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Agire Economico in Rete
Agire Economico in Rete
Agire Economico in Rete
Quella formalista (definisce rapporto tra mezzi e fini) guarda all’economia nel suo fare
individuale e quindi a tutte quelle scelte individuali mirate all’impiego di risorse scarse che
vengono orientate, allocate in modo razionale e sono tese alla massimizzazione dell’utilità
individuale.
Questo approccio nasce dall’economia neoclassica-marginalista di fine 19esimo secolo, che
vede l’economia appunto come un modo di agire che coincide con il mercato e non come un
mero settore della società.
Gli attori che agiscono hanno un sistema di preferenze che viene espresso attraverso la
funzione di utilità che ha delle caratteristiche proprie. Esse sono egoistiche, atomistiche,
complete e coerenti.
Il contesto permette la circolazione di informazioni e conoscenze certe che sono
indispensabili per l’azione individuale.
Mentre per quanto riguarda l’approccio sostanziale, esso guarda all’economia come
l’insieme delle attività volte a garantire la riproduzione materiale di un dato gruppo sociale.
L’economia si definisce quindi in relazione al soddisfacimento dei bisogni materiali e ai
tramiti ossia alle istituzioni che mediano tra uomo e ambiente.
Ovviamente essendo i gruppi sociali mutati nel tempo anche i bisogni materiali di
conseguenza sono storicamente differenti.
Polanyi affermava che nella maggioranza delle culture, i rapporti interpersonali si basano
sul dare e l’avere e queste relazioni essendo incorporate a loro volta da una vasta rete sociale
e politica, non sempre consentono di massimizzare i propri vantaggi economici in queste
relazioni.
Infatti nelle società antiche, l’economia si centrava nelle relazioni tra uomo e natura, uomo e
uomo mostrano tratti di un’economia sostanziale piuttosto che formale, essendo che si basa
nei rapporti sociali con fenomeni come la reciprocità.
Partendo da questo excursus, possiamo quindi definire l’economia nel suo complesso, come
un sistema sociale di produzione, scambio, distribuzione e consumo di merci e servizi in un
paese.
Essendo che essa è il risultato finale che racchiude vari fattori: l’organizzazione sociale, la
storia, lo sviluppo tecnologico, le risorse e la sostenibilità ecologica. Questi fattori creano il
contesto che regola le circostanze e i parametri entro cui un’economia funziona.
Questo si avvicina molto al fatto che nell’agire economico ci sia un approccio sociologico,
essendo che l’azione economica è pur sempre un’azione sociale e il contesto, in questo caso
istituzionale, incide molto sul modo in cui l’azione si forma, si produce con le conseguenti
interazioni.
In economia, tra l’altro, è molto importante definire cosa sia un bene economico.
I fisiocratici lo definivano tale in relazione alla possibilità di essere scambiato, la scuola
austriaca invece lo riteneva tale in base alla sua scarsità mentre Marshall affermava che i
beni economici sono solo quelli che si possono valutare mediante moneta.
I beni, come sappiamo, possono essere scambiati e questo è sicuramente una forma di
integrazione dell’economia nella società. Nello specifico queste forme di integrazioni sono
tre:
1) Abbiamo lo scambio di mercato basato su scambi impersonali regolati da una
equivalenza numerica determinata dalla moneta.
2) C’è poi la reciprocità che invece si riferisce a tutti quegli scambi non mediati da
vincoli extra economici come la moneta.
3) E in ultimo abbiamo la redistribuzione che si genera da un centro politico che
raccoglie delle risorse per poi ridistribuirle secondo specifici criteri tra i membri di
una collettività.
Ritornando alla reciprocità, quando essa prevale i beni e i servizi vengono scambiati sulla
base di aspettative di ricevere altri beni o servizi secondo modalità e tempi fissati da norme
sociali condivise tutelate da istituzioni che sanzionano coloro che non le rispettano.
La reciprocità opera su e dentro legami particolari (a differenza del mercato o dello stato
che tendono a costruire transazioni universali e impersonali).
La reciprocità, in ogni caso, può essere una reciprocità generalizzata in cui non ci sono
vincoli di restituzione o di tempo. E una reciprocità bilanciata in cui la restituzione è di
valore equivalente, definendo dei tempi.
In entrambi i tipi di reciprocità lo scambio ha una forte connotazione di appartenenza al
gruppo che rafforza il legame sociale. Il non rispetto delle regole ricade sia sul trasgressore
che sul suo gruppo di appartenenza.
Oggigiorno la reciprocità non è la forma di integrazione economica dominante ma
sopravvive sia negli scambi familiari in cui la reciprocità si riproduce secondo logiche non
mercantile e anche tra estranei come nel caso di donazioni e volontariato.
Gli effetti della reciprocità porta con sé due fenomeni di un elevato valore sociale:
- la creazione di fiducia: dono e reciprocità creano fiducia.
- il conseguimento del prestigio: dono occasione per affermare il proprio
potere/integrità morale.
In conclusione quindi, l’economia moderna gira intorno al mercato che è l’elemento portante
del sistema di produzione, distribuzione e consumo ma non dimentichiamo che economia
e mercato non coincidono, in quanto reciprocità e redistribuzione continuano ad avere
logiche distinte che rispondono a bisogni diversi. Esse svolgono il ruolo di contrastare o
equilibrare le spinte desocializzanti e atomizzanti insite nello scambio di mercato.
Da molto che quando parliamo di mercato ci viene in mente Adam Smith, fondatore
dell’economia politica, con la sua mano invisibile in cui descrive il funzionamento del
mercato.
Egli sosteneva che il mercato come una specie di mano invisibile è capace di combinare una
miriade di singoli scambi, ognuno motivato da un interesse particolare, in un effetto che di
complessivo ha la regolazione dell’economia che nessun attore pensava potesse esserci.
Questo è possibile essendo che il mercato è basato su rapporti basati sull’interesse reciproco
ed è in grado di ricondurre le spinte egoistiche ad un vantaggio collettivo, senza una
disposizione di reciproca benevolenza.
Lo sviluppo dell’economia di mercato ha portato alla più grande crescita di benessere della
storia dell’uomo per i beni che dispone, per l’innalzamento dell’età media e dello sviluppo
tecnologico.
Ma parallelamente nascono dei problemi di equità essendo che come sosteneva Polanyi la
società nell'economia di mercato è destabilizzata essendo che la sua azione tende a
disgregare le forme della socialità. La mercificazione tende infatti a produrre come detto
prima degli effetti desocializzanti (crisi ambientali, monetarie, disoccupazione).
E ciclicamente queste crisi provocano reazioni di autodifese come le misure
protezionistiche o la regolazione del credito.
Ci sono però anche forme di concorrenza imperfetta che ne consegue il fallimento del
mercato e questo succede in economia per i mercati che non organizzano la produzione in
maniera efficiente o non allocano beni e servizi in modo efficiente.
Ovviamente una concorrenza imperfetta limita appunto le capacità del mercato di allocare le
risorse.
Questo porta situazioni come un eccesso di potere da parte di un attore dal lato della
domanda o dell’offerta che abbia influenza sui prezzi o le quantità offerte (monopolio o
monopsonio).
Oppure il mercato in caso di esternalità negative/positive non valuta i costi o i benefici
nascosti di un’attività su terzi non contraenti.
Un altro caso di concorrenza imperfetta può riguardare i beni pubblici, come la giustizia o
la difesa, che il mercato non tende a soddisfare. Abbiamo poi la presenza di asimmetrie
informative o di incertezza. L’inequità distributiva o le crisi cicliche.
Tra Stato e mercato c’è un legame in cui possiamo ritrovare due estremi ideali:
- Il polo di puro mercato basato su un'economia del laissez-faire in cui l’intervento
dello stato è limitato al minimo e riguarda le condizioni generali.
- Il polo dell’economia pianificata invece è come ad esempio l’economia socialista
basata sulla proprietà statale dei mezzi di produzione e sulla destinazione delle
risorse tramite decisioni politiche e amministrative.
Il mercato se lasciato a se stesso non raggiunge una piena efficienza ed è incapace di risolvere
problemi di equità, relativi ad evidenti disparità nella ripartizione dei costi e dei vantaggi
economici.
Lo Stato può infatti intervenire con delle politiche economiche, soprattutto in situazioni
in cui non vi è un pieno impiego dei fattori della produzione come il lavoro (politiche
keynesiane).
Lo Stato interviene secondo il principio di redistribuzione, partendo dall’idea che ci
sono persone che non sono in grado di comprare dal mercato, i beni e i servizi di cui hanno
bisogno.
L’economia come ogni disciplina ha degli esponenti, uno tra essi è John Keynes il quale
fece delle ricerche rivoluzionarie in campo economico prendendo le situazioni del tempo
della grave crisi degli anni ‘30 e della disoccupazione di massa che ne conseguì.
La disoccupazione di massa per Keynes era la dimostrazione che il mercato non
garantiva la piena utilizzazione dei fattori di produzione e che quando il fattore
sottoutilizzato è il lavoro le conseguenze sociali sono dirompenti.
Keynes riteneva che il mercato può raggiungere delle condizioni di equilibrio anche senza un
pieno utilizzo dei fattori di produzione, in particolare il lavoro.
Egli individua nella domanda effettiva dei beni e servizi, l’aggregato che può determinare
una ripresa degli investimenti e quindi della disoccupazione.
Lo Stato secondo Keynes può intervenire a sostegno della domanda aggregata anche
finanziando in deficit la spesa pubblica.
A lui dobbiamo quindi l’approccio macroeconomico. La macroeconomia studia il
comportamento economico a livello aggregato quindi di una regione, una nazione o
globale.
In particolare essa si occupa della struttura e della performance di un aggregato e si
differenzia dalla microeconomia che studia il comportamento dei singoli operatori sul
mercato.
La macroeconomia prende in considerazione delle grandezze, dei mezzi di misurazione
come:
PIL, consumi, investimenti, risparmi, domanda e offerta aggregate, tasso di disoccupazione,
moneta e politica monetaria, commercio internazionale.
PIL: è il prodotto interno lordo ossia il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali
prodotti in un paese in un dato periodo di tempo. Viene definito interno essendo che prende
in considerazione il valore prodotto all’interno dei confini, anche da imprese di altri paesi.
Lordo invece, nel senso che non vengono calcolati gli ammortamenti.
Il PIL nasce come soluzione per misurare il valore della produzione di una nazione.
Questa problematica si pone con la crisi degli anni ‘30, ove nacque la necessità di capire
quanto l’attività economica si era contratta e quanto e con che ritmo si stesse risollevando.
La sua prima formulazione avviene con Kuznets, per conto del Congresso Americano del
1937.
Fu poi nel 1944 che il PIL venne adottato dal Fondo monetario internazionale e dalla
Banca Mondiale.
Il Pil si calcola con tre metodi: quello della spesa (in cui si sommano tutti i consumi,
investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette), quello del valore aggiunto (sommando il
valore aggiunto di tutti beni e servizi) e quello dei redditi (sommando tutte le retribuzioni e i
redditi da capitale). Ogni metodo porta allo stesso risultato.
Ciò che sicuramente il Pil non calcola è la produzione non scambiata sul mercato e il lavoro
domestico.
Anyway, i modelli capitalistici influenzano tanto l’orientamento delle imprese soprattutto nel
modo in cui coordinano i problemi come le relazioni industriali, l’istruzione e la formazione,
le relazione interne ed esterne.
Ci sono due modelli capitalistici: quello anglosassone in cui vigono economie di libero
mercato che mirano ad innovazioni radicali e quello renano in cui le economie di mercato
sono coordinate e mirano ad innovazioni incrementate.
Nelle economie di libero mercato le imprese coordinano le proprie attività su basi
gerarchiche (mercati competitivi) e le relazioni sono regolamentate da contratti formali con
conseguenti diritti ed obblighi (Stati Uniti e Uk).
Questo modello lo ritroviamo nelle grandi imprese in cui vige una bassa sindacalizzazione e
un modello di rischio exit, distribuito su più imprese. Il ruolo dello stato è limitato e si basa
sull’assicurare i diritti di proprietà e i beni pubblici essenziali. Questo modello spinge verso
l’innovazione.
Mentre nelle economie di mercato coordinato le imprese gestiscono le loro relazioni su
accordi incompleti, più basati su comportamenti collaborativi basati su relazioni di lungo
periodo quindi negoziazione (Germania, Svezia e Giappone).
C’è presenza di sindacati forti, di rapporti collaborativi con altre aziende e la maggioranza del
capitale è concentrata tra pochi soggetti. Il modello di rischio è voice and loyality.
Lo Stato invece, supporta e facilita il coordinamento attraverso politiche economiche,
industriali e del mercato di lavoro. Questo modello spinge verso innovazioni incrementali e
sviluppo della manifattura.
Nello specifico questi regimi mirano a due tipi differenti di innovazione.
L’innovazione radicale (fast tech) è un tipo di innovazione basata su investimenti ad
elevato grado di incertezza e potenziale innovativo.
E’ un tipo di innovazione che ritroviamo nelle economie liberali del mondo anglosassone in
cui tutto si basa sul breve periodo: relazioni industriali, finanziamenti, rapporti di mercato e
strategie manageriali. I capitali possono essere definiti impazienti e sensibili alle
speculazioni.
L’innovazione incrementale (slow tech), invece è un’innovazione graduale che
comporta piccoli miglioramenti ai processi produttivi e ai prodotti.
Tutto è una accumulazione progressiva di competenze e di risultati. La ritroviamo nelle
economie coordinate in cui le relazioni industriali sono collaborative, la forza lavorato ben
compatta e tutelata. Tutto si basa sul lungo periodo: rapporti interni, esterni, strategie,
capitale e finanziamenti.
Poi c’è il lavoro secondo una visione formale dell'economia, esso è inteso come una
qualsiasi attività che produce reddito monetario (salari o stipendi).
Il mercato del lavoro indica tutti quei meccanismi che regolano l’incontro tra i posti di lavoro
vacanti e le persone in cerca di occupazione. Il lavoro non è però una merce come le altre,
essendo che esso è inscindibile dalla persona che lo fornisce, la relazione tra venditori e
compratori non è di mero scambio, il rapporto tra loro è asimmetrico, il prezzo cioè il salario
non svolge una funzione di equilibrio del mercato.
Mentre nella visione sostanziale dell’economia, il lavoro è inteso come ogni attività che
trasforma risorse materiali in beni e servizi per la sussistenza dell’uomo (attività di cura,
autoconsumo, lavoro domestico).
C’è anche una differenza importante tra occupazione (lavoro retribuito in un dato
periodo/momento) e professione (attività per ricavare reddito, al di là dell'essere occupati
o disoccupati).
In ogni caso ormai c’è una relazione asimmetrica, squilibrata tra lavoro ed impresa essendo
che in primis gli imprenditori possono anche evitare di acquistare forza lavoro e vivere del
proprio capitolo, al contrario dei lavoratori che sono solo formalmente liberi di vendere la
propria forza lavoro poiché senza non possono sopravvivere.
Inoltre coloro che acquistano forza lavoro possono nel tempo, con l’innovazione tecnologica,
cambiare i requisiti e spostarsi territorialmente rispetto a chi offre lavoro.
Gli indicatori del mercato del lavoro nascono per poter analizzare il mercato del lavoro
e la popolazione viene suddivisa dall’Istat in:
-popolazione attiva ossia la forza lavoro, persone occupate o in cerca di occupazione;
-occupati sono tutti coloro dai 15 anni in su che hanno svolto almeno un’ora di lavoro
retribuito o non retribuito in una ditta familiare dove collaborano abitualmente;
-in cerca di occupazione sono persone tra i 15 e i 74 anni che nei 30 giorni prima di essere
intervistati hanno cercato lavoro e che sono 15 giorni dopo l’intervista intenzionati a
lavorare.
Anyway per analizzare il mercato del lavoro la popolazione totale viene classificata in
popolazione attiva (occupate svolto almeno un’ora di lavoro e in cerca svolto almeno
un’azione attiva) e popolazione non attiva (pensionati, casalinghe, studenti).
Gli indicatori a disposizione sono tre: tasso di attività ossia il rapporto tra le forze di lavoro
e la popolazione residente; tasso di occupazione rapporto tra occupati e popolazione;
tasso di disoccupazione rapporto tra disoccupati in cerca di lavoro e forze di lavoro;
A tutela dei lavoratori, nacque il sindacato che è appunto un’associazione di lavoratori che
si unirono per tutelare i propri interessi professionali. Queste organizzazioni agiscono nei
confronti dei datori di lavoro che sono a loro volta rappresentati da organizzazioni.
Ritroviamo sindacati associativi che rappresentano e contratto solo per gli iscritti e
sindacati di classe che sono a rappresentanza estesa, rappresentano tutti.
Le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro stipulano accordi relativi a salari e
condizioni di lavoro e creano delle relazioni industriali.
Quando queste relazioni industriali si allargano al governo si creano delle concertazioni
triangolari con conseguenti forme di regolazione neocorporativista.
A parte i tempi moderni, possiamo fare anche un excursus su come prima si organizzava il
lavoro come ad esempio nell’800.
Nell’ottocento vediamo la prevalenza di un’azienda di tipo familiare, lavori artigianali o a
cottimo prettamente a domicilio e l’organizzazione era di base gerarchica divisa poi in
squadre di lavoro.
Le fabbriche erano il luogo di accentramento della produzione e nacquero dal passaggio ad
un fenomeno di sradicamento sociale dei lavoratori dalle campagne alle città e poi alla
trasformazione in manodopera qualificata da impiegare nell’industria.
La fabbrica si sviluppa anche in convergenza con i vincoli tecnici come l’energia meccanica
della macchina a vapore.
Il possesso del mestiere, all’epoca, rappresentava un principio di autorità nella gerarchia
del lavoro e uno strumento di controllo sociale della fabbrica.
L’autorità nasceva da una conoscenza dell’organizzazione del lavoro, un’esecuzione precisa
sulle mansioni specializzate, abilità di contrastare le difficoltà, senso di disciplina.
Nel tempo ci si è resi conto, soprattutto Smith, che razionalizzare la produzione aveva i suoi
vantaggi soprattutto perché scomporlo permetteva un aumento di produttività.
L’esempio clou è la fabbrica si spilli, praticamente Smith immagina nel dettaglio le fasi in cui
può essere frammentata la fabbricazione di uno spillo dall’operaio che trafila il metallo agli
spilli lucidati ed avvolti nella carta per essere venduti. Egli si rese conto che ci vollero 18
operazioni per fabbricarlo.
Questa rivoluzione nell’industria manifatturiera è dovuta a tre fattori: all’abilità
dell’operaio di ripetere i gesti in modo continuativo, migliorando prestazione e tempo, al
tempo risparmiato che si perde per passare da un’attività all’altra, all’invenzione di
macchine per uno specifico processo lavorativo.
Ma la produzione alla fine cosa è? La produzione è il rapporto tra gli input (lavoro,
capitale, energia) e la produzione. La produttività di un impianto si può misurare con le
unità di tempo (oraria, giornaliero).
La produttività del lavoro è la produzione complessiva diviso il numero delle unità
lavorative.
Taylorismo
Il taylorismo nasce dall’ingegnere Taylor, il quale attraverso l’osservazione del lavoro ideò
un’organizzazione scientifica del lavoro. Questo avvenne in piena seconda rivoluzione
industriale (19esimo secolo) in cui le aziende avevano lo scopo di sfruttare al massimo i
macchinari e recuperare gli ingenti investimenti realizzati nell’acquisto degli stessi. Per cui
essi puntavano tutto sul processo produttivo e sulle modalità di svolgimento del lavoro degli
operai.
Gli imprenditori quindi iniziarono a porre la loro attenzione sugli studi sull’organizzazione
del lavoro.
Taylor fu figura di spicco, in quanto attraverso l’osservazione dei processi industriali,
formulò il principio della catena di montaggio.
Il nucleo del taylorismo è la scomposizione di ogni processo produttivo in semplici
operazioni: ogni mansione è scomposta in azioni lavorative elementari. Questo permise
anche di comprendere il tempo da dedicare ad ogni azione semplice.
Taylor era convinto che la ripetitività e la semplicità dell’azione permettessero ad un
lavoratore, anche non qualificato, di raggiungere livelli di specializzazione tali da consentirgli
la massima efficienza. Taylor pose le basi della catena di montaggio dove ogni lavoratore
riusciva ad eseguire lo stesso compito un’infinità di volte senza fare errori.
Gli imprenditori seguirono il suo metodo, assunsero operai poco specializzati affidando loro
compiti poco specializzati, semplici e altamente ripetitivi. Questo permise di risparmiare
sui costi (salari inferiori) e di tempo.
Per cui il taylorismo si basava su:
● Selezione scientifica dei lavoratori;
● Separazione tra lavoro operaio e direzione d’impresa;
● Razionalizzazione tecnologica della produzione: il processo lavorativo viene
scomposto, regolamentato e ricomposto in modo da accelerare il processo produttivo
+;
● Parcellizzazione del lavoro;
● Incorporazione di conoscenze professionali dei lavoratori;
Fordismo
Fu poi negli anni ‘10 con Ford che ritroviamo una piena applicazione del metodo taylorista.
Ford infatti, introdusse la catena di montaggio nella sua fabbrica che avviò una forte
espansione negli Stati Uniti al mondo, che permise di produrre su larga scala una serie di
prodotti standardizzati (produzione di massa).
I capisaldi del fordismo erano appunto l’organizzazione taylorista accompagnata da una
spinta di automazione (sistemi di controllo per gestire macchine e processi, riducendo
l'intervento umano).
La catena di montaggio si basava su un pezzo che si muove e gli operai che stanno fermi che
ci lavorano mentre si spostano. La catena di montaggio permise una parcellizzazione del
lavoro che rendeva le mansioni molto più semplice e ciò permise di allargare le possibilità
lavorative.
La parcellizzazione permetteva di ridurre costi di produzione e soprattutto i tempi.
La produzione di massa permise una presenza di elevati volumi produttivi,
standardizzazione dei prodotti e riduzione dei prezzi.
Alla fine del 19esimo secolo le operazioni e la transazione delle aziende si internalizzano,
essendo che i meccanismi regolatori basati sul mercato, fin allora utilizzati, non sembravano
capaci di assicurare le economie di scala necessarie per far crescere il flusso di prodotto.
Per cui il coordinamento manageriale dato dalla mano invisibile consentiva all’impresa di
raggiungere a pieno le proprie potenzialità produttive e ciò permise lo sviluppo delle
burocrazie aziendali.
Rispetto al taylorismo, il fordismo è una versione migliorata del taylorismo, in quanto parte
dalle critiche a quest’ultimo prendendo atto che i livelli di produttività aumentano attraverso
incentivi materiali e l'aumento dei salari ai lavoratori.
Il fordismo permette quindi ai lavoratori di diventare anch’essi consumatori degli stessi
prodotti.
La differenza sostanziale tra taylorismo e fordismo è che il fordismo risulta essere più
concreto ed applicabile rispetto a quello che sembrava essere solo un metodo scientifico.
Il fordismo tra l’altro, è un termine che varia da paese in paese, infatti negli Stati Uniti è
una filosofia sociale che sostiene che ricchezze e profitto possono essere raggiunti con alti
salari che permettono ai lavoratori di acquistare i beni che hanno prodotto. Viene quindi
considerato al modello dell’attività economica detto divisione spaziale del lavoro in cui
vi è appunto una separazione spaziale tra il luogo di sviluppo del prodotto e i centri di
montaggio standard di un prodotto. Il fordismo nato dopo l’inizio della Grande depressione
veniva visto come un modo per risolvere quella crisi ed è un modello che durò dagli anni
sessanta agli anni settanta.
Quando poi ci fu l’invasione di pensatori, consumatori e disegnatori possiamo parlare di
post fordismo.
Mentre nell’Europa occidentale, il fordismo, secondo Gramsci, intensificava il lavoro per
promuovere la produzione. Alcuni marxisti invece elaborarono il post fordismo e ci fu
proprio una linea temporale dal culmine che raggiunse il fordismo successivamente alla
seconda guerra mondiale fino al suo crollo negli anni 70, con le crisi politiche e culturali.
Negli anni 90 poi si entrò nella fase neoliberale della globalizzazione e il fordismo venne
duramente criticato per l’inegualità economica che si scontrava con le idee di democrazia.
Ci furono altri marxisti che invece pensavano al fordismo come un regime di
accumulazione o modello macroeconomico, che parte dall’assunto per cui i ROAs
sono periodi di crescita economica costante, che entrano in crisi e crollano quando il
capitalismo cerca di ripristinarsi. In questi periodi sono i MOR ad intervenire per stabilizzare
con una serie di provvedimenti per assicurare un profitto capitalista a lungo termine.
Toyotismo
Consumo
Internet e digitale
La tecnologia non determina la società ma la incarna, così come la società non definisce la
tecnologia ma ne determina i modi d’uso.
Sono molti i fattori che intervengono nel processo di scoperta scientifica, innovazione
sociale e nella sua applicazione.
Lo Stato, ad esempio, incide attraverso investimenti di lungo periodo sul processo di
modernizzazione tecnologica.
La concorrenza, il capitalismo e il meccanismo di profitto ha contribuito a cercare
sbocchi di mercato per le innovazioni.
Possiamo quindi affermare che latecnologia rappresenta la capacità della società di
trasformare se stessa.
L’innovazione tra l’altro non è mai un fenomeno isolato in quanto:
- riflette un dato stato della conoscenza;
- un ambiente istituzionale e industriale particolare
- un certo tipo di competenze e di mentalità economica;
- una rete di produttori/utenti in grado di comunicare le proprie esperienze,
imparando facendo e usando.
Alla base dello sviluppo del network ci sono dei processi di tipo:
● economico: questo processo nacque dall’emergere del bisogno di flessibilità e
globalizzazione del capitale, della produzione e commercio.
● sociale: nacque dall’affermarsi dei valori di libertà individuale e della
comunicazione aperta.
● tecnologico: lo sviluppo della microelettronica che ha accresciuto le prestazioni dei
computer e delle telecomunicazioni.
Economie di rete
Abbiamo poi dei mercati a due versanti che sono quelli in cui una piattaforma mette in
relazione due gruppi distinti di utenti in cui si creano economie di rete (carte di
credito, consolle).
Parliamo quindi di applicazioni gestite da imprese che vendono due prodotti diversi a due
gruppi distinti mettendolo in comunicazione come Amazon, Netflix, Facebook etc.
La piattaforma quindi si configura come un mercato nel senso di marketplace, in questo
senso possiamo trovare anche giornali e televisione che possono essere considerate come
piattaforme su cui si incontrano inserzionisti e potenziali consumatori.
Le economie dirette che si creano nei mercati a due versanti possono essere dirette ed
indirette.
Le economie di rete dirette sono quelle in cui l’aumento di partecipanti genera un
vantaggio per gli altri che sono dallo stesso lato (ad esempio quando ci sono altri con cui
giocare con la nuova Playstation) same side effect.
Le economie di rete indirette invece sono quelle in cui l’aumento dei partecipanti genera
un vantaggio per quelli che sono dall’altro lato (ad esempio quando più negozi accettano la
mia carta di credito) cross side effect.
Le piattaforme però presentano alcune criticità come:
Il pricing è legato al costo per aderire ad una piattaforma, le piattaforme stabiliscono i
prezzi per incentivare la partecipazione, questo porta da un lato a far sussidiare una parte dei
clienti, o far pagare solo un lato.
L’egg chicken problem è invece legato alla problematica di raggiungere la massa e quindi
di rendere il più possibile allettante l’ingresso per gli utenti, dapprima che gli effetti di rete si
sviluppano.
Il multihoming invece, è il problema che sorge quando ci sono più piattaforme che offrono
servizi concorrenziali. Se i costi di adesione sono bassi gli utenti sono spinti ad aderire a più
piattaforme ma se i costi di sottoscrizione sono elevati si può creare un effetto di
concentrazione del mercato, a svantaggio del consumatore.
L’effetto lock-in è quell’effetto che si produce quando un consumatore dipende da un
fornitore per ottenere beni o servizi e non può cambiarlo se non incorrendo a dei costi
aggiuntivi definiti costi di transizione (switching cost).
L’effetto lock-in è uno strumento potente di fedeltà dei consumatori, rende stabile il
flusso dei ricavi anche se favorisce situazioni monopolistiche creando barriere
all’ingresso.
Un esempio di lock-in è Ms Office quando produce file che non sono perfettamente
esportabili in altri formati (brevetti, crittografia etc).
I vincoli possono essere anche fisici come nel caso di Apple che utilizza viti particolari per
controllare il mercato della riparazione.
Uno dei modi per rompere il vincolo è passare a forme di noleggio-leasing.
Ci sono vari tipi di piattaforme digitali:
● piattaforme di advertising (Google): che acquisiscono informazioni dagli utenti,
lavoro di analisi e usano un prodotto per vedere spazi pubblicitari come Google o
Facebook.
● piattaforme cloud (Amazon): posseggono hardware e software di aziende che
dipendono dal digitale e che li affittano secondo bisogno come Amazon Web Service.
● piattaforme industriali (General Electric) : costruiscono hardware e software
necessari per trasformare la produzione di tipo tradizionale in processi connessi a
Internet che diminuiscono i costi di produzione e trasformano beni in servizi come la
General Electric.
● piattaforme prodotto (Spotify): generano ricavi utilizzando altre piattaforme per
trasformare un bene tradizionale in un servizio e incassando un canone o una quota
di abbonamento come Spotify.
● piattaforme lean (Uber): creano profitto riducendo i costi il più possibile,
riducendo la proprietà di attività al minimo come Uber.
La partecipazione diretta alla produzione dei contenuti della rete (prosumer), è come
detto prima, quando ognuno può contribuire alla produzione della rete con materiali
multimediali auto-prodotti che condivide, sfruttando apposite piattaforme come Facebook,
Instagram, Youtube etc.
La collaborazione nella produzione dei contenuti della rete, invece, è quando ognuno può
collaborare con altri utenti nella produzione di materiali manipolando varie informazioni
disponibili come Wikipedia.
Nel coordinamento la somma delle azioni individuali, produce seppur inconsapevolmente,
un ambiente informazionale nuovo e più ricco.
La cooperazione si basa su tempi quasi istantanei, su una comunicazione a costo 0, il
trattamento dell’informazione più automatico e quindi il costo del coordinamento
scende di molto.
Tutto ciò rende più semplice sia l’organizzazione sia il coordinamento di impegni collettivi
come flash mob, crowdfunding o sourcing.
La produzione di conoscenza in rete, produzione orizzontale, si basa su degli input
legati alle informazioni culturali già esistenti che hanno costo 0, su mezzi tecnologici che
hanno prezzi ridotti e sulla capacità umana di comunicare che è un fattore di produzione che
non può essere trasferito.
Ritroviamo quindi la commons based peer production in cui ritroviamo forme di
produzione in rete sempre più basate su imprese cooperative che condividono liberamente
input ed output del processo in modo eguale.
Mentre l’access economy è il modello che sta emergendo nelle imprese collaborative con
produzione orizzontale, che ad oggi si stanno sovrapponendo.
La sharing economy è l’economia della condivisione, che è andata ad affermarsi negli
ultimi decenni, il primo esempio fattibile è e-Bay.
La logica della condivisione si è allargata anche agli asset materiali come la mobilità,
l’alimentazione etc. Il costo basso di coordinamento permette di aggregare e distribuire
consistenti quantità di domanda.
Ritroviamo molteplici attività organizzate orizzontalmente come:
● sharing economy (economia della condivisione): è un modello basato sulla
condivisione di beni sottoutilizzati (capacità, spazio, beni materiali) in cambio di
un ritorno monetario o non. Si basa su mercati orizzontali.
● peer economy (economia paritaria):
● collaborative consumption (consumo collaborativo): è un modello basato sulla
condivisione, lo scambio o l’affitto di prodotti e servizi che abilitano l’accesso.
Ritroviamo mercati di redistribuzione di cose che non si usano più, trasformare beni
in servizi in cui si paga un bene per accederci e non per possederlo.
● collaborative economy (economia collaborativa): è un economia basata su reti
distribuite di individui e comunità connessi che cambiano il modo in cui
possiamo produrre, consumare, finanziare ed imparare che si differenzia dalle
istituzioni economiche centralizzate. Ritroviamo produzione, consumo, finanza,
educazione.
Esempi:
-produzione orizzontale basata sui beni comuni è il software open source che è un
approccio alla programmazione che si basa sulla condivisione dello sforzo all’interno di un
modello non proprietario.
-produzione basata sulla logica di cooperazione e condivisione è Wikipedia che prevede
una piattaforma che prevede la condivisione dei saperi e la cooperazione nella produzione di
conoscenza da parte di qualsiasi utente Internet, servizio fruibile gratuitamente dai
prosumer.
-produzione basata sulla logica di coesistenza coordinata è Google basato sull’algoritmo
PageRank e un meccanismo di coordinamento di sforzi che produce nuova informazione che
viene poi offerta gratuitamente (inserzioni e dati non proprio gratis) ai propri utenti. Questa
forma di produzione si basa sull’azione di molti attori che non è orientata intenzionalmente a
produrre quelle informazioni.
Nel processo di digitalizzazione negli ultimi tempi, alcuni settori si sono più intensamente
inoltrati e sono emersi specifici lavori e forme di occupazione che costituiscono ambiti di
attività, più connessi alle innovazioni, ai cambiamenti dei mercati e alle trasformazioni
nell’organizzazione d’impresa.
Per digital labor intendiamo lo specifico compito realizzato attraverso la mediazione di una
piattaforma digitale e la riduzione di tutte le nostre connessioni digitali ai rapporti di
produzione. Le piattaforme estraggono valore da tutte le interazioni sociali che si realizzano
all’interno dell’uso digitale.
Il lavoro digitale riguarda anche le attività che sono prodotte in maniera spontanea e
gratuita dagli utenti della rete, che non sono remunerati e che vengono sfruttate
nell’economia della rete in quanto producono contenuti, dati e metadati di utilizzo delle
applicazioni che sono necessari e preziosi per il funzionamento delle piattaforme digitali e
dell’intelligenza artificiale.
Oltre la profezia che vede la fine del lavoro umano ad impatto con le macchine, in realtà
nell’automazione c’è sempre del lavoro umano.
Le piattaforme digitali e l’intelligenza artificiale comportano una trasformazione
quantitativa e qualitativa del lavoro, possiamo infatti parlare di invisibilizzazione del
lavoro ossia dei fornitori, imprenditori, utenti.
Le piattaforme digitali si propongono di spingere gli uomini a fare un lavoro di produzione
delle informazioni necessarie al funzionamento degli algoritmi delle piattaforme.
Il lavoro informazionale si scompone in micro attività di produzione e trattamento dati, in
cui le intelligenze artificiali si addestrano.
Le implicazioni sono la distruzione dei mestieri, creazioni di mansioni dequalificate di
digital labor per effetto di parcellizzazione e standardizzazione dei processi di produzione
informazionali.
Il valore del digital labor si suddivide in:
1. valore di qualificazione che riguarda l’organizzazione dei flussi informazionali;
2. valore di monetizzazione che riguarda la mercificazione di contenuti e dati;
3. valore di automatizzazione che riguarda il contributo fornito allo sviluppo
dell’intelligenza artificiale.
Una tipologia di digital labor è quella on demand ossia di servizi su richiesta come Uber
che hanno alla base produzione di servizi alla persona.
C’è poi il mini work che è il lavoro attraverso le piattaforme di micro lavoro come Amazon
Turk che riguarda la produzione e gestione di info.
Infine il networked labor che è il lavoro attraverso le piattaforme sociali come i social
network del tipo Facebook o Snapchat che si fondano sulla commercializzazione delle
relazioni sociali in quanto tali.
Le implicazioni sono anche quelle che ci sono delle info aziendali diffuse secondo logiche di
marketing, le statistiche sono inadeguate.
All'emergere di questo digital labor ritroviamo due visioni divergenti: una legata alla
capacitazione che vede appunto l’emergere di una nuova classe virtuale e una visione
legata all’ipersfruttamento che vede una creazione di un proletariato digitale.
Ci sono infatti mobilitazioni sindacali, regolazione del funzionamento delle piattaforme etc.
Il divario digitale
Il divario digitale è un fenomeno multidimensionale che riguarda le disuguaglianze
nell’accesso e nell’uso di nuove tecnologie, in particolare Internet.
Lo studio del divario è importante sia in termini di equità sociale che di efficienza
economica, tra aree territoriali e individui.
Nella sua prima definizione del 1999, il digital divide era inteso come il divario tra coloro che
potevano accedere alle nuove tecnologie e chi non (visione basata sull’accesso).
L’espressione di digital divide si riferisce ad una costellazione di differenze di tipo sociale,
economico e tecnologico. Per cui oltre l’accesso, il divario si esprime in termini di
disuguaglianza legata all’individuo e al contesto come la qualità dei mezzi tecnici, la
disponibilità delle info, la capacità d’uso delle tecnologie.
Secondo i teorici delle disuguaglianze digitali, il divario digitale riguarda le diverse
capacità dei singoli di usare efficacemente i nuovi mezzi di informazione e
comunicazione, in particolare Internet. Acquistano quindi rilevanza le modalità
individuali di utilizzo di Internet e non il semplice accesso.
Il divario digitale si può considerare come un continuum lungo il quale ritroviamo da un
lato la mera esclusione dall’accesso, alla dotazione di strumenti di ultima generazione fino ad
arrivare ad un uso pieno e consapevole dei mezzi.
Ci sono 5 indicatori di disuguaglianza di uso:
1) qualità mezzi tecnici;
2) competenze digitali;
3) sostegno reti sociali;
4) autonomia di uso;
5) varietà di uso;
Come sappiamo, l’introduzione di Internet sostiene e privilegia chi occupa posizioni sociali
più elevate, favorendo le disparità, per cui si ipotizza la nascita di nuovi gap di conoscenza
specifici di Internet e un'élite di informazione.
In questa élite gli individui con posizione privilegiata sono i primi a prendere consapevolezza
dei vantaggi di Internet, sono i primi a sostenere dei costi, hanno un bagaglio educativo e
culturale tale che elaborano le informazioni in modo efficace ed ottengono un ritorno
maggiore in termini di conoscenza.
I due punti di vista sul divario digitale sono il divario globale in cui l’ottica è macro sociale
e ci si sofferma appunto sulle diseguaglianze nell’accesso alla rete tra le aree geografiche tra i
diversi paesi; E il divario sociale che applica un aspetto micro-sociale che pone attenzione
alle disuguaglianze nell’accesso e uso di Internet, tra individui e famiglie, all’interno di
diversi contesti istituzionali.
Il divario digitale si ricollega molto allo sviluppo economico e ai livelli di ricchezza di un
paese, ossia si associa all’utilizzo di Internet.
I fattori istituzionali che influenzano la diffusione di Internet sono di contesto
(regolazione mercati/Internet e disponibilità di infrastrutture di rete), culturali (livelli di
istruzione, capitale umano, atteggiamento vs tecnologie, precedenti storici nella diffusione
dei media) ed economici (costo accesso alla rete, investimenti). Infatti collegato a
quest’ultimo i paesi con livelli più alti di accesso hanno un profilo formato da buon
investimenti nel settore educativo e digitale. I soggetti di tali paesi possono quindi accedere
alla rete, anche grazie alla presenza di host con un’ottima connettività, a costi di connessione
bassi, pur avendo un buon reddito.
Mentre il divario globale tende a ridursi sia tra aree sviluppate che non, al contrario del
divario sociale.
Si tende quindi alla formazione di una élite dell’informazione, ad una riduzione
progressiva delle disuguaglianze globali e alla crescita di quelle sociali.