Agire Economico in Rete

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Abbiamo una definizione classica di economica che guarda a diversi aspetti:

1) La prima definizione guarda all’economia come al complesso di risorse (materie


prime) e a tutte quelle attività rivolte alla loro applicazione in uno Stato, regione,
continente etc.
2) La seconda invece guarda all’impiego di denaro o qualsiasi altro mezzo limitato per
ottenere il massimo vantaggio a parità o con il minimo dispendio di sacrificio.
3) E in ultimo una definizione che guarda all’insieme delle attività umane tese alla
produzione, distribuzione, scambio e consumo di beni e servizi.

Ci sono due differenti approcci all’economia: formalista e sostanziale.

Quella formalista (definisce rapporto tra mezzi e fini) guarda all’economia nel suo fare
individuale e quindi a tutte quelle scelte individuali mirate all’impiego di risorse scarse che
vengono orientate, allocate in modo razionale e sono tese alla massimizzazione dell’utilità
individuale.
Questo approccio nasce dall’economia neoclassica-marginalista di fine 19esimo secolo, che
vede l’economia appunto come un modo di agire che coincide con il mercato e non come un
mero settore della società.
Gli attori che agiscono hanno un sistema di preferenze che viene espresso attraverso la
funzione di utilità che ha delle caratteristiche proprie. Esse sono egoistiche, atomistiche,
complete e coerenti.
Il contesto permette la circolazione di informazioni e conoscenze certe che sono
indispensabili per l’azione individuale.
Mentre per quanto riguarda l’approccio sostanziale, esso guarda all’economia come
l’insieme delle attività volte a garantire la riproduzione materiale di un dato gruppo sociale.
L’economia si definisce quindi in relazione al soddisfacimento dei bisogni materiali e ai
tramiti ossia alle istituzioni che mediano tra uomo e ambiente.
Ovviamente essendo i gruppi sociali mutati nel tempo anche i bisogni materiali di
conseguenza sono storicamente differenti.
Polanyi affermava che nella maggioranza delle culture, i rapporti interpersonali si basano
sul dare e l’avere e queste relazioni essendo incorporate a loro volta da una vasta rete sociale
e politica, non sempre consentono di massimizzare i propri vantaggi economici in queste
relazioni.
Infatti nelle società antiche, l’economia si centrava nelle relazioni tra uomo e natura, uomo e
uomo mostrano tratti di un’economia sostanziale piuttosto che formale, essendo che si basa
nei rapporti sociali con fenomeni come la reciprocità.
Partendo da questo excursus, possiamo quindi definire l’economia nel suo complesso, come
un sistema sociale di produzione, scambio, distribuzione e consumo di merci e servizi in un
paese.
Essendo che essa è il risultato finale che racchiude vari fattori: l’organizzazione sociale, la
storia, lo sviluppo tecnologico, le risorse e la sostenibilità ecologica. Questi fattori creano il
contesto che regola le circostanze e i parametri entro cui un’economia funziona.
Questo si avvicina molto al fatto che nell’agire economico ci sia un approccio sociologico,
essendo che l’azione economica è pur sempre un’azione sociale e il contesto, in questo caso
istituzionale, incide molto sul modo in cui l’azione si forma, si produce con le conseguenti
interazioni.

In economia, tra l’altro, è molto importante definire cosa sia un bene economico.
I fisiocratici lo definivano tale in relazione alla possibilità di essere scambiato, la scuola
austriaca invece lo riteneva tale in base alla sua scarsità mentre Marshall affermava che i
beni economici sono solo quelli che si possono valutare mediante moneta.
I beni, come sappiamo, possono essere scambiati e questo è sicuramente una forma di
integrazione dell’economia nella società. Nello specifico queste forme di integrazioni sono
tre:
1) Abbiamo lo scambio di mercato basato su scambi impersonali regolati da una
equivalenza numerica determinata dalla moneta.
2) C’è poi la reciprocità che invece si riferisce a tutti quegli scambi non mediati da
vincoli extra economici come la moneta.
3) E in ultimo abbiamo la redistribuzione che si genera da un centro politico che
raccoglie delle risorse per poi ridistribuirle secondo specifici criteri tra i membri di
una collettività.

La reciprocità secondo Polanyi è mutata nel tempo, ossia nell’antichità lo scambio


economico non era definito, autonomo o relegato meramente al soddisfacimento dei bisogni
materiali ma era incorporato all’interno di un fenomeno sociale totale basato su gruppi
sociali che effettuavano transazioni in un sistema di doni e contro doni.
Questo sistema era rigidamente regolamentato da convenzioni sociali e si basava su tre
imperativi: donare, accettare il dono e contraccambiare. Il prestigio del donatore accresceva
in base alla sua capacità di donare e contraccambiare.
Le transazioni nei sistemi arcaici non coinvolgevano soltanto beni materiali ma anche
matrimoni, riti, prestazioni giuridiche etc.
Tra l’altro la moneta o tutti gli oggetti che funsero da moneta erano destinati ad assolvere ad
una funzione alla volta (scambio, pagamento, valore etc). Questo ci fa comprendere appunto
che lo scambio fosse prima di tutto di tipo sociale relegate a sfere religiose, cerimoniali etc.
Nelle società moderne, invece, gli scambi di mercato possono definirsi completamente
indipendenti dalla sfera sociale. La moneta infatti assolve a tutte le funzioni in
contemporanea ossia misura del valore, mezzo di scambio, di pagamento e
tesaurizzazione.
Per cui possiamo parlare di embeddedness dell’azione economica ossia l’azione economica
è un’azione sociale che si istituzionalizza essendo svolta in un contesto istituzionale
particolare. Per comprendere al meglio la realtà economica occorre cogliere l’azione nel suo
contesto.

Ritornando alla reciprocità, quando essa prevale i beni e i servizi vengono scambiati sulla
base di aspettative di ricevere altri beni o servizi secondo modalità e tempi fissati da norme
sociali condivise tutelate da istituzioni che sanzionano coloro che non le rispettano.
La reciprocità opera su e dentro legami particolari (a differenza del mercato o dello stato
che tendono a costruire transazioni universali e impersonali).
La reciprocità, in ogni caso, può essere una reciprocità generalizzata in cui non ci sono
vincoli di restituzione o di tempo. E una reciprocità bilanciata in cui la restituzione è di
valore equivalente, definendo dei tempi.
In entrambi i tipi di reciprocità lo scambio ha una forte connotazione di appartenenza al
gruppo che rafforza il legame sociale. Il non rispetto delle regole ricade sia sul trasgressore
che sul suo gruppo di appartenenza.
Oggigiorno la reciprocità non è la forma di integrazione economica dominante ma
sopravvive sia negli scambi familiari in cui la reciprocità si riproduce secondo logiche non
mercantile e anche tra estranei come nel caso di donazioni e volontariato.

Gli effetti della reciprocità porta con sé due fenomeni di un elevato valore sociale:
- la creazione di fiducia: dono e reciprocità creano fiducia.
- il conseguimento del prestigio: dono occasione per affermare il proprio
potere/integrità morale.

Mentre per quanto riguarda la redistribuzione si genera quando un centro politico è in


grado di raccogliere delle risorse e di ridistribuirle secondo determinati criteri tra i membri
della collettività.
Un esempio importante di società con economia di redistribuzione è l’antico Egitto dove il
prodotto della terra veniva raccolto in grandi magazzini e successivamente distribuito per il
mantenimento dell’esercito e del clero.

La redistribuzione è quindi inglobata in rapporti di ordine politico tra individui


(sudditi/cittadini) e un potere centrale. Quest’ultimo stabilisce come i beni e i prodotti
devono essere allocati, trasferiti e ridistribuiti.

Nei sistemi economici contemporanei la redistribuzione ha lo Stato che ha il ruolo di


regolare le attività economiche e di far rispettare, anche con la coercizione, i meccanismi di
redistribuzione.
I meccanismi redistributivi pubblici sono le politiche fiscali (prelievi e trasferimenti
monetari), le politiche sociali (forniture di servizi sociali, sanitari come il welfare state).

In conclusione quindi, l’economia moderna gira intorno al mercato che è l’elemento portante
del sistema di produzione, distribuzione e consumo ma non dimentichiamo che economia
e mercato non coincidono, in quanto reciprocità e redistribuzione continuano ad avere
logiche distinte che rispondono a bisogni diversi. Esse svolgono il ruolo di contrastare o
equilibrare le spinte desocializzanti e atomizzanti insite nello scambio di mercato.

Parliamo quindi di mercato come meccanismo di regolazione complessivo


dell’economia (formale). Esso è l’insieme delle transazioni basato sulla formazione di
prezzi fluttuanti a seconda della domanda e dell’offerta.
Pur essendo sempre esistito, esso diviene forma dominante di regolazione a partire dal
19esimo secolo.
Quando parliamo di mercato, parliamo di formazione dei prezzi poiché il meccanismo
logico di funzionamento del mercato si basa appunto su domanda, offerta e prezzi che
afferma l’esistenza di una:
- relazione inversa tra prezzo di una merce e la quantità domandata.
- relazione diretta tra prezzo di una merce e la quantità offerta.
- punto d’incontro tra il livello della domanda e dell’offerta che genera il prezzo
d’equilibrio.

Da molto che quando parliamo di mercato ci viene in mente Adam Smith, fondatore
dell’economia politica, con la sua mano invisibile in cui descrive il funzionamento del
mercato.
Egli sosteneva che il mercato come una specie di mano invisibile è capace di combinare una
miriade di singoli scambi, ognuno motivato da un interesse particolare, in un effetto che di
complessivo ha la regolazione dell’economia che nessun attore pensava potesse esserci.
Questo è possibile essendo che il mercato è basato su rapporti basati sull’interesse reciproco
ed è in grado di ricondurre le spinte egoistiche ad un vantaggio collettivo, senza una
disposizione di reciproca benevolenza.

Storicamente, secondo Polanyi, la società di mercato nasce quando il denaro e il sistema


dei prezzi consentirono di quantificare monetariamente merce, capitale e lavoro
(con conseguente profitto, rendita e salario).
Il denaro infatti, esprime il rapporto economico tra gli oggetti in termini quantitativi,
tenendosi al di fuori dalle relazioni.
Inoltre la società di mercato nasce a seguito del superamento delle forme di economia
medievale a seguito di fenomeni come la crescita demografica, rilievo del ruolo delle città,
prime tecnologie nell’agricoltura e artigianato e alla comparsa di istituzioni come banche e
assicurazioni.
Le enclosures non solo sottrassero risorse alla sussistenza comunitaria ma costituirono un
fondamento per l’affermarsi dei diritti di proprietà della terra.

Quali sono state le conseguenze di questo tipo di economia?


In primis lo sradicamento sociale ossia lo scambio, la mercificazione tende a sradicarsi
dalle relazioni sociali, dai vincoli culturali-politici essendo basato su rapporti di convenienza
e puntualità. E l’economia di questo tipo tende ad autoregolarsi e a regolare di conseguenza
le altre istituzioni, essendo che sono le relazioni sociali sono incapsulate in quelle
economiche.

Le caratteristiche dell’economia basata sul mercato sono:


1) L’economia regolata dal mercato si basa sulla proprietà privata dei mezzi di
produzione e sul fatto che il lavoro è fornito da un compenso fissato dalle parti
attraverso un contratto;
2) L’istituzione fondamentale della produzione e del commercio è l’impresa
capitalistica, esclusivamente orientata all’attività economica e distinta dalla
famiglia.
3) L’economia si distingue dalla politica in quanto le merci non sono prodotte su
ordine dell’autorità o i prezzi non sono fissati per decreto.

Lo sviluppo dell’economia di mercato ha portato alla più grande crescita di benessere della
storia dell’uomo per i beni che dispone, per l’innalzamento dell’età media e dello sviluppo
tecnologico.
Ma parallelamente nascono dei problemi di equità essendo che come sosteneva Polanyi la
società nell'economia di mercato è destabilizzata essendo che la sua azione tende a
disgregare le forme della socialità. La mercificazione tende infatti a produrre come detto
prima degli effetti desocializzanti (crisi ambientali, monetarie, disoccupazione).
E ciclicamente queste crisi provocano reazioni di autodifese come le misure
protezionistiche o la regolazione del credito.

Collegato al mercato è il concetto di concorrenza che è perfetta quando si presentano


questi requisiti:
1. un numero sufficientemente ampio di compratori e venditori.
2. le imprese hanno una dimensione tale da non potere influenzare il prezzo.
3. un’informazione completa e simmetrica (trasparenza di mercato).
4. prodotti omogenei e sostituibili.
5. assenza di barriere all’entrata.
6. presenza di un organismo regolatore.

Ci sono però anche forme di concorrenza imperfetta che ne consegue il fallimento del
mercato e questo succede in economia per i mercati che non organizzano la produzione in
maniera efficiente o non allocano beni e servizi in modo efficiente.
Ovviamente una concorrenza imperfetta limita appunto le capacità del mercato di allocare le
risorse.
Questo porta situazioni come un eccesso di potere da parte di un attore dal lato della
domanda o dell’offerta che abbia influenza sui prezzi o le quantità offerte (monopolio o
monopsonio).
Oppure il mercato in caso di esternalità negative/positive non valuta i costi o i benefici
nascosti di un’attività su terzi non contraenti.
Un altro caso di concorrenza imperfetta può riguardare i beni pubblici, come la giustizia o
la difesa, che il mercato non tende a soddisfare. Abbiamo poi la presenza di asimmetrie
informative o di incertezza. L’inequità distributiva o le crisi cicliche.

Il mercato ha delle sue strutture che possono essere di tre tipi:


1. Il monopolio è una forma di mercato dove c’è un unico venditore che offre un
prodotto o un servizio per il quale non esistono sostituti stretti (monopolio
naturale) oppure esso opera in un ambito protetto (monopolio legale) protetto da
barriere giuridiche.
Degli esempi di monopolio sono l’esclusività sul controllo di input essenziali, le
economie di scala che laddove la curva del costo medio nel lungo periodo è
decrescente e brevetti o licenze.
2. L’oligopolio è una forma di mercato con pochi ma importanti venditori, ognuno dei
quali sa che ogni sua decisione avrà influenza sulle decisioni della concorrenza.
Le imprese in un mercato oligopolistico hanno la possibilità di prendere delle
decisioni di tipo strategico per quanto riguarda produzione o prezzi in base alle scelte
della concorrenza.
3. Il monopsonio invece è una forma di mercato in cui l’offerta è frammentata in un
numero indefinito di operatori, la domanda è concentrata in unico operatore.
In una situazione di monopsonio ritroviamo ad esempio una grande azienda
industriale che può creare un distretto di piccole aziende che la riforniscono di
componenti ma che hanno un unico e solo acquirente. Ed è proprio l’acquirente a
decidere se e in quali quantità acquistare il prodotto o servizio e fissare il prezzo.

Tra Stato e mercato c’è un legame in cui possiamo ritrovare due estremi ideali:
- Il polo di puro mercato basato su un'economia del laissez-faire in cui l’intervento
dello stato è limitato al minimo e riguarda le condizioni generali.
- Il polo dell’economia pianificata invece è come ad esempio l’economia socialista
basata sulla proprietà statale dei mezzi di produzione e sulla destinazione delle
risorse tramite decisioni politiche e amministrative.
Il mercato se lasciato a se stesso non raggiunge una piena efficienza ed è incapace di risolvere
problemi di equità, relativi ad evidenti disparità nella ripartizione dei costi e dei vantaggi
economici.
Lo Stato può infatti intervenire con delle politiche economiche, soprattutto in situazioni
in cui non vi è un pieno impiego dei fattori della produzione come il lavoro (politiche
keynesiane).
Lo Stato interviene secondo il principio di redistribuzione, partendo dall’idea che ci
sono persone che non sono in grado di comprare dal mercato, i beni e i servizi di cui hanno
bisogno.

L’economia come ogni disciplina ha degli esponenti, uno tra essi è John Keynes il quale
fece delle ricerche rivoluzionarie in campo economico prendendo le situazioni del tempo
della grave crisi degli anni ‘30 e della disoccupazione di massa che ne conseguì.
La disoccupazione di massa per Keynes era la dimostrazione che il mercato non
garantiva la piena utilizzazione dei fattori di produzione e che quando il fattore
sottoutilizzato è il lavoro le conseguenze sociali sono dirompenti.
Keynes riteneva che il mercato può raggiungere delle condizioni di equilibrio anche senza un
pieno utilizzo dei fattori di produzione, in particolare il lavoro.
Egli individua nella domanda effettiva dei beni e servizi, l’aggregato che può determinare
una ripresa degli investimenti e quindi della disoccupazione.
Lo Stato secondo Keynes può intervenire a sostegno della domanda aggregata anche
finanziando in deficit la spesa pubblica.
A lui dobbiamo quindi l’approccio macroeconomico. La macroeconomia studia il
comportamento economico a livello aggregato quindi di una regione, una nazione o
globale.
In particolare essa si occupa della struttura e della performance di un aggregato e si
differenzia dalla microeconomia che studia il comportamento dei singoli operatori sul
mercato.
La macroeconomia prende in considerazione delle grandezze, dei mezzi di misurazione
come:
PIL, consumi, investimenti, risparmi, domanda e offerta aggregate, tasso di disoccupazione,
moneta e politica monetaria, commercio internazionale.

PIL: è il prodotto interno lordo ossia il valore di mercato di tutti i beni e servizi finali
prodotti in un paese in un dato periodo di tempo. Viene definito interno essendo che prende
in considerazione il valore prodotto all’interno dei confini, anche da imprese di altri paesi.
Lordo invece, nel senso che non vengono calcolati gli ammortamenti.
Il PIL nasce come soluzione per misurare il valore della produzione di una nazione.
Questa problematica si pone con la crisi degli anni ‘30, ove nacque la necessità di capire
quanto l’attività economica si era contratta e quanto e con che ritmo si stesse risollevando.
La sua prima formulazione avviene con Kuznets, per conto del Congresso Americano del
1937.
Fu poi nel 1944 che il PIL venne adottato dal Fondo monetario internazionale e dalla
Banca Mondiale.
Il Pil si calcola con tre metodi: quello della spesa (in cui si sommano tutti i consumi,
investimenti, spesa pubblica ed esportazioni nette), quello del valore aggiunto (sommando il
valore aggiunto di tutti beni e servizi) e quello dei redditi (sommando tutte le retribuzioni e i
redditi da capitale). Ogni metodo porta allo stesso risultato.
Ciò che sicuramente il Pil non calcola è la produzione non scambiata sul mercato e il lavoro
domestico.

Poi abbiamo un approccio politico-economico comparato che permette di analizzare il


rapporto tra le scelte di governo e le sue performance quindi tra i modelli di economia e gli
obiettivi che si vogliono raggiungere come il benessere, l’equità, il progresso tecnologico etc.
Sono poi sorti dei quesiti sulle differenze di ogni paese che potrebbero da un lato scomparire
con la progressiva adesione ad un unico modello e dall’altro creare diversi tipi di capitalismo,
anche l’allargamento dei mercati si potrebbe spingere ad un’uniformità istituzionale, così
come le leggi dell’economia.
E qui che si apre la questione dell’embeddedness ossia che nelle società democratiche,
l’economia si radica in sistemi di welfare capitalism e come abbiamo già visto le forme di
scambio ed integrazione sono la famiglia (reciprocità), lo Stato (redistribuzione) e il Mercato
(scambi di mercato).
Il benessere sociale in economia si prefigge l’obiettivo di aggregare le preferenze
individuali in preferenze collettive per guidare le scelte pubbliche.
Il sociologo Andersen riteneva che il benessere sociale è la somma, la combinazione tra gli
input di Stato, mercato e famiglia.
Lo scopo del welfare è quindi benessere, uguaglianza, sicurezza e le sue funzioni sono di
demercificazione, defamiliarizzazione e destratificazione.
Per demarcificazione intendiamo la capacità di attenuare le dipendenze dal mercato e
dalle sue tendenze di slegamento del legame sociale.
La defamilizzazione invece è la capacità di disporre risorse e opportunità alle famiglie a
prescindere dalle loro condizioni.
E in ultimo la destratificazione è la capacità di attenuare le diseguaglianze sociali.
I regimi di welfare sono i tre tipi:
1. Regime liberale (Stati Uniti, Canada, Australia) + variante semi welfarista (UK):
la riduzione dell’intervento dello Stato è minima, si incoraggia molto il ricorso al
mercato, i diritti in termini di prestazioni e protezioni sociali sono limitate. Le misure
di assistenza si basano su prove chiamate means test nel quale si verifica l’effettivo
stato di bisogno.
Demercificazione bassa: dipendenza dal mercato (redditi, retribuzioni, rendite).
Destratificazione bassa: forte differenza tra welfare pubblico e privato.
Defamilizzazione media: le fasce sociali deboli dipendono dall’aiuto familiare.
2. Regime socialdemocratico (Svezia, Norvegia, Danimarca):
l’intervento dello Stato è molto esteso, max socializzazione dei rischi,
prestazioni/protezione sociali ampie e diffuse. Politica sociale inclusiva. Il carattere è
universalistico e la cittadinanza è il principale criterio di accesso.
Demercificazione alta: dipendenza mercato lieve.
Destratificazione alta: eguaglianza estesa, tutti sentono di contribuire.
Defamilizzazione alta: dipendenza sostegno familiare minima.
3. Regime conservatore (Europa Continentale, Francia) + variante istituzionalista
(Germania) + variante familista (Italia, Spagna):
Prestazioni sociali su base differenziata, stessa cosa anche per gli schemi assicurativi.
L’intervento statale è di tipo sussidiario nel senso che se i bisogni individuali non
trovano risposta a livello individuale esso interviene. Le politiche sociali e
occupazionali tendono a scoraggiare la partecipazione al mercato.
Demercificazione media: dipendenza dai mercati relativamente attenuata.
Destratificazione medio-bassa: welfare non contrasta le diseguaglianze.
Defamilizzazione bassa: dipendenza dalla famiglia è massima.

Anyway, i modelli capitalistici influenzano tanto l’orientamento delle imprese soprattutto nel
modo in cui coordinano i problemi come le relazioni industriali, l’istruzione e la formazione,
le relazione interne ed esterne.
Ci sono due modelli capitalistici: quello anglosassone in cui vigono economie di libero
mercato che mirano ad innovazioni radicali e quello renano in cui le economie di mercato
sono coordinate e mirano ad innovazioni incrementate.
Nelle economie di libero mercato le imprese coordinano le proprie attività su basi
gerarchiche (mercati competitivi) e le relazioni sono regolamentate da contratti formali con
conseguenti diritti ed obblighi (Stati Uniti e Uk).
Questo modello lo ritroviamo nelle grandi imprese in cui vige una bassa sindacalizzazione e
un modello di rischio exit, distribuito su più imprese. Il ruolo dello stato è limitato e si basa
sull’assicurare i diritti di proprietà e i beni pubblici essenziali. Questo modello spinge verso
l’innovazione.
Mentre nelle economie di mercato coordinato le imprese gestiscono le loro relazioni su
accordi incompleti, più basati su comportamenti collaborativi basati su relazioni di lungo
periodo quindi negoziazione (Germania, Svezia e Giappone).
C’è presenza di sindacati forti, di rapporti collaborativi con altre aziende e la maggioranza del
capitale è concentrata tra pochi soggetti. Il modello di rischio è voice and loyality.
Lo Stato invece, supporta e facilita il coordinamento attraverso politiche economiche,
industriali e del mercato di lavoro. Questo modello spinge verso innovazioni incrementali e
sviluppo della manifattura.
Nello specifico questi regimi mirano a due tipi differenti di innovazione.
L’innovazione radicale (fast tech) è un tipo di innovazione basata su investimenti ad
elevato grado di incertezza e potenziale innovativo.
E’ un tipo di innovazione che ritroviamo nelle economie liberali del mondo anglosassone in
cui tutto si basa sul breve periodo: relazioni industriali, finanziamenti, rapporti di mercato e
strategie manageriali. I capitali possono essere definiti impazienti e sensibili alle
speculazioni.
L’innovazione incrementale (slow tech), invece è un’innovazione graduale che
comporta piccoli miglioramenti ai processi produttivi e ai prodotti.
Tutto è una accumulazione progressiva di competenze e di risultati. La ritroviamo nelle
economie coordinate in cui le relazioni industriali sono collaborative, la forza lavorato ben
compatta e tutelata. Tutto si basa sul lungo periodo: rapporti interni, esterni, strategie,
capitale e finanziamenti.

Poi c’è il lavoro secondo una visione formale dell'economia, esso è inteso come una
qualsiasi attività che produce reddito monetario (salari o stipendi).
Il mercato del lavoro indica tutti quei meccanismi che regolano l’incontro tra i posti di lavoro
vacanti e le persone in cerca di occupazione. Il lavoro non è però una merce come le altre,
essendo che esso è inscindibile dalla persona che lo fornisce, la relazione tra venditori e
compratori non è di mero scambio, il rapporto tra loro è asimmetrico, il prezzo cioè il salario
non svolge una funzione di equilibrio del mercato.
Mentre nella visione sostanziale dell’economia, il lavoro è inteso come ogni attività che
trasforma risorse materiali in beni e servizi per la sussistenza dell’uomo (attività di cura,
autoconsumo, lavoro domestico).
C’è anche una differenza importante tra occupazione (lavoro retribuito in un dato
periodo/momento) e professione (attività per ricavare reddito, al di là dell'essere occupati
o disoccupati).
In ogni caso ormai c’è una relazione asimmetrica, squilibrata tra lavoro ed impresa essendo
che in primis gli imprenditori possono anche evitare di acquistare forza lavoro e vivere del
proprio capitolo, al contrario dei lavoratori che sono solo formalmente liberi di vendere la
propria forza lavoro poiché senza non possono sopravvivere.
Inoltre coloro che acquistano forza lavoro possono nel tempo, con l’innovazione tecnologica,
cambiare i requisiti e spostarsi territorialmente rispetto a chi offre lavoro.

Gli indicatori del mercato del lavoro nascono per poter analizzare il mercato del lavoro
e la popolazione viene suddivisa dall’Istat in:
-popolazione attiva ossia la forza lavoro, persone occupate o in cerca di occupazione;
-occupati sono tutti coloro dai 15 anni in su che hanno svolto almeno un’ora di lavoro
retribuito o non retribuito in una ditta familiare dove collaborano abitualmente;
-in cerca di occupazione sono persone tra i 15 e i 74 anni che nei 30 giorni prima di essere
intervistati hanno cercato lavoro e che sono 15 giorni dopo l’intervista intenzionati a
lavorare.
Anyway per analizzare il mercato del lavoro la popolazione totale viene classificata in
popolazione attiva (occupate svolto almeno un’ora di lavoro e in cerca svolto almeno
un’azione attiva) e popolazione non attiva (pensionati, casalinghe, studenti).

Gli indicatori a disposizione sono tre: tasso di attività ossia il rapporto tra le forze di lavoro
e la popolazione residente; tasso di occupazione rapporto tra occupati e popolazione;
tasso di disoccupazione rapporto tra disoccupati in cerca di lavoro e forze di lavoro;

Nello specifico la disoccupazione può essere di tre tipi:


● disoccupazione strutturale: nasce da una cattiva corrispondenza tra domanda e
offerta di lavoro (basso livello della domanda, mancata corrispondenza delle
professionalità richieste).
Per contrastarla occorrono politiche di investimento, che aumentino la domanda di
lavoro e la formazione.
● disoccupazione ciclica: nasce da una diminuzione della domanda di domanda di
lavoro in corrispondenza di una fase recessiva del ciclo economico. Le politiche di
contrasto sono quelle anticicliche che sostengono l’occupazione e la domanda.
● disoccupazione frizionale: è quel tipo di disoccupazione non contenibile da misure
politico economiche per motivi territoriali, transizione scuola-lavoro etc.
E’ un tipo di disoccupazione maggiormente presente in quei mercati in cui i rapporti
di lavoro sono di breve durata ed è un indicatore stimato indirettamente, non con
interviste.

Quando la disoccupazione supera l’anno di durata si parla di disoccupazione di lunga


durata. Questo porta maggiore difficoltà di supporto con politiche economiche poiché
passare un lungo periodo di assenza di lavoro fa perdere abilità e dequalifica il lavoratore,
portando spesso perdita di autostima e diminuzione delle reti sociali.
La disoccupazione è mutata anche storicamente, infatti ritroviamo nella prima
rivoluzione industriale una disoccupazione di chi non era operaio ma poi lo diventerà.
In una seconda fase ritroviamo una disoccupazione industriale, alla quale vennero a sostegno
i sistemi di welfare per chi perse il lavoro e in ultimo quella che viviamo oggi è una
disoccupazione di chi non ha mai avuto un’occupazione stabile.

A tutela dei lavoratori, nacque il sindacato che è appunto un’associazione di lavoratori che
si unirono per tutelare i propri interessi professionali. Queste organizzazioni agiscono nei
confronti dei datori di lavoro che sono a loro volta rappresentati da organizzazioni.
Ritroviamo sindacati associativi che rappresentano e contratto solo per gli iscritti e
sindacati di classe che sono a rappresentanza estesa, rappresentano tutti.
Le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro stipulano accordi relativi a salari e
condizioni di lavoro e creano delle relazioni industriali.
Quando queste relazioni industriali si allargano al governo si creano delle concertazioni
triangolari con conseguenti forme di regolazione neocorporativista.

La struttura del mercato di lavoro si basa su un modello centro-periferia composta da un


nucleo (costituito da lavoratori dipendenti permanenti a tempo pieno con buone
prospettive di carriera) e una periferia (costituito da due sottogruppi differenti, uno con
dipendenti a tempo pieno e l’altro con lavoratori part-time, occasionali, con formazione etc.)
Stiamo assistendo ad una ristrutturazione del mercato del lavoro in cui il nucleo si
riduce numericamente in quanto i lavoratori in possesso di competenze specifiche si
rendono disponibili e flessibili anche per tanti altri ruoli. E i gruppi periferici aumentano, in
quanto allargandosi il mercato i lavoratori si rendono disponibili anche all’utilizzo di
contratti temporanei.

A parte i tempi moderni, possiamo fare anche un excursus su come prima si organizzava il
lavoro come ad esempio nell’800.
Nell’ottocento vediamo la prevalenza di un’azienda di tipo familiare, lavori artigianali o a
cottimo prettamente a domicilio e l’organizzazione era di base gerarchica divisa poi in
squadre di lavoro.
Le fabbriche erano il luogo di accentramento della produzione e nacquero dal passaggio ad
un fenomeno di sradicamento sociale dei lavoratori dalle campagne alle città e poi alla
trasformazione in manodopera qualificata da impiegare nell’industria.
La fabbrica si sviluppa anche in convergenza con i vincoli tecnici come l’energia meccanica
della macchina a vapore.
Il possesso del mestiere, all’epoca, rappresentava un principio di autorità nella gerarchia
del lavoro e uno strumento di controllo sociale della fabbrica.
L’autorità nasceva da una conoscenza dell’organizzazione del lavoro, un’esecuzione precisa
sulle mansioni specializzate, abilità di contrastare le difficoltà, senso di disciplina.
Nel tempo ci si è resi conto, soprattutto Smith, che razionalizzare la produzione aveva i suoi
vantaggi soprattutto perché scomporlo permetteva un aumento di produttività.
L’esempio clou è la fabbrica si spilli, praticamente Smith immagina nel dettaglio le fasi in cui
può essere frammentata la fabbricazione di uno spillo dall’operaio che trafila il metallo agli
spilli lucidati ed avvolti nella carta per essere venduti. Egli si rese conto che ci vollero 18
operazioni per fabbricarlo.
Questa rivoluzione nell’industria manifatturiera è dovuta a tre fattori: all’abilità
dell’operaio di ripetere i gesti in modo continuativo, migliorando prestazione e tempo, al
tempo risparmiato che si perde per passare da un’attività all’altra, all’invenzione di
macchine per uno specifico processo lavorativo.
Ma la produzione alla fine cosa è? La produzione è il rapporto tra gli input (lavoro,
capitale, energia) e la produzione. La produttività di un impianto si può misurare con le
unità di tempo (oraria, giornaliero).
La produttività del lavoro è la produzione complessiva diviso il numero delle unità
lavorative.

Taylorismo

Il taylorismo nasce dall’ingegnere Taylor, il quale attraverso l’osservazione del lavoro ideò
un’organizzazione scientifica del lavoro. Questo avvenne in piena seconda rivoluzione
industriale (19esimo secolo) in cui le aziende avevano lo scopo di sfruttare al massimo i
macchinari e recuperare gli ingenti investimenti realizzati nell’acquisto degli stessi. Per cui
essi puntavano tutto sul processo produttivo e sulle modalità di svolgimento del lavoro degli
operai.
Gli imprenditori quindi iniziarono a porre la loro attenzione sugli studi sull’organizzazione
del lavoro.
Taylor fu figura di spicco, in quanto attraverso l’osservazione dei processi industriali,
formulò il principio della catena di montaggio.
Il nucleo del taylorismo è la scomposizione di ogni processo produttivo in semplici
operazioni: ogni mansione è scomposta in azioni lavorative elementari. Questo permise
anche di comprendere il tempo da dedicare ad ogni azione semplice.
Taylor era convinto che la ripetitività e la semplicità dell’azione permettessero ad un
lavoratore, anche non qualificato, di raggiungere livelli di specializzazione tali da consentirgli
la massima efficienza. Taylor pose le basi della catena di montaggio dove ogni lavoratore
riusciva ad eseguire lo stesso compito un’infinità di volte senza fare errori.
Gli imprenditori seguirono il suo metodo, assunsero operai poco specializzati affidando loro
compiti poco specializzati, semplici e altamente ripetitivi. Questo permise di risparmiare
sui costi (salari inferiori) e di tempo.
Per cui il taylorismo si basava su:
● Selezione scientifica dei lavoratori;
● Separazione tra lavoro operaio e direzione d’impresa;
● Razionalizzazione tecnologica della produzione: il processo lavorativo viene
scomposto, regolamentato e ricomposto in modo da accelerare il processo produttivo
+;
● Parcellizzazione del lavoro;
● Incorporazione di conoscenze professionali dei lavoratori;

Taylor ideò delle tecniche da applicare all’organizzazione lavorativa:


1. One best way: basata su una sequenza di movimenti attuata dagli operai per
arrivare al massimo rendimento col minimo sforzo;
2. Selezione scientifica dei lavoratori: basata sulla ricerca giusta dell’operaio
giusto, al fine di ottenere il massimo rendimento;
3. Scomposizione dei cicli produttivi (razionalizzazione): basata sul processo
lavorativo viene scomposto, regolamentato e ricomposto in modo da accelerare e
controllare il processo produttivo.
4. Tempi di lavoro: basata sul cronometrare i tempi di lavoro per evitare sprechi di
tempo;
5. L’allenatore: basata sull’operaio migliore che veniva seguito dagli altri;
6. Pianificazione anticipata delle mansioni: venivano radunate le conoscenze di
ogni operaio per pianificare al meglio le fasi del ciclo produttivo.
La critica al taylorismo si basa sul fatto che il lavoratore si sente alienato a causa
dell’eccessiva rigidità e ripetitività dei compiti svolti.

Fordismo

Fu poi negli anni ‘10 con Ford che ritroviamo una piena applicazione del metodo taylorista.
Ford infatti, introdusse la catena di montaggio nella sua fabbrica che avviò una forte
espansione negli Stati Uniti al mondo, che permise di produrre su larga scala una serie di
prodotti standardizzati (produzione di massa).
I capisaldi del fordismo erano appunto l’organizzazione taylorista accompagnata da una
spinta di automazione (sistemi di controllo per gestire macchine e processi, riducendo
l'intervento umano).
La catena di montaggio si basava su un pezzo che si muove e gli operai che stanno fermi che
ci lavorano mentre si spostano. La catena di montaggio permise una parcellizzazione del
lavoro che rendeva le mansioni molto più semplice e ciò permise di allargare le possibilità
lavorative.
La parcellizzazione permetteva di ridurre costi di produzione e soprattutto i tempi.
La produzione di massa permise una presenza di elevati volumi produttivi,
standardizzazione dei prodotti e riduzione dei prezzi.
Alla fine del 19esimo secolo le operazioni e la transazione delle aziende si internalizzano,
essendo che i meccanismi regolatori basati sul mercato, fin allora utilizzati, non sembravano
capaci di assicurare le economie di scala necessarie per far crescere il flusso di prodotto.
Per cui il coordinamento manageriale dato dalla mano invisibile consentiva all’impresa di
raggiungere a pieno le proprie potenzialità produttive e ciò permise lo sviluppo delle
burocrazie aziendali.
Rispetto al taylorismo, il fordismo è una versione migliorata del taylorismo, in quanto parte
dalle critiche a quest’ultimo prendendo atto che i livelli di produttività aumentano attraverso
incentivi materiali e l'aumento dei salari ai lavoratori.
Il fordismo permette quindi ai lavoratori di diventare anch’essi consumatori degli stessi
prodotti.
La differenza sostanziale tra taylorismo e fordismo è che il fordismo risulta essere più
concreto ed applicabile rispetto a quello che sembrava essere solo un metodo scientifico.
Il fordismo tra l’altro, è un termine che varia da paese in paese, infatti negli Stati Uniti è
una filosofia sociale che sostiene che ricchezze e profitto possono essere raggiunti con alti
salari che permettono ai lavoratori di acquistare i beni che hanno prodotto. Viene quindi
considerato al modello dell’attività economica detto divisione spaziale del lavoro in cui
vi è appunto una separazione spaziale tra il luogo di sviluppo del prodotto e i centri di
montaggio standard di un prodotto. Il fordismo nato dopo l’inizio della Grande depressione
veniva visto come un modo per risolvere quella crisi ed è un modello che durò dagli anni
sessanta agli anni settanta.
Quando poi ci fu l’invasione di pensatori, consumatori e disegnatori possiamo parlare di
post fordismo.
Mentre nell’Europa occidentale, il fordismo, secondo Gramsci, intensificava il lavoro per
promuovere la produzione. Alcuni marxisti invece elaborarono il post fordismo e ci fu
proprio una linea temporale dal culmine che raggiunse il fordismo successivamente alla
seconda guerra mondiale fino al suo crollo negli anni 70, con le crisi politiche e culturali.
Negli anni 90 poi si entrò nella fase neoliberale della globalizzazione e il fordismo venne
duramente criticato per l’inegualità economica che si scontrava con le idee di democrazia.
Ci furono altri marxisti che invece pensavano al fordismo come un regime di
accumulazione o modello macroeconomico, che parte dall’assunto per cui i ROAs
sono periodi di crescita economica costante, che entrano in crisi e crollano quando il
capitalismo cerca di ripristinarsi. In questi periodi sono i MOR ad intervenire per stabilizzare
con una serie di provvedimenti per assicurare un profitto capitalista a lungo termine.

Toyotismo

Dopodichè nacque il modello giapponese di fabbrica snella basato sulla catena di


montaggio di Henry Ford.
Il toyotismo prende nome dall’azienda automobilistica Toyota che nell’immediato dopo
guerra si trovava in gravi condizioni di mancanza di risorse.
Questo modello si basa sul pensare il flusso produttivo all’inverso ossia partendo dalle
richieste di mercato e da esse risalire alla produzione. La filosofia era del just in time
ossia eliminare gli sprechi, riducendo al minimo le scorte e acquisendo i materiali necessari
solo nel momento in cui devono essere utilizzati.
Il just in time si basava sull’assunto per cui ciascun componente doveva arrivare alla linea
nel preciso momento in cui ce n’era bisogno e nella quantità necessaria e ciò richiedeva
quattro requisiti: eliminazione risorse ridondanti, coinvolgimento nelle decisioni,
partecipazione dei fornitori, ricerca della qualità totale.
Questo modello rispondeva alla diversificazione del mercato con prodotti diversi, a costi
concorrenziali e di qualità superiore.
Tra l0altro viene rivalutata la figura dell'operaio, non più mero esecutore di ordini, ma attivo
all'interno dell'impresa, potendo anche intervenire sulla produzione stessa e modificarne
l'andamento. Tale coinvolgimento presuppone un'elevatissima capacità professionale da
parte degli operai. Il lavoro viene organizzato intorno alla cella di produzione, ossia un
gruppo di dipendenti che lavorando in squadra controlla e assembla il prodotto, cooperando.
La maggiore autonomia dei lavoratori è strettamente correlata alla maggiore automazione
dei macchinari; il compito e l'opportunità concessa ad ognuno di loro è quella di poter
interrompere la produzione ogni qual volta si presenti un'anomalia nel sistema e correggerla.
Ne deriva, anche, che ogni singolo operatore è gestore di più macchinari
contemporaneamente, svolgendo operazioni diverse tra loro. La rottura con l'iperdivisione
del lavoro taylorista risulta lampante.
I punti di forza del toyotismo sono diversi:
1. rapporto di fiducia tra impresa e dipendenti, qualunque posizione occupino
all'interno della stessa.
2. ricerca della qualità totale, ovvero la concezione che non vi devono essere difetti nel
prodotto, è definita dal controllo, che deve seguire l'intero processo produttivo, e la
ricerca costante di innovazione.
La risposta alle richieste del mercato è immediata. Vengono adottati la riduzione delle scorte
e l'allestimento dell'officina minima, in modo da evitare sprechi e accumuli di beni nei
magazzini delle imprese. Importante è anche la sincronizzazione delle attività tra linea di
produzione e fornitori, sub-fornitori di pezzi, i quali sono scelti, non in base ai prezzi delle
commissioni, ma al grado di affidabilità e capacità collaborativa.
Approfondendo il taylorismo possiamo notare quanto abbia rivoluzionato il modo di
lavorare ma anche di comandare, in quanto ci fu un accentramento e razionalizzazione
dell’autorità, la scienza era l’unico criterio di azione e legittimazione e vigeva una forte
trasparenza operativa. Tutto ciò portò ad aumento di rendimenti e di produzione.

Consumo

In economia per consumo s’intende qualsiasi attività di fruizione di beni e servizi da


parte di individui, di imprese o di pubblica amministrazione che ne implichi il possesso o
la distruzione materiale/figurata (nel caso dei servizi).
I consumi possono essere: consumi intermedi quando beni e servizi vengono impiegati
nella produzioni di altri beni e servizi; consumi finali quando beni e servizi vengono
impiegati con la distruzione da singoli individui;
In ogni caso, consumare è comunicare, essendo che gli oggetti possono essere assimilati
al linguaggio, in quanto non vengono acquistati e consumati non solo per la loro utilità
materiale o economica ma per il significato che assumono, sopraattutto all’interno dei
rapporti sociali.
Il consumo, inteso in senso sociologico, si inserisce nei processi comunicativi soggettivi
e nelle strategie sociali, essendo che il consumo può prendere strade socialmente
strategiche ma economicamente irrazionali.
Con la crescita economica, soprattutto nel secondo dopo guerra, il tenore di vita aumentò e
di conseguenza la capacità di consumo.
Nello specifico però il termine consumismo intede la generale ricerca della felicità
attraverso l’accumulazione di beni di consumo. Più si consuma più ci si rinchiude nella sfera
privata, allontanandosi dall’impegno pubblico. Ciò porta anche a reazioni di delusioni o
critica.
Possiamo collegare alla società del consumo la gerarchia dei bisogni teorizzata da
Maslow in cui ritroviamo gli obiettivi dell’800 e ‘900 (bisogni di stima, appartenenza,
sicurezza e biologici) a quelli nuovi da soddisfare con l’evoluzione delle società
(autorealizzazione, bisogni estetici e di consapevolezza).
Il consumo è strettamente correlato alla costruzione di identità a seguito del fatto che
hanno superato non solo la fase del bisogno ma anche del desiderio alimentata dal
meccanismo del capriccio.
Le azioni di consumo diventano indistinguibili dalle altre azioni quotidiane (socialità,
appartenenza ed individualità).
Veblen nei suoi studi notò che si stava sviluppando una nuova classe di ricchi per i quali il
consumo rispondeva principalmente alla massimizzazione del prestigio sociale, non
corrispondendo più alle utilità razionali.
Questi beni vengono definiti beni vistosi o posizionali e non sono accessibili a tutti.
Tra l’altro sono beni che all’aumentare della domanda vedono un aumento del prezzo.
Questa funzione del consumo coinvolge a cascata tutte le classi sociali in forme di consumo
emulativo. E la vitalità che mantiene nel tempo il settore delle merci, anche in periodi di
crisi, sono una conferma validante di questa teoria.
Nel momento in cui sono venuti meno i modelli di consumo fordisti basati sul consumo di
massa, il consumo stesso si incanala, come detto, in processi di costruzione identitaria e
percorsi emozionali.
Una delle fronterie attuali del consumo è il corpo. Lo studioso maggiormente interessato
all’argomento è Le Breton, il quale suddivise la nozione di corpo in: corpi a rischio negli
sport estremi, corpi esibiti, corpi scritti, le protesi del corpo e la quantificazione del sè.
Negli ultimi decenni la concenzione di consumo si lega a quella dell’esperienza: non ti
vendo solo un bene ma un’esperienza.
Schmitt nel 2010, sistematizza la costumer experience in cinque dimensioni:
1. Sense: legata ai sensi, alla percezione.
2. Feel: legata ai sentimenti e alle emozioni.
3. Think: legata al cognitivo e all’apprendimento.
4. Act: legata a come si modifica il nostro comportamento di conseguenza
all’esperienza.
5. Relate: legata alla sfera relazionale.
Ogni fase costuisce sia un terreno d’azione per il marketing sia a creare valore ad un’azienda,
essendo che l’esperienza del consumo si estende oltre il momento della transazione,
dell’acquisto.
Parte dallo storytelling fino ad appunto al costumer experience. L’approccio di Schmitt
nacque per i beni di lusso per poi espandersi a tutti i beni.
I dispositivi digitali e i social media sono canali di raccolta e valutazione dell’esperienza di
consumo.
Nel consumo si è incorporata anche l’etica, in quanto assistiamo ad una sensibile crescita
dei consumatori che attraverso l’atto di acquisto e consumo, esprimono anche
approvazione o disapprovazione nei confronti degli effetti sociali e ambientali delle
strategie dell’imprese (consumo consapevole: verde, equo, sostenibile).
Questo ovviamente porta alle aziende ad avvicinarsi alle opinioni del consumatore, per cui
spesso le aziende creano sistemi di certificazione (ambientali, sociali), processi di
etichettatura, costruzione di buona reputazione.
Così come a sostegno dei lavoratori sono nati i sindacati, allo stesso modo i consumatori
sono tutelati dal consumerismo ossia di una forma di azione collettiva promossa da
movimenti a difesa del consumatore. Sono riconosciuti, a livello normativo, alcuni specifici
diritti del consumatore. Il consumerismo in Italia si è sviluppato recentemente nel 1998.
Quando parliamo di consumo non possiamo non citare Baumann il quale analizzò il
fenomeno del consumo.
Egli sosteneva il prosciugarsi degli spazi pubblici definiti agorà e l’affermarsi di
individualità privatizzate. Si produssero nella società nuovi desideri, l’individuo
consumatore passa ad essere un cittadino produttore. Il principio di realtà si concilia con
il principio di piacere che nelle società moderna viene represso e contenuto ma nella società
liquida diviene strumento di controllo sociale.
“Consumo dunque sono”: il consumo funge da parametro delle attività umane, consente di
coltivare il desiderio, soddisfarlo in modo rapido.
Baumann collega consumo ed identità identificandolo come un processo che tanto può
fortificare il sè tanto indebolirlo.
Il mercato e il conusmo sono strumenti di integrazione sociale, in quanto il merrcato si
afferma come spazio di autodeterminazione, in cui si definiscono i codici culturali e i
linguaggi per dare senso all’esperienza.
Il comportamento collettivo quindi si riduce allo sciame di consumatore liberi di
scegliere.
Nella povertà nella società liquida assume un nuovo valore simbolico ossia oltre la
deprivazione materiale c’è una metaumiliazione legata al fatto di vedersi negata la libertà di
scelta, in quanto assenza di denaro impossibilita di partecipare a rituali sociali di consumo.
Questo porta a forme di criminalità legati alla condizioni di povertà e asottoclassi privati di
una prospettiva di riscatto sociale. Il tempo svuotato sia del lavoro, sia del consumo perde
significato.
Simmel studiò il fenomeno della moda dando un significato legato
all’imitazione/distinzione: identificazione-differenziazione, separazione-collegamento,
coesione-collegamento, sottomissione-affermazione;
Le mode secondo Simmel, sono sempre mode di classe (tirannia della moda: necessità,
inevitabile).

E-commerce: internet e l’innovazione della distribuzione commerciale

Il commercio elettronico comprende attività di compravendita, di marketing e di


fornitura di prodotti o servizi attraverso il world wide web, con la possibilità di utilizzare
servizi di pagamento on-line.
Le transazioni commerciali all’interno del commercio elettronico avviene attraverso
l’invio di documenti commerciali (ordini e fatture) in formato elettronico.
Nel mercato in rete aumenta la concorrenza, si allarga sia il numero dei consumatori sia
quello dei fornitori. Si riducono anche le asimmetrie informative essendo che offre un
maggior livello d’informazione sia sui fornitori che sui prodotti.
C’è anche un maggior supporto nelle scelte essendoci valutazioni da parte di altri
consumatori, chat, forum di discussione.
Le aziende di commercio, tra l’altro, mettono in atto un’azione di marketing sempre più
personalizzato, utilizzano degli applicativi in cui elaborano i dati dei profili utenti, in cui
immagazzinano ed elaborano le azioni di acquisto e i contenuti generati dall’utente (dai
social alle email).
Queste pratiche entrano in conflitto con la privacy del consumatore, sollevando questioni di
trattamento dei dati personali e ai sistemi di controllo.
Le caratteristiche dei prodotti del commercio elettronico sono:
- beni immateriali: conoscenza, informazioni, beni culturali (cinema, musica) che
possono essere trasformati in contenuti digitali e sono i beni immediatamente
scambiali nella rete.
- beni materiali: merci materiali che non sono immediatamente apprezzabili online.
Si parla poi di webrooming quando in rete si esplorano e confrontano le caratteristiche
tecniche e la reputazione dei prodotti e servizi che saranno poi acquistati in un secondo
momento online oppure onsite (researched on-line, purchased offline).
Siparla di showrooming quando in rete si comprano prodotti ad un prezzo più vantaggio,
che si ha avuto modo di apprezzare da vicino, che sono noti o standardizzati (researched
offline, purchased online).
Gli acquisti in rete permettono acquisti in mobilità, essendo che da uno smartphone
possiamo scegliere e pagare in presenza o a distanza.
Anyway, il consumatore diviene anche produttore definito prosumer che creano contenuti
prodotti da se stessi (ad esempio i blog).
Il consumatore tradizionale quindi assume un ruolo attivo di creazione di valore,
redistribuzione come ad esempio ebay è un mercato di redistribuzione.
La principale forma di partecipazione produttiva del consumatore è la creazione di dati
che ne consegue da un lato implicazione sulla privacy e quindi sulla proprietà
dell’informazione e di discriminazione legata alla creazione della filter bubble ossia
dell’ambiente virtuale che ogni utente costruisce selezionando le proprie preferenze,
caratterizzato da un alto livello di autoreferenzialità e una scarsa pluralizzazione delle
informazioni.
E questo porta a crescenti fenomeni di discriminazione di prezzo e quindi ad una
formazione personalizzata del prezzo.
Prendiamo in esempio Amazon e Alibaba, aziende che offrono servizi molto simile ma che
si differenziano sul fatto che Alibaba non possiede un magazzino quindi si limita a
convogliare gli ordini ai produttori, avendo costi molto più contenuti e profitti maggiori.
Nello specifico Amazon nasce come una libreria on-line mentre Alibaba nasce come fornitore
di servizi cloud per l’ecommerce b2b.
Amazon vende capacità computazionale e servizi di elaborazione, archiviazione a
molti clienti in vari settori (da RyanAir a Vodafone).
Anyway l’e-commerce oggi giorno ha:
- rafforzato la sua rete logistica;
- si è integrato con il settore retail tradizionale come Alibaba che ha comprato catene di
piccoli negozi.
- tempi di consegna sono sempre minori;
- ogni transazione genera dati per la profilazione;
- la capacità di elaborazione è ridondante e viene rivenduta a terzi offrendo servizi
cloud;
- cresce il ruolo degli intermediari sia finanziari (carte di credito, paypal) che nel
coordinamento dell’informazione (tripadvisor, booking).
- sistemi di crittografia e archiviazione distribuita come possibile alternativa
(blockchain).
-
Whatsapp invece è un esempio di freeconomics ossia di economia gratuita.
Venne fondata nel 2009, proponendo un app di messaggistica alternativa agli SMS senza
alcun costo. Nel 2014 Facebook acquisisce whatsapp. Fino al 2016 whatsapp guadagnava per
ogni dowload o rinnovuo annuale un dollaro. Oggigiorno Whatsapp ottiene il proprio ricavo
da dati personali, comportamenti degli utenti e dall’advertsing (non accede però ai contenuti
protetti da crittografia end-to-end).

Internet e digitale

La tecnologia non determina la società ma la incarna, così come la società non definisce la
tecnologia ma ne determina i modi d’uso.
Sono molti i fattori che intervengono nel processo di scoperta scientifica, innovazione
sociale e nella sua applicazione.
Lo Stato, ad esempio, incide attraverso investimenti di lungo periodo sul processo di
modernizzazione tecnologica.
La concorrenza, il capitalismo e il meccanismo di profitto ha contribuito a cercare
sbocchi di mercato per le innovazioni.
Possiamo quindi affermare che latecnologia rappresenta la capacità della società di
trasformare se stessa.
L’innovazione tra l’altro non è mai un fenomeno isolato in quanto:
- riflette un dato stato della conoscenza;
- un ambiente istituzionale e industriale particolare
- un certo tipo di competenze e di mentalità economica;
- una rete di produttori/utenti in grado di comunicare le proprie esperienze,
imparando facendo e usando.
Alla base dello sviluppo del network ci sono dei processi di tipo:
● economico: questo processo nacque dall’emergere del bisogno di flessibilità e
globalizzazione del capitale, della produzione e commercio.
● sociale: nacque dall’affermarsi dei valori di libertà individuale e della
comunicazione aperta.
● tecnologico: lo sviluppo della microelettronica che ha accresciuto le prestazioni dei
computer e delle telecomunicazioni.

A partire dagli anni Settanta si sviluppa un nuovo paradigma tecnologico e prosegue


con delle innovazioni incrementali.
Questo paradigma determina la diffusione pervasiva della tecnologia dell’informazione in
tutti i campi dell’attività umana.
La prima rivoluzione digitale è stata americana, precisamente in California, essendo che
beneficiò di: strategie militari ed investimenti pubblici, cooperazione tra istituzioni,
convergenza tra scienza e tecnologie.
I sistemi tecnologici sono quindi una produzione sociale modellata dalla cultura.
La cultura dei primi utilizzatori ha plasmato il mezzo.
Secondo Castells la cultura di Internet ha una struttura a quattro stati:
1. cultura tecnomeritocratica: apertura alla ricerca, eccellenza scientifica;
2. cultura hacker: comunitarismo, codice sorgente aperto, condivisione e
collaborazione;
3. cultura comunitaria virtuale: comunicazione orizzontale, perseguimento interessi ed
espressione.
4. cultura imprenditoriale: economia basata sull’innovazione, sul profitto e
sradicamento dalla regolazione statale.
Ciò che ha determinato storicamento questo processo di innovazione informatica la
ritroviamo dall’800 con i telai automatici che spinsero l’automazione della produzione, allo
sviluppo della statistica con macchine tabulatrici, alle due guerre che hanno modificato
l’impianto nucleare, logistico.
I tratti essenziali di questo nuovo paradigma della tecnologia dell’informazione
ritroviamo:
- L’informazione come materia prima.
- Le nuove tecnologie diffuse in tutti i processi individuali e collettivi.
- La logica di rete adottata in qualsiasi sistema.
- Tecnologie che convergono in un sistema integrato che le rende indistinguibili.
-
Il network è un insieme di nodi interconnessi, flessibili e adattabili che fungono da
strumenti organizzativi nell’ambiente digitale.
Lo svantaggio è che una volta superata una soglia ha difficoltà a coordinare funzioni,
concentrare risorse e raggiungere un determinato obiettivo. Internet ha permesso di limitare
questo svantaggio.
Internet invece è un network di comunicazione globale, rappresenta un nuovo spazio di
interazione sociale, ed è malleabile e diffusiva in tutte le attività economiche.
La galassia internet è un nuovo modello socio tecnologico che si basa su una
comunicazione da molti a molti su scala globale.
Internet è alla base del capitalismo informazionale essendo che le strutture di
connessione di rete permettono la gestione di una enorme mole di informazioni e le aziende
adottano appunto il network come propria forma organizzativa.
La tecnologia dell’informazione si basa sul processo di digitalizzazione che permette di
trasformare l’informazione (testi, immagini, suoni) in sequenze numeriche che vengono
elaborate, trasmesse e memorizzate con dispositivi informatici.
Questo processo non riguarda solo la capacità di calcolo e memorizzazione ma anche lo
sviluppo di sensori che permettono di acquisire informazioni numeriche su gps,
temperatura, campi radio.

L’ideologia californiana (1995)

L’ideologia californiana nasce da un movimento culturale che ha alimentato nuovi significati


di imprenditorialità nel settore dell’alta tecnologia.
Essa è composta da un mix di valori derivati dalla cibernetica, dall’economia liberista e dalla
controcultura libertaria non conformista, prodotti da una comunità che combina due culture.
Lo spirito libero degli hippies più lo zelo imprenditoriale degli yuppies che credeva nel
potenziale emancipativo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione in
rete.
L’agorà elettronica che nacque si basava quindi su una democrazia elettronica diretta,
liberata dal potere verticale dell’apparato statale e dalle grandi imprese oligopolistiche.
La matrice dell’individualismo libertario statunitense si basava sulla figura dell’imprenditore
hi-tech, che passa dalla solitudine all’eroe della silicon valley.

Castells - età dell’informazione = vedere lezioni

Economie di rete

(Il valore di una rete è proporzionale al quadrato degli utenti.


La comunicazione è multimodale in quanto può essere da uno ad uno, da uno a molti, da
molti a molti).
Con l’effetto della rete il valore di un prodotto (servizio) aumenta con l’aumentare
degli utenti. E’ un esternalità positiva per cui ogni cliente (utente) entrando in rete
determina un aumento di valore per ogni altro = persona non avrebbe valore.
In questo caso quindi parliamo di effetti di rete diretti.
Questo effetto è rintracciabile in altre situazioni di economia digitale, come nel caso dei
sistemi operativi o nei social network.
Superata una certa soglia (massima critica) si crea un effetto bandwagon in cui si tende
a salire sul carro del vincitore o l’effetto del the winner takes all in cui chi vince prende
tutto.
Le economie di rete somigliano alle economie di scala (fenomeno di riduzione dei costi
e aumento dell’efficienza legato ad una maggiore produzione) ma si sviluppano dal lato della
domanda.
Poi abbiamo la legge di Moore (1965), che è una legge empirica che descrive il ritmo di
sviluppo della microelettronica, a partire dagli anni Settanta, con una progressione
esponenziale.
Questa crescita si scontrerà tra alcuni anni con limiti di tipo fisico (1 chip= dimensioni di
nanometri).
La legge di Moore può essere applicata anche alle memoria di massa.
Anyway c’è un'implicazione in questa legge ossia il costo delle apparecchiature
raddoppia ogni quattro anni.
Ciò porta ad un grande consolidamento del settore che riduce la propria propensione al
rischio e l’accessibilità alle poche aziende.
Ecosistemi globali basati sulla disponibilità di big data e sui contenuti: Amazon
era una società che partii dai libri e si è estesa al commercio elettronico, Facebook era una
rete sociale per comunicazioni interpersonali, Microsoft è una società di software sempre più
basata sul cloud.
In origine esse non competevano inizialmente l’una con l’altra come se fossero ecosistemi
separati e con livelli di sovraesposizioni minimi tra loro ma oggi giorno è cambiata la
situazione e la competizione si fa sempre più viva.

Abbiamo poi dei mercati a due versanti che sono quelli in cui una piattaforma mette in
relazione due gruppi distinti di utenti in cui si creano economie di rete (carte di
credito, consolle).
Parliamo quindi di applicazioni gestite da imprese che vendono due prodotti diversi a due
gruppi distinti mettendolo in comunicazione come Amazon, Netflix, Facebook etc.
La piattaforma quindi si configura come un mercato nel senso di marketplace, in questo
senso possiamo trovare anche giornali e televisione che possono essere considerate come
piattaforme su cui si incontrano inserzionisti e potenziali consumatori.
Le economie dirette che si creano nei mercati a due versanti possono essere dirette ed
indirette.
Le economie di rete dirette sono quelle in cui l’aumento di partecipanti genera un
vantaggio per gli altri che sono dallo stesso lato (ad esempio quando ci sono altri con cui
giocare con la nuova Playstation) same side effect.
Le economie di rete indirette invece sono quelle in cui l’aumento dei partecipanti genera
un vantaggio per quelli che sono dall’altro lato (ad esempio quando più negozi accettano la
mia carta di credito) cross side effect.
Le piattaforme però presentano alcune criticità come:
Il pricing è legato al costo per aderire ad una piattaforma, le piattaforme stabiliscono i
prezzi per incentivare la partecipazione, questo porta da un lato a far sussidiare una parte dei
clienti, o far pagare solo un lato.
L’egg chicken problem è invece legato alla problematica di raggiungere la massa e quindi
di rendere il più possibile allettante l’ingresso per gli utenti, dapprima che gli effetti di rete si
sviluppano.
Il multihoming invece, è il problema che sorge quando ci sono più piattaforme che offrono
servizi concorrenziali. Se i costi di adesione sono bassi gli utenti sono spinti ad aderire a più
piattaforme ma se i costi di sottoscrizione sono elevati si può creare un effetto di
concentrazione del mercato, a svantaggio del consumatore.
L’effetto lock-in è quell’effetto che si produce quando un consumatore dipende da un
fornitore per ottenere beni o servizi e non può cambiarlo se non incorrendo a dei costi
aggiuntivi definiti costi di transizione (switching cost).
L’effetto lock-in è uno strumento potente di fedeltà dei consumatori, rende stabile il
flusso dei ricavi anche se favorisce situazioni monopolistiche creando barriere
all’ingresso.
Un esempio di lock-in è Ms Office quando produce file che non sono perfettamente
esportabili in altri formati (brevetti, crittografia etc).
I vincoli possono essere anche fisici come nel caso di Apple che utilizza viti particolari per
controllare il mercato della riparazione.
Uno dei modi per rompere il vincolo è passare a forme di noleggio-leasing.
Ci sono vari tipi di piattaforme digitali:
● piattaforme di advertising (Google): che acquisiscono informazioni dagli utenti,
lavoro di analisi e usano un prodotto per vedere spazi pubblicitari come Google o
Facebook.
● piattaforme cloud (Amazon): posseggono hardware e software di aziende che
dipendono dal digitale e che li affittano secondo bisogno come Amazon Web Service.
● piattaforme industriali (General Electric) : costruiscono hardware e software
necessari per trasformare la produzione di tipo tradizionale in processi connessi a
Internet che diminuiscono i costi di produzione e trasformano beni in servizi come la
General Electric.
● piattaforme prodotto (Spotify): generano ricavi utilizzando altre piattaforme per
trasformare un bene tradizionale in un servizio e incassando un canone o una quota
di abbonamento come Spotify.
● piattaforme lean (Uber): creano profitto riducendo i costi il più possibile,
riducendo la proprietà di attività al minimo come Uber.

Internet abilitante e collaborativa

La partecipazione diretta alla produzione dei contenuti della rete (prosumer), è come
detto prima, quando ognuno può contribuire alla produzione della rete con materiali
multimediali auto-prodotti che condivide, sfruttando apposite piattaforme come Facebook,
Instagram, Youtube etc.
La collaborazione nella produzione dei contenuti della rete, invece, è quando ognuno può
collaborare con altri utenti nella produzione di materiali manipolando varie informazioni
disponibili come Wikipedia.
Nel coordinamento la somma delle azioni individuali, produce seppur inconsapevolmente,
un ambiente informazionale nuovo e più ricco.
La cooperazione si basa su tempi quasi istantanei, su una comunicazione a costo 0, il
trattamento dell’informazione più automatico e quindi il costo del coordinamento
scende di molto.
Tutto ciò rende più semplice sia l’organizzazione sia il coordinamento di impegni collettivi
come flash mob, crowdfunding o sourcing.
La produzione di conoscenza in rete, produzione orizzontale, si basa su degli input
legati alle informazioni culturali già esistenti che hanno costo 0, su mezzi tecnologici che
hanno prezzi ridotti e sulla capacità umana di comunicare che è un fattore di produzione che
non può essere trasferito.
Ritroviamo quindi la commons based peer production in cui ritroviamo forme di
produzione in rete sempre più basate su imprese cooperative che condividono liberamente
input ed output del processo in modo eguale.
Mentre l’access economy è il modello che sta emergendo nelle imprese collaborative con
produzione orizzontale, che ad oggi si stanno sovrapponendo.
La sharing economy è l’economia della condivisione, che è andata ad affermarsi negli
ultimi decenni, il primo esempio fattibile è e-Bay.
La logica della condivisione si è allargata anche agli asset materiali come la mobilità,
l’alimentazione etc. Il costo basso di coordinamento permette di aggregare e distribuire
consistenti quantità di domanda.
Ritroviamo molteplici attività organizzate orizzontalmente come:
● sharing economy (economia della condivisione): è un modello basato sulla
condivisione di beni sottoutilizzati (capacità, spazio, beni materiali) in cambio di
un ritorno monetario o non. Si basa su mercati orizzontali.
● peer economy (economia paritaria):
● collaborative consumption (consumo collaborativo): è un modello basato sulla
condivisione, lo scambio o l’affitto di prodotti e servizi che abilitano l’accesso.
Ritroviamo mercati di redistribuzione di cose che non si usano più, trasformare beni
in servizi in cui si paga un bene per accederci e non per possederlo.
● collaborative economy (economia collaborativa): è un economia basata su reti
distribuite di individui e comunità connessi che cambiano il modo in cui
possiamo produrre, consumare, finanziare ed imparare che si differenzia dalle
istituzioni economiche centralizzate. Ritroviamo produzione, consumo, finanza,
educazione.

Esempi:
-produzione orizzontale basata sui beni comuni è il software open source che è un
approccio alla programmazione che si basa sulla condivisione dello sforzo all’interno di un
modello non proprietario.
-produzione basata sulla logica di cooperazione e condivisione è Wikipedia che prevede
una piattaforma che prevede la condivisione dei saperi e la cooperazione nella produzione di
conoscenza da parte di qualsiasi utente Internet, servizio fruibile gratuitamente dai
prosumer.
-produzione basata sulla logica di coesistenza coordinata è Google basato sull’algoritmo
PageRank e un meccanismo di coordinamento di sforzi che produce nuova informazione che
viene poi offerta gratuitamente (inserzioni e dati non proprio gratis) ai propri utenti. Questa
forma di produzione si basa sull’azione di molti attori che non è orientata intenzionalmente a
produrre quelle informazioni.

La sharing economy però è un modello di business non ancora regolato, queste


piattaforme di sharing stanno facendo abbassare di molti il costo di alcuni servizi e sta
facendo emergere una forte disparità in termini di costi con chi offre servizi in modo
tradizionale.
In particolare le attività di sharing sfuggono alla tassazione, questo modello di business la
rende lontana dai valori di condivisione e si può parlare di rental economy ossia quel
fenomeno che vede grandi industrie appropriarsi di innovazioni sociali su cui creano
mercato.
Tra l’altro chi lavora nella fase di erogazione finale finisce per sopportare tutti i rischi e le
asimmetrie, lavorando formalmente in modo autonomo ma in realtà alle dipendenze.
Le aziende in questo fungono da mediatori neutri, ricavano un piccolo margine per numeri
molti elevati ed esternalizzano così il rischio di impresa.
A seguito di queste logiche asimmetriche si è sviluppato un movimento dal basso che
organizza servizi di sharing in forma cooperativa, sono esperimenti interessanti che però non
possono al momento competere con le dimensioni delle grandi aziende.
Digital Platform Labor

Nel processo di digitalizzazione negli ultimi tempi, alcuni settori si sono più intensamente
inoltrati e sono emersi specifici lavori e forme di occupazione che costituiscono ambiti di
attività, più connessi alle innovazioni, ai cambiamenti dei mercati e alle trasformazioni
nell’organizzazione d’impresa.
Per digital labor intendiamo lo specifico compito realizzato attraverso la mediazione di una
piattaforma digitale e la riduzione di tutte le nostre connessioni digitali ai rapporti di
produzione. Le piattaforme estraggono valore da tutte le interazioni sociali che si realizzano
all’interno dell’uso digitale.
Il lavoro digitale riguarda anche le attività che sono prodotte in maniera spontanea e
gratuita dagli utenti della rete, che non sono remunerati e che vengono sfruttate
nell’economia della rete in quanto producono contenuti, dati e metadati di utilizzo delle
applicazioni che sono necessari e preziosi per il funzionamento delle piattaforme digitali e
dell’intelligenza artificiale.
Oltre la profezia che vede la fine del lavoro umano ad impatto con le macchine, in realtà
nell’automazione c’è sempre del lavoro umano.
Le piattaforme digitali e l’intelligenza artificiale comportano una trasformazione
quantitativa e qualitativa del lavoro, possiamo infatti parlare di invisibilizzazione del
lavoro ossia dei fornitori, imprenditori, utenti.
Le piattaforme digitali si propongono di spingere gli uomini a fare un lavoro di produzione
delle informazioni necessarie al funzionamento degli algoritmi delle piattaforme.
Il lavoro informazionale si scompone in micro attività di produzione e trattamento dati, in
cui le intelligenze artificiali si addestrano.
Le implicazioni sono la distruzione dei mestieri, creazioni di mansioni dequalificate di
digital labor per effetto di parcellizzazione e standardizzazione dei processi di produzione
informazionali.
Il valore del digital labor si suddivide in:
1. valore di qualificazione che riguarda l’organizzazione dei flussi informazionali;
2. valore di monetizzazione che riguarda la mercificazione di contenuti e dati;
3. valore di automatizzazione che riguarda il contributo fornito allo sviluppo
dell’intelligenza artificiale.
Una tipologia di digital labor è quella on demand ossia di servizi su richiesta come Uber
che hanno alla base produzione di servizi alla persona.
C’è poi il mini work che è il lavoro attraverso le piattaforme di micro lavoro come Amazon
Turk che riguarda la produzione e gestione di info.
Infine il networked labor che è il lavoro attraverso le piattaforme sociali come i social
network del tipo Facebook o Snapchat che si fondano sulla commercializzazione delle
relazioni sociali in quanto tali.
Le implicazioni sono anche quelle che ci sono delle info aziendali diffuse secondo logiche di
marketing, le statistiche sono inadeguate.
All'emergere di questo digital labor ritroviamo due visioni divergenti: una legata alla
capacitazione che vede appunto l’emergere di una nuova classe virtuale e una visione
legata all’ipersfruttamento che vede una creazione di un proletariato digitale.
Ci sono infatti mobilitazioni sindacali, regolazione del funzionamento delle piattaforme etc.

Il divario digitale
Il divario digitale è un fenomeno multidimensionale che riguarda le disuguaglianze
nell’accesso e nell’uso di nuove tecnologie, in particolare Internet.
Lo studio del divario è importante sia in termini di equità sociale che di efficienza
economica, tra aree territoriali e individui.
Nella sua prima definizione del 1999, il digital divide era inteso come il divario tra coloro che
potevano accedere alle nuove tecnologie e chi non (visione basata sull’accesso).
L’espressione di digital divide si riferisce ad una costellazione di differenze di tipo sociale,
economico e tecnologico. Per cui oltre l’accesso, il divario si esprime in termini di
disuguaglianza legata all’individuo e al contesto come la qualità dei mezzi tecnici, la
disponibilità delle info, la capacità d’uso delle tecnologie.
Secondo i teorici delle disuguaglianze digitali, il divario digitale riguarda le diverse
capacità dei singoli di usare efficacemente i nuovi mezzi di informazione e
comunicazione, in particolare Internet. Acquistano quindi rilevanza le modalità
individuali di utilizzo di Internet e non il semplice accesso.
Il divario digitale si può considerare come un continuum lungo il quale ritroviamo da un
lato la mera esclusione dall’accesso, alla dotazione di strumenti di ultima generazione fino ad
arrivare ad un uso pieno e consapevole dei mezzi.
Ci sono 5 indicatori di disuguaglianza di uso:
1) qualità mezzi tecnici;
2) competenze digitali;
3) sostegno reti sociali;
4) autonomia di uso;
5) varietà di uso;

Come sappiamo, l’introduzione di Internet sostiene e privilegia chi occupa posizioni sociali
più elevate, favorendo le disparità, per cui si ipotizza la nascita di nuovi gap di conoscenza
specifici di Internet e un'élite di informazione.
In questa élite gli individui con posizione privilegiata sono i primi a prendere consapevolezza
dei vantaggi di Internet, sono i primi a sostenere dei costi, hanno un bagaglio educativo e
culturale tale che elaborano le informazioni in modo efficace ed ottengono un ritorno
maggiore in termini di conoscenza.
I due punti di vista sul divario digitale sono il divario globale in cui l’ottica è macro sociale
e ci si sofferma appunto sulle diseguaglianze nell’accesso alla rete tra le aree geografiche tra i
diversi paesi; E il divario sociale che applica un aspetto micro-sociale che pone attenzione
alle disuguaglianze nell’accesso e uso di Internet, tra individui e famiglie, all’interno di
diversi contesti istituzionali.
Il divario digitale si ricollega molto allo sviluppo economico e ai livelli di ricchezza di un
paese, ossia si associa all’utilizzo di Internet.
I fattori istituzionali che influenzano la diffusione di Internet sono di contesto
(regolazione mercati/Internet e disponibilità di infrastrutture di rete), culturali (livelli di
istruzione, capitale umano, atteggiamento vs tecnologie, precedenti storici nella diffusione
dei media) ed economici (costo accesso alla rete, investimenti). Infatti collegato a
quest’ultimo i paesi con livelli più alti di accesso hanno un profilo formato da buon
investimenti nel settore educativo e digitale. I soggetti di tali paesi possono quindi accedere
alla rete, anche grazie alla presenza di host con un’ottima connettività, a costi di connessione
bassi, pur avendo un buon reddito.
Mentre il divario globale tende a ridursi sia tra aree sviluppate che non, al contrario del
divario sociale.
Si tende quindi alla formazione di una élite dell’informazione, ad una riduzione
progressiva delle disuguaglianze globali e alla crescita di quelle sociali.

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