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Convenzione e simboli
della New England Masque
Lamberto Amistadi *
L’interesse sostanziale e il significato del fantastico in
poesia si fonda sulla sicurezza che tutto quanto accade nel
mondo, e soprattutto nella vita dell’uomo, dipende, oltre che
dalle sue cause evidenti e tangibili, anche da un’altra cau-
salità, più profonda e universale ma tutta via meno palese.
Ed è questa la caratteristica che distingue l’autenticamente
fantastico; esso non deve mai presentarsi, per così dire, in
forma scoperta. Le sue manifestazioni non devono impor-
re la fede nel senso mistico degli avvenimenti umani, ma
piuttosto accennare, alludere ad esso. Nell’autenticamente
fantastico rimane sempre una possibilità formale, esteriore,
di una spiegazione semplice, basata sui rapporti normali e
abituali tra i fenomeni. […] Tutti i singoli particolari devono
avere un carattere familiare e solo la connessione del tutto
deve accennare a una causalità di altro tipo.
V. Solov’ev, prefazione a Il vampiro di A. Tolstoj
L’architettura delle maschere rimette in gioco il
rapporto tra cittadini ed istituzioni. E ancor più, pri-
ma di ricostruire tale rapporto, deve riformulare l’or-
dinamento dei vari aspetti della vita collettiva, della
cui stabilità e accettazione si fa garante l’istituzione.
Come nella “scena tragica” dei trattatisti rinasci-
mentali, nelle scene urbane di Hejduk non compaio-
no le persone: “In queste scene, benché alcuni hanno
dipinto alcuni personaggi, che rappresentano il vivo,
come saria una femina ad un balcone, o dentro d’una
porta, etiandio qualche animale: queste cose non
consiglio che si faccino (…).”1 Il momento fondativo
e normativo della stipula del trattato precede l’entrata
in scena del contraente della convenzione, cioè il cit-
tadino. Le scene urbane che venivano rappresentate
nei teatri erano la prova di una convenzione certa tra
architetto e utente e di un linguaggio condiviso. La
solidità della scena rispecchiava la solidità delle rela-
zioni e la continuità spaziale dei luoghi, le strade e
le piazze, trovava un riscontro nell’attualità storica. I
quattro libri dell’architettura di Palladio, ad esempio,
non contengono alcun progetto di città ideale. La città
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ideale di Palladio è Vicenza e la scena ideale corri-
sponde alla scena reale di Piazza dei Signori.
Se la città è «un insediamento umano in cui è pro-
babile che individui estranei si incontrino»2 e l’arte di
vivere in città e della buona creanza sono «la capaci-
tà di interagire con gli estranei senza imputar loro la
condizione di estranei»3, i cittadini di Hejduk vanno
completamente rieducati. Essi sono soli ed abitano
case dall’aspetto torvo, depresse e malinconiche, ap-
parentemente disabitate. Ma appena si sente un suono
di passi poco familiari, sbuca all’improvviso una fac-
cia dall’espressione assente, che lancia al viaggiatore
uno sguardo glaciale ed indifferente – «il cui volto
quasi monacale si sporge dalla finestra al rumore di
un passo sconosciuto.»4 L’atmosfera è ben poco ur-
bana ed assomiglia di più all’inciviltà e alla ferinità
di una “scena satirica” o “rustica”, nella quale la fo-
resta è abitata da Satiri, metà uomini e metà caproni,
che riprendono e mordono i malcapitati. Non a caso
Hejduk cita il Salammbô, che segna la ritirata di Flau-
bert dalle illusioni della civiltà borghese. La scena è di
nuovo una foresta abitata da mostri femminili, donne
con la groppa di drago, che danzano intorno al fuoco
in un rito di magia nera e nella quale i contadini car-
taginesi uccidono e crocifiggono i leoni.5
Tale imbarbarimento è uno dei motivi del passag-
gio da una “architettura dell’ottimismo” ad una “ar-
chitettura del pessimismo”.6 Il pessimismo di Hejduk
riguarda la rottura dell’alleanza tra i cittadini, rappre-
sentata dalle istituzioni e forse dell’alleanza tra Dio
e gli uomini, che si ritrovano politicamente e social-
mente, ma anche linguisticamente e metafisicamente,
soli e malati. Profeticamente, Hejduk anticipa le con-
clusioni più cupe della modernità liquida di Bauman,
che parla di «istituzioni zombie» che sono «morte ma
ancora viventi» e dove si sono liquefatti «i legami che
trasformano le scelte individuali in progetti e azioni
collettive: i modelli di comunicazione e coordina-
mento tra politiche di vita condotte individualmente
 Nella pagina precedente:
1. John Hejduk, House of the Twins and their Mother’s House, Riga Masque n.
77, 1989. Canadian Centre for Architecture
2. Le Corbusier, Villa La Roche: lampada a parete
da un lato e le azioni politiche delle collettività umane
dall’altro. [...] Di conseguenza, il nostro è un tipo di
modernità individualizzato, privatizzato, in cui l’one-
re di tesserne l’ordito e la responsabilità del fallimento
ricadono principalmente sulle spalle dell’individuo.»7
Gli spazi pubblici «non civili» - come li chiama Bau-
man, sono pensati per l’azione, non per l’inter-azione.
Ma il nocciolo della questione (the Crux) è che non
solo nessuno sa come comunicare con gli altri, ma
a nessuno interessa farlo. O, meglio ancora, come il
blasé della metropoli di Simmel8, nessuno pensa che
sia utile farlo. La possibilità di costruire spazi pub-
blici “civili” è ostacolata dagli stessi post-cittadini, i
quali ritengono di trovarsi benissimo nella propria
solitudine e di poter risolvere pragmaticamente, indi-
vidualmente o per gruppi attentamente selezionati “a
prova di estraneo”, i problemi di salute, di istruzione
e di sicurezza. Gli abitanti della Berlin Masque nr. 26
UNITS A & B (HOUSING) THE CRUX [fig. 9, p. 33]
non sono obbligati a vivere da soli, essi lo scelgono vo-
lontariamente: «L’individuo che vuole rimanere single
e vivere privatamente. Che si augura di vivere in un
posto tutto suo, di vivere da solo in una città, in una
metropoli.»9
La seconda ragione del pessimismo di Hejduk ri-
guarda il venir meno di ogni speranza di totalità, o
per lo meno della totalità intesa come ordine coeren-
te, razionale, univoco e progressivo, come era stato
immaginato nella prima fase della storia della moder-
nità. E che Yve-Alain Bois individua come parados-
so e premessa del fallimento inevitabile del progetto
delle avanguardie europee.10 In una lunga intervista
a Don Wall11, Hejduk racconta il momento preciso
in cui fa esperienza di questa impossibilità, che, allo
stesso tempo, diventa la premessa di una nuova aper-
tura: il suo soggiorno di sette giorni a villa La Roche
nel 1972, che gli cambierà la vita.
Il racconto ha il tono di una di quelle storie di
detective che Hejduk dà agli studenti della Cooper
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Union come tema di architettura o di un racconto di
Edgar Allan Poe. Mentre si trova nella villa per orga-
nizzare l’allestimento della mostra sulle Wall House,
Hejduk è richiamato affannosamente dal suo colla-
boratore. Dopo aver piantato dei chiodi in una parete
della stanza per appendere i disegni, una scia di pol-
vere rossa di provenienza inspiegabile si deposita sul
davanzale della finestra in corrispondenza della fi la
di chiodi. Nel corso della settimana si succedono fatti
inquietanti e incomprensibili: sensazioni di gelo pro-
vate a chi entra nella casa; una presenza misteriosa
che si affaccia alla finestra e rimanda indietro un ami-
co di Hejduk, dicendo che non è in corso alcuna mo-
stra; i due dottorandi svedesi che vengono colti in uno
stato di sonnambulismo a ripulire il giardino, in balia
della coppia di vecchi custodi al servizio della villa fin
dal 1927; lo strano riverbero prodotto dal suono me-
tallico del portone d’ingresso; le lampade della casa
ridisegnate da Le Corbusier sul modello delle torce
che si appendevano sul retro dei carri funebri [fig. 2]:
l’aver praticato quei fori nelle pareti si era rivelato un
vero e proprio sacrilegio!12 E questa interpretazione
di villa La Roche è avvalorata dal racconto di Stir-
ling, secondo il quale nei weekend tra gli anni 1927
e ‘29 numerosi medici e avvocati danarosi, appassio-
nati dell’occulto, scendevano da Londra a Parigi per
divertirsi e giocare d’azzardo. «Questo posto non è
quello che pensavo che fosse. Pensavo fosse una casa,
ma non era una casa.»13 Il balcone della scala che si
affaccia sull’atrio è il pulpito; il tavolo di marmo nero
nel soggiorno, l’altare; la biblioteca è il coro, le pietre
nel piccolo giardino sotto il soggiorno gli appaiono
come pietre tombali.
Wall: Villa La Roche può essere considerata l’inizio dei
tuoi recenti lavori sulle “maschere”,14 a partire dai quali le
cose non sono quello che sembrano.
Hejduk: Esattamente. Il non rivelato.

Because New England is all mask!
Gli architectural pattern books, che riproducevano
“in parole povere” i quattro libri di architettura di An-
drea Palladio educarono intere generazioni di archi-
tetti e carpentieri americani e corrispondevano per-
fettamente al pragmatismo col quale la nuova società
mercantile e puritana, fondata dai Padri Pellegrini
sulle coste del Maine, voleva rappresentarsi nel nuo-
vo stile coloniale. Non vi era architetto del New En-
gland (Frank Lloyd Wright compreso) che non si fosse
ispirato ai principi e ai dettagli costruttivi raccolti nel
Country Builder’s Assistant, che Asher Benjamin pub-
blica nel 1797. Il manuale convenziona lo stile degli
edifici e certifica allo stesso tempo i comportamenti e
lo stile di vita. La casa del New England è un edificio
a due piani, a pianta rettangolare, rigorosamente sim-
metrico, col tetto a padiglione o, in alternativa, una
terrazza panoramica balaustrata, con il pavimento di
legno come il ponte di una nave e, non di rado, una tor-
retta quadrata od ottagonale al centro della terrazza.
La casa è costruita con un telaio in legno (wood frame)
e rivestita con lunghe assi orizzontali (clapboard hou-
se), mentre le finestre, che si chiudono a ghigliottina
(finestre all’americana), sono divise in due riquadri da
6x6 specchiature vetrate e protette da imposte a stec-
che orizzontali (louvered shutters). La simmetria della
pianta, che al piano terra è divisa in due grandi stanze
riscaldate poste ai lati dell’ingresso, è sottolineata da
due alti camini di mattoni. Ma soprattutto, il manuale
di Benjamin e l’opera di architetti come Charles Bul-
finch e Samuel McIntire introducono nell’architettura
del New England stilemi neoclassici di origine italiana
come la finestra termale e la “palladiana”.
La prima manipolazione di questi motivi ed inter-
pretazione contemporanea dell’architettura del New
England è fornita dalle Double House, che Robert
Venturi costruisce sull’isola di Nantucket nel 1970.
Venturi inscrive la finestra termale nella pelle della
sua clapboard house, secondo la nota proposizione:
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2
«La nostra definizione è che l’architettura è un invo-
lucro con sopra dei simboli, oppure: l’architettura è un
involucro con sopra delle decorazioni.» Tecnicamente,
il simbolo è una sineddoche, ossia la parte per il tut-
to: il tutto sono tutte le architetture del New England,
lo stile di vita dei suoi abitanti (così ben immortalato
nelle fotografie di Paul Strand, fig. 3)15, e soprattutto
il legame indissolubile tra Europa e America. Ma in
verità, Double House è il modo in cui, non a caso, John
Hejduk chiama quelle che di fatto sono Casa Wislocki
e Casa Trubek e l’indizio di come, anche nel New En-
gland, le cose non siano esattamente come appaiono.
Hejduk affida alla tradizione letteraria la ricerca
del carattere e di un programma16 autenticamente del
New England e ritrova nell’opera dei suoi due maggio-
ri scrittori – Edgar Allan Poe e Stephen King, la rap-
presentazione del lato oscuro e misterioso, che si cela
dietro le convenzioni sociali ereditate dalla vecchia
Inghilterra. Tra i cosiddetti Racconti del terrore, spicca
La maschera della morte rossa, nel quale i partecipanti
ad un ballo in maschera sono sconcertati dall’appari-
zione di una figura misteriosa, vestita con un sudario
macchiato di sangue e una maschera che raffigura il
volto di un cadavere. Jonathan Middleton stabilisce un
parallelo tra l’architettura delle maschere di Hejduk e
il teatro allegorico di Sir David Lindsay. Nella satira
dei Three Estates, Lindsay attacca i tre ordini costituiti
del Clero, dei Lord e della borghesia mercantile, per-
sonificandoli nelle maschere della Spiritualità, della
Temporalità e del Mercante.17
Hejduk ripete in diverse occasioni il debito che la
New England Masque nutre nei confronti del film Shi-
ning, che Kubrick traspone da un romanzo di Stephen
King: «Le siepi vengono dallo ‘Shining’ di Kubrick.
Quel film mi ha lasciato veramente attonito, special-
mente il labirinto. Non potevo crederci.»18 Di Shining,
Hejduk non riprende solo elementi formali come il
labirinto o la frontalità con cui Kubrick staglia la fac-
ciata dell’Overlook Hotel sullo sfondo delle montagne,
3

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 3. Paul Strand, Palladian Window, Maine, 1945. Da Time in New England, 1980
ma è attratto, prima di tutto, dal tema della “luccican-
za” (the shining), ovvero una sorta di potere tramite
il quale le persone possono prevedere eventi futuri,
rivivere quelli passati e comunicare tra loro. Come
per l’esperienza di villa La Roche, la “luccicanza” è la
capacità di scorgere il lato invisibile e misterioso della
realtà, che Kubrick rappresenta con l’apparizione delle
gemelle e con la metafora dell’immagine riflessa, che
è un’altra delle ossessioni di Hejduk. Oltre alle due
ali della casa, segnate dalla doppia coppia di camini
dello stile New England, Hejduk articola la differen-
za tra le torrette quadrate al centro delle terrazze e le
forme plastiche del primo piano: «Cominciamo dal
tetto. La casa ha tre piani. In cima ad ogni ala c’è un
elemento che è simmetrico a se stesso. Scendi al pia-
no di sotto, i due bagni sembrano simmetrici, ma non
lo sono. Uno è sinistro, l’altro è destro. Gli unici due
spazi chiusi di quel piano sono immagini riflesse una
dell’altra. Poi scendi al primo piano [...]»19 A differen-
za che il raddoppio puro e semplice di due elementi
identici, l’immagine riflessa sospende il rapporto tra
realtà visibile e invisibile. Per Gérard Genette la figura
è quella dell’omotetia e porta l’esempio magnifico di
quella meccanica tra volo e nuoto, tra uccelli e pesci:
«Chi può assicurare in realtà che non ci sia in fondo
all’acqua un altro sole altrettanto reale come il nostro,
e che sarebbe come il duplicato?»20
It’s a very strange house.
Vi è un’altra analogia, ancora più interessante, tra
Shining e la New England Masque. È la scena in cui
Jack (Jack Nicholson), oramai impazzito, sfonda la
porta d’ingresso e saluta la moglie con la celebre frase:
«Wendy, sono a casa, amore», che fa il paio con l’affer-
mazione di Hejduk, ribadita più volte: «Perché il mio
orientamento architettonico è contro la domesticità.»21
Le case di Hejduk sono poco domestiche, come non
sono pop, kitch, sentimentali o romantiche. Al contra-
rio, esse sono piuttosto “strane”.
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La New England Masque è una sola casa, composta
da due ali, una per abitante, che possono decidere o
meno di frequentarsi, secondo tutte le combinazioni
di genere e di età: «È possibile per due persone…ma-
schio/femmina, maschio/maschio, femmina/femmi-
na, bambino/adulto vivere insieme? Questa è una delle
questioni.» Tra le due ali della casa non c’è nessuna
forma di comunicazione diretta, se non dalle terraz-
ze dell’ultimo piano. Per passare da un’ala all’altra bi-
sogna scendere e risalire per le scale contenute nelle
torri. L’unica forma di comunicazione è individuale
e avviene attraverso la sedia costruita come un con-
fessionale: «La sedia fa parte della ‘maschera’. Il tipo
siede là. Sai cos’è la sedia? Un confessionale.»22 È un
confessionale come si deve, di legno di quercia, con la
porta scorrevole, la finestra chiusa da una griglia, con
le ruote come le bancarelle di vestiti usati sulla 7th Ave-
nue e le ali di cocci di peltro, pesanti a sufficienza da
non poter volare. Il programma funzionale è curato
nei minimi dettagli, compreso il disegno del mobiletto
per il tabacco e per i liquori: la posizione dei mobili è
fissa tranne quella delle due sedie/confessionale; ogni
comportamento è predeterminato in un gioco esatto
di varianti e combinazioni, fino ai vestiti degli abi-
tanti: «Wall: Perciò, quello che stai dicendo è che non
solo si devono controllare il colore e l’incidenza della
luce, ma che gli abitanti dovrebbero vestire in un certo
modo.»23
Le torri gemelle della New England Masque richia-
mano le torri d’ingresso del Maschio Angioino di Na-
poli, ma sono anche e soprattutto gli ingranaggi di un
grande macinino attraverso il quale Hejduk fa passare
gli abitanti della casa, che vengono incanalati nell’im-
buto costituito dal labirinto di siepi e “spremuti” dalla
corte di accesso all’interno dell’abitazione. Nella por-
ta d’ingresso, il meccanismo sali-scendi delle finestre
all’americana è sostituito dalla lama metallica di una
ghigliottina. La terrazza della casa del New England
diventa il ponte di coperta di un sottomarino, a cui si
accede attraverso uno sportello azionato da un pulsan-
te, che funge da boccaporto. Le due scala-tetto-teatro
delle barchesse della maschera sono il prototipo delle
successive maschere teatrali di Berlino e riportano al
mistero e ai paradossi di casa Malaparte: «La scala-
tetto-teatro ha una forma ad imbuto: stretta in basso,
si allarga salendo. La prospettiva è capovolta. Arrivati
alla sommità piana del tetto, se non vi fosse, come in
realtà c’è, quella curva parete di muro che fa da quinta
non avremmo un tal panico: perché, in realtà, la sca-
la ci ha condotto al piano del sacrificio, e qui c’è una
chiusura. Cosa c’è dietro? Il mistero più temibile, il
nulla. La chiusura avvolge un vuoto. Siamo nel cuore
di un rito antico. La scena è maestosa.»24
Ancora diverso è il meccanismo di travestimento e
di straniamento con il quale Hejduk compone le fac-
ciate delle sue numerose maschere a partire proprio
dalla New England Mask e più in generale compone le
figure geometriche elementari come tubi, comignoli,
imbuti, stecche, parallelepipedi di vario genere in luo-
go di nasi, bocche, occhi, ciglia e capelli. Non si trat-
ta, in questo caso, dell’utilizzo di un qualche artificio
retorico, ma di una proprietà del linguaggio che De
Soussurre definisce: valore indifferenziato del segno.
Hejduk dice di essersi ispirato alle sculture lignee di
Picasso («Dopo una visita alla mostra di Picasso al
Museo di Arte Moderna. Le sue sculture di legno di-
ventano il modello per la geometria delle maschere di
Berlino.»)25 Come per la scultura di Picasso, dopo un
periodo iniziale cosiddetto “Negro” in cui le maschere
africane fungono da modello morfologico di deforma-
zioni anatomiche e di vocabolario formale, esse rap-
presentano un modello sintattico. Nelle maschere di
Hejduk e nei papier collier di Picasso, cilindri e coni
vengono riconosciuti come occhi piuttosto che come
il rosone della cassa armonica della chitarra sulla base
della posizione che occupano reciprocamente. Bois,
riprendendo De Soussure, parla di “valore indifferen-
ziato del segno”: a seconda del sistema simbolico di ri-
50
ferimento lo stesso cilindro cavo può rappresentare in-
differentemente un occhio o il rosone della chitarra.26
I progetti di Hejduk sono pieni di stranezze, a tutti
i livelli, dal ruolo assegnato ai diversi materiali nella
costruzione delle maschere, al montaggio delle parti,
ai brani di letteratura inseriti nella sezione di Berli-
no delle Mask of Medusa: «[…] ma gli dèi che abitano
sotto i nomi e sopra i luoghi se ne sono andati senza
dir nulla e al loro posto si sono annidate strane divi-
nità.» 27 O nell’intervista a Don Wall: «[…] due im-
magini, due fotografie, che ancora mi perseguitano,
come avviene per certi paesaggi strani, che sentiamo
misteriosi e presaghi, seducenti e pericolosi insieme;
è la loro apparente dimensione bucolica che turba.»28
O l’interesse per Amsterdam definita «molto strana»
e il cimitero di Modena di Aldo Rossi, in cui per Hays
«Hejduk vede l’eterogeneità e la singolarità che non
possono essere ridotti semplicemente alla geometria.
Nel progetto di Modena, Hejduk nota, ad esempio, lo
straniamento e il détournements ascrivibili alla città
ideale di Ledoux a Chaux.»29 e di cui lo stesso Hays
sottolinea la categoria del “mostruoso”: «Hejduk libera
i suoi oggetti dalle strettoie di una tale classificazio-
ne, col risultato che essi ci appaiono fuori dal comune,
addirittura mostruosi.»30 e ricorda come i colori della
Wall House 3 posta davanti al Mulino Stucky di Vene-
zia avessero una funzione straniante: «La piccola casa
colorata guardava dall’alto l’ordinato, monocromatico
mondo europeo.»31 Lo stesso Hejduk riprende la con-
siderazione di Correa su villa La Roche: «[…] tutte le
grandi architetture come villa La Roche nascondono
sotto un’apparente tranquillità, mostri.»32
La stranezza della New England Masque è costru-
ita con l’utilizzo di artifici retorici continui, metafore
e sostituzioni che ribaltano i significati usuali dei ter-
mini e proiettano la casa fuori dalla sfera dell’ordina-
rio («Tanto per dire, c’è molta confusione sull’idea di
ordinario, tutte queste cazzate che sentiamo sull’ano-
nimo e sull’ordinario.»)33 Scrive Jonathan Middleton:
 4. Stanley Kubrick, Scena dal film The Shining, 1980
5. Heinrich Tessenow, Case gemelle per quattro famiglie, Hellerau, 1906
6. John Hejduk, Ministry of Development, Lago Baikal Masque n. 89, 1989
7. Maschio Angioino, Napoli
8. Heinrich Tessenow, Casa doppia per lavoratori, 1905
9. Robert Venturi, John Rauch, Double House sull’isola di Nantucket, 1970
10. John Hejduk, House for Two Brothers, Berlin-Tegel, 1987-1989
11. François Truffaut, Scena dal film Fahrenheit 451, 1966

4, 5

8, 9

10, 11

51
 13. François Truffaut, Scena dal film Fahrenheit 451, 1966
14. Stanley Kubrick, Scena dal film The Shining, 1980
15. Stanley Kubrick, Scena dal film The Shining, 1980
16. Guerrini, La Padula, Romano, Terza Roma: Palazzo della Civiltà Italiana,
1940. In John Hejduk, “Una casa come me”, «Domus», April 1980
17. Adalberto Libera, Casa Malaparte, Capri, 1937

16, 17

13, 14, 15

52
12. Grebo Mask, Costa d’Avorio o Liberia. Musée Picasso, Paris
«Nel travestimento o nella maschera, uno gioca a es-
sere qualcuno di diverso o qualcosa di strano», e cita
l’Homo ludens di Huizinga: «L’uomo moderno ha sen-
za dubbio una grande disposizione a intendere il lon-
tano e l’esotico. Nulla gli giova tanto a questo quanto
la sua sensibilità per tutto quel che sia maschera o tra-
vestimento. […] Il vedere un mascherato, anche come
pura percezione estetica a cui non sono collegate no-
zioni religiose definite, ci conduce subito fuori dalla
vita ordinaria, in un mondo diverso da quello del chia-
ro giorno. Nella sfera cioè del primitivo, del bambino e
del poeta, nella sfera cioè del gioco.»34
Harold Bloom introduce il concetto di “stranezza”
come categoria poetica: «Credo che la poesia nella sua
massima espressione - in Dante, Shakespeare, Donne,
Milton, Blake [tutti autori ospitati nel “Cimitero delle
ceneri del pensiero”] – abbiano un’unica difficoltà ge-
nerale: è il modo per espandere la nostra coscienza at-
traverso quella che ho imparato a definire stranezza».35
L’autenticità del programma riguarda le procedure di
straniamento, a cui è necessario sottoporre l’indivi-
duo (il sonnambulismo dei dottorandi svedesi, la diffi-
denza del racconto di Grandet, ma anche lo zombie di
Foucault o il post-cittadino di Bauman) per sottrarlo
all’automatismo della percezione. Diventando abitua-
li, le nostre azioni diventano meccaniche e la nostra
esperienza passa nell’ambito dell’“inconsciamente au-
tomatico” e l’oggetto inaridisce: «Così la vita scompare
trasformandosi in nulla. L’automatizzazione si mangia
gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura del-
la guerra.»36 Lacan descrive il limite patologico di que-
sto processo con la metafora del lapsus, che irrompe
nel momento di massima accelerazione del processo
di automatizzazione provocando il distacco delle pa-
role dalle cose, la rottura del rapporto significante. Lo
scopo dell’arte è quello di trasporre gli oggetti dalla
sua percezione abituale nella sfera di una nuova per-
cezione, in altre parole, di produrre una originale va-
riazione semantica attraverso l’attività immaginativa.
53
La teoria della letteratura propone diversi modi per
sottrarre l’oggetto all’automatismo della percezione:
1) non chiamare l’oggetto col proprio nome, ma de-
scriverlo come se si vedesse per la prima volta; 2) non
utilizzare denominazioni abituali delle parti, ma di
parti corrispondenti in altri oggetti (le diverse figure
retoriche); 3) utlizzare oggetti familiari, ma connessi
in maniera inusuale. In sostanza, si tratta di descrizio-
ni che devono essere rese “strane”.
Hejduk dice che l’architettura non è un’arte pura,
come la pittura o la scultura. La moglie Gloria defini-
sce Hejduk un selvaggio, che “architettizza” qualsiasi
materiale.37 E lo fa secondo una stretegia di accumulo
di significati, cui fa da contrappunto una precisione
assoluta nell’utilizzo degli elementi e nel disegno dei
dettagli. Questa vasta e spesso ambigua gamma di si-
gnificati viene incorporata nell’architettura attraverso
artifici retorici e manipolazioni, che investono il rap-
porto tra oggetto e soggetto, in cui si articola l’archi-
tettura delle maschere. In questo gioco di specchi, il
soggetto – cittadino e individuo, sottratto alla fami-
liarità dei codici e dei comportamenti divenuti ormai
vuoti e stanchi, è costretto a fare i conti continua-
mente con se stesso. La natura “reggente e fondante”
dell’architettura come medium, attraverso il quale i
cittadini si potevano riconoscere e auto-rappresentare
in un orizzonte di coscienza comune, è scardinata: il
cittadino-utente, alienato e privo di memoria storica,
non riconosce alcun codice. Egli è talmente individua-
lizzato da non poter comunicare con nessuno.38 Nella
New England Masque le persone comunicano attra-
verso un confessionale, si guardano attraverso delle
maschere e siedono volgendo lo sguardo in direzioni
differenti. Hejduk trova il coraggio e il modo di guar-
dare il volto della Medusa senza rimanerne pietrificato
e scorge «con trionfale tristezza» la tragicità del nostro
tempo, smascherando al contempo la velleitarietà di
tanta retorica sulla dimensione civile dell’architettura.
 L’ultima chance che Hejduk concede all’architettu-
ra è il ritorno alla sua dimensione simbolica ed espres-
siva, quella natura poetica, che, sola, gli permette di
attivare nell’utente una partecipazione inconscia ed
immediata. L’architettura deve essere rimonumenta-
lizzata attingendo ai suoi archetipi arcaici ed univer-
sali e immergendo la coscienza individuale nel bagno
di una epistrofe collettiva: il recinto, il labirinto, i solidi
primari, le coppie gemellari e il riferimento fisiogno-
mico e zoomorfico, attraverso il quale viene rivissuto
il rito su cui si era fondata l’architettura monumentale
primitiva. Ciò, si spera, in attesa di tempi migliori, di
un nuovo patto sociale39 tra gli uomini e di una nuova
alleanza con Dio o, per lo meno, in attesa che la cura e
la rieducazione iniziate dall’architettura delle masche-
re abbiano effetto.
Note
* Lamberto Amistadi, Ricercatore del Dipartimento di Archi-
tettura dell'Alma Mater Studiorum Università di Bologna.
54
1. S. Serlio, Trattato di architettura, Libro II: Trattato di
prospettiva & Trattato sopra le scene (1566), Dedalo, Roma
2010, pp. 101, 102.
2. R. Sennet, Il declino dell’uomo pubblico (1977), Bom-
piani, Milano 1982. Cit. in Z. Bauman, Modernità liquida
(2000), Dedalo, Roma-Bari 2011, p. 103.
3. Z. Bauman, op. cit., p. 116.
4. «Esistono in talune città di provincia case la cui vista
suscita una malinconia simile a quella che provocano i più
cupi chiostri, le più squallide lande, le più tristi rovine. E
forse in queste case ci sono insieme il silenzio dei chiostri,
l’aridità delle lande, l’ossame delle rovine. Così sommessi
vi sono la vita e il movimento che un estraneo crederebbe
disabitate se non gli accadesse d’un tratto di incrociare lo
sguardo morto e freddo di un essere immobile, il cui vol-
to quasi monacale si sporge dalla finestra al rumore di un
passo sconosciuto.» H. de Balzac, Eugénie Grandet (1833),
Mondadori, Milano 2004, p. 3, cit. in J. Hejduk, Mask of
Medusa, Rizzoli, New York 1985, p. 138.
5. G. Flaubert, Salammbô (1862), cit. in J. Hejduk, op.
cit., p. 156.
6. «Sospetto che in questi ultimi cinque anni, la mia ar-
chitettura sia passata da una ‘architettura dell’ottimismo’ a
una ‘architettura del pessimismo’» J. Hejduk, Mask of Me-
dusa, cit., p. 83.
7. Z. Bauman, Modernità liquida, cit., pp. XXVII, XXIX.
8. Cfr. G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito
(1903).
9. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 148.
10. Cfr. Y. -A. Bois, Painting as Model, The MIT Press,
Cambridge MA 1990.
11. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., pp. 124-136. Nel te-
sto compaiono diversi brani di questa intervista. La tradu-
zione è mia.
12. «really sacrilegious», Ibid., p. 127.
13. J. Hejduk, Ibid., p. 126.
14. Hejduk utilizza la doppia definizione “Mask/Ma-
sque”. Mask deve essere inteso come l’oggetto in sé e può
essere tradotto con “maschera”, Masque riguarda l’intera-
zione tra soggetto e oggetto, in cui si articola il gioco delle
maschere e può essere tradotto con “mascherata”. Cfr. B.
Valdés, Hejduk y la Máscara arquitectónica, Espacio del ser,
 Nelle pagine seguenti:
John Hejduk, New England Masque, ca. 1980. Da Mask of Medusa, 1985

objeto para paracer, Tesi di Laurea condotta presso l’Uni- 34. J. Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino 2002, p.
versidad católica de Chile, relatore Prof. R. Pérez de Arce. 33.
15. P. Strand, Time in New England (1950), Aperture, 35. H. Bloom, L’arte di leggere la poesia, Rizzoli, Milano
New York 1980. 2010, p. 62.
16. «Wall: Quando parli di programma, intendi il pro- 36. V. Šklovskij, L’arte come procedimento (1929), in I
gramma fi losofico in aggiunta alle necessità dell’utente o di formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, T.
programma funzionale? - Hejduk: Per me non c’è alcuna Todorov (a cura di), Einaudi, Torino 2003, p. 82.
differenza.» J. Hejduk, cit., p. 135. 37. «Gloria diceva qualcosa come: ‘Sei un selvaggio.
17. Cfr. J. Middleton, Mirrored cities, or playing in Ogni cosa di cui parli, di qualsiasi materiale si tratti, lo ri-
Hejduk’s Masques, http://middletonvanjonker.files.wor- porti sempre all’architettura.’» J. Hejduk, Mask of Medusa,
dpress.com/2012/07/mirrored-cities-web.pdf cit., p. 125.
18. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 131. 38. «Wall: Stai rispondendo alla domanda ‘Ci può essere
19. Ibid., p. 132. una vera e piena forma di comunicazione tra due persone?’
20. G. Genette, Figure. Retorica e strutturalismo, Einau- Hejduk: Vorrei dire che c’è questa possibilità. Wall: Ma pro-
di, Torino 1969, p. 12. babilmente non c’è. Hejduk: Probabilmente no.» J. Hejduk,
21. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 130. Mask of Medusa, cit., p. 136.
22. Ibid., p. 132 39. J. Hejduk, The Social Contract, in Soundings, Rizzoli,
23. Ibid., p. 133 New York 1993.
24. J. Hejduk, “Casa come me”, in «Domus», aprile 1980,
p. 12.
25. J. Hejduk, Vladivostok, Rizzoli, New York 1989, p.
100.
26. «É stata la maschera di Grebo ad aprire gli occhi a
questi pittori, scrive Kahnweiler riferendosi a Braque e Pi-
casso. Per esempio, il rosone della chitarra in alcuni rilievi
di Picasso è segnato con dei cilindri di piombo, in altri con
dei coni di plastica. Come facciamo a non riconoscere loro
il significato (identico nel caso sopra indicato) per cui gli
artisti della Costa d’Avorio creano un volume, caratterizza-
to solo dall’altezza del cilindro, che rappresenta gli occhi?»
Y. -A. Bois, Model as Painting, cit., p. 74 (traduzione mia).
27. I. Calvino, Le città invisibili, La città e la memoria,
Mondadori, Milano 1993, p. 30, cit. in J. Hejduk, Mask of
Medusa, cit., p. 138.
28. J. Hejduk, “Casa come me”, cit., p. 8.
29. M. Hays, Architecture’s Desire, Reading the Late
Avant-Garde, The MIT Press, Cambridge Mass. 2009, p.
103. Trad. it. in questo libro a p. 90.
30. Ibid., p. 116. Trad. it. in questo libro a p. 93.
31. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 136.
32.Ibid., p. 126.
33. Ibid., p. 133.

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resse di Lacan per il Cristianesimo deriva dalla
vocazione che esso condivide con la psicanalisi,
di avere a che fare con ciò che non può essere
conosciuto completamente.
29. John Hejduk or The Architect Who Drew
Angels, conversazione con David Shapiro, «Ar-
chitecture and Urbanism», n. 244, 1991, p. 61.
30. Per una discussione sul lavoro di
Hejduk come di una ricerca specificatamente
americana della terra promessa, vedi C. Ingra-
ham, Errand, Detour, and the Wilderness Urba-
nism of John Hejduk, in Hejduk’s Chronotope, K.
Michael Hays (a cura di), Princeton Architectu-
ral Press, New York 1996, pp. 129-142.
31. L’intera sequenza dei trentadue Recinti
è pubblicata in K. M. Hays, Sanctuaries: The
Last Works of John Hejduk, Whitney Museum,
New York 2003.
32. Le Corbusier, Oeuvre complete 1946-52,
Girsberger, Zurich 1953, p. 88.
33. G. Deleuze, F. Guattari, Anno zero:
Viseità, in Mille piani, cit., pp. 166-167.
34. Ibid., p. 243. Deleuze e Guattari par-
tono da e “correggono” Lacan e Sartre nella
definizione del concetto di sguardo. «Ma lo
sguardo è soltanto secondo rispetto agli occhi
senza sguardo, al buco nero della viseità. Lo
specchio è soltanto secondo rispetto al muro
bianco della viseità.» (p. 249).
(Translated by Lamberto Amistadi)
Convention and Symbols of the
New England Masque p. 45
Lamberto Amistadi
The substantial interest in and the
meaning of fantastic in poetry is based on
the certainty that absolutely everything
that happens in the world, and especially
in the human world, depends, in addition
to its obvious tangible causes, also on an-
other causality, deeper and more universal
but nonetheless less clear. And this is the
characteristic that distinguishes the au-
thentically fantastic; it must never present
itself, so to speak, in an uncovered form.
Its manifestations must not impose faith
in a mystical interpretation of human
events, but rather hint at, allude to this. In
the authentically fantastic there is always
a formal, exterior, possibility of a simple
explanation, based on the normal habitual
relationships between phenomena.(…) All
the single details must have some familiar
characteristic and only the connection be-
tween everything must hint at causality of
another type.
V. Solov’ev. Preface to A. Tolstoj’s tale
“The Vampire”
The architecture of masques rein-
states the relationship between citi-
zens and institutions. And in addition,
before rebuilding this relationship,
it has to reformulate the ordering of
various aspects of the collective life,
whose stability and acceptance the in-
stitution guarantees.
As in the “tragic scene” of Ren-
aissance treatise writers, in Hejduk’s
urban scenes, there are no people:
«In these scenes, even though some
have painted in some personages,
who represent life, such as a woman
on a balcony, or inside a doorway, or
even some animals: I do not advise
doing such things […].»1 The found-
ing, prescriptive moment in writing a
treatise precedes the coming on stage
of convention’s contractor, namely,
the citizen. The urban scenes por-
trayed in theatres were the proof of a
definite convention between architect
and user, and of a shared language.
The solidity of the scene mirrored the
solidity of the relationships while the
spatial continuity of places – streets
and squares – found confirmation in
historical events of the time. Palladio’s
“Four Books of Architecture”, for ex-
ample, do not contain any projects for
an ideal city. Palladio’s ideal city was
Vicenza, and his ideal scene was the
real scene of its Piazza dei Signori.
If the city is «a human settlement
in which it is probable that strangers
meet”2 and the art of city dwelling
and good manners are “the capacity
to interact with strangers without as-
cribing the condition of strangers to
them»3, then Hejduk’s citizens need
to be completely re-educated. They
are alone and live in houses that look
ungracious, depressing, melancholy,
and are seemingly uninhabited. But
just as soon as we hear the sound of
unfamiliar footsteps, a face suddenly
looms forth wearing an absent expres-
sion, that throws a glacial and indif-
ferent look at the traveller – «almost
as if a monk leaned out to look for a
moment on the world.»4 The atmos-
phere is anything but urban and re-
sembles more the incivility and besti-
ality of a “satyric” or “rustic” scene, in
97
which the forest is inhabited by Satyrs,
half men and half goats, who capture
and maul the ill-fated. Not for noth-
ing does Hejduk mention Salammbô,
which marked Flaubert’s retreat from
the illusions of bourgeois civilisation.
The scene is once again a forest inhab-
ited by female monsters, women with
the hindquarters of dragons, dancing
around a fire in a black magic ritual in
which the Carthaginian peasants kill
and crucify lions.5
This barbarization is one of the
reasons for the passage from an “Ar-
chitecture of Optimism” to an “Archi-
tecture of Pessimism”.6 Hejduk’s pes-
simism concerns the breakdown in
alliances between citizens, represent-
ed by institutions, and perhaps also
between God and humans, who find
themselves alone and ailing politically
and socially, but also linguistically and
metaphysically. Prophetically, Hejduk
anticipates the darker conclusions of
Bauman’s “liquid modernity”, when he
speaks of «zombie institutions» that
are «dead and still alive» and where
there is liquefaction of «bonds which
lock individual choices in collective
projects and actions: the communi-
cation and coordination between in-
dividually conducted life policies on
the one hand and political actions of
human collectivities on the other. [...]
Ours is, as a result, an individualized,
privatized version of modernity, with
the burden of pattern-weaving and the
responsibility for failure falling pri-
marily on the individual’s shoulders.»7
The “non-civil” public spaces – as Bau-
man calls them, are designed for ac-
tion, not for interaction. But the crux
of the question is that not only does no
one know how to communicate with
others, no one is even interested in do-
ing so. Or, rather, like the blasé of Sim-
mel’s metropolis8, no one thinks it use-
ful to do so. The possibility of build-
ing “civil” public spaces is obstructed
by the post-citizens themselves, who
believe that they enjoy their solitude
and are in a position to resolve health,
education and safety issues pragmati-
cally, individually or in carefully se-
lected “stranger-proof ” groups. The
inhabitants of the “Berlin Masque”
no. 26 UNITS A & B (HOUSING)
THE CRUX [Figure 9 on p. 33] are not
obliged to live alone, they choose to do
so voluntarily: “The single person who
wishes to remain single and private.
Who wishes to inhabit her or his own
place, that is to live alone in a city, in a
metropolis.”9
The second reason for Hejduk’s
pessimism concerns the loss of any
hope of totality, or at least totality in
the sense of coherent, rational, un-
ambiguous and progressive order, as
it was imagined in the first phase of
the history of modernity. And which
Yve-Alain Bois identifies as a paradox
and premise of the inevitable failure of
the European avant-garde project.10 In
a long interview with Don Wall11, He-
jduk tells of the precise moment when
he perceived this impossibility, which,
at the same time, becomes the premise
of a new beginning: his seven-day stay
at Villa La Roche in 1972, which was
to change his life.
The story has the tone of one of
those detective stories that Hejduk
gave to students of the Cooper Union
as an architectural theme, or a tale
by Edgar Allan Poe. While he was in
the villa to arrange the “Wall House”
exhibition, Hejduk was summoned
breathlessly by his collaborator. After
fixing some nails into the wall of the
room to hang the drawings, a stream
of red dust of inexplicable provenance
settled on the window ledge under the
row of nails. Over the course of the
week, disturbing and incomprehen-
sible events occurred: a chilly sensa-
tion felt by those entering the house; a
mysterious presence who appeared at
the window recalling a friend of He-
jduk, saying that no exhibition was in
progress; two Swedish PhD students
found cleaning the garden while sleep-
walking, at the mercy of the couple of
old caretakers who had worked at the
villa since 1927; the strange reverbera-
tion produced by the metallic clang
of the entry door; the house’s lamps
redesigned by Le Corbusier based on
the torches hung behind hearses [Fig-
ure 2]: making those holes in the walls
turned out to be sheer sacrilege!12
And this interpretation of Villa La
Roche was corroborated by Stirling’s
account, according to whom at week-
ends from 1927 to ‘29 numerous well-
to-do doctors and lawyers, fans of the
occult, would come down from Lon-
don to Paris to enjoy themselves and
to gamble. «This place isn’t what it was
supposed to be. It’s supposed to be a
house. But this wasn’t a house.»13 The
balcony of the stairs that look onto the
atrium is the pulpit; the black mar-
ble table in the lounge, the altar; the
library is the choir, the stones in the
small garden below the lounge seem
to him like tombstones.
Wall: The La Roche House can also be
designated as the beginning of the recent
Masques/Masks14 since it was not what it
appears to be.
Hejduk: That’s right. The unrevealed.
Because New England is all mask!
The “Architectural Pattern Books”,
that reproduced “in layman’s terms”
Andrea Palladio’s Four Books of Archi-
tecture educated entire generations of
American architects and carpenters
and perfectly matched the pragmatism
with which the new mercantile and
puritan society, founded by the Pil-
grim Fathers on the coasts of Maine,
wished to portray itself through the
new colonial style. There was not one
architect in New England (including
Frank Lloyd Wright) who was not in-
spired by the principles and construc-
tion details collected in the Country
Builder’s Assistant, which Asher Ben-
jamin published in 1797. This manual
conventionalized the style of buildings
and at the same time certified behav-
iour and lifestyle. The New England
house is a two-storey building, with
a strictly symmetrical rectangular
ground plan, a pavilion roof or, alter-
natively, a panoramic balustraded ter-
race, planked with wood like the deck
of a ship and, not by chance, a square
or octagonal tower in the centre of the
terrace. The house is built around a
wooden frame and clad in long hori-
zontal boards (the “clapboard house”),
while the guillotine (“double-hung”)
98
windows are divided into two squares
by 6x6 panes and protected by louvred
shutters. The symmetry of the plan,
which is divided on the ground floor
into two large heated rooms sitting
each side of the entrance, is underlined
by two tall brick chimneys. But above
all, Benjamin’s manual and the work
of architects like Charles Bulfinch and
Samuel McIntire introduced into New
England architecture, neoclassical sty-
listic elements of Italian origin such as
Diocletian and Palladian windows.
The first manipulation of these
motifs and a contemporary interpre-
tation of New England architecture is
the Double House, which Robert Ven-
turi built on Nantucket Island in 1970.
Venturi inserted a Diocletian window
into the skin of his clapboard house in
line with his famous proposition: “Our
definition is that architecture is shelter
with symbols on it, or: architecture is
shelter with decoration on it.” Tech-
nically, the symbol is a synecdoche,
i.e. the part stands for the whole: the
whole being all the works of architec-
ture of New England, the lifestyle of its
inhabitants (so well immortalized in
the photos of Paul Strand, figure 3 on
p. 48)15, and above all the indissoluble
link between Europe and America. But
in reality, the “Double House” is what
– not by chance – John Hejduk called
the Wislocki and Trubek Houses, and
a clue of how, even in New England,
things are not exactly as they seem.
Hejduk entrusted his search for
character to the literary tradition and
a programme16 that belonged authen-
tically to New England, and found in
the works of its two leading writers
– Edgar Allan Poe and Stephen King,
a representation of its dark and mys-
terious side, veiled by the social con-
ventions inherited from Old England.
One conspicuous example among the
would-be “Tales of Terror”, is “The
Masque of the Red Death”, in which
the participants at a masked ball are
disconcerted by the appearance of a
mysterious figure, wearing a blood-
stained shroud and a mask portraying
the face of a corpse. Jonathan Mid-
dleton establishes a parallel between
Hejduk’s masque architecture and the
allegorical theatre of Sir David Lind-
say. In “A Satire of the Three Estates”,
Lindsay attacked the three orders con-
sisting of the Clergy, the Lords and the
Mercantile Bourgeoisie, personifying
them in the masques of Spiritualitie,
Temporalitie and Merchant.17
On various occasions, Hejduk was
to repeat the debt the New England
Masque owed to the film “The Shin-
ing”, which Kubrick transposed from
a novel by Stephen King: «The hedges
come from Kubrick’s The Shining. I
couldn’t believe it.»18 From “The Shin-
ing”, Hejduk not only took formal ele-
ments like the labyrinth or the frontal-
ity that Kubrick uses to emphasize the
façade of the Overlook Hotel against
the background of the mountains,
but was attracted, first and foremost,
by the “shining” notion, i.e. a sort of
power through which people can fore-
see future events, relive past ones, and
communicate with one another. As
with the experience of Villa La Roche,
“shining” is a capacity to perceive the
invisible and mysterious side of real-
ity, which Kubrick represents by the
apparition of the twins and the meta-
phor of the reflected image, yet an-
other of Hejduk’s obsessions. As well
as the two wings of the house, marked
by the double pair of chimneys in
New England style, Hejduk makes a
difference between the square tow-
ers in the centre of the terraces and
the plastic forms of the first storey:
«Let’s start at the roof. The house is
three stories. At the top of each wing
is an element which is simmetrical
to itself. You move down to the next
floor below, the two bedrooms appear
symmetrical but aren’t so. One is left
and one is right. The two enclosed ele-
ments below are mirror images of each
other. Then you go down to the first
floor [...]»19 Unlike the pure and sim-
ple doubling of two identical elements,
the reflected image suspends the rela-
tionship between visible and invisible
reality. For Gérard Genette, the figure
is that of the omotetia, and bears the
magnificent example of the mechani-
cal one between flight and swimming,
between bird and fish: «Who can as-
sure us that in reality at the bottom of
the water there is not another sun as
real as our own, which would be its
duplicate?»20
It’s a very strange house.
There is yet another, even more in-
teresting analogy between The Shining
and the New England Masque. This is
the scene where Jack (Jack Nicholson),
by this time demented, breaks down
the entry door and greets his wife with
the well-known sentence: «Wendy, I’m
home!», which is echoed in Hejduk’s
oft-repeated statement: «Because of
my architectural orientation, which is
against the homely.»21 Hejduk’s houses
are not very domestic, just as they are
not pop, kitsch, sentimental or roman-
tic. On the contrary, they are rather
“strange”.
The New England Masque is only
one house, consisting of two wings,
one for its inhabitants, who can decide
whether to see one another or not, ac-
cording to all the possible combina-
tions of genders and age: «Is it possible
for two people [...] male/female, male/
male, female/female, child/adult to
live together? That’s one of the ques-
tions.» There is no direct communi-
cation between the two wings of the
house, except for the terrace on the
top floor. To go from one wing to the
other it is necessary to go downstairs
and climb back up the stairs inside the
towers. The only form of communica-
tion is individual, and takes place via
a chair built like a confessional: «The
chair comes with the Mask. The guy
sits there. Do you know what the chair
is? It’s a confessional»22 It is a proper
confessional, in oak, with a sliding
door, its window closed by a grating,
on castors like the stalls of second-
hand clothes stall on 7th Avenue, and
with wings of earthenware and pew-
ter, sufficiently heavy not to fly. The
functional programme features atten-
tion to the finest detail, including the
design of the cabinet for tobacco and
spirits: the position of all the furni-
ture is fixed except for the two chairs/
confessionals; every kind of behav-
99
iour is predetermined in a precise
game of variants and combinations,
right down to the inhabitants’ clothes:
«Wall: Because what you are saying
here is that not only is the coloration
and the incidence of light going to be
controlled but the people ought to be
wearing a certain kind of clothing.»23
The twin towers of the New Eng-
land Masque recall the entrance tow-
ers of the Maschio Angioino castle in
Naples, but are also and above all the
inner workings of a giant mill through
which Hejduk makes the house’s in-
habitants pass, channelled into the
funnel created by the labyrinth of
hedges and “squeezed” by the entrance
court inside the dwelling. At the entry
door, the up-and-down mechanism of
the double-hung windows is replaced
by the metal blade of a guillotine. The
terrace of the New England house
becomes the deck of a submarine, ac-
cessed through a door opened by a
button, which serves as a hatch. The
two roof-stair-theatres of the masque’s
colonnaded wings are a prototype of
successive theatrical masques in Berlin
and hint at the mystery and paradoxes
of Villa Malaparte: «The roof-stair-
theater seats are of a funnel shape,
narrow at the bottom expanding as we
rise. The perspective is distorted, the
lateral is emphasized, geometry has
been warped. If we arrived upon the
flat plane roof and if the roof did not
contain as it does a curvelinear wall,
our sense of uneasiness would not be
so fearful. So the stair leads up to a
sacrificial horizontal. We see that on
that plane is an enclosure. What lies
behind it? The most fearful, a nothing-
ness, an enclosure that encompasses
a void. We are in the midst of ancient
rites. Libera has set the stage for an
awesomeness.»24
Different again is the disguise and
estrangement mechanism Hejduk
used to compose the masque façades
starting from New England Masque,
and in more general terms to make
compositions of elementary geomet-
rical figures such as tubes, chimney
stacks, funnels, slats, and parallelepi-
peds of various kinds in the place of
noses, mouths, eyes, lashes and hair.
In this case, this is not about using
some rhetorical artifice, but a prop-
erty of the language that De Sous-
surre defines as: “Arbitrariness of the
Sign”. Hejduk says he was inspired by
Picasso’s wooden sculptures («Then
a visit to the Picasso exhibition at
the Museum of Modern Art. His
wooden sculptures became models
for the geometric masks of the Berlin
Masque.»)25 Like Picasso’s sculptures,
after an initial, so-called “Negro” pe-
riod in which African masks served as
a morphological model for anatomical
deformations and formal vocabulary,
these represented a syntactic model.
In Hejduk’s masques and in Picasso’s
Papiers Colliers, cylinders and cones
are recognized as eyes instead of the
sound hole of a guitar body according
to the position they occupy reciprocal-
ly. Bois, citing De Soussure, speaks of
“Arbitrariness of the Sign”: according
to the reference symbolic system, the
same hollow cylinder could stand in-
differently for an eye or a guitar sound
hole.26
Hejduk’s projects are full of
strangeness, at all levels, from the role
given to different materials in build-
ing the masques, to the assembly of
the parts, to the literary extracts in-
cluded in the Berlin section of the
Mask of Medusa: «[…] in their places
strange gods have settled.»27 Or in the
interview with Don Wall: «[…] give
one a chill yet fascinate as strange
unfamiliar landscapes do, which we
sense to be mysterious and forebod-
ing, seductive and dangerous. It is the
seemingly bucolic which disturbs.”28
Or his interest in Amsterdam defined
as “very strange”, and the cemetery
in Modena by Aldo Rossi, where for
Hays «Hejduk saw the heterogenei-
ties and singularities that geometry
cannot hold. In the Modena project
Hejduk noticed, for example, the es-
trangements and détournements from
Ledoux’s ideal city of Chaux.»29 where
Hays himself underlines the category
of “monstrous”: «Hejduk liberates his
objects from the strictures of such cat-
egorization with results that are un-
canny, even monstrous.»30 and recalls
how the colours of Wall House 3 situ-
ated in front of the Stucky Mill in Ven-
ice had an estranging function: «The
little house was colored overlooking
the monochromatic, systemic, Euro-
pean world.»31 Hejduk himself takes
up Correa’s consideration on Villa La
Roche: «[…] all great architecture like
La Roche has underneath its plane of
calmness, monsters.]32
The strangeness of the New Eng-
land Masque is constructed using
continuous rhetorical artifices, meta-
phors and substitutions that overturn
the usual meanings of terms, and
project the house out of the sphere of
the ordinary («By the way, it’s pun-
ning on the ordinary, all this bullshit
we heard about the anonymous and
ordinary, right.»)33. Jonathan Middle-
ton writes: «In disguises or masks, one
is playing at being someone different
or something strange.», and he cites
Homo Ludens by Huizinga: «Modern
man is very sensitive to the far-off and
strange. Nothing helps him so much
in his understanding of savage society
as his feeling for masks and disguise.
[…] The sight of the masked figure,
as a purely aesthetic experience, car-
ries beyond ‘ordinary life’ into a world
where something other than daylight
reigns; it carries us back to the world
of the savage, the child and the poet,
which is the world of play.»34
Harold Bloom introduces the
concept of “strangeness” as a poeti-
cal category: «I believe that poetry at
its most intense – in Dante, Shake-
speare, Donne, Milton, Blake (all au-
thors invited to the “Cemetery for the
Ashes of Thought”)35 – has one generic
difficulty: the way of expanding our
consciousness through what I have
learned to define as strangeness.»36 The
authenticity of the programme con-
cerns the procedures of estrangement
that it is necessary to subject individu-
als (the somnambulism of the Swed-
ish PhD students, the suspicion in the
story of Grandet, but also Foucault’s
zombie or Bauman’s post-citizen) to
remove them from the automatism of
perception. By becoming habitual, our
100
actions become mechanical, and our
experience passes into the realm of
the “unconsciously automatic” while
the object itself withers: «In this way
life vanishes, transforming itself into
nothing. Computerization eats ob-
jects, clothes, furniture, the wife, and
the fear of war.»37 Lacan describes
the pathological limit of this process
through the metaphor of the lapsus,
which interrupts the peak of accelera-
tion in the process of computerization,
provoking a detachment of the word
from things, a breakdown of meaning-
ful relationships. The goal of art is to
transpose objects from a habitual per-
ception into the sphere of a new per-
ception, in other words, to produce an
original semantic variation through
imaginative activity. Literary theory
suggests various ways to remove an
object from the automatism of percep-
tion: 1) by not calling an object by its
proper name, but describing it as if it
were being seen for the first time; 2) by
not using habitual names for its parts,
but those of corresponding parts of
other objects (various rhetorical fig-
ures); 3) by using familiar objects, but
linked in an unusual way. In short, de-
scriptions that must be made “strange”.
Hejduk says that architecture is
not a pure art, like painting or sculp-
ture. His wife Gloria defined Hejduk
as a savage, who “architectized” any
material.38 And he did so through a
strategy of accumulating meanings, a
counterpoint of absolute precision in
using elements and design of the de-
tails. This vast and often ambiguous
range of meanings was incorporated
into architecture via rhetorical artific-
es and manipulations, which affect the
relationship between object and sub-
ject that the architecture of masques is
divided into. In this game of mirrors,
the subjects – citizens and individuals,
severed from the familiarity of codes
and behaviour that are now empty
and tired, are forced to continuously
square with themselves. The “ruling
and founding” nature of architecture
as a medium, through which citizens
could recognize and self-represent in
a horizon of common consciousness,
is dismantled: the citizen-users, alien-
ated and devoid of historical memory,
no longer recognize any code. They
are so individualized as to be unable
to communicate with anyone.39 In the
New England Masque, people com-
municate through a confessional, look
at one another through masks, and sit
looking in different directions. He-
jduk found the courage and the way
to look at the Medusa’s face without
being turned to stone, and perceived
“with triumphal sadness” the tragic
nature of our times, at the same time
unmasking the vagueness of so much
rhetoric on the civil dimension of ar-
chitecture.
The last chance Hejduk gives ar-
chitecture is to return to its symbolic
and expressive dimension, that poetic
nature, which, alone, allows it to trig-
ger an unconscious and immediate
participation in the user. Architecture
must be re-monumentalized by draw-
ing on its archaic and universal arche-
types, and immersing individual con-
sciousness in the bath of a collective
epistrophe: the enclosure, the laby-
rinth, the primary solids, the twinned
couples and the physiognomic and
zoomorphic reference, through which
the ritual that primitive monumental
architecture was founded on is relived.
Hence, it is hoped, while awaiting bet-
ter times, a new social pact40 between
men and a new alliance with God or,
at the very least, waiting for the cure
and re-education begun by the archi-
tecture of masques to take effect.
Endnotes
1. S. Serlio, Trattato di Architecture, Libro II:
Trattato di Prospettiva & Trattato sopra le Scene
(1566), Dedalo, Rome 2010, pp. 101, 102.
2. R. Sennet, The Fall of the Public Man
(1977), Bompiani, Milan 1982, cit. in Z. Bau-
man, Liquid Modernity (2000), Dedalo, Rome-
Bari 2011, p. 103.
3. Z. Bauman, Liquid Modernity, cit., p.
116.
4. «In some country towns there are houses
more depressing to the sight than the dimmest
cloister, the most melancholy rains, or the drear-
iest stretch of sandy waste. Perhaps such houses
combine the characteristics of all the three, and
to the dumb silence of the monastery they unite
the gauntness and grimness of the ruin, and
the arid desolation of the waste. So little sign is
there of life or of movement about them, that a
stranger might take them for uninhabited dwell-
ings; but the sound of an unfamiliar footstep
brings some one to the window, a passive face
suddenly appears above the sill, and the trave-
ler receives a listless and indifferent glance – it
is almost as if a monk leaned out to look for a
moment on the world.» H. de Balzac, Eugénie
Grandet (1833), Mondadori, Milan 2004, p. 3,
cit. in J. Hejduk, Mask of Medusa, Works 1947-
1983, Rizzoli, New York 1985, p. 138.
5. G. Flaubert, Salammbô (1862), cit. in J.
Hejduk, op. cit., p. 156.
6. «I suspect in these past four years my
architecture has moved from the “Architecture
of Optimism” to what I call the “Architecture of
Pessimism”.» J. Hejduk, cit., p. 83.
7. Z. Bauman, cit., pp. XXVII, XXIX.
8. Cf. G. Simmel, The Metropolis and Mental
Life (1903).
9. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 148.
10. Cf. Y. -A. Bois, Painting as Model, The
MIT Press, Cambridge Mass. 1990.
11. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., pp. 124-
136. The text features various extracts from this
interview. The translation is my own.
12. «really sacrilegious», Ibid., p. 127.
13. Ibid., p. 126.
14. Mask/Masque. Hejduk sometimes uses
Mask and other times Masque, between object
and subject/object interaction. Cf. Bernardo
Valdés, Hejduk y la Máscara Arquitectonica, Es-
pacio del Eer, Objeto para Paracer.
15. P. Strand, Time in New England (1950),
Aperture, New York 1980.
16. «Wall: When you talk about program,
do you mean philosophic program? In addition
to user need, or function program? Hejduk: Yes,
I don’t make a separation.» J. Hejduk, cit., p. 135.
17. Cf. J. Middleton, Mirrored cities, or play-
ing in Hejduk’s Masques, http://middletonvan-
jonker.files.wordpress.com/2012/07/mirrored-
cities-web.pdf
18. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 131.
19. Ibid, p. 132.
20. G. Genette, Figure. Retorica e Struttural-
ismo, Einaudi, Turin 1969, p. 12.
21. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 130.
22. Ibid, p. 132.
23. Ibid, p. 133.
24. J. Hejduk, “Cable from Milan”, in
«Domus», April 1980, p. 12.
25. J. Hejduk, Vladivostok, Rizzoli, New
York 1989, p. 100.
26. Cf. Y. -A. Bois, op. cit., Kahnweiler’s
Lesson, p. 74: «It was the [Grebo] masks which
opened these painters’ eyes […] For example,
the hollow of the guitar in some of Picasso’s re-
liefs is marked by a projecting lead cylinder, in
others by a plastilene cone. How can we fail to
recognize in these the means (identical in the
first case) by which the Ivory Coast artists create
a volume whose limits they only indicate by the
height of the cylinders representing the eyes?»
See figure 12 on p. 53.
27. I. Calvino, Le Città Invisibili, La Città e
la Memoria, Mondadori, Milan 1993, p. 30, cit.
101
in J. Hejduk, cit., p. 138.
28. J. Hejduk, “Cable from Milan”, cit., p. 8.
29. M. Hays, Architecture’s Desire, Reading
the Late Avant-Garde, p. 103. Italian translation
in this book on p. 90.
30. Ibid., p. 116. Italian translation in this
book on p. 92.
31. J. Hejduk, Mask of Medusa, cit., p. 136.
32. Ibid., p. 126.
33. Ibid., p. 133.
34. J. Huizinga, Homo Ludens, Einaudi, Tu-
rin 2002, p. 33.
35. My inverted commas.
36. H. Bloom, L’Arte di Leggere la Poesia,
Rizzoli, Milan 2010, p. 62
37. V. Šklovskij, L’Arte come Procedimento
(1929), in I Formalisti Russi. Teoria della Letter-
atura e Metodo Critico, T. Todorov (a cura di),
Einaudi, Torino 2003, p. 82.
38. «Gloria said something, “You’re abso-
lutely wild. Everything you talk about, whatever
the subject matter is, you always come back to
an architectural framework.» J. Hejduk, Mask of
Medusa , cit., p. 125.
39. «Wall: Are you answering the question
“Can there be a true form of communication
and fulfillment between two people?” Hejduk:
I would say that there is a possibility. Wall: But
not likely? Hejduk: But not likely.” J. Hejduk,
Mask of Medusa, cit., p. 136.
40. J. Hejduk, The Social Contract, in Sound-
ings, Rizzoli, New York 1993.
(Translated by Alex Gillan)
Impossible Hejduk p. 63
Ildebrando Clemente
The world is a landscape of prom-
ise. Figures implode in their regener-
ating traits. The connections between
elements and forms, along with the
elementary affinity that binds them,
have been broken. Now they wander,
now they gather, between heaven and
earth. The crisis of every order takes
on a dramatic timbre. This drama is
reflected in the human community, in
its works, it penetrates the flesh, the
mind and the heart of human beings.
Everywhere there are cuts, tangles,
forms and pieces of forms, mankind
and demons all included in a time
spent searching for parousia. Does
this search end with death? This ques-
tion seems to bulk large in Soundings,
a rather singular book edited by Kim
Shkapich on the work of John Hejduk
that was published in 1993.1 Regen-
erating and resplendent, the search