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CAPITOLO 15

L’ITALIA VERSO IL FASCISMO


In Italia entra nell’agone politico un nuovo movimento, ossia i “Fasci di combattimento”, che sarebbe
diventato in breve tempo il partito egemone nella politica italiana per più di un ventennio. Il 23 marzo 1919
si formavano a Milano i “Fasci di combattimento”: come si può ricavare dal nome, stiamo parlando di un
movimento non inquadrabile in una precisa ideologia, o meglio di un raggruppamento (questo vorrebbe
dire la parola “fascio”) di forze, che poteva essere considerato un discendente di quei Fasci siciliani, che era
un movimento popolare e democratico che aveva messo in atto una insurrezione armata in Sicilia, nel
biennio 1893-1894. Tali Fasci di combattimento, prima del marzo 1919, avevano altra denominazione se,
nel 1914, si chiamavano Fascio interventista di azione rivoluzionaria e se, dopo la disfatta di Caporetto, si
trasformavano nel Fascio di difesa nazionale, spinto da sentimenti patriottici. Quindi la loro storia era un
esempio lampante di cambiamenti e di sconvolgimenti, e lo stesso valeva per la vita del loro capo, Benito
Mussolini, il quale prima della guerra era un esponente di spicco del Psi, collocandosi nella corrente
massimalista e rivoluzionaria, a tal punto che al congresso del Psi a Reggio Emilia, nel 1912, era stato uno
dei più attivi nel chiedere che gli esponenti riformisti venissero espulsi dal partito e, per questa lotta
intestina, aveva ottenuto la carica di direttore dell’”Avanti!”. I toni di tale giornale, almeno fino all’autunno
1914, erano improntati alla rivoluzione armata del proletariato e al rifiuto di ogni tipo di guerra, senonché
dall’autunno 1914, appunto, Mussolini dichiarava apertamente di essere favorevole alla guerra dell’Italia
contro gli Imperi Centrali (Austria-Ungheria e Germania), e per questo veniva espulso dal Psi, che persisteva
in una politica di neutralità. Ma Mussolini trovò ben presto un nuovo incarico come direttore di giornale,
fondando “Il Popolo d’Italia”. Dando un’occhiata alla storia del quotidiano “Il Popolo d’Italia”, si può dire
che tale giornale subiva in pochi anni uno spostamento da sinistra verso destra, seguendo il cambiamento
di posizione politica che lo stesso Mussolini stava subendo: infatti fino all’agosto 1918 tale quotidiano era
definito con orgoglio “socialista”, per poi cambiare denominazione in organo “dei combattenti e dei
produttori”, arrivando nel gennaio 1921 a sconvolgere nuovamente il suo sottotitolo, in quanto rimaneva
solamente il termine “produttori”, anche se si riferiva anche ai capitalisti, i mortali nemici dell’ideologia
socialista. Perciò nello stesso giornale si poteva osservare l’oscillazione programmatica del fascismo, il
quale faceva l’occhiolino ai reduci di guerra, al proletariato operaio e agrario, ma anche ai grandi
imprenditori ed ai grandi capitalisti.

BIENNIO ROSSO

La diffusione

Alla fine della guerra l’economia italiana vive una fase di profonda crisi dovuta a un grave deficit del bilancio
statale; l’inflazione alle stelle, che impone una drastica riduzione dei beni di consumo di prima necessità
delle classi popolari; un forte aumento della disoccupazione operaia, dovuta alla difficile riconversione
dell’industria bellica; il ristagno dell’agricoltura. Il conflitto sociale e l’odio di classe sono alimentati dalla
polemica contro gli speculatori (i “pescecani”), accusati di essersi arricchiti con la guerra mentre i soldati
morivano nelle trincee. La rivoluzione bolscevica del 1917 galvanizza le masse del proletariato italiano ed
europeo, la cui parola d’ordine è “fare come in Russia”.

Le contraddizioni tra i nuovi assetti della pace e le aspirazioni prebelliche furono all’origine di situazioni di
conflittualità sociale in tutti i paesi usciti dalla guerra, soprattutto di quelli sconfitti che avevano cominciato
a criticare serratamente i criteri con i quali i paesi vincitori stavano elaborando i trattati. In questo contesto
si ben distinse l’Italia, pese al contrario vincitore. Una parte delle ragioni di quanto accaduto sta certamente
nei problemi endemici e non risolti della formazione dello Stato nazionale. Ma i suoi più immediati motivi
stavano nella maniera in cui l’Italia era entrata in guerra nel 1915 e in cui 4 anni dopo aveva negoziato la
pace. In base al trattato di Londra all’Italia spettavano precisi compensi territoriali, cioè quelli delle terre
irredente, la cui annessione nei confini nazionali era considerata un obiettivo fin dal periodo risorgimentale.
I rapporti nella conferenza di pace con gli Stati Uniti iniziarono a incrinarsi: se da una parte il presidente
Wilson era favorevole ad estendere i confini italiani fino al Brennero, con annessione del Trentino e Sud
Tirolo, dall’altra si rifiutò di riconoscere pretese sulla Dalmazia, legittimate dal patto di Londra.

La dissoluzione dell’Austro Ungheria e la nascita del nuovo stato Jugoslavo ponevano una serie di problemi
non previsti nel momento in cui era stato stipulato il patto di Londra: in base a quel patto, l’Italia avrebbe
dovuto annettere anche la Dalmazia, una striscia costiera ritenuta importante per il controllo dell’Adriatico,
ma abitata in prevalenza da slavi. Tali richieste incontrarono l’opposizione degli alleati, in particolare degli
Stati Uniti. Nondimeno la delegazione italiana abbandonò clamorosamente la conferenza, dichiarando di
preferire la fame al disonore. Se il gesto riscosse grande consenso popolare in patria, non servì a favorire le
regioni italiane in seno alla conferenza: la delegazione fu costretta dopo poche settimane a partecipare ai
colloqui. Gli strati dell’opinione pubblica avevano covato un sentimento di ostilità verso gli ex alleati,
accusati di voler defraudare l’Italia del bottino di guerra, considerato legittimo, provocando l’emergere di
un pericoloso sentimento di frustrazione collettiva. Fu un evento improvviso a imprimere una sterzata alle
trattive di Versailles. Il governo italiano inasprì la tensione avanzando richieste anche sulla città di Fiume,
appartenuta all’impero austro-ungarico ungarico e abitato da una popolazione mista: non inclusa nel Patto
di Londra, la città era rivendicata sulla base del principio di nazionalità. Tuttavia, alla conferenza di
Versailles, il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino chiesero l’annessione di
Fiume sulla base del principio di nazionalità, in aggiunta ai territori promessi nel 1915. Questo ovviamente
evidenziava una curiosa contraddizione: l’Italia stava rivendicando la Dalmazia nel rispetto integrale dei
patti con l’intesa del 1915 e dall’altra Fiume sulla base della nuova diplomazia, quindi una revisione in base
al principio di nazionalità
era infatti situata in una regione prevalentemente croata, ma abitata in maggioranza da italofoni. Si parlò
allora di “vittoria mutilata”: un’espressione coniata da Gabriele d’Annunzio che andava rivendicata. La
manifestazione più clamorosa di questa protesta si ebbe nel 1919, a lavori diplomatici ancora aperti,
quando alcuni reparti militari ribelli insieme a gruppi volontari, sotto il comando di D’Annunzio, occuparono

Un inatteso successo ottenne invece il Partito Popolare, di ispirazione cattolico-sociale, fondato all’inizio del
‘19 da don Sturzo, nel solco della democrazia cristiana di circa vent’anni prima, ma con due importanti
novità:

a) Il consenso della Santa Sede e di papa Benedetto XV ad abolire ufficialmente il non-expedit, permettendo
l’inserimento del movimento cattolico nella vita politico-parlamentare non più in posizione subordinata;

b) la professione di aconfessionalità, voluta personalmente da Sturzo, il quale rinunciando ad una etichetta


cattolica per il suo partito, intendeva sottolinearne l’indipendenza dalla Chiesa e il suo impegno a difendere
le libertà e gli interessi religiosi sul terreno del pluralismo politico e della democrazia liberale.

Indebolito dall’esito delle elezioni, il ministero Nitti sopravvisse poco, quando a costruire il nuovo governo
fu richiamato Giolitti. L’estremo tentativo di salvare il sistema liberale fu compiuto da Giovanni Giolitti che
nel 1920 accettò di formare un nuovo governo. I risultati più importanti li conseguì in politica estera,
imboccando l’unica strada praticabile per la soluzione della questione adriatica: quella del negoziato
L’iniziativa di Giolitti fu immediata> stipulò con gli jugoslavi il trattato di Rampallo: l’Italia rinunciava a gran
parte della Dalmazia conservando Zara alcune isole; Fiume fu riservato lo status di città libera. D’Annunzio
si rifiutò quest’accordo e promise resistenza a oltranza a Fiume ma l’attacco militare delle truppe italiane
alla città pose fine al impresa fiumana. Fiume infine sarebbe entrata a far parte dell’Italia col trattato di
Roma nel 1929.

L'errore di Giolitti fu quello di precostituire l'alleanza con i fascisti. Le elezioni videro il fallimento del
progetto di Giolitti di assorbire e neutralizzare i voti fascisti in un Blocco nazionale a guida
liberale. Nel complesso i risultati furono poco soddisfacenti per Giolitti, poiché fu assai limitato
il ridimensionamento dei socialisti e i popolari fecero addirittura qualche progresso; d’altra
parte assai notevole fu la rappresentanza parlamentare dei fascisti.
Nelle elezioni del 1921 il disegno di Giolitti si concretizzò con l’ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti
blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi costituzionali (liberali-democratici-liberali) si
unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa. Nel 1921 alle nuove elezioni i Fasci
ricevono una legittimazione politica, 35 fascisti vengono eletti nelle liste dei Blocchi nazionali e possono
sedere alla Camera come deputati. L’esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all’ultimo
esperimento governativo di Giolitti che si dimise. Il suo successore, l’ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò una
tregua fra le due parti in lotta firmando un patto di pacificazione fra socialisti e fascisti. Il patto consisteva
in un generico impegno di rinuncia alla violenza da ambo le parti e a sciogliere le loro formazioni
armate: i socialisti, accettavano di sconfessare la formazione degli Arditi del popolo. Questo incontrò
l’opposizione dei fascisti intransigenti che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi
locali, i cosiddetti ras giungendo a mettere in discussione la leadership di Mussolini, che fu cosi
costretto a sconfessare il patto. I ras riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la
trasformazione del movimento fascista in un vero e proprio partito il Partito nazionale fascista
(Pnf). Intanto si consumava la parabola del ministero Bonomi. Con il nuovo ministero Facta
l’agonia dello Stato liberale entro nella sua fase culminante: la scarsa autorità politica del nuovo
governo diede ulteriore spazio alla dilagante violenza squadrista. In risposta alla decisione dei
dirigenti sindacali di proclamare uno sciopero generale legalitario in difesa delle libertà
costituzionali, i fascisti lanciarono una nuova violenta offensiva. Il movimento operaio non seppe
opporre all’attacco squadrista una mobilitazione di massa. L’unica conseguenza dei dissensi
all’interno del partito fu una nuva e ormai inutile scissione. Poche settimane prima che il fascismo
andasse al potere in un congresso tenutosi a Roma, i riformisti guidati da Turati abbandonarono il
Psi per fondare il nuovo Partito socialista unitario. Il fascismo doveva porsi il problema della
conquista dello Stato. Prendeva corpo il progetto della marcia su Roma, con la mobilitazione generale di
tutte le forze fasciste per conquistare il potere centrale e sfrutto la mancanza di una ferma reazione da parte delle
autorità: lo stesso re Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio,
preparato dal governo Facta, decisione che bloccò ogni possibilità di energica reazione contro le squadre fasciste e
chiamò Mussolini a dirigere il nuovo governo. Tuttavia Mussolini volle dare un chiaro segnale di novità, un aperta
sfida alle istituzioni. Il «discorso del bivacco» è proprio il nome con cui venne definito il primo intervento di
Benito Mussolini (1883-1945) alla Camera dei Deputati. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a
tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e
tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Del
nuovo governo facevano parte, oltre ai fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai
precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari. Nel 1922 fu istituito il
Gran consiglio del fascismo, coordinava ed integrava tutte le attività del regime. Il (—) svolgeva funzioni

deliberative e consultive.

Le prime riguardavano l’elaborazione della lista dei deputati, da sottoporre all’approvazione del corpo

elettorale; l’elaborazione degli statuti, delle norme e delle direttive politiche da impartire al P.N.F; Le

seconde concernevano tutte le questioni di natura costituzionale come, ad esempio, le prerogative

della Corona, la successione al trono, le potestà e le attribuzioni del Capo del governo. Le squadre
fascista furono inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, che
istituzionalizzavano le forze paramilitari fasciste. L’istituzionalizzazione della Milizia non servi
peraltro a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori. Le vittime principali della repressione
furono i comunisti. Salito salito al potere Mussolini con 35 deputati (meno del 7% dei seggi) non
disponeva di una maggioranza alla Camera. Riuscì tuttavia ugualmente a consolidare il suo potere
grazie al sostegno di forze moderate, liberali (i cosiddetti fiancheggiatori), che facevano parte della
maggioranza al governo e che continuarono a garantire il loro appoggio in Parlamento anche
quando fu chiaro che il partito fascista intendeva assumere un ruolo incompatibile con i principi
basilari dello Stato liberale. Un importante sostegno per Mussolini derivava anche dalla Chiesa
cattolica in cui, dopo l’avvento del nuovo papa Pio XI, stavano riprendendo il sopravvento le
tendenze più conservatrici. Per molti cattolici il fascismo aveva il merito di aver allontanato il
pericolo di una rivoluzione socialista. Al progressivo affermarsi del fascismo contribuì in misura
determinante l’introduzione di una nuova legge elettorale. La legge Acerbo modificava il sistema
elettorale introducendo un consistente premio di maggioranza, pari ai due terzi dei seggi in
parlamento, al partito che-superato il 25% dei voti- avesse ottenuto il maggior numero di
preferenza. Era evidente che la legge favoriva la posizione dominante di quel partito che, da solo,
riusciva a rappresentare almeno un quarto del corpo elettorale. Il risultato della legge fu quello di
aggregare attorno al partito fascista molti esponenti liberali e alcuni cattolici conservatori nelle liste
nazionali presentate in tutti i collegi col simbolo di fascio. Le forze antifasciste invece erano
profondamente divise. Le forze antifasciste erano invece profondamente divise. Fu quindi facile per
i fascisti, favoriti anche dall’immenso consenso al listone ormai considerato un segno di continuità
tra mondo liberale e fascismo, prevalere alle elezioni. L’enorme successo elettorale fu messa a
repentaglio dall’azione del socialista Giacomo Matteotti, che all’apertura della nuova camera,
chiese con coraggi l’annullamento del voto denunciando le illegalità e le violenze che avevano
accompagnato la campagna elettorale. Per tutta risposta pochi giorni dopo venne rapito e ucciso da
gruppi di fascisti. Tutte le opposizioni infatti rifiutarono di proseguire i lavori della Camera,
scegliendo la via della secessione, ossia della separazione simbolica e dell’opposizione al
parlamento dominato dalle forze fasciste, che al richiamo di un antico episodio della storia romana
prese il nome di Aventino L’unica iniziativa fu quella di astenersi dai dibattitti nelle aule
parlamentari e di riunirsi separatamente finché non fosse stata ripristinata la legalità democratica.
Questa protesta legalitaria si proponeva di esercitare una forte pressione morale che convincesse
l’opinione pubblica ad assumere un atteggiamento critico nei confronti del fascismo. Tuttavia, come
al momento della marcia su Roma, anche in questo caso fu la monarchia a essere l’ago della
bilancia: Vittorio Emanuele, infatti, decise di dare la fiducia al governo fascista vanificando così
l’opposizione all’Aventino. In Parlamento in un discorso alla Camera Mussolini ruppe ogni cautela
legalitaria, assumendosi la responsabilità politica, morale e storica di quanto avvenuto.
Fra il 1925-26, con la chiusura di ogni residuo spazio di libertà politica e sindacale, giunse a
compimento il processo di fascistizzazione dello Stato. Gli organi di stampa dei partiti antifascisti
furono messi nell’impossibilità di funzionare. Nel 1925 il sindacalismo libero venne neutralizzato
dal patto di Palazzo Vidoni, con cui la Confindustria si impegnava a riconoscere la rappresentanza
dei lavoratori ai soli sindacati fascisti. Eliminate o ridotte al silenzio le voci d’opposizione, il
fascismo non si accontento più di esercitare una dittatura di fatto, ma procedette alla formulazione
di nuove leggi destinate a stravolgere definitivamente i connotati dello Stato liberale. La nuova
legislazione, ebbe il suo maggior artefice nel ministro della giustizia, Alfredo Rocco. All’interno di
questo nuovo quadro legislativo ricordiamo la legge con la quale il presidente del Consiglio diventava capo
del governo responsabile ormai solo di fronte al re e non più verso il parlamento, la cui funzione era così
ridotta a semplice luogo di riflessione e ratifica degli atti adottati dal potere esecutivo e una serie di
leggi finalizzate alla distruzione del dissenso politico. Sulla base di queste premesse le leggi del 1926
poterono imporre con relativa semplicità la fine del sistema rappresentativo garantito fin lì dallo Statuto
Albertino. Si decretò lo scioglimento di tutti i partiti antifascisti; vennero ammesse solo le associazioni
sindacali riconosciute dal governo, erano proibiti, inoltre, scioperi e serrate; la disposizione del confino per
gli avversari politici; fu creata una magistratura apposita, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato con
competenza sui reati contro la sicurezza dello Stato (per i quali era prevista anche la pena di morte);
una legge sulle amministrazioni locali aboliva l’elettività dei sindaci e dei consigli comunali sostituiti da
autorità di nomina governativa. Per rafforzare capacità repressiva dello Stato si provvide poi alla
costituzione di una speciale polizia politica polizia, chiamata OVRA, che attuò una politica di repressione e di
vigilanza. La costruzione del regime sarebbe stata completata nel 1928 con due provvedimenti: la nuova
legge elettorale che introduceva il sistema di lista unica e lasciava agli elettori solo la scelta se approvarla o
respingerla in blocco; e la costituzionalizzazione del Gran Consiglio che diventò organo dello Stato, dotato
di prerogative importanti, fra cui quelle di preparare le liste elettorali. A loro volta i membri del Gran
Consiglio erano nominati dal duce. Ma già le leggi fascistissime del 1926 avevano messo fine allo Stato
liberale nato con l’Unità d’Italia. Le trattative condotte in segreto fra governo e Santa Sede si conclusero nel
1929 con la stipula dei patti Lateranensi. Questi si articolavano in tre parti distinte:
1. un trattato internazionale con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla
“questione romana” riconoscendo lo Stato italiano e la sua capitale e vedendosi
riconosciuta la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano”.
2. una convenzione finanziaria liquidava le pendenze economiche fra le due parti mediante un cospicuo
versamento da parte del governo italiano quale indennizzo dei danni subiti dalla Santa Sede dopo la presa di
Roma.
3. un concordato che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il Regno d’Italia,
Intaccando sensibilmente il carattere laico dello Stato, con il quale la religione cattolica veniva
dichiarata religione di Stato.
Il concordato stabiliva tra l’altro che i sacerdoti fossero esonerarti dal servizio militare, che il
matrimonio religioso avesse effetti civili, che l’insegnamento della dottrina cattolica fosse
considerato fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti
dall’Azione cattolica potessero continuare a svolgere la propria attività, purché sotto il controllo
delle gerarchie ecclesiastiche e al di fuori di ogni partito. Costituì all’edificio totalitario, poiché fu
l’unica associazione di massa non fascista riconosciuta dalla legge.

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