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DIRITTO DEI CONTRATTI DI LAVORO

Lezione del 25/02/2021


Il rapporto di lavoro subordinato ad orario pieno e a tempo indeterminato è definito “forma comune d’impiego”, cioè
quel contratto che è riconducibile all’art 2094 cc (a titolo oneroso, a prestazioni corrispettive, da cui scaturiscono
diritti ed obblighi in capo a entrambi i soggetti contraenti).
LAVORO A TEMPO DETERMINATO: risultato di quella che possiamo definire flessibilità in entrata (ci sono varie
accezioni di flessibilità: organizzativa, retributiva, in uscita). Flessibilità in entrata vuol dire essere assunti con un
contratto di lavoro subordinato (cioè riconducibile al modello di riferimento ex art 2094cc che definisce il lavoratore
subordinato), ma tale contratto incorporerà uno o più elementi di deroga al contratto di lavoro di tipo tradizionale (vale
a dire ad orario pieno e tempo indeterminato).
L’introduzione della flessibilità del lavoro in Italia si è avuta con la Riforma Biagi del mercato del lavoro, vale a dire
col d.lgs. 276/2003. Non è però del tutto corretto perché bisogna ricordare che la flessibilità in Italia esisteva già prima
anche sul piano normativo, perché le prime leggi che riguardano la flessibilità risalgono agli anni ’80, c’è stato anche
il Pacchetto Treu (L 196/1997) che aveva introdotto il lavoro interinale, quindi tutto sommato la Riforma Biagi ha
incrementato l’uso della flessibilità, dotandola di una disciplina ed aumentando le tipologie contrattuali.
Non tutte le tipologie subordinate flessibili trovavano la loro disciplina nella Riforma Biagi, infatti il lavoro a tempo
determinato era disciplinato da una vecchia legge degli anni ’60, che poi venne abrogata dal d.lgs. 368/2001. La
stragrande maggioranza di tutto l’organico della Riforma Biagi oggi in Italia non è più in vigore a seguito
dell’abrogazione operata dal governo Renzi col Jobs Act del 2015 (che è una costellazione di decreti legislativi, tutti
figli della legge delega 183/2014 concessa al governo), sopravvive la parte che riguarda le agenzie di
somministrazione. Oggi in materia bisogna tenere in considerazione il d.lgs. 81/2015, cioè il Testo Unico dei contratti
di lavoro, in quanto oltre a modificare si è cercato anche di risistemare fornendo un’unica legge che contenesse tutta la
disciplina delle tipologie contrattuali flessibili subordinate e non subordinate. Il decreto legislativo 23/2015 era quello
riguardante il CATUC (contratto a tutele crescenti). La normativa del d.lgs. 81/2015 è ancora quella di riferimento, ma
è stata modificata in alcuni punti durante il governo Conte 1 e 2 con il Decreto Dignità che ha modificato il lavoro a
termine e la somministrazione (il decreto è stato convertito in legge, la L 96/2018), c’è stato poi il decreto che ha
abolito la parte riguardante il lavoro accessorio e poi c’è stata la L 128/2019 (governo Conte 2) che ha modificato la
parte riguardante la parasubordinazione cercando di fornire una risposta normativa in termini di tutela per coloro che
lavorano con le piattaforme digitali ed in particolare i riders.
Il lavoro a tempo determinato è la tipologia a contrattuale più diffusa, più importante, oggetto di una disciplina che è
stata più volte modificata. Quando si parla del contratto di lavoro a tempo determinato si parte da una legge di
riferimento che era la L 230/1962 che è stata definitivamente l' abrogata nel 2001 col d.lgs. 368/2001 (di attuazione di
una direttiva comunitaria del 1999), passando da una disciplina molto rigorosa in cui l' apposizione di un termine al
contratto di lavoro subordinato costituiva un’eccezione rispetto alla regola ad una disciplina che introduceva una
liberalizzazione del contratto a tempo determinato, che consentiva l’apposizione del termine non più in ipotesi così
tassative, eccezionali e temporanee, ma in un’ipotesi più generale, cioè con causali più generali. Il decreto legislativo
368 del 2001 afferma la possibilità di apporre un termine al contratto di lavoro subordinato allorquando sussistano
ragioni di carattere tecnico, organizzativo, sostitutivo o produttivo (il cosiddetto “causalone”), con l’intento di
assecondare le esigenze di flessibilità denunciate dal mondo delle imprese. Tale decreto però non prevedeva alcuna
durata massima per il contratto di lavoro a tempo determinato. Dal 62 al 2001 ci sono stati altri interventi, c’era stata
la L 56/1987 che aveva abilitato i contratti collettivi ad introdurre ulteriori ipotesi di lecita apposizione del termine,
poi nel 1997 col Pacchetto Treu (ricordato come intervento organico sulla flessibilità) si introduceva con l’art 12 un
alleggerimento dell’apparato sanzionatorio. Negli anni successi al 2001 si sono avuti interventi volti alla riduzione
dell’abuso al ricorso ai contratti a termine, ponendo un tetto massimo alla durata del contratto a termine o alla
successione di contratti a termine. Col Decreto Poletti (34/2014, convertito in L 78/2014), prendendo spunto dalla
legge Fornero 92/2012, si ebbe l’eliminazione delle causali del contratto a termine. Nel 2014 si afferma il principio
dell’a-causalità, vale a dire che per stipulare un valido contratto a tempo determinato la legge non chiede più la
sussistenza di alcuna causale, ma chiede solo il rispetto di una durata massima del contratto a termine o della
successione di contratti a termine. Quanto detto dal decreto Poletti viene trasposto nel TU del 2015, che ci dà una
disciplina del contratto a termine del tutto a-causale. Tale a-causalità è stata messa in discussione dal primo governo
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Conte col Decreto Dignità nel 2018 che ha reintrodotto la casualità. Oggi abbiamo un contratto a termine disciplinato
dal d.lgs. 81/2015 modificato dal Decreto Dignità che prevede una a-causalità solo per 12 mesi, oltre i 12 mesi si può
stipulare ancora un contratto a termine, ma dovranno ricorrere delle causali per cercare di combattere la precarietà
nell’utilizzo della forza lavoro.
Il governo Prodi nel 2007 ha attuato interventi volti a porre un limite alla riassunzione col contratto a termine. Quindi
il legislatore ha stabilito la durata massima dei contratti a termine. La L 247/2007 di attuazione del Protocollo sul
Welfare stabilì che la durata massima del contratto a termine o della successione di contratti a termine (comprese le
proroghe) non poteva superare i 36 mesi. Tale legge consentiva la stipula di un contratto di deroga (solo 1 volta),
quindi oltre i 36 mesi, ma solo in sede amministrativa dinanzi a quella che si chiamava “direzione provinciale del
lavoro” con l’assistenza del sindacato di riferimento. Quanto dovesse durare questo contratto in deroga la legge non lo
stabiliva, ma rinviava ai contratti collettivi (che si mantenevano all’interno del range di 1 anno).
Nel 2008 col governo Berlusconi le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo e sostituivo diventano lecite
anche se riferite all’ordinaria attività del datore di lavoro, quindi praticamente diventa possibile quasi sempre apporre
un termine al contratto di lavoro.

Lezione del 26/02/2021


Per quanto riguarda il contratto di lavoro a tempo determinato, la disciplina attualmente vigente è quella relativa agli
artt. 19-29 del d.lgs. 81/2015, successivamente modificato dalla L 96/2018 di conversione del Decreto Dignità. Per
effetto degli interventi del governo Renzi (L 78/2014 e d.lgs. 81/2015) sembrava che si fosse raggiunto un approdo
definitivo all’a-causalità del ricorso del contratto a tempo determinato, si elimina quindi la parte che prevedeva la
lecita apposizione del termine chiedendo solo il rispetto di un limite temporale. Questa a-causalità è stata messa in
discussione dal Decreto Dignità perché oggi non è più vero che l’apposizione del termine non richiede l’indicazione
delle causali in quanto è stato reintrodotto, oltre il limite dei 12 mesi, la cosiddetta causalità del ricorso al contratto a
termine.
Attualmente il comma 1 dell’art 19 del dlg 81/2015 modificato dalla L 96/2018 afferma che al contratto di lavoro può
essere apposto un termine di durata non superiore a 12 mesi senza dover specificare una causale. Si possono superare i
12 mesi, (ma comunque non superiore ai 24 mesi) ma solo in presenza di una delle seguenti condizioni:
a) esigenze temporanee e oggettive estranee all’ordinaria attività (ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori);
b) esigenze connesse a incrementi temporanei significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.
Pertanto viene reintrodotta la causalità per i mesi successivi al dodicesimo.
Il Decreto Dignità ha voluto recuperare la dignità del lavoro, quindi in controtendenza al governo Renzi ha voluto
mettere una stretta al contratto a termine, ma questo tentativo del legislatore non è completamente riuscito perché per
combattere la precarietà si sono creati degli effetti perversi in quanto si è ridotto il ricorso al contratto a termine,
quindi si è ridotta l’occupazione.
Per quanto riguarda l’apparato sanzionatorio, con la L 230/1962 avevamo una disciplina molto rigorosa in quanto
anche un solo giorno di continuazione del contratto a termine determinava la conversione de contratto a termine in
contratto a tempo indeterminato con effetto retroattivo. Nella disciplina vigente solo in alcune ipotesi si ha la
conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato con effetto retroattivo. In altre ipotesi la
conversione c’è, ma non opera con effetto retroattivo.

In caso di stipulazione di un contratto a termine di durata superiore ai 12 mesi in assenza delle condizioni di liceità
(cioè i punti a e b elencati sopra) il contratto a termine si converte in contratto a tempo indeterminato a partire dalla
data di superamento dei 12 mesi. Prima delle modifiche apportate da Conte, il contratto a tempo determinato era
completamente a-causale e l’unico limite era dato dalla durata massima di 36 mesi.
Il termine dei 24 mesi non è del tutto invalidabile perché possono intervenire dei contratti collettivi a stabilire una
durata diversa (comma 2: fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi di qualsiasi livello quindi non solo
nazionali, ma anche decentrati e quindi aziendali).
Apparato sanzionatorio: qualora il limite dei 24 mesi sia superato, o per effetto di un unico contratto o per effetto di
una successione di contratti, si ha la conversione senza effetto retroattivo (a meno che non ci sia una diversa
previsione dei contratti collettivi). Ai fini del computo dei contratti vanno considerati, oltre ai contratti a termine,
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anche i periodi di missione intervenute nell’ambito di somministrazione di lavoro a tempo determinato, aventi come
oggetto sempre mansioni di pari livello e categoria legale svolte tra i medesimi soggetti (legge Fornero 92/2012, ha
introdotto l’a-causalità del contratto a termine, che aveva durata massima di 12 mesi non rinnovabile).
Oltre alle possibili disposizioni in materia dei contratti collettivi, c’è anche la possibilità di fare un contratto in deroga
presso la “direzione territoriale del lavoro” (Ispettorato Provinciale del Lavoro) della durata massima di 12 mesi. A
differenza di quanto previsto precedentemente, non è più richiesto in questi casi l’intervento del sindacato. (12 a-
causali, 12 causali, eventuali altri 12 mesi facendo un contratto presso la direzione territoriale competente).
In caso di mancato rispetto della procedura si ha la conversione del contratto a termine in contratto a tempo
indeterminato senza effetto retroattivo, quindi a partire dalla data del superamento del termine.
Questo ulteriore contratto a termine che si va a stipulare dinanzi alla direzione territoriale del lavoro sarà causale,
anche se la legge non lo precisa.
Il contratto a termine va stipulato per iscritto (forma scritta ad substantiam, cioè a pena di nullità); vi è però un caso in
cui si fa eccezione e riguarda i rapporti lavorativi occasionali, cioè quei rapporti di durata non superiore a 12 giorni
(art 19 comma 4). Al comma 3 dello stesso articolo si afferma che i limiti previsti non si applicano alle attività
stagionali e alle start-up per i primi 4 anni dalla costituzione della società.
In generale il contratto di lavoro standard a tempo indeterminato è un contratto per il quale vige il principio della
libertà di forma (non c’è l’obbligo di stipularlo per iscritto). La legge però vuole che stipuli per iscritto, tutte le volte
in cui c’è un’esigenza di protezione del lavoratore (es: patto di prova, patto di non concorrenza, licenziamento).
Il contratto a termine può essere sia rinnovato che prorogato. Rinnovo vuol dire stipulare un altro contratto a termine,
mentre la proroga è una prosecuzione del rapporto di lavoro esistente. Oggi la normativa prevede che in caso di
rinnovo debbano essere specificate le esigenze (punti a e b). La proroga si può fare a-causale ma solo se ci troviamo
nell’arco dei 12 mesi, altrimenti si deve indicare la causa.
ART 20 d.lgs. 81/2015: DIVIETI previsti per la stipula dei contratti a tempo determinato. Tali divieti nascevano per i
contratti di lavoro interinali (introdotti col Pacchetto Treu e trasposto poi tutto nella Riforma Biagi). Sono quattro
divieti che impediscono al datore di lavoro di fare ricorso alle tipologie di lavoro subordinato flessibile. Tali divieti
sono:
•divieto di fare ricorso al contratto a termine per sostituire lavoratori assenti che stanno esercitando il proprio diritto di
sciopero;
•divieto di fare ricorso al contratto a termine quando il datore di lavoro non è in regola con la normativa in materia di
sicurezza sul lavoro, che a partire dal 2008 ha introdotto obblighi di tutela della sicurezza e della salute del lavoratore;
•divieto di fare ricorso al contratto a termine per le imprese in cui si sia preceduto nei 6 mesi precedenti a
licenziamenti collettivi (L 223/1991), salvo che il contratto venga stipulato per sostituire lavoratori assenti, o per
assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità (che non ci sono più perché sono state abolite dalla Fornero) o abbia
una durata inziale non superiore a 3 mesi;
•divieto di fare ricorso al contratto a termine per quelle imprese i cui è operante una sospensione del lavoro (quindi
integrazione salariale) o una riduzione dell’orario di lavoro in virtù di un regime di cassa integrazione guadagni.
Se vengono violati questi divieti il contratto a termine si trasforma in contratto a tempo indeterminato con effetto
retroattivo, cioè come se il termine non fosse stato mai apposto (unica ipotesi in cui si ha la conversione con effetto
retroattivo).
Ex art 21 del d.lgs. 81/2015 in materia di rinnovi e proroghe, il contratto può essere rinnovato solo a fronte delle
condizioni richieste, quindi il rinnovo è sempre causale, mentre la proroga è libera nei primi 12 mesi (è a-causale
come il contratto), ma oltre i 12 mesi si può prorogare solo in modo causale, cioè devono valere quelle condizioni
dettate ai punti a) e b). In caso di violazione, sia della proroga che del rinnovo, il contratto si trasformerà in contratto a
tempo indeterminato. C’è un’eccezione che riguarda i contratti per attività stagionali perché questi potranno sempre
essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle condizioni richieste dal Decreto Dignità.
In passato la proroga era affidata a una disciplina molto rigorosa, ma via via è stata stemperata specie con gli
interventi normativi del 2014 col Decreto Poletti che aboliva la causalità e inseriva solo il tetto massimo di 36 mesi nel
corso dei quali si potevano fare delle proroghe, ma non più di 5. Oggi il termine del contratto può essere prorogato col
consenso del lavoratore soltanto quando la durata iniziale sia inferiore ai 24 mesi, (con la disciplina precedente si
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prevedevano 36 mesi) per un massimo di 4 volte nell’arco di 24 mesi a prescindere dal numero dei contratti. Se si
stipulano più proroghe di quelle previste dalla legge il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato a
partire dalla data di decorrenza della quinta proroga (sesta proroga se considero la disciplina precedente). Questi limiti
alle proroghe, come abbiamo detto, oltre alle attività stagionali, non si applicano nemmeno alle start-up innovative nei
primi 4 anni della costituzione della società (comma 3 art 21).
ART 23 ex d.lgs. 81/2015 CLAUSOLA DI CONTINGENTAMENTO: quando si è abolita la causalità e si è
introdotto il tetto massimo della durata si è previsto per legge anche un rapporto percentuale tra contratti a termine e
contratti di lavoro a tempo indeterminato per quel datore di lavoro. La normativa dice che si può fare ricorso al
contratto a termine, ma per evitare che il datore approfitti di una normativa troppo permissiva assumendo tutti i
lavoratori con contratto a termine, si sono stabilite delle percentuali tra contratti a termine e contratti a tempo
indeterminato (20%). I contratti collettivi possono prevedere anche una diversa percentuale (la normativa si può anche
rinviare ai contratti collettivi). È stata prevista anche una sanzione per l’eventuale sforamento della percentuale: si
applica una sanzione amministrativa pari al 20% della retribuzione mensile del singolo lavoratore eccedente la soglia
se il lavoratore “in più” è 1, altrimenti il 50%. L’importo è calcolato per ciascun lavoratore che supera il limite
quantitativo e per ogni mese in cui si sfora.
La violazione del limite percentuale previsto dalla legge o dal contratto collettivo non comporta mai la conversione
del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato; la sanzione è solo amministrativa. Ciò è stato chiarito dal
d.lgs. 81/2015 perché la L 78/2014 che introduceva questa clausola non si pronunciava su tale argomento. Il Decreto
Dignità non ha modificato la clausola di contingentamento per il contratto a termine, ma l’ha modificata per la
somministrazione.

Lezione del 01/03/2021


Riprendendo la clausola di contingentamento, va detto che i contratti collettivi possono modificare in melius ma anche
in peius quanto disposto dalla normativa; i contratti collettivi non ricevono delega in bianco, quindi non possono
spingersi fino al punto da azzerare la previsione normativa perché questo vorrebbe dire violazione di una norma
imperativa. Pertanto, i contratti collettivi o hanno rinviato in toto alla previsione di legge oppure hanno previsto
percentuali di poco superiori/inferiori. La legge prevede anche delle esenzioni in materia, cioè dei casi in cui il datore
di lavoro non è tenuto a rispettare la clausola di contingentamento (né quella prevista dalla legge né l’eventuale
previsione dei contratti collettivi), alcuni dei quali sono stati introdotti ex novo nel 2015, mentre altri sono ipotesi
specifiche in cui si stipula fisiologicamente il contratto a termine, ad esempio l’attività stagionale, il settore dello
spettacolo e programmi radiofonici/televisivi, ipotesi di sostituzione di lavoratori assenti, l’ipotesi del ricorso al
contratto a termine per assumere un lavoratore di età superiore a 50 anni, l’avvio di nuove attività, inizio di contratti di
lavoro a tempo determinato stipulati da università/istituti/enti privati di ricerca.
Conseguenze di un eventuale sforamento della percentuale consentita: la materia era stata disciplinata dalla L 78/2014
(Decreto Poletti), che tra le varie cose ha introdotto la clausola di contingentamento ma non specificava se in caso di
sforamento di fosse o meno la conversione del contratto da a termine a tempo indeterminato, ma si limitava a
prevedere delle sanzioni di carattere amministrativo (maggiorazione della retribuzione, comma 4). Tale maggiorazione
viene confermata dal d.lgs. 81/2015 ed è il 20% se si tratta di mesi o frazioni di mese superiori a 15gg se il numero di
lavoratori eccedenti non è superiore a 1, 50% se il numero dei lavoratori assunti in violazione della percentuale è
superiore a 1.
L’apparato sanzionatorio previsto ex art 12 L 196/1997 voleva assecondare le esigenze di flessibilità dei datori di
lavoro, attenuare le conseguenze sanzionatorie in caso di mera continuazione del rapporto dopo la scadenza,
consentire degli “intervalli non lavorati” (i cd. Stop and go) tra un contratto e l’altro. Se vengono rispettati tali
intervalli, il nuovo contratto si assume lecito. Se invece gli intervalli non lavorati si riducono e il rapporto lavorativo è
continuato o addirittura il lavoratore viene riassunto con un nuovo contratto a termine, le sanzioni saranno più gravi
(non più sanzione amministrativa, ma conversione del contratto senza effetto retroattivo).
ART 22 ex d.lgs. 81/2015 CONTINUAZIONE DEL RAPPORTO OLTRE LA SCADENZA DEL TERMINE;
ART 21 comma 2 ex d.lgs. 81/2015 RIASSUNZIONE CON NUOVO CONTRATTO A TERMINE (dopo gli
intervalli di stop and go).

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In caso di continuazione del rapporto dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato,
il datore di lavoro dovrà corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di
continuazione del rapporto (20% fino al decimo giorno dalla scadenza del termine, 40% per ciascun giorno ulteriore).
Se i giorni di continuazione aumentano, aumenta anche il grado della sanzione da corrispondere: se il rapporto dura
oltre il 30esimo giorno (contratto a termine fino a 6 mesi) oppure oltre il 50esimo giorno (contratto a termine oltre i 6
mesi) il contratto si trasformerà in contratto a tempo indeterminato senza effetto retroattivo.
In caso di riassunzione (cioè di stipula di un altro contratto a termine) la sanzione è parametrata anche qui sulla durata
del contratto: qualora il lavoratore sia riassunto a tempo determinato entro 10gg dalla data di scadenza di un contratto
di durata fino a 6 mesi o entro 20gg dalla scadenza di un contratto di durata superiore a 6 mesi, il secondo contratto a
termine con cui si è operata la riassunzione si trasforma in contratto a tempo indeterminato.
Anche in questo caso la legge prevede delle eccezioni (comma 2 art 21): le disposizioni non trovano applicazione nei
confronti dei lavoratori stagionali e nelle altre ipotesi individuate dai contratti collettivi. Tutti i limiti ex art 21 non
trovano applicazione per le imprese start-up innovative.
Vige un principio di non discriminazione tra lavoratori flessibili e a tempo indeterminato comparabili (che svolgono
funzioni equivalenti) e deriva dalla normativa comunitaria (ART 25 ex d.lgs. 81/2015 PRINCIPIO DI NON
DISCRIMINAZIONE: stabilisce che al lavoratore a tempo determinato spetta il trattamento economico e normativo e
in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo determinato comparabili, cioè inquadrati nello stello livello
in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi). In caso di violazione del principio di non
discriminazione sono previste solo sanzioni di tipo amministrativo.
ART 27 ex d.lgs. 81/2015 CRITERI DI COMPUTO: salvo che sia diversamente disposto, si deve tenere conto del
numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato, compresi i dirigenti impiegati negli ultimi 2 anni sulla base
dell’effettiva durata del loro rapporto di lavoro.
Il criterio di computo serve a calcolare il numero di lavoratori a tempo determinato presenti in un’azienda ai fini
dell’applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale. Si somma la durata dei singoli rapporti di lavoro
a termine svolti negli ultimi due anni e poi si divide per 24. Se non è diversamente disposto, i lavoratori a tempo
determinato che hanno delle disabilità non rientrano nel calcolo.
In alcuni casi, specie in materia di licenziamenti, il legislatore fissa una soglia per definire e far scattare l’applicazione
di determinate leggi.
ART 24 ex d.lgs. 81/2015 DIRITTO DI PRECEDENZA: diritto riconosciuto al lavoratore che gli dovrebbe consentire
di ottenere un contatto a tempo indeterminato (prelazione) laddove il datore di lavoro presso il quale egli ha svolto
lavoro a termine proceda all’assunzione con contratto a tempo indeterminato. Quindi il lavoratore, in virtù della
pregressa esperienza, dovrebbe essere preferito, dovrebbe avere la precedenza nel diventare un lavoratore a tempo
indeterminato. Tala diritto sussiste se il lavoratore ha effettivamente esperienza, cioè non basta aver lavorato per una
settimana per avvalersene. La legge dice che il lavoratore che nell’esecuzione di uno o più contratti a termine presso la
stessa azienda ha prestato attività lavorativa per un periodo superiore a 6 mesi, ha diritto di precedenza nell’assunzione
a tempo indeterminato che il datore di lavoro va a effettuare nei successivi 12 mesi. Anche in questo caso, al comma 1
si rinvia alle diverse disposizioni dei contratti collettivi (art 51 ex d.lgs. 81/2015: norme di rinvio ai contratti
collettivi).
Questo diritto di precedenza vale anche per i lavoratori stagionali, ma si parla di precedenza tra assunzioni a contratto
a tempo determinato e contratto a tempo determinato. Inoltre, le lavoratrici che hanno usufruito del congedo di
maternità (congedo che va contato per il raggiungimento dei 6 mesi di lavoro richiesti per poter vantare il diritto) non
solo hanno diritto di precedenza per il contratto a tempo indeterminato, ma anche nel caso in cui si debba stipulare di
nuovo un contratto a tempo determinato, diritto da far valere sempre nei confronti delle nuove assunzioni fatte dal
datore nei successivi 12 mesi. Il punto debole di questa disciplina riguarda le sanzioni: la legge dice che il diritto di
precedenza va richiamato nell’atto scritto, quindi nel contratto. Tale diritto può essere esercitato a condizione che il
lavoratore manifesti per iscritto la propria volontà e deve farlo entro 6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro
(nel caso di lavoratore non stagionale o lavoratrice che ha usufruito del congedo, mentre se si tratta di lavoratore
stagionale lo deve far valere entro i 3 mesi dalla cessazione del rapporto). Il diritto di precedenza si estingue una volta
trascorso 1 anno dalla cessazione del rapporto. Non sono previste sanzioni dalla legge.

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ART 28 ex d.lgs. 81/2015 IMPUGNATIVA: nel 2010 durante il governo Berlusconi c’è stata una riforma molto
importante di natura processuale: la L 183/2010 sul “collegato lavoro” voluta per modificare il processo del lavoro e
cercare di valorizzare le procedure conciliative, quindi le misure deflattive del contenzioso, ma anche per modificare
le norme sulla decadenza, cioè i termini previsti dalla legge per impugnare atti datoriali. In Italia vigeva la L 604/1996
sui licenziamenti individuali che, per impugnare il licenziamento, stabiliva un semplice termine di impugnativa
stragiudiziale nel rispetto del termine di prescrizione quinquennale; pertanto, era sufficiente inviare una lettera, una
raccomandata al datore di lavoro entro 60gg dalla comunicazione del licenziamento e dei motivi (che diventano
obbligatori con la L92/2012). Una volta fatta l’impegnativa stragiudiziale, il lavoratore poteva anche aspettare e
vedere come si comportava il datore di lavoro.
Con la L 183/2010 si ebbe uno sdoppiamento del termine di impugnativa previsto dall’art 6 della L604/1996: un
termine di impugnativa stragiudiziale e uno di impugnativa giudiziale. 60gg per l’impugnativa stragiudiziale 270gg
per impugnare giudizialmente, cioè per depositare il decorso nella cancelleria del tribunale del giudice del lavoro.
Questi doppi termini sono ancora in essere, ma nella formulazione 60gg+180gg (Riforma Fornero).
Nel caso di un contratto a tempo si può avere una risoluzione ante tempus del contratto solo per giusta causa, come
dice l’art 2119 cc (ipotesi eccezionale).
Con il collegato lavoro, il doppio termine serviva al legislatore per l’impugnativa di atti datoriali che non avevano
niente a che vedere col licenziamento, ma ad esempio il lavoratore può voler impugnare il contratto a termine (azione
volta a far valere la nullità del termine, art 32 della legge sul collegato lavoro). In pratica se il lavoratore voleva
impugnare il contratto a termine, doveva attivarsi come se fosse stato licenziato e il doppio termine 60gg+270gg si
faceva partire dalla cessazione del contratto a termine perché non c’era stato licenziamento.
Attenzione: la Legge Fornero modificava i termini in quanto i 60gg+270gg diventavano 60gg+180gg, ma se si tratta di
contratti a termine, il primo raddoppia, avremo cioè 120gg+180gg. È ancora così in quanto è stato trasposto nel d.lgs.
81/2015. Successivamente è stato modificato col Decreto Dignità che ha previsto un termine di 180gg+180gg per i
contratti a termine. (NB: per la somministrazione abbiamo 60gg+180gg).
In caso di trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, il giudice dovrà corrispondere al
lavoratore un’indennità risarcitoria che va da un minimo di 2.5 a un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione
di riferimento per il calcolo del TFR (avuto riguardo dei criteri relativi all’art 8 della L604/1996 in caso di
licenziamento illegittimo, quindi criteri che riguardano il numero dei dipendenti, la situazione aziendale e il
comportamento delle parti durante il contradditorio); quindi non solo il lavoratore che vince avrà la conversione del
contratto, ma anche la condanna del datore a risarcire un danno in favore del lavoratore corrispondendogli questa
indennità risarcitoria che la legge qualifica come “indennità risarcitoria omnicomprensiva”, cioè ristora per l’intero
pregiudizio del lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la
scadenza del termine e la pronuncia con la quale il giudice ordina la ricostituzione del rapporto di lavoro.

Lezione del 04/03/2021


Per quanto riguarda il contratto a termine non abbiamo ancora parlato delle ESCLUSIONI, che sono contenute
nell’ART 29 del d.lgs. 81/2015. Nel caso in cui il datore di lavoro sia una pubblica amministrazione c’è una disciplina
particolare. Nel caso in cui la pubblica amministrazione voglia fare ricorso al contratto a termine devono esservi delle
esigenze di carattere temporaneo, eccezionale, perché l’organico si compone di lavoratori che vi accedono mediante
concorso pubblico. Il lavoratore assunto con contratto a termine non può mai diventare lavoratore a tempo
indeterminato anche se hanno commesso degli abusi perché si violerebbe la regola dell’accesso tramite concorso
pubblico (riserva di legge contenuta nell’art 97 Cost). Le conseguenze saranno solo sanzionatorie. L’art 29 contiene
altre esclusioni dal campo di applicazione del decreto per alcuni settori, per esempio il contratto di lavoro con il
dirigente (categoria legale apicale dei lavoratori subordinati). I dirigenti sono soggetti a disciplina a sé stante con
contratti a termine, infatti i dirigenti non possono rimanere in carica per più di 5 anni. Altre esclusioni riguardano il
contratto a tempo determinato con il personale docente e Ata (tecnico amministrativo), il personale sanitario del SSN,
contratti a termine nell’università e altre ipotesi riguardano il settore artistico e musicare, anch’essi esclusi dal campo
di applicazione del d.lgs. 368/2001.

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CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO PARZIALE: meglio conosciuto come part-time (orario ridotto), è una
tipologia contrattuale flessibile che è contemporaneamente un esempio di flessibilità in entrata, ma anche di flessibilità
organizzativa perché si fa leva sull’orario di lavoro, in quanto si introduce una riduzione dell’orario di lavoro previsto.
Quando parliamo di orario di lavoro si fa riferimento a un orario normale settimanale di 40h (d.lgs. 66/2003 con cui si
è data attuazione a una direttiva comunitaria sull’orario di lavoro, stabilendo la disciplina dei risposi, ferie,
straordinari, riposo giornaliero e settimanale) spalmato su 5gg lavorativi per 8h al giorno. In passato erano 48h
settimanali spalmate su 6gg. Il lavoratore, assunto con contratto ad orario pieno e a tempo indeterminato, nel corso
della sua vita lavorativa chiede o gli viene chiesto di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo
parziale, cioè si chiede una riduzione temporanea del rapporto di lavoro per una serie di esigenze temporanee. È una
tipologia contrattuale che mescola sia le esigenze delle imprese che del lavoratore (carico familiare, assistenza di un
familiare, nascita di un figlio). Anche il lavoratore assunto con contratto a termine può lavorare part-time. Di solito la
trasformazione dell’orario si fa tramite accordo scritto (art 5) e ci sono delle garanzie predisposte dalla legge che
dovrebbero consentire al lavoratore sia di tutelarsi quando richiede il part-time, sia quando vuole tornare ad essere
nuovamente lavoratore a tempo pieno. La normativa sul part-time è stata più volte modificata in Italia: la prima legge
sul contratto a tempo parziale fu degli anni ’80, poi nel tempo modificata per la necessità di dare attuazione a una
direttiva comunitaria sul contratto di lavoro a tempo parziale. Il lavoro a tempo parziale venne modificato col
Pacchetto Treu con l’art 13 (norma sull’incentivazione del part-time e sulla rimodulazione dell’orario di lavoro), poi
successivamente dalla Riforma Biagi, che introdusse il contratto di lavoro intermittente e il contratto di lavoro
ripartito/job sharing=unico contratto di lavoro condiviso da due lavoratori, ma non è più in vigore in quanto abrogato
dal Jobs Act. Oggi tutta la normativa è contenuta nel d.lgs. 81/2015 (artt. 4-12) Dagli artt. 13-18 si disciplina il lavoro
intermittente. Il part-time è anche molto diffuso nel lavoro pubblico perché anche in quel contesto si possono
manifestare delle esigenze personali, familiari. Nel lavoro pubblico però la disciplina del part-time tiene conto anche
di altre finalità che sono di tipo pubblicistico, cioè legata alla necessità di evitare che un pubblico dipendente possa
svolgere un’altra occupazione (che in alcuni casi può svolgere una libera professione, riducendo però il suo orario di
lavoro nel settore pubblico). Il part-time è confermato dal d.lgs. 81/2015.
Fermo restando il rispetto delle garanzie minime previste dalla legge, si prevedono percorsi di valorizzazione
dell’autonomia collettiva ed individuale. All’interno del contratto part-time c’è un concorso delle fonti, cioè un mix di
competenze tra legge e contrattazione collettiva.
Il Decreto Dignità non ha modificato la disciplina, che è quindi quella contenuta negli artt. 4-12 del d.lgs. 81/2015. Ex
art 4, parliamo di un rapporto di lavoro subordinato anche a tempo determinato, in quanto l’assunzione può avvenire
sia a tempo pieno che a tempo parziale. Come tutte le tipologie contrattuali flessibili anche il contratto di lavoro a
tempo parziale deve essere stipulato per iscritto, ma non ad substantiam, ma solo ai fini della prova (ad probationem).
Nel contratto di lavoro a tempo parziale deve essere indicata la durata della prestazione lavorativa e la collocazione
temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Se si tratta di un’organizzazione
articolata su turni, questa indicazione può avvenire mediante rinvio ai turni programmati di lavoro articolati su fasce
orarie prestabilite. In passato la legge distingueva tra lavoro a tempo parziale orizzontale, verticale o misto, oggi non
più. Orizzontale vuol dire lavorare tutti i giorni a orario ridotto. Verticale vuol dire che non lavoro tutti i giorni a
orario ridotto, ma lavoro solo alcuni giorni ad orario pieno. Misto prevede un mix tra le due opzioni precedenti. Il fatto
che la legge oggi non precisi che il contratto di lavoro a tempo parziale può essere orizzontale, verticale o misto non
vuol dire che nella realtà queste modalità non si verifichino. Il fatto che la legge non lo dica più è legato al fatto che ci
sono degli istituti (es: lavoro supplementare, straordinario, clausole elastiche e flessibili) che la legge prima prevedeva
potessero essere inseriti nel contratto part-time facendo una distinzione tra part-time orizzontale e verticale. Sono
istituti di carattere eccezionale perché se il lavoratore opera ad orario ridotto, non gli dovrebbe essere chieste
prestazioni aggiuntive (lavoro supplementare: qualcosa che mi fa lavorare oltre il mio orario ridotto, ma non mi fa
superare le 40h settimanali; lavoro straordinario: sono un lavoratore part-time, ma sommando le ore supero addirittura
le 40h previste). Ecco perché in passato queste prestazioni erano consentite ma solo in riferimento al part-time
orizzontale o verticale. Oggi la disciplina afferma che il lavoro supplementare e straordinario sono possibili sempre a
prescindere dal tipo di part-time in essere. Per quanto riguarda le clausole flessibili parliamo della possibilità per il
datore di lavoro di inserire in contratto a tempo parziale delle clausole con cui si chiede al lavoratore una modifica
della collocazione dell’orario della prestazione senza chiedere però prestazioni in aumento. Quando parliamo di una
clausola elastica (erano guardate con sfavore) intendiamo quelle clausole che vengono inserite nel contratto di lavoro e
che comportano una variazione in aumento della collocazione temporale. Oggi la legge non fa più la distinzione tra
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clausole elastiche e flessibili, ma parla solo di clausole elastiche, nelle quali rientrano però anche quelle flessibili.
Nella legge degli anni ’80 le clausole elastiche erano vietate, poi ci furono delle sentenze della Cassazione che
aprivano alla possibilità di stipulare clausole elastiche, anche se viste con molto sfavore. La clausola elastica va
pattuita per iscritto nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi e, inoltre, la legge prevede il diritto del
lavoratore ad un preavviso di 2gg lavorativi, fatte salve le diverse intese fra le parti e ha diritto anche a specifiche
compensazioni (maggiorazioni, ristori) nella misura o nelle forme determinate dai contratti collettivi. In passato (d.lgs.
61/2000) si prevedeva un diritto di ripensamento alla clausola elastica (comma 7 art 6 d.lgs. 81/2015: il lavoratore
poteva denunciare il patto con cui aveva manifestato la disponibilità ad accettare una clausola elastica laddove potesse
far valere documentate ragioni e nel rispetto di determinate modalità. Una volta denunciato il datore non poteva più
applicare la clausola elastica). Con la Riforma Biagi si abrogò la disposizione sul diritto di ripensamento, che fu
reintrodotto dalla Riforma Fornero del 2012, che rinviava alla contrattazione collettiva il compito di disciplinare
condizioni e modalità che consentono al lavoratore di eliminare o modificare clausole elastiche o flessibili e
ripristinava in parte il diritto di ripensamento di origine legale, cioè diceva che se il lavoratore si trovava in
determinate condizioni di salute o altro, poteva revocare il consenso prestato alle clausole elastiche. Nella normativa
in vigore sparisce del tutto il rinvio ai contratti collettivi.
Comma 8 art 6 d.lgs. 81/2015: il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro non costituisce
giustificato motivo di licenziamento.
Art 6, 4 comma: nel rispetto di quanto previsto dai contratti collettivi, le parti del contratto di lavoro a tempo parziale
possono pattuire per iscritto clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione
lavorativa o relative alla variazione in aumento della sua durata.
Prima lavoro supplementare e lavoro straordinario erano riferiti non a tutti i tipi di contratto a tempo parziale, ad
esempio il lavoro supplementare era consentito soltanto nel part-time orizzontale e il lavoro straordinario solo nel
lavoro part-time verticale o misto. Oggi non è più così. Nell’attuale normativa non è escluso che si possano combinare
lavoro supplementare e straordinario. Anche prima la disciplina contenuta nel d.lgs. 61/2000 chiedeva ai contratti
collettivi di stabilire il numero massimo delle ore di lavoro supplementare effettuabili, le causali di utilizzo e le
conseguenze del superamento di tali ore. Il d.lgs. 81/2015 per quanto riguarda il lavoro supplementare, chiede il
rispetto dei contratti collettivi, ma al comma 2 ex art 6 dice che se il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro
non disciplina il lavoro supplementare, allora scatta la disciplina prevista dalla legge che prevede delle garanzie, cioè
il datore può richiedere al lavoratore lo svolgimento di lavoro supplementare in misura non superiore al 25% delle ore
di lavoro settimanali concordate; il lavoratore può anche rifiutare laddove possa giustificare delle comprovate esigenze
lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale; il lavoro supplementare deve essere retribuito
corrispondendo al lavoratore part-time una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale di fatto. La
disciplina previgente prevedeva il consenso del lavoratore e si stabiliva che il rifiuto del lavoratore non potesse
integrare gli estremi del giustificato motivo del licenziamento e ciò valeva anche se operavano i contratti collettivi.
Oggi non è più richiesto il consenso del lavoratore, cioè si può affermare che c’è un potere unilaterale del datore di
lavoro nell’imporre il lavoro supplementare, sempre però tenuto conto che possono sussistere delle comprovate
esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale e quindi il lavoratore in questi casi si può
rifiutare all’imposizione del lavoro supplementare.
Quando parliamo di lavoro straordinario stiamo parlando di ore che eccedono le 40h settimanali; oggi è consentito
in qualsiasi tipo di contratto part-time, mentre prima era consentito solo nel part-time verticale e misto. A differenza
del lavoro supplementare, nel caso del lavoro straordinario non si può parlare di potere unilaterale del datore di lavoro,
ma vige il principio del mutuo consenso a meno che l’obbligatorietà dello straordinario non sia prevista nel contratto
collettivo (anche aziendale) o ricorrano particolari ipotesi previste dalla legge.

Lezione del 08/03/2021


Ex art 5 d.lgs. 81/2015 il contratto part-time deve essere stipulato in forma scritta ai fini della prova ed in esso è
contenuta la puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario
con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. A meno che non sia diversamente previsto dalla legge o
dal contratto collettivo al rapporto di lavoro part-time si applicano le stesse disposizioni che regolano il rapporto a

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tempo pieno con la precisazione che nel contratto part-time si applicano alcuni istituti sulla base del principio “pro-
rata temporis” che vuol dire che vengono riconosciuti i diritti, le prerogative (soprattutto quelle di natura retributiva)
in proporzione al differente orario svolto. Tale principio è contenuto nell’art 7 del d.lgs. 81/2015 (principio di non
discriminazione, principio del pro-rata temporis). Il lavoratore part-time non deve ricevere un trattamento meno
favorevole del lavoratore a tempo pieno a lui comparabile, cioè di pari inquadramento; il lavoratore part-time ha i
medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile e il suo trattamento economico e normativo è
riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa. Spetta ai contratti collettivi modulare la
durata di altri istituti come il periodo di prova, il periodo di preavviso in caso di licenziamento o di missioni,
conservazione del posto di lavoro in caso di malattia e infortunio (=periodo di comporto).
Con la disciplina del 2015 le parti sono libere di inserire le clausole elastiche nel contratto di lavoro, anche se questo
non è previsto dal contratto collettivo [comma 6 art 6: se il contratto collettivo non disciplina le clausole elastiche,
queste possono essere pattuite per iscritto davanti alle commissioni di certificazione (organismi introdotti dalla
Riforma Biagi), con la facoltà del lavoratore di farsi assistere da un sindacalista, un avvocato o da un consulente del
lavoro]. Le clausole elastiche devono contenere, a pena di nullità, le indicazioni delle condizioni e delle modalità con
le quali il datore può modificare la collocazione temporale della prestazione (cioè aumentare l’orario). Tali clausole
devono indicare la durata massima dell’aumento che in ogni caso non può superare il limite del 25% della prestazione
annua a tempo parziale e, inoltre, il lavoratore ha diritto ad una maggiorazione retributiva del 15% della retribuzione
oraria globale di fatto. Il lavoratore ha il diritto a 2gg di preavviso.
Comma 7 art 6: il lavoratore, una volta dato il consenso alle clausole elastiche, può fare marcia indietro revocando il
consenso, ma per poterlo fare si deve trovare in determinate condizioni. Tali condizioni, oltre all’ipotesi del lavoratore
studente, prevedono che il lavoratore sia in gravi condizioni di salute (art 8 commi da 3 a 5), cioè affetto da patologie
oncologiche o gravi patologie cronico degenerative, oppure lavoratori che non versino in queste condizioni ma
assistono persone che versano in queste gravi situazioni, oppure lavoratori che hanno un figlio di età non superiore ai
13 anni o un figlio portatore di handicap. Col d.lgs. 81/2015 non si prevede più la possibilità che la contrattazione
collettiva individui ulteriori casi in cui il lavoratore può revocare il consenso dato ad una clausola elastica.
ART 8: Trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a parziale e viceversa
in tale articolo confluiscono precedenti disposizioni contenute nel d.lgs. 61/2000. Vi sono delle conferme della
precedente disciplina, che riguardano il fatto che: comma 1) il rifiuto di trasformare il rapporto di lavoro da tempo
pieno a tempo parziale non può costituire giustificato motivo di licenziamento (sia da tempo pieno a parziale che
viceversa); comma 2) per la trasformazione da tempo pieno a parziale è previsto l’accordo tra le parti risultante da atto
scritto.
Altra conferma è contenuta nel comma 8 dell’art 8, ovvero n caso di assunzione a tempo parziale, il datore di lavoro
deve informare tempestivamente il personale già occupato a tempo pieno in unità produttive dello stesso comune e
deve prendere in considerazione le domande di trasformazione in part-time dei dipendenti a tempo pieno.
Per quanto riguarda le differenze con la normativa previgente, quella attuale ne segnala almeno due:
-prima la legge consentiva ai contratti collettivi di individuare criteri applicativi in base ai quali il datore di lavoro
deve prendere in considerazione le domande di trasformazione in part-time;
-non si prevede più che al rapporto di lavoro part-time risultante dalla trasformazione si applica la disciplina del d.lgs.
61/2000, cioè non è più prevista la previsione dei contratti collettivi.
La novità più interessante della nuova disciplina è il fatto che si ampliano le ipotesi del part-time scelto, cioè quello
richiesto dal lavoratore al datore (comma 3). Qualora il problema di salute (patologie oncologiche o patologie cronico
degenerative ingravescenti) riguardi il lavoratore, egli ha diritto alla trasformazione del rapporto da tempo pieno a
part-time e, a richiesta del lavoratore, il rapporto sarà di nuovo trasformato in tempo pieno (la vecchia normativa
prevedeva solo le patologie oncologiche);
comma 7 part-time scelto post maternità: si da la possibilità al lavoratore di richiedere una sola volta, al posto del
congedo parentale o entro i limiti di esso, la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale con una
riduzione dell’orario di lavoro non superiore al 50% e il datore deve procedere alla trasformazione entro 15gg dalla
richiesta (la legge non parla di un vero e proprio diritto, ma dice che il datore alla richiesta deve procedere alla
trasformazione entro un tot di gg). Il fatto che si possa chiedere una sola volta non vuol dire che si possa chiedere per
un solo figlio, ma anche per altri figli nei limiti del congedo ancora spettante.
art 24 d.lgs 80/2015 è il decreto sulla conciliazione, esigenze di cura e di vita e di lavoro. All’art 24 viene
riconosciuto alla lavoratrice vittima di violenza di genere, inserita in percorsi di protezione certificati dai servizi
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sociali, centri antiviolenza o case rifugio, il diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro in part-time verticale o
orizzontale sempre che questo sia possibile a livello organico aziendale.
Vi sono ulteriori ipotesi in cui il lavoratore non può vantare il diritto alla trasformazione, ma può soltanto inoltrare la
richiesta al datore di lavoro e invocare la priorità nella trasformazione del contratto da tempo pieno a parziale (commi
4 e 5 dell’art 8); tali ipotesi sono quelle per cui i figli o i genitori del lavoratore siano affetti da gravi patologie cronico
degenerative ingravescenti.
Comma 4: in caso di patologie oncologiche o gravi patologie cronico degenerative ingravescenti che riguardano il
coniuge, i figli o i genitori del lavoratore oppure la persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa
(legge 104/1992: soggetti che non sono in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita), il
lavoratore ha la priorità nella trasformazione del contratto da full time a part-time. Il lavoratore può chiederlo, ma non
può vantare diritto.
Comma 5: priorità nel caso in cui la richiesta venga fatta e inoltrata da un lavoratore che abbia un figlio convivente di
età non superiore a 13 anni o figlio portatore di handicap ai sensi dell’art 3 comma 3 della L 104/1992.
Comma 6: stabilisce una sorta di diritto di precedenza nella trasformazione da part-time a full time; prima avevamo un
diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo pieno per espletamento delle stesse mansioni o di mansioni equivalenti
a quelle oggetto del rapporto di lavoro part-time; poiché è stata modificata la disciplina sulle mansioni, non parliamo
più di mansioni equivalenti e dello stello livello, ma parliamo di mansioni riconducibili alla medesima categoria legale
o a pari livello. Perciò nella disciplina vigente si parla di diritto di precedenza nelle assunzioni con contratto a tempo
pieno per espletamento delle stesse mansioni o di mansioni di pari livello e categoria legale.
ART 10 SANZIONIà Le sanzioni vanno distinte a seconda delle violazioni.
-cosa succede se si viola la disciplina relativa alla forma e al contenuto del contratto: la forma del contratto part-time è
richiesta soltanto ai fini probatori; se manca la prova sulla stipula del contratto part-time, la normativa previgente
prevedeva che su richiesta del lavoratore potesse essere dichiarata la sussistenza di un rapporto a tempo pieno a partire
dalla data in cui è stata accertata in giudizio la mancanza della scrittura, fermo restando il diritto alle retribuzioni
dovute per le prestazioni rese prima di questa data. Oggi la legge dice che la sussistenza di un rapporto di lavoro a
tempo pieno è dichiarata su domanda (non richiesta) del lavoratore, fermo restando per il periodo precedente alla data
della pronuncia giudiziale, il diritto alla retribuzione e anche ai contribuiti previdenziali dovuti per le prestazioni
effettivamente rese. L’effetto è sostanzialmente lo stesso, ma con la normativa vigente il lavoratore deve fare domanda
sulla sussistenza del contratto a tempo pieno. La domanda richiama l’azione in giudizio. Se, invece, non sono indicate
la durata del part-time o la collocazione temporale della prestazione (quindi c’è una falla nel contenuto del part-time),
su domanda del lavoratore è dichiarata la sussistenza di un rapporto a tempo pieno a partire dalla pronuncia (solo se
nel contratto non è stata dichiarata la durata della prestazione lavorativa). Se si tratta dell’ipotesi in cui è stata omessa
l’indicazione della collocazione temporale della prestazione, allora la legge affida al giudice il compito di determinare
le modalità temporali di svolgimento della prestazione. Il giudice opererà tenendo conto delle responsabilità familiari
del lavoratore, delle sue esigenze di integrazione reddituale e delle esigenze del datore di lavoro (normativa vigente); i
parametri a disposizione del giudice sono di natura esclusiva, cioè non possono essere integrati dal giudice. Nella
normativa previgente il giudice faceva affidamento ai contratti collettivi ed in mancanza di essi provvedeva a definire
la collocazione temporale omessa in quel contratto con una valutazione basata su parametri equitativi. In entrambi i
casi il lavoratore ha diritto alle retribuzioni dovute e anche ad un’ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno,
commisurata dal giudice.
Lezione del 11/03/2021
-cosa succede se si violano le clausole elastiche: la disciplina è contenuta nel comma 3 dell’art 10. Non ci sono grosse
novità rispetto al regime previgente. Se vengono violate le clausole elastiche il lavoratore avrà diritto, in aggiunta alla
retribuzione dovuta, ad un ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno. Il regime previgente prevedeva un
riferimento più specifico, aveva natura più analitica. (art 11 contiene la disciplina previdenziale che però non
trattiamo).
SENTENZA CASSAZIONE 12502/2020: la distribuzione dell’orario della prestazione con riferimento al giorno, alla
settimana, al mese e all’anno integra il nucleo del contratto di lavoro a tempo parziale e la ragion d’essere della
particolare garanzia costituita dalla forma scritta preordinata ad evitare che il datore di lavoro, avvalendosi della
carente o generica pattuizione sull’orario, possa modificarlo a suo piacimento ai fini di indebita pressione sul

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lavoratore, conseguendo la nullità del contratto di lavoro part-time che non rechi l’indicazione scritta della
distribuzione dell’orario della prestazione e l’esclusione dal beneficio contributivo legato al ricorso al part-time. Alla
garanzia della forma scritta non può sopperire nemmeno la preventiva pattuizione dell’orario giornaliero evinta dal
contesto organizzativo della società, non potendo darsene evidenza della conoscibilità e consapevolezza del lavoratore
di un peculiare contesto organizzativo.
SENTENZA (giurisprudenza di merito, tribunale di Chieti) 12/04/2018 n 141: riguarda la trasformazione del contratto
da tempo pieno a tempo parziale e diritto o meno del lavoratore a richiedere la trasformazione.

LAVORO INTERMITTENTE: prima della Riforma Biagi del mercato del lavoro nel 2003 la flessibilità esisteva nel
nostro ordinamento giuridico, ma questi contratti flessibili, per quanto derogatori alle caratteristiche del contratto a
orario pieno e tempo indeterminato, erano sempre riconducibili ad un modello tradizionale, ad un prototipo di
riferimento come sancito ex art 2094 cc (che definisce il prestatore di lavoro subordinato). Le deroghe non erano così
radicali. La Riforma Biagi (d.lgs. 276/2003) fu preceduta da un documento programmatico, ovvero il “libro bianco sul
mercato del lavoro” che fu presentato nell’ottobre del 2001. Sulla base di questo libro fu redatto un disegno di legge
delega, la n 30/2003 con cui si autorizzava il governo a riformare, con uno o più decreti legislativi, punti cruciali di
disciplina del diritto del lavoro. Sulla base della delega fu emanato un unico decreto legislativo, il 276/2003.
Tale Riforma ha introdotto delle tipologie contrattuali che prima non esistevano, il lavoro intermittente (a chiamata,
job on call) e il lavoro ripartito (job sharing). Il lavoro ripartito è stato abolito dal Jobs Act di Renzi del 2015.
Queste tipologie erano molto innovative perché introducevano delle novità rilevanti dal punto di vista della flessibilità
dell’utilizzo della forza lavoro.
Il lavoro intermittente legalizzava una fattispecie di impiego in cui, l’oggetto del contratto del lavoratore prevedeva
non lo svolgimento di una prestazione di lavoro, ma la messa a disposizione di energie lavorative in favore di un
datore di lavoro; tale energia diventa esecuzione di prestazione di lavoro nel momento in cui il lavoratore risponde alla
chiamata del datore di lavoro.
Per quanto riguarda il contratto di lavoro ripartito, il legislatore diceva che si poteva stipulare un contratto di lavoro
subordinato tra un datore di lavoro e due lavoratori che condividevano una medesima prestazione di lavoro e per
l’esecuzione della quale si obbligavano solidamente.
Si rinviava molto alla contrattazione collettiva e individuale.
Il lavoro ripartito era affidato quasi esclusivamente alla disciplina dei contratti collettivi, che però non hanno accolto
l’invito del legislatore a disciplinarlo dato che se ne è fatto un uso quasi inesistente, ecco perché è stato abrogato.
Il lavoro intermittente è disciplinato oggi dal d.lgs. 81/2015 agli artt. 13-18.
Dopo la Riforma Biagi, il lavoro intermittente fu poi abrogato nel 2007 con la L 247/2007 dal governo Prodi sulla
base di un protocollo con le parti sociali (Protocollo sul Welfare), nel periodo in cui si accusava la Riforma di
precarizzare l’esperienza lavorativa dei lavoratori e di aver creato un vero “supermarket” di lavoratori.
Questa legge del 2007 per il lavoro a termine introduceva il tetto massimo dei 36 mesi e la possibilità di superarlo
dinanzi alla direzione territoriale del lavoro, quindi poneva un margine all’abuso della reiterazione dei contratti a
termine. Abrogò poi il lavoro intermittente, cioè le norme della Riforma Biagi (33-40) furono abolite, seppur con la
salvaguardia di alcuni settori (turismo e pubblici esercizi). Il governo Prodi cadde e si insediò nel 2008 Berlusconi; il
governo Berlusconi varò il d.lgs. 112/2008, convertito in L 133/2008 (manovra d’estate) con cui modificò di nuovo la
normativa del contratto di lavoro a termine, eliminando il tetto dei 36 mesi, ma abilitando anche l’ordinaria attività del
datore di lavoro a rientrare nelle esigenze di carattere tecnico, organizzativo, sostitutivo e produttivo; abilita i contratti
collettivi nazionali e decentrati a modificare la disciplina. Reintroduce il contratto di lavoro intermittente (abrogazione
dell’abrogazione).

La finalità del lavoro intermittente era quella di consentire un adattamento alla realtà, di disciplinare un modo di
lavorare che comunque già esisteva.
L’art 13 del d.lgs. 81/2015 definisce il contratto di lavoro intermittente: “il contratto di lavoro intermittente è un
contratto in cui l’elemento flessibilità è collegato alla discontinuità della prestazione”, quindi non si è legati alla
scadenza del termine. Quasi sempre il contratto di lavoro intermittente è a tempo determinato, ma non lo deve essere
necessariamente.

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È un contratto attraverso il quale il lavoratore si pone a disposizione del datore di lavoro che ne può utilizzare la
prestazione lavorativa in modo discontinuo (intermittente) secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi,
anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati nell’arco della settimana, del
mese o dell’anno. Se non c’è intervento dei contratti collettivi, i casi di utilizzo del contratto di lavoro intermittente
vengono individuati con un decreto del Ministro del Lavoro. In ogni caso la contrattazione collettiva non può vietare il
ricorso al lavoro intermittente (sentenza cassazione 29423/2019).
Il contratto di lavoro intermittente si può concludere con soggetti aventi età inferiore a 24 (purché le prestazioni siano
svolte entro il 25esimo anno) e con soggetti aventi più di 55 anni.
Si può stipulare un contratto di lavoro intermittente in cui non è richiesta l’età a fronte di esigenze di carattere di
discontinuità e intermittenza individuate dai contratti collettivi; si può poi stipulare un contratto di lavoro intermittente
con soggetti giovani (meno di 24 anni con prestazioni rese entro i 25) o con soggetti con più di 55 anni di età. Tale
dicotomia va fatta perché quando fu introdotto nel 2003, il lavoro intermittente guardava all’inserimento nel mondo
del lavoro di soggetti inoccupati (in cerca di prima occupazione) o soggetti usciti dal mercato del lavoro che non
riescono più ad entrarvi.
Se si stipula un contratto di lavoro intermittente devono ricorrere delle esigenze di carattere discontinuo o
intermittente (requisiti oggettivi) sulla base di quanto previsto dai contratti colletti, ma se si stipula un contratto di
lavoro intermittente con lavoratori aventi meno di 24 anni o più di 55 anni (requisiti soggettivi) la legge non richiede
che sussistano queste esigenze. Tali requisiti sono alternativi, non cumulativi.
In passato (Riforma Biagi) si distinguevano due tipologie di contratto di lavoro intermittente:
1) con obbligo di risposta alla chiamata;
2) senza obbligo di risposta alla chiamata.
Il lavoratore, nei periodi in cui non lavora, ha diritto alla corresponsione da parte del datore della cosiddetta “indennità
di disponibilità” stabilita dal decreto del Ministro del Lavoro o dai contratti collettivi, che compensava la messa a
disposizione dell’energia per lavorare e garantiva (più che da un punto di vista retributivo, previdenziale) il lavoratore
nei periodi in cui non lavorava. Questa indennità spettava soltanto ai lavoratori che avevano firmato un contratto di
lavoro intermittente con obbligo di risposta alla chiamata.
Il decreto 81/2015 non dice più così chiaramente che il contratto di lavoro intermittente può essere di due tipologie,
ma si può dire che questa distinzione esiste ancora perché al comma 4 dell’art 13 stabilisce che nei periodi in cui non
viene utilizzata la prestazione il lavoratore non matura alcun trattamento economico e normativo, salvo che abbia
garantito al datore di lavoro la propria disponibilità a rispondere alle chiamate. In quel caso gli spetta l’indennità di cui
all’art 16.
Tutto ciò che stiamo dicendo sul lavoro intermittente non si applica alle Pubbliche Amministrazioni.
Possiamo parlare di contratto di lavoro subordinato, seppur flessibile, soltanto per quanto riguarda il contratto di
lavoro con obbligo di risposta alla chiamata. Senza obbligo di risposta non si può definire contratto di lavoro
subordinato, ma lavoro autonomo che ha ad oggetto una pluralità di prestazioni occasionali (secondo il pensiero
dell’autrice del capitolo del libro, la Prof Lunardon). C’è una seria difficoltà a definire il contratto di lavoro
intermittente senza obbligo di risposta alla chiamata come contratto di lavoro subordinato perché non c’è lo scambio
tipico previsto dalla subordinazione. Mentre il contratto di lavoro intermittente con obbligo di risposta alla chiamata si
può definire un contratto di lavoro subordinato con prestazione discontinua.

Lezione del 12/03/2021


La disciplina del d.lgs. 81/2015 per quanto riguarda il lavoro intermittente ha dei profili di debolezza di cui ha avuto
modo di occuparsi la giurisprudenza.
L'indennità di disponibilità nasce col Pacchetto Treu del 1997 che quando introdusse il lavoro interinale, offriva la
fornitura di manodopera temporanea anche a tempo indeterminato (ipotesi residuale) e prevedeva, laddove il
lavoratore venisse assunto con contratto interinale a tempo indeterminato la corresponsione di un’indennità di
disponibilità nei periodi di non lavoro. Il lavoro interinale può essere definito lavoro intermittente con dissociazione
della figura datoriale.
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Vedi SENTENZA CASSAZIONE 11/12/2020 n 28345: si riferisce alla disciplina del d.lgs. 276/2003. Tale sentenza
dice che il d.lgs. 276/2003 all’art 34, nella versione modificata dalla legge del 2012, prevede che il contratto di lavoro
intermittente può essere concluso con soggetti con più di 55 anni e meno di 24 anni, fermo restando che le prestazioni
contrattuali devono essere svolte entro il 25esimo anno di età. Tale requisito anagrafico concorre, con gli altri di
natura oggettiva, ad individuare il campo di applicazione della disciplina del lavoro intermittente in quanto costituisce
un presupposto per la stipulazione del contratto. La mancanza di tale requisito, stante la sua rilevanza, determina la
nullità del negozio per contrasto con norme imperative di legge.

Accanto ai requisiti oggettivi e soggettivi, c’è anche un requisito temporale nell’art 13. Tale requisito non c’era nella
disciplina originaria, ma è stato introdotto dalla Riforma Letta nel 2013 (d.lgs. 76/2013) in chiave anti-fraudolenta
perché a seguito dell’emanazione della Riforma Biagi si faceva, specie in alcuni settori, un forte ricorso al lavoro
intermittente, ma senza limiti di tempo. Il requisito temporale è stato trasposto nel comma 3 dell’art 13 e riguarda il
lavoro intermittente con delle eccezioni: sono esclusi i settori dove il requisito temporale non ha ragione di esistere,
quindi il turismo, i pubblici esercizi e lo spettacolo. Fatta eccezione per questi tre settori, il lavoro intermittente è
ammesso per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro per un periodo complessivamente non superiore a
400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di 3 anni solari. Ciò è stato trasposto anche nella disciplina vigente. La
violazione del requisito temporale è l’unico caso in cui la legge si esprime con una sanzione. Se viene superato il
requisito temporale, il rapporto di lavoro si trasforma in tempo pieno e indeterminato, indipendentemente se prima già
fosse a tempo indeterminato, ma sicuramente non è più un rapporto di lavoro a prestazioni discontinue.
In passato, alla luce della Riforma Biagi, si dubitava se i contratti collettivi potessero individuare anche i periodi
predeterminati entro cui potessero essere svolte le prestazioni di lavoro; ora questo è un problema che si considera
risolto perché l’art 13 dice “anche con riferimento alla possibilità di svolgere le prestazioni in periodi predeterminati”.
Quindi c’è un rinvio in toto alla contrattazione collettiva, che ha la competenza esclusiva nell’individuare le esigenze
discontinue e i particolari periodi dell’anno che giustificano il ricorso al lavoro intermittente. Se non c’è la
contrattazione collettiva interviene il Ministero del Lavoro.
DIVIETI: sono gli stessi del lavoro a termine.
Per quanto riguarda i requisiti formali, questi sono contenuti nell’art 15: anche il contratto di lavoro intermittente
deve essere stipulato in forma scritta perché è una tipologia flessibile. La forma scritta, così come per il part-time,
anche per il lavoro intermittente è richiesta ad probationem.
Nel contratto di lavoro intermittente, ex art 15, deve essere indicata la durata del contratto, le ipotesi soggettive ed
oggettive che consentono la stipulazione del contratto, luogo e modalità della disponibilità eventualmente garantita dal
lavoratore e relativo preavviso di chiamata del lavoratore che non può essere inferiore ad 1 gg lavorativo. Deve essere
indicato nel contratto anche il trattamento economico e normativo, la relativa indennità di disponibilità (se prevista), le
forme e le modalità con cui il datore è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro, le modalità di
rilevazione della prestazione, tempi e modalità di pagamento della retribuzione e della relativa indennità di
disponibilità e le misure di sicurezza necessarie in base al tipo di attività. La legge non dice cosa succede se si
commette una violazione dell'obbligo della forma scritta o se ci dovesse essere una violazione del contenuto
obbligatorio.
Tra gli elementi obbligatori del contratto viene riproposta (in quanto introdotta dalla Riforma Fornero) la
comunicazione obbligatoria di tipo amministrativo che il datore di lavoro deve effettuare alla direzione territoriale del
lavoro (oggi si parla di Ispettorato Territoriale del Lavoro) mediante messaggio o altri modi prima dell’inizio della
prestazione lavorativa o di un ciclo integrato di prestazioni di durata non superiore a 30 gg. La legge prevede sanzioni
di natura amministrativa pecuniaria da 400€ a 2400€ per ciascun lavoratore per cui è stata omessa la comunicazione.
Sono da tenere in considerazione gli orientamenti giurisprudenziali nel caso in cui ci siano state violazioni su altri
profili. Il silenzio della legge crea una serie di problemi interpretativi.
-Prima proposta interpretativa: ritenere, in caso di mancata indicazione nel contratto dell’intermittenza delle
prestazioni, che la nullità della clausola relativa all’intermittenza delle prestazioni determini la nullità dell’intero
contratto. Il lavoratore resta senza lavoro, quindi non c’è la conservazione del posto, quindi il lavoratore potrebbe
invocare l’art 2126 cc, cioè ottenere il riconoscimento degli effetti del contratto limitatamente al periodo in cui ha
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avuto esecuzione, quindi la retribuzione per le prestazioni effettivamente rese; (questa ipotesi lascia priva di tutela
significativa il lavoratore);
-Seconda proposta interpretativa: in caso di violazione dei requisiti formali del contratto di lavoro intermittente, nel
silenzio della legge spetterebbe al giudice del lavoro (chiamato a deliberare in una controversia) accertare la natura del
contratto tenendo conto delle modalità concrete con cui il rapporto si è svolto.
La disciplina in materia è scarsa ed eterogenea, per questo si ricorre alla giurisprudenza ed in particolare ad alcune
sentenze. Secondo alcune sentenze di merito, sulla base dell’insufficienza di documentazione a dimostrare la
sussistenza degli elementi essenziali del contratto di lavoro intermittente (quindi assenza della forma scritta) e dopo
aver verificato le modalità di concreto svolgimento (possono ricorrere gli indici della subordinazione), alcuni giudici
hanno riconosciuto la sussistenza di un contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato. (sentenza del
tribunale di Trento del 2013 e del tribunale di Firenze del 2012, un'altra sentenza del tribunale di Monza riconobbe
solo un risarcimento al lavoratore).
La trasformazione del contratto da intermittente a tempo pieno e indeterminato potrebbe rivelarsi insoddisfacente per
il lavoratore ed anche di difficile applicazione perché il contratto intermittente potrebbe essere ab origine a tempo
indeterminato. La trasformazione può risultare incongrua per lo stesso lavoratore in quanto egli potrebbe avere
interesse a svolgere una prestazione ridotta, quindi non desidera avere un contratto di lavoro a tempo pieno e
indeterminato. Ecco perché citiamo un’altra sentenza di merito del Tribunale di Firenze del 2011 la quale, una volta
riconosciuta come pacifica la natura subordinata del rapporto, non ha convertito quel contratto di lavoro intermittente
in orario pieno, ma ha dichiarato la trasformazione in rapporto di lavoro subordinato, ma part-time proprio perché c’è
quella discontinuità della prestazione. Tale sentenza è stata oggetto di uno studio della dottrina, che gli fornisce
credito.
La distinzione tra contratto di lavoro intermittente a tempo indeterminato o indeterminato rileva ai fini della disciplina
dell’impugnativa. Non abbiamo nella legge una previsione specifica sul termine di decadenza. Anche in questo caso ci
sono vari orientamenti, cioè ritenere che il lavoratore intermittente abbia dinanzi a sé un orizzonte temporale più
ampio se ha stipulato quel contratto di lavoro intermittente a tempo determinato, cioè addirittura 180gg+180gg. Ma se
il lavoratore intermittente fosse a tempo indeterminato non lo dovrei qualificare come lavoratore a termine e dovrei
ritenere che il tempo a disposizione è inferiore, cioè 60gg+180gg. Non è però detto che siamo autorizzati a definire il
lavoratore intermittente a tempo determinato come lavoratore a termine perché qualcuno osserva che l’estensione del
termine di impugnativa vale soltanto per il contratto a termine. Se sono un lavoratore intermittente a termine non
beneficio di quell’estensione, per me vale sempre 60gg+180gg, quindi è opportuno che questo termine si riferisca
anche a un lavoratore intermittente a tempo indeterminato.
(+sentenze pubblicate su teams, da stampare).
L'indennità di disponibilità, quando fu introdotta si discuteva se avesse natura contributiva o previdenziale (più la
seconda); è un importo prefissato definito dai contratti collettivi ed in ogni caso non può essere inferiore all’importo
stabilito con decreto ministeriale (circa 700-800€). Se il lavoratore si rifiuta ingiustificatamente di rispondere alla
chiamata può essere licenziato per giustificato motivo (comma 5) e può comportare la restituzione delle quote di
indennità di disponibilità riferite al periodo successivo al rifiuto. Anche in caso di malattia o di altro evento che renda
impossibile temporaneamente al lavoratore di rispondere alla chiamata, deve informare tempestivamente il datore di
lavoro specificando la durata dell’impedimento, durante il quale non matura l’indennità di disponibilità. Se il
lavoratore non informa tempestivamente il datore perde il diritto all’indennità per un periodo di 15 gg salvo diversa
previsione del contratto individuale. Il rifiuto alla chiamata può costituire motivo di licenziamento.
PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE: il lavoratore intermittente non deve subire un trattamento economico e
normativo meno favorevole rispetto al lavoratore a lui comparabile (di pari livello) per i periodi lavorati a pari
mansioni svolte.
COMPUTO: se assumo dei lavoratori intermittenti, li computerò ai fini del numero di dipendenti dell’organico
aziendale, in proporzione all’orario effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre (art 18).
(+sentenza dei file su teams)

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Lezione 18/03/2021

SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO: artt. 30-40 del d.lgs. 81/2015, come modificata dal Decreto Dignità nel 2018
(ha modificato la somministrazione di lavoro a tempo determinato).
La somministrazione di lavoro è la tipologia contrattuale più flessibile attualmente esistente nell’ordinamento
giuridico italiano; viene introdotta col d.lgs. 276/2003 agli artt. 20-28 (Riforma Biagi), disciplina che è stata più volte
modificata. La somministrazione di lavoro era una tipologia di lavoro già esistente prima del 2003, ma in quell’anno
nacque dalle ceneri di una tipologia di lavoro (che la Riforma Biagi abrogava), introdotta col Pacchetto Treu (che
introduceva il lavoro interinale, anche chiamato lavoro temporaneo tramite agenzia, con cui si legalizzava una
fattispecie che chiama in causa non solo due soggetti, ma tre soggetti; si assiste per la prima volta alla dissociazione
della figura datoriale: il datore non assume il lavoratore, ma lo utilizza in quanto era assunto dall’agenzia interinale).
La Riforma Biagi abroga il lavoro interinale ad anche due leggi: la legge sul monopolio pubblico del collocamento (L
264/1949) e la legge sul divieto di interposizione nei rapporti di lavoro (L 1369/1960).
La legge sul monopolio pubblico del collocamento stabiliva che le occasioni di incontro tra domanda e offerta di
lavoro, cioè l’attività di mediazione potesse essere svolta soltanto dal sistema pubblico, quindi c’era l’istituto del
collocamento articolato sul territorio. La legge sul divieto di interposizione nei rapporti di lavoro (intermediazione: c’è
un terzo soggetto che mette in contatto un potenziale datore con un potenziale lavoratore), onde evitare che un datore
di lavoro potesse sottrarsi all’applicazione della disciplina connessa all’assunzione con un contratto di lavoro regolare
stabile utilizzando il contratto di “appalto”, sanzionava (anche penalmente) l’appalto di mere prestazioni di lavoro,
cioè quell’appalto non genuino posto in essere che aveva ad oggetto il semplice svolgimento di mansioni di lavoro; si
cercava di evitare che un datore di lavoro facesse risultare i suoi dipendenti formalmente dipendenti di qualcun’altro. I
soggetti erano il committente e l’appaltatore, oltre che naturalmente i lavoratori. Il fenomeno negli anni è diventato
sempre più fraudolento, basti pensare alle catene di appalti che furono attuati (l’appaltatore subappalta). La legge del
’60 non trascurava la circostanza fattuale che potessero sussistere dei contratti di appalto realizzati in modo regolare,
lecito (art 3: appalti interni, cioè inerenti al ciclo produttivo di quell’impresa; poi vi erano degli appalti ugualmente
considerati leciti, presi in considerazione dall’art 5). Oltre la sanzione penale, c’era anche quella civilistica
dell’imputazione a tutti gli effetti dei rapporti di lavoro dei dipendenti dell’appaltatore in capo al committente. Nel
caso degli appalti leciti si prevedeva un meccanismo di responsabilità solidale tra committente e appaltatore per la
corresponsione di quanto dovuto ai lavoratori.
L’abrogazione si ebbe solo nel 2003, ma queste leggi erano state già profondamente modificate; proprio il 1997 è stato
un anno importante in cui vengono emanate due leggi che incidono su queste due leggi: il Pacchetto Treu di giugno e
un decreto di dicembre, il d.lgs. 469/1997 che abilitava le agenzie private di mediazione a fare quello che fino ad
allora faceva solo il collocamento pubblico, al fine di migliorare il sistema di collocamento attraverso una
cooperazione tra pubblico e privato (che doveva essere autorizzato dal Ministero del Lavoro) breccia nel divieto di
interposizione. Con il lavoro interinale, le agenzie assumevano i lavoratori che venivano mandati in missione presso
uno o più soggetti utilizzatori; quindi, il lavoratore lavora sotto la direzione dell’utilizzatore, ma non è suo dipendente
in quanto è assunto dall’agenzia. C’è quindi una relazione tra tre soggetti: agenzia (prima interinale, poi chiamata dal
2003 di somministrazione), soggetto utilizzatore (il datore di lavoro che ha bisogno di lavoro), poi i lavoratori
temporanei (oggi detti “somministrati”). Come si fa a mettere in collegamento questi soggetti? L’agenzia assume il
lavoratore con contratto di lavoro, ma l’agenzia prima di assumere un lavoratore, deve aver stipulato un con
l’utilizzatore, che però non è un contratto di lavoro, bensì commerciale. Questo contratto commerciale, con la legge
Treu si chiamava contratto per la fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo; nella Riforma Biagi e nel d.lgs.
81/2015 si chiama contratto di somministrazione. Sulla base di quanto indicato dal contratto commerciale, l’agenzia
assumerà i lavoratori, li pagherà, gli verserà i contributi. Poi abbiamo un rapporto di lavoro che si viene ad instaurare
tra lavoratore e soggetto utilizzatore, in quanto il lavoratore verrà poi mandato in missione ed inserito in un
determinato contesto produttivo.
Il costo del lavoro grava sempre sull’utilizzatore: egli dovrà rimborsare all’agenzia i costi effettivamente sostenuti per
l’utilizzo di quei lavoratori.

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La disciplina del lavoro interinale era ancorata all’eccezionalità, alla temporaneità, cioè questa deroga al divieto di
interposizione nei rapporti di lavoro era affidato a delle ipotesi collegate appunto alla temporaneità e all’eccezionalità.
Un utilizzatore poteva avere lavoratori senza assumerli quando ricorrevano delle ipotesi previste dai contratti collettivi
e quando c’erano delle esigenze di carattere temporaneo, eccezionale oltre alla sostituzione dei lavoratori assenti.
Quindi si puntava alla flessibilità, ma mantenendo comunque delle garanzie. Si prevedeva anche la possibilità che il
lavoratore potesse essere assunto dall’agenzia o a termine o a tempo indeterminato (era una grossa novità). In genere
la durata del contratto a termine dei lavoratori con l’agenzia coincideva con la durata della missione del lavoratore
presso l’utilizzatore. Se il datore di lavoro formale (cioè l’agenzia) assumeva il lavoratore con contratto a tempo
indeterminato, il lavoratore si metteva a disposizione dell’agenzia in attesa di essere inviato in missione presso uno o
più utilizzatori, quindi di fatto c’erano dei periodi di lavoro e periodi di non lavoro. Nasceva quindi l’indennità di
disponibilità per i periodi di non lavoro. Era raro che il lavoratore venisse assunto a tempo indeterminato.
La dissociazione della figura datoriale nel lavoro interinale (ancora attuata nella somministrazione) determinava anche
una disarticolazione dei poteri del datore di lavoro [potere direttivo, di controllo, disciplinare, oltre che titolare del
potere di recesso e del potere di modificare le mansioni (ius variandi) e dell’obbligo di sicurezza].
Quando abbiamo un datore di lavoro che assume ed uno che utilizza, i l potere direttivo e il potere di controllo
spettano all’utilizzatore, mentre il potere disciplinare viene suddiviso tra datore formale e sostanziale. Il titolare del
potere disciplinare è l’agenzia, che esercita tale potere sulla base delle comunicazioni effettuate dall’utilizzatore. Lo
ius variandi è dell’utilizzatore che può modificare le mansioni sulla base di adattamenti della prestazione al contesto
lavorativo, nel rispetto della normativa di legge e con comunicazione all’agenzia che deve compilare l’inquadramento
e la busta paga del lavoratore. L’obbligo di sicurezza è a carico dell’utilizzatore in quanto il lavoratore presta lavoro
nell’interesse del datore sostanziale.
Perché la Riforma Biagi abroga il lavoro interinale? Perché nel suo tentativo ambizioso di riforma del mercato del
lavoro, vuole sistemare tutto il quadro normativo del lavoro decentrato, sempre nell’ottica di assecondare le esigenze
di flessibilità delle imprese; introduce una disciplina normativa del distacco e modifica la disciplina del trasferimento
d’azienda. Sostituisce il lavoro interinale (che ha una disciplina più garantista) con la somministrazione che diventa
quasi una modalità nelle mani degli utilizzatori per avere manodopera a tempo indeterminato fornita dall’agenzia, in
quanto si legalizzano due tipi di somministrazione:
a termine;
a tempo indeterminato: staff leasing (attività a tempo indeterminato).
Mentre nel lavoro interinale era il rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore che poteva essere a termine o
indeterminato, nella somministrazione diventa a tempo indeterminato l’attività di somministrazione, cioè quando si
stipula il contratto commerciale tra agenzia e utilizzatore, questo può avere ad oggetto o la somministrazione a termine
o la somministrazione a tempo indeterminato, tant’è che la legge prevede requisiti diversi per l’agenzia che si vuole
autorizzare come agenzia a tempo determinato e agenzia che si vuole autorizzare come agenzia che dà
somministrazione a tempo indeterminato.
Ancora oggi abbiamo questi due tipi di somministrazione (art 31 d.lgs. 81/2015).
Nella Riforma Biagi del 2003 era diversa la disciplina, prevedeva delle causali: la somministrazione di lavoro a tempo
determinato era lecita se ricorrevano le ragioni per le quali si poteva fare un contratto a termine (quelle del d.lgs.
368/2001), cioè a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, sostitutivo o produttivo; queste ragioni
diventeranno, con l’intervento del governo Berlusconi del 2008, ragioni riferibili anche all’ordinaria attività
dell’utilizzatore.
La somministrazione a tempo indeterminato si poteva fare al ricorrere di una serie di ipotesi tassative indicate dalla
legge (art 20 comma 3), tassative però relativamente in quanto la legge diceva che tali ipotesi potevano essere anche
ampliate dalla contrattazione collettiva non solo nazionale, ma anche territoriale o aziendale; queste ipotesi sono:
servizi di consulenza e assistenza nel settore informatico, servizi di pulizia, custodia, portineria, servizi da e per lo
stabilimento di trasporto di persone, trasporto e movimentazione di macchinari e merci, gestione di biblioteche,
parchi, musei, archivi, magazzini, attività di consulenza direzionale, gestione del personale, attività di marketing,
analisi di mercato, gestione dei call center etc.
Col tempo si è avuta la a-causalità con il d.lgs. 81/2015 per entrambi i contratti di somministrazione e così è stato fino
al Decreto Dignità (le cui modifiche riguardano solo la somministrazione a tempo determinato).
La somministrazione a tempo indeterminato fu considerata un vero e proprio colpo basso per la tutela dei lavoratori,
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perché si trattava il lavoratore come una merce, un fattore della produzione, per giunta a tempo indeterminato. Lo
scarso ricorso ad essa porta il legislatore nel 2007 (L 247/2007, governo Prodi) ad abolire la somministrazione a
tempo indeterminato, cioè lo staff leasing, mentre non toccò la somministrazione a tempo determinato.
Nel 2008 il governo Berlusconi reintroduce il lavoro intermittente, ma nel 2009 con una legge finanziaria del 2010 (L
191/2009) il governo Berlusconi reintroduce la somministrazione a tempo indeterminato, aumentando le causali
introdotte dai contratti collettivi aziendali.
C’è stato poi il d.lgs. 24/2012 (precedente alla Riforma Fornero) con cui si è data attuazione a una direttiva sul lavoro
temporaneo tramite agenzia, introducendo per la prima volta una forma di somministrazione a-causale, attenzione, non
di tipo generale, ma vincolata al possesso da parte del lavoratore di determinati requisiti, cioè soggetti svantaggiati,
che non sono entrati nel mercato del lavoro, che sono a rischio di esclusione da esso.
Nel 2015 è stato introdotto l’obbligo, per la somministrazione a tempo indeterminato, di assumere i lavoratori con
contratto a tempo indeterminato, cioè l’agenzia ha l’obbligo di assumere i lavoratori a tempo indeterminato. Non era
così prima.

Lezione 19/03/2021
Col d.lgs. 81/2015, in perfetta analogia con quanto avviene per il contratto a termine, si liberalizza la
somministrazione a tempo determinato e anche quella a tempo indeterminato (però con dei limiti nelle garanzie).
Bisogna sempre distinguere l’attività di somministrazione (quindi quello per cui l’agenzia si è autorizzata) dal
contratto di lavoro che l’agenzia stipulerà con ciascun lavoratore.
Quando parliamo di somministrazione a tempo determinato o indeterminato, ci stiamo riferendo alla fornitura
professionale di manodopera da parte dell’agenzia, cioè vuol dire che il contratto commerciale che l’agenzia stipula
con l’utilizzatore sarà a termine o a tempo indeterminato perché l’agenzia ha ottenuto l’autorizzazione o a svolgere
l’una o l’altra tipologia di somministrazione.
Quando ci riferiamo delle tipologie di contratto di lavoro, diciamo che l’agenzia può assumere il lavoratore o con un
contratto di lavoro subordinato a termine o con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; quando
assume il lavoratore a tempo indeterminato, egli sarà un lavoratore dell’agenzia anche se poi lavorerà in periodo
intermittente in quanto ci saranno periodi di lavoro e di non lavoro e proprio perché è dipendente dell’agenzia, per i
periodi di non lavoro gli verrà corrisposta un’indennità di disponibilità che compensa la messa a disposizione del
lavoratore in attesa di essere inviato in missione presso uno o più utilizzatori.
Nel d.lgs. 81/2015 c’è un tentativo di far chiarezza rispetto al d.lgs. 276/2003:
art 30: il contratto di somministrazione di lavoro è il contratto a tempo indeterminato o determinato con il quale
un’agenzia di somministrazione autorizzata mette a disposizione di un’utilizzatore uno o più lavoratori suoi
dipendenti.
art 34: parla della disciplina dei rapporti di lavoro e dice chiaramente al comma 1 che in caso di assunzione a tempo
indeterminato, il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetta alla disciplina prevista per il rapporto
di lavoro a tempo indeterminato. Al comma 2 (ante Decreto Dignità) si afferma che in caso di assunzione a tempo
determinato il rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo 3° (disciplina
del lavoro a termine) per quanto compatibile, con l’esclusione della disciplina di alcuni articoli.
Quando nel 2007 fu abolita la somministrazione a tempo indeterminato con la L 247/2007 (si aboliva lo staff leasing
previsto dalla Riforma Biagi) qualcuno scrisse che era stata abolita la possibilità per l’agenzia di assumere con
contratto di lavoro a tempo indeterminato. In realtà era un’interpretazione errata perché quella che veniva abolita era
l’attività di somministrazione a tempo indeterminato, ma restava in piedi la possibilità che l’agenzia potesse assumere
il lavoratore con contratto a tempo indeterminato. Sono rare le ipotesi in cui l’agenzia si abilita a fare
somministrazione a tempo determinato e poi assume a tempo indeterminato (ma mai dire mai perché solo le missioni
ad essere a tempo determinato).
Disciplina della somministrazione a tempo indeterminato (staff leasing):
con il d.lgs. 81/2015 viene liberalizzata, spariscono le condizioni di liceità, però la legge prevede comunque dei limiti
che sono ancora in essere in quanto la somministrazione a tempo indeterminato non è stata intaccata dal Decreto
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Dignità.
Quando parliamo dei limiti della somministrazione a tempo indeterminato, in genere se ne contano due che fanno da
contrappeso alla liberalizzazione della somministrazione a tempo indeterminato:
- un obbligo clausola di contingentamento, art 31 comma 1: salvo diversa previsione dei contratti collettivi applicati
dall’utilizzatore, il numero di lavoratori somministrati con contratto di somministrazione a tempo indeterminato non
può superare il 20% (percentuale legale, che può essere modificata dai contratti collettivi) dei lavoratori a tempo
indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipula del presente contratto (la disciplina è
uguale a quella del contingentamento del contratto a tempo determinato); art 31 comma 1: possono essere
somministrati a tempo indeterminato esclusivamente i lavoratori assunti dal somministratore a tempo indeterminato.
Quindi avremo coincidenza della durata della somministrazione e del rapporto di lavoro. Non era previsto dalla
disciplina previgente. È ancora così perché la disciplina del Decreto Dignità non ha toccato la disciplina;
-un divieto assoluto art 31 comma 4: è vietato per le pubbliche amministrazioni di fare ricorso alla
somministrazione a tempo indeterminato, fermo quanto disposto dall’art 36 del d.lgs. 165/2001 che è il testo unico sul
pubblico impiego (possono fare ricorso alla somministrazione a termine, ma non a tempo indeterminato, osservando i
limiti per esse previste).
Per quanto riguarda la clausola di contingentamento, l’art 38 sulla somministrazione irregolare ci dice che nei casi
della violazione della disciplina di cui all’art 31, qualora la somministrazione avvenga al di fuori dei limiti e delle
condizioni di cui all’art 31 comma 1, il lavoratore può rivolgersi al giudice e chiedere la costituzione di un rapporto di
lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore con effetto dall’inizio della somministrazione. Tecnicamente non si ha una
trasformazione del contratto, perché cambia proprio il datore di lavoro. Tendenzialmente il giudice, nell’imputare il
rapporto di lavoro in capo all’utilizzatore, ricostituirà un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Nel lavoro a termine, invece, sforare la clausola di contingentamento comporta soltanto sanzioni amministrative, ma
mai la conversione.
art 34 comma 1: in caso di assunzione a tempo indeterminato, quel rapporto di lavoro tra agenzia e lavoratore è
soggetto alla disciplina prevista per il rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Nel contratto di lavoro, dato che è a
tempo indeterminato, deve essere indicata l’indennità mensile di disponibilità, la cui misura è indicata dal contratto
collettivo applicato dal somministratore ed in ogni caso non può essere inferiore all’importo fissato dal decreto del
ministro del lavoro.
Disciplina della somministrazione a tempo determinato (vecchio comma 2 art 31 d.lgs.81/2015):
il comma 2 è stato riscritto dal Decreto Dignità; il comma 2 dell’art 31 si limitava a dire che la somministrazione di
lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi indicati dai contratti collettivi applicati dall’utilizzatore.
Anche qui non era prevista alcuna causalità.
La legge prevedeva anche delle esclusioni, cioè dei casi in cui non era richiesto il rispetto dei limiti quantitativi e
questo riguardava i lavoratori che erano stati messi in mobilità, i soggetti disoccupati che godevano dei trattamenti di
disoccupazione, lavoratori svantaggiati.
L’art 31 definisce le caratteristiche della somministrazione o a tempo determinato o indeterminato; l’art 34 definisce i
rapporti di lavoro che sono connessi a quell’attività di somministrazione.
L’art 31 prevedeva e prevede tutt’ora un obbligo di informativa da parte dell’utilizzatore dei posti vacanti, cioè
informare i lavoratori somministrati dei posti che si sono resi disponibili mettendo un avviso per incentivare e dare
loro la possibilità di ottenere un inserimento stabile.
La legge (d.lgs. 81/2015) dice che in caso di assunzione a tempo determinato, il rapporto di lavoro tra somministratore
e lavoratore è soggetto alla disciplina del capo terzo per quanto compatibile, quindi si applica la disciplina del lavoro a
termine alla somministrazione a termine, ma sempre fatto salvo un giudizio di compatibilità che potrebbe anche
escludere l’applicazione di alcuni punti della disciplina.
Cos’è che non si applicava alla somministrazione a tempo determinato:
-comma 1 art 19 d.lgs. 81/2015:la durata massima dei 36 mesi, cioè in caso di assunzione a tempo determinato questo
rapporto può anche andare oltre; c’era l’assenza di durata massima, ma un po’ di tutela veniva prevista dalla
contrattazione collettiva che tendenzialmente non prevedeva il superamento di 48 mesi;
-comma 2 art 19: la possibilità di fissare una durata non superiore a 36 mesi (che diventano 24 col Decreto Dignità); il

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limite dei mesi scatta nel momento in cui si utilizza un mix di lavoro, cioè usa sia lavoro in somministrazione sia altro
tipo;
-art 21: proroghe e rinnovi,
-art 23: norma sul numero complessivo dei contratti a tempo determinato,
-art 24: norma sui diritti di precedenza.
Due aspetti di disciplina contenuti nel d.lgs. 81/2015 che non sono stati modificati riguardano i divieti e la forma del
contratto di somministrazione. I divieti sono quelli che abbiamo visto per il lavoro a termine e il lavoro intermittente
(art 32). L’art 33 riguarda i requisiti di forma del contratto di somministrazione (cioè quello di natura commerciale).
La legge richiede la forma scritta e richiede anche una serie di elementi (estremi dell’autorizzazione rilasciata dal
somministratore, il numero dei lavoratori da somministrare, indicazione di eventuali rischi per la salute e sicurezza del
lavorator e le misure adottate, data di inizio e durata prevista della somministrazione, mansioni alle quali saranno
adibiti i lavoratori e l’inquadramento dei medesimi, il luogo, l’orario di lavoro e trattamento economico e normativo).
Non precisa se la forma scritta è prevista ai fini probatori o a pena di nullità anche perché stiamo parlando di un
contratto di natura commerciale.
Cosa succede se il contratto commerciale viene stipulato in violazione della disciplina prevista: è l’ipotesi in cui la
legge parla di somministrazione nulla (non irregolare, proprio nulla); prima la Riforma Biagi aveva una norma la
definiva somministrazione nulla/fraudolenta/irregolare e faceva una differenza di mancanza di forma scritta e di
mancanza di alcuni degli elementi obbligatori del contratto. Oggi il d.lgs. 81/2015 ha una norma che si chiama
somministrazione irregolare (art 38) che contiene al suo interno anche la somministrazione nulla.
Art 38 comma 1: in mancanza di forma scritta il contratto di somministrazione di lavoro è nullo e i lavoratori sono
considerati a tutti gli effetti dipendenti dell’utilizzatori. Dobbiamo precisare che stiamo parlando della nullità del
contratto commerciale, quindi tra agenzia somministratrice e utilizzatore.

Lezione del 22/03/2021

Modifiche apportate dal Decreto Dignità alla somministrazione a tempo determinato:


per effetto di tale decreto, si è avuta una stretta sul ricorso dei contratti a tempo determinato, che è andata nella
direzione di reintrodurre la causalità; tale decreto ha modificato anche la somministrazione a tempo determinato. La
critica mossa a questo decreto sono stati i mezzi e le misure utilizzate per raggiungere questo obiettivo.
Era già previsto che alla somministrazione a termine si applicasse la normativa sul contratto a tempo determinato
“salvo un giudizio di compatibilità e fatte salve alcune norme del d.lgs. 81/2015”.
Il Decreto Dignità interviene sull’art 34 comma 2 che viene riscritto: “in caso di assunzione a tempo determinato il
rapporto di lavoro tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina di cui al capo terzo del d.lgs. 81/2015”,
ma le uniche disposizioni che vengono escluse sono:
-art 21 comma 2: periodi di stop and go tra un contratto e l’altro;
-art 23: numero complessivo di contratti a tempo determinato;
-art 24: diritto di precedenza.
A differenza del precedente regime, del contratto a temine si applica il comma 1 e il comma 01dell’art 21 introdotto
dal DD e si applica integralmente l’art 19, cioè quello sull’apposizione del termine e sulla durata massima.
Sostanzialmente, seppur l’obiettivo era ridurre la precarietà, si assiste a un’eccessiva assimilazione della
somministrazione a tempo determinato alla disciplina del contratto a termineper effetto del DD abbiamo
l’applicazione di molta parte della disciplina sul contratto a termine alla somministrazione a tempo determinato: nel
caso in cui tra l’agenzia di somministrazione e il lavoratore a tempo determinato si stipuli un contratto a tempo
determinato, esso dovrà essere stipulato nel rispetto del nuovo art 19 del d.lgs. 81/2015 come modificato dal DD. Il
contratto a termine potrà essere a-causale ma solo per i primi 12 mesi, oltre i quali si potrà stipulare un contratto a
termine fino ad un massimo di 24 mesi (per esigenze temporanee ed oggettive ed estranee all’ordinaria attività,
esigenze di sostituzione di altri lavoratori o esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non
programmabili dell’attività ordinaria) e dovrà essere indicata la causale. La durata massima di 24 mesi (12 a-causali e
12 causali) deve essere calcolata sempre guardando ai rapporti di lavoro a tempo determinato che sono intercorsi tra lo
stesso datore (agenzia) e lo stesso lavoratore, quindi devono essere rapporti in cui c’è un’identità soggettiva e anche

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un’identità oggettiva, cioè rapporti di lavoro conclusi per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria legale
indipendentemente dai periodi di interruzione tra un contratto e l’altro.
Ci fu un’importante circolare del Ministero del Lavoro del 31/10/2018 che precisava che il rispetto del limite massimo
dei 24 mesi va valutato riferendosi non soltanto al rapporto di lavoro che il lavoratore ha avuto con l’agenzia, ma
anche ai rapporti di lavoro con il singolo utilizzatore (sempre con riferimento di mansioni di pari livello e categoria
legale, perché se cambia l’utilizzatore e le mansioni siamo fuori dal computo dei 24 mesi).
Una volta superati i 24 mesi non sarà più possibile ricorrere ai contratti a tempo determinato, ma neanche alla
somministrazione a termine, a meno che il somministratore non assuma a tempo indeterminato. Sono previste delle
deroghe da parte della contrattazione collettiva, che può prevedere una durata diversa rispetto al limite massimo dei 24
mesi. Nel caso della somministrazione ciò è avvenuto perché si è avuto un contratto collettivo delle agenzie di
somministrazione successivo al DD che ha stabilito che a far data dal 1° gennaio del 2019 si dovesse rispettare il
limite della durata massima dei contratti a termine tra agenzia e lavoratore. Questo contratto collettivo ha fissato la
durata massima distinguendo due ipotesi:
1) se si tratta di somministrazione col medesimo utilizzatore la durata massima sarà individuata dal contratto collettivo
applicato da lui, se tale contratto collettivo non prevede nessuna durata, allora si applicherà la durata massima prevista
dalla legge;
2) se si tratta di somministrazione che chiama in causa differenti utilizzatori, la durata massima sarà pari a 48 mesi.
Questa era la circolare n 4/2019 di ASSO lavoro (associazione sindacale delle agenzie di somministrazione).
Si applica, come nella precedente normativa, anche la disciplina per le proroghe e rinnovi. Per le proroghe,
nell’ambito della somministrazione, avevamo una disciplina diversa comma 2 art 34: il termine inizialmente
apposto al contratto di lavoro può essere prorogato con il consenso del lavoratore e per atto scritto, nei casi e per la
durata previsti dal contratto collettivo applicato dal somministratore. Il contratto collettivo delle agenzie di
somministrazione ha stabilito che le proroghe possono essere massimo 6 in caso di durata massima pari a 24 mesi
oppure 8 proroghe se abbiamo un limite diverso di durata massima individuato dal contratto collettivo applicato
dall’utilizzatore. Si applica anche la disciplina sui rinnovi, ovvero il contratto potrà essere rinnovato soltanto se
ricorrono quelle condizioni di causalità previste dall’art 19 comma 1, in quanto il rinnovo è sempre e comunque
causale indipendentemente dalla durata del contratto rinnovato.
Il DD è stato convertito in legge (L 96/2018), con la quale è stata fatta un’importante precisazione: è stata inserita una
norma di interpretazione autentica art 2 comma 1 ter del DD si precisa che le causali dell’art 19 comma 1 del
d.lgs.81/2015, nel caso di ricorso al contratto di somministrazione di lavoro, si applicano esclusivamente
all’utilizzatore. Vuol dire che se la somministrazione a termine dura per un periodo superiore a 12 mesi presso lo
stesso utilizzatore, il contratto di lavoro che il somministratore va a fare con il lavoratore dovrà essere causale, ma la
causale dovrà essere riferita alle esigenze dell’utilizzatore. Non sono cumulabili i periodi svolti presso diversi
utilizzatori.
Il Ministero del Lavoro ha precisato che l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di
lavoro a termine sorge non solo quando i periodi sono riferiti allo stesso utilizzatore per una missione di durata
superiore a 12 mesi, ma anche quando l’utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto a termine con il
medesimo lavoratore per mansioni di pari livello e categoria legale (circolare 9/2018 di ASSO lavoro). Viene
precisato che una missione presso lo stesso utilizzatore, successiva a un precedente rapporto a termine anche se di
durata inferiore a 12 mesi richiederebbe l’indicazione di una causale perché si tratterebbe di un rinnovo. Sarà richiesta
la causale se abbiamo una missione di durata non superiore a 12 mesi e poi dopo viene assunto dall’utilizzatore con un
contratto a termine per un’ulteriore durata massima di 12 mesi, cioè bisogna sempre tenere conto di questa
commistione tra contratto a termine e somministrazione a termine ai fini della causale.
Norma sulla percentuale art 31 comma2: modifica la percentuale per quanto riguarda la clausola di
contingentamento, perché prima delle modifiche del DD, la percentuale fissata dalla legge era del 20% che però
poteva essere modificata dai contratti collettivi dell’utilizzatore. L’art 31 comma 2 stabilisce che la somministrazione
di lavoro a tempo determinato è utilizzata nei limiti quantitativi individuata nei contratti collettivi applicati
dall’utilizzatore, e sono previste delle eccezioni, cioè dei casi in cui non si deve tenere conto di limiti quantitativi
(lavoratori svantaggiati, lavoratori licenziati). Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi applicati
dall’utilizzatore e fermo restando il limite disposto dall’art 23 (20% per il contratto a termine), il numero dei lavoratori
assunti con contratto a tempo determinato (cioè con somministrazione a tempo determinato) non può eccedere
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complessivamente il 30% dei lavoratori a tempo determinato in forza presso l’utilizzatore. Vengono confermate le
eccezioni, cioè i casi in cui non si deve tener conto del limite quantitativo. La novità è che nel caso in cui ci sia
contemporaneamente sia il ricorso al lavoro a termine sia alla somministrazione a termine l’utilizzatore non potrà
avere più del 30% (sempre salvo diversa disposizione dei contratti collettivi) di lavoratori a termine e somministrati a
termine rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato.
Sono nulle le cause volte ad impedire l’assunzione diretta da parte dell’utilizzatore al termine di una o più missioni
(art 35 comma 8). Non va ostacolata la possibilità che l’utilizzatore assuma il lavoratore, fatta salva l’ipotesi in cui al
lavoratore venga corrisposta un’adeguata indennità secondo quanto stabilito da contratto collettivo applicato dal
somministratore; la legge non lo esclude, anzi auspica un tale risvolto.
Nella legge sul lavoro interinale (L 196/1997) c’era una sanzione molto forte per il mancato rispetto del divieto di
ricevere compensi da parte del lavoratore; al lavoratore non potevano essere chiesti soldi per essere inserito nella
banca dati o fare il colloquio, pena la perdita dell’autorizzazione che l’agenzia aveva ottenuto dal Ministero. Con la
Riforma Biagi si poteva derogare a questo divieto laddove si trattasse di servizi e mansioni di particolare
professionalità.
Quando fu introdotta la somministrazione di lavoro con la Riforma Biagi, la somministrazione non conforme alla
legge era divisa in tre tipologie:
 somministrazione nulla: la somministrazione è nulla quando viene violata la forma scritta del contratto
commerciale di somministrazione di lavoro e la conseguenza è che i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle
dipendenze dell’utilizzatore;
 somministrazione irregolare: quando viene posta in essere al di fuori delle condizioni e dei limiti previsti dalla
legge (clausola di contingentamento, violazione dei divieti) ed in questi casi il lavoratore può chiedere la costituzione
del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore;
 somministrazione fraudolenta: si ha quando la somministrazione non è conforme alla legge e l’aggravante è che si
tratta di una somministrazione posta in essere con la volontà di eludere norme inderogabili di legge o di contratto
collettivo (era prevista dalla Riforma Biagi all’art 28). In aggiunta alle sanzioni vi sono anche delle ammende che
dovevano essere pagate, cioè delle sanzioni penali costituite dall’ammenda di 20€ per ciascun lavoratore coinvolto e
per ciascun giorno di somministrazione. La somministrazione fraudolenta era stata eliminata dal d.lgs. 81/2015, ma è
stata reintrodotta dal DD (art 38 bis del d.lgs. 81/2015 introdotto dal DD).

Lezione del 25/03/2021

L’intervento del DD è stata una scelta precisa di intervenire, rinviando in maniera generalizzata alla disciplina prevista
per il contratto a tempo determinato al solo contratto stipulato tra agenzia e lavoratore. La lacuna più significativa di
questo intervento del legislatore riguarda il contenuto del contratto di somministrazione (di natura commerciale):
nell’art 33 non c’è nessun riferimento alla necessità di prevedere tra gli elementi del contratto tra somministratore ed
utilizzatore le causali giustificati quando sono obbligatorie.
Art 38 somministrazione irregolare: non viene modificato dal DD, non c’è riferimento all’utilizzatore nel caso in cui,
in violazione delle causali, il lavoratore decida di chiedere al giudice l’imputazione del rapporto di lavoro a termine in
capo all’utilizzatore (“trasformazione”). Quindi si vede una estraneità della figura dell’utilizzatore, che non solo non è
tenuto ad indicare le ragioni giustificatrici in sede di stipulazione del contratto di somministrazione con l’agenzia, ma
non è neanche coinvolto nelle conseguenze sanzionatore per la violazione della normativa sotto il profilo del contrasto
a modalità illegittime e sull’uso della somministrazione temporanea. La norma può essere forzata e si può coinvolgere
l’utilizzatore nelle conseguenze sanzionatorie.

Sotto il profilo sanzionatorio ci si trova al cospetto di due differenti regimi quando parliamo di contratti a termine
posti in essere con sforamento del limite quantitativo previsto dalla legge: il DD ha modificato l’art 31 comma 1 ed
oggi sappiamo che c’è una clausola di contingentamento che prevede che il numero utilizzabile di lavoratori
somministrati a termine al pari di quelli assunti con contratto a tempo determinato non può superare il limite di
contingentamento del 30% (percentuale riferita sia al contratto di lavoro a termine che alla somministrazione a
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termine). Il superamento del tetto massimo determina due conseguenze sanzionatorie diverse: per il contratto a tempo
determinato abbiamo una violazione punita con una sola sanzione amministrativa che prevede delle maggiorazioni
retributive da corrispondere, mentre per il contratto di somministrazione a tempo indeterminato è prevista la
costituzione di un rapporto a tempo indeterminato presso l’utilizzatore. Ciò determina quasi una disparità di
trattamento.
La somministrazione è irregolare nel caso di superamento del tetto massimo di contingentamento.
Cosa deve fare il lavoratore somministrato che vuole far valere uno o più profili di violazione della normativa?
Come per il contratto a termine c’è un’azione di decadenza; per effetto del collegato lavoro (L 183/2010) è stato
introdotto, ed è ancora così, un termine di decadenza per l’azione del lavoratore. La normativa del collegato lavoro la
leggiamo nel d.lgs. 81/2015 Art 39 decadenza e tutele: avevamo il termine 60gg+270gg diventato 60gg+180gg,
con la Legge Fornero fu aumentato in 120gg+180gg per il solo contratti a termine, anche se avvenuti nell’ambito della
somministrazione (era un’interpretazione perché il testo normativo parlava solo di contratto a termine). Col DD per il
contratto a termine il termine di impugnativa è 180gg+180gg. Il d.lgs. 81/2015 ha risolto il problema, perché in
materia di decadenza e tutele dice che si applicano le disposizioni dell’art 6 della L 604/1966 e quindi nel caso in cui il
lavoratore chieda la costituzione del rapporto di lavoro con l’utilizzatore ai sensi dell’art 38 comma 2, trovano
applicazione le disposizioni dell’art 6 della L 64/1966 e quindi i termini che sono stati modificati dal collegato lavoro
sono 60gg+180gg. Il termine di 60gg decorre dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività
presso l’utilizzatore.
Laddove il lavoratore impugni nei confronti dell’utilizzatore, si applica l’art 39; laddove il lavoratore impugni la
somministrazione chiamando in causa l’agenzia di somministrazione, tenuto conto del richiamo contenuto nell’art 34
comma 2 (il rapporto tra somministratore e lavoratore è soggetto alla disciplina del contratto a tempo determinato)
allora si dovrebbe applicare la disciplina dell’impugnazione prevista per il contratto a tempo determinato, quindi il
lavoratore avrebbe a disposizione 180gg+180gg (questa è un’interpretazione, non è contenuta nella legge).
Cosa succede quando il giudice accoglie la domanda del lavoratore? L’effetto più interessante è l’imputazione del
rapporto in capo all’utilizzatore, tendenzialmente a tempo indeterminato. Inoltre, il giudice condannerà il datore di
lavoro al risarcimento del danno in favore del lavoratore e stabilirà la corresponsione di un’indennità risarcitoria
omnicomprensiva di importo compreso tra un minimo di 2.5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione di
riferimento per il calcolo del TFR. Prenderà la sua decisione sulla base di una serie di criteri contenuti nella legge dei
licenziamenti, cioè l’art 8 della L 604/1966, come l’anzianità di servizio, il numero di dipendenti, il comportamento
delle parti in sede di giudizio ecc. Vi sono poi ulteriori sanzioni della legge, di carattere amministrativo che riguardano
altri divieti (somministratore non in possesso dell’autorizzazione, violazione dell’obbligo di informativa da parte del
somministratore).
CONTRATTO DI APPRENDISTATO: disciplina contenuta nel d.lgs.81/2015 agli artt. 41-47.
Qualcuno non lo ritiene neanche più una tipologia di lavoro subordinato flessibile e viene definito un “contratto di
lavoro subordinato a causa mista”; qui la deroga non è tanto nelle caratteristiche di esecuzione della prestazione,
ma la peculiarità è lo scambio che viene tra lavoro da un lato e dall’altro retribuzione e formazione. Ciò che
caratterizza l’apprendistato è la finalità formativa. Non è necessariamente un contratto di lavoro a termine, in passato
si, ma a partire da interventi normativi più recenti, il contratto di apprendistato è stato definito come contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche se al suo interno incorpora un periodo formativo che è
necessariamente a termine.
Non è una tipologia nuova, non nasce col d.lgs. 81/2015, ma è una fattispecie di impiego generalmente riservata ai
giovani che, come dice la parola, dovrebbe essere finalizzata a far conseguire all’apprendista (il soggetto che viene
assunto con questa tipologia) una qualifica al termine del periodo previsto nel contratto.
Da richiamare sono gli artt. 2130, 2134 del Codice Civile che disciplinano il tirocinio e per i quali si prevede che operi
in ogni caso la disciplina tipica del lavoro subordinato in quanto compatibile con la specialità del rapporto. Nell’art
2132 cc è disposto che l’imprenditore deve permettere che l’apprendista frequenti i corsi per la formazione
professionale e deve destinarlo soltanto ai lavori attinenti alla specialità professionale cui si riferisce il tirocinio.
Abbiamo avuto in materia di contratti con finalità formativa una produzione normativa molto rilevante; si è poi
arrivati ad un punto di non ritorno in cui il legislator disciplina, modifica, incentiva anche attraverso una consistente
riduzione contributiva e, ciò nonostante, si è assistito a uno scarso ricorso al contratto di apprendistato.

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L 25/1955 “legge sulla disciplina dell’apprendistato”; altri interventi normativi tra cui la L 863/1984 (la stessa che
conteneva la disciplina sul part-time) che introduceva il contratto di formazione e lavoro, che era una tipologia
contrattuale che voleva modernizzare il vecchio apprendistato, che prevedeva l’assunzione agevolata di un giovane
che veniva assunto con un limite di età che è stato via via elevato. Spesso questo contratto di formazione e lavoro è
diventata una tipologia contrattuale assolutamente priva della finalità formativa, era un contratto in cui si realizzava la
finalità occupazionale di alcuni giovani, ma non la formazione, che non veniva coltivata e non era certificata e
neanche conseguita. Ecco perché questi contratti di formazione e lavoro erano contratti a termine che i giovani
speravano venissero convertiti in contratti a tempo determinato.
La L 451/1994 sdoppiava il contratto di formazione e lavoro e lo distingueva in contratto di inserimento al lavoro e
quello finalizzato all’acquisizione di professionalità intermedie o elevate.
L 58/1987, che aveva alleggerito il ricorso al contratto a termine abilitando la contrattazione collettiva ad introdurre
nuove ipotesi.
Si è avuta una Sentenza della Corte di Giustizia che ha dichiarato illegittima la normativa sui contratti di formazioni e
lavoro, vietata dalla normativa sulla concorrenza, qualificando quegli incentivi contributivi nei confronti del datore di
lavoro come aiuti di stato vietati ai sensi del Trattato UE. L’INPS ha poi intentato delle cause per la restituzione di
quei contributi che non erano stati versati.
La Riforma Biagi del mercato del lavoro, nel risistemare le tipologie contrattuali, aveva introdotto una riforma
organica del contratto di apprendistato, pur mantenendo in vigore alcuni aspetti della legge del ’55.
Introduceva per la prima volta una riforma di tutti i contratti con finalità formativa; aboliva il contratto di formazione
e lavoro che comunque non veniva più usato, aboliva la L 451/1994 e introduceva due tipologie con finalità formative
che erano il contratto di inserimento professionale e il contratto di apprendistato ridisegnato e articolato in tre
tipologie che chiamavano in causa anche le Regioni per il decollo della disciplina sulla base del Titolo V della
Costituzione (che assegnava alle regioni delle competenze in materia di formazione professionale).
Il contratto di apprendistato è stato più volte modificato con una particolare attenzione del legislatore.
Dopo la Riforma Biagi c’è stato il d.lgs. 167/2011 (il cosiddetto Testo Unico del contratto di apprendistato, che va
ad abrogare quasi tutta la disciplina preesistente), poi altre riforme del 2012, 2013, la L 78/2014 si è occupata anche
del contratto di apprendistato e poi si arriva a questa disciplina contenuta negli artt. 41-47 del d.lgs. 81/2015.
Nel TU del 2011 si dice a chiaramente che il contratto di apprendistato è un contratto di lavoro a tempo indeterminato
finalizzato alla formazione e all’occupazione dei giovani. Tale affermazione è contenuta nell’art 41 comma 1 del d.lgs.
81/2015.
Dalla disciplina del 2011 a quella del 2015 non avviene proprio una modifica radicale del contratto di apprendistato,
però nella risistemazione della normativa c’è un’ulteriore riscrittura.
Attualmente abbiamo tre tipologie di apprendistato che nascono nella Riforma Biagi e poi trasposte nel d.lgs. 81/2015
all’art 41 comma 2:
apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, il diploma di istruzione secondaria superiore e il certificato
di specializzazione e tecnica superiore (nella Riforma Biagi era quello che si definiva alternanza scuola-lavoro) anche
detto apprendistato di 1° livello (art 43);
apprendistato professionalizzante che occupa una posizione centrale ed è più utilizzato (art 44);
apprendistato di alta formazione e ricerca (art 45).
Per lungo tempo il contratto di apprendistato era riservato agli adolescenti e ai minori, infatti la legge del ’55 stabiliva
che potessero essere assunti come apprendisti giovani di età non inferiore a 15 anni e non superiore ai 20. Poi il
contratto di apprendistato è stato riferito anche i giovani ma in via eccezionale, poi dal 2003 quasi sempre e solo
giovani, infatti ci riferiamo a soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni. L’apprendistato professionalizzante era
anche stipulabile a 17 anni se l’apprendista era in possesso di una qualifica professionale.
L’apprendistato è attualmente l’unico rapporto di lavoro in cui è esplicitamente prevista la possibilità di stipulazione
per i minori. Per sottoscrivere un valido contratto di apprendistato deve ricorrere un requisito di età del prestatore.
Da un punto di vista generale il Tu del 2011 ha avuto un impatto molto importante perché si va ad abolire la normativa
previgente e si stabilisce che la disciplina del contratto di apprendistato sia rimessa alla contrattazione collettiva nel
rispetto di principi stabiliti dalla legge. Questa previsione molto importante cambia un po’ col d.lgs. 81/2015: molti
istituti (come la forma di stipulazione, la durata minima di risoluzione del rapporto) per i quali il d.lgs. 167/2011
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rinviava alla contrattazione collettiva, vengono oggi regolati direttamente dalla legge (primi 4 commi dell’art 42).
Lezione del 26/03/2021

La Riforma Biagi, successiva alla Riforma del Titolo V parte seconda della Costituzione, è una legge che interviene
dopo che era stato definito l’assetto delle competenze tra centro e periferia; infatti, la RB tiene conto di ciò
nell’organizzazione del mercato del lavoro.
La RB rinviava la regolamentazione dei profili formativi alle regioni, seppur di intesa con i ministeri interessati
(ministero del lavoro e dell’istruzione); le regioni erano competenti a definire i profili formativi dei contratti di
apprendistato nel rispetto di alcuni principi e criteri direttivi fissati dalla legge; le regioni sono state particolarmente
latitanti e in ritardo nel definire questa disciplina, specie per l’apprendistato professionalizzante.
Già nel 2005 si interviene nuovamente per via normativa con la L 80/2005, che introduce un nuovo comma, il 5bis
dell’art 49 della RB: per superare lo stallo dovuto all’inerzia di alcune regioni, si dava la possibilità di regolamentare i
profili normati alla contrattazione collettiva. Successivamente ci sono stati ulteriori interventi, ad esempio la L
133/2008 (governo Berlusconi) con cui si andavano a modificare di nuovo alcuni profili di disciplina del contratto di
apprendistato, attribuendo integralmente la competenza a disciplinare i profili normativi ai contratti collettivi di lavoro
stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale da sindacati comparativamente più rappresentativi sul piano
nazionale e anche agli enti bilaterali (costituiti nell’ambito di sigle sindacali) escludendo qualsiasi coinvolgimento
delle regioni e delle province. C’è stata un’importante Sentenza della Corte costituzionale, la n 50/2005 che aveva
ricondotto la formazione aziendale dell’apprendistato nella materia dell’ordinamento civile, e quindi di competenza
statale esclusivamente; è stata molto importante perché con questa sentenza si è avuta la conferma della legittimità
delle norme contenute nel d.lgs. 276/2003 e invece viene affermata l’illegittimità di quanto era previsto nell’art 60 del
d.lgs. 276/2003 e cioè la norma sui tirocini estivi e di orientamento perché secondo la corte questi non costituiscono
un rapporto di lavoro (perché non c’è contratto) e devono essere rimandati alla competenza regionale.
C’è un’altra sentenza della CC del 2010: le regioni fecero ricorso perché ritenevano che ci fosse stata un’inversione
delle loro competenze, ma la Corte afferma soltanto una illegittimità parziale. La pronuncia della CC n 176/2010 è
quella con cui la corte ha respinto i ricorsi verso le modifiche relative all’apprendistato specializzante (di alto livello),
ed ha accolto parzialmente le censure relative all’apprendistato professionalizzante; con questa sentenza si lascia
immodificata la possibilità di ricorrere alla formazione esclusivamente aziendale, però ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo quanto previsto dalla riforma del 2008 che prevedeva la formazione aziendale ed
esterna prevedendo competenze diverse che tenevano fuori la regione. La contrattazione collettiva può intervenire in
materia, ma nel rispetto di quanto previsto dalla normativa regionale e nazionale esistente.
Il TU del 2011 viene emanato dopo che era stato sottoscritto un accordo tra governo, regioni, province autonome e
parti sociali per il rilancio dell’apprendistato (accordo del 27/10/2010, firmato anche dalla CGIL).
Art 46 comma 1 del d.lgs. 81/2015: norma sullo standard professionale e formativo di certificazione delle
competenze, si coinvolge anche il ministero dell’economia con decreto del ministro del lavoro, con concerto del
ministro dell’istruzione e dell’economia, sono definiti gli standard formativi dell’apprendistato che costituiscono i
livelli essenziali delle prestazioni.
L’art 42 del d.lgs.81/2015 si chiama “disciplina generale” e quindi è riferita a tutte e tre le tipologie di apprendistato.

Questo articolo al comma 5 dichiara che, salvo quanto disposto dai commi 1-4 (requisiti di forma scritta ai fini
probatori, durata, le disposizioni in materia di recesso dal contratto di apprendistato), la disciplina del contratto di
apprendistato è rimessa ad accordi interconfederali oppure ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle
associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. La funzione dell’accordo
interfederale è quello di dettare indicazioni per la contrattazione collettiva nazionale. Il contratto collettivo decentrato
(territoriale ed aziendale) è escluso dal definire la disciplina dell’apprendistato. Qualcuno potrebbe sostenere che si
possa intervenire con il “contratto collettivo di prossimità”, cioè un’intesa territoriale o aziendale sottoscritta ai sensi
dell’art 8 della L 148/2011 (manovra di Ferragosto); fu la prima volta che per legge si dava la possibilità a contratti
collettivi territoriali o aziendali di introdurre un trattamento in deroga anche peggiorativo rispetto a quanto stabilito dal
contratto collettivo nazionale o anche a quanto previsto dalla legge.
Quindi è vero che la legge non rinvia al contratto collettivo aziendale, ma si potrebbe immaginare che possa
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intervenire un contratto collettivo di prossimità in materia di contratto di apprendistato? La risposta è no perché in
realtà se andiamo a vedere l’elenco delle materie su cui un contratto collettivo di prossimità può intervenire, non è
menzionato esplicitamente il contratto di apprendistato.
Cosa succede se il contratto collettivo non interviene affatto? Dalla mancata definizione da parte del contratto
collettivo dovrebbe conseguire che la nuova disciplina contenuta nel d.lgs. 81/2015 non trovi applicazione e quindi si
dovrebbe applicare quanto previsto dal TU del 2011. Vi sono dei vincoli che la contrattazione collettiva deve
rispettare, che hanno diverse caratteristiche ed intensità; si potrebbe ritenere che alcuni principi operino anche se non
c’è la contrattazione collettiva.
Vi sono dei profili che vincolano la contrattazione collettiva, quindi dei principi (comma 5 art 42) che deve
rispettare necessariamente nel definire la disciplina del contratto di apprendistato; il primo principio che deve essere
rispettato dalla contrattazione collettiva è il divieto della retribuzione a cottimo perché sarebbe incoerente misurare la
prestazione di lavoro di un lavoratore alle prime armi; un altro principio che il contratto collettivo deve rispettare è la
possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto a quello spettante ai lavoratori addetti a
mansioni che richiedono quelle qualifiche corrispondenti a quelle a cui è finalizzato il contratto, oppure in alternativa
possono definire la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale e proporzionata all’anzianità di servizio.
Il d.lgs. 81/2015 rimette alla contrattazione collettiva la scelta tra il meccanismo di inquadrare fino a due livelli
inferiori rispetto a quello spettante oppure stabilire la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale e
proporzionata all’anzianità di servizio (entrambe le modalità consentono di agire sul trattamento retributivo
dell’apprendista).
Un altro principio che i contratti collettivi devono rispettare riguarda la presenza di un tutore o un referente aziendale
(risale al Pacchetto Treu); possibilità di finanziare i percorsi formativi aziendali degli apprendisti attraverso fondi
paritetici interprofessionali, la possibilità del riconoscimento, sulla base dei risultati conseguiti nel percorso di
formazione esterno o interno all’impresa, della qualificazione professionale ai fini contrattuali ed anche delle
competenze acquisite ai fini del proseguimento degli studi nonché del percorso di istruzione degli adulti; la
registrazione della formazione effettuata e della qualificazione professionale ai fini contrattuali eventualmente
acquisita nel libretto formativo del cittadino (documento istituito dal d.lgs. 276/2003).
Connesso all’obbligo formativo, il contratto collettivo deve prevedere la possibilità di prolungare il periodo
apprendistato in caso di malattia, infortunio o altra causa di sospensione involontaria del rapporto di durata superiore a
30gg, in quanto potrebbe essere compromessa la finalità formativa; è prevista la possibilità di definire forme e
modalità per la conferma in servizio al termine del percorso formativo al fine di ulteriori assunzioni in apprendistato
(quindi gli apprendistati vanno confermati).

Lezione del 29/03/2021


L’art 42, in parte rimanda alla contrattazione collettiva, in parte disciplina la materia attraverso norme di legge: la
forma scritta è richiesta ai fini della prova ed è eliminato ogni riferimento al patto di prova, quindi la stipulazione del
patto di prova e la predisposizione del piano formativo individuale non costituiscono più requisiti di validità del
contratto di apprendistato. Anche se non è un requisito di validità, il patto di prova può essere ugualmente stipulato e il
piano formativo individuale è contenuto sinteticamente nel contratto. Nel caso specifico dell’apprendistato di primo
livello il piano formativo individuale è predisposto dall’istituzione formativa con il coinvolgimento dell’impresa.
Nel d.lgs. 81/2015 è prevista una durata minima del contratto di apprendistato, riferita a tutte le tipologie di
apprendistato art 42 comma 2: il contratto di apprendistato ha una durata minima non inferiore a 6 mesi, fatto salvo
quanto stabilito dagli artt. 43 comma 8 e 44 comma 5 (eccezioni). La previsione di durata minima del contratto di
apprendistato era stata reinserita dalla Riforma Fornero.
C’è anche una tipologia di apprendistato detto “stagionale”: quando parliamo della durata minima, nella legge c’è un
riferimento all’apprendistato stagionale e si afferma che può avere una durata anche inferiore al termine minimo di 6
mesi previsto dalla legge.
Art 44 comma 5: tratta dei datori di lavoro che svolgono la propria attività in cicli stagionali e, riferendosi soltanto
all’attività stagionale, i contratti collettivi nazionali possono prevedere specifiche modalità di svolgimento del
contratto di apprendistato anche a tempo determinato (è un eccezione, perché in via generale c’è una durata minima
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non inferiore di 6 mesi);
Art 43 comma 8: contratti collettivi (di qualsiasi livello) stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi
sul piano nazionale, possono prevedere specifiche modalità di utilizzo del contratto di apprendistato, sempre per lo
svolgimento di attività stagionali, ma limitatamente alle regioni e province autonome di Trento e Bolzano che abbiano
definito un sistema di alternanza scuola-lavoro.
Per quanto riguarda la risoluzione del rapporto, siamo sempre nell’ambito dell’art 42 (comma 3 e 4).
L’art 42 comma 3 si riferisce al contratto di primo livello e afferma che nel contratto di apprendistato per la qualifica
e il diploma professionale, costituisce giustificato motivo di licenziamento il mancato raggiungimento degli obiettivi
formativi come attestato dall’istituzione formativa.
L’art 42 comma 4 prevede che al termine del periodo di apprendistato le parti possono recedere dal contratto ai sensi
dell’art 2118 cc con un preavviso che decorre dal termine del periodo di apprendistato; durante il periodo di preavviso
si applica la disciplina del contratto di apprendistato; se nessuna delle parte procede al recesso, il rapporto prosegue
come ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Durante il rapporto di apprendistato, l’apprendista è trattato come un ordinario lavoratore a tempo indeterminato,
quindi gode di tutte le tutele di cui gode il lavoratore subordinato a tempo indeterminato; in occasione dell’estinzione
del rapporto di apprendistato, abbiamo una deroga rispetto a quello che riguarda il lavoratore subordinato a tempo
indeterminato: il recesso ex art 2118 cc è il cosiddetto recesso “ad nutum”, cioè senza motivazione ma con preavviso,
e, a partire dalla L 604/1966 (che ha introdotto la disciplina limitativa dei contratti individuali) è un recesso che si può
intimare soltanto in ipotesi residuali. Da quando con la L 604/1966 è stata introdotta la regola generale del giustificato
motivo (soggettivo o oggettivo) a sorreggere il licenziamento affinché esso sia valido, il recesso ad nutum (che non è
stato abolito) è ricondotto a delle ipotesi eccezionali.
Interpretazione del libro: quando si parla di conversione del contratto di apprendistato in contratto a tempo
indeterminato, non è una conversione giudiziale perché se si trattasse di conversione giudiziale non si dovrebbero
applicare le disposizioni del d.lgs.23/2015 (contratto a tutele crescenti), ma si dovrebbe continuare ad applicare la
disciplina precedente.
Il TU del 2011 stabilisce che il contratto di apprendistato è a tempo indeterminato, anche se poi incorpora un periodo
formativo che è necessariamente a termine. Mentre il TU del 2011 introduceva questa ipotesi di recesso senza
motivazione al termine del periodo formativo, il d.lgs. 81/2015 modifica questa previsione, mantenendo l’ipotesi ex
art 2118 cc, ma legittima questo recesso non più al termine del periodo formativo, ma al termine del periodo di
apprendistato. Limitatamente all’apprendistato di primo livello costituisce giustificato motivo di licenziamento il
mancato raggiungimento degli obiettivi formativi, come attestato dall’istituzione formativa.
Il recesso dal contratto di apprendistato stagionale (quindi a tempo determinato) può aversi solo per giusta causa ex art
2119 cc. Il recesso ex art 2118 cc può aversi solo se si tratta di un contratto di apprendistato a tempo indeterminato al
termine del periodo di apprendistato.
Ex art 47 comma 3 d.lgs. 81/2015: fatte salve diverse previsioni di legge o di contratto collettivo, i lavoratori assunti
con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei limiti numerici previsti da legge e contratti collettivi per
l’applicazione di particolari normative ed istituti.
Ex art 42 comma 7: stabilisce che il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere (sia
direttamente che attraverso agenzie di somministrazione) non può superare il rapporto 3:2 rispetto alle maestranze
specializzate e qualificate in servizio presso il medesimo datore di lavoro. Se si tratta di datori di lavoro che hanno un
numero di dipendenti inferiore a 10, il rapporto non può superare il 100% (1:1) per questi datori di lavoro.
Ex art 42 comma 8: ferma restando la possibilità per i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati più
rappresentativi di individuare limiti diversi dal presente comma, soltanto per i datori di lavoro che occupano almeno
50 dipendenti, l’assunzione di nuovi apprendisti con contratto di apprendistato professionalizzante è subordinata alla
prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, questo deve
avvenire nei 36 mesi precedenti la nuova assunzione, ma la prosecuzione di chi? Di almeno il 20% degli apprendisti
dipendenti dallo stesso datore di lavoro. Ciò era già stato introdotto dalla L 78/2014. Se questa percentuale non viene
rispettata, ex 42 comma 8, è in ogni caso consentita l’assunzione di un’apprendista con contratto di apprendistato.
Gli apprendisti assunti in violazione dei limiti previsti dal comma 8 dell’art 42 saranno considerati ordinari lavoratori
subordinati a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.

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Sono esclusi dal computo i rapporti cessati per recesso durante il periodo di prova, di missione o licenziamento per
giusta causa.
Oltre le tre tipiche distinzioni di tipologie di apprendistato, il libro ne considera ulteriori 3: oltre alle tre tipologie base,
si potrebbe aggiungere l’apprendistato connesso a cicli stagionali che, a sua volta, può anche essere riferito a quella
sotto ipotesi specifica nelle province autonome di Trento e Bolzano. Il libro poi richiama un altro apprendistato
professionalizzante che ritroviamo nell’art 47 sulle disposizioni finali; l’art 47 comma 4 dice che ai fini della loro
qualificazione, prevede una particolare ipotesi di apprendistato professionalizzante senza limiti di età per i lavoratori
beneficiari di indennità di mobilità (che è stata soppressa dalla Fornero), quindi oggi diciamo per i lavoratori
beneficiari dei trattamenti di disoccupazioni. Per essi trovano applicazione le disposizioni in materia di licenziamenti
individuali. Per questi lavoratori non si applica la norma che prevede la possibilità di recedere dal contratto ai sensi
dell’art 2118 cc al termine del periodo di apprendistato.
Quali sono i limiti di età per il contratto di apprendistato professionalizzante? L’art 44 stabilisce che possono essere
assunti in tutti i settori di attività pubblici e privati con un contratto di apprendistato professionalizzante i soggetti di
età compresa tra i 18 e i 29 anni. L’apprendistato professionalizzante è volto al conseguimento di una qualificazione
professionale a fini contrattuali; se si tratta di soggetti in possesso di una qualifica professionale, il contratto di
apprendistato professionalizzante può essere stipulato già a partire da 17 anni; si richiama spesso il decreto sul
diritto/dovere di istruzione e formazione. La caratteristica importante è l’aspetto formativo discusso al comma 2
dell’art 44, cioè spetta ancora agli accordi interconfederali e ai contratti collettivi nazionali di lavoro, a seconda del
tipo di qualificazione professionale che deve conseguire l’apprendista, definire la durata e le modalità di erogazione
della formazione per l’acquisizione delle relative competenze tecnico, professionali e specialistiche.
Il numero di ore di formazione è stato notevolmente ridotto; la normativa precedente prevedeva 120 ore all’anno, ora
invece si parla di 120 ore per il triennio (comma 3). La formazione è svolta sotto la responsabilità del datore di lavoro
(formazione interna, aziendale) e deve essere integrata da un’offerta di formazione esterna (quindi pubblica)
finalizzata all’acquisizione di competenze base e trasversali per un monte ore complessivo non superiore a 120 ore per
la durata del triennio.
Sulla durata minima del contratto, la legge rinvia ai contratti collettivi dicendo che la durata del contratto di
apprendistato professionalizzante non potrà essere superiore ai 3 anni, oppure 5 anni per i profili professionali che
caratterizzano la figura dell’artigiano individuati dalla contrattazione collettiva di riferimento (comma 2 art 44).
Quasi tutta la disciplina del contratto di apprendistato professionalizzante è devoluta alla contrattazione collettiva e
quindi questo crea una serie di profili problematici perché non è chiaro chi è che provvede alla definizione di quelli
che sono i profili professionali e le qualifiche che gli apprendisti devono conseguire (in genere provvedono i contratti
collettivi nazionali).
Art 44 comma 1: la qualificazione professionale al cui conseguimento è finalizzato il contratto è determinata dalle
parti sulla base dei profili e qualificazioni professionali previsti per il settore di riferimento e sistemi di inquadramento
del personale di cui ai contratti collettivi nazionali stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi sul
piano nazionale.
L’art 45 riguarda l’apprendistato di alta formazione e di ricerca: tale contratto può essere anch’esso stipulato in tutti i
settori di attività sia privati che pubblici, con soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni; in questo caso però il
lavoratore deve possedere un diploma di istruzione secondaria superiore, ovvero un diploma professionale che ha
conseguito nei periodi di istruzione e formazione professionale. Il contratto deve essere integrato da un certificato di
istruzione e formazione tecnica superiore (diploma di maturità professionale). Prima del d.lgs. 81/2015 questo
contratto di apprendistato si poteva utilizzare anche per conseguire un diploma di istruzione secondaria superiore;
questa previsione è stata eliminata per non creare confusione con l’apprendistato di primo tipo. Questo contratto ha lo
scopo di consentire il conseguimento di titoli di studio universitari di alta formazione (compresi i dottorati di ricerca,
specializzazione tecnica superiore); può essere utilizzato per attività di ricerca e come praticantato per l’accesso alla
libera professione. Si prevede una disciplina della formazione e della durata del contratto che è di competenza delle
Regioni che devono intervenire d’accordo (stipulando un accordo, un protocollo) con le associazioni territoriali dei
datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, con le università, con gli
istituti ecc. (art comma). La formazione esterna all’azienda deve essere svolta nell’istituzione formativa a cui lo
studente è iscritto oppure nei percorsi di istruzione tecnica superiore. C’è un limite massimo a questa formazione, che

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non può essere superiore al 60% dell’orario; c’è un rinvio al contenuto delle ore di formazione, in particolare al
comma 3 la legge stabilisce che per le ore di formazione svolte nell’istituzione formativa il datore di lavoro deve
essere esonerato da ogni obbligo retributivo. Per le ore di formazione a carico del datore di lavoro, deve essere
riconosciuta al lavoratore una retribuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta, salvo diverse previsioni dei
contratti collettivi.

Lezione 08/04/2021

Per quanto riguarda l’apprendistato di primo livello, disciplinato dall’art 43 del d.lgs. 81/2015, questo può essere
utilizzato in tutti i rami di attività del settore privato per assumere giovani che abbiano compiuto i 15 anni età e fino al
compimento di 25 anni. La regola generale di età di accesso al lavoro è di 16 anni, quindi il contratto di apprendistato
di primo livello costituisce una deroga. Questa misura si collega al sistema formativo scolastico e vuole costituire una
misura di contrasto all’abbandono scolastico; è stata anche molto criticata dai sindacati perché secondo alcune sigle
sindacali anziché evitare l’abbandono scolastico ha portato a neutralizzare l’obbligo dell’innalzamento del livello di
istruzione dei giovani. L’obiettivo del contratto di apprendistato di primo livello è consentire l’acquisizione di una
qualifica professionale spendibile sul mercato, o l’acquisizione del diploma professionale. L’apprendistato è una
fattispecie che esiste nella legge, ma che nella pratica è poco usato anche se ci sono forti incentivi sul piano retributivo
e normativo. L’art 43 prevede che l’apprendistato di primo livello possa essere utilizzato anche per la ulteriore
specializzazione professionale del lavoratore; tale previsione si collega ad un’altra in base alla quale contratti di
apprendistato di durata non superiore a 4 anni potranno essere stipulati con i giovani iscritti a partire dal secondo anno
del percorso di istruzione secondaria superiore per l’acquisizione, oltre che del diploma di istruzione secondaria
superiore, anche di ulteriori competenze tecnico-professionali che sono utili anche ai fini del conseguimento del
certificato di specializzazione tecnica superiore. Una novità introdotta nel 2015 prevede la possibilità di utilizzare
questo contratto di apprendistato per conseguire un’ulteriore specializzazione professionale. Dal punto di vista della
durata, la legge pone soltanto un limite massimo di 3 anni per la componente formativa, che possono essere elevati a
quattro nel caso del conseguimento di un diploma professionale quadriennale.
Il profilo formativo è strutturato in modo da coniugare la formazione sul lavoro effettuata in azienda con l’istruzione e
formazione professionale svolta dalle istituzioni formative sulla base dei livelli essenziali delle prestazioni. A
differenza della disciplina precedente si può segnalare questa ulteriore novità della normativa del 2015: si elimina un
inciso presente nella precedente disciplina, che sanciva che l’apprendistato di primo livello poteva essere utilizzato
anche per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione. Oggi invece ci deve essere una stretta connessione tra la
formazione “on the job” in azienda e l’istruzione e formazione professionale svolta dalle istituzioni formative e dagli
enti preposti alla formazione. Al fine di realizzare questo obiettivo la legge stabilisce anche l’obbligo per il datore di
lavoro (che intende assumere con questa tipologia di apprendistato) di sottoscrivere un protocollo con l’istituzione
formativa a cui è iscritto lo studente, che dovrà essere realizzato secondo uno schema definito con decreto del
Ministro del Lavoro, di concerto col ministro dell’università e dell’economia e finanza. Sarà compito di questo
protocollo stabilire il contenuto e la durata degli obblighi formativi del datore; definire i criteri generali per la
realizzazione dei percorsi di apprendistato, il monte orario massimo del percorso scolastico che può essere svolto in
apprendistato (che non può essere superiore al 60% dell’orario previsto per il secondo anno e del 50% per gli anni
successivi), i requisiti delle imprese nelle quali si svolge, il numero delle ore da effettuare in azienda, sempre tenuto
conto dell’autonomia dell’istituzione scolastica.
La regolamentazione dei profili formativi (art 43 comma 6) è di competenza delle Regioni e le province autonome di
Trento e Bolzano. Quello che cambia rispetto alla disciplina previgente, cioè al TU dell’apprendistato del 2011, è che
viene meno la necessità di un accordo apposito in sede di conferenza permanente e il preventivo parere delle parti
sociali; vengono eliminati i principi e i criteri direttivi dettati dal legislatore nazionale; tale intervento centrale scatta
solo caso di inerzia delle regioni (art 43 comma 3).
C’è anche la possibilità di prorogare il contratto di apprendistato (comma 4 art 43: tenuto conto delle qualificazioni
contenute nel repertorio delle professioni i datori di lavoro possono prorogare fino ad un anno il contratto di
apprendistato dei giovani qualificati e diplomati che hanno percorso positivamente i percorsi di cui al comma 1 per il
consolidamento e l’acquisizione di ulteriori competenze tecnico professionali e specialistiche; tali competenze
possono essere anche spese ai fini dell’acquisizione di certificati di specializzazione tecnica superiore. Può essere
prorogato ancora di un altro anno nel caso in cui al termine del periodo di informazione l’apprendista non abbia
conseguito il titolo di qualifica, diploma o specializzazione professionale.
Anche nella normativa previgente era prevista la possibilità di trasformare il contratto di apprendistato di primo
livello in un contratto di apprendistato professionalizzante: dopo il conseguimento della qualifica o del diploma
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professionale o del diploma di istruzione secondaria superiore, si può trasformare questo apprendistato in
apprendistato professionalizzante per conseguire la qualifica professionale ai fini contrattuali. Il comma 9 dell’art 43
stabilisce una durata massima rinviando alla contrattazione collettiva, cioè stabilisce che la durata massima
complessiva dei due periodi di apprendistato non può eccedere la durata individuata dalla contrattazione collettiva.
Per quanto riguarda l’aspetto retributivo, oggi si prevede al comma 7 art 43 che per le ore di formazione svolte
nell’istituzione formativa il datore di lavoro è esonerato da ogni obbligo retributivo, mentre per le ore di formazione a
carico del datore di lavoro, il lavoratore avrà una retribuzione pari al solo 10% di quella che gli sarebbe dovuta
(peggioramento rispetto alla normativa previgente).
L’art 43 comma 8 prevede, limitatamente alle Regioni e province autonome di Trento e Bolzano che abbiano definito
un sistema di alternanza scuola-lavoro, che i contratti collettivi stipulati da sindacati comparativamente più
rappresentativi sul piano nazionale possano prevedere delle specifiche modalità di utilizzo del contratto di
apprendistato anche a tempo determinato per lo svolgimento delle attività stagionali.

L’art 45 è riferito all’apprendistato di alto livello, cioè di alta formazione e ricerca. Può essere stipulato in tutti i
settori di attività privati e pubblici con i soggetti di età compresa tra 18 e 29 anni. La condizione per stipulare un
contratto di apprendistato di questa tipologia è il possesso da parte del lavoratore di un diploma di istruzione
secondaria superiore o un diploma professionale conseguito nei percorsi di istruzione e formazione professionale;
prima la legge prevedeva che questo contratto potesse essere utilizzato per consentire al lavoratore/apprendista il
conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, ora invece è richiesto il possesso di esso. Questa
modifica è stata prevista per evitare sovrapposizioni tra apprendistati di alta formazione e apprendistati di primo
livello dato che l’obiettivo è conseguire una specializzazione di più alto livello. L’obiettivo è sempre quello di avere
una sorta di sistema duale, di alternanza tra i due livelli di apprendistato che consenta, attraverso a formazione e
l’integrazione della formazione con il lavoro, di avere maggiori chances occupazionali per i giovani assunti con queste
tipologie contrattuali.
L’obiettivo è consentire il conseguimento di titoli di studio universitari e di alta formazione; alta formazione
comprende dottorati di ricerca, specializzazione tecnica superiore; può essere utilizzato anche per attività di ricerca e
praticantato per accesso alle professioni ordinistiche (novità). La disciplina per la durata del contratto e i profili
formativi è anche qui rimessa alle Regioni, che devono stipulare un accordo con le associazioni territoriali dei datori
di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, con le università, con gli istituti
tecnici-professionali ed altre istituzioni formative e di ricerca. Laddove ci dovesse essere inerzia da parte delle
Regioni, questo apprendistato si potrebbe attivare ugualmente attraverso delle convenzioni stipulate dai singoli datori
di lavoro o dalle loro associazioni con i soggetti dell’alta formazione. Il datore deve sottoscrivere un protocollo con
l’istituzione formativa a cui lo studente è iscritto, in cui vengono definite durata e modalità anche temporali della
formazione a carico del datore di lavoro. Per quanto riguarda la formazione esterna all’azienda, la legge dice che
dovrà essere svolta nell’istituzione formativa a cui è iscritto lo studente; anche qui c’è un peggioramento retributivo
analogo al caso precedente e cioè, salva diversa previsione dei contratti collettivi, per le ore di formazione svolte
nell’istituzione formativa non vi sarà nessun obbligo retributivo a carico del datore, mentre per quelle svolte a carico
del datore verrà riconosciuto una percentuale della retribuzione pari al 10% di quella che gli sarebbe dovuta (comma 3
art 45).

Apparato sanzionatorio: art 47 disposizioni finali.


Si tratta di capire di quale violazione stiamo parlando e quali sono le sanzioni previste dalla legge, se sono previste in
maniera espressa oppure no e se siano effettivamente condivisibili o meno, se siano interpretabili i silenzi del
legislatore.
La prima ipotesi che teniamo in considerazione è quella dell’art 47 comma 2 che si occupa della violazione delle
disposizioni relative alla forma di stipulazione del contratto di apprendistato, violazione di disposizioni relative al
piano formativo aziendale e violazione delle previsioni dei contratti collettivi in materia di divieto di retribuzione a
cottimo dell’apprendista, di declassamento fino a due libelli inferiori e anche della presenza di un tutore o di un
referente aziendale. Queste previsioni dovrebbero operare solo in presenza di un contratto collettivo.
Per queste violazioni la legge prevede soltanto delle sanzioni di tipo amministrativo, richiamando un d.lgs. 124/2004
di riforma dei servizi ispettivi e di riforma dell’apparato sanzionatorio. L’obiettivo di questo decreto era quello di
incentivare alcuni strumenti, come la diffida accertativa; tale decreto prevede che alla contestazione amministrativa
debbano provvedere gli organi di vigilanza che svolgono accertamenti in materia di lavoro e legislazione sociale; ciò
avviene in conseguenza alla diffida accertativa il datore trasgressore viene diffidato ad adempiere ed una volta
ottenuta questa diffida, potrà estinguere il procedimento sanzionatorio limitatamente alle inosservanze oggetto di

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diffida pagando una somma pari all’importo della sanzione nella misura del minimo previsto dalla legge (da 100 a 600
euro ed in caso di recidiva da 300 a 1500 euro).
Art 42 comma 8 violazione delle disposizioni che condizionano l’assunzione di nuovi apprendisti alla prosecuzione
del rapporto di una determinata percentuale di apprendisti già assunti: salvo diversa disposizione dei contratti
collettivi, l’assunzione di nuovi apprendisti con contratto di apprendistato professionalizzante è subordinata alla
prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro al termine del periodo di apprendistato, per 36 mesi
precedenti alla nuova assunzione, di almeno il 20% degli apprendisti dipendenti dallo stesso datore di lavoro. Se non
si rispetta questa percentuale, cioè se si assumono più apprendisti di quanto previsto dalla legge, la sanzione prevede
che gli apprendisti assunti in esubero saranno considerati ordinari lavoratori subordinati a tempo indeterminato sin
dalla data di costituzione del rapporto. Volendo si potrebbe segnalare una netta differenza rispetto a quanto previsto
con la violazione della clausola di contingentamento nel contratto a termine perché nella disciplina oggi in vigore lo
sforamento della clausola di contingentamento nel contratto a termine determina soltanto l’applicazione di sanzioni
amministrative. La conversione opererà per gli apprendisti la cui assunzione determina lo sforamento della
percentuale.
Art 42 comma 7 numero massimo di apprendisti che si possono assumere rispetto alle maestranze specializzate e
qualificate: la legge non prevede nessuna sanzione. Il fatto che non sia prevista nessuna sanzione deve essere in
qualche modo colmato ed infatti il libro propone come soluzione al silenzio del legislatore quella di ritenere che gli
apprendisti la cui assunzione comporti il superamento della percentuale prevista, debbano essere considerati ordinari
lavoratori subordinati a tempo indeterminato.
Art 47 comma 1 inadempimento nell’erogazione della formazione a carico del datore di lavoro: in questo caso la
legge prevede delle sanzioni di carattere economico: il datore deve versare la differenza tra la contribuzione che ha
versato e la contribuzione dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato
raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, in ogni caso maggiorata del 100%, ma viene esclusa
qualsiasi sanzione per omessa contribuzione. Se l’apprendista invece non è stato declassato, ma sia stata invece
individuata una retribuzione in misura percentuale e proporzionata all’anzianità di servizio, si dovranno aumentare i
contributi relativamente a tale retribuzione. Tale articolo precisa che la sanzione opera soltanto se ricorrono due
condizioni contemporaneamente: 1) il datore deve essere esclusivamente responsabile dell’inadempimento; 2)
l’inadempimento deve essere tale da impedire la realizzazione delle finalità previste dagli artt. 43, 44, 45.
Il libro afferma che ritenere che il datore sia esclusivamente responsabile dell’inadempimento vuol dire che non ci
deve essere una compartecipazione di responsabilità di altri soggetti istituzionali; nel caso in cui venga accertato un
inadempimento nell’erogazione della formazione prevista dal piano formativo individuale, il personale ispettivo del
ministero del lavoro può emanare un provvedimento ex art 14 d.lgs. 124/2004 (diffida accertativa) assegnando al
datore un congruo termine per adempiere. Secondo il libro questa previsione consentirebbe di sanare qualsiasi
inadempimento datoriale anche se considerevole, senza conseguenze negative perché con questi provvedimenti
richiamati dal d.lgs. 124/2004 viene dato un termine al datore di lavoro per adempiere alla norma che si ritiene essere
stata violata. Il fatto che, laddove venga accertata una responsabilità esclusiva del datore di lavoro per mancata
realizzazione delle finalità previste per le tre tipologie di apprendistato, la legge preveda delle conseguenze
economiche sul piano retributivo, non esclude ulteriori conseguenze sanzionatorie che potrebbero derivare da
eventuali azioni risarcitorie fatte valere dal lavoratore per il danno subito. In una ipotesi del genere, il libro ci dice che
potrebbe venir meno la qualificazione del contratto erroneamente individuata dalle parti perché di fatto se non c’è
formazione viene meno quella causa formativa e quindi la causa del contratto risulterebbe identica a quella di un
ordinario lavoratore subordinato a tempo indeterminato (sono percorsi interpretativi). Addirittura, il libro si spinge a
ritenere che questo intendere il contratto come di ordinario lavoro subordinato a tempo indeterminato si avrebbe nella
mancata realizzazione della finalità formativa anche per ragioni indipendenti dalla responsabilità del datore di lavoro.

IL LAVORO PARASUBORDINATO
L’art 2 del d.lgs. 81/2015 ha creato la categoria delle “collaborazioni organizzate dal committente”, quelle che nel
linguaggio pratico vengono definite “collaborazioni etero organizzate” per distinguerle dal lavoro subordinato in base
alla eterodirezione, cioè quelle situazioni in cui la prestazione è diretta da un altro soggetto diverso dal datore di
lavoro, ma ricorrono comunque gli indici della subordinazione. L’art 2 è un punto di arrivo della disciplina normativa
di tale tipologia di lavoro, ma è stato anche modificato nel 2019 dal d.lgs. 101/2019 per accogliere anche la tutela dei
lavoratori che operano su piattaforme digitali. È stato introdotto un ulteriore capo (V bis) nel d.lgs. 81/2015 che si
chiama “tutela del lavoro tramite piattaforme digitali”.
In un’ottica di ordine ricostruttivo, la parasubordinazione è una categoria che non è mai stata definita dalla legge;
stiamo parlando di una modalità di svolgimento di attività che possiamo considerare attività lavorative nei confronti di
un altro soggetto, ma senza che ci sia un contratto di lavoro subordinato perché queste prestazioni vengono svolte con

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delle caratteristiche che richiamano lo schema tipico del lavoro subordinato, ma in realtà sono prestazioni di lavoro
autonomo.
Nel nostro ordinamento non abbiamo una definizione di lavoro parasubordinato, ma abbiamo dei riconoscimenti che
la legge ha fatto nel corso del tempo: la categoria della parasubordinazione ha avuto riconoscimento sul piano
normativo nel 1973 con la legge di riforma del processo del lavoro (L 533/1973), con cui si è cercato di renderlo
celere, orale ed immediato. Questa legge modificava l’art 409 del Codice di procedura civile inserendo il comma 3,
dicendo che avevano diritto ad agire in giudizio attraverso le nuove norme del processo del lavoro non soltanto i
lavoratori subordinati, ma anche i lavoratori parasubordinati (equiparazione sul piano processuale). Tale articolo fu
anche modificato nel 2017 dalla riforma del Lavoro Autonomo ed in esso si richiamano i rapporti di agenzia e
rappresentanza commerciale ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa senza vincolo di
subordinazione (co.co.co).
Di fronte all’evidenza che questi contratti di collaborazione erano cresciuti enormemente in un periodo particolare
della nostra storia politica, normativa, sociale (anni ’90), il legislatore interviene nel 1995 (sempre senza definire la
categoria) con la Riforma Dini all’art 2 comma 26 (L 335/1995, la prima legge che ha introdotto il metodo
contributivo per il calcolo delle pensioni) prevedendo un riconoscimento ai fini previdenziali della categoria. In questo
caso i contributi da versare sono a carico del committente e del collaboratore, seppur ripartiti in maniera diseguale:
2/3 a carico del committente, 1/3 a carico del collaboratore. Il lavoratore parasubordinato ha l’obbligo di iscriversi alla
“gestione separata” dell’Inps e /sull’importo a lui corrisposto per le prestazioni da lui eseguite deve essere detratto un
importo che va versato come contributo all’Inps.
Con la Riforma Biagi nasceva l’obbligo di ricondurre alcune collaborazioni coordinate e continuative ad un
“progetto” nasceva il contratto a progetto, art 61 e seguenti della Riforma Biagi del mercato del lavoro. Si è avuto
un abuso del contratto a progetto, privo dei contenuti qualificanti previsti dalla legge per ottenere delle convenienze.
Perciò successivamente ci sono state una serie di norme con cui si è operata una stretta, specie con la Riforma Fornero
del 2012 fino ad arrivare al definitivo superamento del contratto a progetto e il d.lgs. 81/2015 sulle ceneri del contratto
a progetto identifica questa categoria delle collaborazioni etero organizzate.

Lezione del 09/4/2021


Quando si parla della parasubordinazione, non siamo necessariamente al cospetto di una modalità di esecuzione del
lavoro posta in essere con un intento fraudolento per motivazioni patologiche di fuga dalla subordinazione, ma può
anche capitare che la parasubordinazione rifletta un’autentica volontà del soggetto e di entrambi i soggetti di lavorare
in maniera alternativa rispetto all’instaurazione di un contratto di lavoro subordinatoart 35 Costituzione che tutela il
lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
Cosa differenzia la collaborazione coordinata e continuativa dal lavoro autonomo e dal lavoro subordinato è il fatto
che, rispetto al lavoro autonomo non è una prestazione che si esaurisce in un unico adempimento come nella
prestazione d’opera, ma come dice la definizione, la collaborazione è continuativa nel tempo ed è coordinata. Non c’è
nessuna legge che ci dice cosa vuol dire coordinata e continuativa. A dare contenuto a questi aggettivi ha provveduto
la giurisprudenza, che nel corso degli anni a partire dalla L 533/1973 ha elaborato questi criteri cercando di dare
contenuto e di individuare quali sono le caratteristiche che deve avere una collaborazione, una prestazione per essere
definita coordinata e continuativa. Quando si parla di coordinamento si intende una prestazione che, pur essendo
autonoma, perde alcuni dei tratti dell’autonomia perché il soggetto che esegue la prestazione (il collaboratore) deve
coordinarsi con un’attività gestita da un altro soggetto, con gli obiettivi che sono di pertinenza di determinazione da
parte del committente, quindi siamo dinanzi ad una prestazione che di fatto è di lavoro autonomo però si contamina
perché contiene al suo interno uno o più profili tipici della prestazione di lavoro subordinato.
Il legislatore nel corso del tempo ci ha consegnato delle discipline ispirate quasi tutte all’obiettivo di predisporre per
via normativa delle tutele in favore di questi collaboratori perché queste collaborazioni erano diventate troppo diffuse
e ciò ovviamente desta sospetti; si cerca di garantire a quei collaboratori se non tutte le tutele del lavoro subordinato,
perlomeno le principali fino addirittura a mettere in discussione la centralità del lavoro subordinato secondo un
discorso di rimodulazione delle tutele lavoristiche.

Nel 2000 c’è stato il d.lgs. 38/2000 che riformava l’Inail e si è avuta l’introduzione dell’obbligo di assicurazione
contro gli infortuni sul lavoro, che è tipico di alcuni lavoratori subordinati, in favore dei lavoratori parasubordinati.
Negli anni 2000-2001 questa categoria ottenne anche un altro riconoscimento, ovvero il reddito da lavoro corrisposto
al lavoratore veniva qualificato come reddito di lavoro dipendente ai fini fiscali, quindi non era più reddito da lavoro
autonomo. Il reddito veniva corrisposto attraverso una sorta di busta paga e al termine dell’anno il collaboratore
riceveva una certificazione (all’epoca era detta la 101, poi CUD, oggi detta Certificazione Unica del Reddito da

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Lavoro); il reddito veniva quindi veniva sottoposto ad un prelievo fiscale che era lo stesso del lavoro dipendente.
Quindi si assisteva ad un riconoscimento a favore di questa categoria.
L’esempio massimo di questa linea riformatrice si ha con la Riforma Biagi del Mercato del Lavoro in quanto questa
non introduce una nuova tipologia contrattuale, non dà una definizione di collaborazione coordinata e continuativa,
ma stabilisce che alcune collaborazioni coordinate e continuative (anche con alcune eccezioni), laddove superassero
l’importo corrisposto al collaboratore di 5000€ annui e laddove superassero la durata di 30gg, dovessero essere
ricondotte obbligatoriamente per legge ad un “progetto o programma di lavoro o fasi di esso”. Questo progetto voleva
dire che fondamentalmente si trattava di qualcosa di temporaneo. Le pubbliche amministrazioni non potevano
ricorrere a tali progetti, ma potevano servirsi di collaborazioni coordinate e continuative.
In caso di irregolarità del progetto (art 69) il contratto a progetto (che era un contratto di lavoro autonomo) veniva
convertito dal giudice in contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (da autonomo diventavi subordinato a
tempo indeterminato).
All’interno della disciplina vi era un articolato normativo che riconosceva al collaboratore a progetto una serie di
tutele proprie del lavoro subordinato, che sono state più volte modificate: il diritto ad avere un compenso
corrispondente a quanto previsto dalla Costituzione per il lavoro subordinato (quindi proporzionato alla quantità e alla
qualità del lavoro svolto), il rispetto della normativa in materia di sicurezza, il diritto del lavoratore a fruire di tutele in
caso di sospensione del rapporto di lavoro per malattia/infortunio/maternità. Il collaboratore a progetto non aveva il
TFR, non c’era la disciplina delle mansioni, dei poteri o del licenziamento, ma c’era comunque un forte
riconoscimento anche senza intervenire sulla definizione di tale tipologia di lavoro.
Questa normativa della Riforma Biagi che, in qualche modo, era pro labor, è stata utilizzata in maniera distorta,
vanificandone e neutralizzandone gli obiettivi che erano stati individuati dal legislatore.
Abbiamo avuto un contenzioso molto elevato in materia di contratto a progetto nel settore privato, con casi celebri che
sono stati riportati all’attenzione dell’opinione pubblica, specie un settore in cui la collaborazione coordinata e
continuativa è cresciuta in maniera abnorme, cioè il settore dei call-center in cui i lavoratori venivano tutti inquadrati
come collaboratori coordinati e continuativi, e anche come lavoratori a progetto ai sensi della Riforma Biagi, ma
invece di fatto lavoravano proprio come se fossero lavoratori subordinati, anzi con dei ritmi di lavoro vincolati ad un
risultato/premi individuati dal committente. Il contenzioso è partito dal centro-nord (Tribunale di Roma, di Milano),
poco nel Mezzogiorno perché i lavoratori avevano meno possibilità di ricorrere in giudizio, quindi al sud il
contenzioso è partito un po’ in ritardo. Si è arrivati a delle situazioni in cui in alcuni call-center (es: Almaviva) vi era
un intero organico costituito da collaboratori a progetto: non era questo l’obiettivo della legge, infatti in quegli anni
questo fenomeno fu oggetto di racconti personali da parte di collaboratori, che sono diventati celebri libri e film in cui
si racconta questa esperienza di lavoro del tutto distonica da quella in cui sembrava formalmente incanalata.
Questo contenzioso ha messo in discussione l’impianto normativo, che è stato definitivamente superato dalla Riforma
di Renzi del Jobs Act del 2015, ma prima della Riforma Renzi, già la Riforma Fornero (L 92/2012) aveva modificato
l’impianto della Riforma Biagi attraverso delle disposizioni, cercando di individuare gli strumenti per neutralizzare il
ricorso fraudolento al lavoro a progetto. Nel frattempo il legislatore, proprio perché i datori di lavoro continuavano a
godere di conveniente in quanto il contributo era basso, cercò di disincentivare il ricorso in chiave fraudolenta alle
collaborazioni coordinate e continuative disponendo l’aumento del contributo, non più il 10%, ma cominciò a
crescere, seppur in maniera diversa: era alto quando si trattava di collaboratori iscritti alla gestione separata Inps e che
non facevano altro (quindi operavano in un rapporto di monocommittenza), un po’ più basso per coloro che erano
tenuti ad iscriversi alla gestione separata Inps perché quella collaborazione per importo e per durata diventava lavoro a
progetto, ma avevano già la copertura previdenziale, perché erano lavoratori dipendenti, o autonomi che poi
svolgevano anche un contratto a progetto, o erano dei soggetti pensionati.
Cosa facevano i committenti dell’epoca: proprio perché aumentava l’aliquota dovuta alla gestione separata, iniziarono
a “ricattare” i collaboratori, dichiarando di non poter stipulare nuovamente un contratto a progetto (che ancora era in
essere, non veniva rinnovato) e ricattavano questi collaboratori chiedendogli di aprirsi la Partita Iva che è sinonimo di
essere lavoratore autonomo e di avere una rete di clienti. I collaboratori aprivano la Partita Iva per mancanza di
alternative, ma di fatto non avevano clienti perché il loro orario di lavoro era quasi come quello di un lavoratore
subordinato e potevano lavorare soltanto per quel committente.
All’epoca ci furono delle circolari del Ministro Damiano che riguardavano proprio il settore dei call-center; tali
circolari facevano distinzione tra attività che potevano essere oggetto di lavoro autonomo o di lavoro subordinato,
addirittura ci fu una circolare del Ministero che era rivolta ai servizi ispettivi del Ministero del Lavoro e faceva un
elenco di attività dicendo all’ispettore del lavoro che se trova che alcune di queste attività vengono qualificate come
contratto a progetto deve fare un accertamento perché queste attività non possono essere oggetto di lavoro autonomo.
Con la Riforma Fornero del 2012 si intraprende una lotta alle P.IVA (con dei criteri di presunzione, cioè la norma
prevedeva che in alcuni casi, laddove venissero accertati una serie di elementi sia riguardanti gli strumenti utilizzati

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per lavorare, i poteri e anche l’importo corrisposto, allora quel lavoratore non poteva che essere qualificato come
lavoratore subordinato), si modifica il contratto a progetto (non lo si abolisce) e si stabilisce che il progetto non possa
coincidere con l’oggetto sociale del committente.
Con la Riforma Renzi arriviamo al definitivo superamento di questi schemi che avevano anche funzionato, ma che
erano stati poi anche piegati ad un utilizzo non conforme alla legge; la legge delega voleva addirittura superare tutto il
comparto dedicato alle collaborazioni coordinate e continuative, così non è stato perché con l’art 2 del d.lgs. 81/2015
stabilisce che a far data dal 1° gennaio del 2016 si applica la disciplina del rapporto del lavoro subordinato anche ai
rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui
modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di
lavorocollaborazioni etero-organizzate (versione originale dell’articolo, precedente alle modifiche del 2019). In
un’altra norma si dispone l’abrogazione del lavoro a progetto.
L’art 2 è una norma dagli effetti dirompenti, modificata nel 2019 per cercare di far rientrare anche i lavoratori su
piattaforme digitale, soprattutto i riders nello schema delle tutele.
Tale norma è stata oggetto di numerose sentenze, sia di merito che di legittimità (Cassazione), proprio per effetto di
controversie instaurate da riders che hanno premuto per ottenere il riconoscimento delle loro prestazioni di lavoro
come lavoro subordinato. Ci sono state delle sentenze in cui i giudici hanno riconosciuto le tutele del lavoro
subordinato qualificando i riders non come lavoratori subordinati, ma come collaboratori etero-organizzati.
Alcuni hanno definito questa norma come “apparente” in quanto secondo loro non aggiungeva nulla di nuovo, altri
l’hanno definita “disciplina”, cioè l’hanno interpretata come una norma che incide soltanto sulla disciplina applicabile,
quindi non stiamo dicendo che c’è una modifica della nozione di lavoro subordinato, stiamo semplicemente dicendo
che alcune modalità di esecuzione del lavoro meritano di essere trattate come se fossero lavoro subordinato, anche se
di base il lavoro non è subordinato. La differenza fondamentale è che, mentre il contratto a progetto prendevano
singoli istituti (riconoscevano la sospensione, la retribuzione o altri istituti presi singolarmente), qui invece abbiamo
un intervento radicale in quanto si applica in toto la disciplina del lavoro subordinato.
Secondo un’altra ricostruzione “massimalista” rispetto a quella precedente, l’art 2 comma 1 del d.lgs. 81/2015 non è
una norma disciplina, cioè non è una norma che si limita a dire “applichiamo la disciplina del lavoro subordinato a
prestazioni che sono di lavoro autonomo” ma è invece una norma “fattispecie”, cioè per effetto dell’art 2 avremmo
avuto un cambiamento epocale, che ha mutato il paradigma del diritto del lavoro, in quanto quello che riguarda il
lavoro subordinato non riguarda più soltanto colui che si obbliga a prestare la propria opera manuale o intellettuale
alle dipendenze e sotto alla direzione di un imprenditore (art 2094 cc), ma riguarda anche qualcun altro, quindi vuol
dire che è cambiata la nozione di lavoro subordinato.
Al comma 2 dell’art 2 sono previste delle eccezioni, cioè non tutte le organizzazioni etero-organizzate devono ottenere
l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato. C’è un elenco di esclusioni, cioè di ipotesi in cui pure se sono
collaborazioni etero-organizzate non si applica la disciplina del lavoro subordinato, e sono proprio queste eccezioni
previste dal comma 2 ad essere utilizzate dalle ricostruzioni dottrinali per affermare il fatto che si tratti di una norma
disciplina e non di una norma fattispecie, perché se si trattasse di una norma fattispecie che modifica la nozione di
lavoro subordinato, il legislatore contemporaneamente non potrebbe prevedere delle esclusioni. Il fatto che abbia
previsto delle esclusioni sta a significare che non si è avuta azione sulla nozione di lavoro subordinato.

Il nuovo comma 1 non contiene più quel riferimento “esclusivamente personali”, ma si limita a idre “prevalentemente
personali”; nel 2019 il decreto è stato convertito il L 128/2019 ed è stato eliminato in riferimento “anche con
riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Queste eliminazioni servono ad accogliere all’interno della norma anche
quei soggetti che utilizzano un mezzo per svolgere la prestazione e quindi proprio i riders. Si amplia l’ambito di
applicazione della norma, rendendo maggiormente fruibili le tutele del lavoro subordinato. Tale legge aggiunge “le
disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano
organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
(Leggi Saggio di Marazza per le collaborazioni etero-organizzate).

Lezione del 12/04/2021


Questa teoria secondo cui la norma incida soltanto sulla disciplina del lavoro subordinato sarebbe confermata dal fatto
che sono previste delle eccezioni all’art 2 comma 2, quindi non si può parlare di norma fattispecie perché non si tratta
di un allargamento della definizione di lavoro subordinato.
C’è una celebre sentenza, la 215/1994 della Corte Costituzionale, che aveva affermato la indisponibilità del tipo
contrattuale, cioè che neanche al legislatore è consentito negare la natura di lavoro subordinato a rapporti che di fatto
appartengono al tipo “lavoro subordinato”.

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Art 2 comma 2esclusioni: collaborazioni eterorganizzate alle quali non si applica la disciplina del lavoro
subordinato:
- le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati dai sindacati più rappresentativi sul piano
nazionale abbiano previsto delle discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, tenuto conto
delle particolari esigenze produttive-organizzative del relativo settore (introdotta per salvaguardare il settore dei call-
center);
- collaborazioni prestate nell’esercizio delle professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi
albi professionali (commercialista, avvocati, ingegneri);
- le attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti dei consigli di amministrazione e controllo delle
società e dei partecipanti di collegi e commissioni;
- collaborazioni rese ai fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle
federazioni sportive nazionali;
- collaborazioni prestate nell’ambito della produzione e realizzazione di spettacoli da parte delle fondazioni liriche;
- collaborazioni degli operatori in ambito sportivo.

Ciò che stiamo dicendo non riguardano le Pubbliche Amministrazione in quanto per loro vige il divieto di stipulare
contratti di collaborazione eterorganizzate.
Le parti possono richiedere alle commissioni di certificazione l’assenza dei requisiti di cui al comma 1, per evitare
l’applicazione del lavoro subordinato.
All’interno delle collaborazioni coordinate e continuative viene creata la categoria delle collaborazioni
eterorganizzate, le uniche alle quali di applica la disciplina del lavoro subordinato.
La legge non dice quale parte della disciplina si applica, ecco perché poi alcuni hanno iniziato a fare una cernita degli
istituti applicabili e di quelli non applicabili. L’altro problema riguarda chi non è eterorganizzato, quindi chi non
ottiene questo surplus di tutela; c’è chi è collaboratore coordinato e continuativo e tuttora lavora in questa modalità,
ma che non è eterorganizzato ai quali bisogna capire cosa applicare. In parte una risposta a questa problematica è stata
fornita dalla legge di tutela del lavoro autonomo, la L 81/2017 (Jobs Act del lavoro autonomo).

Modifiche del 2019 dell’art 2 del d.lgs.81/2015: sono state introdotte anche per dare una risposta dell’ordinamento a
una problematica che è diventata di cruciale attualità, cioè la problematica relativa al lavoro sulle piattaforme digitali.
La piattaforma pone un notevole problema di qualificazione dei lavoratori, che spesso sono privi di tutele in quanto
lavorano al di fuori di ogni cornice normativa legale, non vengono riconosciuti come lavoratori subordinati, vengono
pagati sulla base delle consegne effettuate, danno la loro disponibilità e rispondono in base all’algoritmo della
piattaforma che governa l’esecuzione della prestazione. Anni fa il dibattito era sui pony express.
Abbiamo avuto prima dei provvedimenti giurisprudenziali, perché ci sono stati dei riders che si sono rivolti al giudice
del lavoro chiedendo il riconoscimento della loro prestazione di lavoro come lavoro subordinato (riders di FoodOra).
Nelle sentenze di primo grado fu negata la natura del lavoro subordinato (tribunale di Torino 2018); abbiamo avuto un
capovolgimento nel ricorso in appello, cioè la corte di appello di Torino ha riconosciuto non la natura del lavoro
subordinato, ma ha riconosciuto le tutele del lavoro subordinato applicando l’art 2 comma 1 del d.lgs. 81/201 (i riders
non sono lavoratori subordinati, ma vanno tutelati come se fossero dei lavoratori subordinati perché sono dei
collaboratori eterorganizzati); la società, non contenta, ha fatto ricorso in Cassazione, che ha confermato quanto aveva
già affermato la corte d’appello (gennaio 2020). Questo processo è andato avanti, contemporaneamente poi c’è stato
un intervento normativo, che risale alla L 128/2019 che ha modificato l’art 2 comma 1, dicendo che le disposizioni
sulle collaborazioni eterorganizzate si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano
organizzate mediante piattaforme anche digitali, ha modificato i requisiti della collaborazione eterorganizzata in
quanto ora la collaborazione non deve essere più necessariamente esclusivamente personale, ma basta che sia
prevalentemente personale, deve essere sempre continuativa e le modalità di esecuzione devono essere organizzate dal
committente (è stato eliminato il riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro). Tale modifica non opera con effetto
retroattivo, tant’è che queste sentenze che abbiamo richiamato riconoscono ai riders le tutele del lavoro subordinato
applicando le tutele dell’art 2 comma 1 vecchio testo, quindi anche la cassazione nel 2020, seppur citando le
modifiche del 2019, dichiara che trattandosi di una questione sollevata alla luce del vecchio testo normativo, si applica
quella disposizione così come era originariamente previsto. Non è un fenomeno esclusivamente italiano, ma ci sono
una serie di sentenze estere che vanno in una direzione molto più garantista a favore del lavoratore.
Anche in Italia si sono avute delle sentenze di merito (tribunale di Palermo, che ha affermato la natura di rapporto di
lavoro subordinato). Molto recentemente abbiamo avuto un accordo aziendale che prevede soltanto per alcuni
lavoratori (just-eat) l’assunzione come lavoratori subordinati attraverso l’applicazione del contratto collettivo

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nazionale della logistica, che dovrebbe consentire a questi lavoratori di ricevere un trattamento degno di questo nome.
A settembre del 2020 avevamo avuto la sottoscrizione di un contratto collettivo sottoscritto dall’UGL che è stato
molto contestato perché addirittura era peggiorativo rispetto a quanto questi lavoratori avrebbero potuto ottenere.

Gli interventi giurisprudenziali riguardano i riders; gli interventi normativi riguardano le piattaforme digitali in
generale perché oltre la riforma dell’art 2 comma 1, la legge prevede anche l’introduzione del capo V bis (tutele del
lavoro tramite piattaforme digitali) nel corpus del d.lgs.81/2015, con il quale si prevedono nuove tutele minime per
alcune categorie di lavoratori autonomi che operano tramite piattaforme digitali; abbiamo avuto anche interventi
dell’autonomia collettiva che si riferiscono sempre alla categoria dei riders.
(+ files pubblicati su Teams).
Leggi gli articoli del Capo V bis.

Lezione del 15/04/2021

LICENZIAMENTI (risoluzione del rapporto di lavoro)


Studiamo i licenziamenti perché, a partire dal 2015, con uno dei decreti di cui si compone il Jobs Act del Governo
Renzi, il d.lgs. 23/2015 (entrato in vigore il 7 marzo) si è avuta l’introduzione di una disciplina detta “disciplina del
contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti”CATUC: non è una nuova tipologia contrattuale, ma è la
denominazione di un ordinario contratto di lavoro subordinato che, per la sola circostanza di essere stipulato a partire
dal 7 marzo 2015, è soggetto ad un regime sanzionatorio specifico dettato dal d.lgs. 23/2015 che sostituisce un
precedente regime sanzionatorio in caso di declaratoria del giudice di licenziamento individuale nullo, annullabile,
inefficace (illegittimo).

Il rapporto di lavoro può risolversi non soltanto per esercizio del potere di recesso, ma anche per risoluzione
consensuale (mutuo consenso), per scadenza del termine, per morte del lavoratore o altre circostanze specifiche
previste dalla legge, ad esempio l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, causa di forza maggiore sia da parte
del datore che del lavoratore.

ART 2118 CC: “recesso ad nutum” riconosce ad entrambe le parti il potere di recedere dal contratto senza
motivazione, ma con il solo obbligo del preavviso. Durante il periodo di preavviso (stabilito dai contratti collettivi), il
rapporto ha natura reale, cioè durante il periodo di preavviso continua a vivere come se non fosse intervenuto l’atto di
recesso. Quel periodo di preavviso serve ad entrambi i contraenti per iniziare a occuparsi delle conseguenze di quel
provvedimento di risoluzione. Non sono richiesti requisiti di forma per la comunicazione del
licenziamento/dimissioni. Si può anche rinunciare al preavviso, che viene monetizzato corrispondendo una indennità
di mancato preavviso. Oggi un recesso ad nutum è lecito soltanto se avviene in quei casi residuali che la legge ritiene
ancora validi, cioè se si tratta di lavoratore in prova, di lavoratore domestico, il dirigente e poi c’è la categoria dei
lavoratori ultrasessantenni con diritto alla pensione di vecchiaia. È previsto anche il licenziamento dell’apprendista al
termine del periodo formativo. Al di fuori di queste ipotesi, a partire dalla L 604/1966 il licenziamento per essere
valido deve essere sorretto da un giustificato motivo, che può essere soggettivo od oggettivo.

ART 2119 CC: vi possono essere delle ipotesi eccezionali che consentono un recesso senza preavviso, ma con
motivazione (recesso immediato) “recesso in tronco/per giusta causa”: qualora si verifichi una causa che non
consente la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro, il recesso può avere effetto immediato. La
giusta causa è una causa di particolare gravità, talmente grave da compromettere la fiducia nei successivi
adempimenti. La legge tutela il lavoratore stabilendo che, se si dimette per giusta causa, gli va comunque corrisposta
un’indennità di mancato preavviso come se si trattasse di una dimissione ex art 2118 cc.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del rapporto il fallimento del datore e, inoltre, all’opposto la giusta causa è
l’unico motivo di risoluzione ante-tempus di un contratto di lavoro a tempo determinato, cioè quando c’è una scadenza
del termine, si può licenziare o dimettersi prima del termine soltanto se ricorre una giusta causa.

Queste due norme sono ancora in vigore, ma sono state sottoposte a modifiche, specie quando parliamo del potere di
recesso esercitato del datore, quindi del licenziamento perché a partire degli anni ’60 c’è stata la formazione
progressiva di una legislazione orientata a predisporre delle tutele per il lavoro subordinato che non c’erano.
L’apice di questa stagione è stata la L 300/1970 (Statuto dei Lavoratori).

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L 604/1966 sui licenziamenti individuali: il licenziamento per essere valido deve essere sorretto da un giustificato
motivo, che può essere soggettivo od oggettivo. Tale legge ha operato su diversi versanti della disciplina in materia:
- requisiti di forma del licenziamento;
- requisiti di motivazioni del licenziamento;
- conseguenze sanzionatorie di un licenziamento dichiarato illegittimo da un giudice.
Con la L 604/1966 è previsto un termine di impugnativa stragiudiziale di 60gg; una volta impugnato in via
stragiudiziale non c’era un termine di decadenza per agire in giudizio.
Il licenziamento, per essere valido, va comunicato per iscritto. Non erano previsti tassativamente i motivi, che
diventavano obbligatori laddove il lavoratore ne avesse fatto richiesta. Con la L 92/2012 è stato introdotto l’obbligo di
indicare i motivi della lettera di licenziamento.
Giustificato motivo soggettivo vuol dire un inadempimento contrattuale del lavoratore agli obblighi connessi al
rapporto di lavoro subordinato. È un licenziamento con preavviso, a meno che una delle due parti non richieda di
rinunciare al preavviso e di corrispondere un’indennità di mancato preavviso.
Giustificato motivo oggettivo vuol dire licenziamento valido non a fronte di un inadempimento commesso dal
lavoratore, ma per motivi aziendali (ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo), ad esempio il datore può
liberamente decidere di sopprimere una parte della produzione, un reparto e licenzia il lavoratore che è addetto.
Quando parliamo di giustificato motivo oggettivo, non valgono soltanto le ipotesi aziendali, ma anche l’ipotesi del
lavoratore che seguito di un infortunio o di una malattia professionale non sia più in grado di svolgere le mansioni per
le quali era stato assunto e non può ricollocarlo in nessun altro modo (quindi abbiamo licenziamento economico e
licenziamento per sopravvenuta inabilità del lavoratore allo svolgimento di determinate mansioni).
Per effetto dell’introduzione del giustificato motivo soggettivo, si modifica la nozione di giusta causa: con il
giustificato motivo soggettivo si pone la giusta causa a confronto del giustificato motivo in un rapporto di maggiore o
minore gravità. A stabilire la maggiore o minore gravità sono i contratti collettivi nazionali.
Tale legge introduce una disciplina relativa agli effetti del licenziamento illegittimoriassunzione del lavoratore in
caso di illegittimità del licenziamento. Questa è definita “tutela obbligatoria”: in caso di licenziamento ingiustificato,
il lavoratore che vince la causa ottiene che il datore di lavoro è obbligato a riassumerlo entro 3 gg (art 8 L 604/1966)
oppure in mancanza della riassunzione deve versargli un’indennità risarcitoria compresa un minimo di 2,5 e un
massimo di 6 mensilità parametrate sull’ultima retribuzione globale di fatto e tenuto conto di una serie di elementi,
come l’anzianità del lavoratore, anzianità di servizio, il numero dei dipendenti, il comportamento delle parti ecc...
Siamo di fronte a una tutela debole perché si tratta di un’obbligazione con facoltà alternativa rimessa alla
discrezionalità del datore di lavoro; seppure scegliesse di riassumere il lavoratore, stiamo parlando di una
riassunzione, cioè vuol dire che il precedente rapporto di lavoro, nonostante sia intervenuta una declaratoria di
legittimità da parte del giudice, avrà comunque prodotto l’effetto di estinguere quel rapporto di lavoro.

L 300/1970 e, in particolare, il suo art 18: interviene a definire un regime sanzionatorio “forte”, la cosiddetta “tutela
reale”. È un regime che non abroga quello della L 604/1966, ma è aggiuntivo perché riferito soltanto a determinati
datori di lavoro. Si distingue tra chi è soggetto alla tutela reale e chi è soggetto alla tutala “debole” prevista dalla L
604/1966, dove le differenze non sono dovute al motivo del licenziamento, ma sono dovute al numero di dipendenti in
base al quale si è soggetti a quel regime, oppure ad un altro.
Nel 2012, dopo anni di attacchi all’art 18 in quanto considerato uno dei vincoli maggiori del diritto del lavoro, è stato
modificato dalla L 92/2018.
Con la Riforma Fornero, a differenza del regime precedente, si affermano le nuove norme valide per tutti,
indipendentemente dal numero dei lavoratori alle dipendenze del datore.
L’art 18 dello Statuto dei Lavoratori, senza abrogare la L 604/1966, introduce un nuovo regime sanzionatorio: la tutela
reale/forte, che non riguarda tutti i lavoratori e datori di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, ma soltanto i
datori di lavoro di certe dimensioni. L’art 18 è stato modificato dalla L 108/1990 che ha allargato e modificato i
contenuti della tutela reale, ha eliminato il riferimento ai datori di lavoro imprenditori, essendo invece i destinatari i
datori di lavoro imprenditori e non. E’ stata determinata una “norma dignità”, ma ha mostrato le sue debolezze a causa
delle lungaggini del processo del lavoro.
La L 300/1970 afferma all’art 18 che in tutti i casi di invalidità del licenziamento, a prescindere dal motivo, laddove il
giudice accerterà che il licenziamento è nullo, annullabile o inefficace, se si rientra nel campo di applicazione della
tutela forte si avrà diritto non più alla riassunzione prevista dalla L 604/1966, ma alla reintegrazione nel posto di
lavoro. Reintegrazione, a differenza di riassunzione, vuol dire diritto a riprendere servizio presso quel datore andando
ad occupare il posto di lavoro che si occupava al momento del licenziamento come se il licenziamento non fosse mai
avvenuto. Oltre alla reintegrazione, il lavoratore avrà diritto anche ad un risarcimento del danno definito dal giudice e
commisurato alle retribuzioni non percepite dalla data del licenziamento fino all’effettiva reintegra (non sentenza del

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giudice, ma effettiva reintegra); tale risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità di retribuzione globale di
fatto e, in ogni caso, in aggiunta a questo risarcimento del danno, al lavoratore vanno anche corrisposti i contributi
previdenziali e assistenziali relativi a quel periodo (perciò tutela forte).
I datori non sempre erano solvibili, cioè in grado di far fronte a queste pesanti conseguenze sanzionatorie, ecco perché
talvolta si è pensato di abbandonare il criterio del numero dei dipendenti ed utilizzare altri criteri come il fatturato
dell’impresa, indice effettivo della solvibilità del datore.
È il lavoratore a scegliere se accettare o meno questo regime, quindi può anche rinunciare alla reintegra, optando per
l’indennità sostitutiva della reintegra pari a 15 mensilità della retribuzione.

C’era una tipologia di licenziamento, il licenziamento discriminatorio, che veniva dichiarato dalla L 300/1970
radicalmente nullo e al quale era riconosciuta la tutela reintegratoria, in caso di accertato motivo discriminatorio,
indipendentemente dal numero dei dipendenti del datore di lavoro; grava sul lavoratore l’onere della prova.
È nullo anche il licenziamento della lavoratrice madre, dal giorno della richiesta di pubblicazione del matrimonio fino
ad un anno dopo la celebrazione ed anche dall’inizio della gestazione fino al compimento di un anno del bambino.
Nel sistema dell’art 18 il licenziamento nullo fa scattare il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro a prescindere
dal numero dei dipendenti.
Nel caso di licenziamento nelle organizzazioni di tendenza (datori di lavoro in cui si persegue una finalità culturale,
politica, religiosa, un’ideologia, ente religioso, sindacato, il partito politico), è sempre esclusa la reintegrazione.
L’unica tutela che si poteva ottenere era quella obbligatoria; questo era l’indirizzo maggioritario anche se poi alcuni
autori e anche alcuni giudici andavano anche in altra direzione, affermando che reintegrazione era esclusa soltanto per
le mansioni di tendenza; ma se parliamo di mansioni impiegatizie, ripetitive, si potrebbe anche pensare di reintegrare.

Campo di applicazione dell’art 18:


-15 dipendenti per le piccole/medie imprese;
-18 per le imprese di dimensioni medio/grandi;
-tutela obbligatoria per le imprese piccole.

L’art 18, individuare il suo campo di applicazione, prende a riferimento non l’impresa nel suo complesso, ma l’unità
produttiva intendendo per tale un reparto, una filiale dotata di autonomia all’interno dell’impresa (primo criterio per
valutare se si applica la tutela reale); in caso di datori di lavoro imprenditori e non che abbiano più di 15 dipendenti
nell’unità produttiva oppure più di 5 dipendenti se si tratta di impresa agricola, si applicherà la tutela reale.
Se l’impresa cerca di sfuggire all’applicazione dell’art 18 creando unità produttive con pochi dipendenti, si va a
vedere quanti dipendenti quel datore di lavoro ha nelle diverse unità produttive site nello stesso comune (secondo
criterio per valutare se si applica la tutela reale); se il datore di lavoro ha più di 15 dipendenti, oppure più di 5 nel caso
di impresa agricola, nello stesso comune, allora in caso di accertato licenziamento illegittimo verrà applicata la tutela
reale.
La tutela reale troverà applicazione indipendentemente dal numero di lavoratori addetti nell’unità produttiva quando si
tratta di imprese che complessivamente considerate hanno più di 60 dipendenti.
Se si è al di sotto dei limiti individuati dall’art 18, si continua ad applicare la tutela obbligatoria.

Con la Riforma Fornero del 2012, dopo tentativi diversi di riforma dell’art 18, si riesce ad introdurre una modifica in
via normativa di cui la cosa più importante è che infrange il totem simbolo di un certo diritto del lavoro: non sarà più
vero che il licenziamento in tutti i casi di invalidità, se siamo in quel campo di applicazione, darà diritto al lavoratore
ad essere reintegrato, ma ci potranno essere dei casi in cui il lavoratore, pur essendo dipendente di quel datore di certe
dimensioni e pur essendo stato licenziato illegittimamente, non verrà reintegrato ma avrà soltanto un risarcimento.
L’obiettivo della Riforma Fornero era quello di dare attuazione all’indicazione della famosa lettera dell’agosto 2011
che voleva che l’Italia ponesse mano a delle riforme significative, modificasse dei regimi ingombranti colpevoli di
mancata creazione di nuovi posti di lavoro, mancato ingresso di investitori stranieri. Per alcuni questo art 18 era un
demone da abbattere. Alcuni giudici lo vedevano come un problema sopravvalutato perché in Italia c’erano
prevalentemente piccole/medie imprese che sono fuori dalla tutela reale e spesso i contraddittori si risolvevano con
procedure conciliative.
Da ipotesi generale, la tutela reintegratoria diventa un’ipotesi riferita soltanto ad alcune situazioni, ad alcune
illegittimità del licenziamento. Con la Fornero del 2012 si voleva ridurre la flessibilità in entrata ed aumentare quella
in uscita.

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Lezione del 16/04/2021

L’obiettivo della Riforma Fornero era quello di aumentare la facilità dei licenziamenti, sia individuali che collettivi.
La L 92/2012 modifica l’art 18 in questa direzione, cioè in caso di licenziamento a nessuno più si applicherà il vecchio
art 18; quello che rende prorompente la Riforma Fornero e che fa da apripista al CATUC, è che infrange quel
principio secondo cui laddove si rientrasse nel campo di applicazione dell’art 18, in tutti i casi di invalidità del
licenziamento, dovevi essere reintegrato.
La Riforma Fornero spacchetta la reintegrazione in due tipi e prevede, disarticolando ulteriormente il vecchio art 18,
due livelli di tutela risarcitoria; l’obiettivo della L 92/2012 è stato quello di far diventare regola generale il
risarcimento e di contemplare delle ipotesi residuali di reintegra che possiamo chiamare “tutela ripristinatoria
attenuata” o “reintegrazione attenuata”, collegate ad alcune ipotesi di invalidità del licenziamento e restringendo la
vecchia reintegrazione prevista dall’art 18 che ora viene ribattezzata “tutela reintegratoria piena”.
Prima della Riforma Fornero avevamo solo la tutela reintegratoria; se non c’era la tutale reintegratoria c’era quella
obbligatoria perché eravamo fuori dal campo di applicazione dell’art 18; con la L92/2012 nel campo di applicazione
dell’art 18 abbiamo vari tipi di tutela: il nuovo art 18 come modificato dalla Riforma Fornero prevede quattro regimi
di tutela:
1) tutela reintegratoria piena;
2) tutela reintegratoria attenuata (attenuata perché c’è la reintegrazione, ma c’è un risarcimento massimo, cioè
l’indennità di risarcimento è limitata ad un massimo di 12 mensilità); dall’indennità sarà detratto l’aliunde perceptum,
cioè le somme che il lavoratore ha percepito una volta licenziato svolgendo un altro lavoro e sarà sottratto anche
l’aliunde percipiendum, cioè non solo quello che ha guadagnato, ma anche quello che avrebbe potuto guadagnare se si
fosse adoperato usando normale diligenza per cercare un’altra occupazione. Il lavoratore avrà diritto al versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo dell’estromissione;
3) tutela indennitaria forte, quindi sparisce la reintegrazione anche se siamo in quel campo di applicazione, c’è
soltanto una tutela indennitaria forte (forte perché ci sarà un risarcimento tra un minimo di 12 e un massimo di 24
mensilità);
4) tutela indennitaria ridotta (con un risarcimento tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità).

L’obiettivo della legge era quello di marginalizzare la reintegrazione, cioè l’ipotesi generale doveva diventare il
risarcimento e soltanto in ipotesi residuali il giudice poteva disporre la reintegrazione. Con la Riforma Fornero non si
modifica solo l’art 18, ma consapevoli che uno dei problemi dell’art 18 era dovuto proprio alle lungaggini del
processo, si introduce anche il cosiddetto “rito Fornero”: il lavoratore fa causa e ottiene rapidamente un giudizio da
un giudice di primo grado, con la possibilità che nel caso in cui l’esito non sia soddisfacente, si possa fare un reclamo
sempre dinanzi al giudice di primo grado, sempre in tempi brevi.

La tutela reintegratoria piena si applica alle seguenti ipotesi di invalidità del licenziamento:
- licenziamento discriminatorio, licenziamento nullo per causa di matrimonio o maternità;
- licenziamento retto da un motivo illecito determinante (licenziamento ritorsivo);
- licenziamento inefficace perché privo di forma scritta, intimato in forma orale.
Trattandosi di tutela reintegratoria piena, essa si applica a prescindere dal numero dei dipendenti (come previsto dal
testo originale dell’art 18); la misura del risarcimento non potrà essere inferiore alle 5 mensilità e il lavoratore avrà
diritto a un’indennità risarcitoria commisurata alle retribuzioni perse a partire dalla data del licenziamento fino alla
data dell’effettiva reintegra; ci sarà il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e il lavoratore potrà
anche optare per un’indennità sostitutiva della reintegra.

La tutela reintegratoria attenuata si applica alle seguenti ipotesi di invalidità del licenziamento:
- licenziamenti disciplinari, quindi i licenziamenti intimati per giusta causa o giustificato motivo soggettivo valutati
illegittimi dal giudice per insussistenza del fatto contestato (fatto materiale o giuridico) oppure perché il fatto
contestato rientra tra le sanzioni punibili con una sanzione conservativa, sulla base delle previsioni dei contratti
collettivi applicabili;
- quando il fatto contestato esiste, però andando a guardare il contratto collettivo, questo punisce quel fatto commesso
in inadempimento con una sanzione conservativa;
- licenziamenti economici, cioè i licenziamenti economici per giustificato motivo oggettivo valutati illegittimi per
manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento;
- licenziamenti per giustificato motivo oggettivo illegittimi, quando il motivo oggettivo riguarda inidoneità fisica o

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psichica del lavoratore;
- licenziamento per il superamento del periodo di comporto;
Sulle ipotesi di licenziamento in cui è prevista una tutela reintegratoria attenuata è stata sollevata una questione di
legittimità costituzionale da un giudice del Tribunale di Ravenna; egli ha sollevato questa questione con un’ordinanza
del 7 febbraio 2020 e si è arrivati ad una sentenza molto recente della Corte costituzionale. La questione è stata
sollevata sull’art 18 come modificato dalla L 92/2012 perché per le ipotesi richiamate per il lavoratore licenziato nel
caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento, il giudice non ha l’obbligo di reintegrare, ma
ha la facoltà di reintegrare; l’obbligo di reintegrare c’è nel caso di licenziamento illegittimo privo di giusta causa o
giustificato motivo soggettivo. Quindi la questione è stata sollevata per disparità di trattamento tra le due ipotesi, cioè
tra il licenziamento economico (giustificato motivo oggettivo) e il licenziamento per giusta causa. La Corte ha ritenuto
fondata la questione di legittimità costituzionale. La Corte costituzionale con la Sentenza n 59/2021 ha affermato
l’illegittimità dell’art 18 nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto
posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo “può altresì applicare” (il giudice) invece che
“applica altresì” la disciplina di cui al medesimo art 18 (è eliminata la discrezionalità del giudice, che quindi deve
reintegrare nel caso di licenziamento economico).

La tutela indennitaria forte (minimo di 12 massimo di 24 mensilità) doveva diventare l’ipotesi generale, cioè secondo
il rito Fornero, in caso di licenziamento illegittimo sia per motivi disciplinari o che per motivo economico, il giudice
deve applicare una tutela indennitaria, escludendo la reintegrazione nel posto di lavoro; la quantificazione della tutela
indennitaria dipenderà da una serie di elementi che il giudice dovrà considerare (numero dei dipendenti, anzianità di
servizio del lavoratore, comportamento delle parti , condizioni delle parti, dimensione dell’attività economica). Una
volta riconosciuta, questa indennità è omnicomprensiva, quindi comprende anche i contributi previdenziali.
Ipotesi a cui si applica la tutela indennitaria forte: le ricaviamo per differenza dalle precedenti, cioè si applicherà a tutti
i casi di illegittimità del licenziamento disciplinare e a tutti i casi di illegittimità del licenziamento economico.
Per quanto riguarda i casi di illegittimità del licenziamento disciplinare si applicherà, fatte salve le ipotesi di
insussistenza del fatto contestato e di previsione di una sanzione conservativa da parte del contratto collettivo, a tutti i
casi di illegittimità del licenziamento economico fatta salva la manifesta insussistenza della ragione oggettiva e
produttiva fatta valere dal datore di lavoro.

La tutela indennitaria ridotta (minimo di 6 massimo di 12 mensilità) viene riconosciuta nelle ipotesi di inefficacia del
licenziamento. Un licenziamento è inefficace quando è privo di motivazione, in caso di violazione della procedura
dell’art 7 dello Statuto dei Lavoratori (procedura disciplinare, cioè il fatto che i licenziamenti a rilievo disciplinare
devono essere intimati nell’osservanza di una serie di garanzie procedurali che lo Statuto prevede obbligatoriamente
per le sanzioni anche conservative), violazione della procedura di conciliazione che è prevista dalla L 604/1966.

Con il d.lgs.23/2015, in aggiunta all’art 18 come modificato dalla L 92/2012, avremo un nuovo regime sanzionatorio
in caso di licenziamento illegittimo che riguarderà lavoratori assunti a far data dal 7 marzo 2015 con un contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Questi lavoratori, laddove licenziati, godranno delle “tutele crescenti”.
Questo decreto del 2015 restringe ancora di più l’operatività della reintegrazione, infatti sparisce del tutto la
reintegrazione attenuata in caso di licenziamento per motivo economico, cambia la nozione di sussistenza del fatto
contestato e poi modifica anche il regime risarcitorio eliminando quella discrezionalità del giudice, affermando che
l’indennità risarcitoria deve essere collegata alla sola anzianità di servizio senza tenere conto di altri elementi.

Lezione 19/04/2021

Nelle controversie che si sono instaurate successivamente alla modifica dell’art 18, la giurisprudenza ha usato queste
norme a vantaggio del lavoratore, recuperando un po’ di tutela reintegratoria.
Il passaggio significativo è questo: col d.lgs. 23/2015 per la prima volta si introduce in Italia un regime sanzionatorio
avverso ai licenziamenti illegittimi che riguarda soltanto alcuni lavoratori; questo decreto non modifica il regime
precedente, perché ai lavoratori che già lavoravano continua ad applicarsi il regime sanzionatorio come ridefinito dalla
Legge Fornero.

Si introduce per la prima volta una spaccatura del regime applicabile: ci saranno due regimi, uno applicabile ai
lavoratori assunti prima del 7 marzo (art 18 come modificato dalla Fornero), uno applicabile ai lavoratori assunti a far
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data dal 7 marzo 2015.
Questo regime, secondo le intenzioni del legislatore, doveva riguardare i neoassunti, ma nella pratica non è stato
proprio così; nonostante la nominazione di “tutele crescenti”, in realtà le tutele sono inferiori a quelle di cui godono i
lavoratori soggetti al regime precedente, perché in realtà le tutele crescono al crescere dell’anzianità di servizio, ma in
quadro di riduzione delle tutele in caso di licenziamento illegittimo.
Sia per effetto della Corte Costituzionale che di altre elaborazioni giurisprudenziali anche il CATUC, nonostante sulla
carta realizzi un sistema meno garantista per il lavoratore, è stato ricondotto ad un utilizzo un po’ più tutelante, piegato
ad un’interpretazione in linea con quella che i giudici avevano effettuato in relazione all’art 18 modificato nel 2012,
sempre con l’obiettivo di recuperare tutele che la legge riduce.

Campo di applicazione: il CATUC dovrebbe riguardare i neoassunti (7/03/15); l’art 1 comma 1 del d.lgs. 23/2015 si
riferisce soltanto ad alcune categorie legali di lavoratori subordinati, esclusi i dirigenti (quindi operai, impiegati o
quadri sì). In realtà la legge si allarga, contemplando soggetti che non sono neoassunti, perché al comma 2 aggiunge
anche lavoratori a tempo determinato e apprendisti il cui contratto venga convertito in contratto a tempo indeterminato
in una data successiva al 7 marzo (quindi lavoratori che già lavoravano, ma che si stabilizzano successivamente).
Ulteriore aspetto che conferma che il decreto non si riferisce solo ai neoassunti è che la legge assoggetta al CATUC
anche soggetti dipendenti del datore di lavoro di piccole dimensioni che, in virtù delle assunzioni effettuate dal 7
marzo, supera la soglia ed entra nel campo di applicazione del vecchio art 18 (saranno soggetti alle tutele crescenti i
nuovi assunti, ma anche i lavoratori già dipendenti di quel datore che ha superato la soglia per effetto dell’assunzione
di nuovi lavoratori).
Quando parliamo di neoassunti si potrebbe trattare non necessariamente di un giovane alla prima esperienza di lavoro,
ma potrebbe anche essere un lavoratore che già lavorava e che per sue ragioni fa colloqui e va ad occupare posizioni in
altre aziende: il nuovo rapporto di lavoro è soggetto alle tutele crescenti anche se questo lavoratore era soggetto a un
regime diverso il lavoratore se ha una certa professionalità e una certa forza contrattuale che deriva dall’aver
occupato già un posto di lavoro di un certo livello, potrebbe in teoria raggiungere un accordo con il nuovo datore di
lavoro e accettare il nuovo lavoro alla condizione che venga mantenuto l’art 18 come modificato dalla Fornero in caso
di licenziamento.

Si confermano i quattro regimi di tutela; anche per i lavoratori a tutele crescenti abbiamo casi limiti ridottissimi di
reintegra piena, casi di reintegra attenuata ancora più limitati (sparisce il licenziamento per motivi economici) in
quanto è limitata ai licenziamenti per giustificato motivo soggettivo e si rende ancora più rigida la previsione, poi vi
sono dei casi di licenziamento invalido per il quale il giudice può corrispondere soltanto un risarcimento, anche qui si
distingue tra indennità risarcitoria forte e ridotta, ma con un’altra precisazione, cioè che il d.lgs. 23/2015 a differenza
della modifica della Fornero, non prevede alcun margine di valutazione per il giudice, che deve solo limitarsi a
riconoscere l’indennità tra un minimo e un massimo stabiliti dalla legge e riconoscerà tale indennità sulla base della
sola anzianità di servizio (ecco perché si chiama tutele crescenti). Nella normativa previgente il giudice teneva in
considerazione anche altri elementi.

ART 2: CASI DI TUTELA REINTEGRATORIA PIENA (licenziamento discriminatorio, nullo, intimato in forma orale),
anche i lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti avranno diritto alla reintegra piena, cioè quella del vecchio
art 18 (reintegra + indennità risarcitoria).
Il legislatore stabilisce che questa disciplina della reintegrazione piena trova applicazione anche nelle ipotesi in cui il
difetto di giustificazione del licenziamento riguarda la disabilità fisica o psichica del lavoratore.
L’indennità è commisurata alla retribuzione utile per il calcolo del TFR, si deduce solamente l’aliunde perceptum,
cioè quello che il lavoratore ha percepito svolgendo un altro lavoro, ma la vera novità è nell’art 3.

ART 3: LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO E GIUSTA CAUSA


si va a modificare la reintegrazione attenuata della Fornero; comma 1: si afferma il principio che il giudice deve
corrispondere un’indennità tra un minimo e un massimo basandosi sulla sola anzianità, infatti: nei casi in cui risulti
accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, soggettivo o giusta causa,
il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro ed il datore di lavoro dovrà un’indennità risarcitoria (che non è
soggetta a contributi previdenziali a differenza della indennità prevista nel caso di reintegra piena) pari a 2 mensilità
dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore alle 4 e non
superiore a 24 mensilità. La Sentenza della Corte Costituzionale n 194/2018 afferma l’illegittimità costituzionale di
questo art 3 comma 1 nella parte in cui esclude la valutazione del giudice la corte ha affermato che il giudice, nel
quantificare l’indennità risarcitoria, non può limitarsi alla sola anzianità di servizio, ma deve applicare quegli ulteriori

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criteri che già erano citati nell’art 18 come modificato dalla Fornero (posizione ricoperta in azienda, comportamento
delle parti nel processo, numero dei dipendenti, consistenza del datore di lavoro). Il giudice quindi con questa sentenza
recupera un margine di discrezionalità.
Col DD (2018) si modificano anche il minimo ed il massimo dell’indennità risarcitoria: non più min 4 max 24, ma il
minimo è stato portato a 6 e il massimo a 36 mensilità.
Il comma 2 parla della reintegrazione attenuata, che il d.lgs. 23/2015 definisce sulla falsa riga della reintegrazione
attenuata della Fornero, ma esclude del tutto il licenziamento per motivi economici e restringe ancora in quanto
“esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa si può avere una
reintegrazione con un risarcimento massimo di 12 mensilità, ma questo è possibile solo se viene direttamente
dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore rispetto al quale resta estranea
qualsiasi valutazione circa la sproporzione del licenziamento”. Questa norma è stata molto criticata.
Anche in questo caso sono previsti i contributi previdenziali; il lavoratore volendo può optare per l’indennità
sostitutiva della reintegra; dal risarcimento di deduce l’aliunde perceptum e percipiendum. È escluso del tutto il
licenziamento collettivo.
La Sentenza della Cassazione n 12174/2019 ha affermato che si può avere una reintegra attenuata non soltanto
quando il fatto non si è materialmente verificato, ma anche quando non si sono realizzati altri elementi nella condotta,
ad esempio il dolo, la colpa, l’imputabilità, l’antigiuridicità. Per effetto di questa sentenza abbiamo un regime in parte
ridimensionato.

ART 4: LICENZIAMENTO VIZIATO DAL PUNTO DI VISTA FORMALE E PROCEDURALE


prevede un risarcimento legato all’anzianità di servizio, tra un minimo di 2 e un massimo di 12 mensilità dovuto al
lavoratore in caso di licenziamento viziato dal punto di vista formale e procedurale, cioè se il licenziamento è privo di
motivazione, viziato dal punto di vista procedurale perché non si è rispettato l’art 7 dello Statuto dei Lavoratori. In
questi casi il giudice dichiarerà estinto il rapporto di lavoro e prevederà una tutela risarcitoria: avremo una mensilità
per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 2 e non superiore a 12 a meno che il giudice non accerti che
sussistano i presupposti per applicare le tutele o per ottenere un risarcimento di importo superiore o addirittura la
tutela reintegratoria attenuata.
Anche su questo è intervenuta la Corte costituzionale, che con la Sentenza n 150/2020 ha dichiarato illegittima
costituzionalmente l’art 4 nella stessa parte in cui si è dichiarato illegittimo l’art 3, cioè nella parte in cui il giudice
deve riconoscere un’indennità risarcitoria tenuto conto della sola anzianità di servizio. La Corte afferma che il giudice
deve tenere conto anche di ulteriori elementi nel quantificare l’indennità risarcitoria.

ART 5:REVOCA DEL LICENZIAMENTO


C’è anche l’ipotesi in cui il datore può revocare il licenziamento e lo deve fare entro il termine di 15gg dalla
comunicazione del lavoratore dell’impugnazione del licenziamento. In questo caso il rapporto si intenderà di nuovo in
essere come se non fosse mai stato interrotto ed il lavoratore avrà diritto alla retribuzione maturata nel periodo
precedente alla revoca. In caso di revoca non ci sarà l’applicazione di nessun regime sanzionatorio.

ART 6: OFFERTA DI CONCILIAZIONE


è un istituto che viene previsto dal d.lgs. 23/2015 che dà la possibilità al datore di lavoro, secondo un accordo che
viene fatto dal datore e lavoratore in occasione del licenziamento, di corrispondere un’indennità di importo diverso: al
fine di evitare il giudizio e fermo restando che le parti possono conciliare in maniera diversa, il datore di lavoro può
offrire al lavoratore (in sede protetta, ad esempio di fronte a una sigla sindacale) entro il termine di impugnativa
stragiudiziale del licenziamento un’indennità pari ad una mensilità della retribuzione per ogni anno di servizio tra un
minimo di 2 e un massimo di 18 mensilità. Il lavoratore potrebbe avere interesse ad accettare perché solo in questo
caso questa indennità non sarà soggetta a nessuna imposizione fiscale e nemmeno previdenziale, dato che intasca
semplicemente un assegno circolare. Ovviamente anche il datore risparmia. Questa somma al lavoratore è corrisposta
subito, non in tranches. Accettando l’assegno circolare il lavoratore ha l’estinzione del rapporto di lavoro alla data di
licenziamento e, anche se il lavoratore avesse già impugnato, accettare l’offerta di conciliazione comporta alla
rinuncia dell’impugnazione. Se il lavoratore concilierà altre somme, quelle saranno soggette a un regime fiscale
ordinario.

ART 9: PICCOLE IMPRESE ED ORGANIZZAZIONI DI TENDENZA


il d.lgs. 23/2015 va a modificare il campo di applicazione del regime precedente ed interviene su quella distinzione
che avevamo in essere tra tutela reale ed obbligatoria, nonché sul licenziamento nelle organizzazioni di tendenza.
Ove il datore di lavoro non raggiunga i limiti dimensionali di cui all’art 18 della L 300/1970, non si applicherà l’art 3

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comma 2, cioè non ci sarà mai la reintegra attenuata. In ogni caso si applicheranno le indennità risarcitorie previste
dalla legge, ma saranno dimezzate (es: non min 6 e max 36, ma min 3 e max 18).
Anche l’importo previsto dall’art 6 comma 1 viene diminuito: non più min 2 max 18 mensilità, ma sarà non inferiore a
1e non superiore a 6 mensilità.
Quindi per le piccole imprese cambia il campo di applicazione dell’art 18 e successive modifiche.
Per le organizzazioni di tendenza, prima del 2015 dicevamo che non si applica mai l’art 18 cioè non c’è mai la
reintegra, ma solo la tutela obbligatoria.
Dopo il 7/03/2015 nel caso di licenziamento nelle organizzazioni di tendenza, si applica il d.lgs.23/2015, cioè ai datori
non imprenditori che svolgono senza fini di lucro attività politiche, sindacale, religiose, culturale.
Quindi si applica la tutela obbligatoria, ma ci potrebbe essere anche una tutela reintegratoria attenuata.

Ai lavoratori a tutele crescenti non si applica il rito Fornero.

THE END!

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