzo di una nave battente
bandiera italiana. Non esistono aneddoti signifcativi sulla sua infanzia nell’isola.
Türkeş era nato a Cipro, non cipriota. Men che meno da sette generazioni. Il 20
luglio 1974 – quando ebbe inizio l’Operazione di pace – la Turchia era governata
da una coalizione composta dai socialdemocratici del primo ministro Bülent Ecevit
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7. «Cumhurbaş kanı Erdoãan: 20 Temmuz’da Kıbrıs’ta olacaãım, tüm dünyaya gerekli mesajları vere-
ceãim» («Il presidente della Repubblica Erdoãan: il 20 luglio sarò a Cipro, rivolgerò al mondo intero i
178 necessari messaggi»), Euronoews, 19/5/2021, bit.ly/2VuITNd
LEZIONI AFGHANE
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che separano Asia ed Europa, e il Canale di Suez, che divide Asia e Africa. Allo
stesso tempo, è una portaerei che consente di tenere il polso dei principali bacini
che legano l’Eurasia all’Africa – il Golfo e il Mar Caspio – e delle vie d’acqua che si
dipartono da Aden e Hormuz». Costituisce dunque «l’elemento chiave del corridoio
marittimo delineato da Mar Caspio, Mar Nero, Stretti turchi, Egeo, Mediterraneo
orientale, Suez e Golfo Persico/Arabico» 13.
È lungo questo corridoio che si sono dipanate le più recenti iniziative strategiche
della Turchia. La simbiosi geopolitica con l’Azerbaigian innescata dalla vittoria nella
seconda guerra del Nagorno Karabakh, la partnership militare con l’Ucraina in
funzione antirussa, Canale Istanbul, le provocazioni navali alla Grecia tra Egeo e
Mediterraneo orientale, gli interventi militari in Libia e nella regione di Afrøn-Idlib
(periferia mediterranea), la pressione sull’Egitto, il tentativo di penetrazione nel
Mar Rosso (progetto di base navale in Sudan, oggi congelato), la proiezione in
Somalia, l’alleanza strategica con il Qatar. I turchi girano intorno a Cipro, gettano
le fondamenta del corridoio marittimo che cinge l’isola, alzano le barriere per im-
pedire l’intrusione dei (molti) nemici.
Con la piena benedizione dei neokemalisti. Notevole, in tal senso, che il celebre
ammiraglio Cem Gürdeniz ammetta che «con il trattato di Losanna siamo stati costret-
ti a rinunciare a tutte le isole, eccezion fatta per Gökçeada (Imbro) e Bozcaada (Te-
nedos). E naturalmente anche a Cipro. Così abbiamo perso un lascito geopolitico di
quattro secoli. Ma con le crisi di Cipro del 1974 e di Kardak del 1996, la fecondità
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13. In turco Golfo di Bassora (Basra Körfezi). A. DAVUTOÃLU, op. cit., pp. 154-180.
14. C. GÜRDENIZ, Mavi Vatan Yazıları (Scritti sulla Patria blu), østanbul 2017, Kırmızı Kedi Yayınevi, p. 156.
15. H. TURAN, «Kıbrıs-Libya hattında dev tatbikatla gözdaãı» («La sfda lanciata sull’asse Cipro-Libia con
la colossale esercitazione»), Sabah, 22/4/2020, bit.ly/2KABu69 181
SENZA CIPRO L’ANATOLIA APPASSISCE
no nel Negev in esercitazioni che simulavano la distruzione degli S-300 russi dispie-
gati dalla Grecia a Cipro – poi trasferiti a Creta, dove si trovano tuttora. L’atto più
ostile di Israele nei confronti della Turchia dopo la crisi nei rapporti bilaterali inne-
scata dall’incidente della Mavi Marmara del 2010 è stata l’installazione in Grecia di
un’accademia dedicata all’addestramento dei piloti ellenici, iniziativa seguìta da col-
loqui per il trasferimento ad Atene del sistema di difesa aereo Iron Dome di produ-
zione israeliana. Entrambe le mosse sono volte non tanto ad aiutare i greci a difen-
dere le (indifendibili) isole egee, quanto a prevenire il colpo di mano turco a Cipro.
Meglio, a negoziarne tempi e modi con Ankara. Circostanza che rifette il notevole
slittamento nei rapporti di forza tra i due paesi. Alla fne degli anni Novanta la Tur-
chia aveva disperato bisogno di Israele, la cui posizione regionale era viceversa
solida. Oggi i turchi possono tranquillamente fare a meno degli israeliani, per cui
invece assume importanza vitale la non ostilità degli ex alleati anatolici 17. Da con-
quistare come si conquista un turco. Esibendo la forza. Non necessariamente fsica.
16. C. Yaycı, Z. Ceyhan, «Israel is Turkey’s Neighbor Across the Sea: Delimitation of the Maritime Jurisdic-
tion Areas between Turkey and Israel», Turkeyscope, vol. 4, n. 8, novembre-dicembre 2020, bit.ly/3iy6eXr
182 17. D. SANTORO, «Israele avrà bisogno della Turchia», Limes, «La questione israeliana», n. 5/2021, pp.
195-209.
LEZIONI AFGHANE
vocabilmente che la partizione è insostenibile. Cipro non può essere greca e turca.
La resa dei conti è inevitabile. Se la Grecia riuscisse a concretizzare l’ideale unioni-
sta (en§sis) – tutt’oggi pilastro delle strategie di Atene e Nicosia, come comprova il
golpe referendario del 2004 e i bluff negoziali successivi – la Turchia resterebbe
senza mare. Confnata negli angusti golf anatolici. Esposta agli assalti del nemico.
Costretta a difendere la propria sopravvivenza ad Antalya e a Mersin, a quel punto
Çanakkale mediterranee. Se invece Ankara affondasse in mare i greci di Cipro co-
me affondò in mare i greci di øzmir nel 1922, diverrebbe potenza pienamente ma-
rittima. Capace di proiettare la propria crescente forza navale nell’intero bacino del
Mediterraneo orientale, di premere sul Dodecaneso e sulle isole egee. Sulla Tracia
occidentale e sul Peloponneso.
Scenario tutt’altro che immaginario. I turchi si stanno attrezzando alla luce del
sole. I lavori in corso alla base aerea di Geçitkale preludono al dispiegamento per-
manente dei micidiali Bayraktar Tb2 18. La sola prospettiva fa tremare gli israeliani,
cui gli americani hanno informalmente demandato la difesa dell’isola mediterranea,
convinti che lo slittamento dei rapporti di forza a favore di Ankara sia ormai irre-
versibile 19. Anche perché entro il prossimo anno la portadroni Anadolu verrà at-
trezzata per ospitare gli ancor più temibili Bayraktar Tb3 20. Notevole, in tal senso,
che gli esperti militari turchi magnifchino le capacità anfbie della futura nave
ammiraglia della Marina turca 21, dalla quale a partire dal 2023 potranno decollare
anche i rivoluzionari aerei da guerra senza pilota (Mius) 22. I lavori di ampliamento
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in corso nella base navale cipriota di Gazimaãusa lasciano pochi dubbi in merito
all’area in cui Ankara intende impiegare il proprio gioiello. Al quale verranno pre-
sto affancati i sottomarini di produzione tedesca classe Piri Reis, incubo dei greci 23.
Le mosse della Turchia a Cipro e intorno a Cipro non preludono tuttavia a un
attacco diretto verso la metà meridionale dell’isola. Perché i turchi non attaccano.
Quando non sono grande potenza, avanzano difendendosi. A Malazgirt e Miryoke-
falon giocarono in difesa, per poi partire in contropiede. L’approccio è consolidato,
come testimoniano loro malgrado gli annalisti cinesi. Il turco fa l’impero provocan-
do il nemico, sfoggiando la propria potenza, fngendo poi debolezza per indurlo a
esporsi, sfancandolo fno a quando «l’arma cade da sola dalle mani», dilagando
18. «Cumhurbaş kanı Erdoãan’dan KKTC øHA Üssü açıklaması» («Dichiarazioni di Erdoãan sulla base
per i droni nella Repubblica Turca di Cipro Nord»), SavunmaSanayist.com, 20/5/2021, bit.ly/3sfJXRD
19. «øsrailli düş ünce kuruluş u INSS: Türkiye’nin KKTC’de hava üssü açması etkimizi azaltır» («Il think
tank israeliano Inss: l’apertura da parte della Turchia della base aerea a Cipro riduce la nostra infuen-
za»), Yeni Şafak, 29/7/2021, bit.ly/3lMLtJI
20. B.Y. Mutlu, «Bayraktar TB3 ile Muharip ønsansız Uçak Sistemi, TCG Anadolu’da birlikte görev
yapacak» («I Bayraktar Tb3 e il sistema di aereo da guerra senza pilota saranno dispiegati insieme
sull’Anadolu»), Anadolu Ajansı, 21/7/2021, bit.ly/37xyqn3
21. «Amfbi Harekat ve TCG Anadolu» («Le operazioni anfbie e l’Anadolu»), SavunmaSanayist.com,
bit.ly/3xyCWvZ
22. «Uzmanlardan MøUS açıklaması: Türkiye daha önce denenmeyen bir konsepte yöneldi» («Le valu-
tazioni degli esperti sul Mius: la Turchia sta sviluppando un concetto senza precedenti»), Star,
21/7/2021, bit.ly/2VH5IgV
23. «German submarines are giving Turkey an edge over Greece», The Economist, 3/7/2021, econ.
st/3fGx2D5 183
SENZA CIPRO L’ANATOLIA APPASSISCE
infne nel suo territorio 24. È per tale ragione che la strumentale intrusione di fran-
cesi, emiratini, sauditi e israeliani nell’arena cipriota è il più grande successo tattico
di Ankara. La probabilità che i rivali della Turchia inducano i greci a sbagliare la
mossa per regolare i conti con Erdoãan, che Cipro diventi il teatro principale della
resa dei conti mediterranea in corso tra il Golfo e lo Stretto di Sicilia è tutt’altro che
trascurabile. I turchi faranno – stanno facendo, vedi la parziale riapertura della
città fantasma di Maraş (Varosha) in violazione delle risoluzioni delle Nazioni Uni-
te 25 – tutto quanto in loro potere perché i loro inesperti nemici replichino nell’iso-
la di Afrodite lo scenario libico.
In tal caso, il fattore americano non riuscirebbe a raffreddare l’ardore cipriota
di Ankara. Così come le minacce inoltrate da Lyndon Johnson a øsmet ønönü nel
1964 – all’origine della celebre frase del successore di Atatürk sul «nuovo mondo»
in cui la Turchia avrebbe trovato il suo posto – non riuscirono a impedire l’opera-
zione patriottica del 1974. In seguito alla quale i turchi sopportarono un duro em-
bargo militare rimosso solo quattro anni dopo. In ragione della posta in gioco,
oggi sopporterebbero angherie molto peggiori. È alla luce di questo scenario che
vanno lette la resistenza del 15 luglio 2016 e il sacrifcio monetario dell’agosto 2018
– «se loro hanno i dollari, noi abbiamo Allah».
È a questo punto che entrano in scena i turchi ciprioti, chiave tattica in grado
di accendere la grande strategia cipriota di Ankara. In termini strategici la presenza
a Cipro della folta comunità turca è irrilevante. Ma senza la passione, senza la
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24. L.N. GUMILEV, Gli Unni, Milano 2014, Res Gestae, pp. 71-72.
25. «Turkey says Cyprus town of Varosha to reopen amid Greek objection», Al Jazeera, 20/7/2021, bit.
184 ly/3AnWFjQ
LEZIONI AFGHANE
L’IMPRONTA SOVIETICA
SEGNA IL RITORNO DI MOSCA
NEL MAR MEDITERRANEO di Mauro DE BONIS
Putin ha fatto della ricostruzione della devastata flotta dell’Urss,
riconvertita in russa, una priorità. Dopo la sconfitta in Ucraina,
il rientro nel mare nostrum per dimostrare all’America di restare
grande potenza ha seguito la traccia degli ex clienti sovietici.
1. L
A MARINA RUSSA HA TUTTO QUEL CHE
le serve per proteggere il paese e i suoi interessi nazionali 1. Parola del presidente
Vladimir Putin, sicuro che lo scontro in atto tra la Federazione Russa e gli Stati Uniti
più alleati vari avrà vita lunga e tormentata e che bisognerà farsi trovare sempre
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1. «Putin, la fotta russa è in grado di sferrare attacchi letali», ansa.it, 25/6/2021, bit.ly/3sRXjUb 185
L’IMPRONTA SOVIETICA SEGNA IL RITORNO DI MOSCA NEL MAR MEDITERRANEO
perare e puntellare la sua presenza nella regione appoggiandosi agli antichi clienti
dell’Urss. Diverse sono certo le risorse a disposizione delle due leadership e le
storie delle rispettive fotte nel Mediterraneo, se non altro perché quella più recente
è tutta in divenire. Terminata l’avventura del sovietico Quinto Squadrone con la
dissoluzione dell’Urss, la Marina russa si è riaffacciata nel mare nostrum con l’in-
tenzione di non abbandonarlo più, forte di sistemi d’arma competitivi e di successi
geopolitici che rappresentano il vero punto di svolta per suggellarne presenza e in-
fuenza. A partire innanzitutto dall’avventura siriana, col recupero delle basi navali
e aeree nel paese mediorientale, passando per la campagna di Libia, obiettivo già
sovietico per proiezione nel Mediterraneo orientale, senza dimenticare l’essenziale
se pur complicata cooperazione con la Turchia targata Nato.
tiche e nordafricane.
La stessa conclusione a cui arrivarono più di cinquant’anni prima i decisori
sovietici, che nel 1958 imposero una presenza costante alla propria Marina nel Mar
Mediterraneo per fronteggiare i piani di contenimento anticomunista tracciati nella
dottrina Eisenhower e realizzati in Libano con l’operazione Blue Bat 2. Ieri come
oggi il primo passo era assicurarsi una base permanente contando sulla disponi-
bilità di alleati regionali. Mosca scelse allora l’Albania comunista di Enver Hoxha.
Fino al 1961 poté gestire il porto di Valona dove attraccavano i sottomarini diesel
schierati nel Mediterraneo assieme a componenti di altre fotte sovietiche, in primis
quella del Mar Nero. Presto la solidarietà ideologica evaporò, e con questa l’intesa
geopolitica. Tirana si ritirò dal Patto di Varsavia e la base sovietica fu dismessa.
Seguì un biennio di bassa presenza navale. Nel 1964 si optò per l’uso di ancoraggi
in mare aperto, pratica che diede i suoi frutti per diversi anni. Le prime piattafor-
me galleggianti sorsero al largo della tunisina Hammamet, nei pressi di Malta e
nell’area di Creta. Qualche anno più tardi, anche in altri scacchieri del bacino me-
diterraneo, persino nelle vicinanze di Capo Passero. I punti d’appoggio risultarono
fondamentali per mantenere alta la presenza navale nel Mediterraneo dopo che
i sovietici furono costretti ad abbandonare le basi che l’Egitto aveva messo loro a
disposizione dopo la guerra dei Sei giorni (1967). Oltre a quelle marittime, Mosca
2. C. KASAPOÃLU, S. ÜLGEN, «Russia’s Ambitious Military-Geostrategic Posture in the Mediterranean»,
186 carnegieeurope.eu, 21/6/2021, bit.ly/3sQdi53
LEZIONI AFGHANE
controllava e utilizzava anche molte basi aeree del paese nordafricano. Almeno
fno a quando le autorità egiziane si stancarono dell’atteggiamento da padrone
dell’ospite sovietico. Tra il 1972 e il 1976 riuscirono a sbarazzarsene e a stracciare
il trattato di amicizia e cooperazione frmato nel 1971 3.
Durante la lenta agonia dell’alleanza con Il Cairo, Mosca aveva spostato quanto
poteva nella base navale siriana di ¡ar¿ûs, adatta solo per riparazioni e rifornimenti
e tenuta comunque sotto controllo dalle autorità locali. Infrastruttura rimasta appro-
do sicuro col fnire dell’avventura sovietica, unico avamposto russo oltre i confni
della Comunità degli Stati Indipendenti fno al 2015 4, in un paese che l’Urss aveva
farcito di armi e consiglieri militari e lasciato in «eredità» alla nuova Federazione.
3. Proprio dalle coste siriane riparte l’avanzata russa nel bacino mediterra-
neo, dopo il declino verticale registrato negli anni Novanta. Obiettivo: blindare
l’alleato siriano e dimostrare agli americani che la Marina russa è ancora capace
di proiettarsi oltre il canonico spazio imperiale. È Putin a ridare vigore alla fotta
e porla al centro degli interessi securitari e commerciali da sviluppare nel mare
nostrum, percorrendo traiettorie d’approccio già sovietiche come la ricerca e la
difesa di amici/clienti regionali, la presenza permanente e integrata anche con
l’ausilio di basi permanenti, la capacità di deterrenza e di messa in sicurezza
del territorio nazionale. Progetti irrealizzabili se prima non fosse stata ricostruita
quella Marina che a inizio millennio era data per spacciata ma che da lì a pochi
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anni avrebbe ripreso vigore e importanza nella struttura e nella strategia delle
Forze armate russe.
Se si calcola che tra il 1985 e il 2007, con relativo passaggio dall’Urss alla Fe-
derazione, il numero dei sottomarini in dotazione crolla da 400 a 65 e che quello
dei marinai scende a 146 mila dal quasi mezzo milione in èra sovietica si ha una
fotografa molto deprimente della situazione 5.
Salito al Cremlino nel maggio 2000, Putin intende invertire la rotta, spinto
anche dall’agghiacciante fne dell’equipaggio del Kursk, il sommergibile a propul-
sione nucleare affondato in agosto nelle acque del Mar di Barents durante un’e-
sercitazione, a testimoniare lo stato d’incuria e d’ineffcienza di buona parte delle
strutture belliche in dotazione alla nuova Russia. L’anno successivo il presidente
russo dota fnalmente il paese di una strategia marittima. Vi si rilancia l’importanza
del bacino mediterraneo e la necessità di stabilirvi forze russe. Senza però fare i
conti con i pochi rubli a disposizione per ristrutturare a dovere l’intero comparto
marittimo. Solo nel 2008 alla Marina viene assegnato il 25% dei fondi stanziati dalla
Difesa, necessari a dare impulso alla cantieristica con produzione di nuovi vascelli
da combattimento.
3. G.H. MCCORMICK, «The Soviet Presence in the Mediterranean», The Rand Corporation, prepared for
the 29th Annual Conference of the International Institute for Strategic Studies, Barcelona, Spain, Sep-
tember 10-13, 1987.
4. K. SEMËNOV, «Il mare nostrum è anche un po’ russo», Limes, «L’Italia è il mare», n. 10/2020, pp. 249-257.
5. A.V. KRYLOV, «The Marine Strategy of Russia in the Middle East», Mgimo University, Moscow,
6/9/2020. 187
L’IMPRONTA SOVIETICA SEGNA IL RITORNO DI MOSCA NEL MAR MEDITERRANEO
tenza, la Russia rompe gli indugi ed entra a gamba tesa nella guerra che dilania
la Siria dal 2011. Oltre a difendere l’amico di Damasco, il Cremlino decide per il
salto della staccionata: proietta la propria forza aeronavale oltre gli Stretti turchi e
individua nell’approdo siriano il bastione necessario a garantire la sua presenza nel
Mediterraneo orientale. La piattaforma siriana garantisce la mediterraneità della po-
tenza russa come a suo tempo la piattaforma albanese (Valona) ne affermò quella
sovietica. Il porto di ¡ar¿ûs viene ampliato per ospitare a rotazione le forze navali
da e per altre fotte russe, pratica questa già ampiamente utilizzata dalla Marina
sovietica nel Mediterraneo. Soprattutto diventa l’architrave della struttura di difesa
approntata da Mosca sul fronte meridionale, anche con l’ausilio della base aerea
di Õumaymøm. Infrastrutture che il Cremlino afftta dal governo siriano per 49 anni
più altri 25 da concordare alla scadenza dei primi e che diventano il fulcro dello
schieramento anti-access/area denial (A2/AD). Ovvero delle bolle protettive rea-
lizzate tra Siria e Mar Nero sovrapponendo sistemi d’arma e missili a lungo raggio,
con la Marina pronta a difendere i tratti costieri combinando aviazione e missili da
crociera, oltre all’utilizzo di nuove navi da pattugliamento e corvette meglio adat-
tabili alle logiche del bastione impenetrabile che tanto piaceva anche ai sovietici 8.
6. Ibidem.
7. «Militarization of the Black Sea and Eastern Mediterranean theatres. A new challenge to Nato», New
Strategy Center & Centro Studi Internazionali, gennaio 2019, bit.ly/3Dltd0n
8. D. GORENBURG, «Russia’s Naval Strategy in the Mediterranean», marshallcenter.org, n. 035, luglio
188 2019, bit.ly/3DjmRP6
LEZIONI AFGHANE
gli alti comandi, dai responsabili dei distretti militari ai comandanti di divisione
e brigata, con l’obiettivo di accumulare esperienza da spendere su altri fronti.
Prassi confermata dal generale Valerij Gerasimov a fne 2017 quando spiega che
fno ad allora sono ruotati nel paese mediorientale 43 mila tra uffciali e soldati,
arrivati poi a 63 mila l’anno successivo. A inizio 2020 è già il 98% dei graduati
della polizia militare ad aver servito in Siria. Anche tra gli aviatori si raggiungono
percentuali altissime, come il 91% degli equipaggi d’elicotteri, soglia toccata tre
anni prima 10.
Intorno alle acque di Damasco e in altri bacini limitrof, Mosca sperimenta le
capacità offensive dei formidabili missili da crociera Kalibr. Famiglia di vettori a
lunga gittata lanciati da navi anche di modeste dimensioni e sommergibili che a
turno solcano il Mar Mediterraneo. Rispetto al passato una freccia in più nell’arco
della Marina russa, negli anni a venire destinata a inquietare le fotte occidentali
che attraversano il nostro bacino. Entro il 2024 Mosca potrebbe avvalersi nel Me-
diterraneo di 85 tra navi di superfcie e sottomarini in grado di ospitare oltre 1.200
punti di lancio dei Kalibr 11. Le forze navali russe, assieme all’Aviazione, hanno
inoltre a disposizione le armi ipersoniche sbandierate con ferezza dal Cremlino e
9. R. PUKHOV, «Moscow-based think tank director: Russia’s unexpected military victory in Syria», de-
fensenews.com, 10/12/2017, bit.ly/3yjJXkX
10. M. CLARK, «The Russian Military’s Lessons Learned in Syria», Institute for the Study of War, gennaio
2021, bit.ly/3BgJT75
11. C. KASAPOÃLU, S. ÜLGEN, op. cit. 189
L’IMPRONTA SOVIETICA SEGNA IL RITORNO DI MOSCA NEL MAR MEDITERRANEO
protagoniste delle esercitazioni del giugno scorso nel Mediterraneo. Nuove sfde
per il fanco meridionale della Nato 12.
Possiamo rilevare nemici sott’acqua, in superfcie o in volo, spiega il presi-
dente Putin tessendo le lodi della sua Marina. E possiamo, se necessario, sferrare
attacchi letali grazie ad armamenti invincibili e ipersonici che solo Mosca possiede
e che la fanno entrare di diritto tra le principali potenze navali del mondo 13. Un
percorso veloce e colossale, celebrato dal leader del Cremlino in occasione dei
festeggiamenti per i 325 anni della Marina militare. Certo è notevole l’evoluzione
della marittimità russa dalla modesta fottiglia di Pietro il Grande ai sottomarini
lanciamissili a propulsione nucleare 14. La proiezione navale della Russia è destinata
a proseguire.
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12. F. IACCH, «I muscoli ipersonici di Mosca nel Mediterraneo», Limes, «Se crolla la Russia», n. 6/2021,
pp. 46-48.
13. Si veda nota 1.
14. «Russia, celebrazioni per la giornata della Marina militare a San Pietroburgo», it.euronews.com,
190 5/7/2021, bit.ly/3jdTFAR
LEZIONI AFGHANE
IN TUNISIA VA
IN SCENA LO SCONTRO
FRANCIA-TURCHIA di Piero MESSINA
Nel mirino della «campagna anticorruzione» in corso c’è Ennahda,
il partito islamista sostenuto da Ankara. Le strategie del golpista
Saïed, beniamino di Parigi. La crisi economica e sanitaria rischia
di affondare il paese, minacciando la nostra sicurezza.
sino, in ogni caso, riporta le lancette della storia indietro di sessant’anni. A quando
l’allora capo dello Stato Habib Bourghiba, a chi rivendicava riforme e democrazia,
ribatteva con un secco: «Il sistema sono io». Oggi in Tunisia il sistema è Kaïs Saïed,
che con modi più garbati sta percorrendo la medesima traiettoria addossandosi la
responsabilità di una sempre più probabile riforma costituzionale, la quarta dall’in-
dipendenza del 1956.
Prigioniera del suo passato, la Tunisia post-rivoluzione dei gelsomini si è tro-
vata al bivio: assecondare la dottrina turca della Patria blu o guardare, come sem-
pre, alla Francia e ai partner occidentali. Con un terzo incomodo: gli Stati Uniti, che
offrono sostegno economico e militare. In realtà gli esecutivi tunisini non hanno
avuto reale possibilità di scegliere il loro posizionamento strategico. Con il collasso
del libico Gheddaf la Tunisia è diventata la chiave per controllare la fascia norda-
fricana. Le pressioni internazionali su di essa si sono amplifcate e ciò, sommato a
una classe politica debole e a una casta amministrativa rapace, ha portato il paese
al collasso. In questo scenario si colloca la vittoria elettorale di Kaïs Saïed, anche
se nessuno immaginava che quell’anziano docente universitario, tanto amato dai
giovani, potesse un giorno vestire i panni del fustigatore di costumi.
Nella vicenda tunisina si scontrano ancora una volta Turchia ed Egitto; a fare
da corollario le altre potenze europee, con la Francia in primo piano nel sostenere
la linea del presidente. L’Italia, come sempre dal 2011, ha abdicato al suo ruolo di
mediazione e si limita a pattugliare le coste contro la tratta di esseri umani. Un po’
poco per un paese che vanta relazioni culturali e politiche di primo piano con la 191
IN TUNISIA VA IN SCENA LO SCONTRO FRANCIA-TURCHIA
Tunisia, senza contare la dimensione economica che ci vede in cima alla lista dei
partner commerciali. È da Parigi che sarebbe dunque arrivata la luce verde a Saïed.
Ai primi di giugno 2021 il premier Jean Castex veniva ricevuto al palazzo presiden-
ziale di Cartagine; il 17 luglio, a «golpe» da poco avvenuto, il presidente tunisino si
recava a Parigi per incontrare Emmanuel Macron. Impossibile che l’Eliseo non sa-
pesse quel che stava per accadere a Tunisi.
Sullo scacchiere tunisino si sta replicando lo schema di alleanze che ha porta-
to alla divisione della Libia per aree d’infuenza. Per ora tutto sembra volgere a
favore di chi ha scommesso su Saïed: uno stop al progetto espansionistico di An-
kara in salsa neo-ottomana, come dimostrano i lanci di agenzia successivi alla
mossa del presidente. Mentre dappertutto piovevano appelli al rispetto di demo-
crazia e diritti umani, il portavoce di Recep Tayyip Erdoãan attaccava Saïed: «Re-
spingiamo la sospensione del processo democratico e il disprezzo della volontà
popolare nel paese amico e fratello. Condanniamo iniziative prive di legittimità
costituzionale e sostegno popolare. Crediamo che la democrazia tunisina emergerà
più forte». Di segno opposto la posizione egiziana: «Le coraggiose decisioni del
presidente Saïed metteranno fne all’egemonia dei Fratelli musulmani, che hanno
cercato di trascinare la società tunisina nel caos e nella rovina».
Per Erdoãan è un bel passo indietro: la ragnatela tessuta intorno ai fedelissimi
di Ennahda rischia di sbriciolarsi e rendere vani dieci anni di soft power islamista.
L’interesse turco verso la Tunisia è cresciuto esponenzialmente dopo la caduta di
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Ben Ali; abbandonando una politica estera storicamente orientata a ovest, Ankara
ha sviluppato una strategia di seduzione culturale nei confronti del paese maghre-
bino già all’indomani della rivoluzione. Un ftto calendario di visite uffciali, accor-
di di cooperazione, investimenti nella cultura e nei media. Nel marzo 2012 l’allora
presidente turco Abdullah Gül fu il primo capo di Stato straniero a visitare il paese
dopo la cacciata di Ben Ali. Accolto come un eroe, enfatizzò la visita affermando
che «le relazioni turco-tunisine hanno quattro secoli di storia», chiaro riferimento
all’impero ottomano. Nel luglio 2013 l’apertura a Tunisi di una sede di Anadolu
Ajansı, l’agenzia di stampa del governo turco, ha altresì segnalato il grande interes-
se di Ankara per il paese dei gelsomini. Sul piano culturale questo attivismo ha
portato risultati importanti: il turco è oggi la lingua straniera più studiata nelle uni-
versità tunisine e quello della Turchia è considerato il modello politico cui ispirarsi.
Per strano che possa apparire, gli Stati Uniti si muovono su una linea parallela.
È passata sotto silenzio la visita a Tunisi, lo scorso 13 agosto, di una delegazione
diplomatica statunitense guidata da Jonathan Finer, braccio destro del consigliere
per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan. Finer ha lasciato sul tavolo di Saïed una
lettera del presidente americano Joe Biden. Il pressing è continuato il 4 settembre,
giorno in cui un’altra delegazione americana guidata dal senatore del Connecticut
Chris Murphy è atterrata a Tunisi. Resta da comprendere se questo prodigarsi sia
espressione di una concreta linea politica o sia il risultato dell’attività di lobbying
compiuta a Washington dai Fratelli musulmani e da organizzazioni vicine al partito
192 Ennahda guidato da Rå4id Ôannûšø.
LEZIONI AFGHANE
2. A fne agosto, con decreto presidenziale Saïed ha esteso «fno a nuovo avvi-
so» le misure adottate in applicazione dell’articolo 80 della costituzione tunisina. Il
provvedimento esautora da ogni competenza governo e parlamento, revoca l’im-
munità dei deputati e concentra nella presidenza tutti i poteri istituzionali. Corru-
zione, terrorismo, crisi fnanziaria, Covid-19: sono questi i temi su cui poggia la
mossa di Saïed, che può ancora contare sul sostegno dell’opinione pubblica. L’81%
dei tunisini ne appoggia lo stato d’eccezione, rileva un recente sondaggio di
Emrhod Consulting. Ma fno a quando? Dal sondaggio emergono segni di stan-
chezza: a fne luglio i consensi sforavano l’87%. Cresce l’ansia per il futuro, con
oltre metà del campione che si dichiara «preoccupata» per le sorti del paese. I par-
titi politici, a cominciare dallo storico Partito desturiano libero e da Ennahda, esco-
no con le ossa rotte: ritenuti dall’opinione pubblica i principali responsabili del
caos post-2011, hanno perso gran parte della credibilità. Il mantra della lotta alla
corruzione ha avuto presa facile: da Tunisi a Susa, sino al profondo deserto di Ben
Gardane (Bin Qardån), non c’è tunisino che non debba fare i conti con la corru-
zione endemica. Mentre foccano avvisi di garanzia e mandati d’arresto contro i
parlamentari, pubblica amministrazione e magistratura fanno i conti con le mele
marce: gli arresti di funzionari apicali della Sanità e il fermo di un giudice che stava
scappando con oltre 15 milioni di dinari in contanti illustrano bene la condizione
della Tunisia.
Occorre far presto, l’alternativa è l’insolvenza. Lo stallo istituzionale sta com-
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ticare Saïed e la sua ristretta cerchia di burocrati. Il presidente non è arretrato e non
intende farlo. All’incontro con le forze sociali successivo alle proteste di fne agosto
ha gelato i suoi interlocutori: «Non c’è dittatura, è stato uno scontro tra forze dell’or-
dine e trasgressori».
Questa strategia sta squassando i partiti politici. Alle scorse elezioni le forma-
zioni si erano moltiplicate come pesci per sfruttare le regole elettorali. Adesso,
con il parlamento congelato e la magistratura che spicca mandati d’arresto, i par-
titi tentano di riorganizzarsi. Il Partito desturiano libero cerca di non ostacolare le
manovre presidenziali; più complessa la situazione di Ennahda, braccio politico
della Fratellanza in Tunisia e vero obiettivo della campagna moralizzatrice di
Saïed. I dirigenti lo sanno bene, così è iniziato lo scontro ai vertici che ha visto il
portavoce, il riformatore ‘Imåd al-Hamåmø, attaccare violentemente la leadership
di Ôannûšø. Il primo round si è concluso con la vittoria per ko dell’anziano leader:
‘Imåd al-Hamåmø lo aveva accusato di aver guidato male il partito e annunciando
il sostegno allo stato d’eccezione lanciava la fronda contro la dirigenza. Dalla sua
parte si è schierato un terzo del direttivo, che per contestare Ôannûšø ha rassegna-
to in massa le dimissioni.
Il passaggio doveva portare alla designazione di un nuovo leader, ruolo ambi-
to da al-Hamåmø, ma Ôannûšø ha cacciato lui e gli altri ribelli con buona pace del
dialogo e della democrazia. L’anziano leader, che a Hammamet nel 2016 aveva
sconfessato la matrice politica di Ennahda sostenendone la natura laica, governa il
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partito come capo di un governo ombra forte di appoggi che spaziano dalla Tur-
chia al Regno Unito, dagli Usa al Qatar. Ôannûšø resta un membro infuente dei
Fratelli musulmani; a gestire la comunicazione politica sono le due fglie e dai
tempi dell’empia alleanza con Ben Ali è lui a decidere la rotta del partito. La via
tunisina all’islam moderato appare un ricordo, i tunisini non ci credono più. Anzi,
vedono in Ennahda – presenza stabile in tutti gli esecutivi post-2011 – la causa
principale della mancata svolta democratica e del dissesto economico.
3. Ennahda resta tuttavia una roccaforte inespugnabile, sia per gli appoggi
internazionali sia per il radicamento territoriale, che ha un risvolto militare nel cor-
poso apparato di sicurezza. Quest’ultimo potrebbe rivelarsi il tallone d’Achille del
movimento. La magistratura, su input della presidenza, avrebbe avviato delle inda-
gini sulla polizia interna di Ennahda: accusata di essere un’organizzazione parami-
litare illegale, potrebbe risultare coinvolta nell’omicidio di Chokri Belaïd (3ukrø
Bil‘ød) e Mohamed Brahmi (Muõammad Bråhimø), i due leader politici di sinistra
uccisi tra gennaio e luglio 2013 dalla stessa pistola. La «tolleranza zero» di Saïed
arriverà a fare luce sui mandanti di quel duplice omicidio? Ôannûšø mantiene una
calma soltanto apparente: da gennaio 2021 sono stati i social media di Ennahda a
lanciare una pressante campagna contro il presidente e la sua politica.
Sumayya Ôannûšø, fglia di Rå4id, lavora tra Londra e Istanbul dove si occupa
della rivista Meem di proprietà del manager turco Basheer Arnus, uomo di Al Jaze-
194 era in Turchia. Il gruppo che ruota attorno a Sumayya non si occupa solo di media;
LEZIONI AFGHANE
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195
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LEZIONI AFGHANE
IL MEDIOCEANO È
LA PROFONDITÀ
STRATEGICA DI ISRAELE di Shaul CHOREV
Le minacce alla sicurezza dello Stato ebraico stanno acquisendo
una dimensione prevalentemente marittima, costringendolo a
ripensare la sua postura tra Mediterraneo e Mar Rosso. Il confronto
per mare con l’Iran e la centralità di Båb al-Mandab.
1. I
L MEDITERRANEO ORIENTALE È UN
calderone geopolitico da 3.500 anni. Le sue acque sono sempre state uno snodo
cruciale non solo in termini militari, ma anche e soprattutto sotto il proflo commer-
ciale e culturale. Caratteristica rimasta intatta nel corso dei secoli.
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Disponendo di un affaccio tanto sul bacino mediterraneo quanto sul Mar Ros-
so, Israele è uno Stato pienamente medioceanico e soddisfa dunque il primo dei
sei requisiti mediante i quali lo stratega americano Alfred Mahan defnisce il potere
marittimo, la posizione geografca 1. Lo Stato ebraico ha inoltre una linea costiera
lunga 195 chilometri, le sue acque territoriali compongono il 16% del territorio
nazionale complessivo e la sua Zona economica esclusiva (Zee) si estende per 22
mila chilometri quadrati – più della superfce totale del paese prima della guerra
dei Sei giorni del 1967.
Tale posizione geografca non è una peculiarità dell’attuale Israele. Quest’ulti-
mo era uno Stato medioceanico già all’epoca di re Salomone, che governò la Mo-
narchia Unita tra il 970 e il 931 a.C. Salomone importò il legno di cedro usato per
costruire il Primo Tempio dal re fenicio di Tiro Hiran attraverso il porto di Giaffa,
secondo il Libro dei Re (9:26-28) fece costruire una fotta a Ezion-Geber, sul Golfo
di ‘Aqaba, e sviluppò una rete commerciale estesa all’intero Oceano Indiano 2.
2. Pur possedendo vitali interessi economici nel Medioceano, fn dalla sua fon-
dazione nel 1948 Israele si è concentrato prevalentemente sulle minacce terrestri.
1. I sei requisiti, indicati nel classico The Infuence of Sea Power upon History: 1660-1783, sono:
posizione geografca, conformazione fsica, estensione del territorio, dimensione e indole della po-
polazione, tipologia di governo. Cfr. J. CORBETT, Classics of Sea Power, Annapolis 1972, Naval Institute
Press, p. 68.
2. I. STERN, V. NOAM, «Trade Routes & Seafaring in the Ancient Near East: The Idumeans and The Na-
bateans», Aram, vol. 27, n. 1-2, 2015, pp. 343-364. 197
IL MEDIOCEANO È LA PROFONDITÀ STRATEGICA DI ISRAELE
Nell’ultimo decennio le cose sono però cambiate, anche a causa della crescente
instabilità che affigge il Mediterraneo orientale.
Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno ridotto sensibil-
mente la propria presenza nella regione. Mentre l’infuenza della Russia è aumentata
d’intensità, soprattutto attraverso il coinvolgimento nella guerra civile siriana. La Cina
ha dal canto suo accresciuto considerevolmente gli investimenti nelle economie me-
diterranee – in Grecia, a Cipro e in Egitto, oltre che nello stesso Israele – nell’ambito
del progetto delle nuove vie della seta (Belt and Road Initiative, Bri), attivismo che
ha consolidato la proiezione geopolitica di Pechino nel Mediterraneo orientale.
In questo quadrante si è inoltre assistito al notevole rafforzamento dell’asse
tattico informale tra Russia, Turchia e Iran – malgrado questi tre paesi siano divisi
da profonde divergenze di carattere strategico.
Mosca è l’attore che ha tratto i maggiori vantaggi geopolitici dal pivot to Asia
degli Stati Uniti, tornando ad affermare la propria proiezione politico-militare in
Medio Oriente come in epoca sovietica. È intervenuta aggressivamente nella guer-
ra civile siriana riuscendo a salvare il regime di Baššår al-Asad ed è stata parte
integrante del negoziato sul nucleare iraniano, sostenendo la pressione occiden-
tale sulla Repubblica Islamica e difendendo al contempo quest’ultima alle Nazioni
Unite. Il decisivo appoggio ai governativi in Siria ha permesso ai russi di entrare
in possesso di strategiche infrastrutture militari levantine quali la base navale di
¡ar¿ûs e la base aerea di Õumaimøm, dalle quali possono proiettare forza nell’intera
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3. «Report: Russia, exasperated, moving to curtail Israeli strikes in Syria», The Times of Israel, 24/7/2021,
bit.ly/3BqTIjd
4. S. CHOREV, D. FEITH, S. CROPSEY, J. DORSETT, G. ROUGHEAD, Eastern Mediterranean in the New Era of
Major-Power Competition: Prospects for U.S.-Israeli Cooperation, University of Haifa-Hudson Institute
Consortium on the Eastern Mediterranean, Hudson Institute, settembre 2019, bit.ly/38kaUdy
5. M. KAMBAS, «Standoff in high seas as Cyprus says Turkey blocks gas drill ship», Reuters, 11/2/2018,
198 reut.rs/3mHhdjK
LEZIONI AFGHANE
orientale non sono tuttavia il motore della proiezione regionale di Ankara, quanto
piuttosto il pretesto cui essa ricorre per avanzare i propri interessi geopolitici.
Le ambizioni della Turchia si sono manifestate con l’accordo sulla delimi-
tazione delle frontiere marittime sottoscritto nel novembre 2019 con il Governo
di accordo nazionale (Gna nell’acronimo inglese) di Tripoli 6. Dalla prospettiva
di Ankara tale accordo legittima l’estensione della piattaforma continentale turca
nelle acque di Creta e di altre isole greche, alcune delle quali distanti solo pochi
chilometri dalla costa anatolica. La mossa di Erdoãan ha messo in allarme Egitto,
Grecia, Cipro e Israele, dal momento che qualsiasi infrastruttura energetica volta
a esportare il gas e il petrolio di questi paesi dovrebbe passare attraverso l’area
marittima sulla quale la Turchia reclama la propria sovranità.
Il presidente turco attribuisce inoltre grande importanza geopolitica alla que-
stione palestinese. Si è autoproclamato difensore dei diritti dei palestinesi e dei
luoghi santi di Gerusalemme, sostiene Õamås nello scontro con Israele per porre
fne al blocco di Gaza, aspira a dominare la politica interna della Striscia e della
Cisgiordania. La Turchia appoggia anche gli attacchi compiuti dal Movimento della
resistenza islamica contro lo Stato ebraico, che Erdoãan ha spesso sferzato usando
una retorica antisemita. Le pessime relazioni tra i governi non infuiscono però
negativamente sui rapporti commerciali e sui fussi turistici tra i due paesi, che
restano consistenti. Nel 2019 l’interscambio bilaterale si è attestato a 5,5 miliardi di
dollari, dunque a un livello molto più elevato di quello dell’interscambio tra Israele
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Israele è inoltre uno degli Stati più densamente popolati al mondo – il tren-
tesimo in assoluto – e il grosso della sua popolazione è concentrato sulla costa
mediterranea 8. È da qui, in particolare dai porti di Ashdod e Haifa, che si sviluppa
la maggior parte degli scambi commerciali del paese, compresi quelli con l’Asia
orientale e sud-orientale. Solo il 2% dei traffci commerciali israeliani viene invece
condotto mediante il porto di Eilat, sul Mar Rosso, ma è a partire da questo scalo
che lo Stato ebraico esporta gran parte del fosfato e del carbonato di potassio.
I paesi dell’Europa occidentale formano la principale area di riferimento del
commercio israeliano. Il notevole livello delle esportazioni e soprattutto delle im-
portazioni di Israele verso e da quest’area è conseguenza diretta dell’istituzione nel
1975 di un’area di libero scambio con l’attuale Unione Europea. A partire da quella
data imprenditori e investitori israeliani ed europei – in particolare quelli dei paesi
membri dell’Associazione europea di libero scambio (Aels, o Efta nell’acronimo in-
glese) – hanno sviluppato joint ventures e legami economici sempre più stretti. Nel
2020 il 35% dell’export di Israele è stato diretto verso i paesi europei, il 31% verso
il Nord America e il 28% verso l’Asia 9. Numeri che dimostrano come Gerusalemme
sia profondamente dipendente da quattro colli di bottiglia medioceanici: lo Stretto
di Gibilterra, il Canale di Suez, gli Stretti di Tørån e Båb al-Mandab.
terroristiche quali Õizbullåh in Libano e Õamås a Gaza, così come dalla tenacia
con la quale l’Iran sta cercando di dotarsi della bomba atomica. I recenti 11 giorni
di confitto con Õamås hanno confermato che l’obiettivo dei nemici dello Stato
ebraico – in particolare di Teheran – è erodere il morale e la resilienza della sua
popolazione.
L’insediamento del nuovo governo conservatore di Ebrahim Raisi – molto
vicino alla Guida suprema Ali Khamenei – ha aumentato notevolmente le preoc-
cupazioni di Israele circa le ambizioni nucleari della Repubblica Islamica. In tal
senso, l’accento posto dal presidente americano Joe Biden in occasione dell’in-
contro con il primo ministro israeliano Naftali Bennett del 27 agosto sulle «altre
opzioni» a disposizione degli Stati Uniti per fermare il programma nucleare dell’I-
ran, nel caso in cui la diplomazia dovesse fallire, rappresenta per Gerusalemme
un segnale incoraggiante 10.
Ma la minaccia iraniana non è confnata all’ambizione di Teheran di dotarsi
dell’arma atomica. La geostrategia della Repubblica Islamica è fondata su due di-
rettrici, entrambe dirette verso il Mediterraneo. La prima è il ponte terrestre che
permetterebbe all’Iran di connettere il proprio territorio al bacino mediterraneo via
Iraq, Siria e Libano, di fornire armamenti a Õizbullåh con molta più facilità e di
premere su Israele non solo dal confne libanese ma anche da quello siriano. La
seconda direttrice è la rotta marittima che dal Golfo Persico raggiunge il Mediter-
raneo attraverso il Mar Arabico, il Golfo di Aden, il Mar Rosso e il Canale di Suez.
L’Iran usa la sua proiezione nei mari principalmente per rifornire di armi e
risorse i suoi alleati e agenti di prossimità regionali, i quali a loro volta conducono
attacchi contro i nemici di Teheran, tra i quali fgura ovviamente Israele. Õizbullåh
ha ad esempio un ruolo fondamentale nel permettere alla Forza Quds delle Guar-
diani della rivoluzione islamica di esportare prodotti petroliferi in Siria aggirando
le sanzioni. Gerusalemme ha preso le dovute contromisure fn dalla metà del 2018,
consapevole che le forniture energetiche al regime siriano – cui si accompagnano
spesso carichi di armi – sono diventate il principale strumento con il quale la Re-
pubblica Islamica fnanzia Õizbullåh 11.
In tale contesto, la sfera marittima si confgura come un’ulteriore, multidi-
mensionale arena di cui Gerusalemme deve assicurarsi il controllo per potersi
difendere dalle minacce alla sua sicurezza ed esercitare un’effcace deterrenza nei
confronti dei rivali.
Se da un lato lo spazio marittimo comporta per Israele una responsabilità
aggiuntiva, dall’altro può permettergli di estendere la sua profondità strategica.
Dunque, di allontanare la linea del fronte dal nucleo dello Stato. Dallo heartland
della nazione, composto dalle aree densamente popolate, dalle città più importanti
e dalle installazioni industriali maggiormente strategiche. In altri termini, di ridurre
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la vulnerabilità del proprio centro di gravità alle forze nemiche in caso di guerra.
In tal senso, il recente sviluppo degli ingenti giacimenti offshore di gas naturale
ha signifcativamente rafforzato la posizione di Israele in ambito non solo energe-
tico ma anche e soprattutto geopolitico. Dal gennaio 2017 lo Stato ebraico esporta
il gas del giacimento Tamar in Giordania e dal gennaio 2020 quello del giacimento
Leviathan in Egitto. Per quanto i confitti con i vicini non possano essere risolti
meramente attraverso la vendita di gas, tali esportazioni possono aiutare lo Stato
ebraico a contenerli aumentando la dipendenza dei paesi limitrof.
L’importanza della dimensione mediterranea per Israele è inoltre reifcata nei
tre cavi sottomarini che ne garantiscono la connessione a Internet e dal ruolo cru-
ciale che il paese riveste nella realizzazione da parte di Google del cavo in fbra
ottica Blue-Raman, che connetterà India e Italia proprio attraverso lo snodo israe-
liano 12. A ciò va aggiunto che il Mediterraneo è per lo Stato ebraico una fonte vitale
di acqua potabile, dal momento che la desalinizzazione assicura il 60% di quella
consumata nel paese 13.
Malgrado la sua importanza strutturale per la sicurezza e la prosperità di Isra-
ele, l’ambito marittimo è quasi completamente assente dal dibattito pubblico na-
11. M. LEVITT, «Iran and Israel’s Undeclared War at Sea (Part 1): IRGC-Hezbollah Financing Schemes»,
The Washington Institute for Near East Policy, Policy Watch 3466, 6/4/2021, bit.ly/38kzLxJ
12. A. ZIV, «Israel to Play Key Role in Giant Google Fiber Optic Cable Project» Haaretz, 14/4/2020,
bit.ly/3mNk0Ip
13. R. JACOBSEN, «Israel Proves the Desalination Era is Here», Scientifc American, 29/7/2016, bit.
ly/3BgEIEi 201
IL MEDIOCEANO È LA PROFONDITÀ STRATEGICA DI ISRAELE
zionale. La cultura e la storia marittima non sono d’altra parte i tratti distintivi dello
Stato ebraico: se dovessimo dividere nettamente i paesi in base alla consapevolez-
za o alla mancanza di consapevolezza dell’importanza dei mari, Israele ricadreb-
be senza dubbio in quest’ultima categoria. Lo dimostra il modo in cui, lo scorso
febbraio, Gerusalemme ha affrontato lo sversamento in mare di grandi quantità di
catrame. Il disastro ambientale che ha devastato la costa mediterranea – il più gra-
ve dell’ultimo decennio – ha esposto l’incapacità del governo di defnire il quadro
legale necessario a governare le acque e persino di stabilire le rispettive responsa-
bilità delle agenzie interessate 14. Carenze che il paese deve assolutamente risolvere
per prevenire catastrof analoghe nel prossimo futuro.
Un altro aspetto cruciale della geopolitica marittima israeliana è la delimitazio-
ne dei confni marittimi, operazione necessaria a creare un contesto stabile e sicuro
per gli imprenditori che operano nel settore e per le compagnie energetiche impe-
gnate nelle attività di esplorazione. Nel 2010 Israele ha siglato con Cipro un accor-
do per la defnizione delle rispettive Zee e di recente, sotto l’egida degli Stati Uniti,
ha avviato negoziati indiretti con il Libano per demarcare i confni marittimi in base
ai princìpi contenuti nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare
(Unclos) 15. Nel 2013 il viceprocuratore generale israeliano ha stabilito che «Israele
recepisce le disposizioni dell’Unclos, incluse quelle relative alle aree marine».
Negev e il relativo sbocco sul Golfo di ‘Aqaba all’interno dei confni dello Stato
da loro immaginato. La ragione principale di tale insistenza stava nell’importanza
strategica di disporre di un accesso al Mar Rosso. Quest’ultimo veniva individua-
to come un’alternativa vitale al Canale di Suez, passaggio che i paesi arabi ostili
avrebbero potuto chiudere. Il Piano di partizione della Palestina elaborato dalle
Nazioni Unite nel 1947 accolse le richieste della comunità ebraica, inserendo all’in-
terno del territorio del futuro Israele la città di Eilat – allora nota come Umm al-
Rašråš. La conquista di questo avamposto sul Golfo di ‘Aqaba da parte delle Forze
armate israeliane (Idf) nella guerra d’indipendenza del 1948 ha conferito fn da
subito allo Stato ebraico una preminente dimensione medioceanica, nonché una
posizione geostrategica unica.
La vicenda storica di Israele è particolarmente istruttiva per comprendere l’im-
portanza della libertà di navigazione attraverso gli stretti e i rischi a essa associati. I
due principali confitti combattuti da Gerusalemme dopo la guerra d’indipendenza
del 1948 – la guerra del Sinai del 1956 (nota anche come crisi di Suez) e la guerra
dei Sei giorni del 1967 – avevano natura prevalentemente terrestre, ma entrambe
furono innescati dalla chiusura da parte dell’Egitto degli Stretti di Tørån, all’imboc-
catura del Golfo di ‘Aqaba.
14. S. CHOREV, «Israel must increase its maritime awareness in light of recent oil spill», The Jerusalem
Post, 1/3/2021, bit.ly/3jmiYRj
15. «Israel and Lebanon hold maritime border talks, in frst since Biden took offce», The Times of
202 Israel, 4/5/2021, bit.ly/2WtyNg6.
LEZIONI AFGHANE
luzione islamica nei confronti della petroliera israeliana Mercer Street al largo della
costa dell’Oman ha segnato una notevole escalation del confronto, dal momento
che è stato il primo incidente di questo tipo a provocare vittime 20. Gli episodi degli
scorsi mesi sono nel loro complesso molto diversi da quelli dell’ultimo biennio,
dal momento che l’Iran ha iniziato a prendere di mira quasi esclusivamente im-
barcazioni commerciali legate più o meno direttamente a Israele. Inoltre, Teheran
sembra aver abbandonato i «limiti» che caratterizzavano il suo approccio, esibendo
scarsa o nulla considerazione per il sacrifcio di vite umane. Si tratta di una sfda
che non riguarda solo Gerusalemme, come ha di recente messo in chiaro il mini-
stro degli Esteri israeliano Yair Lapid, il quale ha accusato la Repubblica Islamica
di «esportare terrorismo, distruzione e instabilità», invitando il mondo a «non restare
in silenzio di fronte a una minaccia terroristica che mette in pericolo la libertà di
commercio marittimo di tutti i paesi» 21.
Indipendentemente dalla reazione internazionale, Israele deve urgentemente
determinare l’effcacia strategica delle operazioni iraniane tra Mar Arabico e Mar
Rosso e stabilire se alla luce delle capacità operative della propria Marina sia ne-
19. «With the Suez Canal Unblocked, the World’s Commerce Resumes Its Course», The New York Ti-
mes, 29/3/2021, ultimo aggiornamento 25/6/2021, nyti.ms/3BmkMzT
20. K. FAHIM, S. RUBIN, «U.S., Britain, Israel blame Iran for fatal drone strike on oil tanker; Tehran denies
responsibility», The Washington Post, 1/8/2021, wapo.st/3yr4ZxY
21. L. BARRINGTON, J. SAUL, D. WILLIAMS, «Israel blames Iran for attack on tanker off Oman that killed
204 two», Reuters, 31/7/2021, reut.rs/3jqBE2z
LEZIONI AFGHANE
Dal Medioceano non afforano però solo minacce, ma anche opportunità. Isra-
ele deve essere pronto a fronteggiare le prime e a cogliere le seconde. Perché que-
sto possa avvenire, è necessario che Gerusalemme elabori una strategia marittima
coerente e impari a concettualizzare Mediterraneo e Mar Rosso come componenti
fondamentali della propria profondità strategica. Solo così lo Stato ebraico potrà
mantenere aperte e sicure le vitali vie di comunicazione marittime che attraversa-
no il Golfo di Aden e Båb al-Mandab, tradurre in benefci geopolitici i vantaggi
derivanti dallo sfruttamento degli ingenti giacimenti di gas offshore e approntare
effcaci politiche ambientali che gli consentano di garantire il benessere ecologico
del suo ambiente marino.
Si tratta di sfde che possono essere affrontate solo in parte facendo ricorso alle
risorse nazionali. Per superarle è necessaria una sempre più profonda cooperazio-
ne con gli Stati della regione che condividono i medesimi interessi e le medesime
preoccupazioni di Israele.
22. S. CHOREV, D.J. FEITH, G. ROUGHEAD, S. CROPSEY, J. DORSETT, «Why does US Central Command now
include Israel?», The Jerusalem Post, 28/1/2021, bit.ly/38lYQbJ
23. H. KUPERMAN, «Securing the Bab el-Mandeb: Can Threats to the Red Sea Drive Regional Coopera-
tion?», Gulf International Forum, 1/4/2021, bit.ly/3mWJOlt 205
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LEZIONI AFGHANE
L’EGITTO HA LE CHIAVI
DEL MEDIOCEANO
E INTENDE USARLE di THE BIG PHARAOH
Il Cairo punta al ruolo di perno energetico nel sistema medioceanico.
Ma le strutturali fragilità interne ne condizionano la strategia,
costringendolo all’equilibrismo tra le potenze da cui dipende.
La crisi della diga etiope è l’occasione per riproiettarsi in Africa.
quanto via di transito di uno dei corridoi operativi della Belt and Road Initiative
(Bri) cinese, quello appunto marittimo, evento che inevitabilmente ha contribuito
a elevarne lo status di quadrante strategico.
Le ragioni alla base della sua rinnovata centralità possono essere sintetizzate in
quattro aspetti. Il primo, come sopra accennato, riguarda la sua funzione di con-
nettore tra i principali mercati orientali e occidentali. Lo esplicano i dati del Canale
di Suez: detentore del 30% del traffco container globale, questo passaggio resta
cruciale e privo di alternative per il commercio mondiale, come ha plasticamente
dimostrato l’incidente della nave portacontainer Ever Given nel marzo 2021. Il se-
condo è che molti dei paesi rivieraschi medioceanici stanno attraversando una fase
di rapido sviluppo economico. Nel 2019 l’Africa orientale è stata la regione con i
tassi di crescita più alti del continente, con una media del 5% annuo 1. Al contem-
po, e siamo al terzo aspetto, molti di questi paesi continuano a scontare una forte
instabilità politica, contribuendo ad affollare le vie transmediterranee di migranti
che premono sull’Europa. In quarto luogo, il corridoio Mar Rosso-Mediterraneo è
ricco di risorse naturali e di aree e terreni fertili la cui prossimità all’Europa li pone
al centro degli interessi delle principali cancellerie del continente, e non solo. Oltre
agli idrocarburi delle Libie e dell’Algeria che da decenni calamitano l’attenzione
delle potenze, ad attrarre queste ultime sono le vaste aree di gas non sfruttato sot-
1. M.R. LIN, «The Boom of Economic Growth in East Africa», The Borgen Project, 14/5/2021, bit.
ly/3DxEKcY 207
L’EGITTO HA LE CHIAVI DEL MEDIOCEANO E INTENDE USARLE
2. L. ZHOU, «How a Chinese investment boom is changing the face of Djibouti», South China Morning
208 Post, 17/4/2017, bit.ly/3mHTiAO
LEZIONI AFGHANE
Per capire come si è evoluta negli ultimi dieci anni la strategia egiziana nel
Medioceano bisogna partire da un assunto: ovvero che ogni mossa del Cairo è
condizionata dalle sue vulnerabilità, dalle sue paure e non dall’effettivo desiderio
di estrofettere la propria infuenza nel suo intorno geografco, come fanno le altre
potenze. Queste vulnerabilità sono, in particolare, la sua strutturale debolezza eco-
nomica, l’incombente crisi idrica che minaccia il paese, il declino della sua rilevan-
za regionale a vantaggio di altre potenze come quelle del Golfo.
Per rimediare a queste debolezze intrinseche l’Egitto sta puntando sul compar-
to gasiero ed elettrico per tramutarsi in hub energetico regionale di riferimento. Il
Cairo è l’unico detentore nel Mediterraneo di impianti per il gas naturale liquefatto
(quelli di Damietta e Idku) e può dunque proporsi come snodo per l’esportazione.
A inizio 2021 ha trovato un accordo con Israele per la costruzione di un gasdotto
che colleghi il giacimento offshore israeliano Leviathan 3 agli impianti di rigassifca-
zione egiziani, che consentirebbero inoltre al Cairo di riesportare il gas da Grecia,
Cipro e Palestina.
Oltre al gas l’Egitto ha investito profcuamente anche nell’elettrico. A metà
agosto il presidente libanese Michel Aoun (Møšål ‘Awn) ha annunciato un accordo
con Il Cairo per la fornitura di elettricità, prodotta in Giordania grazie al gas egizia-
no ed esportata in Libano via Siria (sotto l’egida americana 4). Gli accordi per le
forniture elettriche riguardano inoltre le Libie e il Sudan, ma esistono piani per
esportare l’elettricità egiziana anche in Iraq, sempre attraverso la Giordania, e
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3. Altra questione che minaccia il declino egiziano nella regione è quella delle
risorse idriche. La minaccia della Grande diga per la rinascita etiopica (Gerd nell’a-
cronimo inglese) è uno di quei fenomeni che informano la geopolitica regionale
3. A. GOMAA, «How Egypt benefts from gas agreement with Israel», Al Monitor, 25/2/2021, bit.
ly/3mJl3ZL
4. W. CHRISTOU, «US gives green light for Lebanon to import electricity, gas through Syria», The New
Arab, 19/08/2021, bit.ly/3mNWjPW
5. «Egypt-Libya electricity interconnection line to achieve power linkage with Europe», State Informa-
tion Service, 20/8/2021, bit.ly/3yxpOYu
6. «Egypt Expands Railway Network to Include Sudan, Libya», Asharq al-Awsat, 18/1/2021, bit.
ly/3jsP65M 209
L’EGITTO HA LE CHIAVI DEL MEDIOCEANO E INTENDE USARLE
del Cairo. Il problema idrico egiziano non riguarda solo le conseguenze dell’attiva-
zione della diga. La rapida crescita della popolazione ha infatti sottoposto a una
forte pressione le forniture d’acqua del paese. È stimato 7 che entro il 2025 l’approv-
vigionamento idrico egiziano scenderà sotto i cinquecento metri cubi pro capite,
un livello che gli idrologi defniscono di «scarsità assoluta».
Per contrastare questa minaccia, l’Egitto si sta freneticamente adoperando per
salvare il salvabile, stringendo alleanze economiche e militari con i paesi dell’Africa
centrale e orientale, soprattutto tra quelli del bacino del Nilo, cercando allo stesso
tempo di «circondare» l’Etiopia tramite una vasta rete di alleanze.
Uno dei maggiori errori strategici dell’èra dell’ex presidente egiziano Hosni
Mubarak è quello di aver trascurato la proiezione africana del paese. Molti analisti
addebitano tale mancanza al deterioramento dei rapporti con i vicini successivo al
fallito attentato contro Mubarak perpetrato a Addis Abeba nel 1995; altri all’arro-
gante politica egiziana incentrata sul falso mito della sua potenza militare. Poco
importa. Tale postura è stata rovesciata con la presidenza di al-Søsø, specialmente
dopo l’annuncio della costruzione della diga sul Nilo Azzurro e l’emersione di tut-
te le fragilità egiziane. Per riproiettarsi in Africa orientale e centrale, Il Cairo ha
stretto alleanze economiche e militari con l’obiettivo di convogliare alleati sotto la
propria infuenza e isolare Addis Abeba.
Il paese più importante con cui l’Egitto è riuscito intessere buoni rapporti è
sicuramente il Sudan, suo storico antagonista regionale. Nonostante Khartûm si
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
senta meno minacciata dalle conseguenze della diga etiope, recentemente sembra
aver smesso i panni del mediatore per cominciare a pendere dalla parte egiziana.
Egitto e Sudan hanno infatti condotto due importanti esercitazioni militari di sorvo-
lo aereo del territorio sudanese nel novembre 2020 e nel marzo 2021, per poi
proseguire con un’esercitazione congiunta terrestre, aerea e marittima nel maggio
2021. Secondo lo Stato maggiore sudanese, tali esercitazioni avevano come scopo
lo scambio di competenze militari e il rafforzamento della cooperazione bilaterale 8
per contrastare potenziali minacce ai due paesi.
L’allineamento strategico con il Sudan si è quindi esteso alla collaborazione
economica. Oltre alla proposta di linea ferroviaria sopra menzionata, l’Egitto si è
offerto di assistere il Sudan nella costruzione di una zona industriale cogestita a
Khartûm per rafforzare la cooperazione commerciale. Il cambio di prospettiva su-
danese sulla questione della Gerd è dimostrazione plastica del successo di questo
insolito tandem. Prima del primo riempimento (luglio 2020) la posizione del Su-
dan, in particolare quella del ramo civile del suo governo, propendeva per valuta-
re i possibili benefci della diga. Approccio ribaltato alla vigilia del secondo riem-
pimento (luglio 2021) quando entrambe le branche del suo governo, civile e mili-
tare, si sono allineate alla posizione intransigente del Cairo.
7. Y. COHEN, «Egypt has a water problem – and no, it’s not only the GERD», Atlantic Council, 27/10/2019,
bit.ly/3jqJQQg
210 8. M. SOLIMAN, «Egypt’s Nile strategy», Middle East Institute, 28/6/2021, bit.ly/3yrcXqN
LEZIONI AFGHANE
IL CANALE DI SUEZ
Numero di
Anno imbarcazioni
Lunghezza complessiva (km): Mar Mediterraneo
2011 17.799
1869 164
1956 175 2012 17.224
1962 175 2013 16.596
1980 189,90
1994 189,80 2014 17.148
1996 189,80 2015 17.483
2001 191,80
2015 193,30
Porto Sa(īd 2016 16.833
2017 17.550
Lunghezza dei canali di derivazione (km):
1869 - Port Fu)ād 2018 18.174
1956 27,7 Rās al-(Išš 2019 18.880
1962 27,7
1980 77
1994 77
Tonnellate
1996 77 Tīna d’ingombro
2001 79 Anno (migliaia)
2015 113,3
2011 691.800
Larghezza a 11m di profondità (m):
Kābr
2012 739.911
1869 -
1956 60 2013 754.461
1962 89 al-Qantara 2014 822.344
1980 160/175
1994 170/190 2015 822.916
1996 180/200 Balla 2016 819.156
2001 195/215
2015 205/225 Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
2017 908.569
al-Firdān 2018 983.398
Profondità dell’acqua (m):
1869 8 2019 1.031.192
1956 14
1962 15,5 Ismā(īliyya Lago al-Timsāh
1980 19,5
1994 20,5
1996 21 Toussoum
2001 22,5
2015 24
Area trasversale (m 2): SFIORATORE
1869 304
1956 1.200
1962 1.800 Lago Grande
1980 3.250/3.600
1994 3.600/4.000
1996 3.850/4.300
2001 4.350/4.800
2015 4.800/5.200
Kabrīt
Ginēfa
Šallūfa
Suez
Port
Tawfīq
Golfo
di Suez 211
Fonte: Suez Canal Authority
L’EGITTO HA LE CHIAVI DEL MEDIOCEANO E INTENDE USARLE
razione economica.
Operazioni funzionali al contenimento dell’Etiopia e della sua estrofessione
regionale. Il nuovo corso delle relazioni tra Etiopia ed Eritrea, a seguito della pace
del 2018, ha provocato sconquasso e paura nei paesi dell’Africa orientale, a causa
soprattutto dell’atteggiamento di Asmara. Sentimenti che Il Cairo vorrebbe sfruttare
a proprio vantaggio. L’Etiopia è infatti paese profondamente instabile dunque im-
prevedibile, sfbrato da una crisi interna dovuta alla guerra civile tra governo e
fronte tigrino. L’Egitto potrebbe sfruttare l’occasione per mostrarsi potenza rassicu-
rante e demoltiplicare l’infuenza etiope nella regione, attirando sotto la propria ala
i paesi limitrof.
9. «Egypt accomplishes underground water treatment plant in South Sudan», Egypt Today, 24/06/2021,
bit.ly/3gNndns
10. B. MOHAMMED, «Egypt’s Al-Sisi arrives in Djibouti on 1st presidential visit since 1977», Daily News
212 Egypt, 27/5/2021, bit.ly/2V2SNpB
LEZIONI AFGHANE
logica degli ultimi anni. Condizione che tuttavia Il Cairo soffre e sulla quale non
sempre ha mostrato di essere allineato. Si veda il tenue supporto egiziano alla co-
alizione saudo-emiratina nella guerra in Yemen (circoscritto all’invio simbolico di
un contingente navale a inizio operazioni). O la guerra nelle Libie, dove Il Cairo ha
inizialmente vacillato nel sostenere l’assalto libico di Õaftar a Tripoli. Persa la bat-
taglia in Tripolitania, l’Egitto non ha avuto problemi nel rinnegare Õaftar e tentare
di ristabilire ponti con Tripoli, recuperando la posizione di mediatore tra i due
fronti. Anche nella guerra di Siria Il Cairo è rimasto fermo sostenitore del regime di
Baššår al-Asad mentre Riyad si schierava con i ribelli.
Il secondo punto riguarda il Canale di Suez: Il Cairo teme che la competizione
tra le potenze possa metterne a repentaglio gestione e navigabilità, da cui la fragile
economia egiziana dipende fortemente, soprattutto in questa fase post-epidemica.
Terzo, essendo un paese dalle risorse limitate, l’Egitto si è mosso, come molti
altri attori della regione, destreggiandosi tra le maggiori potenze mondiali in base
ai propri interessi. Nonostante resti alleato fondamentale degli Stati Uniti, Il Cairo
ha stretto massicci accordi economici e militari con Russia e Cina. Compra arma-
menti bellici russi per diversifcare il suo arsenale e ha ricevuto un gigantesco
prestito da Mosca di 25 miliardi di dollari per costruire il reattore nucleare di
Îab‘a 11. Le società cinesi sono invece coinvolte nella costruzione della nuova ca-
pitale amministrativa e delle zone industriali del Canale di Suez. Persino i comples-
si rapporti con la Turchia sono migliorati, dopo un deterioramento durato otto
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
anni dal colpo di Stato che depose Mursø nel 2013, con la ripresa delle relazioni
commerciali e la riapertura dei voli diretti Il Cairo-Istanbul.
La Turchia resta infatti uno dei maggiori partner commerciali dell’Egitto. Quan-
do nell’estate 2020 Egitto e Grecia hanno frmato un accordo di delimitazione
marittima nel Mediterraneo orientale, Il Cairo non ha accolto le richieste di Atene
di includere l’isola di Kastellorizo – e parte della costa di Rodi, aree di frizione
greco-turca che la Grecia considera sotto la propria giurisdizione – per non mette-
re in imbarazzo il governo di Ankara 12. Ai segnali di distensione turchi l’Egitto ha
risposto favorevolmente ma con cautela, interponendo una serie di condizioni
necessarie a ristabilire buoni rapporti. Eclatante è stata poi la decisione di Ankara
la scorsa primavera di silenziare i media turchi legati ai Fratelli musulmani e critici
nei confronti del Cairo 13. Evidente indicazione del fatto che la Turchia soffre il
proprio isolamento e che necessita dell’appoggio egiziano più di quanto l’Egitto
abbia bisogno di quello turco.
Lo scaturire di una dura competizione tra potenze regionali ed extraregionali
nello spazio medioceanico provoca negli egiziani sentimenti di preoccupazione,
per l’eventuale riduzione dei margini di manovra, e insieme di invidia, perché non
riesce a far valere il proprio peso specifco. Motivi che informano la strategia egi-
ziana nel Medioceano, imperniata sull’esigenza di mitigare necessariamente le pro-
11. «Russia lends Egypt $25 billion for Dabaa nuclear power plant», Al-Monitor, 23/2/2020, bit.ly/3jvGc7R
12. M.Ş.ORUÇ, «Concession to Egypt, confrontation with Turkey», Daily Sabah, 13/8/2020, bit.ly/38sXgos
13. «Turkey Asks Brotherhood TV Channels to Dim Criticism of Egypt», Voanews, 19/5/2021, bit.ly/3ky3ZDi 213
L’EGITTO HA LE CHIAVI DEL MEDIOCEANO E INTENDE USARLE
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
214
LEZIONI AFGHANE
A CACCIA
DI UN POSTO AL SOLE
NEL MAR ROSSO di Fabrizio MARONTA
Nelle acque strette fra Asia e Africa le potenze cercano basi,
si contendono influenze. Crocevia dei cavi Internet, connettore
del 10% del commercio mondiale, teatro delle guerre dell’acqua:
un mare strategico. Tutti a Gibuti, sempre più cinese.
poli economico-commerciali asiatici come Cina, India, Giappone e Corea del Sud
dipendono fortemente da questa giugulare per i loro scambi di materie prime, se-
milavorati, beni intermedi e prodotti fniti. I remoti Stati Uniti potrebbero apparirne
avulsi, se non fosse che fno a 50 navi militari americane vi transitano annualmen-
te sulla via per i contesi mari asiatici 2.
La centralità geostrategica di questo mare semichiuso e dei due colli di botti-
glia che lo delimitano – Suez a nord e a sud lo Stretto di Båb al-Mandab, porta
d’accesso per il Golfo di Aden e di lì al Mar Arabico, propaggine mediorientale
dell’Oceano Indiano – non si limita peraltro alla superfcie. A oggi non vi è alcun
cavo in fbra ottica interamente terrestre che attraversi la Penisola Arabica. Tutto il
traffco dati tra Europa e Asia passa attraverso il Caucaso e la Repubblica Islamica
usando la Europe-Persia Express Gateway (Epeg), oppure si incanala nelle ben più
congestionate dorsali passanti per il Mar Rosso e l’Egitto. Quest’ultimo è snodo
fondamentale dell’Internet globale, crocevia di dati da/per Asia, Africa e Medio
Oriente: i ben 15 cavi in fbra ottica che lo attraversano unendo Mediterraneo e Mar
Rosso servono, a seconda dei momenti, tra il 17% e il 30% del traffco dati globale,
pari a un’utenza compresa tra 1,3 e 2,3 miliardi di persone 3. La ragione di questa
1. A. DRIBSSA BEYENE, «The Horn of Africa and the Gulf: Shifting power plays in the Red Sea», The Africa
Report, 16/11/2020.
2. D.H. SHINN, «The Red Sea: A magnet for outside powers vying for its control», The Africa Report,
27/11/2020.
3. P. COCHRANE, «Red Sea cables: How UK and US spy agencies listen to the Middle East», Middle East
Eye, 4/3/2021. 215
A CACCIA DI UN POSTO AL SOLE NEL MAR ROSSO
4. Ibidem.
5. P. COCHRANE, «Digital Suez: How the internet fows through Egypt – and why Google could change
216 the Middle East», Middle East Eye, 3/3/2021.
LEZIONI AFGHANE
R U S S I A
REP. CECA
GERMANIA SLOVACCHIA Belgorod
Francoforte
Kiev
U C RAI N A Rostov-na-Donu
L. d’Aral
Budapest Stavropol’
AUSTRIA
UNGHERIA
Mahačkala
Mar Nero
AZERBAIGIAN
Mar
Caspio
Teheran
Mar Mediterraneo IRAN
G.
Pe
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Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
ico Jask
Dubai
E.A.U. Mascate
Ma
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OMA N
oss
di cui fanno parte Gibuti, Etiopia, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan e Uganda,
volta a garantire la sicurezza della regione; mentre nel 2020 è stata la volta del
Council of Arab and African Littoral States of the Red Sea and Gulf of Aden, creato
da Arabia Saudita, Sudan, Gibuti, Somalia, Eritrea, Egitto, Yemen e Giordania per
favorire la cooperazione in ambito economico, di sicurezza e ambientale 6.
parte scindibile da quello militare in virtù della funzione di protezione delle strate-
giche rotte di approvvigionamento svolta dalle installazioni a uso bellico.
Il Mar Rosso e le sue due crune pullulano di porti commerciali a servizio delle
rotte Asia-Europa, ma anche del forente mercato africano e di quelli mediorientali.
L’Egitto è il paese che vanta il maggior numero di porti civili sul Mar Rosso: otto
commerciali (tra cui al-Suœna, gestito dall’emiratina Dp World), cinque petrolifero-
minerari e turistici, tre cui fanno capo le attività di pesca industriale. Sull’altra sponda
i sauditi hanno sei scali medio-grandi, tre dei quali gestiti da società degli Emirati: Dp
World sovrintende il South Container Terminal del porto di Gedda, Red Sea Marine
Services i due terminal del King Fahad Industrial Port Yanbu, Global Marine Services
e Red Sea gestiscono un terminal ciascuna nella parte commerciale di Yanbu‘.
Il principale scalo sudanese è Porto Sudan, gestito dalla sudanese Sea Ports
Corporation che ha in carico anche i porti Oseif e Prince Osman Digna sull’isola
di Sawåkin,, antico scalo ottomano oggetto di un recente accordo con la Turchia
che intende farne una destinazione turistica. Il porto di Massaua è invece il prin-
cipale terminal per le importazioni dell’Eritrea; a febbraio 2021 risale la notizia di
un accordo tra Asmara e l’emiratina Dp World per il suo ammodernamento, ma
il governo eritreo ha sin qui smentito, affermando che non vi è ancora niente di
defnitivo. L’iperstrategico porto di Gibuti, che domina Båb al-Mandab, è detenu-
to al 23,5% da China Merchants Port Holdings, compagnia di Stato cinese. Lo
scalo comprende il terminal container di Doraleh, assegnato nel 2006 a Dp
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
7. «Dp World says wins ruling against Djibouti’s port company», Reuters, 12/7/2021.
8. M. LABRUT, «Dp World and Somaliland open new terminal at Berbera Port», Seatrade Maritime News,
23/8/2021.
218 9. «Gunmen kill Dubai-owned P&O Ports executive in Somalia’s Puntland», Reuters, 4/2/2019.
LEZIONI AFGHANE
7 ‘Aqaba
8
9
10 Za’farāna
1 IMEWE 12.091 km
Dubā
2 SeaMeWe-3 39.000 km Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
3 SeaMeWe-4 20.000 km
4 Flag Europe-Asia (FEA) 20.000 km
5 India Europe Express (IEX) 20.000 km
6 Asia Africa Europe-1 (AAE-1) 20.000 km
7 Middle East North Africa (MENA) 20.000 km
Ma
9 SeaMeWe-5 20.000 km
os
so
3. Ferma restando l’importanza degli scali civili, sono però le installazioni mi-
litari che determinano in massima parte la capacità di proiezione e difesa degli
interessi – anche commerciali – degli attori litoranei.
Berenice è la base egiziana più grande sul Mar Rosso, nonché la maggiore in
assoluto nel bacino 10. Inaugurata dal presidente ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø nel gennaio
2020, è situata a est di Assuan e copre (tra infrastrutture e area d’interdizione circo-
stante) ben 630 km2. Il suo fne strategico, debitamente pubblicizzato dal Cairo, è
proteggere le coste meridionali, gli investimenti economici e le risorse naturali
10. «Egypt’s biggest military base on the Red Sea in details», Egypt Independent, 15/1/2020. 219
A CACCIA DI UN POSTO AL SOLE NEL MAR ROSSO
dell’Egitto, rispondendo alle sfde che promanano dal Mar Rosso. In particolare, la
base deve assicurare la fuidità della satura rotta commerciale passante per Suez e
relativo sistema industrial-portuale, ganglio vitale dell’economia egiziana. La base
ha due sezioni distinte, navale e aerea. Quest’ultima ha due piste da 3 chilometri
ciascuna e un hangar offcina con annessa area tecnica di circa 45 edifci, nonché
un’area amministrativa che conta oltre 50 edifci. La sezione navale ha invece un
molo militare di un chilometro e 14 metri di pescaggio, idoneo all’attracco di por-
taerei, sommergibili e fregate. Conta anche poligoni e numerosi edifci logistici,
oltre ad alloggi per le truppe e un moderno ospedale. Sono in corso lavori per la
realizzazione di una sezione commerciale con moli da 1.200 metri e 17 metri di
pescaggio, oltre a 40 chilometri di viabilità interna che si aggiungeranno ai circa
110 delle sezioni militari. Vi è infne un aeroporto civile con pista da 3,6 chilometri,
hub da otto velivoli e terminal da 600 passeggeri l’ora.
Israele e Giordania hanno basi navali attigue, rispettivamente a Eilat e ‘Aqaba,
mentre la base navale Re Faisal ospita la Flotta occidentale saudita. Da tempo in
attrito con Riyad, la Turchia ha recentemente prolungato di un anno la sua missio-
ne navale nel Golfo di Aden, nel Mar Arabico e nelle acque territoriali somale, a far
data dal 10 febbraio 2021. L’approccio turco ai sauditi nell’area (e altrove) è ambi-
valente, ma non contraddittorio: da un lato sfoggio di buona volontà per superare
gli strascichi della crisi seguìta all’omicidio di Jamal Khashoggi, dall’altro una pre-
senza navale deterrente e funzionale allo sforzo negoziale, a puntualizzare che la
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normalizzazione diplomatica non implica per Ankara l’abbandono del suo ruolo
nel Corno d’Africa. Anzi: la Turchia punta a compensare in Yemen e in Somalia lo
smacco del Sudan, sulla cui citata isola di Sawåkin, intendeva stabilire una base
navale prima che il golpe a Khartûm ribaltasse gli equilibri a favore dei sauditi,
facendo sfumare un progetto oggi ridotto (sviluppi politici permettendo) alla sola
dimensione turistico-commerciale. Già nel settembre 2017 Ankara aveva aperto
una base militare nei pressi di Mogadiscio, in Somalia, per addestrare le reclute
dell’esercito somalo: estesa su circa 4 km2, è costata oltre 50 milioni di dollari e può
ospitare fno a 1.500 soldati. Con oltre 200 militari turchi stanziati in permanenza,
è la maggiore base militare all’estero della Turchia, che fornisce anche istruttori e
attrezzature a Marina e Guardia costiera somale 11.
L’ex base navale degli Emirati ad Assab, in Eritrea, ha svolto un ruolo cruciale
nelle operazioni emiratino-saudite in Yemen: perno della strategia regionale della
federazione, è divenuta presto il punto di partenza delle sue sortite aeree e un
avamposto per la sua fanteria, nonché per i soldati e i mercenari sudanesi che la
integravano. Ma ciò era prima che, nel 2019, gli Emirati uscissero (uffcialmente)
dallo Yemen: da allora si sono prodotti sviluppi che attestano gli sforzi del paese
per ricalibrare la propria presenza strategica nell’area.
Nel marzo 2021 immagini satellitari hanno rivelato una pista da 1,8 chilometri
– capace di servire grandi velivoli militari – e altre strutture di servizio (tra cui una
11. N. MELVIN, «The foreign military presence in the Horn of Africa region», Sipri Background Paper,
220 aprile 2019.
LEZIONI AFGHANE
dal Tigrè e dalla crisi economica che attanaglia il paese, ma non negano che siano
anche una risposta ai recenti accordi militari siglati dal Cairo con Sudan, Uganda,
Burundi, Ruanda e Gibuti per isolare Addis Abeba e indebolirne la posizione nella
contesa idrica 15. Anche per questo nel giugno 2018 il premier etiope Abiy Ahmed,
che presiede l’esecutivo di un paese privo di sbocchi al mare, si è impegnato 16 a
ricostituire la Marina nazionale dissolta nel 1996. A marzo dell’anno successivo,
durante la visita del presidente francese Emmanuel Macron, i due paesi hanno
frmato un protocollo di cooperazione militare per lo sviluppo della Marina etiope
e l’addestramento del relativo personale in Francia.
rabia Saudita, potenza economica regionale, è più che doppio rispetto a quelli di
Egitto, Sudan, Eritrea e Somalia messi insieme) e una relativa stabilità politico-isti-
tuzionale; il Corno d’Africa ha la geografa, la terra e la demografa (tutti i paesi
della sponda africana del Mar Rosso patiscono bassi indici di sviluppo umano 17
essendo affitti da sovrappopolazione, povertà e volatilità politica). Questa la cifra
del rapporto tra i due versanti del mare stretto, che a sua volta dà il tono alle rela-
zioni tra mondo arabo e mondo africano. Su tale sfondo, negli ultimi anni gli atto-
ri emiratini mostrano di prediligere le attività di sviluppo e gestione portuale nell’ot-
tica di un’economia post-petrolifera, mentre i sauditi hanno puntato soprattutto
alle fertili terre del Corno in chiave di sicurezza alimentare, per la quale dipendono
dalle importazioni, dunque dalle futtuazioni di prezzo e offerta esteri. La regola
generale ammette ovviamente sfumature e deroghe.
Come il grosso dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), anche
gli Emirati hanno sviluppato attività agricole in Sudan ed Etiopia; società emiratine
hanno altresì investito in industria, edilizia, infrastrutture, logistica e telecomunica-
zioni per controllare le fliere di approvvigionamento che dal Corno d’Africa, via
Mar Rosso, fanno capo al porto Ãabal ‘Alø di Dubai. Ciò ha consentito a Dp World,
come visto, di insediarsi a Berbera e di investire molto nella sicurezza locale, arri-
vando ad addestrare e persino a stipendiare le forze del Somaliland che svolgono
funzioni di polizia costiera e marittima 18.
Ora l’Arabia Saudita sta accrescendo la sua infuenza in Sudan. In qualità di
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
presidente della Conferenza degli amici del Sudan dall’agosto 2020, ha potuto pre-
mere sul Fronte rivoluzionario sudanese (Sfr) perché siglasse la pace di Giuba
nell’ottobre di quell’anno. Il successo diplomatico ha innescato il progressivo allon-
tanamento dei militari sudanesi dal partner emiratino, che in caso di completa re-
scissione del legame consentirebbe ai sauditi di esercitare un forte ascendente
sulla politica estera di Khartûm19. Specie se dopo il 2024 (fne prevista della transi-
zione) l’esercito dovesse restare in sella, come suggerisce il ripristino delle relazio-
ni con Turchia e Qatar a opera degli stessi militari. Il Sudan è posta ambita, come
i suoi governanti (di oggi e di ieri) ben sanno: diffcile infatti sopravvalutarne l’im-
portanza strategica, posto com’è al centro del Mar Rosso e – grazie alla notevole
profondità territoriale – cerniera tra Africa settentrionale, orientale e centrale. Aree
in cui, negli ultimi anni, gli Emirati hanno puntato sistematicamente a estendere la
propria infuenza.
Anche i sauditi hanno dunque intrapreso progetti agricoli in Sudan (molti dei
quali vedono protagonista il Rajhi Group), sia in ottica di sicurezza alimentare sia
per contrastare l’infuenza degli Emirati sul locale governo. L’Arabia ha anche sfrut-
tato la sua notevole leva in ambito fnanziario per propiziare l’ammissione del Su-
dan, il 30 giugno 2021, al non esclusivo club degli Heavily Indebted Poor Countri-
Zuqar
al-Ḥanīš LO STRETTO DI
al-ṣaġīr
Ḫawḫa BĀB AL-MANDAB
al-Ḥanīš
al-kabīr Acque interne
E R I T R E A
Barīm
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Isole
al-Sawābi‘
G I B U T I G o l f o
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Tāǧūra
0 50 km
Isole Mūšā
Gibuti
‘Aybāt
Sa‘d al-dīn
Zayla‘
Basi militari Usa, Italia, Giappone, Francia e Cina
S O M A L I A
Possibile base militare saudita a Gibuti Berbera
223
224
Golfo di Suez Eilat IRAQ MAR ROSSO: BURRO E CANNONI
c KUWAIT
T.ābā Aqaba Porti commerciali
Ra’s Ġārib al-T.ūr Golfo
Ra’s Šuqayr Persico IRAN Basi militari
South Camp
al-Zayt Šarm al-Šayh
al-Ğūna D.ubā ˘
al-Ġardaqa BAHREIN
Safāğā
al-H.amrāwayn Golfo di Oman
QATAR
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E.A.U.
Berenice ARABIA SAUDITA
EGITTO Rābiġ
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A CACCIA DI UN POSTO AL SOLE NEL MAR ROSSO
Tadjourah O M AGolfo
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u
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SUDAN
Porto Sudan
Utmān Diqna (Sawākin) Mar Rosso Basi militari aeronavali
Usa, Cina, Italia, Francia, Giappone
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Golfo di Suez Ğāzān
Petroleum Dock
c Tawfīq
Atāqa
Adabiya
YEMEN
al-cAyn al-Suh na Penisola del Massawa
˘ Sinai
al-Ših.r
Ras’ Sidr ERITREA S.alīf
Mar Arabico
H.udayda
Wādī al-Dawm Mukallā
Go
Rud.ūm
lfo
Assab Socotra
d
base militare E.A.U. (YEMEN)
GIBUTI Aden Golfo di Aden
i Su
EGITTO
ez
Abū Zanīma ETIOPIA Gibuti Bosaaso
20. C. COK, «Russia Joins the Red Sea Scramble», Fair Observer, 9/2/2021.
21. S. SUKHANKIN, «Russian Naval Base in Sudan Stays for Now: What Happens Next?», The Jamestown
Foundation, Eurasian Daily Monitor 18:76, 12/5/2021. 225
A CACCIA DI UN POSTO AL SOLE NEL MAR ROSSO
Seabee Battalion, le US Marine Security Forces, unità come il 635° regimento co-
razzato dell’Esercito e il 2° battaglione interforze. Tra le unità dell’Aviazione fgu-
rano il 449° Air Expeditionary Group, distaccamenti di cargo C-17 Globemaster III,
C-130 Hercules, P-3 Orion antisommergibile ed elicotteri CH-53, oltre a CV-22
Osprey (aerei a decollo verticale) e quadrimotori C-5 Galaxy. A Camp Lemonnier
fanno base anche i droni statunitensi che operano nei cieli di Somalia e Yemen 26.
L’altro paese litoraneo in cui gli Stati Uniti risultano particolarmente attivi, seb-
bene in modo non permanente, è appunto la Somalia. Qui Washington è andata
incrementando la sua presenza dal 2006, ma è solo dal 2017 che la base di Camp
Baledogle – ubicata sul sito di un’ex installazione sovietica nella regione del Basso
Scebeli – ha conosciuto particolare sviluppo. Tra gli aggiornamenti più signifcativi
fgura la nuova pista da 12 milioni di dollari idonea ad accogliere velivoli con o
senza pilota e funzionale ai raid contro al-Šabåb, intensifcatisi sensibilmente negli
ultimi anni. Camp Baledogle è usato anche per addestrare la Brigata Danab, le
forze speciali somale 27.
La guerra che infuria nello Yemen dal 2014 rende infne frammentarie le infor-
mazioni sul paese. Le fazioni in lotta si sono ripetutamente scontrate per il control-
lo della base aerea di al-‘Anad, la maggiore dello Yemen situata nel governatorato
di Laõiã. Dopo il ritiro emiratino del 2019, i sauditi avrebbero preso il comando
delle installazioni militari ubicate nei porti di al-Muœå e al-Œawœa, inviato truppe a
difesa del porto di Aden e occupato la citata isola di Barøm 28. Contraddittorie e non
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
offre, relative alla pesca (importante per le popolazioni locali), alle potenzialità
turistiche, ad alcuni giacimenti di idrocarburi e di vari minerali nel sottofondale, le
cui dimensioni non sono state però ancora precisate.
Ben diversa è la loro valenza geopolitica, accentuata dall’instabilità che af-
figge lo Yemen, oggi detentore delle isole di maggiori dimensioni, posizionate a
ridosso della principale rotta di navigazione. Alla confittualità ivi alimentata, oltre
che da evenienze geopolitiche contingenti, anche dalla compresenza storica di
culture che traducono la diversa appartenenza religiosa in incompatibilità politica,
si contrappone, sull’opposta sponda marittima, la stabilità interna dell’Eritrea, dove
il variegato mosaico religioso condivide pacifcamente la comune cittadinanza. La
coincidenza tra rilevanza di quest’area di transito e fragilità di alcuni suoi attori
locali fa di essa una delle più nevralgiche (insieme a quella di Hormuz) tra tutte le
regioni in cui si collocano le maggiori strozzature marittime mondiali. La presenza,
nei suoi pressi, di numerosi presidi militari stranieri ne è un’oggettiva conferma. Lo
stesso vale per la costruzione di oleodotti fnalizzata a convogliare nei porti del Mar
Rosso gli idrocarburi estratti nella parte orientale della Penisola Arabica, evitando
(almeno in parte) di dover passare per Hormuz e Båb al-Mandab.
Nella seconda metà degli anni Novanta le isole furono oggetto di una disputa
tra lo Stato di Eritrea costituitosi nel 1993 e la Repubblica dello Yemen, unifcata
nel 1990. La contesa riguardò primariamente le isole più estese, quelle dell’arci-
pelago Hånø4-Zuqur, posizionate centralmente rispetto ai litorali dei due paesi 2.
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2. G. CIAMPI, «Tra petrolio e Islam: lo strano caso delle isole Hånø4-Zuqur», Limes, «Africa!», n. 3/1997,
pp. 213-226.
3. Le Muõabbaka hanno una copertura madreporica, ma le madrepore si sono potute formare proprio
230 grazie all’attività vulcanica sottomarina che ha innalzato progressivamente tratti di fondale marino.
LEZIONI AFGHANE
ERITREA
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Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Equidistanza delle isobate:
100 braccia (fathoms) (1 braccio= 1,83 m)
0 25 50 75 100 km
Bā
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GIBUTI
100
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Aden
Golfo di Aden
42° E 12° N 45° E
4. I.G. GASS, D.I.J. MALLICK, K.G. COX (1973), «Volcanic islands of the Red Sea», Journal of the Geological
Society, n. 129, pp. 275-310; R.O. MORRIS, Jabal Zuqar Islands to Muhabbaka Islands. Scale 1:100.000
at latitude 14°, Taunton 1999, Crown 1999. 231
GLI ESITI DELLA CONTESA PER LE ISOLE DEL MAR ROSSO MERIDIONALE
South West Rocks sono più vicine a quello africano. Se considerate nella loro rav-
vicinata sequenza come un’unica ghirlanda insulare, le Hånø4-Zuqur, le Muõabba-
ka, le Haycock e South West Rocks sono più vicine al litorale eritreo che a quello
yemenita, dal momento che la minima distanza dal primo è di 6 miglia, mentre dal
secondo è di 16 miglia.
Alcune diffcoltà per la navigazione nel tratto in cui si colloca questa sequenza
di isole sembrano implicitamente segnalate anche nella cartografa europea dei
secoli XVI, XVII e XVIII, dove si trovano rappresentazioni molto dilatate di isole
collocate a ridosso di Båb al-Mandab. Notizie su queste isole presso i navigatori
europei sono dovute probabilmente anche all’intervento compiuto dai portoghesi
nel 1520 in soccorso dell’Etiopia, oggetto di un ennesimo tentativo di conquista da
parte musulmana. Ma anche una carta precedente, datata 1516, Carta marina na-
vigatoria Portugallen navigationes, di Martin Waldseemüller, segnala qualcosa in
proposito, all’interno di una rappresentazione «fuori scala» dello stesso Mar Rosso
meridionale 5. Idem per il planisfero di Caveri (1502), dove il Mar Rosso è anche
l’unico fra tutti i mari del mondo a essere colorato (ovviamente in rosso). Lo stesso
in carte più antiche.
La storia novecentesca delle isole ha avuto un rilievo problematico nella citata
sede giudiziaria soprattutto in riferimento alle Hånø4-Zuqur le quali, insieme a
Zubayr e Ãabal al-¡ayr, sono state considerate appartenenti formalmente (al pari
di altre isole prossime alla costa asiatica, come Kamarån) all’impero ottomano fn
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
quando il trattato di Losanna, nel 1923, non ne sancì la fne, senza tuttavia stabilire
da chi quelle isole sarebbero state ereditate. L’articolo 16 del trattato prevedeva che
l’assegnazione della sovranità su di esse sarebbe stata decisa successivamente: il
che è avvenuto solo con la sentenza del 1998.
Da parte dell’Italia, che dal 1890 aveva costituito la Colonia Eritrea, si manifestò
ben presto, dopo il trattato di Losanna, un interesse per le Hånø4-Zuqur. Lo testimo-
niano numerosi documenti dell’Archivio della Marina Italiana (fra gli altri: Ministero
della Marina D 3170/5: 22 ottobre 1929) i quali fanno riferimento alla presenza sta-
bile di militari italiani sulle isole. In un altro documento, a giustifcazione di questa
presenza veniva indicata la corrispettiva presenza (nemmeno essa internazional-
mente legittimata) di forze militari britanniche sull’isola di Kamarån (D 3170/5: 3/6
febbraio 1936). Il 16 aprile 1938 verrà uffcialmente siglato un accordo con la Gran
Bretagna nel quale si specifca che sulle isole ex turche non appartenenti all’Arabia
Saudita o allo Yemen nessuna delle due parti avrebbe potuto stabilire la propria
sovranità; ciononostante, nessuna delle due parti avrebbe avuto niente da obiettare
circa la presenza di militari britannici su Kamarån e quella di militari italiani sulle
Hånø4-Zuqur. Un successivo documento riporta le parole del ministro degli Esteri
5. Si veda G. CIAMPI, «Appartenenza cartografca dell’arcipelago Hånø4-Zuqur (Mar Rosso)», L’Universo,
Istituto Geografco Militare, a. 78, n. 3, maggio-giugno 1998, pp. 313-325. Il testo contiene l’elenco
di quelle antiche carte, nonché di numerose carte novecentesche che segnalano l’appartenenza delle
isole, esaminando in particolare quelle che le attribuiscono alla Colonia Eritrea e quelle (postbelliche)
232 che le attribuiscono all’Etiopia.
LEZIONI AFGHANE
Galeazzo Ciano il quale sottolinea che Hånø4-Zuqur e Kamarån «sono state conside-
rate su di un piede di parallelismo» (D 3170/5: 7 luglio 1938). Seguono operazioni
sia simboliche (come issare la bandiera e decretare uffcialmente l’appartenenza
amministrativa delle isole al Commissariato della Dancalia 6), sia concrete, come la
costruzione di opere edilizie. Ovviamente, il tutto sottintende le fnalità geopoliti-
che e militari del possesso delle isole nell’ottica di uno scontro prossimo venturo
con la Gran Bretagna che, in tale contesto geografco, avrebbe riguardato le sorti
di questa arteria vitale dell’impero britannico.
3. La storia del pre e del post seconda guerra mondiale è fatta da una miriade
differenziata di atti formali e materiali compiuti da paesi interessati in funzione del
possesso di fatto e/o di diritto delle isole, e anche da organismi o simposi inter-
nazionali saltuariamente coinvolti nella gestione di esse. In pratica, gli atti sono
consistiti in: iniziative diplomatiche, trattative e accordi più o meno virtuali tra paesi
interessati; atti concreti volti ad assumere il possesso materiale delle isole mediante
attività militari e civili; esercizio di funzioni giurisdizionali: esercizio di funzioni
inerenti alla sicurezza della navigazione (gestione dei fari); contratti stipulati dai
paesi rivieraschi con grandi aziende straniere per ricerche nel sottofondale marino;
produzione di cartografa indicativa dell’appartenenza delle isole; atti simbolici (vi-
site di autorità). Questi atti sono stati presi in considerazione dalla Corte in quanto
espressione (da parte dei soggetti interessati) di una volontà di acquisirne la sovra-
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
nità. Ancor più rilevanti sono stati considerati tali atti se a essi non è seguìta una
reazione avversa della controparte. Sulla valutazione comparativa del peso di tali
atti si è basato il giudizio della Corte. Le due sentenze (sulla sovranità e sulla deli-
mitazione marittima) sono visibili sul sito della Corte ai tre indirizzi sotto riportati 7.
La Corte ribadisce più volte l’intento di decidere valutando anche la fondatez-
za degli historic titles delle parti. Lo Yemen ha cercato di rivendicare l’appartenenza
delle isole Hånø4-Zuqur facendo risalire all’epoca medievale i propri titoli di pos-
sesso. Ha inoltre fatto appello al principio dell’uti possidetis (che legittima i confni
postcoloniali in virtù della preesistenza di coincidenti confni coloniali e che è
stato accettato anche dall’Organizzazione dell’unità africana nella conferenza del
Cairo del 1964) facendo riferimento alla asserita appartenenza amministrativa delle
isole al vilayet dello Yemen, provincia dell’impero ottomano creata nell’ambito di
una legge del 1864. Ma la Corte ha ritenuto inapplicabile tale principio soprattutto
perché il trattato di Losanna, con la rinuncia alle isole da parte della Turchia, aveva
interrotto la continuità della linea di successione richiesta per l’applicazione dell’uti
possidetis e rendeva impraticabile la «reversion» delle isole dall’impero ottomano
allo Yemen.
6. Decreto del Governo dell’Africa Italiana, 1446, 20 dicembre 1938, Bollettino Uffciale del Governo
dell’Eritrea, 31 gennaio 1939.
7. Eritrea/Yemen: Sovereignty and Maritime Delimitation in the Red Sea, pca-cpa.org/en/cases/81.
Award of the Arbitral Tribunal in the First Stage: Territorial Sovereignty and Scope of the Dispute,
October 9, 1998, pcacases.com/web/sendAttach/517. Award of the Arbitral Tribunal in the Second
Stage - Maritime Delimitation, 17 December 1999, pcacases.com/web/sendAttach/518 233
GLI ESITI DELLA CONTESA PER LE ISOLE DEL MAR ROSSO MERIDIONALE
Per contro essa ha sottolineato che valenza preminente veniva attribuita so-
prattutto a una serie diversifcata di atti più recenti (postbellici), consistenti nell’e-
sercizio di funzioni statali e di governo, suscettibili di contribuire al consolidamen-
to del titolo di sovranità, denominati col termine «effectivités» 8.
Fra gli atti che in tal senso sono stati positivamente valutati vi sono quelli re-
lativi alla produzione di norme giuridiche e disposizioni destinate a regolamentare
le attività svolte sulle e intorno alle isole. In particolare sono state prese in con-
siderazione le concessioni governative ad aziende straniere per attività di ricerca
da svolgersi nelle aree marine adiacenti, le concessioni petrolifere, i controlli sulla
pesca, i permessi per attività turistiche, i permessi di navigazione e di sorvolo ae-
reo, la pubblicazione di avvisi ai naviganti, i pattugliamenti delle coste insulari. Lo
stesso dicasi per le attività svolte direttamente sulle isole, come presenze militari e
creazione di postazioni militari, costruzione di edifci e di impianti, gestione di fari,
installazione di cippi geodetici, esercizio di funzioni giudiziarie eccetera. Anche la
pubblica rivendicazione di sovranità è stata positivamente valutata, come pure la
cartografa.
Per quanto riguarda quest’ultima come fonte probatoria della rivendicazione e
dell’appartenenza delle isole, la Corte, a fronte della presentazione di un notevole
quantitativo di carte da parte di entrambi i paesi, ha attribuito maggiore valore a
8. Per l’aiuto ricevuto nell’esame del materiale giuridico, ringrazio i professori Giorgio Gaja, Adelina
234 Adinolf, Luisa Vierucci, Olivia Lopes Pegna.
LEZIONI AFGHANE
za dell’Eritrea, che più frequente è stata sulle isole la presenza degli eritrei (nella
veste di ribelli) e degli etiopi (con i pattugliamenti navali fnalizzati a combattere i
ribelli). Quanto alla carenza di attestazioni cartografche da parte dell’Eritrea indi-
pendente, il brevissimo lasso di tempo intercorso tra l’indipendenza e la disputa,
nonché le diffcoltà di un paese appena uscito da una lunga guerra, ne sono una
ovvia giustifcazione. Peraltro, molto esplicita è l’attestazione cartografca uffciale
di parte etiopica espressa nel National Atlas of Ethiopia (1988).
Documenti cartografci sono presenti anche nei diversi contratti stipulati da
Yemen, Etiopia ed Eritrea con grandi aziende straniere per ricerche geologiche e
petrolifere. Essi sono stati presi in attenta considerazione come attestazione di ap-
partenenza, ma non sempre sono risultati maggiormente probatori a favore dell’u-
no o dell’altro dei due paesi.
Per quanto riguarda le Muõabbaka, le Haycock e le Hånø4-Zuqur, conside-
razioni di carattere geografco sono state espresse dalla Corte in riferimento alla
posizione delle isole e alla loro distanza dai due litorali. Ma, sebbene posizionate in
una ravvicinata sequenza che potrebbe confgurarle come un continuum, la Corte
ha ritenuto che esse dovessero essere considerate separatamente, come «sottogrup-
pi», anche in virtù della loro diversa «storia».
9. Come indicato nella nota 5, una disamina di vari documenti cartografci è stata svolta nel testo ivi
citato.
10. G. CIAMPI, «Reticenza e loquacità della cartografa confnaria: loro ruolo nelle dispute eritreo-ye-
menita ed eritreo-etiopica», in M.P. PAGNINI, D. SABBEDOTTI (a cura di), Confitti, Roma 2020, Edicusano,
pp. 559-572. 235
GLI ESITI DELLA CONTESA PER LE ISOLE DEL MAR ROSSO MERIDIONALE
4. Più complesso è stato il caso delle Hånø4-Zuqur, che sono state assegnate
allo Yemen. La Corte ha riconosciuto che, rispetto alla linea mediana equidistante
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
tra i due litorali, non tutto l’arcipelago si colloca più vicino alla costa asiatica, ma
che la metà di Grande Hånø4 e l’intera Suyûl Hånø4 sono più vicine alla costa africa-
na. Riguardo alla storia legale, pur negando la reversion dagli ottomani allo Yemen,
è stata ritenuta più fondata l’appartenenza dell’arcipelago al vilayet yemenita che
non alla fascia costiera africana amministrata dal kedivè (viceré) egiziano prima
della creazione della Colonia Eritrea. A questo proposito la convinzione della Cor-
te ha tratto alimento in particolare dalle opere dello studioso dell’epoca Edward
Hertslet, al servizio del Foreign Offce. Riguardo alla cartografa «autoassertiva», an-
che in questo caso maggior peso è stato attribuito a quella presentata dallo Yemen.
La Corte ha anche ricordato che la Gran Bretagna, durante le discussioni per
il trattato di Sèvres, aveva considerato, in un primo momento, come «desirable out-
come» il passaggio a un «friendly arab ruler» della sovranità sulle isole poste a est
di South West Rocks (cioè le Hånø4-Zuqur).
Riguardo alla storia postcoloniale, la valutazione ha riguardato un complicato
intreccio di elementi diversi. Sebbene nessuno di questi sia stato considerato, da
solo, come dirimente, essi comunque sono entrati tutti nel computo comparativo
che ha messo capo all’assegnazione della sovranità. Del computo ha fatto parte la
gestione di quattro fari da parte dello Yemen e di due da parte dell’Etiopia, non-
ché le sopra citate presenze dei ribelli eritrei sulle isole, i correlati pattugliamenti
etiopici, le attività di polizia fnalizzate al controllo del contrabbando, i giornali di
bordo (logbooks) delle navi etiopiche, le tradizionali attività di pesca. Riguardo agli
236 accordi stipulati da Etiopia, Eritrea e Yemen con aziende straniere per le ricerche
LEZIONI AFGHANE
nel fondale marino circostante, la loro valenza è apparsa talora problematica per-
ché essi si riferivano appunto al mare e raramente alla terraferma insulare, e anche
perché nella loro cartografa si osserva in alcuni casi una parziale coincidenza delle
aree concesse dai diversi paesi.
Un episodio rilevante è stato considerato quello che avvenne nel 1973, quan-
do l’Etiopia venne accusata dai paesi arabi di avere consentito la presenza di
forze israeliane sulle Hånø4-Zuqur, sulle isole del Golfo di Assab, sulle Zubayr e
sulle Dahlak. La richiesta da parte dei paesi arabi all’Etiopia di visitare le isole per
accertare la presenza israeliana è stata citata a sostegno del riconoscimento della
sovranità etiopica. Nella sentenza si fa riferimento anche a precedenti «secret nego-
tiations» tra Etiopia e Yemen volti a raggiungere un compromesso che, mediante
una spartizione basata sulla linea mediana intercorrente tra i due litorali, avrebbe
assegnato Zuqur e Piccola Hånø4 allo Yemen, Grande Hånø4 all’Etiopia. Cionono-
stante, la Corte ha considerato non dirimenti questi fatti ed è tornata a sottolineare
la preminenza probatoria di atti classifcabili come effectivités.
Dalla valutazione comparativa dei titoli ne è scaturita l’attribuzione di un mag-
gior peso a quelli compiuti dallo Yemen riguardo a Zuqur (gestione fari, contratti
con aziende, cartografa), cui è stata aggiunta la prossimità al litorale asiatico. In
merito a Grande Hånø4 (par. 505), la Corte ha riconosciuto i titoli che l’Eritrea aveva
ereditato dall’Etiopia in ragione delle sue attività di controllo sull’isola e dei diversi
accordi che Addis Abeba aveva stipulato con aziende straniere. In particolare quel-
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lo del 1989 con la Ipc/Amoco che, nella cartografa allegata, includeva gran parte
di questa isola. Ciononostante, la Corte ha giudicato anche in questo caso superiori
i titoli presentati dallo Yemen. Fra questi ultimi sono stati soprattutto valutati quelli
derivanti dagli accordi e dalle concessioni rilasciate alla compagnia francese Total
a partire dal 1985 (par. 416). Peso notevole è stato assegnato al permesso accorda-
to nel 1993 a questa compagnia di costruire una pista di atterraggio sull’isola e di
effettuare regolari voli su di essa. Il fatto che questi comportamenti non abbiano
generato proteste dell’Eritrea è stato considerato dalla Corte come una tacita auto-
rinuncia da parte di Astana (par. 502).
Anche in questo caso, però, si potrebbe criticamente osservare che nel 1993
l’Eritrea era appena uscita dalla trentennale guerra di indipendenza, stava iniziando
a organizzare il proprio apparato statale e ben diffcilmente avrebbe potuto tenere
un occhio vigile su questi fenomeni.
Riguardo alle isole poste più a nord, Ãabal al-¡ayr e quelle del gruppo Zu-
bayr, la sentenza sottolinea che esse, rispetto alla linea mediana interposta tra le
due coste continentali, risultano entrambe situate a est di tale linea. Viene tuttavia
citato il fatto che l’Italia aveva gestito negli anni Trenta il faro di Centre Peak nelle
Zubayr; ma viene al tempo stesso sottolineato che, nella conferenza internazionale
sui fari marittimi tenuta a Londra nel 1989, il governo britannico osservò che il faro
si collocava all’interno della Zona economica esclusiva (Zee) dello Yemen, il quale
se ne assumeva la gestione (par. 514). A suffragio dello Yemen vengono inoltre
citati gli accordi di questo Stato con la Shell (1973) e la Hunt Oil (1985), nonché 237
GLI ESITI DELLA CONTESA PER LE ISOLE DEL MAR ROSSO MERIDIONALE
le proteste del paese per gli accordi che l’Eritrea aveva siglato nel 1995 e 1997 con
Anadarko Oil Company riguardanti, a detta dello Yemen, il proprio mare territo-
riale adiacente alle isole. Sulla base di una valutazione comparativa del peso dei
rispettivi titoli, il Tribunale ha assegnato la sovranità allo Yemen.
Nella sentenza si ricorda infne (come già era stato fatto nelle prime pagine)
che il concetto di sovranità territoriale quale viene riconosciuto nella legislazione
internazionale contemporanea di matrice occidentale (e, potremmo rammentare,
risalente alla pace di Vestfalia del 1648) è estraneo, con le sue precise partizioni,
alla tradizione islamica radicata in questa parte di mondo. Anche per questo la
sentenza sottolinea che la sovranità sulle Hånø4-Zuqur, Ãabal al-¡ayr e Zubayr non
esclude, ma anzi ingloba la perpetuazione del tradizionale regime di pesca che
consentirà ai pescatori eritrei di svolgere le loro attività nei mari circostanti le isole,
senza impedimenti da parte dello Yemen.
Questa prima sentenza venne seguìta dalla stipula, il 16 ottobre 1998, del
Treaty Establishing the Joint Yemeni-Eritrean Committee for Bilateral Cooperation,
mirante a ripristinare amichevoli relazioni tra i due paesi 11.
Un’osservazione che potremmo tentare di fare concerne il confronto tra la sor-
te delle Hånø4-Zuqur e quella di Kamarån. Nell’accordo italo-britannico del 1938,
esse venivano tra loro equiparate quanto a status giuridico, rimanendo prive en-
trambe di un’attribuzione di sovranità. Kamarån venne inclusa nel 1949 nel gover-
natorato inglese di Aden, pur non essendo formalmente parte della colonia. Con
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5. Alla sentenza relativa alla sovranità sulle isole, del 1998, è seguìta quella sulla
delimitazione del confne marittimo, del 1999 12. Le decisioni in merito si sono basa-
te sui contenuti della precedenza sentenza, sulle prescrizioni dall’accordo di Algeri
del 1996, sulla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos, 1982),
mediana equidistante tra le due linee di base costiere. Il secondo va dal punto 13
al 20; in questo caso, fra l’altro, si rende necessaria la spartizione del sovrapposto
mare territoriale generato dalle isole (prossime tra loro) diversamente attribuite a
Eritrea e Yemen. Il settore meridionale, più vicino a Båb al-Mandab, corrisponde
di nuovo alla linea mediana tra le linee di base costiere.
Nel primo settore la delineazione della linea mediana non tiene conto delle
isole Ãabal al-¡ayr e Zubayr, lontane dalla costa e disabitate, non generatrici di
mare territoriale, mentre per l’individuazione delle linee di base costiere si fa ri-
ferimento anche alle Dahlak eritree e alle yemenite Kamarån, Uqban e Kutama.
Il secondo settore coinvolge insieme le isole attribuite allo Yemen, Hånø4-Zuqur,
e quelle (molto vicine) attribuite all’Eritrea, Muõabbaka, Haycock e South West
Rocks. Dato che una linea mediana interposta tra le coste continentali taglierebbe
in due Grande Hånø4, ivi il confne diverge verso ovest da tale mediana. Essendo
comunque anche le isole eritree generatrici di un mare territoriale, come le Hånø4,
la delineazione del single all-purpose boundary ha tenuto conto dei rispettivi Mt,
Zee e Pc. Il confne si discosta quindi verso ovest da Zuqur e poi si interpone tra
l’eritrea South West Rocks e la yemenita Grande Hånø4, tra loro vicinissime. Nel
tratto più meridionale la mancanza di isole situate centralmente rispetto alle coste
ha facilitato la scelta di un confne corrispondente alla linea mediana tra le due
linee di base costiere. La Corte ha tenuto a specifcare che le soluzioni adottate
soddisfano il principio di proporzionalità nell’attribuzione delle aree marittime ai
due paesi. 239
GLI ESITI DELLA CONTESA PER LE ISOLE DEL MAR ROSSO MERIDIONALE
13. «Yemen, Mar Rosso: la coalizione sventa un attacco dehli houthi», SicurezzaInternazionale, bit.
240 ly/3mwu0W0
LEZIONI AFGHANE
Confne marittimo
Y E M E N
3
4
15° N
5
6
7
8
9
10
11
E
12
R
13
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14° N
R
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15
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16
17
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19
E T I O P I A 20
21
22
23
24 25
26 27
28 13° N
0 55 110 Km 29
garanzie rispetto alla soluzione poi trovata. Alla luce di quanto sopra considerato,
l’Eritrea, malgrado alcune sue diffcoltà, può svolgere in quest’area un ruolo di sta-
bilizzazione e di sicurezza che merita il supporto internazionale.
Ad esempio, la grave crisi politica e umanitaria in corso nel confnante Tigrè
etiopico minaccia di estendersi al suo intorno. Gli Stati Uniti hanno imputato re-
sponsabilità ai governi etiopico ed eritreo. Ma una valutazione degli atti e degli
intenti del movimento politico tigrino Tplf dovrebbe essere adeguatamente com-
piuta, giacché esso alimenta fortemente una confittualità la quale, oltre alle conse-
guenze sul piano umanitario, rischia di destabilizzare entrambi i paesi e produrre
ripercussioni internazionali di non breve gittata. Un’opera volta alla mitigazione di
tale confittualità, da parte di Usa e Ue, sarebbe oltremodo opportuna.
Un’estrosa notazione conclusiva riguardante il Mar Rosso: da Mosè alle pe-
troliere dei nostri giorni, dal XII secolo a.C. al XXI d.C., esso ha invertito la sua
funzione, ma non ha perso d’importanza. 241
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
LEZIONI AFGHANE
nanziari con le due potenze in guerra, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Ciò
che ha defnitivamente convinto il governo di Sua Maestà a partecipare all’impe-
gno bellico è quanto appreso dalla British East India Company nel 1839 1. Primo:
solo chi proietta infuenza sui mari può sostanziare le proprie velleità geopoliti-
che, a qualsiasi livello. Secondo: chi controlla Aden controlla uno dei due accessi
al Mar Rosso, quindi i fussi tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo e la rotta ma-
rittima che collega Asia, Africa ed Europa. Per i britannici la guerra in Yemen è
sempre stata una guerra per Aden, per non perdere gli ultimi residui dell’infuen-
za costruita con fatica nella strategica città portuale cui Londra abdicò a malincuo-
re nel 1963.
Questa dimensione del pensiero strategico britannico è stata fatta propria da
uno dei principali protagonisti del confitto in Yemen. Non si tratta dell’attore più
potente e infuente, l’Arabia Saudita, bensì di quello minore, gli Emirati Arabi
Uniti, che compensa la differenza di taglia con smisurate ambizioni geopolitiche.
Non è un caso che gli ex Stati della tregua, a differenza dell’Arabia Saudita, siano
stati protettorati britannici per decenni e che ad Abu Dhabi restino ancora consi-
glieri inglesi insediati nel cuore della Corte emiratina, come l’ex dirigente dell’MI6
Will Tricks 2. Riyad ha impiegato quasi tre anni a comprendere la dimensione
1. Sul ruolo della British East India Company in Yemen, cfr. Z.H. KOUR, The History of Aden, London
2005, Routledge.
2. R.S. ZAHLAN, The origins of the United Arab Emirates: A political and social history of the Trucial
States, London 2016, Routledge. 243
LA VERA POSTA IN GIOCO DELLA GUERRA IN YEMEN È IL BOTTINO MARITTIMO
marittima del confitto in Yemen e ha iniziato a fare sul serio sulle coste yemenite,
anche in contrapposizione agli alleati emiratini, solo nel 2018. Oggi, Arabia Sau-
dita ed Emirati sono allineati nel riconoscere l’importanza fondamentale dello
spazio marittimo yemenita e perseguono le rispettive strategie per estendervi la
propria infuenza. Oltre a una guerra civile e tribale, a uno scontro per procura tra
sauditi e iraniani e a una competizione tra grandi potenze, in Yemen si combatte
anche un confitto, certamente meno sanguinoso, per il controllo dei mari. Se le
prime tre contese sono fnora state dei completi fallimenti per la coalizione saudo-
emiratina, per Riyad e Abu Dhabi la vittoria sui mari potrebbe valere le centinaia
di miliardi di dollari spesi negli ultimi sei anni nella punta meridionale della Peni-
sola Arabica.
me dei traffci commerciali nel Mar Rosso sarà quantifcato in migliaia di miliardi
e che il pil della regione raddoppierà 4. L’Africa sarà la nuova frontiera geopolitica
e il Mar Rosso ne è uno dei principali punti d’accesso. Per Båb al-Mandab transi-
tano inoltre infrastrutture digitali critiche, inclusi 15 cavi sottomarini internaziona-
li 5. I mari dello Yemen sono perciò un bottino di guerra di tutto rispetto, di cui
Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita – sia pure con strategie diverse – intendono
impossessarsi.
Nella divisione dei compiti di guerra, Abu Dhabi si è da subito offerta di oc-
cuparsi del Sud dello Yemen 6. I sauditi erano invece soprattutto preoccupati di
mettere in sicurezza il loro confne meridionale e di indebolire gli õûñø, conside-
rati agenti di prossimità dell’Iran, che avevano preso la capitale Âan‘å’. Abu Dhabi,
anche in funzione della più limitata forza militare, si offriva di difendere Aden
dalle frequenti incursioni del gruppo armato e di combattere e degradare la pre-
senza jihadista nei governatorati meridionali di Laõiã, Abyan, Šabwa, Õaîramawt
e al-Mahrå. Le operazioni militari contro le cellule di al-Qå‘ida e dello Stato Isla-
mico annidatesi in Yemen avevano il ruolo fondamentale di giustifcare almeno
in parte le operazioni belliche agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, così
3. J. CALABRESE, «The Bab el-Mandeb Strait: Regional and great power rivalries on the shores of the Red
Sea», Middle East Institute, 29/1/2020, bit.ly/3kvMPpO
4. Ibidem.
5. «Bab al-Mandab Submarine Cables», TeleGeography, 2021.
6. P. SALISBURY, «Case Study: The UAE in Yemen», in «Risk Perception and Appetite in UAE Foreign and
244 National Security Policy», Chatham House, luglio 2020, bit.ly/2WwzDIO
LEZIONI AFGHANE
come di impedire che le milizie yemenite diventassero una minaccia per le stesse
monarchie del Golfo o per i traffci marittimi internazionali che transitano vicino
a quelle coste. Per gli Emirati Arabi Uniti – ribattezzati «piccola Sparta» per le ca-
pacità dimostrate in Afghanistan, nei Balcani e nelle Libie – ricacciare i militanti
jihadisti verso il deserto del Rub‘ al-Œålø (il Quarto vuoto) e ridurre le loro capa-
cità al minimo ha richiesto solo pochi mesi 7. Nell’aprile 2016, le forze emiratine
riuscirono a scacciare gli õûñø dalla loro autoproclamata capitale di al-Mukallå
raccogliendo il plauso unanime degli ambienti militari americani, a partire dal
segretario alla Difesa americano James Mattis 8. Quando i rifettori si sono spenti,
però, gli Emirati ne hanno approfttato per insediarsi ad al-Mukallå e in altre pro-
vince costiere yemenite.
L’interesse degli emiratini all’accesso alle coste yemenite e alle loro infrastrut-
ture è fatto così noto che nel 2019 il governatore della provincia di al-Maõwøt chie-
se pubblicamente loro di «smettere di usare il pretesto della lotta contro gli õûñø per
occupare i porti dello Yemen» 9. Per comprendere le scelte di Abu Dhabi è neces-
sario introdurre un elemento fondamentale della sua geopolitica: la strategia della
«collana di perle», dove per perle si intendono i porti 10. Questa collana parte da
Dubai, si snoda nel Mar Arabico e nel Mar Rosso, attraversa il Canale di Suez (por-
to egiziano di al-‘Ayn al-Suœna) e il Mediterraneo appoggiandosi sui terminali con-
trollati a Cipro, nelle Libie e in Marocco e si dirige infne verso l’Oceano Atlantico.
La leadership di Abu Dhabi, che decide la politica estera degli Emirati Arabi Uniti,
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punta da anni a eccellere in una funzione di nicchia allo scopo di aumentare l’im-
portanza strategica del paese e renderlo partner indispensabile delle grandi poten-
ze. Abu Dhabi ha scommesso sulla connettività e sull’intensifcazione della globa-
lizzazione, vuole sfruttare la propria posizione strategica e le proprie capacità di
hub logistico globale maturate con lo sviluppo di infrastrutture fsiche (porti, aero-
porti, ferrovie, strade) e digitali – oltre dieci cavi sottomarini internazionali passano
per le sue acque.
Il controllo dei fussi marittimi diventa dunque un obiettivo strategico impre-
scindibile. Soprattutto quando l’unica potenza globale in ascesa, la Cina, punta
molto sulla connettività marittima: diventare una piccola potenza dei mari e inte-
grare la propria strategia con le nuove vie della seta cinesi può rendere gli Emira-
ti i più importanti interlocutori regionali di Pechino 11. Ecco perché Abu Dhabi ha
eletto una delle sue eccellenze – la multinazionale della logistica basata a Dubai
Dp World, specializzata in operazioni portuali, servizi marittimi e sviluppo di zo-
ne di libero scambio – ad attore geopolitico. Oggi Dp World è il soggetto che
7. Ibidem.
8. Sembra che sia stato proprio Mattis a coniare il soprannome «piccola Sparta», cfr. «The ambitious
United Arab Emirates», The Economist, 6/4/2017, econ.st/38kfSqF
9. Cit. in «Yemen offcial: We ask the UAE to take its hands off our oil, gas and ports», Middle East
Monitor, 8/7/2020, bit.ly/3mFsfWT
10. Sulla strategia della «collana di perle» cfr. C. BIANCO, A. OCCHIUTO, «La guerra Emirati-Turchia rim-
picciolisce l’Italia», Limes, «Il turco alla porta», n. 7/2020, pp. 293-299.
11. C. BIANCO, C. 9OK, «Emirati DPlomacy and Chinese BRInkmanship», Middle East Institute, 28/7/2020,
bit.ly/3BeDl98 245
246
Province dell’Arabia Saudita
BASI MILITARI SAUDITE Tabūk
IRAQ al-Gawf
IRAN al-Hudūd al-šamāliyya
GIORD. al-Madīna
al-Gawf Hā’il
al-Qasīm
Makka
Hafar al-Bātin al-Riyād
al-Šarqiyya
Tabūk Hā’il Città militare King Khalid King Abdulaziz
Base militare Usa
al-Bāha
base navale
‘Asīr
Gāzān
al-Dammām
Nagrān
King Abdulaziz Q A T A R
Base aerea Strade
(prima base militare del paese)
Confni province Arabia S.
EGITTO al-Wath
..
Medina base missilistica Riyad al-Harg
Prince Sultan
Base aerea E.A.U.
(Base Usa fno al 2003)
OMAN
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King Faisal Laylā
LA VERA POSTA IN GIOCO DELLA GUERRA IN YEMEN È IL BOTTINO MARITTIMO
base navale
Riyad Base regionale della Guardia nazionale
Tā’if
Gedda King Fahad Basi navali
La Mecca Base aerea Basi aeree/missilistiche/militari
al-Sulayyil
base missilistica
Mezzi e armamenti
880 Carri armati
Truppe in servizio attivo 3.500 Veicoli corazzati
Esercito 75.000 105 Elicotteri
100 Elicotteri da trasporto
Guardia nazionale 100.000 Abhā 429 Velivoli
Marina 13.500 Nagrān 764 Pezzi d’artiglieria
King Khalid 10+ Missili balistici a raggio intermedio
Aeronautica 20.000 base aerea
7 Fregate
Difesa aerea 16.000 5 Mezzi anfbi
YEMEN 4 Corvette
Forze strategiche 2.500 28 Unità costiere
LEZIONI AFGHANE
controlla o opera il maggior numero di infrastrutture portuali nel Mar Rosso – dal-
lo Yemen, al Somaliland, dall’Eritrea al Sudan, dall’Arabia Saudita all’Egitto. Può
gestire i trasporti marittimi dalla sua base a Dubai fno al cuore del Mediterraneo
in modo totalmente autonomo, divenendo strumento essenziale del soft power di
Abu Dhabi.
Abu Dhabi e l’Stc – la cui leadership si divide tra Yemen ed Emirati – ha permes-
so agli emiratini di mantenere una formidabile infuenza su Aden anche dopo il
ritiro della maggior parte delle truppe nel 2019. Quest’infuenza si concretizza in
un ridotto contingente militare con capacità di ricognizione, ma anche in una
consistente presenza commerciale. Dp World ha frmato il primo accordo per la
gestione del porto di Aden già nel 2008 15. Cancellato nel 2012, l’accordo è stato
riattivato nell’ottobre 2015, solo pochi mesi dopo l’inizio delle operazioni militari
saudo-emiratine in Yemen 16.
L’attenzione rivolta verso le isole di Suqu¿rå e Barøm completa la proiezione
marittima emiratina in Yemen. L’altissimo valore strategico di Suqu¿rå – isola di
circa 3.800 km quadrati all’imbocco del Golfo di Aden – è testimoniato dall’inse-
diamento nel 1834 delle prime guarnigioni della British East India Company, che
qui si stabilì cinque anni prima di installarsi a Aden. Gli Emirati hanno prima co-
optato il governatore locale riversando aiuti umanitari e investimenti per un valore
di due miliardi di dollari e poi, già dal 2017, dispiegato una presenza militare di-
screta ma signifcativa, sostenendo anche militarmente l’autorità politica esclusiva
dell’Stc contro il governo Hådø, appoggiato dai sauditi 17. Pochi mesi dopo, Abu
Dhabi ha installato sull’isola una base militare in grado di raccogliere intelligence
sui traffci verso il Mar Rosso. Contestualmente, gli emiratini cercavano segreta-
mente di costruire una base aerea nella piccolissima Barøm, grande solo 13 km
quadrati ma oggetto del desiderio dei portoghesi nel XVI secolo, dei francesi nel
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XVIII e, chiaramente, dei britannici nel XIX perché collocata esattamente al centro
di Båb al-Mandab. All’insaputa di tutti, compresi i sauditi, nel 2016 Abu Dhabi ha
iniziato a costruire una pista aerea lunga quasi 2 km e altre infrastrutture militari 18.
Con la presenza a Barøm e Suqu¿rå, la proiezione emiratina nei mari yemeniti me-
ridionali – stretto di Båb al-Mandab incluso – assume connotazioni egemoniche.
In aperto contrasto con la postura dell’Arabia Saudita, che pure sarebbe leader
della coalizione militare impegnata in Yemen.
primi anni di confitto, perciò, i sauditi si sono focalizzati soprattutto sugli attacchi
diretti contro le milizie yemenite, cercando di tagliare loro l’accesso alle forniture
militari inviate da Teheran.
È solo da questa prospettiva che a partire dal 2018 i sauditi si sono interessa-
ti ai porti dello Yemen. In particolare a quelli di al-Õudayda e Muœå, individuati
come principali punti d’arrivo delle spedizioni iraniane 20. Nel 2017 e nel 2018 gli
õûñø hanno usato lo scalo di Muœå come base di lancio per attacchi contro petro-
liere emiratine e saudite, tanto da costringere Riyad a interrompere le esportazio-
ni di petrolio attraverso Båb al-Mandab per diverse settimane nell’aprile 2018 21.
Con l’accordo di Stoccolma promosso dalle Nazioni Unite e frmato sia dai saudi-
ti sia dagli õûñø il porto di al-Õudayda, principale ingresso degli aiuti umanitari
internazionali verso lo Yemen, sarebbe dovuto passare sotto l’egida dell’Onu. In
realtà il porto è rimasto sotto il controllo del gruppo armato, mentre le forze del
governo Hådø, sostenute dai sauditi, continuano a mettere sotto pressione militare
l’area perimetrale 22. Lo scalo di Muœå è stato invece sottratto agli õûñø, ma con il
sostegno militare delle forze legate agli Emirati, incluso l’Stc. Ora è controllato
delle milizie di ¡åriq Âåliõ, nipote dell’ex presidente yemenita ‘Alø ‘Abd Allåh
Âåliõ, alleato sia di Riyad sia di Abu Dhabi 23. Il controllo saudita sulle infrastruttu-
re portuali yemenite settentrionali rimane dunque abbastanza labile, anche dopo
sei anni di guerra: sebbene la strategia del regno in Yemen abbia acquisito una
dimensione marittima, quest’ultima non è ancora prevalente. Dal punto di vista
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20. Ibidem.
21. «Saudi Arabia halts oil exports in Red Sea lane after Houthi attacks», Reuters, 25/7/2018, reut.
rs/3sSmxC5
22. A. BARON, «Out of Stockholm: Diplomacy and de-escalation in Yemen», European Council on Fo-
reign Relations, 15/1/2019, bit.ly/3ykNkb3
23. Ibidem.
24. N. HETARI, «The Battle of Marib: The Challenge of Ending a Stalemate War», The Washington Insti-
tute for Near East Policy, 9/7/2021, bit.ly/3jn8Wzf
25. La strategia saudita e il focus sulla logistica risaltano in modo evidente da documenti uffciali co-
me: «Transforming Saudi Arabia in a Global Logistics Hub», Saudi Logistics Hub, 2018, bit.ly/3BnOt3s 249
LA VERA POSTA IN GIOCO DELLA GUERRA IN YEMEN È IL BOTTINO MARITTIMO
ha fatto che acuire la rivalità tra le due monarchie nel Mar Rosso: l’inviato speciale
del presidente statunitense per il Corno d’Africa Jeffrey Feltman ha da subito indivi-
duato Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti come suoi principali interlocutori e non
ha esitato a sfruttare la competizione tra loro per avanzare gli interessi americani 27.
Riyad ha raccolto la provocazione ed è impegnata a dimostrare – se necessario a
imporre – la propria leadership sull’amico-nemico emiratino 28.
5. Negli ultimi anni Emirati e Arabia Saudita hanno sviluppato strategie geopo-
litiche e geoeconomiche più o meno ambiziose con l’obiettivo di trasformarsi in
cerniere tra Oceano Indiano e Mediterraneo. L’epidemia di Covid-19 e il conse-
guente drammatico crollo dei prezzi del petrolio, che faticano ancora a riassestarsi
su cifre interessanti per i paesi produttori, hanno però avuto un impatto negativo
su entrambi i paesi. Nel maggio 2021 uno stratega emiratino vicino alla leadership
ha suggerito che per Abu Dhabi è il momento di passare da una strategia di «pro-
iezione del potere» a una strategia di «protezione del potere» e di virare dallo hard
power al soft power, da un approccio militare a un approccio fondato su investi-
menti, fnanziamenti, aiuti umanitari e sanitari 29.
26. D. CUSTERS, «Red Sea Multilateralism: Power Politics or Unlocked Potential», Stimson Center,
7/4/2021, bit.ly/2Y4OdIy
27. Intervista dell’autrice a un diplomatico saudita, 2021.
28. Ibidem.
250 29. A. ABDULLA, «The Rise of the United Arab Emirates», The Cairo Review of Global Affairs, primavera
2021, bit.ly/3jko1Sh
LEZIONI AFGHANE
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30. Interviste dell’autrice a funzionari sauditi del ministero degli Esteri e del Døwån, 2021.
251
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LEZIONI AFGHANE
Parte III
l’ OCEANO
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INDO-PACIFICO
è TEATRO
per ADULTI
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LEZIONI AFGHANE
I DUE MEDIOCEANI
POLI DI UN UNICO TEATRO
NELLA SFIDA USA-CINA di Lorenzo DI MURO
Una sola equazione di potenza lega il nostro Mediterraneo a quello
asiatico. Qui Washington difende il controllo delle rotte marittime
decisive, minacciato da Pechino. Gli europei cercano visibilità
nell’Indo-Pacifico. Ma l’America li vuole a guardia delle coste di casa.
il primato statunitense e gli equilibri in alcuni crocevia navali. A partire dal Pacif-
co, dove Pechino, con un approccio che punta al «cuore della potenza marittima
americana» – interdicendo tradizionali centri logistici, corrodendo la libera naviga-
zione e controllando nodali colli di bottiglia – intende stabilire un’egemonia capa-
ce di porre le basi per un’espansione della propria infuenza (anche per mezzo
della Bri e dell’assoggettamento di Taiwan) sempre più lontano dalle sue coste.
Tradotto: quale unico egemone regionale nel globo, sicuro in casa e in grado di
sfruttare tale assetto per proiettare potenza all’estero. Gli Stati Uniti faranno quanto
in loro potere per evitare che altri attori raggiungano tale condizione. Insomma,
per la superpotenza resta imperativo il controllo dei Medioceani, la necessità di
bloccare «i tentativi dei rivali di soggiogare regioni e impedire l’accesso agli ocea-
ni». Necessità immune dall’alternanza di amministrazioni, al netto di aggiustamenti
retorici e tattici, puntualmente verifcatisi anche al passaggio di consegne fra Do-
nald Trump e Joe Biden.
Mar Mediterraneo che non è più nostro, anzi, è sempre più affollato e instabi-
le, malgrado resti un protettorato americano. La fuidità dell’assetto del Mediterra-
neo europeo è frutto di almeno tre tendenze. Primo, la rimodulazione dell’approc-
cio di Washington nel post-guerra fredda, volto a un frazionamento geopolitico
della regione, di cui hanno tentato di benefciare innanzitutto la Francia (incremen-
tando la propria presenza e subentrando in parte alle attività di pattugliamento e
controllo prima appannaggio degli americani, come nello Stretto di Sicilia) e il
Regno Unito (sfruttando l’avamposto di Gibilterra e i rapporti con Malta, oggi sban-
dierando il ritorno della Global Britain a est di Suez, che conferma Londra potenza
mediterranea). Secondo, la volatilità della sponda Sud e del Levante nell’ultimo
decennio, alimentata dalle guerre per procura mediorientali e dalla destrutturazio-
ne della Libia, i cui vuoti, a fronte del progressivo disimpegno americano e della
patologica ritrosia degli europei a farsi carico della stabilizzazione dell’area, sono
stati gradualmente colmati da russi e turchi – i primi intenti in particolare a conso-
lidare la propria presenza in Siria, Egitto e Cirenaica, i secondi impegnati in un’of-
fensiva multivettoriale di cui sono cartina di tornasole la dottrina della Patria blu e
l’aggressività nella porzione orientale del fu mare nostrum. Terzo, non per cogen-
za, la penetrazione economica, tecnologica e fnanco militare della Repubblica
Popolare. Tramite investimenti di colossi statali in infrastrutture logistico-portuali (e
in altri settori strategici, quali telecomunicazioni, trasporti ed energia) in paesi di-
slocati lungo la gran parte delle sponde euromediterranee e nei pressi di colli di
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bottiglia quali Suez, Gibilterra, Båb al-Mandab e Malacca, Pechino ha fatto del ba-
cino la meta delle nuove vie della seta marittime che contornano l’Eurasia e il
punto di raccordo con le loro direttrici terrestri, terreno sul quale testare e in pro-
spettiva insidiare il primato americano.
A oggi il Mediterraneo europeo è privo di uno sfdante capace di intaccare
l’egemonia americana. Sia per la presenza della Nato (al netto dei mal di pancia di
francesi e turchi e delle loro scelte di campo contrapposte, dal Mediterraneo orien-
tale alle Libie), sia per lo schiacciamento dei paesi europei sui desiderata america-
ni, sia per le storiche faglie che portano medie e piccole potenze regionali a con-
tendersi infuenza nell’area e a guardare agli alberi invece che alla foresta, anche a
detrimento dei propri interessi. Tendenze sublimate nella defenestrazione di
Muammar Gheddaf nel 2011 e nell’atteggiamento tenuto dall’Italia nell’occasione.
L’instabilità che ne deriva collima con l’obiettivo di Washington di evitare archi di
integrazione ostili (o alieni) agli Usa a cavallo dell’Eurasia (e dei suoi Mediterranei)
o l’emergere di un futuro egemone, spauracchio oggi rappresentato dalla Cina.
Mentre è fumo negli occhi di Pechino, per la quale l’ordine resta propedeutico
all’implementazione della «Marcia verso Occidente» sdoganata in reazione al «perno
asiatico» (pivot to Asia) dell’amministrazione Obama.
Instabilità che, cinque anni dopo la sentenza della Corte permanente di arbi-
trato dell’Aia che ha disconosciuto i diritti storici accampati da Pechino e ricompre-
si nella ten dotted line, vincolante solo sulla carta, si registra con sfumature diverse 257
I DUE MEDIOCEANI, POLI DI UN UNICO TEATRO NELLA SFIDA USA-CINA
grafco è il Mar Cinese Meridionale. Quadrilatero che è tassello di una rete fnaliz-
zata ad assicurare piena mobilità strategica e a tenere in scacco la proiezione cine-
se nel suo cortile marittimo.
Nel Medioceano asiatico a tenere svegli gli strateghi americani sono dunque
l’ascesa della Repubblica Popolare e il conseguente riconoscimento delle autorità
cinesi dell’esigenza di proteggere i propri «vitali interessi marittimi», da cui discen-
dono la crescente intraprendenza nelle acque ritenute territoriali e le rivendicazio-
ni nel Mar Cinese Meridionale e su Taiwan, che comprovano l’obiettivo di espan-
dere la propria infuenza geopolitica ben oltre le sue zone costiere. L’evoluzione
del pensiero strategico cinese è attestata dalla doppia natura terrestre e marittima
della Bri, che rende il ruolo degli Usa nella regione indo-pacifca sempre più es-
senziale a impedire lo stravolgimento dello status quo, come accaduto durante la
guerra del Pacifco contro la «sfera di co-prosperità» del Giappone imperiale.
Di rifesso alle instabilità parallele nei due Medioceani e alla crescente compe-
tizione sino-statunitense, che rischiano di compromettere i dividendi della globa-
lizzazione, le piccole e medie potenze euromediterranee sono spinte nell’Indo-
Pacifco. Ma scontano divergenze tra approcci nazionali e rispetto a quello ameri-
cano, nonché tra mezzi a disposizione, come dimostrano retorica, documenti de-
dicati e mosse concrete.
di buona parte degli Stati indo-pacifci ha pure interesse ai collegamenti con i mer-
cati dell’Asia e alla libera navigazione nell’area, ma non è – né si pensa, anche se
a Bruxelles qualcuno ci crede davvero – soggetto geopolitico. Al riguardo basti
notare come la strategia dell’Ue per la cooperazione nella regione indo-pacifca,
pubblicata dal Consiglio nell’aprile 2021, di strategico abbia ben poco: neppure
menziona gli Stati Uniti o la loro strategia per un Indo-Pacifco libero e aperto, né
tantomeno fronti caldi come Taiwan. Mentre come si evince dal titolo stesso l’U-
nione enfatizza gli aspetti cooperativo e inclusivo della sua proiezione. Senza con-
tare che la gran parte dei membri dell’Ue non disporrebbe degli strumenti materia-
li per giocare nella regione un ruolo signifcativo. Insomma, ravvisando nell’Ame-
rica di Biden la stessa impostazione anticinese di quella di Trump, l’Ue ha stilato
un documento che – in linea con la Strategia Ue-Cina del 2019, anno in cui Bruxel-
les si è dotata del primo strumento di controllo degli investimenti diretti esteri in
entrata – riconosce l’assertività della Cina e il lato competitivo dei rapporti sino-
europei. Vagheggiando un approfondimento della propria azione securitaria nell’a-
rea, sottolineandovi «l’importanza di una presenza europea signifcativa» e sugge-
rendone l’estensione fno all’Asia meridionale e sud-orientale.
Quali benefciari dell’ordine americanocentrico e nel tentativo di evitare di tro-
varsi schiacciati in una competizione geopolitica tra giganti, gli europei si appigliano
al diritto marittimo internazionale e all’Unclos (convenzione cui peraltro gli Usa non
aderiscono). Tanto che a metà dello scorso decennio francesi e poi britannici sono
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tornati a battere le acque del Mar Cinese Meridionale, guardandosi però dal replica-
re le Fonop statunitensi, Operazioni per la libertà di navigazione stricto sensu.
Quanto agli attori europei attualmente in pista, sono tre gli Stati che hanno
mandato segnali a Pechino, benché dissonanti, in relazione all’Indo-Pacifco e al
Mediterraneo asiatico.
Anzitutto la Francia, primo paese europeo a adottare il termine «Indo-Pacifco»
e a dotarsi di una relativa strategia, mosso dall’autopercezione, la Grandeur che ne
dà la cifra, e dalla difesa di interessi concreti. La Francia infatti può essere conside-
rata l’unica vera potenza europea residente negli oceani Indiano e Pacifco. In
virtù dei suoi possedimenti d’Oltremare e delle sue Zone economiche esclusive,
che costituiscono il 93% di quelle complessive dell’Esagono, nonché del suo di-
spiegamento militare, con ottomila soldati e decine di unità navali, pari quasi al
60% delle forze di stanza all’estero. Presenza simboleggiata quest’anno dalle mis-
sioni Jeanne d’Arc 21 (dispiegamento operativo dalla durata annuale, da Tolosa a
Sasebo) e da mosse scenografche come il pattugliamento del Mar Cinese Meridio-
nale con un sottomarino d’attacco, dalle esercitazioni congiunte con i quattro del
Quad nel Golfo del Bengala e dall’inedito addestramento con controparti america-
ne, giapponesi e australiane nel Mar Cinese Orientale che ha compreso operazioni
anfbie, chiaro riferimento allo scenario di guerra taiwanese.
Secondo, il Regno Unito, che pur essendo poco attrezzato per giocare un ruo-
lo sostanziale nell’area, specie in termini di risorse e avamposti spendibili, torna a
est di Suez per ribadirsi grande potenza, per sfogare all’estero il malessere interno 259
I DUE MEDIOCEANI, POLI DI UN UNICO TEATRO NELLA SFIDA USA-CINA
che rischia di disgregare il regno e per ampliare l’arco della sua infuenza geoeco-
nomica e geopolitica post-Brexit. Nel 2021 Londra ha inviato la sua nuova portae-
rei ammiraglia con annesso gruppo da battaglia (Csg21) in un dispendioso tour
indo-pacifco semestrale, dal Medioceano europeo a quello asiatico, annunciando-
vi lo stanziamento permanente di due suoi pattugliatori. La sfda sarà assicurare un
impegno di lungo periodo costante e credibile, facendo leva sui legami storici con
l’area in ambito del Commonwealth, della comunità d’intelligence dei Five Eyes e
dei Five Power Defence Arrangements. E stringendone di nuovi in ambito econo-
mico e militare. Peraltro, Washington ha manifestato il suo disappunto per questa
spedizione navale, consigliando Londra a concentrarsi sui quadranti assegnati: Ar-
tico con relativi mari settentrionali, in funzione antirussa, e Mediterraneo.
Terzo, la Germania, contraddistintasi per la recalcitranza iniziale verso il con-
cetto stesso di Indo-Pacifco, data l’impostazione anticinese del concetto che cozza
con i robusti rapporti non solo economici stabiliti con Pechino, ha fnito per adot-
tare anch’essa un proprio documento «strategico» relativo alla regione e ha inviato
una fregata nella regione indo-pacifca. Come da copione, l’approccio della Repub-
blica Federale è in linea con l’economicismo e il mercantilismo che ne informano
la proiezione estera. L’annuncio dello spiegamento semestrale del Bayern – prima
volta di una nave da guerra tedesca nel Mar Cinese Meridionale dal 2002 – è difat-
ti giunto contestualmente al via libera americano al Nord Stream 2. E vanno regi-
strati caveat evidenti: i tedeschi hanno precisato che l’unità non transiterà nelle 12
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
miglia nautiche degli atolli a sovranità contestata e hanno chiesto ai cinesi l’attracco
a Shanghai. In attesa che la fne dell’èra Merkel e le elezioni dell’autunno di
quest’anno defniscano il corso che la Bundesrepublik intende imprimere alle rela-
zioni col suo principale partner commerciale (la Cina) e al triangolo con Usa e
Russia, Berlino si mostra disponibile ad accogliere le istanze americane, ma il se-
gnale inviato a Pechino da Berlino è ben diverso da quelli di Parigi e Londra. Da
ultimo si sono accodati anche i Paesi Bassi, adottando proprie linee guida sull’In-
do-Pacifco e inviando una fregata integrata nel britannico Csg21.
Quanto all’Italia, restia a occuparsi persino del Medioceano di casa, a partire
dallo Stretto di Sicilia, è la sola tra i paesi citati a non aver stilato alcun documen-
to sull’Indo-Pacifco. Chiamata dall’America ad affacciarsi nelle acque contese del
Medioceano lontano, stanti le capacità della nostra fotta e sulla scorta dei contri-
buti assicurati alle missioni Usa e Nato dopo la fne della guerra fredda, andrà per
mari altrui per redimersi defnitivamente dal memorandum sulle nuove vie della
seta (siglato in pompa magna nel 2019) e per sugellare il rinnovato affato atlan-
tista esibito dal governo Draghi. Ma una sua presenza stabile nella regione do-
vrebbe passare per accordi logistici con attori residenti quali Francia e India,
magari per una ripartizione delle aree di competenza che permetta di supportare
siffatto sforzo navale in una cornice strutturata. Prima o poi, anche su impulso
americano, il Mar Mediterraneo dovrà tornare nei radar di Roma, sfruttando fnal-
mente la Sicilia, che a differenza di Formosa nel Mar Cinese Meridionale è almeno
260 nominalmente sotto sovranità italiana.
LEZIONI AFGHANE
4. Egemoni nel «proprio» Mediterraneo, gli Stati Uniti spingono affnché gli
alleati europei partecipino al contenimento della Cina, ma con compiti ben preci-
si. Per Washington la priorità è che questi arginino l’avanzata cinese in casa e nel
Medioceano euromediterraneo. Se n’è accorta l’Italia, protagonista di una svolta
di cui è stato alfere il governo Draghi, dopo le reprimende americane e la corre-
zione di rotta dell’esecutivo Conte con lo stop all’ingresso dei cinesi al porto di
Trieste a fne 2020. Non è un caso che i paesi del Vecchio Continente abbiano
recentemente indurito la propria posizione contro Pechino sui fronti tecnologico-
fnanziario (blocco all’accordo sugli investimenti Ue-Cina nel 2021, pure circo-
scritta e ondivaga adesione alla campagna contro il 5G made in China e contro
le nuove vie della seta), militare (invio di naviglio nella regione e riferimenti alla
stabilità dei Mari Cinesi, per esempio nel comunicato congiunto nippo-europeo
del maggio di quest’anno), di soft power (critiche per la violazione di diritti umani
nel Xinjiang e a Hong Kong), anche in sede Nato e G7. Segno che l’Italia e gli
altri europei hanno sempre meno margine di manovra nelle materie che la Re-
pubblica Popolare considera linee rosse, benché il nostro approccio, come quello
delle principali potenze europee, sia più sfumato, pragmatico e aperturista di
quello di Stati Uniti, Giappone e India.
Per gli europei (anzitutto francesi, britannici, tedeschi) rispondere alla chia-
mata anticinese di Washington e dei «partner asiatici» è variabile da iscrivere all’in-
terno di un’equazione complessa per poste in gioco ed eterogeneità degli interes-
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
262
LEZIONI AFGHANE
sono il Mar Cinese Meridionale e il Mar Mediterraneo, specchi d’acqua ormai assur-
ti al ruolo di Medioceani. Snodi imprescindibili per i fussi commerciali, energetici,
tecnologici e militari lungo la rotta più effciente tra Atlantico e Pacifco. Già nel
2017 la Repubblica Popolare dibatteva dei due Medioceani come «regioni marine
chiuse tra le terre» (dizhonghaiqu) accomunate da profonde crisi geopolitiche 1.
Oggi quella nel Mar Cinese Meridionale è sostanzialmente determinata dall’oppo-
sizione americana al piano di Pechino per dominare gli arcipelaghi Paracel e Sprat-
ly (contesi con i paesi del Sud-Est asiatico) e conquistare Taiwan entro il 2049.
Gli Usa presidiano le acque dell’Indo-Pacifco tramite le basi in Corea del
Sud, Giappone, Filippine e Singapore. In più forniscono supporto militare ed
economico a Taipei. Nel frattempo il Giappone si riarma, l’India si oppone alla
penetrazione della Repubblica Popolare a ovest dello Stretto di Malacca e le po-
tenze occidentali (Regno Unito, Francia, Germania e a breve forse Italia) iniziano
a perlustrare i Mari Cinesi per dimostrare a Washington di appoggiare la tattica di
contenimento della Repubblica Popolare. Tutto ciò impedisce a quest’ultima di
accedere liberamente all’Oceano Pacifco, condizione necessaria ma non suff-
ciente per ambire un giorno al ruolo di talassocrazia. La seconda crisi, quella in-
torno al Medioceano nostrano, dipende dall’instabilità politica ed economica di
1. ZHANG Xiaotong, «Si da diyuan zhanlue bankuai pengzhuang yu wuge “dizhonghai” weiji» («La col-
lisione di quattro grandi placche geostrategiche e le cinque crisi “mediterranee”»), Global Review, vol.
51, novembre-dicembre 2017, 15/11/2017. 263
USA E CAOSLANDIA FRENANO LA CORSA CINESE ALL’INDO-PACIFICO
diversi paesi africani, dalla presenza di Russia e Turchia nelle Libie e dalla decli-
nante propensione dei governi europei ad accogliere le imprese cinesi nel campo
portuale e tecnologico. In tale contesto, particolarmente simbolico è stato il con-
gelamento dell’accordo quadro sugli investimenti (Comprehensive Agreement on
Investment, Cai) tra Unione Europea e Cina lo scorso maggio. Pechino cerca di
conservare le ancore gettate nel Mediterraneo da quando ha promosso la Bri nel
2013 e intanto immagina percorsi alternativi – ma poco funzionali – tramite l’Afri-
ca e l’Artico.
Lo scenario è aggravato dall’ascesa dei taliban («studenti» in pashto) in Afgha-
nistan, innescata dal ritiro dei soldati Usa e Nato. Ciò che accade in questo paese
privo di sbocchi al mare ha un impatto sugli interessi securitari della Repubblica
Popolare e paradossalmente può incidere anche sulle sue ambizioni marittime. In
particolare quelle legate allo sviluppo del corridoio economico Cina-Pakistan, in
cui Pechino vuole coinvolgere Kabul. Dopo gli attentati terroristici dell’11 settem-
bre 2001, Washington ha speso notevoli risorse nella famigerata «guerra al terrore».
Nello stesso tempo, la Cina ha ridotto signifcativamente il divario economico,
tecnologico e militare che la separa dalla superpotenza a stelle e strisce. Ora
quest’ultima preferisce concentrare le proprie attenzioni sulla partita sino-statuni-
tense. E si augura che Repubblica Popolare e Russia commettano a loro volta l’er-
rore tattico di dispiegare le proprie Forze armate nella «tomba degli imperi» per
ragioni securitarie. Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Po ti g alo a n n Paesi coinvolti nel progetto
u n B ta
Gib Ba b o K ua delle vie della seta
lom e CINA
ib Co r
a iro a po
N g
Sin
rta
G i aca
Ponti terrestri eurasiatici
Passaggio settentrionale in
rw
Da
Passaggio centrale
Passaggio meridionale
y
Prima base militare Passaggi marittimi ne
cinese all’estero in funzione Syd
Fonte: Mappa panoramica di “Una cintura, una via” (Sinomaps Press, 2018, Pechino) e autori di Limes
CORRIDOIO CINA-PAKISTAN KIRGH.
UZBEK.
Corridoio Cpec formato T U R K M E N I S TA N TA G I K I S TA N Kashi CI NA
da autostrade, ferrovie, oledotti, gasdotti,
centrali energetiche, fbra ottica X I N J I A N G
Network autostradale Cpec
Autostrade esistenti Qonduz
K Strada del Karakorum
Progetti di connessione a (Collegamento tra Cina e Pakistan,
Progetti prioritari Herat Karachi - Khyber Pass r
a
strada più alta del mondo che attraversa
Rotta storica di rifornimento k la catena del Karakorum)
Progetti a breve termine degli Usa per l’Afghanistan o
Progetti a medio e lungo termine Gilgit r
Kabul u
m
Ferrovia Gwadar-Kashi A F G H A N I S T A N K2 (m. 8.611)
Lunghezza: 682 km Aksai Chin
Khyber Pass Peshawar Havelian (area reclamata
INVESTIMENTO: dall’India)
46 mld di dollari (Exim Bank of China Islamabad
Srinagar
e investitori privati cinesi) Kandahar
Incluso nel XIII Piano di sviluppo quinquennale Rawalpindi KASHMIR
Ismail Khan
I R A N Lahore
Quetta Faisalabad
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Stretto SISTAN- Dera Khan
di Hormuz B A L U C I S T A N Principali attentati
BALUCISTAN Multan contro cittadini cinesi
PAK ISTAN avvenuti nel 2021
Jacobabad
I N D I A
70 km Khuzdar
Turbat Larkana Sukkur
Delhi
Chabahar
(Porto strategico per l’India) India-Afghanistan-Iran
Gwadar - India-Afghanistan:
(Porto strategico per la Cina) Distretto di Gwadar Legame consolidato da accordi
Hyderabad Presenza di soldati cinesi economici, investimenti in armi,
Karachi per proteggere i lavoratori cinesi collaborazione d’intelligence
Oceano Indiano
- India-Iran:
Infltrazioni di uiguri Investimenti indiani per lo sviluppo
Gasdotto Iran-Pakistan in progetto del porto di Chabahar, acquisti indiani
per rifornire di energia il porto di Gwadar di petrolio e gas iraniano
Fonte: Autori di Limes e sito del governo del Pakistan
LA CINA CERCA SPAZIO Sistema Thaad
(Sistema antimissile
Partner temporaneo statunitense per colpire missili
Prima catena di isole
(spazio dove la Cina intende bloccare R U S S I A balistici a medio e lungo raggio)
Paesi pro-Cina la proiezione di potenza statunitense
acquisendo adeguate capacità militari)
Paesi equidistanti
Seconda catena di isole Controlli GIAPPONE
Amico teorico, nemico latente (strategia cinese, molto ambiziosa, raforzati
COREA
Int
di creare una Blue Water Navy lungo il confne
DEL NORD
esa
Paesi pro-Usa per estendere la propria infuenza
ta
fno alla seconda catena di isole)
ttic
aR
Acque territoriali di altri paesi Ürümqi Pechino
uss
COREA
ia-
DEL SUD
Cin
a
Gittata massima
dei missili cinesi Mar
antinave basati X I N J I A N G Cinese Farallon de Pajaros Marianne
a terra C I N A Orientale Settentrionali (Usa)
Shanghai
(Giappone)
Isole Isole Daitō Alamagan
“Ten-dotted-line” Senkaku (Giappone) Guguan
ūk y ū
rivendicazioni cinesi Giappone Saipan
e Ry
l
nel Mar Cinese (rivendicate Okinotori Rota
Meridionale da Cina e Taiwan) I so (Giappone) Guam (Usa)
IRAN Ulul
PAKISTAN TAIWAN O C E A N O P A C I F I C O
NEPAL Guangzhou Gaferut
Chabahar Mar Mar
(porto antagonista Gwadar delle Lamotrek
Cinese Filippine
dell’alleanza Pakistan-Cina. Meridionale Sorol Woleai
Sotto infuenza dell’India) Yap
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MYANMAR Hainan Isole Paracel Ngulu
ng LAOS Cina
I N D I A o Sanya (rivendicate da ISOLE CAROLINE
e
ag Taiwan e Vietnam) FILIPPINE
itt Isole Palau
ttw
OCEANO INDIANO h
Si
VI
C
THAILANDIA Isole Sonsorol
Isole Spratly PALAU
CAMBOGIA Contese da Cina,
ETNA
Porti strategici I N D O N E S I A
Minaccia terroristica per le nuove
nel Xinjiang vie della seta ©Limes
PIATTAFORMA XINJIANG Verso Helsinki-Rotterdam Giacimenti di petrolio Uiguri
Giacimenti di gas
Gasdotti Han
Oleodotto Kazakistan-Cina K A Z A K I S T A N Oleodotti
Altay
Principali attentati Burqin Rafnerie Kazaki
2013-2014 Base addestramento
Ürümqi terroristi uiguri
Tacheng (Nord Waziristan)
Pechino
Kashi
Karamay
M O N G O L I A
Kunming Ala Pass
Guangzhou
Cor
rid
Gasdotto Central Asia oio
N
Horgos Pass Dushanzi ORD
Almaty Ürümqi
LE Hami
Bishkek TRA
io CEN Turpan Shanshan da Tianjin
rid o
Verso Calais K I RG HI ZIS TA N Cor
da Shanghai
e Lianyungang
Korla
Luntai da Xi’an
Verso
Venezia Aksu
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G a n s u
X i n j i a n g
TAGIKISTAN Kashi
Ruoqiang
Avamposto ★
★
★ ★
★
Qiemo
militare cinese
C I N A Nuova via della seta
Hotan Corridoio SUD
da Guangzhou
e Fangcheng Transito militanti uiguri
PAKISTAN J a m m u
Corridoi multimodali
e Q i n g h a i in progetto
Ka s hm ir Nord
Islamabad Verso Karachi T i b e t Centro
e il porto di Gwadar Sud
LEZIONI AFGHANE
3. H.I. SUTTON, «China’s New High-Security Compound in Pakistan May Indicate Naval Plans», Forbes,
2/6/2020.
4. «Kabu’er xianluo, qiao xiang Meiguo baquan shuailuo de sangzhong» («“La caduta di Kabul”, suona
la campana a morto per il declino dell’egemonia statunitense»), Xinhua, 16/8/2021.
5. «Afghanistan today, Taiwan tomorrow? US treachery scares DPP», Global Times, 16/8/2021. 265
266
Isole Paracel
LA MARINA CINESE NELL’INDO-PACIFICO Cina
(rivendicate da
Anti-Access/Area Denial (A2/AD) GIAPPONE Taiwan e Vietnam)
Strategia cinese di interdizione dello spazio
Isole Spratly
Prima catena di isole COREA Cina (rivendicate da
(comprende i bacini contesi dell’Asia DEL NORD Tōkyō Filippine, Malaysia,
orientale, funzionali per Pechino MONGOLIA Taiwan e Vietnam)
a difendere la Cina continentale
e bloccare la proiezione di potenza COREA
aeronavale Usa) Flotta Possibili basi
Pechino del Teatro DEL SUD militari cinesi
Seconda catena di isole settentrionale Basi navali
(racchiude gli spazi marittimi
dell’Oceano Pacifco ove la Cina punta principali
a estendere la propria infuenza con QINGDAO
la creazione di una Marina d’alto mare)
Gittata massima dei missili Flotta
cinesi anti-nave basati a terra Shanghai del Teatro
C I N A orientale
Limite aree di competenza delle NINGBO
fotte cinesi Stretto
di Miyako
PAKISTAN
TAIWAN
NEPAL Guangzhou OCEANO
BHUTAN Stretto
di Luzon PACIFICO
USA E CAOSLANDIA FRENANO LA CORSA CINESE ALL’INDO-PACIFICO
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INDIA MYANMAR LAOS Yulin
Nuova base Flotta FILIPPINE
per sottomarini del Teatro
nucleari meridionale
THAILANDIA VIETNAM
CAMBOGIA
ia PAPUA
SRI LANKA igl NUOVA
m GUINEA
00
1.3
OCEANO INDIANO MALAYSIA
MALDIVE SINGAPORE
I N D O N E S I A AUSTRALIA
LEZIONI AFGHANE
3. Lo sviluppo delle vie della seta marittima presenta un alto grado di incertez-
za anche a ovest di Gwadar e in particolare nel Mediterraneo. Da quando Pechino
ha lanciato la Bri, i colossi logistici cinesi hanno consolidato la loro presenza nei
porti di Spagna, Grecia, Francia, Turchia, Marocco, Algeria, Israele, Egitto, Malta e
Tunisia. In questo modo, hanno sviluppato un certo grado di infuenza lungo le
rotte di navi e cavi in fbra ottica sottomarini dirette dalla Cina verso l’Atlantico e
passanti per il Canale di Suez, lo Stretto di Sicilia e quello di Gibilterra. Tuttavia, il
fu mare nostrum è meno placido del passato agli occhi cinesi. Le rappresaglie sta-
tunitensi a seguito della adesione dell’Italia alle nuove vie della seta nel 2019 han-
no indotto Roma a respingere massicci investimenti cinesi a Trieste e nel Meridione
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
zione di Pechino lungo la rotta che dovrebbe collegare il Pireo alla Germania
passando per la penisola balcanica.
La Repubblica Popolare deve fare anche i conti con il disordine che regna
sulla sponda meridionale del Mediterraneo. Cioè il margine di Caoslandia più vici-
no alla sfera d’infuenza americana in Eurasia. Pechino vanta in Africa una presen-
za piuttosto radicata sul piano economico, politico e securitario. Ora vorrebbe in-
vestire nuovamente nelle Libie, da dove ha evacuato i suoi lavoratori nel 2011, ma
la frammentazione del paese e la penetrazione di Russia e Turchia limitano i mar-
gini di manovra cinesi. La Repubblica Popolare, che si è opposta al supporto mili-
tare fornito da Ankara ad al-Sarråã, ritiene che la spregiudicatezza tattica turca sia
lesiva dei propri investimenti nel Levante. Senza contare che il governo di Recep
Tayyip Erdoãan mantiene un rapporto ambiguo con gli uiguri: da un lato include
il Xinjiang nelle parti di mondo su cui si estendono le ambizioni turche; dall’altro
preferisce incamerare gli investimenti derivanti dalla partecipazione della Turchia
alle nuove vie della seta. Nel frattempo, gli Usa pressano Israele affnché non fun-
ga da punto di transito tra Mar Rosso e mare nostrum nell’ambito delle nuove vie
della seta. Qui possono far leva sul fatto che la Cina ha siglato con l’Iran (rivale di
Gerusalemme) un accordo di cooperazione della durata di 25 anni, il cui scopo
non è solo concludere affari sul piano energetico, economico e securitario ma an-
che fare causa comune in chiave anti-Usa.
Come se non bastasse, l’ostruzione del Canale di Suez da parte della nave
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Gli Usa ritengono che le attività cinesi sulla sponda occidentale dell’Africa sia-
no il preludio alla costruzione di una base navale. Da tempo nella Repubblica
Popolare si dibatte di tale progetto e l’aggravarsi della competizione sino-statuni-
tense potrebbe accelerarne il passo. In tempo di pace, l’Esercito popolare di libe-
razione (Epl) potrebbe servirsi di questo avamposto per conoscere meglio l’Atlan-
tico e osservare i movimenti delle potenze europee a sud dello Stretto di Gibilterra.
Invece, in caso di guerra con gli Usa la struttura avrebbe un ruolo quasi nullo a
causa delle fragilità della via della seta marittima e dell’imperituro controllo dei
colli di bottiglia strategici da parte di Washington. Tali fattori comprometterebbero
la capacità della Repubblica Popolare di raggiungere, rifornire e proteggere una
struttura così lontana.
Insomma, diffcilmente la Cina sarà in grado di proiettarsi concretamente verso
l’Atlantico nel medio periodo. Soprattutto se prima non avrà posto rimedio alle
proprie vulnerabilità nel Medioceano asiatico e contestualmente non avrà superato
la sua storica inclinazione a percepirsi esclusivamente potenza terrestre. In questo
scenario, il coinvolgimento dell’Afghanistan nel corridoio sino-pakistano potrebbe
generare più incognite che vantaggi.
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269
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LEZIONI AFGHANE
Indo-Pacifco per superare quello di Asia-Pacifco. Già nel 2007, in occasione del
suo primo incarico in qualità di capo del governo nipponico, Abe cercò di coin-
volgere l’India nell’architettura securitaria della regione. Nel 2012, in occasione
del suo secondo mandato, avanzò in varie sedi l’idea di un «diamante democratico
della sicurezza» che avrebbe dovuto comprendere oltre a India e Giappone anche
Stati Uniti e Australia. Per Abe la stabilità degli oceani Pacifco e Indiano è indivi-
sibile. Infne, nel 2016, ha presentato uffcialmente la strategia del Giappone per
un Indo-Pacifco «libero e aperto», con l’intento di promuovere un ordine regiona-
le basato sulle regole, sulla prosperità e sulla stabilità. Gli Stati Uniti hanno subito
sposato il concetto con l’amministrazione Trump, che ne ha fatto un pilastro del-
la strategia americana di contenimento della Cina, e adesso le iniziative dell’am-
ministrazione Biden dimostrano che a Washington esiste un forte consenso bipar-
tisan in materia.
Il concetto di Indo-Pacifco libero e aperto ha consentito al Giappone di promuo-
vere una visione della regione alternativa a quella propugnata in questi anni dalla
Cina e ha posto le basi per la collaborazione fra T§ky§ e i suoi alleati e partner.
Importante è che nella visione nipponica il concetto di Indo-Pacifco è impernia-
to sui valori condivisi, sul benessere economico e sulla sicurezza che accomuna-
no i paesi coinvolti – aree in cui la potenza nipponica si è adoperata fattivamente
per decenni. Il futuro richiederà una strategia multidimensionale in grado di coin-
volgere l’apparato statale giapponese a ogni livello. 271
272
L’INDO-PAC Le due ellissi intrecciate (in grigio)
connettono i due oceani facendo perno
Cintura di crescita sull’Asean, spazio decisivo per legare
Connettività del Golfo del Bengala il Giappone all’India, al Medio Oriente
EUROPA dell’Asia (BIG-B)
e all’Europa
meridionale
e occidentale
GIAPPONE
MEDIO
Delhi
ORIENTE y Conn
ett
ala i
and
vit
à
Duqm M
Ase
Mumbai n
an
go wa Da Nang
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Gibuti w Ho Chi Minh
Da
Colombo O c e a n o P a c i f i c o
Mombasa
Nacala
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‘SE LA CINA PRENDESSE TAIWAN, IL GIAPPONE POTREBBE FARSI LA BOMBA’
Toamasina
O c e a n o
I n d i a n o
LIMES Quali sono le sfde e le minacce che agitano questo enorme teatro marittimo?
YOSHIHARA Sul piano della sicurezza le sfde vanno dalla competizione fra grandi
potenze alle dispute territoriali fra vicini, dalla proliferazione nucleare alla difesa
delle linee di comunicazione marittime, dall’assistenza umanitaria al soccorso in
caso di catastrof naturali. Sul piano geopolitico, la grande novità è che l’Indo-Pa-
cifco registra l’ascesa simultanea di Cina e India, due potenze continentali che la-
vorano alacremente per acquisire una nuova dimensione marittima. Il teatro è
inoltre uno dei più militarizzati al mondo e conta diverse potenze nucleari, mentre
la diffusione di armamenti offensivi di precisione ha reso sempre più problematico
l’accesso e il libero movimento attraverso la regione – specialmente nell’eventuali-
tà di una crisi armata. Le dimensioni dell’Indo-Pacifco sono tali che nel caso di un
confitto potenze distanti come gli Stati Uniti potrebbero fare molta fatica a raggiun-
gere tempestivamente la linea del fuoco. Un altro fattore caratterizzante da tenere
a mente è la diffcoltà a mettere d’accordo i tanti attori che abitano questo grande
teatro, ciascuno dei quali persegue scopi e interessi nazionali molto diversi fra loro.
LIMES In questo contesto, che cosa rappresenta Taiwan per il Giappone?
YOSHIHARA Taipei è l’àncora di sicurezza meridionale di T§ky§. Per oltre un seco-
lo, l’isola è stata nella disponibilità giapponese o comunque in mani amiche:
dapprima come colonia, poi come bastione anticomunista durante la guerra fred-
da, oggi infne come partner economico e democratico molto stretto. La geografa
dell’Asia orientale fa della sicurezza di Taiwan e del Giappone una cosa sola.
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
Basti pensare che l’isola di Yonaguni, il territorio più meridionale dell’intero arci-
pelago nipponico, dista soli 110 chilometri dalla costa taiwanese. O che per le
acque delle isole Nansei – protese per circa mille chilometri fra la regione di
Kyûshû e Formosa stessa – passano alcune delle principali arterie marittime che
connettono via mare Giappone, Cina, Taiwan e Corea del Sud. Se Pechino riuscis-
se a impadronirsi di Taipei o a portarla nella sua disponibilità, il calcolo geostra-
tegico di T§ky§ muterebbe radicalmente, capovolgendo le ipotesi su cui si è
fondata per decenni la sicurezza dell’arcipelago. Opzioni che un tempo erano
semplicemente impensabili, come l’acquisizione di armi nucleari, diverrebbero di
colpo delle possibilità concrete.
Sotto il proflo militare, le isole Nansei si collocano lungo un’importante direttrice
di avvicinamento alla costa orientale di Taiwan. Per questo motivo, nell’eventualità
di una guerra fra Pechino e Taipei, le forze aeronavali dell’Esercito popolare di li-
berazione (Epl) sarebbero costrette a violarne gli spazi aerei e marittimi per guada-
gnare margine d’azione contro i taiwanesi. Se poi anche gli Stati Uniti decidessero
di scendere in campo per difendere l’indipendenza dell’isola bastione, le prime ad
agire sarebbero le truppe schierate in posizione avanzata nelle basi nipponiche,
come quelle presenti a Okinawa. In questo scenario i vertici dell’Epl potrebbero
ritenere del tutto logico – oltre che operativamente utile – lanciare un attacco pre-
ventivo contro le forze e le basi americane per disabilitarle, anche se ciò compor-
terebbe il rischio di trascinarci nel confitto. Quale che sia la dinamica del prossimo
scontro armato nei mari dell’Asia orientale, le Forze di autodifesa nipponiche de- 273
‘SE LA CINA PRENDESSE TAIWAN, IL GIAPPONE POTREBBE FARSI LA BOMBA’
disponibili nelle acque dell’Asia orientale: non è un dato da poco, perché in caso
di crisi questo vantaggio numerico potrebbe colmare il ritardo qualitativo della
Mepl nei confronti della Marina Usa.
LIMES T§ky§ deve dunque temere per la propria sicurezza alla luce dell’ascesa
navale di Pechino?
YOSHIHARA Nel corso dell’ultimo decennio abbiamo assistito a un cambiamento
drammatico nei rapporti di forza in mare tra il Giappone e la Cina. La Forza di
autodifesa marittima nipponica è stata sopravanzata sotto quasi ogni aspetto. Tan-
to per fare un esempio, il potere di fuoco della Mepl – inteso come il numero di
sistemi di lancio verticali imbarcati sulle unità di superfcie – è già oggi superiore a
quello della fotta giapponese. Si tratta di un divario destinato a crescere sempre
più rapidamente nei prossimi anni perché, se anche lo volesse, il Giappone fareb-
be molta fatica a invertire queste tendenze materiali. Non è un dato da sottovalu-
tare: storicamente gli squilibri navali fra attori rivali e vicini hanno preceduto fasi di
intensa competizione strategica e fnanco portato allo scoppio di guerre fra grandi
potenze.
Questi cambiamenti sono inoltre il sintomo di una sfda molto più profonda a cui
il Giappone e il suo principale alleato, gli Stati Uniti, sono chiamati a rispondere.
L’ambizione di Pechino di ergersi a potenza preminente dell’Asia indica che una
Cina ancora più forte, se non verrà contrastata, porrà termine al lungo periodo di
pace a cui giapponesi e americani hanno contribuito in maniera determinante.
Copia di 0437b8c05f2cb07f7c4a4c105cd2f0d8
276
LEZIONI AFGHANE
sta tendenza non è soltanto un effetto della crescita economica del subcontinente,
ma sta progressivamente assumendo i contorni di una prospettiva strategica. È
ormai universalmente acclarato che la regione indo-pacifca è uno dei principali
teatri dove si confrontano le grandi potenze del XXI secolo.
L’importanza dell’India come attore regionale non è dettata solo dalla sua posi-
zione geografca di rilievo, che la colloca al centro di rotte marittime – tra lo Stretto
di Malacca a est e quelli di Båb al-Mandab e Hormuz a ovest – attraverso cui passano
attualmente immense quantità di petrolio destinato alle economie emergenti (tra cui
la Cina) e almeno il 25% delle merci esportate nel mondo. L’elemento più importan-
te che segna il ruolo dell’India in questo scenario è la rapida evoluzione della sua
politica estera negli ultimi anni, legata alla presa di coscienza del proprio emergente
ruolo geopolitico e alla necessità di costruire una posizione consona sia ai suoi
obblighi strategici immediati sia alle sue potenzialità nel sistema internazionale. Il
primo ministro Narendra Modi, guida di questa evoluzione, ha ben evidenziato tali
elementi in un discorso pronunciato allo Shangri-La Dialogue di Singapore nel 2018.
Scegliendo di parlare nel cuore del Sud-Est asiatico, il premier Modi ha sot-
tolineato la rinnovata importanza che l’India attribuisce alla propria dimensione
marittima, e quindi indo-pacifca, in politica estera. Partendo dal fatto che il 90%
dei beni commerciali ed energetici necessari per garantire il progresso del paese
proviene dall’interscambio marittimo, Modi ha ribadito che l’attuale crescita an-
nua del pil di circa il 7,5-8% (dati pre-epidemia) dev’essere accompagnata da un
maggiore impegno internazionale e dalla cooperazione con i partner commerciali 277
L’INDIA CHIAMA L’ITALIA NELL’INDO-PACIFICO
2. Negli ultimi anni, l’India ha lavorato per rafforzare le sue relazioni con i pa-
esi del Sud-Est asiatico e dell’Indo-Pacifco attraverso l’Act East Policy, un progetto
fondato su iniziative politiche e diplomatiche volte a rafforzare il partenariato nella
regione, proteggendo allo stesso tempo i suoi interessi contro la crescente, spesso
ostile, infuenza cinese. La visione cooperativa e non confittuale del suo approccio
ha favorito il riavvicinamento con partner commerciali storici come Giappone e
Australia, con i quali le relazioni hanno assunto una dimensione strategica nell’af-
frontare l’instabilità creata dalla Cina nella regione.
Allo stesso tempo, Delhi si sta scostando molto dall’approccio ereditato dalla
guerra fredda, basato sul non allineamento, per avvicinarsi agli Stati Uniti. E Wa-
shington ha dimostrato di considerare sempre più l’India un partner privilegiato.
Queste iniziative, però, da parte indiana sono sempre state accompagnate da una
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I fronti che Pechino tiene aperti contro l’India sono numerosi, dall’occupazione
dell’Aksai Chin alle continue intrusioni di confne nel Ladakh, nel Sikkim e nell’A-
runachal Pradesh, Stati del Nord del subcontinente che negli ultimi anni sono stati
ripetutamente attaccati in quella che sta assumendo sempre più le dimensioni di
una guerra a bassa intensità. Negli ultimi anni l’India ha iniziato a mettere in discus-
sione la crescente assertività marittima della Cina sia nel Mar Cinese Meridionale
sia nell’Oceano Indiano, dove spesso operano unità navali cinesi. L’attivismo della
Repubblica Popolare in quest’area è spesso preannunciato da lauti prestiti fnanziari
per progetti infrastrutturali – soprattutto nei porti, cruciali per l’estensione marittima
delle nuove vie della seta, il principale strumento geopolitico usato da Pechino per
estendere infuenza e controllo. Il rapporto tra Cina e Pakistan – quest’ultimo è stori-
camente il principale rivale geopolitico dell’India nell’Asia meridionale – è uno degli
esempi più chiari del rapporto causa-effetto tra indebitamento economico e infuen-
za geopolitica, e fa parte del chiaro tentativo cinese di intromettersi nei problemi
storici della regione in chiave anti-indiana. In questo scenario, la Marina indiana
diventa sempre più un partner privilegiato sia per i paesi dell’area sia per le potenze
amiche extraregionali per contrastare le montanti minacce, tradizionali o meno.
I N D I A
no
L AOS
Naypyidaw lungo la frontiera con
To olfo
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Bangkok
Bangalore
CAMBOGIA
ISOLE ISOLE Phnom Penh
LACCADIVE ANDAMANE
Port Blair
Madurai confne India - Sri Lanka Golfo di Ho Chi Minh
i Palk Mar delle
.d Thailandia
Oceano Indiano Andamane
Str
Trincomalee
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ISOLE
S
★
tto
★
★ ★
★
Hambontota
di
Sabang
M
MALAYSIA
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INDONESIA
a
LEZIONI AFGHANE
283
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LEZIONI AFGHANE
1. I
TURCHI HANNO SCOPERTO IL MARE CON
colpevole ritardo, comprendendo solo parzialmente la fondamentale importanza
del controllo delle acque per il dominio delle terre. Quando nel 1087 il terzo dei
Grandi selgiuchidi d’Iran Melikşah – il «re-re» – entra ad Antiochia e fa bere al suo
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cavallo l’acqua salata del Mediterraneo, crede quest’ultimo poco più di un lago.
Ringrazia Allah per avergli permesso di estendere i confini del suo immenso Stato
fino al «mare d’Occidente», contrapponendolo – dunque equiparandolo idrografi-
camente – al «mare d’Oriente», il Lago Balkaş. Alla fine dell’XI secolo i selgiuchidi
governano un impero esteso su oltre 10 milioni di chilometri quadrati, sono la
superpotenza globale, ma la natura della geopolitica turca resta profondamente
terrestre, lacustre, fluviale. Tanto che un secolo e mezzo dopo i proto-ottomani di
Ertuãrul Gazi devono riscoprire il mare al termine della lunga marcia che nel cor-
so di una sola generazione li conduce dalle sponde dell’Amu Darya alla Bitinia.
Osservando con commosso stupore le placide acque del Mar Nero dai declivi del
Ponto occidentale in occasione della traversata inversa che li avrebbe condotti
all’accampamento del can mongolo Ögeday 1. Senza tuttavia imprimere una svol-
ta effettivamente marittima alla propria evoluzione antropologica. All’apice della
traiettoria dello Stato grande, i sea shanties dei marinai ottomani che abbandona-
no le acque del Bosforo non hanno nulla di trionfale. I lupi di terra turchi implo-
rano il Signore di farli rientrare a casa, di permettergli di «tornare a mettere i piedi
sulla terraferma» 2.
È sull’elemento solido che il turco compie le sue imprese, che è stato generato
il fenomeno oggi incarnato nella Repubblica di Turchia, plasmato l’approccio stra-
1. La vicenda è ripercorsa in una delle scene più toccanti della nota serie televisiva Diriliş Ertuãrul.
2. A. BARBERO, Il divano di Istanbul, Palermo 2015, Sellerio, pp. 58-59. 285
IL LUPO TURCO NON È PIÙ IDROFOBO. LA STRATEGIA MARITTIMA DI ANKARA PER ESPANDERSI NEL TURKESTAN
tegico che ha permesso agli antenati di Atatürk di distruggere ed erigere alcuni tra
gli imperi più straordinari della storia. In principio fu l’attraversamento del Gobi,
dunque la scoperta della Siberia. Vessati dai cinesi, determinati a non scomparire
come i vicini Jung, intorno al 1200 a.C. i proto-unni – gli Hu della steppa – si met-
tono in testa di passare il fin allora inviolato deserto che separa le alture della Mon-
golia interna dalla taiga a bordo di carri coperti trainati da buoi. L’impresa è im-
mortalata in «un disegno rupestre [che] ha fissato l’immagine di quella “nave”, sulla
quale gli antenati degli unni si spostarono attraverso il mare di sabbia» 3. Iniziativa
dall’alto valore strategico che permette loro di sopravvivere, di fare la patria nella
Transbaikalia, di frapporre l’ostile elemento desertico tra sé e i cinesi. E poi – un
millennio dopo, nel fatidico 202 a.C. – di riaffacciarsi a sorpresa sulla Pianura cen-
trale dalle alture del sacro Hua Shan. Generando l’epopea di cui Recep Tayyip Er-
doãan – l’ultimo gökbörü, l’eccezionale lupo celeste – è alfiere contemporaneo.
È impossibile stabilire cosa sarebbe stato del fenomeno turco in assenza del-
la traversata del Gobi, così come è impossibile ipotizzare cosa sarebbe (stato) og-
gi lo Stato grande degli ottomani se i turchi avessero avuto il coraggio di gettarsi
tra i flutti come gli inglesi o gli americani. Senza dubbio, ai discendenti di Mete
Han è mancata l’impresa marittima. Non sono stati in grado di stupire il mondo
sulle acque come hanno sempre fatto sulle terre. Di riprodurre nell’elemento li-
quido geniali acrobazie come la scalata della collina di Pera imposta da Fatih Sul-
tan Mehmet alle imbarcazioni che gli avrebbero permesso di portare a termine la
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Conquista. Sconfitti in mare, consapevoli che il mondo non può (più) essere do-
minato dalla terra, i turchi provano a gettare il cuore oltre l’ostacolo marittimo
proiettandosi nello Spazio, cercando nel Cosmo la fortuna mancata nell’acqua. Ri-
vendicando naturalmente la paternità dell’intuizione lunare.
Il 5 febbraio 2021 all’interno del sito archeologico di Göbeklitepe – insedia-
mento anatolico prototurco risalente al dodicesimo millennio prima di Cristo – è
comparso un misterioso monolite recante la scritta: «Guarda al Cielo, vedi la Lu-
na». Vergata sull’enigmatico oggetto metallico in göktürçe, l’alfabeto usato durante
l’epoca del kaganato turco che dominò gli Altay e la Mongolia nell’VIII secolo.
Oggi logo geopolitico dei Lupi grigi di Devlet Bahçeli. La nazione è rimasta inter-
detta, intrigata e affascinata per quattro giorni. Fino a quando Erdoãan ha annun-
ciato il programma spaziale della Repubblica di Turchia. Ambizioso progetto me-
diante il quale il terragno turco si propone di dominare lo spazio intergalattico.
Di cui il monito scolpito sul monolite – declinato all’imperativo, non all’indicativo
– è slogan promozionale (Gökyüzüne Bak, Ay’ı Gör). Rievocazione della potenza
celeste del turco altaico – ribattezzato «turcico» (turkic) dagli occidentali. Quel tur-
co vedeva la Luna perché guardava al Cielo ululandovi dalle montagne dorate
(Altın Daãları), con l’arco in spalla e il lupo grigio al fianco.
Il passaggio dallo spazio terrestre allo spazio cosmico si produrrà tuttavia in
un lasso di tempo intergenerazionale. Il turco vivente oggi può accennare la tran-
286 3. L.N. GUMILEV, Gli unni, Milano 2014, Res Gestae, pp. 27-29.
LEZIONI AFGHANE
sizione, non completarla. Il problema del rapporto con le acque resta dunque at-
tuale, immediato, impellente. Perché i mari sono anello di congiunzione tra le
terre e le galassie. Dallo scioglimento del dilemma acquatico dipende quindi la
potenza attuale e futura della Repubblica di Turchia. L’imperativo non può essere
dominare gli oceani, ma evitare di affogare come gli ottomani. Liquefare a suffi-
cienza la natura radicalmente solida del proprio approccio agli affari del mondo
per (ri)fare la «Turchia», cingere dai mari la massa continentale che ne ha genera-
to il mito, tornare a guardare la Luna dall’ancestrale patria alpestre cavalcando l’e-
lemento liquido.
za strategica quasi senza paragoni delle relazioni tra Ankara e Islamabad. Perché
l’India superiore è l’anello di congiunzione tra gli oceani e il Turan, sussume la
svolta antropologica – prima ancora che geopolitica – che la Turchia sta cercando
di imporre alla propria visione del mondo. Sostanziando la penetrazione lungo il
corso dell’Indo con strumenti ormai consolidati. Puntando sul fattore umano, sul-
la dimensione sentimentale. Facendo innamorare il pakistano.
In occasione della visita di Erdoãan a Islamabad del febbraio 2020, il primo
ministro Imran Khan ha vezzeggiato il presidente turco stabilendo che «il popolo
pakistano, indipendentemente dalle affiliazioni politiche, ti considera il difensore
del mondo musulmano: vinceresti a mani basse le prossime elezioni in Paki-
stan» 7. Lodi probabilmente non concordate che hanno quasi fatto cadere dalla se-
dia il Reis dei turchi e il suo ministro della Difesa – di fatto il capo della delega-
zione del Mhp di Devlet Bahçeli nell’esecutivo. La prima puntata in urdu della
fortunata serie televisiva Diriliş Ertuãrul – che rievoca a scopo pedagogico il pro-
cesso di gestazione dell’impero ottomano – ha fatto registrare oltre cento milioni
di visualizzazioni su YouTube 8. Il successo della dizi neo-ottomana è stato tale 9
che la turca Tekdin Films e la pakistana Ansari Films stanno coproducendo una
serie tv incentrata sulla vicenda di Türki Lala, gazi pakistano che insieme ad altri
musulmani d’India combatté a Çanakkale e nella successiva guerra di liberazione
anatolica 10. Lo sceneggiato verrà trasmesso contemporaneamente in Turchia e in
Pakistan a partire dal 2023, centenario della fondazione della Repubblica di Tur-
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7. «President Erdogan can win next elections in Pakistan says PM Imran | Watch Erdogan reaction»,
www.youtube.com/watch?v=dwkcX9nG1Fc
8. www.youtube.com/watch?v=fa89NxhAKis&t=13s
9. S. FAROOQI, «Ertugrul: The Turkish TV drama enthralling Pakistan», Bbc News, 16/6/2020, bbc.
in/37JhxWo
10. M. REHMAN, «Are you ready for a Pak-Turk TV series? “Lala Turki” based on the Khilafat Movement
is in the works», Images, 14/1/2021, bit.ly/3CM8Xof
11. «Uluslararası Türk Akademisi Pakistan Üniversiteleriyle øV̧birliãi Protokolü imzaladı» («L’Accademia
internazionale turca ha frmato un protocollo di cooperazione con le università pakistane»), twesco.
288 org, 23/12/2020, bit.ly/3ACIGXE
LEZIONI AFGHANE
scendente di Cengiz Han e Timur che dalla base di Kabul estese la sua sovranità
sull’intero Hindustan, fondando la superpotenza che nel XVI secolo contendeva il
primato globale agli ottomani.
È in questa prospettiva che va letta l’iniziativa afghana della Turchia, la di-
sponibilità di Ankara a intestarsi la difesa dello strategico aeroporto di Kabul –
che la Turkish Airlines collega(va) Ankara al resto del mondo attraverso gli 11 vo-
li settimanali verso lo scalo di Istanbul – dopo la fuga degli americani. Proposito
reso ancor più accattivante dalla riconquista dell’intero (o quasi) Afghanistan da
parte dei taliban 12. Di cui Erdoãan aveva previsto tempi e modi con diversi giorni
d’anticipo, dichiarandosi disponibile a incontrare il capo dei guerriglieri 13. Aper-
tura ricambiata dagli «studenti» 14, che si sono affrettati a definire la Turchia un
«paese amico» con il quale intendono stabilire «strette relazioni». Aggiungendo di
sperare che il presidente turco gli mostri «rispetto» 15. Perché il Reis è il califfo in-
formale dell’ecumene islamica, perché i turchi sono «la razza imperiale del mon-
do musulmano» 16.
Tali manovre non sono il risultato di un progetto estemporaneo, ma conse-
guenza naturale dell’approccio con il quale Ankara prese parte nel 2002 all’ope-
razione a guida americana. A differenza degli europei la Turchia si fece coinvol-
gere nella missione Isaf non per compiacere la superpotenza, ma inquadrando la
propria partecipazione in una prospettiva di lungo periodo. Al fine di ristabilire
gradualmente la propria presenza – non solo militare – in un quadrante cruciale
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M a r E g e o Rodi
Karpathos
SIRIA
Creta Kasos
CIPRO
LIBANO
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Nuova frontiera marittima Tamar
tra Egitto e Grecia (8/2020) Zohr Leviathan
LIBIA
M a r M e d i t e r r a n e o ISRAELE Cisg.
Area libica
E G I T T O
Limiti di Zee frutto di un accordo bilaterale LE PARTITE ENERGETICHE NEL
Limiti di Zee non ufciali MEDITERRANEO ORIENTALE
LEZIONI AFGHANE
Come rivela l’accorta iniziativa con la quale il ministero della Difesa ha ritirato il
contingente a Kabul nel giro di 36 ore – l’Afghanistan non vale il sangue dei martiri
– rimpiazzandolo con i contractors già testati con successo in Libia, i quali hanno
affancato i reparti delle forze speciali che non hanno mai abbandonato l’aeroporto
Hamid Karzai 19. Operazione concordata nei dettagli con taliban e Stati Uniti che ha
permesso ad Ankara e Doha di intestarsi la riapertura dello strategico scalo 20.
Sovrapponendo le proprie ambizioni alla strategia imperiale di Washington,
la Turchia riesce a curare i propri interessi tutelando contestualmente quelli della
superpotenza. Costringendo quest’ultima a tollerarne la brama di grandezza. La
sollecitudine afghana di Erdoãan ha già cambiato sensibilmente il corso delle fu-
nestate relazioni turco-americane, dall’agenda delle quali sono spariti gli S-400, la
democrazia anatolica e i diritti umani 21. Dinamica lucidamente colta dalla diaspo-
ra armena, che ha prontamente mobilitato i propri uomini nel Congresso contro
il «malefico» programma dei droni turchi 22, i quali potrebbero nel prossimo futuro
solcare i cieli afghani. Nell’assordante silenzio dell’amministrazione Biden, che
può concedere alla potente lobby il formale riconoscimento del cosiddetto geno-
cidio del 1915, ma ha troppo bisogno dell’arrembanza di Ankara per castigarla
sulla sostanza geopolitica. Come rivela la disinvoltura con la quale la Turchia si
permette di fare con russi e cinesi quanto agli europei non verrebbe – non è sta-
to – concesso di fare. E al contempo di traccheggiare, pretendendo che sia la su-
perpotenza a finanziarle – sotto tutti i profili, non solo quello economico – l’ini-
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del blocco dello scorso marzo 28. Circostanza che prelude alla piena integrazione
del paese nel club panturco 29, il quale nel prossimo futuro potrebbe includere tra
i suoi membri anche l’Afghanistan, il cui ex ministro degli Esteri ha presentato
formale richiesta per acquisire lo status di osservatore 30. Per il momento non riti-
rata dai taliban. Dinamiche che riflettono la crescente integrazione dello spazio
turco e che stanno permettendo alla Turchia di congiungere il Caspio – solcato
su entrambe le sponde da pattugliatori di produzione anatolica, classe Kılıç sul
lato azero e classe Tuzla sul lato turkmeno – all’Indo-Pacifico. Di unire il Turke-
stan meridionale ai Turkestan occidentale e settentrionale, di avvicinare l’Hindu
Kush alla steppa cosacca (kazak). Dunque, di fondere il Turan negli oceani.
Il Consiglio turco sta diventando in tal senso lo strumento che permette ad
Ankara di serrare le file turaniche. La svolta è avvenuta in occasione del vertice del
24. «Zangezur corridor between Turkey, Azerbaijan to revive region», Daily Sabah, 1/6/2021, bit.ly/3AFiRpS
25. «Non ci siamo dimenticati che abbiamo giurato di vendicarci» («Unutmadık intikamnı alıcaz yemi-
nimiz var») scandisce il rapper turco Eddiz Alfa nella ballata ølle de Karabaã (Il Karabaã a qualsiasi
costo), celebrativa della vittoria del 2020, www.youtube.com/watch?v=gGx5NprovXg&t=81s
26. «I turchi più puri sono qui in Kazakistan», cit. in H. Pope, «Il mondo dei turchi», Limes, «Il ritorno
del sultano», n. 4/2010, p. 199.
27. U. HASHIMOVA, «Uzbekistan Joins the Turkic Council», The Diplomat, 23/9/2019, bit.ly/3yRtFAA
28. «Turkmen President Outlines Country’s Priorities at Turkic Council Summit», Business Turkmeni-
stan, 1/4/2021, bit.ly/3iO9yhc
29. K. BOZDOÃAN, «We hope to see Turkmenistan in Turkic Council: Erdoãan», Anadolu Agency,
12/12/2020, bit.ly/3CZb0pc
292 30. «Afghanistan wishes to become observer in Turkic Council», report.az, 5/5/2021, bit.ly/3siXl7o
LEZIONI AFGHANE
31 marzo scorso, in occasione del quale la kazaka Türkistan è stata proclamata ca-
pitale spirituale dell’organizzazione. Scelta simbolica – vi predicò e morì Ahmed
Yesevî, il mistico sufi più celebrato dell’Asia centrale – che rivela la sempre più in-
tensa determinazione con la quale i turchi non anatolici intendono riscoprire le
proprie radici ancestrali. Vedi l’invidia con cui azeri e uzbeki cercano di elevare al-
lo stesso status Şuşa, Buhara e Samarcanda. I secondi propongono addirittura di
installare a Khiva la capitale permanente del Consiglio – il cui segretariato generale
ha oggi sede a Istanbul. Più concretamente, in vista del vertice formale del blocco
panturco che si terrà in autunno gli Stati membri dell’organizzazione – Turchia,
Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Ungheria (osservatore) – pre-
parano un’ulteriore integrazione dello spazio a cavallo del Mar Caspio, delineando
accordi di libero scambio e forme di cooperazione di vario genere e natura. Con
l’obiettivo di estendere a oriente del maggiore lago eurasiatico lo standard fissato
da Ankara e Baku con la dichiarazione di Şuşa del 15 giugno 2021, che prevede
tra le altre cose una clausola di difesa comune 31. Iniziativa che sostanzia la retorica
dei «due Stati, una nazione» e getta le basi per la fusione delle Forze armate delle
due repubbliche sorelle. Prospettiva apparentemente delineata dal presidente del
parlamento turco in occasione della visita nella capitale azera di fine luglio 32. Sono
i primi vagiti degli Stati uniti del mondo turco 33. Meglio, degli Stati uniti del mon-
do turchizzato, in considerazione della natura triangolare assunta dal nucleo
dell’integrazione turanica, della sempre più pronunciata propensione dell’asse tur-
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co-azero a poggiare sul vertice basso pakistano 34. Dinamica che consolida la già
salda congiunzione tra Mar Caspio e Indo-Pacifico, tra il baricentro lacustre del
mondo turco e i mari aperti. «Tre Stati, una nazione». Dunque, un esercito.
La consistenza geopolitica delle iniziative turche è riflessa dalla reazione dei
rivali regionali di Ankara. I persiani sono attanagliati dal terrore, sprofondati
nell’incubo che credevano di aver definitamente scacciato con la restaurazione di
‘Abbås il Grande. I loro sonni sono nuovamente turbati dai discendenti dei no-
madi turcomanni e di Timur, dei selgiuchidi e dei ghaznavidi. L’Iran torna a esse-
re circondato dal Turan. La questione è di immediata rilevanza strategica, dal mo-
mento che la tregua turco-persiana inaugurata dal trattato di Kasr-ı Şirin (Zuhab)
del 1639 sembra volgere al termine. Negli scorsi quattro secoli – certamente negli
ultimi decenni – l’altopiano iranico è stato la porta della Turchia sull’Asia centrale
e la penisola anatolica la finestra della Persia sull’Europa e il Mediterraneo. I due
spazi si sono compenetrati, assumendo reciproca funzione vitale. Dinamica che
ha impedito alla più strutturata rivalità eurasiatica di (ri)evolvere in competizione
31. S. SEVENCAN, F. ZORLU, «Turkey, Azerbaijan sign “Shusha Declaration” to boost defense cooperation»,
Anadolu Agency, 15/6/2021, bit.ly/3zBBDia
32. «Türkiye-Azerbaycan-Pakistan arasında ortak ordu iddiası! Neler oluyor?» («L’indiscrezione sull’e-
sercito comune tra Turchia, Azerbaigian e Pakistan! Cosa sta succedendo?»), Cnn Türk, 29/7/2021,
www.youtube.com/watch?v=NUxxmJ8PM24
33. M. AYDOÃAN, «Turkic Council eyes forming ‘united states of Turkic world’», Anadolu Agency,
30/3/2021, bit.ly/37LHhS2
34. «Turkey, Pakistan, Azerbaijan sign declaration to boost cooperation», Daily Sabah, 28/7/2021, bit.
ly/37KvWlm 293
IL LUPO TURCO NON È PIÙ IDROFOBO. LA STRATEGIA MARITTIMA DI ANKARA PER ESPANDERSI NEL TURKESTAN
violenta. L’entrata in funzione della ferrovia Baku-Tblisi-Kars nel 2017 ha rotto l’i-
dillio, permettendo ad Ankara di aggirare la piattaforma iranica, di affacciarsi
sull’Asia centrale aggirando la rotta Tabriz-Teheran-Mashhad.
Prendendo a pretesto l’epidemia di coronavirus, nel febbraio 2020 la Turchia
ha definitivamente slittato verso il Caucaso i propri flussi commerciali. Potenzian-
do non solo il transito dei convogli ferroviari lungo la nuova via ferrata, ma an-
che il traffico gommato attraverso i valichi di confine di Türkgözü e Çıldır Aktaş –
il secondo oltrepassato da una strada di campagna, o poco più 35. Innescando la
nervosa reazione dei persiani, che percepiscono il costruendo corridoio di Zan-
gezur come un cuneo conficcato nel proprio spazio vitale e lanciano dunque il
contrattacco lungo il fronte azero-armeno. In questo senso va letta l’iniziativa vol-
ta a installare un parco tecnologico in Armenia, avamposto per sfruttare la prossi-
ma entrata in vigore dell’accordo di libero scambio con i paesi dell’Unione Eco-
nomica Eurasiatica a guida russa 36. Ma soprattutto tassello dell’asse infrastrutturale
Golfo-Mar Nero con il quale l’Iran tenta di aggirare l’Anatolia via Caucaso, Mar
Nero, Bulgaria e Grecia 37. Laddove la direttrice caucasica è tratta cruciale del più
ampio Corridoio internazionale Nord-Sud mediante il quale Russia e India inten-
dono legare il Mar Baltico all’Oceano Indiano per mezzo dello snodo iranico. È
anche alla luce di queste dinamiche che va interpretata la determinazione con cui
la Turchia si sforza di far assumere dimensione strategica alle proprie relazioni
con Ucraina e Pakistan e soprattutto la manovra con la quale intende costringere
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35. «Minister Pekcan: Baku Tbilisi Kars Railway Train Flights Can Be Increased», Railly News, 28/2/2020,
bit.ly/3CMgJyp
36. «Armenia And Iran Plan Joint Technology Park To Access EAEU Consumers», Silk Road Briefng,
15/7/2021, bit.ly/3xSnTgS
37. V. KALEJI, «Iran Drives Development of Persian Gulf–Black Sea International Transport and Transit
Corridor», Eurasia Daily Monitor, vol. 18, n. 112, 14/7/2021, bit.ly/3AJ0cJH
38. «Erdogan says Turkey has raised FX swap deal with China to $6 bln», Reuters, 13/6/2021, reut.
294 rs/3xNZ6L4
LEZIONI AFGHANE
Tra il 2014 e il 2015 i servizi segreti turchi hanno segnalato senza equivoci al-
la leadership cinese la facilità con la quale possono destabilizzare il Turkestan
orientale, mobilitare gli uiguri con uno schiocco delle dita, spingere i turchi di Ci-
na a seminare il panico anche e soprattutto al di fuori della Nuova frontiera. Pre-
parando il terreno per la successiva, strumentale rappacificazione tra Erdoãan e la
dinastia comunista. Consentendo al presidente turco di mettersi nella posizione di
poter tranquillizzare Pechino, di avvertirla che per Ankara lo spazio tra Kashgar e
Dunhuang non è questione di immediata rilevanza. Dunque di offrirsi di contri-
buire a rendere invulnerabile il tallone d’Achille geopolitico della Repubblica Po-
polare. Ottenendo così il sostegno (in)condizionato dello sfidante senza incorrere
nelle ire dell’egemone. Doppio gioco calibrato al punto che a differenza degli eu-
ropei la Turchia può permettersi di boicottare le spedizioni allestite dagli america-
ni nei mari cinesi, di evitare di provocare astrategicamente Pechino, di «guardare
ai propri affari» – come rimarca spesso Erdoãan – senza bisogno di seguire supi-
namente la superpotenza. Limitandosi ad attendere incuriosita che i suoi antichi
rivali – se mai ci riusciranno – si affaccino sul Medioceano, cuore della grande
strategia marittima di Ankara.
39. C. KASAPOÃLU, «Turkey Enters Tunisia’s Weapons Market with Combat-Proven Arms: A Technical
and Strategic Assessment», Terrorism Monitor, vol. 19, n. 2, 29/1/2021, bit.ly/3cCfPd9 295
IL LUPO TURCO NON È PIÙ IDROFOBO. LA STRATEGIA MARITTIMA DI ANKARA PER ESPANDERSI NEL TURKESTAN
turale tentazione di contenere la sua strabordante arrembanza, non atti ostili con-
tro i propri interessi strategici. Come conferma la blanda reazione di Erdoãan 40, il
golpe tunisino non rientra in quest’ultima categoria. È piuttosto diversivo tattico
per distrarre Ankara dalla vera partita strategica, dalla sfida per il Canale di Suez.
Tra i simboli delle umiliazioni subite dagli ultimi ottomani – venne realizzato dai
britannici quando l’Egitto era ancora formalmente sotto la sovranità turca – e so-
prattutto via d’accesso acquatica obbligata al Mar Rosso, anticamera degli oceani.
L’affondo libico della Turchia ha avuto una fondamentale dimensione egizia-
na. Sotto alcuni aspetti è stato un confronto di prossimità tra Ankara e Il Cairo,
che il regime di al-Søsø ha perso senza neppure combattere. Declinando l’invito di
Erdoãan alla guerra con la stessa codardia che induceva Carlo V e scià Tahmasp
a nascondersi di fronte agli eserciti di Solimano il Magnifico 41. La prova di forza
turca ha costretto gli egiziani a scendere a più miti consigli, a legittimare infor-
malmente l’accordo turco-tripolino sulle frontiere marittime, a inaugurare malvo-
lentieri il processo di rappacificazione in corso 42. Dinamiche che consolidano lo
status della Turchia quale principale potenza regionale nel Mediterraneo orienta-
le, ma che naturalmente non bastano a penetrare nello strategico valico marittimo
afrasiatico. Imponendo ad Ankara di accrescere ulteriormente la pressione sull’ex
possedimento imperiale e al contempo di cercare – e trovare – il mare dalla terra,
come nella migliore tradizione turca.
In tale contesto geopolitico, il Sudan assume per la Turchia un’importanza
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40. A. ZAMAN, «Turkish offcials condemn Tunisian “coup” but keep it measured», Al Monitor, 26/7/2021,
bit.ly/2VOdBBD
41. «Ci volevate, siamo qui/ Siamo arrivati, non c’eravate» (Çaãırdıãınız buradayız/ øV̧te geldik yoktu-
nuz) recita la strofa fnale di uno dei maggiori successi dei Busa-Kuvayi Hasse, Geldik Yoktunuz
(Siamo arrivati, non c’eravate), www.youtube.com/watch?v=YSynj8J4R4Y
42. D. SANTORO, «Che senso ha la tregua tra Egitto e Turchia», Limesonline, 18/3/2021, bit.ly/3g6ugXN
43. «Turkey promises to stand by Sudan as leaders vow to enhance ties», Daily Sabah, 12/8/2021, bit.
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LEZIONI AFGHANE
e del suo folkloristico primo ministro Abiy Ahmed, in evidente crisi di nervi a cau-
sa delle impreviste diffcoltà nel Tigrè 44. Già a febbraio gli etiopi hanno chiesto la
mediazione di Ankara nella disputa per le contese acque fuviali con Sudan ed
Egitto 45, invocazione non estemporanea che rifette la crescente penetrazione del
soft power turco nell’ex colonia italiana. Caratterizzata come ormai consuetudine da
una prevalente dimensione televisiva, dalla capacità delle serie tv anatoliche di
tenere gli autoctoni incollati agli schermi e affascinarli mediante la diffusione di
modelli e stili di vita ammalianti. Dinamica che permette alla Turchia di replicare
sull’alto corso del Nilo il successo culturale conseguito sulle sponde dell’Indo. L’ap-
parente disponibilità di Erdoãan a interporsi tra i tre litiganti su richiesta dell’Etio-
pia 46 esula naturalmente dagli sviluppi del confronto tra Addis Abeba, Khartûm e
Il Cairo. È iniziativa strumentale ad aumentare la pressione su Suez e Sawåkin,
così come ad aprirsi una terza rotta verso gli oceani. Direttrice terrestre che muove
da Tripoli e approda a Mogadiscio, dove i turchi controllano l’aeroporto internazio-
nale e il porto commerciale. La capitale somala è terminale del corridoio africano
di cui la Turchia sta già attivamente plasmando la spina dorsale, a partire dal com-
plesso ferroviario che legherà tra loro i versanti dell’altopiano etiopico 47.
Le molteplici iniziative condotte dalla Turchia tra Suez e Mogadiscio rifettono
la tenace determinazione con la quale i turchi intendono raggiungere gli oceani,
saldarli ai Turkestan, compenetrare d’acqua la solida tradizione geopolitica terre-
stre. Ma soprattutto le crescenti diffcoltà che incontrano nel proprio cortile di casa,
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5. Negli ultimi cinque anni Ankara ha dimostrato di saper competere con rivali
sulla carta molto più potenti in molteplici quadranti. Ha intimorito russi e cinesi tra
Caucaso e Turkestan orientale, ha affermato la propria potenza nel Mediterraneo
orientale, in Nord Africa e nel Corno d’Africa, si è introdotta nel Golfo attirando
nella sua orbita il Qatar, proietta con relativa facilità la propria infuenza nel subcon-
tinente indiano. Non riuscendo tuttavia ad allontanare strutturalmente l’esiziale mi-
naccia al proprio spazio vitale. Restando dunque in bilico tra l’evoluzione in poten-
za afro-eurasiatica a tutto tondo e la necessità di dover difendere la propria soprav-
vivenza sul territorio nazionale. Il pericolo è stato a lungo identifcato nella minaccia
terroristica del Pkk, nel tentativo degli Stati Uniti di usare il separatismo curdo per
spaccare la Repubblica fondata da Atatürk. Rischio che il confitto siriano ha prima
amplifcato e poi mitigato, fornendo alla Turchia l’opportunità di dimostrare innan-
44. Z. ZELALEM, «After battlefeld reversals, what next for Ethiopia’s Tigray war?», Al Jazeera, 10/7/2021,
bit.ly/3g5Pjdc
45. S.K. ABDU, «Ethiopia to welcome mediation of Turkey with Sudan», Anadolu Agency, 16/2/2021,
bit.ly/3D0eub0
46. M.H. TOK, «Turkey can mediate in the Renaissance Dam dispute», Daily Sabah, 24/6/2021, bit.
ly/3g68Wlo
47. Sulla geopolitica turca in Etiopia e nel Corno d’Africa cfr. D. SANTORO, «La marcia turca solca il “Mar
Bianco” e avvolge l’Africa», Limes, «L’Italia al fronte del caos», n. 2/2021, pp. 159-176. 297
IL LUPO TURCO NON È PIÙ IDROFOBO. LA STRATEGIA MARITTIMA DI ANKARA PER ESPANDERSI NEL TURKESTAN
48. C. GÜRDENIZ, Mavi Vatan Yazıları (Scritti sulla Patria blu), østanbul 2017, Kırmızı Kedi Yayınevi.
49. C. CAHEN, Pre-Ottoman Turkey: A General Survey of the Material and Spiritual Culture and History
298 c. 1071-1330, New York 1968, Taplinger, p. 85.
LEZIONI AFGHANE
stata replicata da Yavuz Sultan Selim e Recep Tayyip Erdoãan. Il primo ebbe suc-
cesso, riuscendo a raggiungere Il Cairo al termine della campagna del 1516-17 e
dunque a porre le premesse per la conquista ottomana di Cipro poco più di mezzo
secolo dopo (1571). Il secondo ha fallito, andando a sbattere contro la muraglia
russo-americana. Circostanza che impone ad Ankara di invertire l’ordine delle prio-
rità, di conferire preminenza assoluta a Cipro (e alle isole egeo-mediterranee), di
portare alle estreme conseguenze lo scontro con la Grecia. Partita in sé stessa rela-
tivamente marginale che in ragione dell’infuenza raggiunta dalla Turchia tra l’Hin-
du Kush e il Nilo diviene questione geopolitica della massima importanza strategica.
Perché se i turchi tornassero a estendere la propria sovranità tra Taso e Cipro riu-
scirebbero a dilagare con facilità in Nord Africa e nel Mar Rosso, a proiettarsi stabil-
mente oltre Suez e Båb al-Mandab. Dunque a riacquisire lo status di superpotenza.
Prospettiva che spiega la sollecitudine con la quale i principali clienti regionali degli
Stati Uniti – Francia, Israele, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita – siano accorsi in
aiuto dei greci per impedire ai turchi di affondare il colpo. Naturalmente su ordine
di Washington, che all’apice della crisi tra Ankara e Atene dello scorso anno ha
sguinzagliato la Germania – insieme alla Russia l’unico paese nei confronti del qua-
le la Turchia nutre soggezione – per prevenire l’incidente che avrebbe legittimato
l’offensiva che Erdoãan e Bahçeli continuano naturalmente a tenere in serbo.
L’impresa è apparentemente improba, ma le circostanze sono particolarmente
favorevoli. Le vicende afghane confermano il momento di straordinaria diffcoltà
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IN MEMORIAM
Troveremo il modo di ricordare Antonio ancora, nel prossimo futuro, per con-
tinuare a sentircelo vicino. Come qualcuno dei personaggi dei suoi romanzi, che
dall’altra parte del mondo ci tiene d’occhio. Come sicuramente, Antonio, stai fa-
cendo ora. Sento perforarmi il tuo sguardo di sbieco («ma che stai a dì’?»), quindi
smetto.
Il breve testo che segue è la mia prefazione al suo libro Fascio e martello. Viag-
gio per le città del Duce, pubblicato da Laterza nel 2008. Selezione rivista dei suoi
racconti/analisi delle città di fondazione d’età fascista pubblicati per anni sulla
nostra rivista. Segue, nel volume citato, la «Premessa dell’Autore». Antonio vi si au-
todefnisce: «Io nasco narratore. Storico mi ci sono dovuto fare perché non c’era
nessun altro. Solo per questo. Il mio vero mestiere è quindi quello di scrivere roman-
zi e racconti. Letteratura. Finzione. Arte, diciamo così».
Diciamo così, caro Antonio.
Presentazione aggratis
1. Avevo in classe mia una compagna un po’ camerata. All’epoca – primissimi
anni Settanta – l’esimio liceo T. Tasso di Roma di fascisti ne contava pochini, anche
se poi qualcuno ha fatto carriera. Non da fascista, non si usa più. Io e i miei com-
pagni di scuola molto compagni la compagna un po’ camerata la snobbavamo
assai. Anche perché non ci sembrava così carina com’è diventata dopo. E quando
proprio dovevamo litigarci, lei non si lasciava corrompere dai nostri argomenti 303
PER ANTONIO PENNACCHI
molto compagni. Alla fne, per stanchezza: «Vabbè, il Duce qui e là avrà pure sba-
gliato e la guerra l’abbiamo persa – mancò la fortuna non il valore. Ma volete
mettere la bonifca della pianura pontina?».
La pianura pontina? C’ero passato in mezzo decine di volte, sfrecciando con
mamma papà e fratellino verso le vacanze di Formia e ritorno. Ma che stavo attra-
versando le malariche lande redente dal genio del Duce no, non ci pensavo pro-
prio. Allora chiesi a papà, che di mestiere faceva lo storico e mi considerava uno
sporco revisionista perché stavo con quei «pompieri» della Fgci (lo pensava pure
mamma, anzi di più, però lei lo diceva invece di mugugnare). E papà concesse:
«Bè, la tua compagna camerata in fondo non ha torto» – non disse, ci giurerei, «ha
ragione», sarebbe stato troppo per lui. Ora passo un po’ meno da quelle parti, ma
quando capita penso alla mia compagna camerata e soprattutto al mio papà, che
gli dev’essere costata assai quell’ammissione. Forse perché non sapeva che l’aveva
già fatta Pertini – vedi seguente saggio pennacchiano sulla «bonifca fascio-comu-
nista» – o forse proprio perché lo sapeva.
Ci sono due altre ragioni per cui dobbiamo render grazie al Duce per la boni-
fca delle paludi pontine. La prima è che dopo non l’avrebbe fatta nessuno. Sicché
adesso dovremmo ammirare il Cav. dietro la scrivania di ciliegio a spiegarci perché
e percome il precedente regime comunista l’avesse trascurata e adesso ci pensa lui
a risolvere il problema. Altro che passante di Mestre o ponte sullo Stretto! La Boni-
fca forzitaliota, quella sì che avrebbe fatto storia patria.
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2. Su un punto invece papà, e pure mamma, non hanno mai mollato. A loro
Latina faceva schifo. La trovavano insulsa. Sicché la sosta per la bibita sul percorso
Roma-Formia o Formia-Roma si faceva preferibilmente a Terracina. Entrare a Latina
gli faceva senso. Così come non gli piacevano l’Eur e il Foro Italico e tutta l’architet-
tura di età fascista – che invece a me è sempre piaciuta moltissimo, anche quella che
fa schifo davvero. Peggio: nel profondo del mio cuore compagno e revisionista,
pensavo che in fondo il Duce non doveva poi essere così malvagio, se aveva prov-
veduto a innalzare l’Obelisco proprio lì in faccia allo Stadio. E la Palla, cento passi
più avanti. I due riferimenti geocalcistici centrali della mia vita. Hic maneant optime.
L’avrai capito, caro lettore: di questo libro non posso che dire bene. Primo
perché sennò Pennacchi mi mena. E io a botte le ho sempre prese. Secondo per-
304 ché l’ho pubblicato a puntate sulla nostra rivista Limes e intendo pubblicarne i se-
LEZIONI AFGHANE
guiti (le città del Duce sembrano infnite – lui ne ha contate 130, dice, e se occorre
ne inventerà qualcuna, visto che gli articoli glieli paghiamo e pure bene). Terzo
perché a me Pennacchi piace davvero. Come scrittore, per carità. Tutta colpa di
Palude, che l’autore dice che non è il suo romanzo preferito però se non è il mio
poco ci manca. Quarto perché Pennacchi ha dissepolto una pletora di «città» di cui
avevamo perso la memoria, che non sapevamo come si chiamassero (vedi Littoria)
e che non capivamo. Oppure ci era stato detto che facevano schifo e dunque schi-
fo dovevano fare – il che già me le rendeva simpatiche. E alcuni assicuravano che
portassero pure sfga. Ma io a quella cosa lì mica c’ho mai creduto.
Altra caratteristica dell’autore è di essere un gran rompicoglioni. Nel senso che
se non te le scassa sta male. Per fortuna tende a romperle alle persone giuste, non
solo alla folta redazione di Limes. Agli accademici, per esempio. Quelli che sono
pagati con i nostri soldi anche per studiare le città del Duce, per spiegarle ai loro
studenti e invece non gliene frega niente – delle città e in specie degli studenti. O
che si ricopiano ben benino l’un l’altro e quando hai letto uno hai letto tutti. Pennac-
chi essendo fra l’altro un flologo e un archeologo – un genio rinascimentale, dun-
que – ha scavato le fonti per stabilire verità nuove e defnitive in dottrina. A comin-
ciare dal fatto che Remo era laziale. E pertanto ha fatto la fne che meritava. Il mio
preside – quello del T. Tasso d’antan – avrebbe concluso: «Il rigore e l’acribia dello
scienziato si sposano in Pennacchi con la vena lirica del purissimo uomo di lettere».
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Kader abderrahim - Direttore di ricerca associato di La Vigie.
rosario aitala - Magistrato. Consigliere scientifco di Limes.
Cinzia bianCo - Research Fellow sul Golfo per lo European Council on Foreign Relations. Già
Senior Analyst per Gulf State Analytics e dottore di ricerca in Middle East Politics all’Univer-
sità di Exeter, Regno Unito.
mauro bonavita - Dottorando al King’s India Institute del King’s College London.
edoardo boria - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di
Roma, è titolare degli insegnamenti di Geografa e di Geopolitica. Consigliere scientifco di
Limes.
GiorGio Cafiero - Ceo del Gulf State Analytics di Washington.
vinCenzo Camporini - Generale, consigliere scientifco dell’Istituto affari internazionali, già capo
di Stato maggiore della Difesa.
luiGi CapoGrossi ColoGnesi - Professore emerito e già ordinario di Diritto romano all’Università
La Sapienza di Roma.
shaul Chorev - Contrammiraglio (r.), già capo della Commissione per l’energia atomica e vice-
capo delle operazioni navali della Marina israeliana. Guida il Maritime Policy and Strategy
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è ben di più. D’altra parte, che i circoli flosofci nell’Atene del IV secolo a.C. fos-
sero più diffusi e attivi dei loro omologhi contemporanei è cosa nota. Che fossero
anche più rispettati, poi, non c’è proprio dubbio.
Porto il ragionamento sulla storia della geopolitica, intesa come corpo di saperi
e non come somma di fatti politici dato che alla semplice cronaca di avvenimenti
preferisco gli strumenti teorici in grado di agevolarne la comprensione. Si dice ma-
lignamente che la geopolitica abbia vissuto un periodo di notorietà sotto il nazismo
e il fascismo. Che, poi, anche franchismo e salazarismo l’abbiano apprezzata non
aiuta a riabilitarne l’immagine. La condanna è inevitabile. Scienza del male. Al ser-
vizio dei tiranni. Limes, che la porta nel nome, la perdoniamo solo perché ci è cara.
In realtà la geopolitica, come ogni disciplina, non serve premeditatamente né
i tiranni né i pacifsti, al pari delle già citate matematica e flosofa. Ciò non toglie
che segua il gorgo della storia, con correnti di pensiero che sposano una causa e
fasi storiche in cui si sente il bisogno di accrescere certe conoscenze seguite da
fasi in cui si sente il bisogno di accrescerne altre. Possiamo allora spiegare perché
la geopolitica a) nasce a fne Ottocento; b) si afferma tra le due guerre mondiali;
poi c) si inabissa e d) riemerge negli anni Novanta. Rispettivamente perché a)
solo da fne Ottocento si può intuire che la struttura politica del mondo costituisce
un insieme coerente dove gli avvenimenti tra luoghi lontani sono in relazione fra
loro; b) l’analisi di un quadro politico confittuale e in frenetica evoluzione risulta
agevolata dall’impiego della visione sinottica data alla geopolitica dalla prospettiva
spaziale; c) le due superpotenze si ispirano a ideologie – marxismo e capitalismo
311
– indifferenti alle diversità geografche; d) la spiegazione di una situazione mon-
diale nuovamente incerta può ricorrere utilmente alla chiave spaziale. Come si
vede, nazismo e fascismo non c’entrano nulla. La geopolitica torna utile quando la
situazione internazionale si fa agitata. In queste condizioni è esercizio più saggio e
produttivo guardare al quadro complessivo come predica la geopolitica piuttosto
che ai dettagli come fanno tanti suoi ingenui cultori.
Fonte: Particolare del Mediterraneo orientale dall’Atlante catalano, 1375 ca,
Bibliothèque Nationale de France.
4. La visione dello statista non si nutre solo della luce della ragione ma anche
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di una buona dose di fede nel destino. Così Cesare Balbo inquadrava la geopolitica
mediterranea dell’Italia ancora prima che il paese nascesse: «Tunisi, chiave del
Mediterraneo centrale, connessa al sistema sardo-siculo e lontana venticinque le-
ghe dalla Sicilia, spetta visibilmente all’Italia» (da Le speranze d’Italia, 1844). Per
una volta la parola più importante della frase è l’avverbio. Sarebbe infatti «visibi-
le» che la Tunisia debba appartenere all’Italia. L’occhio prevale sulla mente. La
carta geografca diviene pertanto la prova evidente di tale congettura mostrando
la Penisola italiana come una passerella naturalmente protesa verso la costa africa-
na (fgura 4). L’istintiva trasposizione del dato naturale (la Penisola italiana) in
soggetto politico (lo Stato italiano) rende infne l’Italia padrona di quel varco stra-
tegico capace di dividere a metà il bacino mediterraneo.
Fonte: G.F. CAMOCIO, particolare da una carta dell’Europa in 12 fogli, Vene-
zia 1573.
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