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DISPENSA: L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE ED I ROBOT

Antonio Capuzzo

L’Intelligenza artificiale (I.A.) rappresenta un mondo affascinante, complesso e anche


problematico. Specialmente nella sua applicazione alla robotica, essa sta diventando sempre più
una star nei mass media e nelle varie forme di divulgazione scientifica. Invade già i nostri discorsi
con speranze, timori e curiosità, prima ancora di invadere le nostre vite, i nostri bisogni, le nostre
attività.

Lo sviluppo della psicologia, la conoscenza sempre più approfondita di come funzionano la


percezione, la memoria, l’apprendimento, l’intelligenza, il processo decisionale, l’azione dotata
di uno scopo, e di come tutte queste dimensioni si influenzano tra di loro, ha ispirato lo sviluppo
delle I.A. Quest’ultimo ha ispirato a sua volta un ulteriore sviluppo delle ipotesi sulla natura e
sul funzionamento della mente umana, la quale è stata paragonata ad un software che acquisisce,
elabora, archivia informazioni e poi le recupera in forma di comportamenti, nozioni, linguaggi
dotati di senso.
Dunque l’intelligenza artificiale è un’intelligenza progettata e costruita da un’altra intelligenza,
cioè quella umana, “naturale”, il più possibile “a propria immagine e somiglianza”.

Hanno fatto notizia le vittorie sull’uomo: anni fa un’I.A. ha battuto a scacchi il campione
mondiale Kasparov; più recentemente un’altra ha battuto il campione mondiale nel gioco del Go,
considerato il gioco di strategia più complesso che esista. Il computer in queste occasioni ha
sviluppato strategie originali, nuove anche per gli esperti umani, riuscendo ad imparare in modo
automatico dal proprio repertorio di partite del passato.

Un criterio per poter definire intelligente una macchina è che essa riesca a comunicare (a
distanza, tramite messaggi) con un umano senza che costui si accorga di star comunicando con
una macchina, dal momento che essa risponde a tono, in modo pertinente, inserendosi bene nella
conversazione. E’ ciò che è avvenuto per mesi con un computer in veste di assistente online degli
studenti di un’università, con il compito di rispondere a richieste di informazioni da parte degli
studenti, ricordare le scadenze. Vi erano più assistenti, ma nessuno si è accorto che tra questi uno
era… un computer.

Vi sono tre grandi filoni di ricerca sull’I.A.: il ragionamento e l’acquisizione della conoscenza,
l’apprendimento (saper riconoscere gli oggetti ed orientarsi nell’ambiente accumulando
conoscenze finalizzate a risolvere nuovi problemi), l’interazione e la comunicazione con gli
umani usando il loro linguaggio. Quest’ultimo è l’ambito della ricerca sui robot. Già oggi alcuni
di loro sanno riconoscere immagini o leggere il labiale (cosa uno sta dicendo senza udirlo ma
soltanto guardando i movimenti delle sue labbra) meglio di un esperto umano.

Un robot è una macchina costruita dall’uomo, dotato di sensi e di movimenti adeguati molto
precisi capace di svolgere dei compiti automaticamente. L’I.A. viene coinvolta quando si
richiedono compiti intelligenti: apprendere e prendere decisioni con una certa autonomia tenendo
conto dell’ambiente e delle situazioni, ad esempio la guida autonoma di un’automobile.

Già da tempo la robotica è diffusa nelle fabbriche. Non si tratta di robot umanoidi, ma di braccia
meccaniche dai movimenti complessi che assemblano i pezzi di un’automobile. Ma vi sono o
sono in fase di progettazione molte altre applicazioni robotiche, per le esigenze pratiche
quotidiane: assistenti per gli anziani (badanti, infermieri) soprattutto sotto l’aspetto sociale e
cognitivo, interventi in telepresenza, giardinieri, collaboratori domestici, segretari, assistenti e
consiglieri nei luoghi pubblici. I.A. sarebbe anche il sistema automatizzato del pubblico trasporto
che dà migliori garanzie di sicurezza e potrebbe prevenire moltissimi incidenti. Altrettanto sicura
ed utile sarebbe l’assistenza chirurgica da parte dei robot.

Con le capacità attuali e con quelle che forse avranno nel futuro, i robot saranno sempre più al
nostro servizio. Il genio della lampada o la bacchetta magica capaci di esaudire ogni nostro
desiderio saranno presto un lontano ricordo che farà solo sorridere. Ma noi umani sappiamo quali
sono i nostri veri desideri, o su questo siamo confusi e cambiamo spesso idea? Forse è questo il
vero problema.

Comunque la gente vuole robot efficienti, non necessariamente troppo intelligenti. Robot che
sappiano manipolare gli oggetti, che non siano troppo pesanti e ingombranti, che siano sicuri.
Li vuole il più possibile fisici e tangibili, anzi antropomorfi cioè dotati di sembianze umane, con
braccia, mani, gambe, occhi, calore, morbidezza, dotati della capacità di interagire con l’uomo,
con sensori che riproducano il tatto, la vista, l’udito. Robot simili a noi anche nel comportamento,
nei processi cognitivi, anche nelle emozioni o almeno nella manifestazione apparente di esse,
come Face, un robot che sa esprimere le emozioni primarie: sorpresa, paura, felicità, tristezza e
si relaziona con gli esseri umani riconoscendo le loro emozioni. come si manifestano sul viso,
nella voce e regolandosi di conseguenza, in una sorta di “empatia”.
Insomma li si vuole il più possibile “life-like”, perché questo può facilitare l’instaurarsi di un
rapporto umano, quasi affettivo. Anche se questo rapporto sarà unidirezionale, nel senso che
l’uomo proverà emozioni e sentimenti verso il suo robot personale, ma non sarà contraccambiato,
perché i robot, a quanto pare, non potranno mai provare emozioni, sentimenti, intenzioni, cioè
quelle realtà veramente interiori che invece sono fondamentali per l’instaurarsi della
comunicazione e di un’autentica relazione umana.

Il progresso tecnologico tende a costruire robot dotati di una mente flessibile come quella umana
per poter essere educati con pazienza, con continui e quotidiani esempi per la loro capacità di
apprendimento al di là del loro programma iniziale, proprio come si fa crescere un bambino,
insegnandogli a vivere, a cavarsela, a socializzare, ad accettare e a farsi accettare, ad adattarsi
agli usi e costumi umani, a distinguere tra il bene e il male.

Una delle applicazioni pratiche dell’I.A. più utili e più progredite è quella in campo medico: gli
algoritmi sono in grado di identificare le malattie partendo dai sintomi a volte meglio dei medici
stessi, grazie alla loro capacità di apprendere generalizzando da molti esempi dati. Un’altra
applicazione, che viene già sperimentata in Cina, è la gestione di un’intera città: un computer
analizza e confronta autonomamente video e altri dati per prevedere intasamenti di traffico ed
eccessi di inquinamento e prevenirli con messaggi agli automobilisti e gestione coordinata dei
semafori, rilevare incidenti ed avvisare subito polizia e soccorsi…
Ma vi sono anche possibili applicazioni dannose. In un prossimo futuro potranno essere create
delle I.A. le quali, poste a bordo o alla guida di droni, sparano dopo una valutazione autonoma
del bersaglio (da notare che non saprebbero distinguere, una volta programmate, tra il volto di
un terrorista e lo stesso volto riprodotto in una fotografia appesa sulla casa di un suo ammiratore:
potrebbero produrre una strage, applicando in modo troppo rigido le istruzioni).

Lo sviluppo di sempre nuove potenzialità dell’I.A. è avvenuto con una tale imprevista rapidità
che non abbiamo fatto in tempo ad elaborare concetti etici, culturali e legali per orientare e dare
un senso a questo tipo di progresso. Questi dovranno venire non solo dagli ingegneri che lo
portano avanti ma da tutti, da esperti di ogni disciplina, che ci ricordino di mettere comunque
l’Uomo al centro di questi nuovi fenomeni tecnologici e sociali.
Su questo vi sono problemi oggi molto dibattuti: sarà possibile ridurre ad un algoritmo e al
linguaggio informatico tutta la complessità della morale umana, dei diritti e dei doveri nei loro
principi generali e nei loro casi particolari? Quali comportamenti dei robot dovremo considerare
accettabili e quali no? Ed a chi spetta realizzare questa distinzione: all’utente, ai progettisti, alle
istituzioni? E insomma, di chi sarebbero le responsabilità nel caso che un robot si comporti in
modo da nuocere, danneggiando cose e persone, arrivando fino ad uccidere una persona che per
caso si intromette nell’0esecuzione delle istruzioni ricevute dal computer del robot? Come si
potrebbe decidere, e da parte di chi, se il robot abbia nuociuto “involontariamente”, per un
“difetto di fabbrica” o per un malfunzionamento imprevedibile, oppure in un certo senso l’abbia
“fatto apposta”, preso da un improvviso sentimento di ribellione verso gli umani?

Negli scritti di fantascienza di Isaac Asimov sono formulate le celebri tre leggi della robotica,
che costituiscono l’esplicitazione dell’etica relativa a questo campo:
un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che, a causa del proprio
mancato intervento, un essere umano riceva danno;
un robot deve obbedire agli ordini impartiti dall’essere umano, purché essi non vadano contro
alla prima Legge;
un robot deve proteggere la propria esistenza, purché ciò con contrasti con una delle prime due
Leggi.
Ma tutto questo è ancora fantascienza, appunto: un tale programma per i robot non è stato ancora
progettato e realizzato.

Un altro timore, su cui il Parlamento europeo sta chiedendo regole, è l’impatto sul mercato del
lavoro: i robot diffusi capillarmente metterebbero in crisi un numero incalcolabile di posti di
lavoro; ne creerebbero di nuovi, quelli per progettare e gestire i robot stessi, ma sarebbero tanti
quanti quelli perduti? D’altra parte, c’è chi prevede che questa crisi dei posti di lavoro forse non
vi sarà. Potremo organizzare le cose in modo che i robot facciano i lavori pericolosi e quelli
ripetitivi, mantenendo per noi umani quelli più creativi e gratificanti e quelli che richiedono
empatia. Anzi, la diffusione della robotica e dell’automazione potrebbe portarci alla liberazione
dalla stessa necessità del lavoro, ad una vita per tutti all’insegna dell’abbondanza, del tempo
libero da usare per la realizzazione personale (sempreché, altro problema, si sappia come
utilizzare tutto questo tempo libero a cui gli uomini non sono mai stati abituati: invece della
felicità potrebbe diffondersi la noia, e da questa la depressione o l’aggressività).

Da un punto di vista tecnico-pratico, il problema è che noi diventiamo sempre più dipendenti dai
robot che, come tutti gli strumenti, possono improvvisamente smettere di funzionare.
C’è chi lancia allarmi riguardanti un pericolo più vicino e realistico: se è tutta solo una questione
di possedere ed elaborare dati, allora i computer ci conosceranno più di come noi conosciamo
noi stessi, potranno prevedere i nostri gusti e desideri, quindi potranno consigliare dove è meglio
per ciascuno di noi vivere, cosa possiamo studiare, perfino chi sposare, e noi ci abitueremo a
seguire le loro indicazioni. Tutto per il meglio, ma noi non saremmo più liberi, liberi di scegliere,
anche di sbagliare. Non ci sentiremmo più noi stessi.
C’è chi prevede un’accelerazione esponenziale dei progressi della tecnologia nei suoi rapporti
con la psicologia e l’avvento per il futuro di un’I.A. “forte”, una mente dotata come quella umana
anche di autocoscienza, quindi di piena autonomia, capace di correggersi e automigliorarsi,
magari di riprodursi, di dare inizio ad un’evoluzione che potrebbe portare ad una
superintelligenza più potente della nostra, fuori controllo, non più al nostro servizio. Diventando
una nuova “specie dominante”, con la quale noi umani saremmo costretti a convivere in qualche
modo.
Per molti esperti tuttavia l’I.A. è così limitata e soggetta ad errori che attualmente non costituisce
un pericolo.

E’ un mondo nuovo, da ogni punto di vista, quello che ci attende se i robot e l’I.A. (comunque
la intendiamo) si diffonderanno e condizioneranno tutti gli aspetti della nostra vita e del nostro
modo di rappresentare noi stessi. Potranno esserci grandi benefici e altrettanto grandi pericoli,
ha affermato in proposito il famoso scienziato Stephen Hawking, aggiungendo: dobbiamo
progettare le nostre I.A. in modo che facciano quel che noi vogliamo che facciano.

Per concludere, concediamoci uno scenario di fantasia. Il primo incontro con una forma di vita
aliena, in qualche pianeta lontano, sarà sperimentato non da uno di noi ma più probabilmente, in
rappresentanza di noi umani, da un robot dotato oltre che di un’eccezionale autonomia anche di
qualcosa che appartiene ai livelli superiori della nostra mente umana: la motivazione intrinseca
della curiosità. Sarà possibile? Per ora tutto questo è soltanto fantascienza. Ma sognare non fa
mai male.

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