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ALFONSO TRAINA LO STILE “DRAMMATICO” DEL FILOSOFO SENECA \ Terza edicione agaiarnata poovess ALTRAINA Lostedaenateo a ele Sees ater Ebtne 5 I ? ae PATRON EDITORE PREFAZIONE ALLA II EDIZIONE Nom ho fatto uno spoglio sistematico della bibliografia se- necana dal 1977 ad oggi, ma ko tenuta conto di tutti i favori Pertinenti di cui ko avuto notizia (sullo stile, del resto, non si é lavorato molto). Rari sono stati gli interventi sul testo: qualche aggiunta, qualche soppressione: gli aggiornamenti sono stati incorporati negli Addenda e fusi con guelli della IT edizione, L Indice analitico é stato integrato coi nomi nuavi. Bologna, marzo 1984 1 IL LINGUAGGIO DELL'INTERIORITA On peut tenir sous let coups... Question de fuite vers Uimérieur. VERCORS LL. Quae phifosophia fut, facta phifologia est (ep. 108, 23): lo studioso dello stile di Seneca ripete a se stesso, prima che gliela ripetano gli altti, 1a nota frase senecana. Ma, a cotrere it rischio, fo invita un’altra frase di Seneca, di origine socratica: talis hominibus fuit oratio qualis wita (ep. 114, 1). Seneca stesso ne fa una tagliente applicazione allo stile d Mecenate, ticanducendo parole ¢ frasi alla loro sorgente spi rituale, Vanimus: ab illo sensus, ab illo werba exeunt (ibid. 22). Su questa base Seneca chiede che venga giudicato il suo stile. E su questa base 10 ha giedieato Concetto Marchest (1944, 218), al quale dobbiamo Ja pid suggestiva formula cri- tica sullo stile senecano: “Elo stile drammatico dell’anima uumana che & in guerra con se stessa; ¢ s¢ {a prosa di questi due sommi e cosi diversi scrittori [Seneca e Tacito] & barocea, cid & perché l'anima umana é barocca” Si pateebbe dire del Marchesi quello che jt Marchest (1933, 49) disse di Giuseppe Albini: “egli ebbe... il senso della cosa meditata e composta, che pud essere definiti mente vera anche senza essere definitivamente cesta”. §f suo, giudizio sullo stile senecano chiude nella pertezione di un epigramma, alla maniera di Seneca, una tiechezza di motivi 10 ‘expttoto 1 che attendono ancora, mi sembra, il loro sviluppo € Ia loro ‘a. Perché il Marchesi ha definito fo stile senecano pi che lo stile di Seneca: voglio dire che ne ha colto € difeso il carattere anticlassico, in opposizione allo stile simmetrico ciceroniano, Cast Sensca @ visto come Mesporente di un at- teggiamento stilistico che non si corifina in una lingua o in un secolo, e te parole del Marchesi potsanne ripetersi ogitt volta che uno stile tormentato ci dara il riflesso di un‘ani in guerra con se stessa, Lo stile senecano varca it medioevo da Agostino al Petrarca ¢ trionfa nella lettetatura europea del XVII secolo, Ma quale guetta si combatté, all’alba delta nostra era, nell'anima di Lucio Anneo Seneca? 1.2, Fu una battaglia per ta libertd, e si combatté nel ultima trincea che il mondo classico offrt all'uomo contro fa Violenza della storia: Ja filosofis. Sono passati i tempi in cut Aristotele affermava che solo il greco ¢ libero, Gli Stoici ispondono che solo il saggio & libero, Btu jéw0s ouwpos sLebde009. La éevbeoia della Grecia classica non coincideva in tutto con la Libertas della Roma repubblicana, ma entrain- be potevano convergere nella coscienza, che aveva il. citta dino, di servire solo alle leggi. Ora fa liberta consiste nel set- Vire alla flesofia: philosophiae seruéas oportet, wt thi car tingat uera libertas (ep. 8, 7). Roma dopo Augusto ripercorre cosi la medesima parabola della Grecia dopo Alessandro. Opposta alla dignitas, 1a libertas aveva tramato tutta la storia della res publica; risolto il certamen dignitatis a tavore di un uomo solo, la libertas, opposta al principatus, non ha che due vier suicidarsi con Catone o interiorizzarsi, Ver mente libero & Tuome édetPeqag édoder, “libero interior mente’, come suona un'iscrizione imperiale della Pisidia (Kaibel, 542): fa sola Wiberta che dipende da noi ¢ che nessu. no pud toglierci, perché &, dice Epicure (76, p. $6 Diano), il maggior Trutto delautarchia. 1 mondo antico nel sv am- tunno, con molti secoli di ritardo sull’oriente, scopre wt f. LINOUAGEIO DELL INTERIORITA u nuova dimensione, quella dell interiorita: EvSov oxézete, fdov iy anyh tot dyadod (Marco Aurelio, 7, 59), “scava dentro, dentro @ la fonte det bene”. Qui sono tutti d’accordo, T'epi- cureo, il cinico, lo stoico; 10 schiavo Epitteto e Pimperatore Mareo Aarelio. Toccd a Seneca, uomo di corte e uomo politico —e non fu questo tea i minori paradossi della sua esistenza — il com: pito di bandire a Roma il messaggio dell’interiorit&: me prius serutor, deinde hunc mundum (ep. 65, 15). E if programma di tutta la sua filosofia. F doveva bandirio a un popolo a cui Yorse_mancava, com‘ stato detto con troppa assolutezza (Bastide, 39), il senso dell’interioritd riflessiva, ma a cui certo era mancata la grande esperienza di Socrate (oxox ov ‘Taira G42? fuaveéy, Plat. Phaedr. 230 A), Lucrezio considera Tuomo nei suoi rapporti col cosmo, Cicerone nei suoi rap- porti con la sovietd: da una parte la rerum natura, dall’altra a res publica. E quando Vanima si raccoglie in s6, & pet guardare platonicamente at di sopra di sé, all'immobile mon- do degli archetipi. Ricordiamo la chiusa del Sommium Sci- pionis: Yanimo umano tanto prima tornerd alla sua patria celeste, si iam tum, cum erit inclusus in corpore, eminebit fords, et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime se « corpore abstrahet (rep. 6, 29). Forse Quinto Sestio, alla cui seuola pitagoreggiante Seneca impard a interrogare animum suum (is, 3, 36, 1), a far esame di coscienza, aveva trattaro dell'uoro nei suoi rapporti con se stesso: ma la sua opera, perduta, era in greco. Toced dungue a Seneca foggiare il linguaggio latino dellinteriorita. Elo foggid ricorrendo soprattutto a due metatore: linteriorita come possesso e Tin- teriorita come rifugio, 1.3, La prima era gia greca, naturalmente: Epicuro aveva usato' lespressione éavt0t yevéoBat. Seneca la svolgera at 55, p. $5 Diano: dies evriueDa éaveaiv precedesés 8 oh yer tic rover (Ge, sandy). altag Syrduer) to ripeterd alla letera Porfirio, ad Mare. 29, 2 carrrouo 1 tingendo a una delle pid ricche riserve lessieali del latino, la lingua giuridica: Ita fac, mi Lucili, uindica te tibi, Sono le prime parole dell'ultima opera senecana, le Epistulae morales (1, 1), Vindicare significa “rivendicare legalmente il possesso di qualche cosa, togliendola al proprietario illegittimo”, e im plica quindi il concetto della liberazione. I! passaggio del ver- bo dalla sfera giutidica a quella morale é gia in Cicerone, per esempio nelle parole dell’epicureo Torquato sull'azione iverattice della sapientia: sapientiam... esse solam, quae nos 4 libidinum impetu et a formidinum terrore uindicet (fin. 1, 46). E il giovane Virgilio, preparandosi a varcare la soglia del giardino epicuteo di Sirone, esclama con T'lluso entusiasmo dei neofiti: uitamque ab omni uindicabimus cura (catal. 5, 10), Seneca si appropria della metafora dandole una solenni- t oracolare (v. 2.12.4)—ita face chiudendola nella specularita dei due pronomi, che fanno del soggetto anche Moggetto e il fine dell'azione: secondo un modulo senecano su cui dovremo tornare (1.6). La conseguetiza del se sibi uindica- re & lo stabile autopossesso, suum esse: lo dice Seneca nel De breuitate uitae (2, 4): nemo se sibi uindicat, alius in alium consumiitur... Me iius cultor est, hic illius: suus nemo est, ‘nessuno si appartiene". Anche suum esse é di origine giu- Fidica, ed equivale a sué turis esse (fr. ibid. 8, 3); lo trovia. mo attestato sin da Plauto e Terenzio, ma il latino ha devia- to ad altri usi metaforici. a indicare il pieno possesso delle facolta mentali_o, specie in Cicerone, T'indipendenza e Yoriginalita del pensiero. Sara Seneca a trasterire 'opposizio- ne giuridica suum esse / alienum esse al campo morale, forse per il primo, certo con una insistenza quasi ossessiva, che icorda Vopposizione dit ag” ‘utr, le cose che dipendono da noi, © vi ov Ay’ iv, Te cose che non dipendono da noi, in Epitieto. L’interiorita come autopossesso domina il pensie- to del'ultimo Seneca: inaestimabile bonum est suum fieri (ep. 75, 18); aliquando fias tuus (ep. 20,1); non erit (tempus nostrum), nisi prius nos nostri esse coeperimus (ep. 71. 36); 1 LINGUAGGIO DELLINTERIORIFA B ubicumque sum, ibi meus sum: rebus enim me non trado, sed commodo (ep. 62, 1), “alle cose non mi consegno, ma mi presto”. Quale esperienza. prima che morale, politica vi sia sottesa, traspare da un altro passo delle Epistulae (14, 3s.) Tre sono i mali che ci fanno paura, la miseria, le malattic, la persecuzione dei potenti, e questo é il pit temibile di tutti: ex his omnibus nihil nos magis concutit quam quod ex aliena potentia impendet, “cid che ei minaccia il dispotismo altrui™ Aliena potentia: quella di Caligola che yoleva mandarlo a morte, quella di Claudio che lo aveva mandato in esilio, quella di Nerone che lo avrebbe mandato a motte. Questo non & moralismo astratto: vi si riflette, con una coloritura esistenziale che potrebbe spiegarne l'asistematicita. quel sen- so precario della vita che fu di Seneca e della sua classe sotto impero. In questa rapina rerum omnium (Marc. 10, 4), che ingigantisce su scala cosmica ['instabilita della condizione politica, jresta | come | unico) punto] fermo, come unico bene inalienabile il possesso della propria anima In un passo del De constantia supientis Seneca riporta aneddoto del filosofo Stilpone, che nella conquista di Mega ra aveva tutto perduto, beni e famiglia; ma al conquistatore che gli chiedeva num aliquid perdidisset, rispose: nihil: om- nia mea mecum sunt (5, 6)'. L'aneddoto era tradizionale nella diaitiba: le parole di Stilpone —riferite a Biante — leggono in forma quasi identica in Cicerone (par. 8) ¢ Valerio Massimo (7, 2, ext. 3). Ma Seneca sente troppo este Fiore la concomitanza espressa da mecum sunt; secondo il suo solito, rifa la risposta di Stilpone, una volta in terza per- soma: nee quicquum suum nisi se puter (6, 3), una volta in prima: teneo, habeo quicquid mei habui (6, 5). Cid che il saggio ha di suo é se stesso: la concomitanza si risolve in un possesso interiore dove “il suum viene a coincidere col se, il "Anche ep. 9, 18: omnia, inguit, bona mea mecum sunt, 4 cavtroLe 1 posseduto col possessore” (Thévenaz, 191). Questo motive de! se habere, con qualche variante lessicale e sintattica, sara svolto a tungo nelle Epistulae: gui se abet, nihil perdidit. Sed quota cuique habere se contigit? (ep. 42, 10). “ma a quanti capita di possedere se stessi?”” (Ia risposta in ep. 32, 4: nemo sibi contigit; v. 1,5.2)'; omnia, quae fortuna intue- tur, ita fructifera ac iucunda sunt, si qui habet illa, se quo- que habet, nec in rerum suarum potestate est iiep. 98, 2); po- tentissimum esse qui se habet in potestate (ep. 0, 34; cfr. ben, 5, 7, 5h ite beatissimus est et securus sui possessor. qui crasti- num sine sollicitudine exspectat (ep. 12, 9); ¢ nelle contempo- ranee Naturales quaestiones esplodera in un‘antitesi allusiva cche al possesso esterno, moltiplicato dall’anafora, oppone il possesso interiore con la secchezza di una clausola monosilta- bica G, pr. 10): innumerabilis sunt qui populos, qui urbes habuerunt in potestate, paucissimi, qui se. 1.4. L'uso del riflessivo, sia diretto che indiretto, & forse il pit frequente mezzo sintattico senecano con cui si esprime questo continuo ripiegarsi del soggetto su se stesso. 1! quadro linguistico, entro cui esso opera, ¢ la tendenza del latino « sostituite i riflessivo, se ornare, al medio-passivo, ornari. Ma Vopposizione fra le due diatesi ¢ ancor netta sensibile: di fronte alla meccanicita e passivita del medio, la cui azione iuttosto subita che voluta dal soggetto — e si ricordi per tut- ti il dolente, stupito nescio. sed fieri sentio, et excrucior Catullo (85, 2)—i) riflessivo afferma la consapevolezza e responsabilita dell'agente che prende se stesso a oggetto della propria azione. Seneca sfrutta questa possibilita del sistema linguistico ampliando uso del riflessivo in una gamma di functurae che non ha precedenti in latino. I paradigmi sono greci: si pud risalire fino allcracliteo ééxSnoduny éuecuriy "se ipsum habere paucis contgit, echeggetd il Petrazca (Bobbio, 25) 4, LINGUAGGIO DELIZINTERIORITA 15 (01 D.K.), “ho investigate me stesso”, variamente rie- cheggiato in greco e in latino sino al me serutor di Seneca Lucrezio, Cicerone, Orazio avevano aperto Ia strada. II topos dell'uomo che non riesce a fuggire se stesso (se effugere) era stato trattato da Lucrezio (3. 1068 s.: hoc se quisque modo fugit. at quem sciticet, ut fit, — effugere haud poris est) ¢ da Orazio che lo riprende ia carm. 2, 16, 19 s.i patriae quis exul — se quoque fugit? (condensando nel perfectum il figit ¢ Veffuugere lucteziano) e in ep. 1,14, 13: in culpa est animus, qui se non effugit unquam. Seneca in trang. un, 2, 14 cita Luctezio ¢ lo commenta: sed quid prodest, si non effugit? Se- quitur se ipse et urget grauissimus comes. Eun commento linguisticamente interessante: Seneca ha ricordato la Cura oraziana, implacabile compagna delle nostre evasioni (sat. 2, 7, 113 ss.: feque ipsum uitas fugitivus et erro, —iam uino quaerens, iam somno fallere curam, — Frustra; nam comes atra premit sequiturque fugacem), ma ha identificato ['uorno ¢ la sua angoscia', donde la novita sintattica det riflessivo se seguitur che ha si un precedente in Quid. met. 4, 461: uoluitur Ixion et se sequiturque fugitque, ma solo esteriore, descrivendo il moto rotatorio di Issione. Se effugere torna nel proemin delle Naturates quaestiones, 6, che ne tiattizza la riflessivita in un’antitesi epigrammatica: multa effugisti, te nondum, Ma, neita maggior parte det casi, quando i nostti stru- menti ci permettono il controllo, Seneca innova: ¢ le sue in- novazioni o rimangono isolate 0 saranno riprese, ¢ anche questo @ significativo, dai Cristiani. Mi limito a un paio di esempi. Deprehendere si dice del cogliere o sorprendere qual- cuno nelMatto di fare qualche cosa; come termine giutidico, “prendere in flagtante”. Tale senso mal si presta alla diatesi riflessiva, presupponendo un grado d'introspezione che non ' Lo sdoppiamento si ha invece in ep. 104, 17: mala te tua seguustur, Se Sages Agee ee eeteeraeractgeeaeeCaPeE TPE 16 caritoLo 1 fu raggiunto da nessun scrittore latino, tranne Seneca. Rife- rendo un detto di Epicuro: initium est salutis notitia peccati, lo commenta: deprehendas te oportet, antequam emendes (ep. 28, 9), “devi coglierti in fallo, prima di correggerti”. La notazione intellettualistica di Epicuro, noritia peccati, il pren- dere conoscenza della colpa (neecede: qui peccare se nescit), si drammatizza in una tensione interiore che impegna tutto Tuomo a una continua vigilanza su se stesso. Seneca giunge per gradi alla formalazione riflessiva. In trang. an. 1. 2 Ti teriorita era affidata al rapporto locale: lium... habitum in me maxime deprendo: in ir. 3, 10, 2 all'oggetto psichico: facile est... adfectus sues, cum primum oriuntur, deprehen- dere. E vero che anche qui, come sopra, c'é un precedente ovidiana —~ ¢ Ovidio &, dopo Virgilio. il poeta pid valorizzato da Seneca! —, met, 3, 428 s.: in medias quotiens uisum cap- tantia collin — brachia mersit aguas, nec se deprendit in illis; ma si tratta di Narciso alla fonte, ¢ il riflessivo postula uno sdoppiamento esteriore, anche se illusorio, La iunctura tornera a esprimere un’espertenza psichica con Gregotio Ma. gno, mor. 16, 31, PL 75, 1140 D - 1141 A: se anima discutit, tee tamen plane deprehendere semet ipsam wale, Ma sar8 i ascoli a sfruttarne appieno le possibilitd Pascol a struttare appieno I possbit nel suo modern la Excutere ha un significato conereto € visivo, “fare uscire seuotendo”, che spesso equivale al nostro “perquisire, fruga- re”. { dizionari ne riportano un esemspio ciceroniano di uso figurato con opgetto ai persona: non excutio te, non scrutor Rose. Am. 97}; ma uno sguatdo al contesto rivela come esso testi esterno, ancorato al suo valore originario, direi poli- iesco, di “perquisire”: non quaero, quis percusserit.... non excutio te, si guid forte ferri habuisti, non scrutor. E quando Ovidio nelt’Ars amatoria to applichera all'atto di “passare in *Mannoli 170,238, W. UNGUAGGIO DELLINTERIORITA "7 rassegna” (cost traduce il Cafonghi) le grazie delle belle ragarze: excuties omnes ubiquaque pucllas (2, 627), non sar) senza un sorriso di salace malizia, Ma in Seneca la diatesi riflessiva, identificando V'oggette con la coscienza del sogget- to, da al verbo un'acceziore tutta metaforica ¢ spirituale: ex ‘cute te et uarie scrutare et obserua (ep. 16, 2); di rimando, la metafora ottica dellintrospezione, qui rappresentata dai due verbi scrutor ¢ obseruo, @ ravvivata dalla metafora tattile di excutio: “fruga in tutte le pieghe della tua anima”. 1.5. Il medesimo discorso va fatto per il tiflessivo indi- retto. in guatehe caso la iunctura senecana 2 pili antics di Seneca, € se ne pud ripercorrere liter attraverso ta termino- Togia filosofica greca e latina. Per esempio I'espressione di Antistene: ave dusdety (D.L. 6, 6), fece fortuna nella dia- riba cinico-stoiea; ne riprenderd il concetto lo éaved avveivea di Epitteto (3, 13, 6); Civetone lo latinizza con ‘secu esse & secum uivere (Tuse. 1, 75; Cat, M. 49); Orazio si fa rinfacciare dal servo Davo: non horam tecum esse potes Gat. 2, 7, 112). Seneca lo ripete piti volte (brew. uit. 2, S; of 6, 3) ¢ lo varia con secum morari (ep. 2, 1}: “il primo indizio di un animo equilibrato é... il saper stare con se stesso™. Al- trove il tema del secum esse torna in un contesto rieco di riflessivi. Pur addolcendo il rigorismo dell’antica Stoa, che proclamaya sapientem amico non indigere (ep. 9, 1), Seneca on pud non acceitare il principio stoico dell'autosuificienra del saggio; ¢ alla obiezione “quale sara la vita del sapiens, lasciato senza amici in prigione. 0 tra gente straniera, 0 in un deserto?”, Fisponde: qualis est Touis, cum resoluto mundo et dis in unum confusis, paulisper cessante natura, adguicscit Sibi cogitationibus suis traditus. Tale quiddam sapiens facit: in se reconditur, secum est (ibid. 16). Per esprimere questa divina solitudine che non 2 vuoto ma pienezza interiore, Seneca usa un hapax sintattico: adguiescere col dative di persona, dove Cicerone avrebbe usato in e l'ablativo. Ossia il 18 cartrovo 1 rapporto locale della sintassi classica si oscura di fronte al valore di fine e di vantaggio del dativo. Non é un caso isola- to: il lettore di Seneca @ colpito dalla frequenza ¢ novita dei dativi riflessivi, in cui sembra linguisticamente concretarsi egocentriea interiorita senecana. Relingui sibi & Vincubo angoscioso di Didone, a cui la donna sfugge con la morte en, 4, 465 s.: semperque relingui — sola sibi, semper lon- gam incomitata uidetur — ire uiam, dove il riflessivo secondo ogni probabilita sintattica, stilistica e ritmica determina re- lingui € non uidetur), relictus sibi @ in Seneca la condizione felice dell'animo sottratto dalla morte al peso della carne (despoliatus oneribus alienis), € pud consolare il pianto di una madre (Marc. 24, 5). E il medesimo effetto della filoso- fia: nelle Epistulae & il saggio sibi relictus, senza perdere nulla della propria efficienza ¢ autosufficienza (ep. 109, 6). Il suo animo é sibi innixus (ep. 92, 2), propitius sibi (trang. an. 2,4), supra humana et par sibi in omni statu rerum (ep. 111, 4): appunto perché si appoggia solo a se stesso ed @ sempre eguale a se stesso, & evaso dal regno della fortuna ¢ ha tra- seeso le cose umane. Come Giove, come Dio. [animus aemu- lator dei (ep. 124, 23) 8 V'ideale dello stoico. Seneca sa bene quanto sia arduo attuarlo, Quando si rimprovera e si sprona ad affrettare il passo ormai stanco sulla via della perfezione morale, usa una nuova iunetura di vaga risonanza biblica: clamo mihi ipse (ep. 27, 2). Anche il salmista clamat in corde suo; ma grida a Dio da un abisso di peceato e di dolore. In Seneca nessun dio risponde: il grido nasce e muore nell'inte- riorita di un animo, alle cui sole forze @ affidata Ia responsa- bilita ¢ orgogtio di quello che Seneca chiama, con violenta metafora, transilire mortalitatem suam (nat. quaest. 1, pr. 1). 1.6. Questo uso del dativo culmina nella coesistenza di due riflessivi, secondo un modulo che Seneca mutuava dalla propensione del latino per Paccumulazione pronominale. IL LINGUAGGIO DELLINTERIORITA, » eos) habet placatos et fauentes, quisquis sibi se propitiauit (ep. 110, 1; non multum ad hoe (sc. ad studendum) locus confert, nisi se sibi praestat animus (ep. 104, 7); turbam rerum hominumque desiderent, qui se pati nesciunt: tibi re- cum optime conuenit (nat. quaest, 4 A, pr. 0; tunc beatum esse te iudica, cum tibi ex te gaudium omne nascetur (ep. 124, 24); mullum (bonum) est, nisi quod animus ex se sibi inuenit (ep. 27. 3). Ex se sibi: i due riflessivi, il punto di par- tenza e il punto di artivo, delimitano Vorizzonte della inte- Fiorita senecana con un moto circolare che ritorna su se stesso. E uno spazio vasto ma chiuso. Quando Seneca all'ubi- cumque sum, ibi meus sum. fa seguire il commento: cum me amicis dedi, non tamen miki abduco (ep. 62, 2), in questo geloso possesso che non si dimentica mai di sé noi sentiamo affiorare il fondo egoistico della saggezza senecana — voglia- mo dire, con Flaubert, di ogni saggezza? I trionfo dell'io in- teriore che si pone come irrinunciabile meta dell'attivita umana si celebra nel ritmo ascendente di un periodo del De otio 3,9): hoc nempe ab homine exigitur, ut prosit homi- nibus: si fleri potest, multis; si manus, paucts; si minus, proximis: si minus, sibi 1.7. Passiamo ora dai verbi, prevalentemente statici, che hanno il dativo all’esame di quelli dinamici che hanno Mac- cusativo del termine di movimento: animus ab omnibus ex- ternis in se reuocandus est: sibi confidat, se gaudeat, sua suspiciat, recedat quantum potest ab alienis et se sibi adpli- cet (trang. an. 14, 2). Questo ritorno dell'animus dal mondo esterno in se stesso assume in Seneca l'aspetto di una fuga. Di fronte a una sola attestazione rispettivamente di in se colligi, in se conuerti, in se reuerti. in se recondi, ad se recurrere, stato le sei attestazioni di in se recedere: un ver- bo che indica etimologicamente “indietreggiare, ritirarsi”, metaforicamente anche “rinunziare”. Recede in te ipsum. quantum potes (ep. 7, 8); Montaigne tradurra: “le sage doit 20 carmroto 1 au dedans retirer son ame de la presse" (1, 23). Il verbo gre- co corrispondente é tic tavtiy dvazwoet: ma, ch’io sappia, lo troviamo solo dopo Seneca, in Marco Aurelio (4, 3, 2), in tun paso dove polemizza contro 1a smania dei viaggi e della villeggiatura, contro tutte le evasioni dell'uomo da se stesso, Motivo senecano: che ci sia una comune fonte diatribica, & verosimile. Resta il fatto che il motivo della eic alto dvazdynows (espressione ¢ di Dione Crisostomo, 20, 8) tor- nna in Seneca con insolita frequenza, Nella lettera 25, 6 egli cita una massima di Epicuro: tune praecipue in te ipse se- cede, cum esse cogeris in turba, che non ha riscontto nei superstiti originali epicurei (129, p. 61 Diano). Raramente Seneca &, come vedremo, traduttore letterale di Epicuro: non potremo mai timuovere il sospetto di una rielaborazione sin- fattica ¢ lessicale senecana. A ogni modo é notevole che men- tre Seneca, nella citazione, usa secedere, sottolineando col preverbio piuttosto la separazione dalla folla (eff. of. 1, 1: proderit... secedere: meliores erimus singuli), nel commento Jo sostituisce due volte con recedere. Fedelta a un'immagine che & il simbolo di una coerenza spitituale, l'interiorita come rifugio: in insuperabilé loco stat animus, qui externa deseruit et arce se sua uindicat: infra illum omne telum cadit (ep. 82, 3). 1.8, L'animo si arrocca in se stesso: fuori & il regno della fortuna, if vortice delle cose, turbo rerum (ep. 37, Sh. 7 over neooogovea dir, come dird Marco Aurelio (12. 3, 2. E ellenistico questo senso chiuso, individualistico, direi esistenziale, del’interiorita. E dicendo esistenziale, penso che il Mounier, 12 pone proprio gli Stoici alle radict dell’albero esistenzialista, L'interiorita platonica & solo un mezzo di ascesi, una fuga dall'io empirico verso il mondo delle idee. Purtroppo il naufragio dell’antica ¢ media Stoa non ci con- sente d'indagare lo sviluppo ¢ Vespressione di questo tema negli immediati precursori di Seneca. Si é parlato di un filo- 1 LINGUAGGIO DELLINTERIORITA a ne democriteo-paneziano che s'incentra sul motivo dell'évdor (Grilli 1953, 154 s. e 270); ma certo in Panezio, per quanto si pud arguire dal De officiis ciceroniano, letica dell’interiorita doveva armonizzarsi nel quadro di un’etica prevalentemente sociale, Sia 0 no caso, Seneca @ il primo filosofo antico in cui Vappelio alla vita interiore sia cost dominante: “La Grecia non aveva dato nulla di simile alle Lettere @ Lucilio” (Boyan- cé 1964, 254). Per la seconda volta, 1a Stoa da a Roma il mezzo di tradurre in sistema le proprie esigenze ed esperien- ze spirituali. Nella pausa successiva alla seconda guerra puni- ca, tramite il circolo degli Scipioni, aveva tenuto a battesimo la filosofia romana, fornendole ta giustificazione teorica del- Vimpero identificato con la cosmopoli, ¢ quindi dell’attivita del singolo per lo stato e deffo stato per {'umanitd, I suo erede ideale, Cicerone, afferma che non c’é nulla di pia grato a Dio quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae ciuitates appellantur (rep. 6, 13), ma il Dio di Seneca non ha spettacolo pit bello che 'uomo forte alle prese con Ia cattiva fortuna, uir fortis cum fortuna mata compositus (prou. 2, 9); eV'antica formula del!'ideale quititario, il wir fortis ac strenu- us, & trasferito dal céuis al sapiens (ep. 77, 6). In questa gran de pausa, che segue Ja risoluzione delle guerre civili_nel- Vimpero, e che non é pit di creseenza ma di stanchezza, Veti ca stoica offre i suoi motivi individualistici, insegna Ie vie della fuga dal mondo, Seneca, che fu per un quinquennio, tra i pid felici det'impero’, arbitro detfo stato, rion ha una parola per la gloria ¢ la potenza di Roma. Alla pax Romana Epitteto contrapporra la pace dell’ anima (3, 13, 958,). In wie in Marco Aurelio il motivo dell'interiorita non ha meno im- portanza che in Seneca; ma i loro rapporti, nonostante le molte convergenze tematiche ¢ formali, sono oscurati dal pto- blema delle fonti comuni, Comunque sia, il linguaggio del- * 9 deta di Traiano (Aur. Viet. Coes. 8,2, 2 cAPrTOLO 1 interiorita, che & forse il maggior contributo di Seneca alla terminologia filosofica dell’occidente, confluisce soprattutto per tramite di Agostino nel!'esperienza cristiana: noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat ueritas, Gia: ma il santo continua, come il filosofo non avrebbe mai conti Ruato: et si tuam naturam mutabilem inueneris, transcende et te ipsum (uer, rel, 72). Dio & dentro ed & sopra: interior inti ‘mo meo, ma anche superior summo meo (conf. 3, 11): non lo si attinge che mediante uno sforzo di trascendenza interiore: ascendebamus interius cogitando... et uenimus in mentes nostras et transcendimus eas (ibid. 9. 24); ipsa sibi anima sileat et transeat se (ibid. 9, 25); ascendens per animum meum ad Te... (ibid, 10, 26). L'interiorita agostiniana non ha limiti: siapre in basso sull’inconscio (nec ego ipse capio totum, quod sum, ibid. 10. 15), in alto verso Dio, 1.9. Anche Seneca trova Dio nel suo intimo: deus ad homines uenit, immo, quod est propius, in homines uenit, dice nella lettera 73, 16, sottolineando la pregnanza seman- ica di im mediante la correctio con immo (v. 2.3 € 2.7) € il contrasto delle preposizioni. Questo movimento concentric che procede per successive approssimazioni trova la sua for- mula definitiva nella lettera 41, 2: prope est a te deus. tecum ‘est, intus est: la vicinanza (prope) ¢ la concomitanza (recum) si risolvono nell'interiorita (inius), con un ritmo trimembre che ricorda S. Paolo: @ (Bede)... éxt névewv xai duit sévewn xai év aiiow (Eph. 4, 6). E Seneca conclude con la eelebre frase: ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet. Inira nos, dove il latino classieo avtebbe detto in nobis (cfr. Cie, Tuse, 1, 74: dominans ille in nobis deus), @ un'altra conquista del linguaggio senecano dell’interiorita. Seneca rimedia alla usura e alla latitudine semantica di in, che indi- ca sia stato che moto, sia volume (“dentro”) che superficie (sopra), preferendogli intra, specie coi pronomi personali Inira ha su in molti vantaggi: polatizza mediante la coppia 1. UINGUAGGIO DELLINTERIORITA 2 antitetica con extra Vopposizione dentro-fuori, evidenzia la metafora volumetrica dell'interiorita © calca Vuso preposi Tionale greco di évéov ed évtdc (uso avverbiale era riservato piuttosto ad intus). Al sacer intra nos spiritus di Seneca risponde ’Evéov Eaveod daiuav di Marco Aurelio (2, 13, 1). Ma 2 il stveiua stoico, il Adyog immanente, la ragione di tut- te le cose. Lo stoieo, che aveva cercato la liberta nel profondo della sua interiorita, vi ritrova la necessita. Necessita cosmi- ca, & vero: riconoscerla ¢ volerla, & Ia liberta del saggio: sapiens) necessitatem effugit, quia wult quod coactura est (ep. 54, 7). Ih cinco Enomao diceva irtidendo che era una mezza schiavité, Certo la liberta stoica ¢ spesso definita in termini negativi: Epitteto associa di frequente all'ddusia e all'dpopic, Ma sentiamo la definizione che ne da Seneca a Lucilio: Quae sit libertas quaeris? Nulli rei seruire, mulli necessitati, mullis easibus (ep. 51, 9). E ancora: exspectant nos... tranguillitas animi et... absoluta libertas. Quaeris quae sit ista? Non homines timere, non deos; nec turpia uelle nec nimia: in se ipsum habere maximam potestatem (ep. 75, 18) E suggella il periodo e la lettera con una frase che conoscta. mo: inaestimabile bonum est suum fieri. Cost si chiude il cer- chio di questa interiorita, che ha tutta 'apparenza di una monade dove il mondo rischia di ridursi all’. Eppure Seneca ne evade pet la tangente non del divino, ma dell'umano, Se il suo stile rispecchia nel Tinguaggio del- Vinteriorita un movimento centripeto, rispecchia un movi. mento centrifugo nel linguaggio della predicazione. it IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE What the world wants is strenght of ur terance, not precision of utterance J. LONDON -1, Ritorniamo al giudizio del Marchesi (1944, 217): Seneca ha fatto trionfare nella letteratura latina la rivolu- zione iniziata da mezzo secolo, Con il suo stile € la sua sin- tassi egli ha contrapposto alla convenzione ciceroniana che & tutta simmettia Io stile umano che € asimmetrico: che noa ‘vuole essere costretto alla preordinata uniformita di periodi ben armoniosi e vuole invece che ogni idea abbia il suo risal- to e il suo compimento nella frase che basta ad esprimerla”. Vedremo poi in che senso pud definirsi asimmetrico lo stile senecano (v. 2.9); certo la cellula stilistica di Seneca e della sua eta @ la frase, la sententia; nell'epoca di Cesare e di Ci cerone era stato il periodo; nell’epoca di Frontone sara la pa- rola. E questa la parabola della prosa letteratia latina, finché i Cristiani, portatori di una spiritualita nuova, ne restaureranno Yarchitettura. La retorica della frase & pitt antica di Senec: essa é lanciata dai declamatori, che suo padre gli aveva inse- gnato a conoscere; mia i declamatori hanno a loro volta biso- ‘gno di essere spiegati. Quando cambia uno stile, cambia un si stema di valori. 26 camro.o Di fronte alla progressiva estenuazione del, tessuto sin- tattico latino viene in mente un giudizio di Gide’: “La perfe- zione classica non implica, di certo, una soppressione del- individuo, ... ma implica la sottomissione dell individuo, la sua subordinazione © la subordinazione della parola nella frase, della frase nella pagina, della pagina nell’opera. Consi ste nel fare evidente una gerarchia”. Non so se questa defini- zione possa applicarsi a ogni lingua classica, ma eredo che si possa al latino. Cesare e Cicerone sono, per temperamento interessi ideali, agli antipodi. Ma la loro prosa letteraria, pur nella diversit’ degit atteggiamenti stilistici che difleriscono an- che da un‘opera all’altra del medesimo autore, ha un carattere comune: & retta da pochi grandi centri sintattici e/0 unificata da una ininterrotta trama di nessi logici. In questa struttura ar- chitettonica sembra tradursi il senso di una realta bene orga- nizzata, un equilibrio di valori morali politici religiosi. Tra i ue punti estrem}, Vindividuo e it cosmo, c& 1a mediazione della societd. Per concretare questa organizzazione nella storia si pud lottare € soccombere, come Cesare ¢ Cicerone: ma alle ‘opposte ideologie é sottesa una fede comune, un comune impe gno per l'edificazione di un bene che non pu essere di uno se non é di tutti ‘Llavvento delf'impero sezna una frattura in quest’ ordine. La realta politica passa in secondo piano € individuo e cosmo si trovano di fronte. I! problema non é pid finserimento del singolo nella societa e nello stato, ma il suo significato nel cosmo. Riaffiora la solitudine esistenziale e Purgenza di solu- zioni individuali. It contraccolpo stilistico di questo muta- ‘mento di valori 2 una prosa esasperata € irtelata che ha tanti centri e tante pause quante sono le frasi. La trama logica del discorso si smaglia in un fitto balenio di sententiae, ognuna fine a se stessa: nec multas plerique sententias dicunt, sed Uncontr e pretest, trad. 1a)., Milano 1945, 92, ML LINCUAGGIO DELLA PREDICAZIONE a omnia tamquam sententias, tinfacciava ai “moderni” Quinti- liano, senza accorgersi di fare una sententia (8, 5, 31). Questo stile nasce nelle scuole dei declamatori, dalle ceneri del’elo- quenza politica, ed & tenuto a battesimo da due madrine gre- che: Ja retorica con gli schemi convulsi dellasianesimo ¢ la filosofia con Maggressivitd della diatriba ciniea. 1 suoi pro- enti. inventariati dal Norden, alimentano tutta la prosa deli'etd imperiale: varia da serittore a scrittore ta dose ¢ il senso del loro impasto. Quello della prosa senecana € caratte- rizzato con acuta brevita dallo storico dell'autobiografia, il “le singole parti, ciascuna per sé, sono lavorate con Is massima cura, perché in esse non resti il minimo spazio vuo- to, ogni pensiero @ concentrato © coniato nel modo piti espressivo possibile, sicché il contenuto minaceia di far salta: te la forma, e questa tensione si scarica quando i membri esteriormente collegati fra loro solo per mezzo della prosa rit. mica, sono compendiati in una punta aguzza e sentenziosa” In maniera lapidaria, lo aveva gia detto Seneca dello stile di Lucilio: plus significas quam loqueris (ep. 59, 5). Pet conse: guire questo scopo i rapporti sintattici si contraggono € semplificano; le parole yuote, i puri utensili grammaticali ten- dono a scomparire; ogni sintagma é teso al limite della sua forza espressiva. Da questo punto di vista si comprende come a sintassi senccana si allontani dalla complessita ipotatt della prosa classica, rieca di costrutti congiunzionali, ¢ si awvi- cini piuttosto al’agilita della lingua d’uso e della lingua poe- tica 2.2. Qualche esempio. Contingo con Vinfinito permette il risparmio della congiunzione ut richiesta dal latino classico; con quali effetti, si valuti da questa frase: mulli contigit én pune nasei (Marc. 15. 4): un'epigrafe del destino umano. Non faccio metatore: un'analoga sententia, formalmentte articolata in un dicolon simmetrico (ep. 99, 8: cui nasci contigit, mori estat), st ritrova con Vievi varianti in una lapide sepolcrale 2B caPrToto tt (Carm, Ep. 1567, 8); € non & la sola. Contro i diffidenti Sene- ca esclama: quidam fallere docuerunt, dum timent falli (ep. 3, 3): Vinfinito falli non solo snellisce la costruzione di timeo, ma consente il parallelismo con fallere ¢ il relativo chiasrio, che da alla frase il suo sapore epigrammatico. 2.3, Si é notata da tempo la predilezione di Seneca per Tuso assoluto del participio futuro. che il latino classico adopera solo in unione col verbo sum. Tale predilezione sod disfa al bisogno di concentrare il massimo di significato nel minimo di parole’, Nascono cosi quelle dense frasi senecane, il cui valore semantico trabocca oltre i confini sintattici rulli.. nisi audituro dicendum est (ep. 29, 1). Audituro: chi é disposto ad ascoltare. Qui il patticipio futuro guarda alla disposizione interiore, come in quest'altra tase: guid tu, inguis, recepturus donas? (uit. beat. 24, 2), con quel pun: gente contrasto fra il gesto esteriore (donas) e la segreta in tenzione (recepturus). Ma, pid spesso, il participio futuro col suo valore di predestinazione serve a svalutare il presente, a denunziarne Ia precatietd: (urbes) casurae stant... Omnia ‘mortalium opera mortalitate damnanda sunt: inter peritura uiuimus (ep. 91, 12). Orazio aveva tradotto Simonide: debe mur morti nos nostraque (ars 63); a Seneca bastano tre paro le: accipimus peritura perituri (prou. 5, 7), per svuotare ogni senso un verbo sul quale il soggetto e loggetto proiet- tano 'ombra della loro caducitd. Non é facile trovare formule Ruove per una saggezza cost antica. La figura etimologica, accentuando il contrasto fra cid che siamo e cid che crediamo di essere, si fa condanna della follia umana: tanquam semper wieturi uiuitis (brew. uit, 3, 4); nihil satis est morituris, immo morientibus (ep. 120, 17: qui Vimmo correttivo — che ® un Se € questo, come pareva ai formalisti russ, “il merit dello stile” (To- dorov, 80), Seneca sarebbe uno det pid grandi silt. IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE 29 altro modulo senecano (v. 2.7)—annulla nella fugacita det presente (morientibus) anche quel minimo di realta temporale implicito nel participio futuro. Con lo stesso modulo Seneca ci ricorda la precarieta degli affetti: saepe admonendus est animus, amet ut recessura, immo tamquam recedentia (Mare. 10, 3). Pessimismo di Seneca, quando guarda al vortice cosmico; ma in quel vortice ee un ritmo ciclico, orbis rerum in se remeantium, che ® una promessa di eternita, per chi sappia inserirvi la sua effimera esistenza: aequo animo debet rediturus exire (ep. 36, 11). 2.4. Questo uso, cost suggestivo, del participio futuro é tun grecismo sintattico; tale @ probabilmente anche !'estensio- ne di et nel senso di “anche”, limitato a sintagmi pronomi- nali nel latino classico (et ego, et ipse, etc.). Sotto T'influsso di xaf, esso diventa nelle mani di Seneca uno strumento di clausole taglienti, che ayventa come strali impietosi contro Villusione della forza ¢ della bellezza: Valet: et leones. For ‘monsus est: et pauones. Velox est: et equi (ep. 76, 9). La pro- clisi del monosillabo contribuisce a una frattura ritmica, che isola e accentua — in senso proprio e figurato — la parola in clausola: malitia liberatus et liberat (ep. 94, 19); tu nescis unum esse ex uitae officiis et mori? (ep. 77. 19). Il verso che Laberio prononzid sulla seena alla presenza di Cesare era giocato su un doppio poliptoto simmetrico: necesse est mul tos timeat quem multi timent (139 Bon.). Seneca lo concentra in quattro parole: guidguid terret et trepidat (ir. 2, 11, 4). I contrappasso esplode semanticamente (simeo @ psichico, trepi- do visivo), fonicamente (i verbi allitterano) ¢ titmicamente (nel secondo membro del dicolon isosillabico 'equilitrio si rompe a favore di trepidat). Anche Seneca parlava a un Cesare. 2.5. Altri mezzi linguistici gid noti al latino classico sono moltiplicati da Seneca. La litote dei pronomi negativi intensi- fica l'affermazione: @ risaputo che emo non non equivale a fol carrrovo “tutti”, ma_a “non ¢’é nessuno che non". Seneca ne fa un uso farghissimo, racchiudendo in ftasi gnomiche il pathos di una condizione umana o di una legge cosmica che non cono- sce eceezioni: nulla non uirtus laborabit (ep. 76, 22); nullius non uita spectat in crastinum (ep. 45, 12); nulli non etiam in- ter tuta timor est (ep. 97, 15); nihil non longa demolitur uetustas (brew, wit, 15, 4: tranne, aggiunge Seneca, le opere della sapientia). Sommandosi all'anafora, Ia litote traduce Vebbrezza intellettuale del sapiens che trionfa del tempo nel pensiero: nullum sacculum magnis ingeniis clusum est, nullum non cogitationi peruium tempus (ep. 102, 22). Per concludere, un aseiutto zie di Epicuro (28, p. 52 6 dhoxcey tigte yeyoutns bx cot Sify dacéoxerau) si enfatizva nella litote senecana (ep. 22. 14: nemo non ita exit ¢ wita, tam- quam modo intrauerit; v. 2.10.3). 2.6. Vecchia eredita della retorica, la figura ctimologica & stata in ogni tempo cara al latino, A Seneca & carissima: la sua specularita potenzia la parola-chiave della frase ne dila- capacita espressive; d'altra parte le conferisce istica propria dei proverbi (manus manum lauat) © ne suggella quindi ta sentenziosita, Grandezea e miseria dell’uomo nei suoi rapporti con gli altri uomini: homo. sacra res homini (ep. 98, 33); ab homine homini cotidianum peri- culum (ep. 103.0); in homine rarum humanitas bonum (ep. 115, 3), Esasperata nell’ossimoro, la figura etimologica espri- me Varistocratica repulsione di Seneca per la folla: auarior redeo, ambitiosior, luxuricsior, immo uero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui (ep. 7, 3). Una frase —e non é la sola—che amd riecheggiare con un anonimo dixit quidam Vautore della Imitazione di Cristo: quoties inter homi- nes fui, minor homo redii (1, 20, 2). Orazio ha una notazione modernissima, la strenua inertia (ep. 1, 11, 28), ‘“'inerzia inre- quieta’’; riprendendone ossimoro con un ossimoro etimolo- gico, Seneca ne polarizza il contrasto psicologico in un contra- ILLINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE 31 sto semantico: quies inquicta (ep. S6, 8). Il chiasmo incastona due frasi nella figura etimologica, saldandole in un blocco speculate ¢ isolandole dal contesto come in questa condanna, quasi buddistica, della speranza: desines timere, si sperare de- sieris (ep. 5, 7; il Budda aveva detto: “Eccelso fra gli uomini & colui che... ha cancellato ogni speranza”); 0 in questa apologia del suicidio: si guid te uetat bene uiuere, bene mori non uetat ep. 17, 5}; 0 in questa esortazione all'amor fati: placeat hom ni quicquid deo placuit (ep. 74, 20). La specularita pud investi- re Fintera frase, ripetendone i termini in ordine inverso nella frase successiva, come in questo consiglio di sorridente sagge7- za alla smania dei bibliofili: cum legere non possis, quantum habueris, satis est habere, quantum legas (ep. 2, 3). Fla figura dell'antimetabole 0 commutatio, cui Seneca indulge con una punta di civetteria stilistica. Ma non sempre. Ai timorosi detla morte egli now si stanca di ricordare che la morte @ il prezzo della vita: uiuere noluit, qui mori non uult (ep. 30, 10). La legge della natura é la nostra: quicquid conposuit, resoluit, er quicquid resoluit, conponit iterum (ib. 11); il ritmo stilistico aderisce perfettamente all’incessante sistole e diastole del rit- mo cosmico, In questa prospettiva grandiosa e severa, che & Tunica garanzia di eternita per lo stoico, si dissolve ogni sospetto di virtuosismo. 2.7. La ripetizione @ uno dei grandi mezzi di collega- mento della prosa senecana; laitro ¢ Vopposizione, Vale a dire che le frasi tendono a connettersi per anafora o per anti tesi o per entrambe. Seneca pensa per antitesi, ha scritto il Pohlenz (1941, 82; 1967, IL 57). Su di essa sono costruite due delle frasi piti celebri. Una sull’antitesi asindetica: hoc est, quo deum antecedatis: ile extra patientiam malorum est, uos "Che. ep. Thy 14: uitam mortemque per wices ire et composita dissolui disgoluta componi. 32 caPiroto it supra patientiam (prow. 6, 6). Prometei¢o monumento ai quell’orgoglio stoico, che fara fremere il cristiano Pascal. L'altra sull'antitesi avversativa: non uitae, sed scholae discimus (ep. 106, 12: cost come ha detto it pessimismo di Seneca ¢ non come gli fa dire, inveriendo i termini, l'otti- mismo pedagogico dei moderni). Anafora ¢ antitesi, mediante Vimmo correttivo, traducono in un serrato duello oratorio quella condanna della schiavitd che l'antica Stoa aveva ragio- nata ed enunziata: Serui sunt: immo homines. Serui sunt: immo contubernales. Serui sunt: immo humiles amici. Serui ‘sunt: immo conserui (ep. 47, 1), Cosi appassionata eloquenza provochera l'aristocratico sorriso di Petronio. 2.8. Lanafora martella gli imperativi seneeani con un senso drammatico deiVincalzare del tempo, dell'urgenza della sapientia: fuge multitudinem, fuge paucitatem, fuge etiam unum (ep. 10, 1). Leloquente divinita del De prouidentia dice agli uomini (6, 6): Contemnite paupertatem: nemo tam Pauper uiuit quam natus est. Contemnite dolorem: aut soluetur aut soluet. Contemnite mortem: quae uos aut finit aut transfert. Contemnite fortunam: nullum illi telum quo feriret animum dedi. Eliminando ogni sintagma causale, Seneca provoca uno scontro frontale tra il dinamismo degli imperativi —la tensione morale dell’'uomo—e la staticita degli indicativi— In nuda verita delle cose, Vivendo frugal- mente, Lucilio non fara nulla di eccezionale: facies enim, al dice Seneca, quod multa milia seruorum, muita milia paupe rum faciunt (ep. 18, 8): la ripetizione moltiplica il numerale, al posto di un'inerte congiunzione copulativa. Ma di anafore senecane ciascuno potra trovare esempi ad apertura di pa- gina. Mi preme piuttosto notare che, grazie all’anafora, alla tama logica dei nessi grammaticali tende a subentrare una trama fonica che lege una frase all'altra mediante la ripe- tizione iniziale. Ecco un periods di quattro proposizioni in il pensiero si svolge a spirale, tornando sempre al punto IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE 3 di partenza per culminare in una clausola antitetica: potest te patriae, potest patriam tibi casus eripere, potest te in soli- tudines abigere. potest hoc ipsum, in quo turba sutfocatur, fieri solitudo (ep. 91, 8). La tipetizione di porest ha una fun zione strutturale, come una specie di “refrain” che scandisce il ritmo det periodo in tuoge dei nessi grammaticali. E un caso analogo a quello del Pascoli, il cai asintattismo, si & af- fermato, nasce “da un turbamento radicale, inguietissimo dei rapporti dell'uomo con quanto lo circonda” (Barberi Squa- rotti, 73). Spesso avviene che ultimo membro di un‘anafora si arti- coli a sua volta in un'anafora bimembre o trimembre: rune ergo te scito esse compositum. cum ad te nullus clamor perti- nebit, cum te nulla uox tibi excutiet, non si blandietur, non si minabitur, non si inani sono wana circumstrepet (ep. 56, 14). I rovinosi effetti dell'ebbrezza — quella del vino € quella dell’amore —su Marco Antonio sono deseritti in un periodo apparentemente complesso: haee crudelem fecit. cum capita principum ciuitatis cenanti referrentur, cum inter apparatissi- ‘mas epulas tuxusque regales ora ac manus proscriptorum recognosceret, cum wino grauis sitiret tamen sanguinem (ep. 83, 25). Non illuda la lunghezza e l'ipotassi: l'anafora del cum mostra che gli stessi nessi sintattici sono assunti in fun- zione rit mica. Questa, piti ancora che la paratassi. ci appare la ogoayis, la cifra stilistica della prosa senecana, Ne do an- cora due esempi, di pronomi relativi e di congiunzioni ipo- tetiche: quem mihi dabis, qui aliquod pretium tempori po- nat, qui diem aestimet, qui intellegal se cotidie mori? (ep. 1. 2k ad hanc (se. philosophiom) te confer, si uis saluus esse, si securus, si beatus, denique si uis esse, quod est maximum, li- ber (ep. 37, 3): ogni si & an gradino sulla scala della saggez- za. Questa prosa convulsa, che non ha ¢ non laseia respiro. & costruita per addizione, Non si pud tuttavia convenire con chi ha affermato che i periodi di Seneca potrebbero troncarsi quando si vuole, In questa addizione c’e un crescendo che 34 ccapiroto culmina nella pointe epigrammatica. E questo il limite det periodo senecano. 2.9, Perché epigrammatica é la tecnica di Seneca: la con cisione, la concettosita, il fdmen in clausula, civ’ ta conelu- sione a effetto 0 2 sorpresa. Non é del tutto vero che lo stile di Seneca sia asimmetrico e che la sua legge stilistica sia ta disuguaglianza, secondo Mautorevole parere del Castiglioni (1924, 369). Basti dire qui che una frase — per nulla ecce- zionale —- come inpares nascimur, pares morimur (ep. 91, 16) comprende tutti ¢ tre i fattori che Cicerone poneva a base della concinnizas; Vomeoteleuto, lisocolia, Nantitesi (or. 164). Si noti la rigorosa simmetria di questo ammonimento a non contare sul domani: die miki dormituro: potes non expergi- sci: dic experrecto: potes non dormire amplius; dic exeunti: potes non reuerti: die redeunti: potes non exire (ep. 49, 10); © di questo ritratto di Catone: quo die repulsus est, lusit; qua nocte periturus fuit, legit (ep. 71, 11); 0 di questo ritratto del sapiens: fecit sibl pacem nihil timendo, fecit sibi diuitias nihil concupiscendo (ep. 87, 3). Né potrebbe essere diversa mente, essendo l'isocalia un caposaldo dello stile “moderno dei declamatori, Ma & vero che spesso entro la concienitas scatta la wariatio, che non é quella di Sallustio e di Tacito. 1a quale dissocia un gruppo sintatticamente omogeneo (inbecilla atque aeui brevis, [ug. 1, 1), benst consiste nel variare un membro di una serie ritmica, anaforica o isocolica, ¢ prefe- ribilmente Tultimo: de diuinis humanisque discendum est, de practeritis de futuris. de caducis de aeternis, de tempore (ep. 88, 33). Seneca valuta lo stile di Fabiano: non est fortis ora- tio eius, quamuis elata sit: non est wiolenta nec torrens, quamuis effusa sit; non est perspicua, sed pura (ep. 100, 10). In entrambi i casi Ja uariatio accorcia Tultimo membro, provocando una frattura ritmica in cui si ticonosce lan classicismo di Seneca: abruptum sermonis genus (Quint. 4, 2, 45). La prosa classica amava la cosiddetta legge dei membri IL LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE » © cola erescenti: 'ultimo @ il pid Iungo (cauendum ne de- crescat oratio, Quint. 9, 4, 23), In Seneca @ linverso: ultimo 2,0 tende ad essere, il pid breve, e pud arrivare al monosilla bo. Uno studioso, che ha avuto la pazienza di raccogliere tut- te le clausole finali di capitolo o di lettera, ne ha contate 111 monosillabiche su 851 (Bourgery 1910, 168). Paradigmatico & lammonimento, di sapore oraziano, a temperare gli estremi nec speraueris sine desperatione nec desperaueris sine spe ep. 104, 12): la gnome si affila come un’arma, nella lotta per la sapientia. La parola in clausola pud avere il lampo dell'axg0086xyt0y, dell'inatteso: che giova vivere a lungo a chi ignora arte della vita, ta filosofia? Non wixit iste, sed in ita moratus est, nec sero mortuus est. sed diu (ep. 93, 3): il paradosso & anche semantico, determinamdo con un avverbio di durata, di, un verbo puntuale, mortuus est. Pochi tratti schizzano la figura del bevitore: L. Piso, urbis custos, ebrius ex quo semel factus est, fuit (ep. 83, 14): il verbo principale, rimandato in fondo, tta due pause, scoppia con l'arguzia di un epigramma, che ricorda la mano di chi ha scritto TApo- colocyntosis. E ricorda la mano di Marziale, che pid volte diede forma metrica alle sententiae senecane. 2.10. Rientra nella tecnica epigrammatica anche la varia- zione sul medesimo tema, che non é tanto, com’? stato detto con formula fortunata (che @ gia in nuce in Frontone), lo sfaccettamento dell’idea, quanto Vesigenza di dare all'idea una forma sempre pit epigrammatica, sempre pi pene- trante. Seneca non rif solo se stesso, ma anche gli altri, Una volta cita un uersus disertissimus di Publitio Siro: alienum est omne, quicquid optando euenit (ep. 8, 9 = A 1 M.). Ma non si contenta, Rivolgendosi a Lucilio aggiunge: kune uer- sum a te dici non paulo melius et adstrictius memini: “non t tuum, fortuna quod fecit tuum’ (ibid. 10). Ht concetto della estraneitd dei beni di fortuna si puntializza nell'antitesi fra il possesso apparente e il possesso reale. Ma non basta 36 ‘carrroto ancora a Seneca, che prosegue: illud etiamnune melius dic- tum a te non praeteribo: “dari bonum quod potuit, aujerri potest”. Ora il concetto ha conquistato la sua definitiva for- ma epigrammatica, ¢ Seneca pud chiudere la leitera. Nel De prouidentia 3,3 cita una grande massima di Demetrio, che piacque all'Ortis toscoliano: nihil... miki uidetur infelicius eo cui nihil unquam euenit aduersi. Un capitolo dopo se l'appro- ptia: miserum fe iudico, quod mumquam fuisti miser (4, 3): i concetti di infelix e di aduersum, semanticamente unificati nel concetto di miser (v. 2.6.2) € ritmicamente opposti dal poliptoto chiastico, chiudono la gnome in una cornice epi- grammati Lo stesso fa con Epicuro, yoltandone e rivoltandone il pensiero per distillarne tutta la virté terapeutica. L'esempio era il medesimo Epicuro: hoc saepe dicit Epicurus aliter at- que aliter: sed numquam nimis dicitur quod nunquam satis discitur (. 1.4.1). Quibusdam remedia monstranda, qui- busdam inculcanda sunt (ep. 27, 9). Di questa rielaborazione senecana di pensieri epicurei posso dare un solo saggio. Nella lettera 97, 13 traduce da Epicuro: eleganter ab Epicuro dic tum puto: “potest nocenti contingere ut lateat, latendi fides non potest”. Traduzione cosi chiasticamente simmetrica che si stenta a credetla letterale’. Epicuro, si sa, non passava non voleva passare per un modello di bello scrivere, € con- dannava come una puerilita tipy éy Aéyour evgwduiav (10, p. 22 Diano), Seneca Ia commenta estraendone un’antitesi allit terante tra la felicitas ¢ la fiducia latendi: il colpevole pud avere la fortuna, non Ia sicurezza di non essere scoperto: aut si hoc moda melius hunc explicari posse iudicas sensum “ideo non prodest latere peccantibus, quia latendi etiam si } Sara piuttosto la condensazione di un pensieroriferito da Plutarco (116, 1p 80 Diano): (vais ddeoiveas), mir Aadiv dvowes, ioe ay sob Aadeir Lage advan ton he ical P08 widows bi gs Syma Ox FB pk cf ob Daag fa uke apo, IL LINGUAGGIO DELLA FREDICAZIONE 37 felicitatem habent, fiduciam non habent”. Tuttavia it periodo, cosi iungo. ha pid Varia di una chiosa che di una gnome, Nella lettera 105, 8 l'antitesi & ridotta ai suoi termini essenziali, due cola paratattici col pid breve in clausola allit- terante: nocens habuit aliquando latendi fortunam, num- quam fiduciam'. 21. Seneca traduttore @ un capitolo — ultimo — dello stile senecano, di cui non mi é lecito dare pid che un para- grafo. Il uertere dei Latini, si sa, accentuz il pathos degti originali, a livello sia dei significant siz det significati. Dicia- mo che & un‘operazione letteraria e non tecnica. Certo, Cice- rone é pid fedele traduttore di Platone che di Arato: ma non & pid rispettoso del tecnicismo filosofico che di quello astro. nomico. Seneca non si sottrae a questa yocazione formale d tutta la letteratura latina; ma i procedimenti stitistici da lui messi in opera differiscono dai ciceroniani, sono quelli che gid conosciamo: la retorica della sententia con la trama dei suoi tichiami fonici, con la sua semplificazione e concentra: zione sintattica. Abbiamo la fortuna di possedere tre testi sinottici: un passo del Timeo platonico tradotto da Cicerone e da Seneca. Ascoltiamo Platone (Tim. 29 D-E): A€yauev bi) OF Hvtera aleiaw yéveow xai rh sv vide 6 ovmioras auvéornacy. ‘Ayadis jy. aad dé obdeig me0i oddevds oidenote éyyiymerat GO6r05- robtY Seog dv advea be éhora Boudin yeréodu zaoarijaa écvr. “Diciamo dungue per quale motivo chi ha formato il divenire € Vuni- verso li ha formati. Era buono, e in chi buono non nasce in nessun modo invidia per nessuno; essendo privo di questa, ha voluto che tutte Ie cose nascessero il pid possibile simili a lui". Cicerone traduce (Tim. 9): Quaeramus igitur causam, "La clausola sichiama ep. 16, 2: Jam de te spem habeo, nondum fidu- iam (v. 2.6.0, 38 carro. quae impulerit eum, qui hae machinatus est, ut originem rerum et molitionem nouam quaereret, Probitate uidelicet praestabat; probus autem inuidet nemini: itaque omnia sui similia generauit. Un periodo iniziale greve di rapporti ipo: tattici (due subordinate di secondo grado, una perifrasi rela- tiva per 6 ovmottig), inquadrato nel poliptoto quaeramus. quaereret a compensare la perdita della figura etimologica gteca; un petiodo pid asciutto articolato in tre proposizioni, cui le particelle coordinanti danno il rigore del sillogismo. Ma Cicerone sacrifica Vinsistita negativita. della _premessa minore (otdeis sepi obdevdg obdénote), chiave di volta del ragionamento platonico (ne ¢ rimasta non pili che un'ombra nella collocazione finale di nemini), alla celigiosa affermazio- ne dell'eccellenza divina, mediante il superlativo (praestabat) € Vastratto allitterante (probitate), che isola e assolutizza la qualita. La conelusione sfiora leresia: giacché eliminando V'e- spressione della intenzionalita (éBoutijo) e soprattutto della limitazione (Su wéM&ova) rischia di identificare il creato ¢ il creatore. Seneca cita testualmente Platone (ep. 65, 10): Ita certe Plato ait: “Quae deo faciendi mundum fuit causa? Bonus ‘est; bono nulla cuiusquam boni inuidia est: fecit itaque quam optimum potuit”. Tutto & pitt semplice e pid nervoso. L'in- terrogazione diretta, alla maniera senecana, pone il problema nei suoi termini essenziali, puntando sull’antitesi diretta tra deus e mundum. La tisposta conserva l'apparenza sillo- gistica, ma le particelle sono ridotte a una sola (irague), men- tre onus si triplica nel potiptoto e si proietta semantica- mente nel superlativo, costituendo il vero filo connettivo del periodo. Serve dungue a questo scopo anche la formula limi- tativa finale (quam optimum potuit), che Seneca si guarda bene dal depennare'. Esigenze concettuali e formali si equi- * Come non la depenna, tutaltro, Calcio (Tim, 26Wa) prout cuiusque 1 LINGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE ” librano in una versione che tralascia tutto l'accessorio del- originale platonico per concentrarsi con energica sobrieta sull'essenziafe. Comprendiamo meglio cosa intendesse Seneca quando opponeva 1a potentia del latino alla gratia del greco (Pol. 2, 6). 2.12. E cost quasi sempre. Neminem regem non ex seruis esse oriundum, neminem seruum non ex regibus (ep. 44, 4): & Platone (Theaet. 174 E). Is maxime diuitiis fruitur, qui mini- ‘me diuitiis indiget (ep. 14, 17): & Epicuro (0 Metrodoro). Ma in entrambi lo stile & di Seneca. Qualeuno dird: la retoriea @ di Seneca, ¢ ricordera un giudizio del Brunschvieg ($7): “On ne comprend pas le stoicisme quand on s'arréte... aux exagérations d'un rhéteur comme Sénéque". Ma la sua paro- Ja non cerca la verita, la bandisce. La prassi retorica di Sene- ca é, almeno in questo (per il resto sarebbe da fare pid lungo discorso) coerente con la sua teoria. Allo stoico Aristone obietta che non bastano i decreta philosophiae (ep. 94, 2). i d6yara, i principi dottrinari, né le probationes tibid. 27), le dimostrazioni teoriche, né le cauillationes, le sottigliczze sillo- gistiche: occorrono i praecepta e le admonitiones, cice quegli elementi parenetici che si rivolgono all'individuo nella concre- terza delle sue situazioni esistenziali e parlano non solo alla mente, ma anche al cuore e alla volonta: non docet admo- nitio, sed aduertit, sed excitat, sed memoriam continet nec patitur elabi (ibid. 25). La institutio & teorica, l'admonitio guarda alla prassi: contemplationem institutio tradit, actio- nem admonitio (ibid. 45). 1) filosofo si é trasformato in diret tore di coscienze, in monitor (ibid. 72), anzi, come dice Sene- ‘natura capax beatitudinis esse poterat. La sua importanza rislta dal fatto che Platone la ripete a poche righe di distanza (30 Al: Boulnduis yw 4 Mis dyad lv never... oar avi dvruan (questa volla Cicerone tradusse: quoad natura pateretun) 40 ceaprrovo ca con innovazione semantica, in couctor (ep. 52, 4). I suo stile sara dunque quello del praeceptum e dell'admonitio, to stile della predicazione: ipsa, quae praecipiuntur, per se mul- tum habent ponderis, si aut carmini intexta sunt aut prosa oratione in sententiam coartata iep. 94, 27). La sententia quindi Vequivalente prosastico del carmen, come conferma lun altto paso: facilius enim singula insidunt cireumseripta et carminis modo inciass (ep. 33, 6). 1 suoi effetti psicagogici sono cost descritti: quis autem megabit ferirt quibusdam pracceptis efficaciter etiam inperitissimos? Velut his breuissi- ‘mis uocibus, sed multum habentibus ponderis; ¢ cita versi gnomici di Terenzio e di Publilio, per concludere: haec cum ictu quodam audimus (ep. 94, 43). Ci sono tutti gli ingre- dienti dello stile epigrammatico: la brevitd, Venergia, ictus finale: quello di cui Lucilio, abituato alla prosa di Seneca, la- menta fa mancanza negli scritti del filosofo Fabiano: deest illis oratorius uigor stimulique quos quaeris et subiti ictus sententiarum (ep, 100, 8). Questo & dungus il segreto della relorica senecana: non delectare come il puro retore, non solo docere come il puro filosofo, ma admonere, descendere in nos (ep. 40, 4, v. 1, 7, 2), for presa sull'animo: inhaereat istud antimo et tamquam missum oraculo placeat (ep. 108, 26). Cosi Seneca attraverso la tecnica greca riscopre I’ant shissima esperienza latina del carmen, la “formula ritmica in eui s'incarna la forzi magica e poietica del werbum. Car- men ® ta formula deli'incantatore ¢ det legislatore, Moracolo det profeta, il verso del poeta, Ia ricetta dei medico: & la pa- rola che agisce e costtuisce. Seneca applica alla filosofia e ne fa uno strumento di liberazione e di salvezza, come Lucre- zio. La sua retorica ha la medesima funzione del musaeus Jepos Sucteziano, come le sentenze di cui @ intessuta Ja sua prosa sono le Kiger d6§a dello stoicismo. It predominio della morale @ ellenistico: quicquid legeris, ad mores statim referas (ep. 89, 18). Ma & romana la passione con cui Seneca senite la sua filosofia: hee unum plane tibi adprobare wellem, IL UNGUAGGIO DELLA PREDICAZIONE 41 omnia me illa sentire, quae dicerem, nec tantun sentire, sed amare (ep. 75, 3). Romana é, soprattutto, Vesigenza di tra- durre 1a parola im azione. Come pedagogo e ministro di Nerone, Seneca cerca di realizzare nella societa romana quel- Veta dell'oro in cui egli vedeva, con Posidenio, non it regna di Saturno, ma il regno dei sapienti (ep. 90, 5). Scontitto dalla realta, tagliato fuori dalla politiea, si seeglie un altro allievo, Lucilio, ¢ 10 rivendica a sé: adsero (e miki, meum opus es (ep. 34, 2). Ma, dietro Lucilio, Seneca parla al genere umano, alle moltitudini che verranno: posterorum megotium ago (ep. 8, 2). Eseluso dal presente, costruisce Mavvenire: paucis natus est. qui populum actatis suae cogitat. Multa an- norum milia, multa populorum supersenient: ad itla respice (ep. 79, 17). In questa vertiginosa prospettiva egli pud pren- dersi la rivincita sulla pid bruciante delusione della sua vita: all'imperiale ex-allievo getta in faccia la sua ultima definizio- ne del sapiens: humani generis paedagogus (ep. 89, 13). Una parola cosi tesa corre il rischio di cadere nel teatrale, int quello iactare ingenium che gli rimprovera Ja malevola acu tezza di Tacito (ann. 13, 11); ma la retorica di Seneca & il suo modo sincero di pastace agli uomini per giovare agli uornini Lo stile senecano riflette dunque un doppio ¢ opposto movimento: dallesterno all"interno, verso Ia solitaria libert& dello — i inguaggio dellinteriorita; dallinterno all’esterno, verso la liberazione dell'umanita — il linguaggio della predicazione: malitia liberatus et liberat (ep. 94. 19). In que- sto noi sentiamo la sua drammaticita. Dramma di un womo perennemente oscillante fra la cella ¢ il pulpito; ma forse ct qualeosa di pit, che ci tocea pid da vieino: il dramma della saggezza fra T'amore di sé e 'amore degli uomini

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