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3.

L’architettura del Rinascimento

Il Rinascimento è stato una grande stagione artistica, letteraria, scientifica e filosofica fiorita in Italia tra
Quattrocento e Cinquecento (Inauguratasi all'inizio del XV secolo e durata circa duecento anni). Con il
termine Rinascimento si è soliti indicare quella straordinaria stagione letteraria artistica filosofica e scientifica
Fiorita in Italia appunto tra il 400 e il 500 Giorgio Vasari è tra i primi a impiegare il vocabolo Rinascita già per
indicare il rinnovamento della pittura introdotta da Cimabue e Giotto. La diffusione moderna dell'espressione
Rinascimento invece usata in Francia nella prima metà dell'800 dallo storico Jules Michelet è connessa alla
pubblicazione nel 1860 di un fondamentale saggio la civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt, un
grande studioso svizzero innamorato dell'arte e della cultura italiane. Gli uomini Dotti italiani del XV e del XVI
secolo si sentivano legati con un filo diretto alla grande civiltà classica di cui si ritenevano eredi, mentre
consideravano il medioevo o età di mezzo un periodo di barbarie di decadenza, Rinascimento invece il ritorno
in vita del mondo classico e la riproposizione di molti dei suoi modelli. È indubitabile che il 400-500 videro
una prodigiosa produzione artistica e letteraria come mai prima c'era stata, ma la parola Rinascimento può
essere impiegata in accezione positiva solo se limitata alla cultura e alle Arti. Gli eventi storici di quei due
secoli infatti ebbero risvolti negativi per l'Italia e l'esistenza di numerosi stati costituì politicamente un grave
danno e fu all'origine di molti problemi, tuttavia la loro diffusione sull'intero territorio peninsulare fece sì che
non uno ma numerosi fossero i centri di cultura e di propagazione delle conquiste rinascimentali. I caratteri
distintivi del Rinascimento furono l'amore e l'interesse per ogni manifestazione culturale del mondo antico e
la consapevolezza della centralità e del valore del l’uomo, capace con la propria intelligenza di creare e
promuovere il proprio destino. È con il cosiddetto Umanesimo che incomincia il Rinascimento, cioè con lo
studio dei testi letterari (in latino umane lettere) ai quali si attribuiva la capacità di formare l'interiorità
dell'essere umano. La lingua latina riprende vigore, come pure lo studio di quella greca. Quest'ultimo, iniziato
con l'insegnamento del dotto bizantino Manuele Crisolora, al quale il governo Fiorentino affida la prima
cattedra di greco in Europa, viene facilitato anche dalla presenza in Italia di quei dottori greci che nel 1438-
1439 parteciparono al Concilio di Ferrara-Firenze. Un ulteriore apporto venne successivamente da quei
bizantini che nel 1453 si trasferirono nella penisola dopo la caduta di Costantinopoli in mano ai turchi. Per le
arti figurative guardare al mondo classico non volle dire semplicemente imitare, ma rappresentò un modo
per creare qualcosa del tutto nuovo e diverso, e anzi gli artisti rinascimentali si sentirono di dover competere
con gli antichi, di raggiungerli nella grandezza e se possibile anche superarli. Questa nuova fiducia viene
espressa anche dall’architetto e trattatista Leon Battista Alberti nella lettera con cui nel 1435 dedicava a
Filippo Brunelleschi il suo trattato sulla pittura, egli scrive infatti che la fama dei suoi contemporanei deve
essere considerata superiore a quella degli antichi: i primi Infatti senza maestre senza esempi a cui guardare
erano riusciti a trovare arte e scienze non udite e mai vedute. La bella espressione dell'Alberti arte scienze
non udite mai vedute si riferisce alle novità artistiche e scientifiche dei primi anni del Quattrocento
sconosciute sino a loro e quindi ignota agli stessi antichi. Dallo studio della civiltà classica si deduce che l'arte
dei Greci e dei Romani era naturalistica, ne consegue che scopo dell'arte è l’imitazione della natura o mimesi
(dal Greco mimeisthai =imitare), una natura che deve essere indagata e lo sarà scientificamente al fine di
impossessarsi di ogni suo segreto, principale strumento per tale indagine sarà la prospettiva. È Firenze la città
in cui inizialmente La nuova arte rinascimentale si manifesta degli artisti fiorentini ne sono considerati i
fondatori.

Il ritorno all’Antichità

I nuovi principi dell'architettura rinascimentale possono essere riassunti con il ritorno all'Antica e l'uso della
prospettiva. Per quanto riguarda il ritorno dell'antichità, tra i caratteri più significativi del Rinascimento
italiano vi fu la curiosità e la passione verso tutto ciò che era considerato antico. Le rovine e le vestigia
dell'antichità, in particolare quelle di Roma, che da sempre avevano colmato di meraviglie i pellegrini che da
tutta la cristianità si recavano nella città eterna e avevano infiammato gli animi dei letterati più sensibili sono
ora guardate con occhi nuovi, pieni di curiosità e di interesse. Esse infatti non stupiscono più solo per la loro
grandiosità e magnificenza, ma costituiscono un nuovo motivo di studio, di ricerca, di ispirazione, di
confronto. In effetti i letterati del tempo cercano di riconoscere e di individuare in quel che resta della città
antica gli edifici e i luoghi e tutto ciò appare dagli scritti che loro desumono a partire dai grandi autori, quali
Livio, Tacito, Plinio il Vecchio. I secondi invece, in particolare gli architetti, mettono a confronto le strutture
monumentali con i passi del De architectura di Vitruvio, testo allora da poco riscoperto e subito diventato
una sorta di Bibbia dei progettisti. dieci libri sull’architettura dell’ingegnere militare e architetto romano
Vitruvio, un trattato risalente al 25 a.C, circa, che era stato tramandato senza interruzioni durante il Medioevo
ma che solo adesso conosceva una significativa diffusione. Accanto a trattazioni sulla storia dell’architettura
e sulla scienza delle costruzioni, Vitruvio aveva indicato una dettagliata immagine della professione
dell’architetto. Inoltre egli si era occupato di pianificazione urbana, dei diversi materiali da costruzione, degli
effetti dei colori, degli strumenti della ingegneria e della meccanica, le sue conoscenze e considerazioni sono
ancora attuali. La convinzione all'epoca di tutti coloro che si interessavano di arte è la stessa, cioè negli anni
quaranta del XV secolo l'umanista forlivese Flavio Biondo, nello scrivere a papa Eugenio IV nella sua Roma
instaurata, afferma che la città degli Imperatori dei Papi era stata maestra dei bellingegni ed ogni bella virtù
è uno specchio di ogni eccellenza è quasi un seminare radice di tutte le belle cose che per tutto il mondo
erano. Ci sono poi le parole di Baldassar Castiglione, altro letterato delle 400/500 che tratteggia i resti della
Roma classica definendoli sagre ruine, così come per il più anziano umanista architetto veronese fra Giovanni
Giocondo, per lui i resti della Roma classica sono sancte vetustas tanto è il rispetto che esse incutono. Il
soggiorno a Roma intrapreso spontaneamente o conseguente occasione di lavoro diventa per tutti questi
artisti un momento importante nella formazione, che tra l'altro disegnano brani di città da cui traspare
indissolubile connessione tra L'Antico e il nuovo e dove tutti i monumenti di età repubblicana Imperiale
emergono dall’intrigo del tessuto medievale. Gli architetti scavano tra la folta vegetazione che per
l'abbandono di secoli aveva ricoperto muri, colonne, capitelli, templi e Basiliche e disegnano quello che viene
alla luce, essi annotano le misure precisando tecniche costruttive e copiando motivi decorativi, in modo da
avere un repertorio di eccellenti architetture da recuperare e a cui ispirarsi nel progetto del contemporaneo.
A volte il gusto per la rovina prende il sopravvento sulla necessità di documentare, altre volte, soprattutto
quando ci si avvicina allo scadere del Quattrocento e ci si inoltra nel 500, il dato metrico e una maggiore
precisione guidano il disegnatore e questo non soltanto per quel che attiene l'architettura ma anche alla
scultura.

Come abbiamo già avuto modo di dire tra i principi dell'architettura rinascimentale ci sono il ritorno
dell'Antico e l'uso della prospettiva. Più volte si è usato il termine prospettiva, precisando sempre che almeno
fino agli inizi del Quattrocento si trattava di una prospettiva intuitiva, certamente non scientifica e quindi non
basata su precise regole geometriche e matematiche. Con prospettiva, termine che deriva dal latino
perspicere, cioè vedere distintamente, si indica comunque un insieme di proiezioni di oggetti su un piano,
tanto che quanto è stato disegnato corrisponde agli oggetti reali come noi li vediamo nello spazio. Il piano
però ha due dimensioni lunghezza e larghezza, mentre gli oggetti ne hanno tre: lunghezza larghezza e altezza
Questo vuol dire quindi che tramite un procedimento grafico, è possibile rappresentare qualunque oggetto
o insieme di oggetti tridimensionali su un foglio bidimensionale, ma in modo che l'immagine disegnata sia
quanto più simile a ciò che noi vediamo realmente. Per far questo è necessario che si verificano le seguenti
condizioni, che esiste qualcosa da rappresentare, che esista l'oggetto, che qualcuno lo stia guardando,
l'osservatore, e che si conosca la posizione esatta dell'osservatore rispetto all'oggetto. Ci si accorge infatti
che cambiando posizione, quello che si guarda appare in modo diverso, per aspetto e per dimensioni. Che ci
sia un supporto su cui disegnare è fondamentale, il supporto può essere un foglio di carta, una tavola, una
tela, un muro e deve essere immaginato come una piccola pellicola trasparente posta fra l'oggetto da
rappresentare e chi guarda. Si suppone allora che dall'occhio dell'osservatore partano dei raggi che vanno a
circondare l'oggetto, piramide visiva, intersecando la pellicola trasparente, quadro prospettico, i raggi
individuano un'immagine simile all'oggetto, ma più piccola, tale immagine viene definita la rappresentazione
prospettica. Sono le regole geometriche della prospettiva che permettono di disegnare su una superficie
opaca consentendo inoltre di rappresentare anche figure create dalla fantasia, in questo modo città, palazzi,
piazze interne, edifici, paesaggi che non esistono nella realtà possono già essere rappresentate e cominciare
così a prender vita. Per disegnare sul vetro dell’ipotetica finestra, un occhio viene tenuto chiuso, questo
suggerisce che la prospettiva si serve di un solo centro di proiezione, l'occhio aperto appunto, per tale motivo
si dice che la visione è monoculare. Se ne deduce che la prospettiva non consente di realizzare una visione
stereoscopica dovuta all'esistenza di due occhi e pertanto a due centri di proiezione, ma qualcosa invece
corrisponde al vero modo di vedere: disegnando sul vetro, la testa deve essere tenuta rigida e evitare di
ruotare l'occhio aperto, questa è una condizione fondamentale che si traduce in un ulteriore lievitazione della
rappresentazione prospettica, che non permette invece di raffigurare le cose tenendo conto invece della
mobilità degli occhi. Allora riassumendo in una prospettiva: l'occhio dell'osservatore si chiama punto di vista,
la posizione dell'osservatore rispetto all'oggetto si dice punto di stazione, che rispetto al quadro prospettico
definisce la distanza dal quadro. Tutte le linee perpendicolari al quadro prospettico convergono
convenzionalmente in un unico punto detto punto di fuga, corrispondente alla proiezione sul quadro il punto
di vista, per tale punto passa la linea dell'orizzonte parallela alla linea di terra, intersezione fra il piano di terra
e il piano prospettico. Tutte le linee orizzontali parallele al quadro e fra loro equidistanti conservano il
parallelismo, ma loro distanza reciproca diminuisce via via che si allontana dal quadro e infine tutte le linee
verticali quadro restano verticali e fra loro parallele e mantengono invariate le loro distanze reciproche se
giacciono su un piano parallelo al quadro, se invece giacciono su un piano perpendicolare o obliquo rispetto
al quadro esse diminuiscono la loro distanza reciproca e si avvicinano con progressione a loro punto di fuga.

Fu Filippo Brunelleschi agli inizi del secondo decennio del Quattrocento, nel 1413 circa, a scoprire le regole
geometriche della rappresentazione prospettica, cioè i lineamenti della prospettiva lineare egli dette prova
delle sue scoperte realizzando due celebri tavolette prospettiche, purtroppo perdute. In una di esse è
rappresentato il battistero di Firenze, come visto dall'interno della cattedrale di Santa Maria del Fiore stando
però in prossimità del portale centrale; nell'altra invece erano raffigurati Palazzo vecchio e la vicina loggia dei
Lanzi, visti da un punto situato lì dove l'attuale via dei Calzaiuoli si immette in Piazza della Signoria. Nel primo
caso il battistero era raffigurato in controparte, cioè rovesciato come se fosse visto in uno specchio,
scambiando la parte destra con quella sinistra, su una tavola di legno con uno sfondo a foglia d'argento lucida,
capace quindi di riflettere il cielo, prendendo le parole appunto di Filippo Brunelleschi: “e così e’ nugoli che
si veggono in quello ariento essere menati dal vento, quand'è trae”. In effetti la tavola era dotata
anteriormente di un forellino che si allargava nello spessore del legno, determinando un incavo nella parte
posteriore. Contro tale incavo si accostava l'occhio e l'immagine del battistero la si vedeva riflessa su uno
specchio, che le era posto di fronte a una certa distanza. In tal modo l’immagine in controparte si raddrizzava
diventando uguale alla veduta reale. Il forellino era posizionato nel punto in cui l'asse della piramide visiva
intersecava perpendicolarmente il quadro. l'osservatore era dunque invitato a guardare attraverso il
forellino, stando dietro il legno dipinto tenuto con una mano e ponendosi poco all'interno della cattedrale,
tre braccia fiorentine pari a circa 1.75, in quella posizione che corrispondeva al punto di stazione, quello
esatto dal quale Brunelleschi sembrava aver realizzato il disegno del battistero. Lo specchio tenuto con l'altra
mano doveva essere avvicinato o allontanato, traslazione lungo l'asse longitudinale, e spostato da destra a
sinistra o viceversa, traslazione lungo un asse trasversale, per cercarne la distanza giusta della tavoletta,
occorreva fare in modo cioè, che lo specchio ricadesse all'interno della piramide visiva in modo tale che quello
che si vedeva riflesso coincidesse con perfetta sovrapponibilità con l'oggetto reale, posto al di là dello
specchio. Spostando lo specchio lateralmente l'osservatore si trovava di fronte l'edificio del battistero e
poteva così contrastare la perfetta coincidenza tra l'oggetto reale e la sua immagine prospettica dipinta in
controparte sulla tavoletta e riflessa nello specchio. Nel secondo caso la tavoletta dipinta con gli edifici in
prospettiva era sagomata lungo il margine superiore che seguiva perciò l'andamento dei tetti, delle torri e
del coronamento della loggia. La tavoletta era collocata su un supporto, una sorta di cavalletto, proprio di
fronte agli edifici raffigurato in una posizione fissa e l'osservatore era invitato a muoversi cercando quella
giusta distanza che gli consentisse, chiudendo un occhio, di guardare la sagoma dipinta fino a farla coincidere
con gli edifici reali. In tal modo la posizione dell'osservatore definiva il punto di stazione, la distanza tra
l'osservatore e il quadro prospettico, nonché la distanza tra osservatore e oggetti reali. Quelli proposti dalle
due tavolette prospettiche altro non sono che due modi diversi per dimostrare l’esattezza e la scientificità
del disegno prospettico, in base al quale dato un punto di vista esiste una è una sola possibilità di
rappresentare la realtà, che da quel punto di vista appunto si osserva. Le fonti storiche però mentre
tramandano cosa le tavolette raffigurassero e come venissero usate tacciono sulle regole seguite da Filippo
per disegnarlo. Il problema è ancora aperto e questa costituisce solo una delle possibili ipotesi proposte per
la soluzione, si tratta del metodo detto della intersecazione, certamente adottato da Brunelleschi almeno
nella realizzazione della costruzione prospettica della Trinità di Masaccio. La grande novità era dunque
costituito dal fatto che finalmente gli artisti potevano disporre di un metodo scientificamente corretto per la
realizzazione delle loro opere. Ciò fu particolarmente importante in un momento in cui si riteneva che
compito principale dell'arte fosse non solo l’iniziazione della natura e quindi la realizzazione di opere simili al
vero, ma anche la conoscenza scientifica della natura stessa. La prospettiva, Infatti basandosi su leggi
matematiche e consentendo una perfetta rappresentazione delle cose, costituiva lo strumento tecnico per
eccellenza alla portata dell'artista per studiare e indagare la natura, si trattava di una disciplina che poteva
mandare anche una certa superiorità rispetto a quelle che si basano ancora sulla sola autorità degli antichi,
autorità che stava incominciando a essere messa sempre più in discussione. L’ immagine raffigura in effetti
lo schema grafico usato dal Brunelleschi per Piazza della Signoria e l'impiego dello strumento della del
cavalletto, per appunto posizionarsi di fronte all'opera che lui voleva o intendeva rilevare in maniera
prospettica. Le lunghe operazioni grafiche di calcolo, necessarie per l'esecuzione di una prospettiva per
mezzo della costruzione brunelleschiana, vennero successivamente molto semplificate e ridotte di numero
ad opera di Leon Battista Alberti, il grande umanista pittore e architetto a cui si deve il procedimento
prospettico che deve tenuto con il nome di costruzione abbreviata, proprio per sottolineare la maggiore
celerità di esecuzione. Nel 1435 Alberti ultimò la stesura in volgare del primo trattato di prospettiva, il De
pictura, che egli stesso tradusse in latino negli anni 1441-444. Il prologo della stesura in volgare del trattato
è indirizzato a Filippo Brunelleschi, al quale a conclusione Leon Battista Alberti rivolge proprio un invito
diretto Brunelleschi. L’Alberti voleva riconoscere apertamente al Brunelleschi la priorità della scoperta della
prospettiva. Il trattato dell'Alberti pervenutoci senza illustrazioni si divide in tre libri, il primo dei quali si
occupa essenzialmente di prospettiva che l'autore definisce leggiadra e nobilissima arte, ma fu soltanto Piero
della Francesca che attorno al 1475 ebbe il suo primo trattato di prospettiva interamente illustrato il de
prospectiva pingendi, in cui sottolinea che la prospettiva di cui Piero si occupa è sostanzialmente un fatto
grafico, rappresentativo a uso degli artisti e fa riferimento appunto a quelle leggi della visione ed è patrimonio
di fisici e filosofi. In questo caso però l'opera è scritta da un pittore a uso di altri pittori e si compone di tre
libri che con esercizi sempre più complessi conducono per mano il lettore nella selva intricata dei
procedimenti di riduzione prospettica fino a renderlo un esperto pittore prospettico. Gli esercizi passano
gradualmente dalla rappresentazione di semplici figure piane a quelle di corpi solidi, da quelle di composizioni
di solidi complessi o di elementi architettonici fino all'estremo impensabile virtuosismo della prospettiva di
una testa umana. Tale ultimo disegno è tra i più difficili da realizzare, dal momento che la testa è quanto di
meno assimilabile ci sia ad un insieme di piani per le sue infinite complesse variabili modulate curve
rientranze e sporgenze, ma questo dimostra quanto fosse grande la fiducia di Piero nella verità e nelle
possibilità della scienza prospettica, senza di esse egli scrive è impossibile diventare grandi artisti.

Due esempi di prospettive realizzate dagli artisti rinascimentali, uno di autore ignoto, conservato nella
pinacoteca il Palazzo Ducale di Urbino, raffigura appunto uno scorcio di una città con la rappresentazione
prospettica, mentre l'altro non è altro che un prospettiva realizzata dall'architetto Donato Bramante che
riguarda l'interno della chiesa di Santa Maria presso San Satiro a Milano che raffigura appunto Uno scorcio
verso la parte della abside della chiesa con l'uso appunto della prospettiva. La prospettiva ovviamente non è
stata solo utilizzata dagli architetti, ma anche e soprattutto dagli artisti. Metodi per disegnare gli oggetti in
prospettiva possono essere quadri, sculture o appunto pareti murarie o oggetti anche di piccola dimensione.

Il primo Rinascimento il Quattrocento

Firenze culla del Rinascimento


Quando nel 1430, l'umanista e teorico dell'arte Leon Battista Alberti entrò per la prima volta a Firenze trovò
nella città natale ciò che lui e i suoi contemporanei credevano perduto da tempo ormai, ovvero gli ideali della
cultura classico-antica unita alla produzione artistica e intellettuale. Pochi anni dopo Leon Battista Alberti
omaggia coloro i quali lui ritiene gli artefici di questa rinascita dell'Antico con una dedica nel suo trattato della
pittura, gli artisti sono l’architetto Filippo Brunelleschi, lo scultore Lorenzo Ghiberti, Donatello, Luca della
Robbia e infine il pittore Masaccio che avrebbero non solo eguagliato con le loro opere gli antichi classici, ma
avrebbero fatto molto di più, li avrebbero superati. Alberti e i suoi contemporanei credevano che dopo il
buio del Medioevo le arti si sarebbero rivestite di una nuova luce, ciò che noi oggi indichiamo come
Rinascimento ebbe i suoi sviluppi decisivi nella Firenze degli anni a cavallo tra 1420 e 1430, furono anche gli
anni in cui gli scritti di Vitruvio vennero reinterpretati e con loro venne riscoperta anche l'architettura
romana. Sono gli anni in cui Brunelleschi costruì la cosiddetta cupola di rotazione del Duomo di Firenze,
Ghiberti creò il bassorilievo della porta del Paradiso, Donatello scolpì in modo naturalistico le statue dei
Profeti e Luca della Robbia corredò con antichi Angeli senza ali le cantorie. È Il periodo in cui Masaccio creava
in modo rivoluzionario, un esempio vi è nella Cappella Brancacci, stanze bianche, atmosfere empiriche. Nuovi
temi pittorici dal contenuto mitologico, pagano, profano si fusero insieme alle iconografie cristiane. La
caratteristica nel voler imitare la natura irrompe soprattutto nell'arte. Grazie all'invenzione della stampa di
libri e disegni ci fu una svolta epocale nella loro diffusione, contemporaneamente iniziò a prendere piega la
possibilità di porre l'arte come oggetto di riflessione teoretica, crebbe di importanza fino allora sconosciuta
del committente e dei suoi artisti. L'uomo venne considerato come l'unità di misura di ogni cosa. Anche a
distanza di secoli Il fascino di Firenze degli anni tra il 20 e il 30 del 400 non si è minimamente perduto, a
ragione si contesta, però, che qui ha avuto luogo una svolta improvvisa: quello che dal Medioevo all'età
moderna. La filosofia e l'arte avevano posto le basi per le rivoluzioni da 1200-1500: i poeti come Dante e
Petrarca e il pittore Giotto venivano già considerati dai contemporanei del tredicesimo e quattordicesimo
secolo degli innovatori dell'antichità. L’architettura del primo Rinascimento riprende chiaramente le forme
del XI secolo: i dettagli classici e i rivestimenti in marmo delle facciate delle chiese fiorentine sono
chiaramente ispirate alle costruzioni romaniche del Medioevo, tanto che è stato coniato il termine
protorinascimento toscano. In base ai certificati dell'antichità, si pensa che tale termine risalga al XV secolo.
Se si confrontano la facciata del Battistero o della Chiesa di San Miniato al Monte con la facciata di Santa
Maria Novella dell'Alberti o con la parte destra del Duomo di Firenze del Brunelleschi, in questi confronti
diventa esplicito l'inclinazione dell'architettura verso le costruzioni antiche. Si unisce innanzitutto la
decorazione a intarsio, amata in tutta la Toscana, in marmo bianco e verdognolo che riproduce le strutture e
le decora. Gli elementi che indicano la strada sono quelli che tendono alla razionalità e alla limpidezza
dell'architettura, levigando e accentuando le linee orizzontali e verticali bilanciando con le proporzioni le
costruzioni simmetriche prese in prestito dalle opere del XI e XII secolo, raggiungendo così nel XV secolo
l'espressione di armonia perfetta.

Filippo Brunelleschi. Il primo architetto ritenuto del periodo rinascimentale è Filippo Brunelleschi. Filippo
Brunelleschi è stato dunque secondo Giorgio Vasari il primo ad aver dato inizio all'architettura del
Rinascimento. Figlio del notaio ser Brunelleschi e di Giulia Naspini, Filippo dovette avere una formazione che
comprendeva anche lo studio della lingua latina, erano tuttavia le scienze esatte quelle che più lo
appassionavano, come narra il suo biografo Antonio Di Tuccio Manetti, ma soprattutto egli prediligeva il
disegno, la pittura, la scultura e l'architettura. Dopo aver iniziato la propria attività artistica in qualità di orafo
ed essersi poi affermato pubblicamente nel 1401 al concorso per la porta nord del Battistero Fiorentino,
Brunelleschi dedicò tutta la vita all'architettura. Alcuni soggiorni di studio a Roma, i primi da collocarsi
verosimilmente intorno al 1404-1409, assieme al giovane amico Donatello e un successivo passaggio tra il
1417-1418 permisero a Filippo di acquisire una profonda conoscenza dell'architettura appunto dell'antichità.
All’Architetto Filippo Brunelleschi va attribuito anche il primato della prospettiva lineare, in effetti la
traduzione di regole geometriche che fino alla comparsa sulla scena della Firenze del 400 era stata una
semplice intuizione. Molte furono le esperienze dell'architetto Brunelleschi per quanto riguarda le famose
tavole prospettiche che purtroppo sono andate perdute. Su queste tavole Brunelleschi sperimentava la
prospettiva lineare che si basava sulle leggi matematiche e quindi universalmente vere e che erano secondo
il maestro alla portata di tutti per ottenere la verosimiglianza e la conoscenza scientifica della natura delle
cose, cioè le cose venivano rappresentate così per come erano. Le lunghe operazioni grafiche e di calcolo
necessarie per l’esecuzione di una prospettiva, verranno in seguito ridotte in numero e semplificate da Leon
Battista Alberti, il grande umanista, pittore architetto a cui si deve il procedimento che divenne noto con il
nome di costruzione abbreviata. Nel De pictura (1435), Leon Battista Alberti dedica il prologo a Brunelleschi
che ammirava profondamente e cui riconosceva la priorità della scoperta della prospettiva. Nel 1418
Brunelleschi consegna definitivamente il suo genio alla storia, quando vince il progetto per realizzare la
Cupola di Santa Maria del Fiore.

La Cupola di Santa Maria del Fiore. Tra le opere emblematiche di Filippo Brunelleschi, ma soprattutto di tutto
il Rinascimento, figura la cupola di Santa Maria del Fiore. Brunelleschi che già era stato consultato dall'opera
di Santa Maria del Fiore per questioni inerenti il completamento delle tre tribune e per la sopraelevazione
del tamburo della cattedrale Fiorentina, partecipò al concorso bandito nel 1418 dalla potente Arte della Lana
per la creazione della Cupola che ancora mancava per la conclusione della fabbrica avviata da Arnolfo di
Cambio nel 1310, quindi circa 100 anni dopo. In quegli anni infatti la Cattedrale della città toscana era ancora
senza copertura nella zona del coro e l'immane spazio ottagonale su cui era stata prevista una cupola aveva
il considerevole diametro di ben 78 braccia fiorentine, cioè circa 46 m. Se al diametro dell'interno si aggiunge
anche lo spessore del tamburo si arriva a 92 bracci, pari a 54 m dimensione che avrebbe impressionato
qualunque architetto per quanto coraggioso. Brunelleschi propose di costruire una cupola autoportante, cioè
capace di sostenersi, di reggersi da sola durante la costruzione senza richiedere l'aiuto di armature
provvisorie di legno la cui realizzazione peraltro sarebbe stata improponibile sia per l'altezza dell’imposta
della Cupola, circa 50 m da terra, sia per la quantità di materiali necessari, sia, infine, per incapacità di una
qualunque armatura lignea di sostenere il grande peso della struttura in muratura durante l'esecuzione,
ammesso che l'intera ossatura di legno non fosse crollata prima a causa del peso proprio. Nel 1420 dunque
Brunelleschi potette iniziare la costruzione della grande macchina, così definita da Michelangelo, ma già il
compositore fiammingo Guillaume Dufay l'aveva definita Grandis machina nell’ottetto nuper rosarum Flores
la cui struttura ritmica riprendeva le proporzioni dell'intera cattedrale, composto in occasione dell'ultima
azione della copertura fino all’anello zenitale e della riconsacrazione di Santa Maria del Fiore Il 25 marzo
1436, festività dell'annunciazione da parte di papa Eugenio IV. A Filippo venne dato per compagno
nell'impresa Lorenzo Ghiberti, che già aveva presentato un suo progetto, ma questo già nel 1423 non ebbe
più una parte di rilievo nella costruzione. Con Brunelleschi d'altra parte nasce la nuova figura del moderno
architetto, artefice geloso delle proprie invenzioni e orgoglioso del proprio ruolo intellettuale tanto da
richiedere per sé solo il controllo dell'intera opera, dell'ideazione dell'esecuzione finale. La cupola si erge su
un tamburo ottagonale, forato da 8 grandi finestre circolari, gli oculi, che danno luce all'interno. Vista
dall'esterno essa appare come una rossa collina percorsa da 8 bianche nervature marmoree che convergono
verso un ripiano ottagonale posto in sommità. Su di esso si imposta una leggera lanterna cuspidata stretta 8
contrafforti a volute, le prime proprio eseguite nel Quattrocento, simile a un isolato tempietto a pianta
centrale. La cupola è talmente alta e maestosa che scrisse il Vasari i monti intorno a Fiorenza paiono simili a
lei. Alberti sottolineando il valore tecnico e per riflesso la fama che essa dava a Firenze, che poteva perciò
primeggiare sulle altre città toscane, la descrisse suggestivamente come struttura sì grande erta sopra i cieli,
amplia da coprire con la sua ombra tutti i popoli toscani.
La Cupola di Santa Maria del Fiore presenta due calotte distinte e separate tra loro: una interna di grande
spessore e l'altra esterna più sottile e fu proprio l'architetto Brunelleschi a volerla così per conservarla dallo
umido e perché la torni più magnifica e gonfiata. Tra l'una e l'altra calotta esiste quindi una sorta di
intercapedine, cioè uno spazio vuoto che rende possibile la presenza di scale e corridoi, percorrenti i quali si
giunge sino al piano su cui si imposta, poi chiudendo la cupola, la lanterna. Le due calotte a sesto acuto,
reminiscenza appunto di quelle che erano state le tecniche medievali, sono collegate da 8 grandi costoloni
d'angolo, i soli che si vedono anche dall'esterno perché rivestiti di creste di marmo bianco, e da 16 costole
intermedie disposte lungo le fasce delle vele. I costoloni d'angolo e i costi intermedi sono anch’essi uniti per
mezzo di 9 anelli in muratura, contrariamente a quanto avviene per le volte gotiche che prevedono che i
costoloni, strutture portanti, siano costruiti per primi e poi si proceda con le vele, elementi di semplice
tamponamento e perciò portati. La cupola fiorentina invece è costruita tirando su contemporaneamente e
con omogeneità costruttiva tutte le parti strettamente connesse le une alle altre e tutte portanti, sia le vele
che i costoloni. Come si è accennato nessuna struttura in legno fu usata per sostenerla durante la costruzione,
solo delle centine mobili, da traslare via via verso l'alto all'avanzare della costruzione, dovettero forse essere
impiegate in corrispondenza degli angoli dell'edificio per guidarne correttamente il tracciato a sesto acuto. i
mattoni sono disposti a spina di pesce opus spicatum, le maestranze procedevano contemporaneamente e
per anelli concentrici come nelle cupole di rotazione, con l’utilizzo di centine mobili autoportanti, quando
l’inclinazione diventava eccessiva ad intervalli regolari un mattone veniva posto a coltello. L’immane spazio
da voltare su base ottagonale aveva un diametro di ben 45 m, Brunelleschi guardò a quelle che erano le
tecniche che aveva vissuto fino a partire dall'infanzia, cioè utilizzando il sesto acuto, ma un sesto acuto che
veniva però utilizzato con costoloni che non erano solamente l'unica parte ad essere portante, ma realizzati
in opera insieme alle vele che costituirono un tutt'uno che faceva meglio reagire la massa muraria enorme
della volta e quindi le spinte erano meglio concentrate sugli otto lati della struttura muraria che sosteneva.
La possibilità di costruire per Filippo Brunelleschi l’immensa mole della copertura della Cupola di Santa Maria
del Fiore in mattoni fu dovuta essenzialmente a due fattori principali: uno l’impiego della muratura a spina
pesce e un altro l’aver costruito una cupola di rotazione e non una semplice volta a padiglione, una
pseudocupola di rotazione. La spina pesce è una tecnica dedotta dall’opus spicatum che consiste nel disporre
dei ricorsi di mattoni verticalmente di seguito ad altri collocati di piatto. In tal modo l’intera doppia cupola è
attraversata da parte a parte da un insieme di eliche murarie, che stringono in muratura raccogliendosi alla
base della lanterna. Filippo Brunelleschi concepì e costruì la cupola cattedrale di Firenze che ha l'aspetto di
un padiglione a pianta ottagonale quasi come una cupola di rotazione. Infatti i mattoni non sono disposti sul
piano orizzontale ma risultano inclinati verso loro centri di curvatura e giacciono su superfici coniche, che
tale fosse la tecnica adottata da Filippo lo si può riscontrare anche salendo sulla Cupola stessa: i mattoni di
ciascuna vela filare per filare, da un costolone al successivo risultano tutti inclinati secondo una curva che ha
il massimo della sua concavità proprio nel centro di ogni vela. È noto che una semisfera sia descritta dalla
rotazione dello spazio di un raggio di curvatura a una determinata altezza ,quindi il raggio che ruota di un
cono, che a sua volta in una cupola reale determina la giacitura dei mattoni o dei conci pietra. Le tante
possibili intersezioni tra vari coni, aventi lo stesso vertice e la sfera, che è possibile immaginare come una
cupola senza spessore, sono sempre delle circonferenze. Nel caso di una cupola di rotazione a pianta
ottagonale, per di più a sesto acuto che indica l'esistenza di più coni tutti con il vertice sull'asse centrale della
cupola, ciascuna intersezione di livello per livello si legge come un insieme di 8 curve. Le cuspidi in
corrispondenza di ogni spigolo non devono trarre in inganno, non c'è discontinuità nella muratura della
Cupola, come non c'è interruzione nella rotazione del raggio di curvatura filare per filare.

La costruzione della Cupola con i problemi che esso comportava: scelte di tecniche costruttive diverse,
organizzazione del cantiere, invenzione delle macchine per sollevare i pesi tenne occupato Brunelleschi per
tutta la vita. Ci vollero infatti ben 16 anni, dal 1420 al 1436, per poter concludere la struttura con l'anello di
chiusura, cioè l'apertura a occhio sommitale a pianta ottagonale sul quale poi avrebbe dovuto essere
edificata la lanterna. Per quest'ultima inoltre Filippo dovette affrontare un nuovo concorso che pure vinse.
Alla sua morte (1446) però la lanterna era ancora in costruzione. Tradizionalmente attribuita al Brunelleschi
è la creazione dell'apertura di via dei Servi, un cannocchiale prospettico. Non appena ultimata la Cupola,
anche il corso dei secoli, ha destato l'interesse di molti architetti che ne hanno fatto spesso dei rilievi come
Fontana, confrontando le dimensioni a volte con quelle di grandi altri monumenti della storia come il
Pantheon oppure come sulla successiva cupola di San Pietro. La cupola del Brunelleschi subito dopo l'ultima
sua ultimazione cominciò a lesionarsi. Le lesioni erano delle profonde fessurazioni, proprio degli intagli, delle
aperture all’interno della muratura che andavano dalla lanterna fino a oltre il tamburo e che interessavano
quattro delle otto vele, cioè quelle che non avevano il contrasto da parte della fabbrica che si comportavano
come dei grandi contrafforti, tali parti sono le tre tribune e il corpo longitudinale della cattedrale. Allora per
il loro studio fu creato un'apposita commissione granducale che a partire dal 1695 venne progettato di
cerchiare, di circondare la cupola e il tamburo con quattro grandi catene di ferro che si opponessero alla
dilatazione e al propagarsi delle fratture, progetto però che non andò in porto benchè una catena fosse stata
addirittura costruita. Dal 1985 con lo sviluppo e l'evoluzione degli strumenti è in funzione un sistema
automatico di monitoraggio elettronico mediante il quale è possibile il controllo continuo dello stato
fessurativo della Cupola, proprio a partire da queste prime lesioni che si verificarono appunto subito dopo
l'ultimazione della Cupola

Dobbiamo sapere che nelle grandi costruzioni, a partire dal Quattrocento, i modelli vengono spesso utilizzati
per comunicare il progetto ai committenti. Filippo Brunelleschi si aggiudicò infatti la commessa per la
costruzione della cupola del Duomo di Firenze, presentando un grande modello in mattoni e in legno senza
alcun’armatura. Nel 1436 Brunelleschi, Lorenzo Ghiberti ed altri architetti parteciparono a un concorso per
la realizzazione della lanterna della Cupola del Duomo di Firenze, presentando appunto modelli in legno. Fu
scelto quello di Brunelleschi e non quello del Ghiberti o degli altri architetti perché la commissione ritenne
che il modello del Brunelleschi presentava un elevato livello di dettaglio, addirittura talmente preciso che
poteva servire agli operai come esempio di realizzazione in corso d’opera. Per la cupola di Santa Maria del
Fiore si parla di opera capitale del Rinascimento, nel significato che questa parola ha di rinascita, cioè di
riscoperta della cultura classica greco-romana al principio del XV secolo, ma questa architettura non solo si
ispira si riallaccia alla grandezza del mondo antico, pagano e paleocristiano ma si protende anche nel futuro
divenendo modello per l'edilizia Cristiana dei secoli successivi. La cupola infatti dal punto di vista tecnico non
solo eguaglia, ma supera per dimensioni e complessità i monumenti dell'antichità che le furono in parte
modelli, a partire dal suo confronto più famoso e diretto con il Pantheon di Roma, il più maestoso edificio a
pianta centrale con copertura a cupola della Roma imperiale.

Il linguaggio brunelleschiano

Oltre alla famosa cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, Filippo Brunelleschi ha lasciato una serie di
architetture che sono poi diventate negli anni il simbolo del 400 italiano a partire dallo Spedale degli
innocenti, dalla Basilica di San Lorenzo, costruiti rispettivamente 1419 e 1418, la Sagrestia Vecchia 1422-28
con il rifacimento nel 1421 e la Cappella Pazzi in Santa Croce del 1430 circa, la cui attribuzione è incerta, e
infine la Chiesa di Santo Spirito costruita nel 1444. Prima di descrivere le opere maggiori di Brunelleschi è
bene concentrare l'attenzione sul linguaggio brunelleschiano, ovvero sulla sintassi architettonica seguita
dall’architetto. Brunelleschi mentre si occupava della Cupola per la cattedrale di Santa Maria del Fiore, tra il
1432 1438 venne consultato per opere militari e civili anche da alcune corti dell'Italia settentrionale, quali
Milano, Ferrara, Mantova e Rimini. Egli Inoltre progettò altri edifici per la città di Firenze, come abbiamo già
detto lo Spedale degli innocenti, la Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, la Cappella Pazzi, le due basiliche di San
Lorenzo e di Santo Spirito, oltre alla Rotonda degli Angeli.

L'architettura brunelleschiana si svolge sempre alla luce della ricerca e della sperimentazione, le forme
architettoniche del Brunelleschi, infatti, sono dimensionate in modo tale che chiunque non solo possa
trovarsi a proprio agio fra strutture che non vogliono né opprimere né annientare, ma riesca anche a
comprenderne e le proporzioni e la misurabilità. Tali condizioni si realizzano tramite l'Impiego di forme
geometriche semplici, il linguaggio brunelleschiano si caratterizza per la ripresa della sintassi classica,
soprattutto romana che si basa sugli ordini architettonici e sull' arco a tutto sesto. La loro fusione, che può
dar luogo all’arco inquadrato dall'ordine o dall'arco sovrapposto all'ordine, genera membrature
architettoniche che qualificano e definiscono gli spazi, in particolare l'impiego più volte ripetuto dell'arco
sostenuto dall'ordine inquadrato da un ordine maggiore riesce a controllare e a determinare la crescita
spaziale delle architetture del Brunelleschi. Solitamente Filippo ricorre ai capitelli corinzi, fanno eccezione
quelli della Cappella Barbadori della Chiesa di Santa Felicita che rinviano all'ordine mediano ionico
dell'interno del Battistero, e a colonne dal fusto liscio (Battistero di Firenze, la Basilica di San Miniato, Chiesa
dei SS Apostoli). Le paraste o lesene al contrario sono in genere in numero di sei, ciò perché evidentemente
Filippo immagina la parasta come la quarta parte di un pilastro, a sua volta quadrangolare che per essere
corinzia è dotata di 24 scanalature. Dopo gli Incerti esiti iniziali influenzati proprio dall'architettura romanica
fiorentina, in cui l’abaco dei capitelli corinzi è sormontato da un semplice pulvino a gola, nella sua continua
sperimentazione Filippo fa ricorso in via definitiva all'abaco sormontato da un segmento di trabeazione
impropriamente chiamato dado brunelleschiano, questo come già suggerito dal secondo ordine esterno del
battistero risulterà a sua volta diviso in architrave tripartito, fregio liscio e coronato e cornici. Su tale porzione
di trabeazione infine egli fa poggiare gli archi dell’archivolto modanato.

Lo Spedale degli Innocenti. Iniziato a partire dal 1419 nei pressi della chiesa dei Servi di Maria, lo Spedale
degli innocenti pose le premesse per la creazione della piazza porticata della Santissima Annunziata, forse
l'esempio più riuscito e noto di piazza rinascimentale. L'edificio, al quale Brunelleschi si dedicò con continuità
dal 1419 fino al 1424 e che fu concluso da altri, si articola attorno a un chiostro centrale che è affiancato da
due grandi ambienti: la chiesa e Il dormitorio per gli orfani. La fabbrica si innalza su un ripiano, quasi come
sullo stilobate di un antico tempio a cui si sale per mezzo di nove gradini, nove sono anche le arcate del
porticato nella porzione inferiore dell'edificio e altrettante sono le campate coperte da volte a vela e nove
infine sono le finestre di forma classica, che ricordano quelle del Battistero di San Giovanni, sormontate da
un timpano esse poggiano direttamente sulla cornice dell'alta trabeazione, che è tangente al cervello degli
archi, è sostenuta da un ordine maggiore di paraste situate all'estremità della fabbrica. Tali paraste sono a
loro volta affiancate da colonne libere che ispireranno poi Masaccio nell'affresco della Trinità. Nei timpani
Filippo aveva progettato dei tondi concavi, a scodella, tangenti a due archi contigui e al sovrastante
architrave, dello stesso tipo di quelli presenti nella Trinità. Solo nel 1487 essi furono sostituiti da ceramiche
invetriate di Andrea della Robbia. L’architrave a tre fasce di uguale altezza, contrariamente all'uso classico,
gira all'estremità legandosi ad angolo retto e volgendo verso il basso affiancando una parasta, secondo il
biografo Manetti si tratterebbe di un errore dei continuatori di Brunelleschi, tuttavia una derivazione diretta
dell'architrave dell'attico e del battistero fiorentino e quindi da considerarsi all'antica. Il fregio inoltre, al pari
di quello del trono della pala centrale del Polittico di Pisa di Masaccio, presenta un motivo strigilato derivato
dai sarcofagi Romani. Per quanto tale motivo si riscontri solo in una piccola frazione all'estremità, occorre
considerarlo esteso all'intero elemento della trabeazione.

La sintassi di ordini e archi deriva certamente dall'esempio romanico della navata centrale della Basilica di
San Miniato, nella quale visivamente le fasce di marmo verde e bianco, all'altezza dei capitelli delle alte
semicolonne, simulano una trabeazione che corre ininterrottamente al di sopra sia degli archi sostenuti dalle
colonne che dividono le navate, sia al di sopra degli archi sostenuti dalle semicolonne dell’abside. Dai capitelli
di San Miniato, Filippo Brunelleschi riprende inoltre il pulvino modanato a gola dritta che pone al di sopra
degli abachi dei capitelli corinzi delle grandi volute dell'ospedale. Nel loggiato, l’Intercolumnio è pari
all'altezza delle Colonne e alla profondità del porticato. La campata, allora, risulta di forma cubica. Lo spazio
del loggiato, quindi, può definirsi modulare. Ciò significa che nella sua realizzazione Brunelleschi utilizza
ripetutamente la stessa misura (mòdulo) al fine di meglio scandire lo spazio. Inoltre, la distanza fra il
pavimento e l’estradosso della cornice della trabeazione equivale al doppio dell'altezza della colonna. A tale
altezza è pari anche la distanza fra l'estradosso dell'architrave e l'intradosso della cornice di sotto gronda,
mentre la metà altezza della colonna costituisce la dimensione complessiva delle finestre, dal davanzale al
vertice del timpano triangolare. L’utilizzo per Brunelleschi della pietra serena e dell’intonaco bianco ha un
valore non solo estetico ma funzionale, serve a scandire gli spazi in modo ritmico, a restituire un’idea di
ordine, estrema semplicità e armonia. Nel progetto brunelleschiano modificato dai continuatori di Filippo, il
loggiato avrebbe dovuto essere delimitato alle estremità da due campate chiuse, esse si sarebbero
presentate come superfici racchiuse entro alte paraste, sormontate dalla trabeazione, altre paraste più
piccole in corrispondenza di quelle maggiori avrebbero segnalato il diverso valore assunto dal muro del
secondo ordine, diverso per il fatto di avere un muro pieno su muro pieno, al contrario della grande porzione
centrale che si qualificava invece come muro pieno sul vuoto del loggiato sottostante. L’ingresso attuale degli
Innocenti di Firenze nel 2016, con le sue porte in ottone dorato è un omaggio all’Arte della Seta che finanziò
nel 1419 la costruzione e di cui faceva parte anche Brunelleschi. Inoltre le due porte sono dei meccanismi;
uno addirittura molto significativamente è legato alla macchina teatrale o leonardiana, una grande struttura
di 4.5 metri per 2.5 che esce nella piazza quando si apre e rientra la sera chiudendosi rievocando il tema
dell'accoglienza.

La Basilica di San Lorenzo. Progetto fondamentale per la costruzione dell'itinerario formativo dell'architetto
Filippo Brunelleschi. Il progetto per la Basilica di San Lorenzo risale a circa il 1418, ma Brunelleschi viene
coinvolto nella costruzione forse solo nel 1421. Brunelleschi aveva progettato un edificio a tre navate con
cappelle laterali ma a causa dei costi fu costretto a ripiegare su una soluzione che escludeva le cappelle,
queste infatti sarebbero state realizzate solo in corrispondenza del transetto e ai fianchi dell’abside,
seguendo uno schema già sperimentato a Firenze nel Trecento nelle chiese di Santa Croce, Santa Maria
Novella e Santa Trinità. I lavori iniziati nel 1425 furono ripresi dopo una lunga interruzione solo nel 1442 e
poi conclusi da Antonio Manetti Ciaccheri dopo la morte Brunelleschi, ma solo negli anni 70 del 400 vennero
aggiunte le cappelle delle navate laterali. L'esterno dell'edificio mostra con molta chiarezza il compenetrarsi
di solidi geometrici puri benché con molte incongruenze soprattutto nel transetto, in San Lorenzo è chiara la
concatenazione dei vari elementi architettonici, l'arco che introduce alle cappelle laterali infatti è inquadrato
dall'ordine costituito da paraste, sulle quali corre la tabreazione. Quest'ultima si specchia nel segmento di
trabeazione che sovrasta i capitelli delle colonne che dividono la navata centrale con copertura piana dalle
laterali costituite appunto con una successione di volte a vela e che diventa anche il sostegno per gli archi
gettati tra una colonna e l'altra. Questi archi a loro volta sono tangenti alla trabeazione dell'ordine maggiore
su pilastri che inquadrano il sistema delle arcate, infine al di sopra di questa seconda trabeazione si colgono
gli arconi che sostengono la cupola che si innalza all'incrocio del transetto con la navata centrale. Filippo seguì
certamente i lavori delle Cappelle che affiancano la abside e delle due Cappelle di patronato della famiglia
Medici tra loro comunicanti e adiacenti alla Sagrestia Vecchia. In tal modo entrambe le testate dei bracci e
del transetto si presentano con arcate su due pilastri affiancati da paraste, definendo con la trabeazione, che
corre sugli elementi verticali vicini, il primo schema rinascimentale cosiddetto a serliana. Dopo la scomparsa
di Filippo, senza la sua supervisione il proseguimento della costruzione si rese difficile. Particolarmente
problematica risulta l'inserimento del transetto nel corpo longitudinale dove un sistema di pilastri cruciformi
definiti da un insieme di paraste, di cui due maggiori e due minori, doveva leggere i quattro arconi per il
sostegno della Cupola. Sulle paraste minori si impostano i primi archi longitudinali e trasversali delle navate
laterali, un’incongruenza compositiva fa affiorare al di sopra tali archi delle porzioni di parasta, come se il
loro fusto fosse inglobato nella muratura stessa. Tuttavia esse hanno una scarsa relazione con le paraste
minori, di cui sono invece l'effettivo prolungamento. La porzione di parasta, al di sopra degli archi, non era
però del tutto inedita per Firenze, una soluzione simile infatti era stata già adottata nel Battistero in
corrispondenza del grande arco che immette la Scarsella occidentale. L’aspetto più problematico del S.
Lorenzo si rileva dalla figura di pianta. Questa, a tre navate con cappelle poco profonde, transetto circondato
da ben dieci cappelle e dal coro quadrato, e terminante con una sacrestia sui due lati terminali, mostra un
notevole divario fra il corpo longitudinale e l’area presbiteriale, specie per il gran numero delle cappelle (pari
a quello presente in S. Croce) e la loro disposizione (simile a quella di S. Maria Novella). In effetti, pur
geometrizzando lo spazio a raggiera occupato dalle cappelle nell’architettura gotica, Brunelleschi non riesce
a superarne il ricordo e soprattutto, per risolvere il difficile problema di tanti spazi incastrati, utilizza elementi
di piano non del tutto consoni con il linearismo che informa quella parte della fabbrica generata dal Portico
degli Innocenti.

La Sagrestia Vecchia di San Lorenzo. È una composizione modulare oggetto di uno studio e approfondimento
molto curato. Fu denominata così per distinguerla dalla nuova, edificata un secolo dopo da Michelangelo
anche come cappella funeraria dei Medici, conserva infatti le spoglie di Giovanni di Bicci e della moglie
Piccarda Bueri. La Sagrestia Vecchia San Lorenzo fu realizzata tra il 1422-1428. L’incarico a Brunelleschi venne
dato da Giovanni di Averardo De Medici, detto Giovanni di Bicci, padre di Cosimo il Vecchio, creatore della
fortuna medicea, incarico dato forse nel 1419 anche se i lavori iniziarono solo intorno al 1422. Negli
intendimenti e committenti il nuovo edificio avrebbe dovuto servire anche da Cappella funeraria di famiglia,
Giovanni di Bicci e la moglie Piccarda Bueri infatti riposano al centro della Sagrestia in un sarcofago posto
sotto di una grande mensa, eseguito da Andrea Di Lazzaro Cavalcanti, detto il Buggiano, figlio adottivo di
Filippo Brunelleschi. La Sagrestia Vecchia è un ambiente al quale si accede dal braccio sinistro del transetto
della Basilica di San Lorenzo ed è composto da uno spazio pressoché cubico, al quale è sovrapposta una
cupola semisferica ombrelliforme. Tale cupola, raccordata da quattro pennacchi sferici, presenta un’imposta
costituita da dodici finestre circolari ed è rafforzata da altrettante nervature che le conferiscono l'aspetto di
un ombrello aperto. Le nervature sono solo la parte in vista di lame murarie che hanno l’intradosso ad arco
di circonferenza ed l’estradosso invece rettilineo e inclinato al pari di un arco rampante. Tra due lame murarie
contigue si impostano infine delle volte unghiate, che seguono una doppia curvatura: quella delle nervature
e quella dei muri verticali del tamburo a terminazione d’arco. Esternamente la cupola è coperta da una
superficie tronco conica protetta da squame di laterizio, la sormonta una lanterna su sei colonnine coronata
a sua volta da un cupolino convesso concavo, percorso da scanalature che si avvolgono a elica, tale motivo
decorativo è un evidente suggestione derivante dalle eliche delle spinapesce della Cupola di Santa Maria del
Fiore. Sul lato opposto all'ingresso si apre la Scarsella, un piccolo ambiente anch'esso a pianta quadrata ma
composto in alzato dal sovrapporsi di due cubi uguali coperti da una cupoletta emisferica su pennacchi con
ornamentazione a conchiglia. La cupoletta è affrescata a imitazione di un cielo stellato recante le figurazioni
dello Zodiaco. Non a caso la cornice alla base della cupoletta imita un velario arrotondato e legato, allora è
come se la cupola perdesse illusoriamente di consistenza e attraverso un'apertura circolare, allontanando
una vela di stoffa si potesse vedere il cielo. La conformazione planimetrica complessiva è quella di un
quadrato maggiore seguito da un quadrato minore, che trae ispirazione dai precedenti del Sancta Sanctorum
del Laterano e del battistero della cattedrale di Padova, città con la quale l'ambiente artistico Fiorentino era
in contatto dai tempi di Giotto. Tutte le pareti della Sagrestia sono scandite dalle paraste, dalla trabeazione
e dagli archi in pietra serena che risaltano contro il bianco dell'intonaco nudo. Le paraste assumono diverse
forme in base alla collocazione alla quale sono destinati: nei quattro degli angoli del vano maggiore sono
piegate simmetricamente ad angolo retto allo stesso modo di quelle nelle nicchie quadrangolari del
Pantheon, sono probabilmente un ricordo dei soggiorni romani di Brunelleschi; nei due angoli di fondo della
Scarsella esse sono filiforme, si presentano cioè come se fossero lo spigolo sporgente di un pilastro quasi
completamente affogato nella muratura; quelle che introducono alla Scarsella costituiscono le due facce
visibili di una colonna quadrangolare avvolgendo lo spigolo convesso. La trabeazione con la cornice decorata
da cherubini rossi e blu, ripresi da quelli del battistero di Firenze, corre senza interruzioni in ambedue gli
ambienti che pure hanno altezze diverse, dando in tal modo la sensazione di un’assoluta unità spaziale.

Cappella de’ Pazzi. Costruita all’interno del chiostro della Basilica di Santa Croce, su commissione di Andrea
de’ Pazzi, esponente di spicco di una delle più potenti famiglie di mercanti e banchieri fiorentini, la Cappella
de’ Pazzi rivela una ricerca spaziale e planimetrica interpretabile come meditazione sulla Sacrestia vecchia,
sulla quale si modella complicandone la geometria. Tradizionalmente attribuito a Filippo Brunelleschi, ma
senza alcun appoggio documentario, l’edificio dovette essere iniziato attorno ai primi degli anni Trenta del
Quattrocento. La cappella, solo in piccola parte realizzata nel 1443, ebbe la copertura maggiore conclusa nel
1459-1460 e la cupoletta del portico chiusa nel 1461. Evidentemente essa fu costruita in gran parte dopo la
morte del Brunelleschi, ma, forse, su un progetto risalente agli anni Venti. Tale ultima considerazione
giustificherebbe l’iscrizione della piccola architettura fra le opere del maestro, collocandosi prima della svolta
degli anni Trenta, quando la progettazione brunelleschiana mutò orientamento e la linea curva soppiantò
quella retta negli interessi compositivi di Filippo. L’ambiente principale, basato sulla forma quadrata, si dilata
in un rettangolo la cui copertura comprende una cupoletta semisferica centrale affiancata da due volte a
botte e decorata da tondi in terracotta invetriata di Luca della Robbia. La scarsella ripete lo schema della
Sacristia Vecchia, mentre la copertura del porticato antistante la cappella replica quella del vano interno di
maggiori dimensioni (cioè cupolette e volte a botte cassettonate). Il problema delle paraste di diversa altezza
ma gravate dalla medesima trabeazione, presente nella sagrestia vecchia, viene risolto nella Cappella de’
Pazzi con una panca in muratura (giustificata dall’essere la Cappella anche il luogo dove si riunivano i frati di
Santa Croce) che, correndo tutt’attorno il perimetro dell’ambiente maggiore alla stessa quota del pavimento
della scarsella, consente alle paraste di avere un’altezza costante. Tuttavia, su tutte le pareti, benché ridotto
a semplice motivo decorativo, viene comunque ripetuto il tema delle quattro paraste sormontate dalla
trabeazione sulla quale poggiano due archi concentrici, che nella Sagrestia Vecchia costituiva la complessa
organizzazione geometrica della sola parete con l’accesso alla scarsella. A tale parete erano subordinate le
altre pareti lasciate nude. La facciata, non conclusa e difficile da inquadrare all’interno del linguaggio
architettonico e strutturale brunelleschiano, che mai ricorre alle colonne architravate, è divisa in due parti.
Quella inferiore comprende un portico con colonne corinzie trabeate. Quella superiore, invece, è costituita
da una parete piena, ornata a riquadri, scandita da coppie di paraste di piccola dimensione che sostengono
una trabeazione con un fregio strigilato. Nel suo complesso la facciata si esprime secondo i modi
dell’architettura fiorentina del secondo Quattrocento. Sulla fabbrica spicca la copertura della cupola centrale
che segue la stessa tecnica costruttiva di quella della Sagrestia vecchia, della quale ripropone anche la
soluzione esterna costituita da una superficie conica sormontata da una piccola lanterna (quest’ultima di
restauro). In sintesi, e avviandoci alle conclusioni, possiamo dire come già descritto in precedenza che la
planimetria è un rettangolo, ma ciò non impedisce però al Brunelleschi di articolare il nuovo interno sul
modello di quello precedente a pianta quadrata segnatamente per ciò che concerne la parte frontale che
ripete il vano della Scarsella. Volendo coprire l'edificio con una cupola si rese necessario ridurre il rettangolo
di pianta a un quadrato sul quale impostarla, a tal fine Filippo spartisce ciascuna delle pareti lunghe in uno
spazio centrale arcuato, avente su ogni lato due moduli verticali delimitati da tre paraste. L'incontro degli
archi reggenti la cupola si effettua sulla parasta mediana, così che mentre un arco giace sul piano della parete,
l'altro insiste su un virtuale piano normale ad essa e forma un’imbotte con l'arco che giace sul piano del lato
corto del rettangolo. In breve la parte mediana della sala capitolare, grazie lo spartito delle lesene, diventa
un quadrato con quattro archi a pieno centro e relativi pennacchi per reggere la cupola, mentre la differenza
fra il rettangolo di base al quadrato così ottenuto dà luogo a due imbotti. Come si vede siamo in presenza di
una perfetta ingabbiatura lineare, nella quale fermo restante il motivo del doppio arco, questo si realizza con
uno sfondato, quello della Scarsella, sulla parte lunga frontale e con un elemento disegnato sul piano sulla
parete opposta, dove in luogo della Scarsella abbiamo la porta d'ingresso della Cappella. Altrettanto
complanari sono gli archi che giacciono sulle pareti corte della sala. Oltre che negli elementi descritti il gusto
lineare dell'opera si manifesta in tutti gli altri: siano essi strutturali o decorativi. Gli oculi sui pennacchi, sulle
pareti nella fascia fra i due archi paralleli, le finestre arcuate vere sulla parete che apre sull'esterno e finte su
quella che fiancheggia la Scarsella, i lacunari al di sotto delle imbotti, la fascia trabeata che anche in
quest'opera lega orizzontalmente ogni parte della composizione. La scarsa accuratezza nell’esecuzione dei
particolari, le soluzioni distributive e il linguaggio architettonico degli interni, a volte ingegnosi, a volte
ripetitivi, così come la mancanza di certezze quanto a datazione e a commissione, hanno portato a dubitare
della paternità brunelleschiana della fabbrica e a proporre un diverso progettista: l’architetto Michelozzo di
Bartolomeo.

La basilica di Santo Spirito. L'organismo architettonico diviene ancora più articolato e complesso, in esso la
linea curva modella l'intero edificio che pure ha una perfetta forma basilicale con la navata centrale dotata
di un soffitto piano e le navate laterali con campate coperte a vela. Progettata tra il 1428 e il 1434, ma iniziata
solo nel 1444, la basilica viene condotta a termine dopo la morte di Brunelleschi con numerose e spesso
arbitrarie varianti rispetto al progetto originario. Anche in questo caso ci si trova di fronte a un edificio a
croce latina, ma le navate laterali non si concludono in corrispondenza dell'innesto del transetto come
avviene in San Lorenzo, le campate infatti proseguono tutto attorno al perimetro della Basilica a esclusione
della solo controfacciata, determinando un forte addensamento di colonne nella zona del presbiterio. Le
cappelle laterali a pianta rettangolare di San Lorenzo, qui sono semicircolari, esse sono introdotte da archi
che hanno la stessa dimensione di quelli della navata centrale. C'è quindi un perfetto equilibrio dimensionale
nell'edificio e un’inarrestabile continuità tra i vari elementi architettonici e la struttura muraria perimetrale.
Nelle intenzioni di Brunelleschi inoltre la basilica avrebbe dovuto mostrare anche esternamente la forma
convessa delle Cappelle, questa particolarissima conformazione pure anticipata dalle cappelle laterali
estradossate della Cattedrale di Orvieto e dalle absidi che cingevano i fianchi del monumentale Triclinium del
Laterano, nota a Brunelleschi dai suoi viaggi romani, avrebbe conferito alla chiesa un aspetto assolutamente
inusuale e inedito nel panorama architettonico fiorentino quasi da edificio orientale o esotico, in effetti
occorre immaginare un corpo longitudinale esterno non formato da una linea dritta (come di solito quasi
tutte le chiese rinascimentali ma anche medievali), ma una sinuosità che percorreva l'intero edificio sia sul
corpo longitudinale che sui bracci del transetto, che nelle parti absidali. I successori di Brunelleschi
preferirono però procedere probabilmente secondo le norme consuete delle superfici piane, evitando così
ogni difficoltà, ogni sperimentazione che invece Brunelleschi stava tentando di realizzare con il progetto che
aveva iniziato già dal 1428 e il 1434. Anche la facciata subì la stessa sorte, infatti non furono costruiti i quattro
semicilindri che invece sono presenti nel capocroce, cioè nella parte absidale e nelle testate del transetto,
perché avrebbero determinato la realizzazione di quattro portali, soluzione questa atipica in quanto non
simmetrica. Di conseguenza non fu posta in opera neppure la terza colonna di controfacciata, quella centrale
che permettendo la costruzione di altre due arcate avrebbe consentito la continuità del perimetro colonnato
interno. In definitiva l'insieme delle cappelle che circondano l'edificio non costituisce una novità solo
nell'ambito della composizione architettonica quattrocentesca esso infatti ha anche un evidente funzione
statica poiché irrigidisce i muri perimetrali. Solo nei disegni architettonici di Leonardo delle sue basiliche, dei
suoi edifici a pianta centrale che quasi ossessivamente ripetono lo schema delle cappelle di Santo Spirito sarà
dato di vedere lo sviluppo di questa geniale intuizione di Filippo Brunelleschi. Riassumendo possiamo dire
che esemplare del codice stile lineare, la chiesa presenta una figura di pianta, una planimetria così fortemente
definita da resistere agli interventi dei continuatori che seguirono il progetto di Brunelleschi fino a un certo
punto poiché non se la sentirono appunto di lasciare le cappelle con quella sinuosità, con quella estrosità
esterna che il maestro Brunelleschi aveva concepito. L'impianto è a croce latina con navata centrale e
transetto di pari larghezza circondati da moduli e campate quadrati e uguali, misurando ognuno 11 braccia
di lato. La teoria delle campate fiancheggiando la croce e ripetendosi lungo tutto il perimetro si configura sia
come navate laterali, sia come ambulacro continuo. Ma il gioco dei numeri semplici per formare dapprima il
disegno di pianta e poi la ritmica lineare delle strutture nello spazio non si arresta qui, proseguendo fino a
stabilire le più minute corrispondenze e il proporzionamento di ogni parte della fabbrica. Così esemplificando
la dimensione delle nicchie ricavate nell’intradosso del muro perimetrale, che nel progetto originale
ritmavano anche la faccia esterna del muro, costruito poi piano, riflette ancora il modulo di base. La
profondità di tali nicchie è regolata dalle esigenze che le finestre delle due nicchie vicine agli spigoli rientranti
si incontrano all'esterno in corrispondenza dell'asse, perciò questa profondità equivale a metà del lato della
campata. Se passiamo dalla lettura della planimetria a quella della più generale conformazione spaziale
quanto si è detto trova un’ulteriore conferma, qui ogni goticismo scompare, il senso della figurazione è
classico non solo e non tanto per i ricordi dell' architettura romana, donde la nota supposizione per cui Santo
Spirito sarebbe il frutto di una recente esperienza di viaggio a Roma, come si è detto, che segnerebbe peraltro
due momenti della produzione brunelleschiana, bensì anche per aver saputo raggiungere una immagine così
felicemente compiuta da annullare per così dire ogni datazione dell'opera che conquista quella perfezione
classica propria dei fenomeni apparentemente senza tempo. Gli elementi sono indubbiamente di derivazione
antica colonne, capitelli, pulvini, archivolti, cornici, ma del tutto desemantizzati per assumere un significato
contestuale affatto moderno. Le regole combinatorie e la metrica assomigliano a quelle delle cattedrali
medievali, ma tradotte in forme che se perdono in fatto di artificio costruttivo e di stupore dimensionale,
acquistano però in riconoscibilità, esplicitando il gioco degli archi su colonne disposte una certa distanza del
lineare ritmo di elementi contro elementi, di linee scure contro superfici chiare, di contrappunto di queste
quando sono piane e quando sono appena incurvate a formare i chiaroscuro, il tutto in vista di un calcolato
e preordinato effetto.

Michelozzo Di Bartolomeo. Dopo Brunelleschi è considerato l'architetto il più ordinato dei suoi tempi, infatti
Michelozzo nasce a Firenze attorno al 1396 ed è collaboratore di Lorenzo Ghiberti e successivamente
collaboratore anche di Donatello con il quale dal 1425 forma una compagnia, cioè una società di artisti che
lavorano assieme. Figlio di un sarto possiede una formazione culturale alquanto modesta, nonostante questo
ha modo di frequentare la potente famiglia dei Medici e tramite essa di entrare in contatto con il più
aggiornato pensiero del tempo. Compì vari viaggi a Venezia, Padova, Verona, Siena e Roma. Come architetto
e scultore lavora molto soprattutto a Firenze e in Toscana. Nel 1461 si occupa delle fortificazioni di Ragusa
quindi nel 1464 si trasferisce nell'isola greca Di Chio che lascia per rientrare in Italia solo nel 1467 e nel 1469
è di nuovo a Firenze, dove muore nel 1472. Michelozzo resta fra gli architetti Fiorentini della generazione
immediatamente successiva a quella di Brunelleschi, uno dei più difficile da classificare entro formule
semplificative. Questo appare ancora più vero se si pensa - lo si è accennato - alla possibilità che sia sua
addirittura la Cappella de’ Pazzi, da sempre considerata un punto d'arrivo della poetica e del pensiero
architettonico brunelleschiano. È importante ricordare che l'attività di Michelozzo si svolge a stretto contatto
con le opere di Brunelleschi, di cui in parte diffonde il linguaggio attraverso la Loggia dell'ospedale di San
Paolo e la biblioteca del Convento di San Marco. Questa biblioteca è considerata il prototipo delle successive
biblioteche dell’umanesimo e in posizione dialettica nei riguardi dei maggiori scultori del Quattrocento in
particolare Ghiberti e Donatello.

Palazzo Medici. Capolavoro di Michelozzo resta il palazzo Medici costruito tra il 1444 e il 1464. Rappresenta
il prototipo dei palazzi fiorentini alla moderna. Fu Cosimo il Vecchio a volerlo affidandone la costruzione
all'amico architetto, che lo aveva seguito anche nell’esilio a Padova e a Venezia tra il 1433 e il 1434, dopo
aver rinunciato a un progetto giudicato troppo ambizioso presentatoli dallo stesso Filippo Brunelleschi.
Fondamentale e strategica è la posizione del palazzo all'interno del tessuto urbano di Firenze, situato
all'incrocio di due strade lì dove l'attuale via Martelli piega verso nord-est, restringendosi a formare la via
Larga, oggi conosciuta con via Cavour. L'edificio sporge verso la superficie stradale con il suo angolo Sud-Est,
in tale modo il palazzo si impone alla vista di chi proviene dalla Cattedrale o del Battistero, eliminando così la
sua collocazione nei piani più alti della gerarchia politico-architettonica della città toscana. Anche l'originaria
presenza nel cortile del palazzo del David di Donatello e nel giardino della Giulietta dello stesso autore, quindi
Donatello, suggerisce un accostamento ardito ai simboli della libertà repubblicana della città di Firenze. Il
grandioso Palazzo che ha subito rimaneggiamenti nel 500 e soprattutto è stato oggetto di massicce aggiunte
da parte dei nuovi proprietari, i Riccardi, negli anni tra il 1670 e il 1720 aveva una forma originariamente
cubica. Come in una domus romana, i vari ambienti si articolano attorno a un cortile centrale i al quale si
perviene attraverso un vestibolo, coperto da una volta a botte. Alla sinistra il portico introduceva alle scale
che conducevano ai piani superiori e alla cappella di famiglia. Oltre il cortile, infine, si apriva un giardino
chiuso da alti muri. Esternamente l'edificio si presentava con un bugnato rustico assai pronunciato al piano
terreno, meno accentuato e molto più regolare al primo piano e con conci appena rilevati al secondo piano.
Tale differenziazione di trattamento si accompagna alla progressiva dominazione di altezza dei piani e
all’imponente cornicione all'antica che sostiene il forte aggetto del tetto e chiude superiormente il blocco
compatto del palazzo. In luogo delle attuali finestrone, aggiunte probabilmente da Michelangelo, in origine
erano presenti due grandi arcate nell'angolo sinistro dell'edificio che consentivano l'accesso a una imponente
loggia aperta. Da ricordare che la differenziazione dei bugnati, che Michelozzo applica qui per la prima volta,
sarà destinata a diventare il riferimento d'obbligo per l'esecuzione del paramento murario esterno di ogni
successivo palazzo rinascimentale fiorentino. L'altra particolarità dell'edificio è il cortile centrale porticato su
il quale si elevano il primo e il secondo piano. Il cortile centrale porticato con archi e colonne al piano terreno
chiuso con finestre a bifora al primo piano e coronato da una loggia architravata al secondo piano diventerà
uno degli elementi più ricorrenti e caratterizzanti della nuova tipologia edilizia privata tra Quattrocento e
Cinquecento. Nel cortile la scelta delle sole colonne, l'architrave tangente alle ghiere degli archi, l'alto fregio,
la cornice su cui poggiano direttamente le bifore rivelano la dipendenza dal brunelleschiano Spedale degli
Innocenti. La colonna d'angolo, vera cerniera della fabbrica, dà luogo alla poco felice posizione delle finestre
del primo piano più vicine all'angolo stesso, esse sono estremamente ravvicinate rompendo così il ritmo
dimensionale del cortile, si vedrà come in seguito il Palazzo Ducale di Urbino e il palazzo della Cancelleria a
Roma proporranno sistemi maggiormente articolati e soluzione d'angolo più convincenti.

La Villa Medicea di Careggi. Realizzata tra il 1440-1459 a Firenze. Fu proprio Giovanni di Bicci de’ Medici ad
acquistare la proprietà nel 1417, ma la trasformazione dell'edificio avvenne su disposizione di Cosimo il
Vecchio che incaricò l'architetto Michelozzo del progetto realizzato in due fasi distinte: la prima relativa
all'edificio con la corte e gli ambienti adiacenti si concluse nel 1440, la seconda fase invece riguardò la
costruzione delle due logge al piano terra e terminò nel 1459. La villa di Careggi fu la villa dove Lorenzo il
Magnifico nacque e morì, qui egli fondò l’Accademia Neoplatonica. Proprio a questo periodo si crede risalga
la caratteristica loggetta panoramica del primo piano attribuita a Giuliano da Sangallo, che per la sua capacità
di stabilire un nuovo rapporto tra architettura e natura divenne un elemento tipico della villa rinascimentale.
La villa richiese un'opera di restauro quando nel 1529 un incendio ne danneggiò la struttura, ma più
importante e profondo intervento che comportò la costruzione della grotticina interrata e la decorazione
della sala piano terra, dello studiolo e del soffitto della loggetta venne realizzato per volontà di Carlo dei
medici, ordinato Cardinale nel 1615. Con l'estinzione invece della dinastia dei Medici, la gestione passò ai
Lorena nel 1780, che la vendettero e dopo qualche passaggio di proprietà, nel 1848 la villa fu acquistata da
Francis Joseph Sloane che apportò numerose trasformazioni come il prolungamento della facciata Est,
attuale ingresso e l'ampliamento del giardino con aiuole all'italiana e un grande parco all'inglese con diverse
piante rare. Sloane morì nella villa nel 1871 e lasciò tutti i suoi beni ad Augusto Bouturlin. Agli inizi del
Novecento fu ceduta a Carlo Segrè per passare, nel 1936, all'Arcispedale di Santa Maria Nuova. Su un
importante parte dei poderi venne realizzato l'ospedale di Careggi e la villa ospitò alcuni uffici della Direzione
e i giardini divennero parcheggio delle vetture del personale ospedaliero.

La villa di Cafaggiolo. (Firenze) Era una residenza tra le preferite di Lorenzo il Magnifico. Intorno al 1451
Michelozzo intervenne con notevoli lavori per la famiglia dei Medici su commissione di Cosimo il Vecchio.
L'architetto scelse di aggiornare il modello medievale rifacendosi ai castelli merlati con le pareti superiori
aggettanti. I notevoli lavori di Michelozzo definirono il palazzo di forma rettangolare così come si presenta
ancora oggi. Sulla logge furono realizzate delle stanze con sale che si susseguono una dopo l'altra. Oltre il
camminamento tutto intorno, anche la seconda torre, il fosso con i muri e antimuri, il ponte levatoio e la
delimitazione della piazza davanti con muri a levante ed a lato nord, con il "filare delle case" a mezzogiorno,
ancora oggi denominato "la manica lunga", e l'orto sul retro, furono opere dell'ampliamento realizzato da
Michelozzo. Venutone in possesso, Cosimo I ingrandì l'edificio inserendo sul fronte orientale un corpo di
fabbrica ben leggibile, di sviluppo inferiore al fronte preesistente, con stanze a piano terra coperte da volte
a crociera fortemente ribassata e travi a vista, con al piano superiore un vasto salone a soffitto ligneo
decorato, a cui verrà posteriormente aggiunta una loggetta. Ampliò, inoltre, la proprietà facendovi anche
realizzare un grande Barco murato, una riserva di caccia privata dove introdusse animali rari, mentre sulla
sinistra della villa fece costruire le scuderie. Oggi il monumento è frutto di numerosi interventi realizzati
nell'Ottocento, ma si possono ancora distinguere le parti in cui operò l'architetto Michelozzo. Il motivo dei
merli e dei beccatelli si trasforma in elemento decorativo e si fonde con semplici cornici delle finestre sorrette
da mensole.
Leon Battista Alberti . Se Filippo Brunelleschi, Masaccio e Donatello furono i protagonisti indiscussi del primo
Rinascimento fiorentino e colori ai quali si deve anzi l'esistenza stessa del Rinascimento figurativo, spetta
invece a Leon Battista Alberti il merito di aver dato una sistematizzazione teorica alle scoperte,
all'innovazione e agli ideali artistici del primo 400. Leon Battista figlio naturale di Lorenzo Alberti e di Bianca
Fieschi, nacque a Genova il 18 febbraio 1404 da una ricca famiglia fiorentina in esilio dal 1401. Dalla città
ligure si trasferì da prima a Venezia e quindi e Padova. Dopo la morte prematura del padre 1421, il giovane
Alberti si ritrovò insieme al fratello Carlo, anche egli figlio naturale, in ristrettezze economiche, ma riuscì
comunque a laurearsi in diritto a Bologna nel 1428, anno della revoca del bando con il quale la sua famiglia
era stata esiliata. Solo dopo tale data, cioè dopo il 1428 Leon Battista poté vedere per la prima volta Firenze,
la città dei suoi avi. Nel 1432 divenne abbreviatore apostolico e cominciò così il soggiorno romano. Gli ordini
sacri presi solo per speciale permesso papale, in quanto allora erano vietati ai figli legittimi, gli permisero
successivamente di godere di una rendita decorosa. Nel 1433 era segretario di Biagio Molin, patriarca di
Grado, mentre soggiornava senz'altro a Firenze nel 1434, al seguito di papa Eugenio IV, spostandosi quindi a
Ferrara e ancora a Firenze per il “Concilio dei Greci» (1438-1439) che avrebbe dovuto sancire la riunificazione
della Chiesa d'Occidente (latina) con quella d'Oriente (greca) reciprocamente scomunicatesi nel 1054, e
pertanto divise. Nel 1443 tornò definitivamente a Roma, città in cui morì nell'aprile del 1472. L’Alberti fu uno
dei più colti e raffinati umanisti, ma al contrario di altri non si dedico alla ricerca di codici di opere classiche,
ma non preparò mai un'edizione, nè studiò gli scritti degli antichi per puro piacere letterario. Per lui l'antichità
era la fonte inesauribile di insegnamento per il passato che giustificava il presente, un qualcosa che doveva
essere continuato con il quale confrontarsi e che dunque poteva anche essere superata. Secondo quest'ottica
fece proprie le forme letterarie degli antichi dall'autobiografia dell' opera satirica a Momus per esempio, che
deve molto allo scrittore greco Luciano di Samostata, e le attualizzò modificandole e adattandole al proprio
pensiero. Il suo desiderio di conoscenza riassunto nel simbolo dell' occhio alato e fiammante, che
accompagna il suo autoritratto nella placchetta bronzea di Washington e nel motto latino ciceroniano quid
tum - che fece proprio - e che circondato da una corona di alloro, compare nel verso della medaglia con la
sua effigie coniata dallo scultore architetto Veronese Matteo De Pasti.
Autore di opere poetiche e morali, Leon Battista Alberti scrisse anche la geometria Ex Ludis Rerum
Mathematicarum e scrisse anche di topografia la Descriptio Urbis Romae e di meccanica. Fu architetto e
pittore e nella doppia veste di artista e letterato compose i primi tre grandi trattati dell’età moderna sulla
pittura il De Pictura in una doppia redazione: volgare nel 1435 e latina 1439-1441. Il secondo scritto albertiano
sull'arte, il De Statua, fu composto probabilmente intorno al 1450, mentre due anni dopo, nel 1452, Alberti
concluse la sua più grande fatica letteraria, il De Re Aedificatoria. Nel De Pictura, come si è già detto, vengono
esposti i principi della prospettiva nel primo libro, in esso viene data anche la definizione di disegno: si tratta
dell'importanza della composizione attività autorale che collega il pittore allo stesso livello del letterato e si
dice delle relazioni tra luce e colore, come appare nel secondo libro. Il disegno per l'Alberti è circoscrizione,
cioè la linea di contorno: non è altro che disegnamento dell'orlo. Le sue idee riguardo la pittura si possono
semplificare osservando due dipinti su tavola di Bartolomeo di Giovanni Corradini, detto Fra Carnevale.
Rifacendosi al pensiero degli antichi e in special modo agli scritti di Vitruvio, l'architetto umanista afferma
ancora che la bellezza è come l'armonia fra tutte la membra nell'unità di cui fan parte, fondata sopra una
legge precisa per modo che non si possa aggiungere o togliere o cambiare nulla se non in peggio (De Re
Aedificatoria, VI libro). Ancora sui concetti della bellezza: la bellezza è accordo e armonia delle parti in
relazione a un tutto al quale esse sono legate secondo un determinato numero, delimitazione, collocazione
così come esige la concinnitas, cioè la legge fondamentale e più esatta della natura (De Re Aedificatoria, IX
libro). Secondo Alberti infine soltanto la bellezza ha la facoltà di preservare le opere d'arte dalla violenza
distruttrice degli uomini. Nel De Statua l’artista si inoltra in una minuziosa descrizione circa la realizzazione e
l'Impiego di più strumenti utili per il rilievo di una qualunque statua o di un modello vivo, il finitorium,
composto da un disco graduato horizon, un raggio mobile radius diviso in gradi radiali e un filo a piombo il
perpendiculum, l'exempeda un regolo alto esattamente come una scultura o il modello che si sta
considerando che è sempre diviso in sei parti o piedi, un calibro, norme mobiles squadre mobili per gli
spessori delle parti tornite del corpo umano. L'insieme degli strumenti consente di avere per ciascun punto
della statua o del modello tre dati che ne individuano la posizione nello spazio: l'orientamento, la distanza da
un centro, cioè quello della circonferenza del disco posizionato sulla testa della Statua o del modello in
corrispondenza dell'asse, e l'altezza rispetto al suolo. In definitiva Alberti riduce la statua o il modello vivo a
un insieme di coordinate spaziali al pari di quanto propone nella Descriptio Urbis Romae, dove l'intera città,
le mura, il fiume e gli edifici notevoli è condensata in coppie numeriche talchè chiunque mediocri ingenio
praeditus cioè dotato di normale intelligenza, possa disegnarla. Il disegno nel caso di Roma viene evitato
perché Alberti ritiene che i copisti, il trattatello al pari di chiunque altro scritto del tempo e veniva diffuso
attraverso copie manoscritte, possono commettere errori che si sarebbero moltiplicati a causa delle ulteriori
copie. La misurazione di molte statue e di molti corpi tenuti da coloro che più sanno, bellissimi, consente
inoltre di definire le dimensioni ideali delle parti principali di un corpo perfetto come mediocritas, dopo aver
comparato tutte le misure per ciascuna parte avendo scartati gli estremi, cioè quelle che superano la maggior
parte delle altre e quelle che da queste sono superate. È però nel De Re Aedificatoria che le conoscenze
tecniche e letterarie di Leon Battista Alberti si fondono armoniosamente in una trattazione completa dell'arte
da edificare. Sulla sua composizione influirono enormemente la presenza dell'Alberti a Roma, la conoscenza
profonda delle architetture antiche puntualmente rilevate dal vero e il loro studio. Il Trattato verosimilmente
compiuto attorno al 1452, prende come esempio quello di Vitruvio, persino nella suddivisione in 10 libri, vi
si discute del disegno, di materiale da costruzione, dei procedimenti costruttivi, degli edifici pubblici e privati
di strade, ponti, fortezze, della organizzazione la città, delle acque e della loro canalizzazione, dell'ornamento
e quindi degli ordini architettonici. Vengono infine trattate e per la prima volta le cause delle rotture dei muri
e le opere di prevenzione di restauro degli edifici. È nel De Re Aedificatoria che si precisano le differenze tra
l'operare di Brunelleschi e le concezioni di Alberti in relazione agli ordini architettonici, Leon Battista infatti
con maggiore aderenza all'architettura Antica ritiene che la colonna debba sostenere la trabeazione mentre
l'arco debba essere costruito al di sopra di pilastri, inoltre alla colonna egli attribuisce anche la funzione di
sommo ornamento per le fabbriche.

Tempio Malatestiano. Tra le opere emblematiche dell'architetto Leon Battista Alberti ricordiamo il Tempio
Malatestiano a Rimini, cui l'architetto si occupò intorno a 1447. Il primo intervento architettonico effettuato
dall'Alberti, ormai più che quarantenne, fu costituito dal rifacimento della chiesa gotica di San Francesco a
Rimini, chiesa nota anche come il Tempio Malatestiano, secondo la volontà del committente Sigismondo
Pandolfo Malatesta signore della città. Essa avrebbe dovuto trasformarsi in un monumento celebrativo alla
sua memoria dell'amante poi moglie Isotta degli Atti, nonché di quella dei più importanti umanisti della Corte
riminese. I lavori di rifacimento cominciarono appunto nel 1447, quando Isotta fece decorare la Cappella
degli Angeli, ora di San Michele Arcangelo. L'anno successivo Sigismondo si occupò della Cappella di San
Sigismondo, ma il completo mutamento dell'interno dovette iniziare solo intorno al 1450. I lavori dell'esterno
invece presero avvio circa verso il 1453, mentre un cambiamento di progetto intervenne l'anno seguente. La
trasformazione dell'interno, tradizionalmente attribuita a Matteo De Pasti, viene considerata da qualche
tempo come possibile intervento dovuta allo stesso Alberti. Infatti l’unica navata affiancata da cappelle
introdotte da grandi arcate a sesto acuto presenta una soluzione ornamentale che ben corrisponde alle
concezioni albertiane e vuolsi aiutare quel ch’è fatto e non guastare quello che s’abbia a fare, avrebbe scritto
Leon Battista Alberti a Matteo De Pasti in relazione all'esterno della fabbrica in una lettera del 18 novembre
1454. Tale concetto peraltro esprime bene anche l'intervento all'interno del Tempio Malatestiano, in cui un
doppio ordine di paraste su piedistalli inquadra gli archi acuti e dove il secondo ordine su mensole prosegue
lungo le pareti formandone il coronamento. Il linguaggio classico Infatti aiuta l'interno gotico ad avvicinarsi
all'innovativa lingua che caratterizza l'esterno senza che questo a sua volta debba essere in alcun modo
influenzato dalla preesistenza architettonica medievale, Alberti per conseguenza incapsula l'edificio in un
moderno involucro in pietra bianca di Verona, proveniente dalle stesse cave dove si traeva la famosa Pietra
Rossa, un calcare nodulare pure presente nell'edificio riminese, senza curarsi molto di quanto infatti già
esisteva, ne sono prova le grandi arcate laterali che l'artista ha progettato strutturalmente indipendenti dalla
fabbrica gotica retrostante e senza tener conto che fossero in asse con le preesistenti finestre gotiche. Alberti
ritiene che l'attività dell'architetto debba essere puramente mentale, cioè teorica, perciò egli non si occupa
personalmente della direzione dei lavori, l’esecuzione del Tempio Malatestiano infatti fu affidata
interamente a Matteo De Pasti. A lui si deve anche l'unica testimonianza visiva del progetto originario dal
momento che l'opera rimase incompiuta: dapprima per il rovesciamento delle Fortune di Sigismondo
Pandolfo a partire dal 1462, che non ebbe più i fondi necessari per la prosecuzione dell'Opera e poi per la
morte dello stesso committente.
Nella medaglia commemorativa del Tempio Malatestiano con la cupola, in effetti come essa doveva apparire
dopo il completamento, ma dalla medaglia commemorativa per la Consacrazione a chiesa, che Matteo
dovette coniare attorno al 1453 che al pari dell'iscrizione che corre il fregio esterno reca la data del 1450, si
può vedere che la parte superiore della facciata avrebbe dovuto essere coronata da un fastigio nella porzione
centrale, dei semitimpani ad andamento curvilineo l'avrebbero poi raccordata con la cornice sottostante, i
semitimpani furono poi modificati nel 1454 in modo da presentare spioventi rettilinei sormontati da coppie
di volute affrontate. Infine una grande cupola emisferica a somiglianza di quella del Pantheon avrebbe
completato l'edificio divenendone l'elemento unificante, la medaglia però è di soli 4 cm di diametro e non
consente di capire quale forma dovesse avere il tamburo, se cilindrico o a più facce, né quale la cupola,
numerose sono le possibilità che consentono un alzato come quello proposto nella medaglia. È probabile
infine che la crociera dovesse presentare anche un corto transetto, stando ad alcuni scavi eseguiti alla fine
dell'800 e negli anni venti del secolo scorso che hanno messo in luce una piccola porzione di fondazione. Il
cantiere del Tempio Malatestiano di Rimini è riprodotto in una pergamena manoscritta Di Bettini da Fano
1465 circa, conservata alla biblioteca dell'arsenale di Parigi, l’immagine mostra molto bene il cantiere in piena
attività con le varie maestranze, scalpellini che lavorano la pietra, squadrano blocchi con la squadra, utilizzano
mazzette e scalpelli e altri invece che si occupano del sollevamento dei materiali pesanti, probabilmente
colonne con possenti argani, che utilizzano carrucole che permettono appunto il sollevamento di enormi
colonne monolitiche che dovevano essere molto probabilmente utilizzate per la edificazione della facciata
del Tempio Malatestiano. Osservando la planimetria si evince la primitiva chiesa gotica a navata unica con le
varie cappelle laterali e l'abside semicircolare e anche l’intervento dell'Alberti con il basamento sul quale
poggiavano la serie di arcate che non tenevano per nulla conto della preesistenza architettonica medioevale,
cioè in effetti le arcate laterali sono state progettate indipendentemente dalla fabbrica retrostante, cioè
senza tener conto dell'asse delle finestre gotiche ma ribaltando il tema in maniera tale che l'architettura
precedente sia addirittura annullata, ovvero non tenuta per niente in conto e schermata dal nuovo linguaggio
albertiano. Per quanto riguarda la facciata avviene la stessa operazione con temi che si rifanno molto a quelle
che sono i canoni dell'antichità.
L'immagine mostra molto bene evidenziando in giallo ciò che è
l'intervento albertiano con una ricostruzione grafica della griglia
delle paraste poste all'interno, l’immagine mostra una visione
prospettica verso l'ingresso, in effetti si tratta qui di un doppio
ordine di paraste su piedistalli, che inquadra gli archi acuti, mentre
un secondo ordine su mensole questa volta prosegue lungo le
pareti formandone il coronamento. Il linguaggio classico aiuta
l'interno, ovviamente con caratteristiche proprie del gotico
Fiorentino ad avvicinarsi all'innovativo linguaggio dell'esterno,
cioè un raccordo tra interno e esterno con questi innesti albertiani.
Il progetto prevedeva inoltre anche un timpano curvilineo sulla
costruzione con una grandiosa cupola, che non fu però mai
realizzata anche se ispiratasi alla cupola di Santa Maria del Fiore.
Le grandi arcate laterali progettate su basamento iniziale dall'architetto Leon Battista Alberti e
strutturalmente indipendenti da quella che doveva essere la fabbrica gotica, che dimostra appunto come
l'architetto Alberti non tenne per nulla conto di quelle che erano le preesistenze gotiche, che si trovava in
qualche maniera a dover restaurare. Nel Tempio Malatestiano Alberti creò la prima facciata di chiesa
rinascimentale anche se non conclusa nei lavori, ma si può tranquillamente interpretare quello che era il suo
pensiero e lo fece riferendosi all'antichità Romana. Contrariamente a quanto potrebbe apparire logico, egli
non imitò le forme del tempio classico, ma, è questa la sua non comune capacità inventiva, prese come
esempio gli archi di Trionfo: primo fra tutti l'arco di Augusto, che appunto si trova a Rimini; il romano arco
di Costantino; di fianco invece le grandi arcate a tutto sesto sorrette da pilastri ricordano gli antichi
acquedotti, ma derivano nel disegno sia dalle arcate interne del Colosseo, sia da quelle della porzione
inferiore del Mausoleo di Teodorico della vicina Ravenna. Le diverse fonti di ispirazione trovano un accordo
nell'alto basamento, che a somiglianza di un podio o di un crepidoma, sostiene sia i pilastri si le semicolonne.
Questi dal fusto scanalato hanno un plinto molto alto come nelle basiliche ravennati, inoltre sono coronati
da capitelli compositi con teste di cherubino derivanti da non comuni capitelli antichi. Le semicolonne
dividono la superficie della porzione inferiore della facciata in tre parti: quella centrale più ampia delle laterali
accoglie il portale timpanato, che è all'interno di un'ampia e profonda arcata, circondato da festoni e da un
ornamento geometrico di marmi antichi e porfidi prelevati da edifici di Ravenna, le laterali ripropongono il
motivo delle arcate dei fianchi, esse però sono cieche e poco profonde, mentre come appare nella medaglia
di Matteo De Pasti avrebbero dovuto avere la profondità necessaria per poter raccogliere i sarcofagi di Isotta
e Sigismondo. L'edificio Riminese non parla solo il linguaggio dell'architettura esso dà voce anche
all’aspirazione del suo committente, il riferimento architettonico e ornamentale all'arco di Augusto è segno
infatti della volontà del Malatesta di essere considerato al pari del primo imperatore romano, ma la chiesa
riminese rivela analogia anche con la colonna traiana: i due edifici presentano una simile ornamentazione del
basamento e identiche dimensioni, la facciata del Tempio Malatestiano è larga e sarebbe stata alta, se
conclusa, centopiedi romani, ovvero la medesima altezza della colonna, inoltre entrambe le costruzioni sono
caratterizzate dalle stesse funzioni celebrative e di mausoleo: nella colonna onoraria erano state deposte le
ceneri di Traiano e della moglie Plotina, così come nel Tempio Malatestiano sarebbero stati custoditi i corpi
di Sigismondo e di Isotta. Il signore di Rimini allora desiderava essere identificato non solo con Augusto, ma
anche con Traiano, l'ottimo principe, il migliore degli Imperatori, in tal modo le pietre del tempio in eterno
avrebbero ripetuto la formula di augurio che a Roma negli ultimi secoli dell'impero veniva indirizzata dal
Senato ai nuovi imperatori: felicior Augusto melior Traiano -che tu possa essere più felice di Augusto e
migliore di Traiano-.

Palazzo Rucellai. Con la facciata del palazzo fiorentino, Leon Battista Alberti offrì lo schema per un rinnovato
Palazzo Urbano basato sulla sovrapposizione degli ordini, caratteristica dell'antica architettura romana. La
facciata del palazzo infatti è una traduzione, in termini di superficie piana, del fronte curvilineo del Colosseo,
ma non è da escludere come possibile fonte anche il battistero di Firenze, dove è presente una simile
soluzione architettonica. La ripresa di motivi desunti dalle fabbriche dell'antica Roma infine arricchisce di
citazioni dotte e raffinate l'edificio, che si propone perciò come un palazzo all'Antica, costruito come si
costruiva un tempo. Ristrutturato l'interno tra il 1446-1452, l'architetto Bernardo Rossellino iniziò subito
dopo, ma non v'è certezza sulla data, i lavori per la facciata su disegno di Leon Battista Alberti. Per Giovanni
Rucellai, uno dei più ricchi mercanti Fiorentini del tempo, Alberti progetta una fronte di 5 campate, poi esteso
a 7 a seguito di ampliamenti, ma era desiderio del committente far crescere ancora la sua dimora, come si
giudica dalle incompiutezza del paramento esterno sulla parte destra. Le campate sono tutte uguali ad
eccezione di quelle più grandi corrispondenti agli ingressi B, in questo caso proprio per la variazione regolare
della scansione metrica che definisce un ritmo si parla appunto di travata ritmica. Al piano terreno si hanno
lesene con capitello tuscanico appena aggettanti rispetto alla facciata, che reggono una trabeazione a fregio
continuo senza metope e triglifi, come nel Colosseo, sulla quale si impostano le lesene del primo piano,
queste sono coronate da ricchi i capitelli ionici di un tipo speciale, ovvero a volute ricurve verso l'alto.
Analoghi a quelli antichi del Mausoleo di Adriano, oggi Castel Sant'Angelo, spesso disegnati nel corso del XV
secolo. Sulla trabeate del primo piano si impostano le ultime lesene con capitelli corinzi dal disegno
semplificato, questo perché analogamente a quelli del terzo ordine e dell'attico del Colosseo, la loro posizione
elevata non ne avrebbe reso apprezzabile dal basso la raffinata esecuzione. Infine come dato di vedere
nell'attico della Anfiteatro Romano, le mensole che sorreggono la cornice che corona l'edificio sono ospitate
nel fregio e non nella sottocornice. Il lieve sfalsamento di piani esistenti tra le lesene del fusto liscio e la
restante superficie muraria, nella quale il bugnato è stato quasi smaterializzato e ridotto puro disegno
conferisce alla facciata un estremo rigore geometrico. Il basamento che ricorda nelle piccole aperture la
situazione compositiva dell'attico del Colosseo è ornato dalla cosiddetta panca di via in pietra, tipica
dell'architettura civile Fiorentina, il cui schienale imita l’opus reticulatum. Gli architravi dei portali che
debordando lateralmente rispetto alla larghezza delle campate vanno a sovrapporsi alle lesene sono infine
una ripresa diretta del secondo ordine dell'interno del Pantheon. Osservando un particolare di Palazzo
Rucellai del capitello e della parasta e dell'innesto con la trabeazione del primo ordine, possiamo capire come
viene risolto dall' architetto Alberti, è stato notato che l'orditura di ciò è ispirata al Colosseo, infatti le lesene
reggenti le fasce marcapiano altro non sono che una metafora delle colonne che reggono gli architravi,
mentre gli archi centinati poggianti su fasce che affiancano le finestre altro non sono che una trascrizione di
archi poggianti su pilastri. Ma perché non vere colonne e veri archi? Perché la riduzione dell’aggetto romano
a un bassorilievo, a uno “stiacciato” di chiare superfici e di incisive articolazione lineari? Una risposta può
trovarsi nella del De re aedificatoria: «La casa del signore sarà ornata leggiadramente, di aspetto piuttosto
dilettevole che superbo». Notiamo inoltre che, mentre le fronti di Palazzo Medici valsero come modello di
repliche sia a Firenze che fuori per tutto il Quattrocento – i palazzi Strozzi, Pitti, Gondi, ecc. -, la fronte di
Palazzo Rucellai ebbe più scarsa fortuna in patria, ma fu accolta a Roma, donde del resto era stata originata,
e il suo schema venne assunto per tutto il Cinquecento. Più esattamente, il paradigma michelozziano e quello
albertiano si trovano variamente congiunti e coniugati in tutti i palazzi fino all’Ottocento.

La Loggia Rucellai. La critica non è ancora oggi concorda se riferita all'Alberti o meno. Il progetto della Loggia
che sorge appunto di fronte Palazzo Rucellai è realizzata nel 1460, come voleva il suo committente Giovanni
Rucellai. In effetti questa Loggia doveva essere adoperata per feste nuziali, banchetti ed altro Giorgio Vasari
in relazione alla paternità dell'opera nutriva dubbi e la riconnetteva pur non senza alcune critiche compositive
al catalogo delle opere architettoniche albertiane, continuando peraltro a fondere la committenza dei
Medici, attestata dalle piume inanellate di Piero, figlio di Cosimo e padre di Nannina, con quelle di Rucellai,
simboleggiata dalle vele gonfiate dal vento. La soluzione adottata D'Alberti per risolvere il difficile problema
di uno spazio ristretto non piaceva a Vasari perché li aveva girati gli archi sopra le colonne strette nella faccia
dinanzi e nelle teste ma facendosi avanzare dalle due parti dello spazio che egli dovette risolvere con alcuni
risalti, Vasari sempre concludeva che anche in questo caso era mancato con giudizio e disegno che fa
apertamente conoscere che oltre alla scienza, la pratica. Qui c'è proprio una critica all’architetto Alberti che
non amava seguire i lavori dei suoi progetti, ma in verità Alberti aveva risolto con grande maestria il problema
della ristrettezza dell’area, ponendo agli estremi e più corti due spazi ridotti che visivamente allungavano la
composizione. La critica di Vasari al risultato architettonico era forte, ma certo è che con quell’intervento
unito a loro Palazzo, i Rucellai avevano finito per creare uno spazio urbano privatizzato una propria ben
individuata polarità nella Firenze rinascimentale.

Intervento facciata Santa Maria Novella. Realizzato tra il 1458 e il 1460. Per lo stesso committente di Palazzo
Rucellai, Alberti progettò la facciata della Basilica Fiorentina di Santa Maria Novella. Contrariamente al
tempio Malatestiano dove Alberti poté creare una facciata ex novo, in quest'occasione l'architetto si trovo di
fronte a una parziale realizzazione trecentesca, la porzione inferiore infatti aveva già i portali laterali, i
profondi archi acuti con le tombe gotiche e le arcate cieche, l’Alberti fu quindi costretto armonizzare il
vecchio con il nuovo. Nella parte inferiore limitò il suo intervento al portale centrale inserito in un arco a
tutto sesto incorniciato da due semicolonne corinzie su alti piedistalli. Il portale d’ingresso con l'arco,
progettato dalla Alberti, a imitazione del Pantheon introduce una breve volta a botte cassettonata e poggia
su superfici murarie scandite da coppie di lesene corinzie scanalate. Le semicolonne sono riproposte, nelle
due estremità della facciata, affiancate alle paraste d'angolo, secondo lo schema ripreso dalla Basilica Emilia
nel foro romano, rivestite con fasce orizzontali di marmo alternativamente verde e bianco, le paraste rinviano
ai pilastri angolari del romanico battistero fiorentino di San Giovanni. Un alto attico fra l'ordine inferiore e
quello superiore segna l'inizio della realizzazione tutta quattrocentesca. Per l'intera altezza della navata
centrale e oltre, la porzione superiore della facciata venne organizzata come un tempio classico tetrastilo che
ricorda, allo stesso tempo, la soluzione già adottata nella basilica fiorentina di San Miniato. Quattro paraste
corinzie, dalla tipica zebratura marmorea, sorreggono una trabeazione sovrastata da un timpano con
mensole e dentelli all'interno, all'uso romano. Due ampie volute riccamente e minutamente ornate
raccordano l'ordine superiore all'attico nascondendo gli spioventi del tetto delle navate laterali. Quanto alle
proporzioni, argomento di cui Alberti si era occupato nel suo trattato d'architettura, è stato verificato come
l'intera facciata di Santa Maria Novella sia inscrivibile in un quadrato, mentre due quadrati minori di lato pari
a metà di quello maggiore circoscrivano la parte inferiore e in uno delle stesse dimensioni si inscriva quella
superiore. Altri significativi rapporti proporzionali si possono riscontrare in questa facciata in base ai
sottomultipli, cioè ed elementi quadrati che sono sottomultipli di altri più grandi, in tal modo l’architettura
dell’Alberti rivela come tutte le sue componenti siano in stretta relazione le une con le altre e come assieme
obbediscono a ferree leggi geometriche. Il campionario lapideo del materiale utilizzato dall’Alberti era
costituito dal rosso di Siena, il bianco apuano e il verde serpentino di Prato. È possibile osservare un
particolare dello stemma della famiglia Rucellai, costituito da marmo bianco apuano misto a serpentino di
Prato.

La Rotonda della Santissima Annunziata a Firenze. Intervento realizzato intorno agli anni 1460-70. La vicenda
del rinnovo del santuario medievale della Santissima Annunziata e del suo ampliamento quattrocentesco è
piuttosto complessa, essendosi trascinata per oltre un cinquantennio a partire da quando, nel 1440, papa
Eugenio IV volle che la chiesa, particolarmente cara ai Bizantini che erano stati accolti a Firenze in occasione
del Concilio di Unione della chiesa Cattolica e di quella Ortodossa del 1439, venisse dedicata alla nuova
Crociata che si andava svolgendo contro i Turchi nelle regioni balcaniche in difesa di Costantinopoli. Secondo
un Annuario seicentesco conservato dai frati Serviti, che officiavano la chiesa, Leon Battista Alberti sarebbe
stato coinvolto in una nuova terminazione posta in fondo alla chiesa – una grande «tribuna» circolare
esemplata su modelli sia classici che bizantini. A partire dai primi anni Quaranta fino al 1470, certamente quel
cantiere subì stasi e improvvise accelerazioni, venendo prima affidato all’esecuzione di Michelozzo di
Bartolomeo e poi di Antonio Manetti Ciaccheri: i lavori dovevano essere in gran parte finanziati dal marchese
di Mantova, Ludovico Gonzaga, ma quella somma non poté a lungo venir impiegata. Solo alla fine degli anni
Sessanta, la situazione ebbe modo finalmente di sbloccarsi ed Alberti, incaricato dal nobile mantovano come
ci attestano fonti certe, fece ufficialmente ingresso come progettista nella realizzazione dell’opera: dopo
quasi trent’anni dal suo primo concepimento progettuale, la tribuna venne orascandita come un sepolcro
romano, annesso al corpo della chiesa, con un impianto centrale e cappelle tutto intorno, e una grande
cupola di chiusura. Sulla paternità albertiana del progetto, unico intervento a tutt’oggi documentato a Firenze
e forse affidato già nella primavera del 1470 emerge direttamente dalle fonti che registrano l’accesa
discussione suscitata a Firenze. Le obiezioni sono inizialmente sostenute anche dal giovane Lorenzo il
Magnifico. Va detto che della attribuzione all’Alberti non nutriva dubbi Vasari nell’edizione delle Vite del
1568. Ma il critico, sulla base del proprio gusto cinquecentesco, non poteva non evidenziare che Alberti fece
la tribuna «capricciosa e difficile, a guisa d’un tempio tondo, circondato da nove cappelle… i cui archi che si
guardano dagli lati par che caschino indietro e che abbiano, come hanno invero, disgrazia». Leon Battista
aveva dunque realizzato un’opera non esente da errori, ma si trattava, comunque, del primo «tempio»
rotondo di gusto antico che veniva eretto in città, rinnovando completamente la concezione delle tradizionali
spazialità delle chiese fiorentine. Le planimetrie con tutte le indicazioni del rilievo e con le proiezioni e le
decorazioni tutte indicate e ben evidenti le nuove cappelle di nove altari servono a farci capire di quale
complessità si organizzo il lavoro dell'Alberti che propone una modificazione in sostanza del coro
precedentemente ideato da Michelozzo, portando a nove la sequenza delle cappelle che perimetra lo spazio
del coro, imprimendo all'insieme una definitiva conformazione avvolgente, cioè questa corona di cappelle
che girano tutti intorno il corpo centrale. L’impronta tendenzialmente circolare ripresa più volte negli scritti
dell'umanista Alberti per incarnare la perennità della natura e simboleggiare la forza positiva della ragion
assediata dall’irrazionale. Al circuito murario già esistente vengono saldate due nicchie più piccole ricavate
nei due grandi pilastri che fiancheggiano il varco di collegamento con il corpo della Basilica invertendo così
l’affaciamento e ricostruendo l'assetto delle due antiche cappelle del transetto immediatamente adiacenti la
vecchia Cappella Maggiore anch'essa destinata a essere abbattuta. Osservando l’edificio si evidenzia molto
bene la difficoltà nel definire la calotta emisferica con un guscio massiccio che Alberti utilizzò con uno
spessore di circa un 1.70 m, costituito da pietrame informe con conglomerato cementizio e cerchiatura
metallica. In effetti l'aspirazione della calotta era quella di conformarsi a monumenti antichi com'era ovvio
in epoca rinascimentale e anche riferendosi a quelli che potevano essere alcuni esempi che in città andavano
per la maggiore, come per esempio la cupola l'apporto del Brunelleschi i suoi collaboratori per la cura del
Duomo, infatti Alberti realizzò un diametro interno di 23.40 m circa e un’altezza di poco superiore ai 30
metri. Il coro dell'Annunziata mostra dimensioni che a Firenze sottostanno solo alla tribuna di Santa Maria
del Fiore e al battistero di San Giovanni e sovrastano quelle del vano centrale dell'oratorio degli Angeli.
L'accostamento del corpo allo spazio longitudinale della chiesa è categorico e la costruzione delle due nicchie
albertiane, che saldano la nuova rotonda al vecchio transetto della chiesa, provoca una contrazione degli
ambienti preposti al collegamento con la Sacrestia e il convento riducendoli a brevi e tortuosi corridoi
sussidiari. La continuità del volume infine fa risaltare l'esiguità del vecchio transetto. Nel Santuario
dell'Annunziata D'Alberti radicalizza l'orientamento verso lo schema bipolare della chiesa già espresso
nell'impianto della tribuna avviata e riferibile a Michelozzo.

Ora a descrivere due esempi realizzati sempre dall’ Alberti per il Marchese di Mantova, Ludovico Gonzaga. Il
tema del tempio classico rivisitato in chiave moderna, già inaugurato nell'ordine superiore di Santa Maria
Novella, ritorna e viene ulteriormente sviluppato anche nelle due Chiese che l'Alberti progettò per Mantova:
il San Sebastiano e il Sant'Andrea. Le due costruzioni si inseriscono in una logica di rinnovamento urbano
voluto dal Marchese Ludovico Gonzaga che in occasione dei preparativi per la Dieta del 1459, aveva potuto
constatare l'inadeguatezza delle strutture della città lombarda.
La chiesa di San Sebastiano. È uno dei primi esempi di chiesa rinascimentale a pianta centrale progettata nel
1460, i cui lavori furono condotti dall'architetto toscano Luca Fancelli, l’Alberti rivolge l’attenzione a una
pianta a croce greca preceduta in uno solo dei bracci da un pronao con cinque aperture in facciata. Il portale
al centro è sormontato da un architrave ornato e sostenuto da due mensole a voluta che, come in Palazzo
Rucellai, li monta anche sulle due lesene vicine. Le due rampe di scale d'accesso frontali sono state realizzate
solo nel 1925, ma l'Alberti doveva averle previste laterali sull'esempio del tempietto del Clitumno, un edificio
longobardo del VII-VIII secolo. La chiesa ha sotto di sé una cripta a cui si accede dall'esterno a livello del
terreno tramite ampie arcate. La cripta ricalca la pianta del piano superiore, ma risulta coperta da un gran
numero di volte a crociera che poggiano su robusti tozzi pilastri senza base, come nell'ordine interno del
Colosseo. In tal modo l'edificio non viene aggredito dall'umidità e al tempo stesso risulta sopraelevato in
adesione al pensiero dell'Alberti relativamente ad edifici sacri, i quattro bracci della croce sono coperti da
volte a botte che per la loro resistenza non si sarebbero prestate a contrastare la cupola emisferica, sostituita
però in fase di realizzazione da una più semplice leggera volta a crociera che Leon Battista Alberti aveva
previsto sullo spazio centrale. La facciata è solcata da quattro alte e snelle lesene fortemente schiacciate
contro il muro a somiglianza del fronte di un tempio tetrastilo, ma di sole tali lesene terminanti con capitelli
molto semplificati è posta un'alta e massiccia trabeazione che sorregge a sua volta un frontone spezzato con
incluso un arco. Questo motivo architettonico presente nell'arco di Orange in Provenza, monumento
risalente agli anni 30-26 a.C., è stato verosimilmente ripreso dalla conformazione interna dell’abside del già
citato tempietto del Clitumno. Alcuni disegni realizzati dall'architetto Antonio Labacco, nato a Vercelli nel
1495 e morto a Roma nel 1570, raffigurano la pianta e il prospetto laterale della chiesa di San Sebastiano,
databili intorno al XVI secolo. Si tratta dell'impianto centrale a croce greca che l'architetto Labacco rileva
annotando alcune misurazioni che lui stesso aveva preso, si tratta di uno schizzo in bozza che raffigura anche
un particolare molto importante relativo al prospetto laterale della chiesa di San Sebastiano che non investe
la Loggetta che invece si trovava sull'altro lato dell'edificio. L'ampio vestibolo di facciata da cui si aprono
forbici forbici è coperto con una volta a botte unghiata che dà accesso all'ingresso.

La Chiesa di Sant'Andrea. Fu progettata nel 1470 e iniziata dal Fancelli circa 2 anni dopo. L'Alberti nella
progettazione ricorre alla pianta longitudinale con transetto e fonde nella facciata Il tema dell'Arco di Trionfo
con quello del fronte di un tempio. Tre sono le aperture frontali che immettono nel pronao, coperto da un
sistema di volte a botte cassettonate, quella centrale, amplissima, è costituita da una grande arcata; le altre
due, più piccole, sono architravate. Le lesene corinzie su alti piedistalli sorreggono, invece, una bassa
trabeazione al di sopra della quale si imposta un timpano. Al di sopra di esso, infine, si erge una struttura
coperta a botte (il cosiddetto «ombrellone») che, oltre a convogliare la luce nel grande ovulo che illumina
l'interno dell'edificio, svolgeva anche le funzioni di "cripta soprelevata", dal momento che in essa veniva
esposta in particolari occasioni la celebre reliquia del Sangue di Cristo, che ancora si conserva nella chiesa. A
tale cripta superiore si sarebbe potuto accedere da due scale a chiocciola ciascuna a doppia rampa: una per
la salita, l'altra per la discesa, collocata in posizione arretrata rispetto alla facciata, ma ai suoi fianchi destro
e sinistro, tali rampe se il progetto fosse stato portato a compimento avrebbero comportato che la facciata
attuale si sarebbe stagliata contro una grande superficie piana arretrata. Sant'Andrea possiamo definirla
come l’opera più elegante dell’Alberti, in cui l’architetto creò un nuovo tipo di chiesa, dove le tradizionali
navatelle delle chiese basilicali e gotiche erano sostituite da una serie di cappelle laterali. Questo impianto
infatti permetteva ai fedeli, che si radunavano in chiesa, una vista ininterrotta della tribuna a cupola.
Ispirazione per questo motivo di pianta viene da edifici romani come le terme di Diocleziano e la basilica di
Massenzio, dove il peso della volta era sostenuto da enormi piedritti che potevano essere resi cavi per
formare aperture ortogonali all'asse principale. L’enorme volta a botte cassettonata, larga quasi 18 metri, la
più grande dai tempi romani, è retta da pilastri contenenti piccole cappelle quadrate a cupola che si alternano
con le cappelle maggiori voltate a botte interposte ai pilastri. Questo interno grandioso, spazioso percorre
molte delle più belle chiese italiane del XVI secolo, da San Pietro alla Chiesa di Gesù. La facciata è molto legata
ai tempi antichi anche se sorprendentemente se ne cita minore influenza. La sua grande apertura ad arco
fiancheggiata da aperture più piccole richiama la scansione delle cappelle maggiori e minori sui fianchi della
navata. La facciata è ulteriormente collegata in maniera organica con l'interno dell'arco centrale, con il
profondo ombroso intradosso dal momento che la sua forma richiama e prepara lo spettatore alla grande
navata con volta a botte all'interno. Inoltre in tutta la facciata si fondono i riferimenti sia all'arco trionfale che
al fronte di ingresso di un tempio, in quanto l'arco centrale è fiancheggiato da quattro pilastri sormontati da
un timpano. All'interno un'unica, grandiosa navata - utile ad accogliere le grandi masse di pellegrini che si
radunavano in chiesa per venerare la reliquia del sangue di Cristo - è affiancata su ciascun lato da tre grandi
cappelle coperte da volte a botte cassettonate. Fra esse piccole cappelle sono ricavate all'interno dei potenti
pilastri che sorreggono la grande volta a botte che copre l'aula. Il motivo dell'apertura, sormontata in
successione da una nicchia e da una finestra tipico della facciata, ricorre anche nei pilastri dell'interno, nei
quali alla nicchia è sostituita la parete piana racchiusa da una cornice. Se all'esterno l'ispirazione albertiana
fonde la facciata di un tempio con un arco trionfale in un sistema a ordine intrecciati, sono presenti infatti sia
un ordine maggiore quello relativo le grandi parate lisce su piedistalli, sia un ordine minore quello inerente
alle più piccole paraste scanalate e rudentate, all'interno il ciclo della sperimentazione del grande architetto
prosegue e volge al termine, esso infatti si conclude con il riferimento dell'imponente e imperiale
impostazione degli edifici termali sia della Basilica di Massenzio, sia delle altre basiliche cupolate. Questa
infatti interpretata quale tempio Etrusco che rinvia la grande aula affiancata da tre cappelle per lato.
Impressionante è l'immagine che se ne ricava dal grande vano centrale con lo sfondo della Cupola che poggia
su quattro pennacchi che scaricano su imponenti pilastri. L'interno del vano centrale s'ispira ovviamente
all'antico e in particolar modo alla Basilica di Massenzio, si tratta qui di una grande aula coperta da un’enorme
volta a botte e su ogni lato della navata si aprono poi le grandi cappelle anch'esse voltate a botte e tre
cappelle più piccole ricavate in appositi invasi murari, cui si accede da più modeste aperture in spazi di muro
pieno che richiamano enormi piloni. Guardando all'interno, si ha una sensazione di immensità di spazio
dilatato, grande e ampio. Probabilmente era proprio questa la concezione dell'Alberti: quella di uscire fuori
dagli schemi compositivi dell'architettura gotica, che prevedevano non cappelle laterali, ma bensì navate
laterali e aprire questo spazio dando la possibilità di vedere verso la parte centrale che era l'invaso
determinato dall'incrocio del transetto, focalizzato dalla parte alta della grande cupola che attraverso
permetteva anche di illuminare lo spazio interno.

Il Rinascimento maturo, il Cinquecento

Il Rinascimento maturo rappresenta quella fase della stagione delle certezze che si è verificata nel 500. Nel
1550 infatti Giorgio Vasari pubblicava a Firenze Le vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani.
Più volte sottolineata l'importanza di questo libro, nella seconda edizione, 1568, pubblicata da Giunti con il
titolo lievemente modificato, l'opera venne ampliata e rivista sia per quanto riguarda le informazioni, sia per
quanto riguarda il punto di vista linguistico, assumendo un tono più raffinato e letterario. Le vite sono divisi
in tre parti ciascuna delle quali è riferita a una delle tre età, corrispondenti ai secoli quattordicesimo,
quindicesimo e sedicesimo, nello svolgimento dei quali l'autore vede un continuo progresso delle arti, pittura,
scultura e architettura. Partendo da Cimabue, il vertice più elevato coincide con Michelangelo, dopo il quale
Vasari crede che possa esserci soltanto un inevitabile declino. A ogni età inoltre corrisponde una determinata
maniera, cioè uno stile, un modo specifico con cui l'arte si manifesta. Nel ribadire che lo scopo dell'arte è
l'imitazione della Natura, Vasari afferma che alla terza età corrisponde una terza maniera, cioè quella della
perfezione delle arti. Tale maniera, detta anche moderna, in relazione al fatto che è a lui più vicina o
pressoché contemporanea, viene fatta iniziare da Leonardo da Vinci che con le sue opere mostrò i limiti degli
artisti dell'età precedente avendoli tutti superati. Assieme a Leonardo i protagonisti della maniera moderna
sono fra gli altri e innanzitutto Bramante, Raffaello e Michelangelo. In realtà questi uomini furono davvero
speciali perché incarnarono l’ideale dell'artista completo e universale che supera i confini di una sola arte
riuscendo al tempo stesso a essere perfetto anche in tutte quelle nelle quali si cimenta. Per essere definito
un ottimo artista dunque non erano più sufficienti la padronanza delle tecniche della propria arte e la
conoscenza di alcune discipline, quelle ad esempio elencate e raccomandate per gli architetti da Vitruvio e
ribadite dall’Alberti, ma occorreva esserne addirittura maestri.

Donato Bramante. Donato, figlio di Angelo di Antonio Di Renzo da Farneta e di Vittoria di Pascuccio da Monte
Asdrualdo, detto anche Bramante dal soprannome Paderno nacque a Monte Asdrualdo, oggi Fermignano
presso Urbino nel 1444 e si formò alla significativa scuola del cantiere urbinate. Dopo un probabile viaggio a
Mantova, nel 1478 è già attivo a Milano, dove inizialmente opera sia come pittore sia come architetto
mostrando soprattutto negli affreschi di casa Panigarola di sapere coniugare l'una e l'altra arte. Dai primi anni
80, Bramante ha rapporti strettissimi con Leonardo, dal confronto con il grande maestro di Vinci e
dall'esperienza milanese alla corte di Ludovico Sforza, ebbe inizio quella riflessione sull'architettura che a
partire dall’Opinio per il Tiburio del Duomo del capoluogo lombardo, l'unico scritto teorico conservatosi di
Donato Bramante e dallo studio di Vitruvio, dette i suoi frutti migliori a Roma dove Bramante si recò nel 1499,
poco prima l'occupazione francese di Milano. Fu proprio a Roma, in particolare durante il pontificato di Giulio
II, che Donato poté iniziare quelle grandi imprese architettoniche che avrebbero dato l'avvio all’architettura
del 500. Ben si accorse di ciò Giorgio Vasari che avvicinò la figura di Bramante a quella di Brunelleschi, ma
anche Sebastiano Serlio loda Bramante come l'inventore e luce della buona e vera architettura. Donato
Bramante morì a Roma il 11 aprile del 1514.

Chiostro della chiesa di Santa Maria della Pace a Roma. Dopo il suo arrivo a Roma, Bramante solitario e
cogitativo, come lo descrive Giorgio Vasari, cominciò a rilevare i monumenti antichi della città e dei dintorni,
spingendosi in questa sua fame di conoscenza dovunque sapeva che fossero cose antiche. Nel frattempo
maturava un nuovo stile più solenne, più potente all'interno di una visione grandiosa dell'architettura, capace
di misurarsi con quella nobile degli antichi. Il Chiostro della chiesa di Santa Maria della Pace, realizzata al 1500
e il 1504, su commissione del Cardinale di Napoli Oliviero Carafa, protettore dei domenicani di Santa Maria
delle Grazie a Milano, segna il momento di passaggio tra gli ultimi lavori lombardi e le prime autonome novità
romane. Il Chiostro è una sorta di biglietto da visita per la ricca committenza romana in cui Donato Bramante
espone le sue conoscenze, in particolare quelle relative all'impiego degli ordini architettonici. Ciascun lato
del Chiostro si apre verso l'invaso scoperto interno con quattro arcate su pilastri. Lungo i due assi di simmetria
ortogonale si dispongono i pieni di quattro pilastri piuttosto che i consueti varchi degli archi, il pieno in asse
pone un limite dal libero vagare dello sguardo, posto al centro del Chiostro. Donato Bramante dunque
intende sottolineare il valore del luogo vuoto circondato dal porticato, il quale pertanto si qualifica come
involucro che racchiude uno spazio libero. Le dimensioni dell'edificio sono definite attraverso un rigoroso
sistema proporzionale. Il chiostro di Santa Maria della Pace a Roma è parte di un complesso architettonico
dedicato a Santa Maria della Pace e intendendo la Vergine madre della pace, nella concatenazione degli
ordini Bramante ritiene di dover dare l'importanza maggiore allo ionico, secondo Vitruvio ordine matronale
che caratterizza perciò le paraste addossate pilastri. Per rispettare lo schema della sovrapposizione degli
ordini, però, l'architetto colloca le paraste al di sopra di piedistalli: in tal modo esse hanno la base a una quota
superiore a quella dei pilastri che Bramante suggerisce come "dorici", modellando le imposte degli archi in
modo che simulino dei capitelli con echino e abaco. Una loggia trabeata corona l'intero chiostro. La
trabeazione (con le mensole nel fregio, come nel Colosseo e nel fiorentino palazzo Rucellai) è sostenuta da
pilastri, in asse con quelli sottostanti, intercalati da colonnine corinzie, collocate in corrispondenza del
cervello degli archi. I pilastri sono di ordine composito e verso lo spazio interno del chiostro le loro facce si
trasformano in paraste su piedistallo riprendendo quelle del registro inferiore. In tal modo Bramante riesce
a far ricorso a tutti e quattro gli ordini architettonici (dorico, ionico, corinzio, composito) pur forzando le
regole rigide degli ordini. Infatti, al piano terreno il dorico è solo simulato, lo ionico è sollevato e non
sovrapposto e nella loggia due ordini diversi (composito e corinzio) sostengono la stessa trabeazione.
L'architetto è come se continuamente volesse allo stesso tempo rispettare e violare le regole, esercitandosi
nell'inventare problemi difficili (qui, ad esempio, usare quattro ordini in due soli piani) offrendo soluzioni
ingegnose e innovative, pur se rigorose nei principi.

Il tempietto di San Pietro in Montorio a Roma. Lo studio dell'Antico e del De Architectura di Vitruvio fu messo
a frutto nell'opera che è da considerare come la più rappresentativa dell'inizio del nuovo secolo il tempietto
di San Pietro in Montorio a Roma, realizzato sulle pendici del Gianicolo, nel complesso conventuale di San
Pietro in Montorio, in un cortile sul fianco destro della chiesa. Commissionato nel 1502 dal re di Spagna per
ricordare il luogo del martirio dell'apostolo Pietro, l'edificio dovette subire cambiamenti dopo l'esecuzione
della cripta e venne concluso probabilmente attorno al 1508-1509. Il tempietto da pochi anni restaurato è di
piccole dimensioni sopraelevato rispetto al piano del cortile e ricalca la forma degli antichi templi peripteri
circolari, tholos, ossia delimitato da un colonnato a una sola fila di colonne, di ordine tuscanico che poggiano
su un basamento a gradoni, replicando idealmente una peristasi, e lo stesso nome, come nell’albertiano
Tempio Malatestiano di Rimini, è evidente richiamo della classicità. Attorno a un corpo centrale cilindrico
scavato da nicchie con catino a conchiglia e sormontato da una cupola, corre il peristilio circolare coperto a
lacunari e delimitato dalle 16 colonne tuscaniche trabeate, prelevate da un ignoto monumento antico. Le
metope del fregio, uno dei primi esempi rinascimentali di fregio dorico con metope e triglifi, e che aprono la
strada alla cappella Caracciolo di Vico in San Giovanni a Carbonara la più straordinaria architettura
napoletana d'inizio 500, presentano una decorazione a tema liturgico che rinviano a San Pietro e alla chiesa,
secondo una tipologia già impiegata nel fregio del tempio di Vespasiano nel foro romano. Al di sopra della
cornice anulare infine corre una balconata con una balaustra. Il tempietto, nel quale Bramante riuscì a
racchiudere l’idea assoluta di perfezione, fu molto ammirato. Sebastiano Serlio gli dedicò quattro pagine del
terzo dei suoi libri sull’architettura. Anche Andrea Palladio lo incluse nei Quattro libri dell’Architettura. Nei
Musei Civici di Vicenza si conserva un disegno originale di suo pugno dell’Alzato del tempietto, in cui è
possibile osservare quello che era il progetto originario del Bramante che però non fu mai realizzato. Egli
intendeva dare una sua forma alla piazza, avvolgendo il tempietto con una costruzione tale che dalla forma
circolare si potesse passare ad una forma rettangolare con il fronte da un lato ondulato, mentre dal lato
destro un fronte di tipo pronao con una serie di colonne. Alle colonne del tempio corrispondono delle paraste
addossate sulla superficie convessa del cilindro della cella (diametro di 4.5 m) e la rastremazione verso l'alto
consente loro di non occupare troppo spazio stante le piccole dimensioni della costruzione. All'interno le
paraste si dimezzano diventano da 16 a 8 e si raggruppano a coppie attorno alle 4 piccole finestre lungo due
assi ortogonali, lasciando così una maggiore superficie parietale per le porte. Come abbiamo già detto Serlio
riprende il tempietto del Bramante nel terzo libro e sottolinea la difficoltà che il Bramante ha avuto nella
realizzazione dell'opera che risulta incompleta, in quanto Donato aveva inteso occupare la piazza quadrata
apponendo oltre al tempietto anche quattro piccole cappelle triconche agli spigoli del quadrato, ciò non fu e
la realizzazione secondo il Serlio prevedeva una diversa organizzazione dello spazio circostante al piccolo
edificio, poiché il Bramante doveva cercare qualche maniera di esaltare quella che era l'idea di centralità, il
cortile infatti avrebbe dovuto avere una forma circolare comune, dotato di nicchia e preceduto da un portico
su colonne di numero uguale a quello del tempietto, una soluzione che come in uno specchio concavo e
avvolgente avrebbe riflesso la struttura convessa della porzione inferiore di San Pietro in Montorio.
L'importanza che il l'architettura di Bramante assunse poi negli anni è dimostrata dai numerosissimi i rilievi
disegni che ritraggono le sue opere come il del disegno di Federico Barocci verso la fine del Cinquecento
conservato a Firenze nel gabinetto delle stampe dei disegni. La realizzazione del tempietto fu interpretata il
ritorno in vita dell'arte classica, il tempietto infatti divenne un esempio a cui guardare perché recepito
immediatamente da tutti gli artisti architetti dell'epoca come classico, cioè aveva lo stesso valore normativo
di un'architettura antica alla quale ci si poteva ispirare. Infatti solo meno di 40 anni dopo, il Serlio, come
abbiamo avuto modo di dire più volte, inseriva pianta, prospetto, sezione fra gli edifici antichi nel terzo libro
del suo trattato di architettura. Lo stesso fece poi Andrea Palladio nel 1570 giustificando la presenza del
tempio di Bramante fra quelli antichi nel suo Quattro libri dell'architettura perché Donato Bramante era stato
il primo a mettere in luce la buona e la bella architettura che dagli antichi fino a quel tempo era stata nascosta.

Il Belvedere in Vaticano. Con l’elezione di Giulio II a Papa, Bramante diventa il migliore interprete delle
esigenze di rinnovamento urbano architettonico del Pontefice restauratio Romae, l’architettura è uno
strumento di propaganda visiva, quindi tangibile, di un grandioso concetto e progetto politico per una
renovazio imperi -una rinascita dell'impero- che vede il pontefice come nuovo imperatore con la conseguente
esaltazione della funzione del papato. In quest’ottica dal 1504 al 1512 Bramante è chiamato alla sistemazione
della zona posta tra i Palazzi Vaticani e la villa di Papa Innocenzo VIII, un edificio merlato costruito tra l’ottavo
e il nono decennio del Quattrocento sulla collina del Belvedere, purtroppo molto alterato nel corso dei secoli.
La progettazione consiste nella razionalizzazione di uno spazio vuoto, non edificato delle dimensioni di circa
100 metri per 300 che l’architetto circonda di edifici. Alla base dell'intervento c’è la volontà di restituzione
della villa antica, interpretata sulla scorta della lettura delle epistole di Plinio il Giovane. L'organizzazione
scenografica è grandiosa, invece, è debitrice anche della suggestione esercitata sull'architetto dall'impianto
del Santuario della Fortuna Primigenia a Preneste e dal Circo Massimo (la grande struttura dedicata alle corse
dei cavalli costruita in forme monumentali ai piedi del complesso del palazzi imperiali del Palatino). La
realizzazione, infine, e sempre governata dall'uso rigoroso della prospettiva. Donato Bramante, infatti,
organizza lo spazio in modo che possa essere goduto essenzialmente dal Papa quando questi si trova nel suo
studio privato (la Stanza della Segnatura ). L'ampia superficie viene divisa in tre porzioni di diverso livello
(purtroppo non più percepibili stante la costruzione di due architetture poste in senso trasversale: una parte
della Biblioteca Sistina e il cosiddetto Braccio Nuovo); di conseguenza il loggiato che la stringe sui lati maggiori
ha altezze decrescenti, passando via via da tre piani a uno solo. II livello più basso contiguo ai Palazzi Vaticani,
avrebbe dovuto ospitare rappresentazioni teatrali e tornei godibili dalle gradinate che costituivano la parte
più avanzata dello spazio mediano. Organizzato a giardino, questo secondo livello - introdotto da due torri
laterali – che, restringendo la visione, mettevano meglio a fuoco gli spazi retrostanti - ospitava anche una
doppia scala a due rampe che si snodavano ai lati di un ninfeo centrale. Le scale conducevano al terzo e più
alto livello - attuale Cortile della Pigna - tenuto a giardino e con il piano di calpestio in salita, al fine di dilatarne
scenograficamente le dimensioni. All'illusione di allontanamento dei piani contribuiva anche l'adozione della
travata ritmica per le membrature architettoniche del loggiato a un solo ordine. Al piano superiore in
adiacenza al cortile ottagono della villa di Innocenzo VIII, ci conclude con una maestosa esedra, introdotta da
una spettacolare scala convesso-concava.

Importanti e degni di nota sono poi i giardini Vaticani, inaugurati 1279 e però massimo sviluppo
architettonico tra il XVI e il XVII secolo sotto la direzione di architetti come Bramante. Sono un interessante
esempio di fusione tra i giardini alla francese e quelli all'italiana.

Michelangelo Buonarroti. Nacque il 6 marzo 1475 a Caprese, cittadina dell'aretino, di cui il padre Ludovico
cittadino Fiorentino era podestà. Per Giorgio Vasari si trattò di una speciale benedizione di Dio ed aveva
ragione. A Firenze dove ben presto rientrò la famiglia, Michelangelo compì i primi studi finché nonostante
l'opposizione del padre andò a bottega da Domenico Ghirlandaio, il giovane artista però si formò soprattutto
copiando gli affreschi di Giotto e di Masaccio, rispettivamente in Santa Croce e al Carmine. Egli si applicò
molto nello studio della scultura degli antichi frequentando l'ampia collezione medicea forse sotto la guida
di Bertoldo di Giovanni, discepolo diretto di Donatello e non trascurò quella dei grandi Nicola e Giovanni
Pisano, nè infine quella dello stesso Donatello. Dopo le prime esperienze fiorentine come scultore si trasferì
a Roma nel 1496 come tanti per far ritorno poi nella città toscana nel 1501 ormai famoso. Nel 1505 Papa
Giulio II lo invitò di nuovo a Roma e fino al 1536, anno del suo definitivo trasferimento nella città dei papi,
Michelangelo si dedicò a imprese artistiche che lo videro spostarsi spesso a Firenze. Morì il 18 febbraio 1564
all'età di 89 anni mentre lavorava alla Pietà Rondanini. Al pari degli altri artisti del Rinascimento e dei
fiorentini in particolare, Michelangelo riteneva che scopo dell'arte fosse l'imitazione della natura, solo
l'indagine della natura avrebbe potuto consentire di arrivare alla bellezza era tuttavia convinzione dell'artista
che dalla natura occorresse scegliere i particolari migliori e che la sola fantasia potesse immaginare una
bellezza superiore a quella esistente in natura. Esiste dunque per Michelangelo un modello di bellezza che
ogni artefice concepisce nella propria mente, un modello ideale al quale conformare ogni propria creazione,
il perfetto corpo umano in quanto specchio della bellezza divina è inizialmente per i Buonarroti quanto di più
bello ci sia nel teatro. Divenuto più profondamente religioso con la caduta dei tradizionali valori cristiani a
causa della Riforma Protestante e del Sacco di Roma e sotto la spinta dei gruppi riformisti che volevano un
cambiamento all'interno della Chiesa Cattolica, Michelangelo cominciò a ritenere del tutto secondaria la
bellezza fisica rispetto a quella spirituale: la prima non era altro che un mezzo per rendere evidente proprio
la bellezza interiore e condurre alla contemplazione di quella Divina. È così che Michelangelo comincia a
intendere l’attività dell'artista al servizio della Chiesa, non basta più che il pittore, lo scultore siano padrone
è proprio mestiere, essi devono anche particolare essere particolarmente pii, spirituali quanto più lo sono,
tanto più riusciranno a infondere credibilità e fede alle proprie figure che solo così sapranno commuovere e
ispirare reverenze. Avvicinandosi alla fine della propria esistenza, Michelangelo si convince anche che la
bellezza esteriore distolga addirittura l'uomo dalla sua spiritualità, anch’egli dunque ormai coinvolto come
molti altri artisti nel clima controriformistico teme che la propria arte e la proprio fantasia possono averlo
condotto addirittura verso la dannazione dell'anima meritando il castigo eterno. Alla base di ogni attività
artistica per Michelangelo c'è il disegno che consiste nel rendere evidente e concreta l'idea che ogni artista
ha in mente. Nei disegni giovanili egli ricorre essenzialmente alla penna, al tratteggio sottile e incrociato al
fine di modellare un'immagine di consistenza scultorea e tende a rappresentare figure singole e decisamente
spiccate dal fondo del foglio, circondandole con una netta linea di contorno. Michelangelo inoltre non ricorre
alla punta d'argento, uno dei mezzi prediletti dai suoi contemporanei, mentre utilizza lo stile di metallo
calcato sulla carta per i tracciati preliminari invisibili, i famosi segni acromi. È il caso ad esempio di un foglio
del Louvre, in cui sono copiate, ricorrendo al tratteggio incrociato, due figure dell’ascensione di San Giovanni
Evangelista di Giotto alla cappella Peruzzi in Santa Croce. I disegni della maturità mostrano invece il graduale
abbandono del tratteggio, troppo forte e talvolta troppo incisivo, per appropriarsi di una tecnica più dolce,
morbida, leggera quella dello sfumato, la cui resa è pittorica. Nel disegno di Cleveland, da alcuni ritenuto
copia di un'originale perduta di Michelangelo, preparatorio per una degli ignudi della volta della Cappella
Sistina, la pietra rossa si presta più di ogni altro mezzo a rendere la muscolatura e il colore di un corpo, mentre
la pietra nera della Testa Ideale del British Museum definisce con estrema precisione e finezza un vero e
proprio disegno di presentazione o per certi versi di omaggio. Questa locuzione indica che il disegno è stato
realizzato allo scopo di essere regalato ed è perciò rifinito in ogni sua parte. Infine nel Cristo Morto del Louvre
eseguito da Michelangelo nel 1534-1535 per aiutare l'amico Sebastiano Del Piombo nella realizzazione di un
dipinto, lo sfumato costruisce il solo busto reclinato di Gesù, le gambe e la testa invece sono state lasciate
allo stato disegno, di contorno accompagnato da pochi di ombreggiatura a tratti paralleli. Parlando della
genialità del Buonarroti non possiamo non parlare di due opere emblematiche conosciute nel mondo intero:
La Pietà di San Pietro conservata nella città del Vaticano, presso la Basilica di San Pietro e il famoso David di
Michelangelo conservato a Firenze nella galleria dell'Accademia.

La Pietà di San Pietro. Viene commissionata nel 1498 dal Cardinale Jean Bilhères a Michelangelo, volendo
lasciare un ricordo di sé a Roma. Michelangelo era giovane, ma aveva già dato prova di eccezionale maestria
nella scultura e inizia a scolpire un gruppo marmoreo rappresentante La Pietà. Un anno dopo l'opera era già
conclusa. Il tema della Pietà allora molto diffuso nell'Europa centro-settentrionale, ma poco in Italia, consiste
nel rappresentare la Vergine Maria che tiene fra le braccia il corpo senza vita del figlio deposto della croce.
Tale composizione ebbe forse origine come riduzione della scena del compianto sul Cristo Morto di cui
esistono numerosi esempi medievali sia scolpiti sia dipinti. Michelangelo segue uno schema piramidale e ne
studia la composizione in modo che essa esprima tutti i suoi valori soprattutto in visione frontale, la Vergine
michelangiolesca è una fanciulla dal volto appena velato di tristezza che, così come teneramente l'aveva
tenuto in grembo da bambino, sorregge amorevolmente il corpo ugualmente giovane del figlio. L'ampio gesto
del suo braccio sinistro portato verso l'esterno e con il palmo della mano rivolto in alto è un invito a chi guarda
a provare per Gesù il suo stesso dolore. Una fascia che reca la firma dello scultore li attraversa diagonalmente
il busto mettendone ancora più in risalto la giovanile figura. Il panneggio delle ombre profonde della veste
increspata intorno al collo e del velo che ricorda quello di Maria dell'annunciazione di Leonardo sono i mezzi
di cui l'artista si serve, affinché per contrasto il corpo nudo, liscio e perfetto del Cristo abbia maggior risalto.
Tenuto sollevato dal braccio destro della madre che gli cinge le spalle e sostenuto dalle sue gambe, la destra
è più sollevata della sinistra in quanto il piede appoggiato sul ripiano è più in alto. Gesù ha la testa rovesciata
indietro, il bacino si piega in corrispondenza dello spazio fra le gambe di Maria, il suo braccio sinistro
accompagna la postura del corpo, mentre quello destro ricade abbandonato verso terra. Michelangelo
propone di contemplare gli esseri giovani e senza imperfezioni nei quali si riflette o si possa riflettere la
bellezza di Dio. La giovinezza della Vergine sta a indicarne la purezza confrontata con quella di Gesù diviene
per Michelangelo, conoscitore della commedia, il riflesso dell’espressione che Dante inserisce nella preghiera
che San Bernardo rivolge alla madre di Dio nel XXIII canto del Paradiso vergine madre figlia del tuo figlio umile
ed alta più che creatura termine fisso d'eterno consiglio e Giorgio Vasari inoltre potè scrivere nel gruppo
scultoreo vaticano che certo è un miracolo che un sasso da principio senza forma nessuno si sia mai ridotto a
quella perfezione che la natura a fatica suol formare nella carne. Michelangelo quindi avrebbe realizzato
un'opera che raramente la natura riesce a fare ed è un prodigio che un semplice blocco di pietra sia potuto
arrivare ad una tale perfezione. D'altra parte per l'artista il blocco di marmo informe contiene già
potenzialmente quello che poi lo scultore sarà capace di trarne. Michelangelo avrebbe espresso
poeticamente questa concezione anche in un sonetto degli inizi degli inizi degli anni 40 del 500: non ha
l'ottimo artista alcun concetto c'un marmo solo in sé non circonscriva col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all'intelletto. È per questo che egli ritiene che la scultura sia essenzialmente quella che
si fa per via di levare, cioè rompendo il masso compatto con lo scalpello battuto dal mazzuolo ed
eliminandone di volta in volta le schegge e non quella che si ottiene invece per via di porri, cioè aggiungendo
materia su materia, questo secondo modo di operare tipico della modellazione in argilla e condizione
necessaria per la scultura in bronzo che pure è un aggiungere materia, è per Michelangelo più simile alla
pittura consistente nell' aggiungere colore su un supporto che non alla scultura.

Il David. Al ritorno di Michelangelo a Firenze da Roma nel 1501, l'opera del Duomo incarica l'artista di scolpire
per la cattedrale di Santa Maria del Fiore una statua di David, mettendogli anche a disposizione un enorme
blocco di marmo che giaceva inutilizzato, ma che era stato già in parte sbozzato dallo scultore Fiorentino
Agostino di Duccio oltre 40 anni prima. L'incarico pertanto presentava un problema tecnico in più, perché
Michelangelo avrebbe dovuto lavorare iniziando con uno svantaggio, ma l'artista in definitiva ciò che ne
ricavò fu stupefacente, tanto che secondo sempre Giorgio Vasari egli operò una sorta di miracolo perché fu
come se fosse riuscito a far risuscitare uno che era già morto. Non solo l'artista letterato aretino Michelangelo
aggiunge anche che certo ti vede questa non deve curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri
tempi o negli altri da qualsivoglia artefice. Quindi il David era ritenuto superiore ogni scultura moderna e
antica e anche le polemiche sorte in occasione dell'ultimo restauro del 2004 confermano il ruolo simbolico
che questa scultura di per la cultura occidentale. Il giovane pastore, futuro Re di Israele colto nel momento
che precede l'azione, la sua fronte è leggermente aggrottata in un atteggiamento che indica lo stesso tempo
concentrazione e valutazione delle proprie forze rispetto a quelle dell'avversario, i suoi muscoli sono in
tensione, le mani nervose e scattanti con le vene in superficie pronte a far roteare la fionda per dar luogo
all'azione, il rapporto chiastico delle membra è di evidente derivazione classica, mentre la superficie della
scultura è perfettamente levigata. Per le qualità morali che questo nudo virile incarnava e rappresentando
pienamente quei principi di libertà e di dipendenza che i fiorentini stessi vedevano nelle proprie istituzioni
repubblicane (ricordiamo che avevano sostituite quelle della Repubblica Cupa Mesta tormentata e profetica
di Fra Girolamo Savonarola), fu deciso che la statua fosse collocata non più in Duomo, ma dinanzi al Palazzo
Vecchio, sede del potere cittadino, divenendone il simbolo, ciò anche in quanto la piccola Firenze sapeva
tener testa alle grandi potenze nazionali di allora, allo stesso modo di come David armato della sola fionda
era riuscito ad aver ragione del gigante Golia.

È bene ricordare, per quanto riguarda l'architettura, che tra il primo e il secondo affresco della Cappella
Sistina, cioè tra il 1519 e 1534, Michelangelo progettò e in parte realizzò la Sagrestia Nuova della Basilica di
San Lorenzo a Firenze, destinata ad accogliere le tombe dei Medici e inoltre progettò e realizzò anche la
biblioteca Laurenziana sorta di fianco alla Basilica con lo scopo di conservarne i libri, infatti, cacciati nel 1494,
già nel 1512 i Medici avevano ricostituito la loro signoria su Firenze, potere che avrebbero mantenuto fino al
1527. In quell'anno per l'ultima volta la città riuscì a dotarsi di un sistema di governo repubblicano in cui lo
stesso Michelangelo ebbe parte attiva, la Repubblica comunque finì miseramente nel 1530, quando l'alleanza
fra Papa Clemente VII, l'ex Cardinale Giulio De Medici, e l'imperatore Carlo V riportò nella città i Medici e
dette luogo alla fondazione del Ducato di Firenze.

Sagrestia Nuova. È possibile fare un confronto con la pianta della Sagrestia Vecchia di San Lorenzo Di Filippo
Brunelleschi. La Sagrestia Nuova cosiddetta per distinguerla da quella edificata da Filippo Brunelleschi circa
un secolo prima, ha come la vecchia una pianta composta da due quadrati adiacenti, di cui uno maggiore e
l'altro decisamente più piccolo. Ambedue gli spazi sono coperti da cupole emisferiche su pennacchi, la più
grande sormontata da una lanterna prende come esempio il Pantheon, presentando l'intradosso scavato da
5 anelli concentrici di lacunari. L'estradosso invece è rivestito di squame di terracotta contro le quali spicca il
bianco della lanterna a sua volta sovrastata da un poliedro dorato che sostiene la croce. Dotata di ampie per
quanto possibile superfici vetrate essa è circondata da colonnine composite trabeate, sormontate da volute
concluse da una superficie conica dal profilo concavo e rigonfi alla base come se non di dura pietra fosse la
sua sostanza, ma di materia morbida e plasmabile quasi liquida. Se i materiali impiegati da Michelangelo sono
quelli della tradizione fiorentina quattrocentesca, il bianco dell'intonaco per le pareti e il grigio della pietra
serena per le membrature architettoniche, l'uso che ne viene fatto non coincide più con la sobrietà
brunelleschiana. La continuità verticale dell'intelaiatura di lesene, trabeazione e archi lapidei infatti viene
interrotta dal fregio del primo ordine che per essere semplicemente intonacato e continuo lungo le quattro
pareti della Scarsella sembra dividere in due lo spazio, tanto che quello superiore a partire dalla cornice pare
quasi fluttuare nell'aria non avendo appoggi visibili. Confrontando l’opera brunelleschiana con quella di
Michelangelo, le proporzioni della Sacrestia Vecchia vengono alterate a favore di un maggiore slancio verso
l'alto con l'introduzione di un attico fra l'ordine inferiore e le grandi lunette sottostanti della Cupola. Tale
spinta verticale è sottolineata dalla rastrematura verso l'alto dei finestroni entro le lunette, geniale intuizione
architettonica della quale poi Michelangelo fece qui uso nella Sagrestia Nuova. Per la prima volta nei sepolcri
previsti nella Sagrestia Nuova solo due vennero effettivamente realizzati dopo l'ultimazione del contenitore
strutturale nel 1524: quelli di Lorenzo Duca d'Urbino e di Giuliano Duca di Nemours, rispettivamente nipote
e fratello di Papa Leone X. Per esse Michelangelo sceglie il marmo bianco e volutamente le stringe in uno
spazio poco ampio e non profondo, dove appaiono quasi compresse e come premute da rivestimento murale
in pietra serena che si interpone tra esse e le paraste che le affiancano. Tale rivestimento non caratterizzato
come membratura assume pertanto la funzione di superficie neutra, una sorta di passaggio. Contro
l'organismo architettonico di pilastrini, cornice, decorazione a festoni si stagliano i plastici sarcofagi dai
coperchi ellittici sui quali giacciono le allegorie del giorno e della notte (tomba di Giuliano), dell'aurora e del
crepuscolo (tomba di Lorenzo). All'interno delle nicchie al centro della composizione architettonica sono
poste infine le statue idealizzate dei due Medici. Il Giorno, un nudo virile dalla corporatura possente,
importante, armonioso con molte parti lasciate allo stato di abbozzo, soprattutto la testa. Non si tratta di
abbandono o di rinuncia da parte di Michelangelo, ma dalla precisa volontà di lasciarla in tale condizione: il
cosiddetto non finito, riscontrabile anche in numerose altre opere scultoree di Michelangelo e dunque un
mezzo molto vicino al gusto moderno, di cui l'artista volontariamente si serve perché proprio dal contrasto
tra parti finite e non finite e le gradazioni di non finitezza sono diverse. Scaturiscono appunto da queste
composizioni volontarie il fascino e l'intensità espressiva delle realizzazioni leonardesche. Attorno al 1524
dovettero essere progettate con molta probabilità anche le edicole che sovrastano le porte della Sagrestia.
Esse appaiono fuori scala se commisurate al contesto perché sono più alte sia delle porte sottostanti, che
sembrano opprimere, sia delle edicole e delle tombe ducali. Segno questo che furono progettate quando
Michelangelo stava riflettendo sui problemi diversi posti alla Sagrestia Vecchia da quelli posti dalla Sagrestia
Nuova. Osservando un dettaglio della Sagrestia Nuova, sembra che Michelangelo progettando questa grande
altezza dello spazio fa sembrare l’osservatore più piccolo, limitato da quella parete della scarsella della
Sagrestia Vecchia. L'architettura domina in questo caso l’osservatore esattamente nello stesso modo dei
pesanti tabernacoli al di sotto dei quali egli accede alla Sagrestia. Rimpicciolire l'osservatore è una delle
caratteristiche dell'architettura leonardesca. Il timpano spezzato mostra come nella parte inferiore ma in
aggetto nella porzione centrale della sua centinatura, l’invaso della nicchia che penetra in profondità e che
allo stesso tempo si espande entro il timpano e verso le basi delle paraste, il blocco parallelepipedo del
basamento che invece si spinge quanto più può in fuori. Sono i motivi nuovi del panorama architettonico
introdotto da Michelangelo. Tagliare i legami con le regole vitruviane degli ordini architettonici, con le edicole
Michelangelo proclama la sua grande inventiva e al contempo la sua piena libertà compositiva del genio.

La Biblioteca Laurenziana. Progettato nel complesso della Basilica di San Lorenzo. Gli anni di progettazione
delle edicole e della Sagrestia sono gli stessi del vestibolo della Biblioteca Laurenziana, uno spazio esiguo che
tramite una scalinata immette nell'ampio salone coevo della biblioteca. La biblioteca ha pareti di scarso
spessore contraffortate esternamente per gravare poco sulle murature sottostanti. Si tratta di un vasto
volume a pianta rettangolare ritmato da paraste e finestre e avendo una copertura piana di legno, il cui
cassettonato suggerisce una continuità strutturale fra le paraste stesse e le travature orizzontali.
Michelangelo provvide anche ai disegni dei cassettoni e del pavimento, nonché la progettazione dei sedili e
dei tavoli di lettura, tenendo conto con studi specifici della corretta postura di un uomo che legge. La sala
avrebbe dovuto concludersi con un ambiente trapezoidale, mai costruito, destinato alla conservazione dei
libri rari e caratterizzato dai muri scanditi da nicchie e colonne. Anche nel vestibolo o ricetto, come già nella
Sagrestia Nuova, Michelangelo divide le pareti in due ordini sovrapposti tramite cornici orizzontali, alle
colonne binate incassate nella muratura corrispondono superiormente delle coppie di paraste, le colonne
strette fra paraste disposte ai lati delle nicchie nel senso dello spessore murario sembrano poggiare su dei
mensoloni accoppiati, la cui funzione invece è puramente decorativa, essi nel medesimo tempo suggeriscono
una maggiore altezza delle colonne stesse. Fra le coppie di colonne sono collocate delle finestre cieche dagli
stipiti rastremati verso il basso. L'effetto complessivo che ne consegue è quello di trovarsi in un cortile su cui
prospettano quattro imponenti facciate di edifici. Quasi tutto lo spazio interno però è occupato
monumentale scalinata del ricetto, del vestibolo, il cui aspetto definitivo è l'ultimo di una serie di tentativi
grafici di avvicinamento che si trova essere stretta fra pareti molto alte. Michelangelo ne dette il disegno e
ne realizzò un piccolo modello a Roma, città dove stabilmente viveva dal 1536, anno in cui aveva
definitivamente abbandonato Firenze, lasciando incompiuta la biblioteca. L'artista l'avrebbe desiderata di
legno ma il duca Cosimo I impose a Bartolomeo Ammannati, l'esecutore del progetto, l'uso della pietra
serena. È forse la scalinata fra tutti gli elementi, l'invenzione più stupefacente dell'intero complesso,
presentandosi come la massa di un fiume in piena che superata la soglia del salone della biblioteca straripa
e si allarga dando vita a tre vie: le due laterali con i gradini squadrati e senza balaustr, con l'alternanza di
gradini rettangolari e di altri ad L che avvolgono i primi, si raccordano per mezzo di due volute ellittiche a
quella centrale, dove domina invece il tema della curva, lo stesso che ricorre anche nelle vicine tombe
medicee, al pari di una colata lavica, come è stata felicemente descritta la rampa centrale, i gradini avanzano
nella porzione mediana, mentre come ritardati nel movimento dell'attrito delle sponde laterali arretrano
arricciolandosi in prossimità delle sponde stesse. Osserviamo due interessanti disegni di progetto, schizzi di
progetto di Michelangelo: il primo riguarda i profili di base degli studi per la scala del vestibolo della Biblioteca
Laurenziana, usa il maestro una pietra rossa con inchiostro bruno per definire quelli che erano secondo lui i
dettagli costruttivi di questa imponente e fascinosa scala, mentre per quanto riguarda l’altro disegno, questo
si riferisce alla stanza dei libri rari, cioè la sala della Biblioteca Laurenziana, la sala uno spazio lungo, che
avrebbe dovuto concludersi non a taglio netto a 90°, ma secondo quelle che erano le idee progettuali di
Michelangelo con un ambiente trapezoidale mai costruito. Questo spazio sarebbe poi dovuto essere
destinato alla conservazione dei libri rari e caratterizzato da muri scanditi da nicchie e colonne.

Iniziata nel 1524, Michelangelo vi lavorerà per 10 anni, al suo abbandono, mancava lo scalone realizzato
dall’Ammannati nel 1560 non in legno come avrebbe voluto Michelangelo, aprì ufficialmente nel 1571. La
biblioteca è l’ultima opera che Michelangelo realizza a Firenze per i Medici destinata a ospitare il ricco
patrimonio librario raccolto da Cosimo il Vecchio e incrementato da Lorenzo il Magnifico. L'incarico gli venne
affidato da papa Clemente VII, al secolo Giulio dei Medici, cugino di Leone X, da poco succeduto al breve
pontificato di Adriano VI. L’edificio attuale combina parti eseguite da Michelangelo stesso ad altre costruite
in seguito con una interpretazione più o meno corretta delle sue istruzioni. Composta da un’aula e da un
vestibolo chiamato ricetto per ospitare lo scalone di accesso alla sala di lettura. La biblioteca era condizionata
e doveva adattarsi alla presenza del Chiostro sottostante. L’ambiente è un esempio di manipolazione
michelangiolesca del linguaggio classico, in quanto tutti gli elementi architettonici sono usati in maniera
atipica. La sala di lettura presenta gli arredi originali, un lungo ambiente aperto, semplice e sereno,
sicuramente capace di conciliare la concentrazione e il raccoglimento. Si tratta di un vasto volume a pianta
rettangolare ritmato da paraste e finestre avente una copertura piana di legno il cui cassettonato suggerisce
una continuità strutturale tra le paraste stesse e le travature orizzontali. Michelangelo provvide anche ai
disegni dei cassettoni e del pavimento, nonché alla progettazione dei sedili e dei tavoli di lettura. La sala di
lettura è lunga 46,20 metri larga I0,50 e alta 8,40. Gli arredi e la decorazione sono originali. Due blocchi di
sedili sono separati da un passaggio centrale, la parte posteriore del poggia schiena funziona come piano di
lettura per la panca retrostante, e i libri sono incatenati sui banchi. Questi ultimi sono illuminati, da entrambi
i lati, dalle finestre relativamente frequenti poste sui lati lunghi della sala. Alle finestre sono accostate paraste
e il sistema di campate che queste formano definisce l'articolazione di soffitto e pavimento. Le paraste
reggono la cornice, che corre sulle pareti della sala senza risalti. sorreggendo le travi trasversali del pesante
soffitto ligneo. Queste paraste che articolano i muri e corrispondono alle travi sono un'eredità del
Quattrocento. Nessun interno quattrocentesco però presenta un trattamento simile delle campate murarie
fra le paraste, si tratta di una triplice successione di piani il più profondo dei quali contiene le modanature
della finestra quello intermedio la cornice cieca quadrangolare nella parte superiore e gli allungati pannelli
nei quasi trovano le finestre, e quello avanzato le paraste e il loro piedistallo continuo. Le modanature sono
di pietra serena, le superfici delle pareti di intonaco bianco. Questo movimento di avanzamento e di
arretramento impartisce al muro una profondità e un rilievo del tutto senza precedenti. La differenza
funzionale fra membrature portanti e pareti da esse contenute diventa perfettamente chiara nella
giustapposizione di forme tri e bidimensionali. Allo stesso tempo Michelangelo risolse un problema
strutturale: tenendo conto delle pareti più antiche del piano inferiore, doveva ridurre il più possibile il peso
dei muri della sala di lettura. Il volume e il peso delle campate intermedie fra le paraste fu ridotto al minimo,
grazie al sistema delle incorniciature e dei piani nell'articolazione del muro. Le paraste quindi funzionano da
proiezione della sezione a pilastro del tratto di parete fra le finestre, che regge effettivamente il soffitto e
svolge una reale funzione strutturale. Quando Michelangelo lasciò Firenze nel 1534, della sala di lettura erano
erette solo le pareti; pavimenti, panche e soffitto non furono aggiunti fino al 1550 circa. Ma i disegni erano
così precisi, che tanto la struttura quanto la decorazione della sala di lettura possono essere considerate
opera di Michelangelo. Il ricetto invece, rimase un “torso” fino al XX secolo. La parte superiore che vediamo
oggi fu portata a termine nel 1904, e solo allora furono completate le tre finestre rivolte verso il chiostro,
mentre all'interno l'articolazione, che a questo livello fino ad allora era completa solo sulla parete
meridionale, fu estesa alle altre tre. Lo scalone fu costruito nel 1559 da Ammannati, a cui Michelangelo aveva
mandato un modello di argilla nel 1558. Il ricetto e la scala: Realizzata dall’Ammannati sulla base di un
modello in argilla del 1555-1558 la scala occupa metà del pavimento del ricetto che misura 9,50 per 10,30
metri, la stanza che ospita la scala è quasi perfettamente quadrata in pianta e insolita quanto la scala stessa.
Si sviluppa su tre livelli e come nella Sagrestia nuova, le pareti si innalzano fino a sembrare inconcepibilmente
alte per il visitatore che non è in gradi di istituire una relazione razionale fra la sua altezza e quella delle pareti.
Tornando alla scala anche qui il visitatore ha l’impressione di trovarsi difronte a forze sovraumane.
L’ampiezza dei gradini cresce dall’alto verso il basso, in modo che a chi scende sembra di essere supino nella
sala, mentre chi sale ha l’impressione che i gradini inferiori scorrano verso di lui. Le forme drammaticamente
mosse, arrotondate e massicce che caratterizzano la scala, recano l’impronta dello stile tardo di
Michelangelo. La Laurenziana rappresenta una rottura rivoluzionaria con la tradizione, non solo per il
vocabolario formale se pensiamo all’organizzazione spaziale del ricetto con le colonne binate incastrate nel
muro esso appare oppressivo, scosceso e opprimente. Questo perché l’architettura intende suscitare precise
emozioni nell’osservatore. Nei suoi sonetti Michelangelo ha dato l’espressione alla visione della figura
imprigionata nel blocco, liberata dallo scultore. Idee simili trovano espressione visiva nella relazione fra
parete e colonna della biblioteca. La scala presenta la stessa forza drammatica, la scala di Bramante al
Vaticano non conduce ad altro luogo che ai suoi gradini concentrici. Nella storia dell’architettura un simile
ricorso all’emozione lo si ritrova già in Giulio Romano e in Palazzo Te a Mantova, per Michelangelo le forze al
lavoro nella pietra mettono in parabola la tragedia della vita umana, ecco dunque che la colonna elemento
classico per eccellenza, l’immagine dell’armonioso equilibrio di forze creato nell’architetto, tanto da
assumere in alcuni trattati forma antropomorfica, come l’uomo può diventare un organismo a sé
indipendente da ciò che la circonda. Le colonne del ricetto difficilmente possono essere prese come individui
indipendenti, se non altro perché sono appianate. Pur essendo libere dalla parete, danno un’impressione tale
di impalcatura verticale da poter essere paragonate a pilastri gotici. Infine grazie all’altezza e alla collocazione
rispetto al muro attingono ad una espressività drammatica del tutto non classica.

Piazza del Campidoglio a Roma Nel 1537, come primo atto ufficiale della volontà di sistemare la piazza del
Campidoglio, Papa Paolo III decise di trasferirvi il monumento equestre di Marco Aurelio dalla sua Antica
collocazione in Laterano. La traslazione viene eseguita nel 1538, il colle capitolino in quegli anni non aveva
un accesso diretto e dignitoso alla città. Su di esso che dal 1200 ospitava la sede del governo cittadino, erano
però presenti due edifici collocati lungo direttrici che formavano un angolo acuto: a Est il medievale e merlato
palazzo senatorio, costruito nel XIII secolo di sopra dell'antico tabularium, alle cui spalle si estendeva il foro
romano, a Sud il Palazzo dei Conservatori, costruito nel 1450 sotto papa Niccolò Quinto a ridosso della Rupe
tarpea. Nel 1539 Michelangelo viene incaricato di realizzare il piedistallo del monumento di Marco Aurelio e
con i suoi interventi successivi il Campidoglio si trasforma nella più spettacolare Piazza che Roma abbia mai
avuto, arricchendosi di suggestivi reperti che la legano alla gloriosa storia della città. Riassumendo: di fronte
Palazzo senatorio, a destra il palazzo conservatori, a sinistra il palazzo nuovo e al centro la statua, il
monumento equestre di Marco Aurelio. Ai due edifici esistenti, dopo la scomparsa di Michelangelo per
suggerimento di Tommaso dei Cavalieri ne fu aggiunto un terzo al Nord: il Palazzo Nuovo simmetricamente
posizionato rispetto a quello dei conservatori, ma privo di una consistente profondità, posto contro la vetta
collinare dominata dalla Chiesa di Santa Maria in Aracoeli. In tal modo si veniva a formare una piazza
trapezoidale al centro della quale era collocato il Marco Aurelio. I lavori si protrassero fino alla metà del
secolo successivo, ma il disegno, stellare intreccio entro un ovale che si irradia dal monumento equestre, fu
eseguito addirittura nel 1940 in piena epoca fascista. Tale ovale, con l'asse maggiore perpendicolare alla
facciata del palazzo senatorio, riconduce lo spazio trapezoidale indifferenziato e pluridirezionale a una
geometria centrata unidirezionale sempre più intima. La ristrutturazione dei due edifici esistenti e la
successiva costruzione ex-novo del terzo enfatizzano lo spazio della piazza che pone allo stesso tempo, come
esterno e come interno, tanto che le fabbriche sembrano pensate tutte come facciate. Dalla piazza Infine si
dipartono cinque strade: due scendono al foro, due si dirigono una all’Aracoeli e una alla Rupe tarpea, la
quinta, una cordonata, unisce la piazza con la città verso la quale sono pure rivolti i gruppi scultori dell'età
Imperiale che sormontano una balaustrata che limita il trapezio a Ovest. Michelangelo nella piazza del
Campidoglio interviene in particolar modo nel palazzo senatorio, cioè quello posto proprio di fronte a partire
dal 1546, progettando una scala a due rampe contrapposte il cui arrivo coincide con il primo piano. Solo nel
1702, la parte inferiore dell'edificio viene rivestita in bugnato di stucco, mentre conclusa la scala nel 1549
Michelangelo non si occupa più dell'edificio il cui completamento fu affidato ad altri. Tuttavia la realizzazione
in facciata delle paraste di ordine gigante rinvia a quelle del palazzo dei conservatori, cioè il palazzo posto a
destra della piazza, rendendo i due edifici congruenti pur nella loro diversa altezza. Infatti nel palazzo dei
conservatori, progettato da Michelangelo partire dal 1562 e condotto fino all'anno della sua morte avvenuta
nel 1564, viene anteposto un avancorpo porticato di sette campate con un simile ordine gigante di paraste
corinzie addossate a robustissimi pilastri. A tale schema Michelangelo ne aggiunge un altro costituito da un
ordine minore di colonne ioniche, disposte a coppia in ciascuna campata. Su di esse grava una trabeazione
che sostiene la porzione di muro di competenza alleggerita dalle finestre. Altre colonne ioniche inalveolate,
perché incluse nella muratura che Michelangelo fece realizzare in aderenza a quella di facciata del vecchio
edificio, sostengono delle travi trasversali. Un unico lacunare in getto di calcestruzzo e ornato con motivi a
stucco funge da copertura per ogni singola campata del portico. In tal modo l'architettura del palazzo
staticamente si comporta come una moderna struttura con ossatura di pilastri e travi. Se i capitelli corinzi
delle paraste sono realizzate secondo la tradizione dell'ordine architettonico, altro mostrano i capitelli ionici,
da capitelli bifacciali infatti essi si trasformano in capitelli a quattro facce curvilinee, sormontati da abachi
mistilinei, mantenendo però la doppia distinzione di volute e di balaustra con balteo. Una balaustra ornata
di statue infine corona i tre edifici unendoli ancor più e procurando loro leggerezza.

La Basilica di San Pietro. Scomparso Bramante, fu Raffaello a succedergli in qualità di architetto della Basilica
di San Pietro. Dopo di lui altri si avvicendarono alla direzione della costruzione ognuno apportando varianti
al progetto. Il primo gennaio 1547 infine Paolo III affida l'incarico a Michelangelo, questi ridimensiona
l'intervento abbatte le aggiunte di Antonio da Sangallo il Giovane, dal quale dopo la morte nel 1546
Michelangelo aveva ereditato il cantiere di Palazzo Farnese e aveva peraltro realizzato un enorme modello
ligneo della Basilica, custodito a Città del Vaticano nella fabbrica di San Pietro, elimina dal progetto i
deambulatori, previsti appunto da Antonio da Sangallo e compatta le strutture proponendo una pianta
centrale limpida nella concezione e dall'interno luminoso, in essa infatti trovano spazio solo i quattro
pilastroni già costruiti da Bramante. Fu così che Michelangelo potè scrivere, riferendosi a Bramante egli pose
la prima Pietra di San Pietro non piena di confusione ma chiara e schietta e luminosa ed isolata attorno in
modo che non nuoceva cosa nessuno del palazzo e fu tenuta cosa bella come ancora è manifesto in modo che
chiunque si è discostato da detto ordine di Bramante come ha fatto il San Gallo si è discostato dalla verità.
Michelangelo inoltre interviene nella zona absidale con una struttura muraria che si avvale dell'uso delle
paraste di ordine gigante alle quali sovrappone un'altra, tale organizzazione delle superfici esterne ha la sua
logica prosecuzione nell'alto tamburo anulare e nei costoloni della cupola. Alla morte dell'artista si è raggiunti
con la costruzione proprio all'imposta della cupola a pianta circolare. Michelangelo progettò e probabilmente
fu modificato questo suo intervento durante la realizzazione, in ogni modo essa rispecchia nelle sue linee
essenziali il disegno e la mano michelangiolesca. Il tamburo del 1594 è ritmato da colonne binate
contrariamente a quanto aveva proposto nel disegno del modello ligneo Antonio da Sangallo il Giovane e
propone terminazione di potenti contrafforti che irrigidiscono la struttura e che affiancano immense
finestrone alternativamente timpanate e centinate. Costruita in soli 22 mesi, meno di 2 anni, da luglio del
1588 al maggio del 1590 da Giacomo della Porta, affiancato da Domenico Fontana, così i due costruirono la
cupola, come già quella Fiorentina nella cattedrale di Santa Maria del Fiore, doppia, cioè ha una doppia
calotta interna che si conclude con una lanterna costruita tra 1590 e 1593, dove si ripete il motivo delle
colonne binate del tamburo. La grande differenza temporale tra la costruzione della Cupola Vaticana, in meno
di 2 anni, e quelli Santa Maria del Fiore, in 16 anni, infine è dovuta alla diversa concezione statica di
riferimento: mentre infatti a Firenze la cupola veniva edificata letto di posa sul letto di posa e perciò tutta
contemporaneamente e ogni parte partecipa alla resistenza della struttura, la cupola di San Pietro si basa
sulle costole portanti.

Andrea Palladio. Andrea Di Pietro della Gondola nacque a Padova nel 1508, lavorò inizialmente a Vicenza
come manovale e solo dopo aver conosciuto il letterato Gian Giorgio Trissino potè avere un’educazione
umanistica. Andrea Palladio nel 1541 svolse proprio in compagnia del Trissino il suo primo viaggio a Roma cui
altri ne seguirono anche negli anni successivi, nel 1545, 1546, 1547, 1549 e nel 1554. Il colto amico nel
frattempo, come era abitudine nei circoli letterari, gli aveva dato il soprannome classicheggiante di Palladio,
con cui fu poi universalmente noto. A Roma Andrea ebbe modo di vedere le architetture di Bramante,
Raffaello e anche quella recentissima di Michelangelo. Nella città eterna e nei suoi immediati dintorni inoltre
studiò i suoi monumenti classici rilevando e disegnando le piante e i prospetti e sezioni soprattutto in
proiezione ortogonale, la tecnica rappresentativa già nota dagli architetti gotici, ma che si era affermata in
modo definitivo soprattutto con Raffaello e la sua scuola. Tali disegni costituiscono inoltre il nucleo più
cospicuo del suo trattato “i Quattro libri dell’architettura”, pubblicato a Venezia nel 1570. La sua amicizia con
il patriarca Daniele Barbaro (1514-1570) fu l’occasione, perché Palladio si occupasse in modo approfondito
dei trattati di Vitruvio, in quanto aiutò l’alto ecclesiastico nell’interpretazione di alcuni passi e nella
realizzazione di alcuni disegni che pubblicò per la traduzione italiana nel 1556 e in latina del 1567, proprio
con due esemplari dei 10 libri dell'architettura, in bella vista Daniele Barbaro si fece ritrarre da Paolo
Veronese. Palladio svolge la propria attività soprattutto a Vicenza, ma a partire dal 1561 portò contributi
notevoli anche al rinnovamento urbano di Venezia, città nella quale inoltre si trasferì nel 1570, quando
assunse la prestigiosa carica di architetto ufficiale della Serenissima, morì nel 1580, forse il 19 agosto in un
luogo imprecisato, verosimilmente fuori Vicenza, città dove venne sepolto il 25 dello stesso mese.

I quattro libri dell'architettura. Una delle più importanti creazioni del Palladio perché importante per la
comprensione lo stesso autorevole architetto, nel quale espone le formule per gli ordini e le misure delle
stanze, per la progettazione delle scale e per i disegni dei dettagli. Se il Serlio aveva inserito alcuni progetti
bramanteschi nel suo trattato, quali il tempietto di San Pietro in Montorio, il Belvedere Vaticano, la cupola di
San Pietro, equiparandoli alle architetture classiche e decretando così il definitivo raggiungimento della
qualità architettonica antica da parte degli artefici moderni, Andrea Palladio che pubblica a Venezia nel 1570
I Quattro libri va anche oltre. Agli esempi di architetture bramantesche, ormai da tempo considerate dei veri
e propri classici, l'architetto veneto aggiunge un vasto repertorio di propri progetti (soprattutto nel secondo
libro). Il trattato di Andrea Palladio, del resto, si occupa anche di geometria, di ordini architettonici, di
materiali da costruzione, di edifici privati (palazzi e ville), di strade, di ponti, di piazze e di antichità romane.
Nel trattato, fra i capitoli più interessanti, vi sono quelli dedicati ai ponti. Tra questi quello indicato da Palladio
come un ponte di pietra di mia invenzione, ricorda il progetto, non realizzato, per il veneziano Ponte di Rialto.
Si tratta di un ponte a tre arcate, con sei file di botteghe prospicienti su tre strade, un'ampia loggia al centro
che ripropone il fronte di un tempio classico, e due atri alle estremità a mo' di propilei preceduti da ampie
gradinate. Un'ambientazione possibile di questo progetto palladiano, in una Venezia di invenzione, è offerta
da una tela di Antonio Canaletto (1697-1768) ora nelle collezioni reali inglesi di Windsor Con il passare degli
anni e fino all'Ottocento, il trattato di Palladio suscitò grande interesse oltre che in Italia anche all'estero, e
specialmente in Inghilterra, Francia, America settentrionale e in Europa dell'Est. Fra le traduzioni inglesi la
più conosciuta è certamente quella del 1742, con note del grande architetto Inigo jones (Londra, 1573-1652),
colui che per primo e più convintamente introdusse in Inghilterra motivi dell'architettura palladiana. Nel
Settecento l'Inghilterra fu pure la patria del cosiddetto palladianésimo, cioè di un movimento architettonico
che si ispirava a Palladio. Per i suoi connotati classicheggianti e severi, lo stile palladiano fu anche il più seguito
dagli aristocratici sostenitori della dinastia degli Hannover protestanti, mentre i sostenitori degli Stuart
cattolici continuavano a preferire lo stile barocco nel quale identificavano la Chiesa Cattolica Romana. Concisi
già nel linguaggio ed efficaci nel comunicare informazioni complesse, coordinando testi e tavole I Quattro
libri rappresentano la più preziosa pubblicazione illustrata di architettura che mai si è avuta fino a quel
momento, quindi non fu solamente l'architettura Palladiana con la sua base razionale sulla grammatica
chiara, la sua inclinazione domestica ma fu anche la capacità comunicativa del suo libro che portò all'immensa
influenza del Palladio sullo sviluppo dell'architettura del Nord Europa e più tardi Nord America.

Le tipologie delle Ville palladiane. Fra le più note realizzazioni di Palladio sono da annoverare, anche per il
loro forte rapporto con il territorio circostante, le numerose ville che egli costruisce nella dolce campagna
veneta. L'abitare in villa del resto era un modo di vivere tipico dei ceti patrizi e borghesi della Repubblica di
Venezia, i quali non consideravano la residenza di campagna come un esclusivo luogo di svago e delizie, come
invece avveniva in Toscana, ma anche e forse soprattutto come un'unità produttiva, è per questo motivo che
in Veneto accanto alla struttura abitativa è proprio della villa villa dominicale o in un eventuale ala di essa -
barchessa -, quando non addirittura al suo stesso interno si trovano anche fabbricati a uso agricolo, quali
stalle, scuderie, magazzini per le provviste e depositi per gli attrezzi. Dopo varie sperimentazioni la villa
palladiana si stabilizzò in una forma che divenne poi tipica e che ebbe immediato successo, non solo in Italia,
ma anche e particolarmente all’estero, soprattutto in area anglosassone, dove la sua fortuna si protrasse
addirittura fino al XIX secolo. La pianta è solitamente di forma quadrata o rettangolare con la presenza di uno
o più loggiati: il salone centrale (a sua volta rettangolare, quadrato o cruciforme) si configura come l’ambiente
principale dell’edificio attorno al quale si dispongono simmetricamente le scale e tutti gli altri ambienti
abitativi e di servizio.

Villa Capra <<la Rotonda>> a Vicenza. Un caso a parte tra le architetture palladiane è costituito dalla Villa
Almerico Capra, meglio conosciuta come la Rotonda. Commissionata dal Canonico Paolo Almerico e costruita
tra il 1566-1567 sulla sommità di una collina fuori Vicenza, è una villa padronale pensata non solo come
abitazione, ma anche come luogo di piacere e colto intrattenimento, dal momento che vi si svolgevano
concerti e gare poetiche, nell’uso ricorda proprio le antiche ville romane. Si tratta di un edificio a pianta
quadrata con una ripartizione simmetrica degli ambienti interni-dedicati ai piaceri della campagna e al riposo-
raggruppati attorno a un salone circolare coperto da una cupola prevista emisferica, ma poi modificata nel
corso della costruzione. In ognuna delle quattro facciate del compatto blocco cubico si apre un accesso
preceduto da un classico pronao esastilo (con colonne ioniche, intercolunnio centrale più ampio degli altri-
come prescriveva Vitruvio-architrave a tre fasce, fregio pulvinato, cornice e timpano dentellato) al quale si
perviene tramite una scalinata. La villa perciò al pari di un tempio romano, è come sollevata su un podio.
Questa caratteristica, peraltro, ricorre spesso nelle ville palladiane, dove i volumi corrispondenti al podio
sono ambienti di servizio. Andrea, che inserisce nel suo trattato la pianta e un prospetto-sezione della villa,
giustifica la presenza dei loggiati con la motivazione di dar così la possibilità di godere sempre la natura
circostante, ovunque si volga lo sguardo.

La Villa Cornaro, Piombino Dese. La residenza dei Cornaro, nobile e affermata famiglia veneziana è una delle
poche ville in cui Palladio non abbia previsto i fabbricati laterali ad uso agricolo (in dialetto veneziano le
barchesse), a causa dell’esiguità dello spazio a disposizione. Il progetto stilato nell’inverno 1551-52, si basa
su una pianta quadrata con due facciate: entrambe le facciate presentano un pronao a duplice ordine di
colonne e tutte le pareti esterne sono rigate dalla fitta trama del bugnato gentile. In realtà a questa data
risulta infatti realizzato solamente il blocco centrale, ma non le ali né il secondo ordine delle logge. A ciò si
provvede in due campagne successive, nel 1569 e nel 1588, la seconda condotta da Vincenzo Scamozzi. Sorta
come residenza suburbana, Villa Cornaro è caratterizzata dalla presenza delle due logge sovrapposte: la
soluzione, generalmente adottata per i palazzi di città, è inconsueta per una dimora rurale, isolata rispetto
alla tenuta agricola e alle dipendenze, la sua posizione preminente sulla strada pubblica ne rimarca il
carattere ambivalente di villa di campagna e dimora nobiliare. Del resto i camini presenti in tutte le stanze
ne provano un uso non solo estivo. I due livelli della villa sono connessi da due eleganti scale gemelle che
separano nettamente un piano terra, per l’accoglienza di ospiti e cliente, dai due appartamenti superiori
riservati ai coniugi Cornaro. Lo straordinario pronao aggettante a doppio ordine riflette la soluzione
palladiana della loggia di palazzo Chiericati a Vicenza, ultimata negli stessi anni, con il tamponamento laterale
a dare rigidezza alla struttura, come nel Portico di Ottavia a Roma. Va considerato del resto che il tema della
doppia loggia in facciata è frequente anche nell’edilizia gotica lagunare, così come colonne libere sostengono
i pavimenti dei saloni delle grandi Scuole di Venezia: si tratterebbe quindi di una sorta di “traduzione in latino”
di temi tradizionali veneziani. La soluzione palladiana per la villa con la facciata a doppia loggia ebbe grande
fortuna e un impatto straordinario sull’architettura successiva: in quanto struttura flessibile e suscettibile di
infinite variazioni, fu l’elemento costitutivo del Palladio maggiormente ripreso e imitato nell’architettura
neoclassica inglese e americana. Esternamente troviamo giardini “all’italiana”. Il parco sul retro, invece,
gravita attorno alla fontana circolare, in passato usata come pescheria e due file di cipressi accompagnano
prospetticamente lo sguardo dalla villa alla campagna.

L’urbanistica rinascimentale: le città ideale

Quello della Città Ideale è un tema che percorre il Rinascimento nell'intero arco del suo sviluppo, una cultura
che come quella rinascimentale pone al centro dei suoi interessi l'uomo e il suo agire razionale, del resto non
poteva tralasciare di confrontarsi anche con il concetto di città. Questa che nel corso del Medioevo si è andata
progressivamente configurando come luogo della vita e delle attività umane, assume ora un valore culturale
più ampio e più complesso diventando anche un importante momento di sperimentazione progettuale come
nel caso dei grandi interventi urbanistici di Pienza, Urbino e Ferrara. La Città Ideale quattrocentesca Infatti
deve rispecchiare nella sua perfezione terrena, cioè conseguita attraverso le regole razionali della prospettiva
e della geometria, la perfezione soprannaturale quindi diretta ispirazione divina della biblica Gerusalemme
Celeste. Quest'ultima secondo quanto scrive Giovanni nel libro dell'apocalisse è di oro puro e le sue mura di
durissimo diaspro poggiano su dodici basamenti sui quali sono i dodici nomi dei dodici Apostoli dell'Agnello.
La stessa splendente sacralità delle scritture apocalittiche deve dunque potessi riscontrare nel concetto di
Città ideale del Rinascimento, vero e proprio inno all'uomo e alla centralità creativa del suo intelletto, così
come la Gerusalemme Celeste lo era rispetto a Dio e la sua gloria che anzi la illumina senza bisogno della luce
del sole, né della luce della luna.

Sforzinda. L’architetto fiorentino Antonio Averulino, detto il Filarete, chiamò Sforzinda la propria città,
modello utopica di città ideale, dedicandola a Francesco Sforza, signore di Milano. Sforzinda è descritta nel
celebre trattato Di Architettura scritto tra il 1460 e il 1464 in forma di romanzo dialogato tra il Signore e
l'architetto. Accurati disegni con piante e alzati ne presentano gli edifici principali. È una città simbolica
governata nella forma a stella da ricordi astrologici e mitici. Guardando oltre l’astratta formulazione di forme
e di tipi edilizi, tuttavia le fantastiche invenzioni di parti urbane possono per addizioni autonome successive
costruire una città, in questo senso può essere inteso il magniloquente Ospedale Maggiore di Milano,
realizzato sempre dallo stesso Filarete a partire dal 1456. Se il Trattato è stato giustamente definito da
Manfredo Tafuri come una polemica dichiarazione di principio, esso tende comunque a dimostrare che si può
intervenire per parti al fine di dare una forma unitaria all'impianto di una città. La concretezza insita in tale
proposta va colta ad esempio nell'aperto riferimento a Milano, un fiume immaginario Lindo si dispiega in un
canale circolare, funzionale ai commerci, mentre nel centro cittadino sorgono la chiesa principale, il tempio
di Dio, e il palazzo del Principe. Il disegno della Milano ideale non si discosta poi molto dall'immaginario
tardomedievale espresso nelle laudes civitati elogi della città lombarda. Partendo dalla forma reale delle sue
mura, il manoscritto di Galvano Fiamma della seconda metà del Trecento ci presenta ad esempio la città in
tutto il suo rigore concentrico. In fondo la visione filaretiana si esprime all'interno del principio di
rifeudalizzazione del territorio caldeggiato dagli Sforza. Sforzinda è posta al centro di un feudo il cui controllo
è garantito anche nella gestione del territorio agricolo dal principe. Filarete accetta che la città sia sottoposta
ad un controllo ideologico ma non coglie il pragmatismo delle iniziative del principe, certamente poco
disponibile a rimettere in gioco la città. In questo senso la sua proposta è utopistica e per questa via si può
ritenere aperta la crisi del realismo umanistico.

Altri esempi tipici dei modelli di città utopiche e anche con particolari definizione di tipologie edilizie sono
proposte dal senese Francesco di Giorgio Martini che lavora a partire dal 1477 al palazzo dei Montefeltro a
Urbino, ma è soprattutto impegnato a erigere le fortificazioni che in gran numero segnano ancora oggi il
panorama marchigiano e non solo. Egli sperimenta nuove tipologie e tecniche di costruzione militari definite
nel suo Trattato di Architettura, Ingegneria e Arte militare, scritto tra il 1470 e il 1480, e progetta singolari
fortezze dallo schema antropomorfo carico di significati simbolici. Le rocche di Sassocorvaro, di San Leo, di
Mondavio sono caratterizzate dalla forma compatta sia pure articolata da studiati dettagli architettonici, da
uno stretto rapporto con la natura circostante e pure i suoi impianti nel loro rigore geometrico appaiono
astratti e fuori tempo. Egli documenta i propri studi con numerosi disegni rispondendo così all’esigenza
sentita alla fine del Quattrocento in tutti gli ambiti disciplinari di descrivere con illustrazioni le teorie proposte
e i risultati delle ricerche svolte. Significativamente Leonardo da Vinci troverà nel suo trattato ampi
suggerimenti. Nel libro III del trattato Francesco Di Giorgio affronta il tema della forma delle città, elaborando
un ampio repertorio di schemi urbani, le sue città hanno tutte impianto radiale a cui egli attribuisce un valore
simbolico in chiave cosmologica. Tale disegno è contaminato però da tracciati a scacchiera che risentono
molto della suggestione di quelle che potevano essere le città antiche greche soprattutto col tessuto
ippodameo che inquadrava queste città in una maglia modulare ben definita. È del 1416, d'altra parte il
ritrovamento del trattato di Vitruvio, mentre agli anni 80 risale la ricostruzione della romana Cortemaggiore,
antico castrum, posto lungo la via Emilia. Alla fortificazione delle città Francesco Di Giorgio dedica il libro V,
qui sono proprio le mura poligonali con baluardi agli spigoli a suggerire lo schema radiale, l'idea progettuale
si concentra verso gli aspetti funzionali e si misura con il sito per rendere il progetto realizzabile. Nei suoi
scritti Francesco Di Giorgio definisce le tipologie edilizie sia religiose, sia civili, quali chiese, fondaci, palazzi
privati, ma così facendo egli contribuisce a mettere in crisi il modello ideale classico: nel momento in cui
vuole realizzare con costruzioni specifiche e parziali il modello vitruviano, tradisce il valore di visione mitica,
totale e unitaria che la cultura umanistica quattrocentesca aveva elaborato dallo stesso modello. L'umanista
architetto ingegnere tuttavia non può recidere i ponti con il passato e dimenticare la sua formazione
classicista, ecco dunque il disegno della Città Ideale basato sulle proporzioni della figura umana e con
semplice trasposizione egli afferma che la piazza deve essere posta nel mezzo e nel centro della città siccome
umbelico dell'uomo.

La città ideale di Urbino. Una delle immagini che più compiutamente di ogni altra rappresenta questa forte
idealità simbolica è senza dubbio la veduta di Città ideale di Urbino, così detta in quanto lì conservata. Una
tempera su tavola attribuita a un anonimo artista dell'Italia centrale databile alla fine del XV secolo. La tavola
forse una spalliera per un letto o un cassettone o più semplicemente un pannello decorativo rappresenta
l'ampia piazza di una città di pura fantasia, la veduta fortemente sviluppata in larghezza è caratterizzata
dall'incombente presenza a centro di una chiesa in forma di grande tempio a pianta circolare, circondato al
registro inferiore da un perimetro di colonne corinzie con colonne con fusto liscio. Il tempio perfettamente
baricentrico rispetto alla tavola riprende molti aspetti formali e cromatici del battistero di Firenze e viene
inserito, quasi fosse una perla tra le valve di una conchiglia, fra due quinte di palazzi rinascimentali, le cui
facciate sono in prevalenza organizzate secondo il sistema della sovrapposizione degli ordini. Alla perfetta
prospettiva geometrica dell'insieme con linee di costruzione meticolosamente incise con una punta metallica
sul supporto ligneo, si aggiunge anche un’attenta scelta dei colori con edifici in grigio azzurrino che ne
fronteggiano specularmente altri di tinta aranciata. In un'armonia serena di volumi il tenue azzurro del cielo
che scolora l'orizzonte e l'assenza assoluta di qualsiasi figura umana accrescono ulteriormente la nitidezza
cristallina della scena, governata soltanto dalle leggi della geometria e della proporzione.

Tavola di Baltimora. Una seconda veduta simile per dimensione e datazione, anch'essa di autore anonimo è
quella conservata a Baltimora negli Stati Uniti. La tavola pur conservando la stessa impostazione prospettica
centrale perfettamente simmetrica e quasi speculare presenta sullo sfondo su un rialzamento gradonato
della piazza tre grandi edifici, che, pur essendo di fattura arbitraria, alludono comunque con ogni evidenza al
Colosseo a sinistra, all'arco di Costantino al centro e al battistero di Firenze a destra, all'epoca creduta ancora
d'impianto romano, in una efficace sintesi simbolica dell'architettura rinascimentale che proprio dall'antico
trae ispirazione e vigore. La presenza di varie figurette anche se verosimilmente aggiunte a posteriori
rendono l’insieme più animato ma al contempo quasi surreale in quanto le proporzioni sono tali da ipotizzare
dimensioni colossali dunque più simili a delle scenografie teatrali che ad una città realmente vivibile e
percorribile.

Tavola di Berlino. La terza veduta dell'ideale trittico ancora inserita nella spalliera lignea originale, pur
essendo sostanzialmente omogenea alle due precedenti quanto a dimensione e databilità e ad anonimato
dell'autore, introduce una visione della piazza attraverso un porticato a tre fornici e due arconi laterali
cassettonato con bugna a punta di diamante e pavimentato con riquadri geometrici in marmo bianco, rosso
e verde. A differenza delle vedute di Urbino e Baltimora, la piazza non è chiusa da alcuna architettura per cui
la prospettiva fugge rapida attraverso le due ali di edifici rinascimentali con un forte richiamo all’albertiano
Palazzo Rucellai nel primo a sinistra, così lo sguardo corre verso la banchina di un porto dove si possono
vedere due velieri alla fonda. I colori più terreni e squillanti che nei due casi precedenti, in parte derivanti da
una minor perizia dell'ignoto artefice, riportano comunque la strana geometricità della visione a una
dimensione più terrena e quasi domestica nel difficile tentativo di calare l'ideale nel reale. Quest'ultima
veduta di città ideale risale alla fine del XV secolo ed è conservata a Berlino nel museo statale di Berlino.

Il Rinascimento è l’età in cui la cultura filosofica dell'epoca vede la città come un'istituzione ordinata, vengono
infatti espressi le esigenze di coordinare la città su dei principi che rispecchiano un perfetto ordine sociale,
teoricamente parlando troviamo Brunelleschi e Alberti, quali affermano che nuove e vecchie architetture
devono essere coordinate attraverso la veduta prospettica, dove il primo è padre di molteplici dipinti
rinascimentali, come è noto, che rimandano all'arte classica, mentre l'altro, o meglio nella Firenze di
Brunelleschi, c’è il tentativo di riequilibrare il nucleo medievale sotto un aspetto nettamente estetico. In
questo periodo non si svilupperanno delle vere e proprie tipologie urbane, nemmeno tutti gli schemi di città
proposti dallo stesso Francesco di Giorgio Martini verranno a far parte dei vari progetti confrontabili. Per
distinguere meglio il nuovo ordine troviamo le varie espressioni: prospettive rettilinee, regolarità delle piazze,
allineamento dei palazzi, ripetizioni in ogni facciata di elementi identici. Corre l'anno 1498 e a Firenze è in
atto la Repubblica di Savonarola, il quale avendo condannato la signoria renderà Firenze l'erede di
Gerusalemme e per questo le città ideali rinascimentali sottolineano l'importanza che ha la signoria in questo
tempo, perché la signoria o meglio i signori saranno i primi committenti dei progetti delle città ideali,
ricordiamo Sforzinda, dedicato a forza di Filarete, giunge anche il Cinquecento e quindi il realismo
quattrocentesco si divide in due rami, ovvero l’elaborazione sistematica di impianti fortificati con di Giorgio
Martini e un approccio al disegno della città di tipo utopistico con Leon Battista Alberti. Varie teorie, come
quelle di Leon Battista Alberti, che vengono costruite, realizzate e applicate nel corso degli anni con regole
nella progettazione che segue una metodologia con una definizione della moderna tipologia architettonica:
utilitas, cioè ogni edificio deve funzionare per ciò che è stato costruito; firmitas, far sembrare un monumento
come fosse un monumento che si riferisce all’Antichità; venustas, cioè l'unione che concorda, amalgama le
parti. Ricordiamo inoltre Giorgio Martini dove la sua attenzione maggiore rivolta agli edifici e alle opere
difensive, di fortificazione, di impianti di difesa delle città, protagonista Urbino per l'unificazione della Rocca
trecentesca con un edificio posteriore che dà la possibilità all'artista di realizzare un nuovo Palazzo verso la
fine del Quattrocento. Nel raccordare i due edifici verrà inoltre messa in risalto la nuova piazza che grazie
soprattutto anche alla presenza del Duomo diventerà il nuovo centro urbano. Così dunque si chiude Il XV
secolo in Italia con il primo vero intervento urbanistico che inaugura i cantieri per l'ampliamento della città
di Ferrara. In definitiva la città come spazio è lo spazio a sua volta come misura rispetto all'uomo. Nella tavola
di Berlino è possibile osservare questa spazialità dell'architettura della città, dove si governa saggiamente
perché lo spazio è organizzato secondo principi della geometria, di equilibrio delle forme, della saggezza del
buon governo che vanno tutti insieme di pari passo, è la Città ideale. La Città Ideale uno dei temi che hanno
percorso la storia dell'uomo e che qui in Europa ha avuto una lunga vita e periodo anche di grande splendore.
Nel Rinascimento la riscoperta degli studi di testi classici, sia greci che latini della filosofia politica, del grande
Aristotele o Platone, apre un vivacissimo fermento intellettuale e progettuale che porterà al rifacimento alla
vera e propria costruzione di nuove città su impostazioni, su canoni ideali in alcune parti d'Italia.

Pietro Cattaneo è uno dei primi che scrive due importanti opere I quattro primi libri di architettura nel 1554
e l'architettura tra il 1554-56, dove propone numerosi schemi di città fortificate. Numerosi sono gli esempi
di queste città che Cattaneo propone accanto ad un'ampia casistica di tipologie di edifici pubblici. Le città
sono organizzate secondo un reticolo viario ortogonale dominato dal vuoto di una piazza centrale e facendo
questo egli dimostra di operare nel solco dell'idea quattrocentesca della città radiale, ma ha il pregio di
indicare nella definizione dei criteri distributivi e funzionali, quali siano le possibilità di adattamento degli
schemi alle varie caratteristiche dei luoghi.

Un altro studioso ingegnere militare, teorico di quella che è il filone nello studio della città in epoca
rinascimentale è Francesco De Marchi, che opera in Italia e nei Paesi Bassi, autore del trattato De architettura
militare nel 1599, un lavoro in tre libri. Rivolge un'inedita attenzione alle esigenze della città con le sue
relazioni sociali ed economiche, il De Marchi è cosciente ad esempio che le mura aprivano la città di un
rapporto diretto e costante con il suo territorio, De Marchi propone un'interessante lettura prospettica della
città minuziosamente definita, elaborata in ogni sua parte soprattutto per quanto riguarda i monumenti. Ciò
non toglie leggibilità alle fortificazioni che disegnate in planimetria si mostrano in piena definizione metrica
e tecnica.

Osserviamo una celebrazione della città ideale, una xilografia di grandi dimensioni realizzata da Jacopo de
Barbari che inaugura nell'anno 1500 un nuovo modo di rappresentare la città di Venezia, città lagunare che
vive il suo momento più felice politicamente e economicamente nello scacchiere europeo, viene
rappresentata dal de Barbari a volo d'uccello, ovvero secondo una prospettiva dall'alto. L'opera rappresenta
un punto di equilibrio tra la rappresentazione artistica e quella scientifica, non c'è modo migliore per esaltare
la magnificenza della Serenissima Repubblica che mettendone in evidenza tutta la sua splendida realtà. Una
città così non ha bisogno di rappresentazioni ideali, nè utopici progetti di miglioramento, la sua forma è
definita dal suo limite naturale, l'acqua, e la ricostruzione topografica ne garantisce la piena conoscenza.

L’idea dell’architettura universale viene rappresentata nella pianta di una città dal veneto Vincenzo
Scamozzi. Questo autore si distingue per la complessità delle sue teorie urbane, che superano la schematicità
della produzione del tempo, esperto conoscitore di città straniere contribuisce a realizzare importanti centri
come Palmanova o parti di città. Nel trattato L'idea dell'architettura universale appunto che pubblica nel
1615, egli organizza ancora la città secondo il tradizionale schema ortogonale cinto da mura poligonali.
Emergono tuttavia raffinati criteri architettonici nella costruzione della città, soprattutto per quanto riguarda
la distribuzione delle parti, aree verdi e zone militari insieme con un ragionato equilibrio. Scamozzi asserisce
con forza il ruolo dell'architetto nella progettazione della città, sia per quanto riguarda la definizione
tipologica ed estetica dei monumenti, sia nella progettazione dell'arredo urbano, sia ancora
nell'approntamento delle strutture difensive. Egli ripropone in questo modo una rinnovata concezione del
progetto urbano in un certo senso legata alle stanze della cultura umanistica quattrocentesca.

Sabbioneta. Questa città realizzata tra il 1560 e 1584, è una città rifondata su un piccolo centro agricolo del
territorio mantovano per volontà di Vespasiano Gonzaga. In questa città fortezza destinata ad ospitare la
corte vengono collegate alle esigenze di un raffinato centro di cultura, sarà appellata con il nome di piccola
Atene, a quelle di una comunità fiorente e produttiva. Fu lo stesso duca Vespasiano ad idearne la trama viaria
ortogonale e la cinta muraria a forma di poligono irregolare. Rafforzata con Bastioni è dotata di un castello,
ora distrutto. Il reticolo interno è organizzato attorno ad un asse che collega le due porte urbane a due piazze,
sulle quali prospettano gli edifici pubblici, emergono per importanza il Palazzo Ducale, la chiesa di Santa Maria
Assunta, un ospedale, una biblioteca e la lunga Galleria degli antichi dove il duca conservava la propria
collezione d'arte e il Teatro Olimpico. Tutto ciò è progettato da Vincenzo Scamozzi e rappresenta il primo
esempio di teatro coperto funzionante in Italia. L'intervento di Sabbioneta tradisce nel suo stanco
completamento il fallimento di un'istanza, un divertente esperimento, così appare qualcuno che rappresenta
in realtà la melanconia fine della Città Ideale, svincolato come da qualsiasi necessità concreta, capriccioso
giocattolo fuori scala.

Palmanova. La città fortificata di Palmanova è costruita dalla Repubblica Veneta tra il 1593 e 1600 a difesa
dei suoi confini settentrionali. La planimetria progettata dagli ingegneri militari Giulio Savorgnan e
Marcantonio Martinengo ha forma rigorosamente geometrica e si compone di nove lati regolari sui quali è
impostato un reticolo radiocentrico di strade. Le porte, attribuite come il Duomo allo Scamozzi,
originariamente pensate presso i bastioni, sono poste al centro di ogni cortile. Le strade radiali hanno origine
con esemplare razionalità dalla piazza centrale. Questo schema ampiamente studiato dai trattatisti del
Cinquecento sottolinea la predisposizione militare della città pensata in funzione dei rapidi spostamenti delle
truppe dal centro alle piazze poste a coronamento delle mura, dove sorgono le caserme. Sei piazze
intermedie fungono da fulcri dei vari settori della città. Una cinta esterna aggiunta in un secondo tempo
completa l’impianto fortificato e ne rafforza la forma di stella. Era inevitabile che il rigore dell'impianto di
Palmanova fosse destinato a venire meno nel tempo, quando la città registra un lento aumento demografico
e tende a seguire regole di crescita spontanea.

Borgo di Terra del Sole. Iniziato a costruire nel 1564 per volere di Cosimo I, granduca di Toscana, su progetto
di Baldassarre Lanci con la collaborazione di Bernardo Buontalenti e Girolamo Genga. Vera e propria città
fortezza è composto da un rettangolo cinto da bastioni con una struttura rigorosamente ortogonale, una
strada principale che collega le due porte leggermente fuori asse per motivi di difesa e la piazza centrale su
cui si affacciano gli edifici monumentali. La città non ha mai attratto la popolazione ipotizzata in origine,
nonostante fossero stati promessi a nuovi abitanti il titolo di proprietà delle rispettive abitazioni e l'esenzione
delle tasse. Osservando la planimetria della città di Palmanova si evince la sua forma di stella a nove punte,
una città stellata, circondata da mura e dai fossati per una lunghezza di circa 7 km. Sei strade convergono
verso il centro, una piazza esagonale è il fulcro di questa città, una piazza talmente perfetta che è facile
rimanere impressionati dinanzi a un ordine architettonico di questo genere. La stella è a nove punte come
sono nove anche i bastioni di fortezza e le cerchie della città muraria. Ci sono tre porte di accesso, 18 strade
radiali e sei strade principali.

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