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VITTORIO VENETO, 18 ottobre 2020

RIFLESSIONI SU UNA POSSIBILE MEDICINA ILLUMINATA

L'obiettivo principale della medicina, preventiva o curativa che sia, dovrebbe


essere sempre la personalizzazione, cioè adattarsi alle soggettive caratteristiche
fisiopatologiche, nutrizionali, familiari, sociali e ambientali di ogni individuo,
proprio come se si trattasse di un abito sartoriale cucito addosso con precisione
alla singola persona.
Parliamo quindi di medicina della persona e di medicina vitalista in cui l’atto
medico diventa occasione per esprimere con forza la spinta vitale del soggetto.
Una medicina che sia il meno possibile soppressiva, in cui la prevenzione e
l’ascolto della persona diventino il punto cardine di una visione completa e
necessariamente più illuminata.
Una medicina che sia il più possibile integrata e funzionale in considerazione
della complessità delle patologie attuali che stanno diventando sempre più
croniche.

La pandemia di Covid-19 ci ha indotto a compiere importanti riflessioni sulla


medicina che tutti noi desideriamo.
Per troppi anni la sanità pubblica è stata depredata in seguito continui tagli di
bilancio, a continue revisioni dei conti, alla volontà di creare una medicina
basata sul profitto e non più sulla cura della persona.
L’ingresso del neoliberismo nel contesto gestionale della medicina è stato uno
dei più gravi errori che si potessero compiere.
Un altro gravissimo errore è stato quello di non considerare più l’uomo al centro,
nella sua interezza e totalità, ma di scomporlo in parti sempre più piccole, di
parcellizzararlo.
Il gravissimo errore è stato quello di escludere completamente la Natura nel
contesto della crescita, dello sviluppo e della salute dell’essere umano.
In un contesto come quello di questa conferenza, potremmo dire che l’errore
imperdonabile è stato quello di escludere Dio dalla vita degli uomini.
Potremmo andare oltre questa affermazione già di per sé molto potente.
Potremmo dire che il grande errore è stato addirittura proprio quello di esserci
voluti sostituire a Dio.
10 anni fa Papa Benedetto XVI disse, prima di recitare l'Angelus nel cortile del
Palazzo papale di Castelgandolfo: “quando l'uomo dimentica Dio e a Lui si
sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è
male, di dare la vita e la morte, l'inferno si apre sulla terra».
Joseph Ratzinger aveva grande timore che la modernità, le sue correnti culturali
e filosofiche, finissero col cancellare la presenza di Dio, la concezione cristiana
della vita e l'essenza della fede.
Un pericolo che è denso di conseguenze negative e che è destinato ad aprire le
porte a sempre nuove forme di violenza.
Indifferenza, mancanza di empatia, mancanza di fratellanza, mancanza di
solidarietà.
Ratzinger invitò anche a «riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra
l'umanesimo ateo e l'umanesimo cristiano; un'antitesi che attraversa tutta quanta
la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo
contemporaneo, è giunta a un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori
hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato».
Questa tesi fu ribadita nel messaggio per la Giornata mondiale della Pace del
2010 – dal titolo significativo «Se vuoi coltivare la pace, custodisci il Creato».
Si vis pacem, para bellum, è una celebre locuzione dello scrittore romano
Vegezio.
Se invece vogliamo coltivare la pace, dobbiamo necessariamente custodire il
Creato.
Quasi 10 anni più tardi abbiamo ritrovato questo messaggio nell’enciclica,
potremmo dire “sociale”, intitolata Laudato si di Papa Francesco.
Lo stesso Papa Francesco, durante il Lockdown, in una piazza San Pietro
deserta, una sera ha detto: “pensavamo di vivere sani in un mondo malato”.
Queste parole debbono farci riflettere moltissimo ancora oggi.

Sono trascorsi secoli da quando abbiamo imparato a conoscere l’importanza dei


contesti sociali e naturali in cui si radicano e moltiplicano i virus, anche perché
tutti noi conviviamo con essi e loro non sempre ci minacciano.
La peste nera ha insegnato che i microrganismi sono preesistenti e si
moltiplicano e diffondono quando si creano le condizioni appropriate perché ciò
avvenga, questa è la famosa teoria del terreno di Antoine Bechamp, che si
contrappose a quella del germe di Louis Pasteur.
Nel nostro caso, quelle condizioni – il terreno – sono state create dal
neoliberismo.
William McNeill nel suo saggio “La peste nella storia”, rileva alcune questioni,
ancora di grande attualità, quando analizza la peste nera che infuriò in Europa
dal 1347.
I cristiani, a differenza dei pagani, si prendevano cura degli infermi, “si aiutavano
tra loro in epoche di pestilenza” e in quel modo contenevano gli effetti della
peste.
La “saturazione di esseri umani”, la sovrappopolazione, è stata invece un fattore
chiave nell’espansione della peste.
La povertà, una dieta poco varia e la non osservanza delle “superstizioni”, cioè
dei costumi locali delle popolazioni, a causa dell’arrivo di nuovi abitanti,
trasformarono le pestilenze in disastri.
Fernand Braudel, uno dei massimi storici del XX secolo, nel suo saggio “Le
strutture del quotidiano”, aggiunge che la peste, l’idra dalle mille teste,
costituisce una costante, un elemento strutturale della vita degli uomini.
La peste nera distrusse la società feudale a causa dell’acuta scarsità di mano
d’opera in seguito alla morte, avvenuta in pochi anni, della metà della
popolazione europea, ma anche a causa della perdita di credibilità delle
istituzioni.
È soprattutto il timore di quella stessa perdita di credibilità che oggi ha spinto gli
Stati a rinchiudere milioni di persone.
La pandemia di Coronavirus ha alcune particolarità.
L’epidemia attuale non avrebbe l’impatto che ha se non fosse per i tre lunghi
decenni di neoliberismo che abbiamo alle spalle.
Essi hanno causato danni ambientali, sanitari e sociali probabilmente irreparabili.
Le Nazioni Unite, attraverso l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per
l'ambiente), riconoscono che l’epidemia “è riflesso della degradazione
ambientale“.
Il rapporto segnala che “le malattie trasmesse da animali a esseri umani stanno
crescendo e peggiorano man mano che gli habitat selvaggi vengono distrutti
dall’attività umana”, perché “gli agenti patogeni si diffondono più rapidamente
verso le mandrie o le greggi e quindi verso gli esseri umani”.
Per prevenire e limitare le zoonosi bisogna fermare “le molteplici minacce agli
ecosistemi”, cioè tornare ad avere rispetto per la Natura.
Tornare a comprendere che l’uomo è parte integrante della Natura, non
elemento esterno.
Contesto religioso e contesto laico.
Pensate che all’inizio di marzo, le temperature in alcune regioni della
Spagna hanno superato di 10 gradi i valori normali.
Pensate anche che la Pianura Padana è la regione più inquinata d’Europa.

La seconda notissima e dolorosissima questione che moltiplica le epidemie sono


i forti tagli al sistema sanitario nazionale.
In Italia, negli ultimi 10 anni, si sono persi 70 mila posti letto ospedalieri con 359
reparti chiusi, oltre ai numerosi piccoli ospedali che sono stati abbandonati,
dismessi.
Tra il 2009 e il 2018 la spesa sanitaria è cresciuta del 10%, contro il 37 della
media dei paesi dell’OCSE.
Questa politica neoliberista è una delle cause per le quali l’Italia è stata costretta
a mettere in quarantena tutto il paese.
Pierpaolo Pasolini denunciò che il consumismo spoliticizza, provoca una sorta di
smarrimento del sé e comporta una “mutazione antropologica”.
La disuguaglianza di oggi è la stessa del Medioevo, quando i ricchi correvano
nelle loro case di campagna al momento in cui si annunciava la peste.
Ci ricordiamo tutti il Decamerone del Boccaccio.
Fernand Braudel scrisse proprio questo: “intanto i poveri restavano soli,
prigionieri nella città contaminata, dove lo Stato li alimentava, li isolava, li
bloccava, li vigilava”.
Assistiamo a un modello di panopticon carcerario digitalizzato (il Panopticon è
un carcere ideale progettato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy
Bentham), che sospende le relazioni umane e che sembra essere l’obiettivo
strategico del capitale per non perdere il controllo nell’attuale transizione
sistemica.

Tutto questo è esattamente quello che abbiamo potuto vedere nella medicina
negli ultimi decenni.
Oggi purtroppo piangiamo a causa di politiche scellerate che hanno escluso,
rifiutato totalmente la centralità dell’essere umano.

È quindi possibile tornare, o meglio, potremmo dire recuperare una medicina


illuminata?
E se possibile, come?

Credo fermamente che il futuro sia rappresentato da un vero e proprio ritorno al


passato.
Questo ritorno al passato non ha nulla a che fare con un richiamo nostalgico,
con il ricordo dei bei vecchi tempi andati, ma ha a che fare con un recupero
autentico e profondo dell’Arte Medica, dove le parole arte e medica sono scritte
entrambe con la lettera maiuscola poiché rappresentano un ritorno alla Medicina
Ippocratica.
La medicina, per definizione, non può che essere umana, ma come abbiamo già
visto, l'odierno panorama è diverso.
Oggi la medicina è caratterizzata da uno sbilanciamento della componente
tecnologica ed economico-finanziaria rispetto alla componente antropologica
dell'arte lunga, definizione della medicina data da Ippocrate stesso.

Anche il Prof. Ivan Cavicchi, ad esempio, ha usato il termine di Medicina


Amministrata intendendo “una Medicina vincolata a seguire primariamente
procedure standardizzate con lo scopo di risparmiare”.
Cioè una Medicina che gestisce il medico imponendogli un metodo “dall’alto” e
lo fa attraverso i Protocolli o le Linee Guida.
In questo modo il Medico perde il controllo, sia sui mezzi che impiega, sia sugli
scopi della cura, diventando di fatto un professionista tecnico-esecutivo, quindi
un medico che pensa fino ad un certo punto, perché poi ci pensa il Protocollo.
Cavicchi ha scritto che “La Medicina Amministrata oggi è il più potente mezzo di
snaturamento della professione medica e nello stesso tempo è il più grande
nemico del cittadino e dei suoi diritti, perché alle necessità di cura essa
antepone quelle del risparmio”.

Gli antichi clinici propugnavano il concetto pensare da medico, era un’attitudine,


cioè individualizzare ogni singolo caso: non esiste infatti la malattia, ma il malato,
di cui bisogna conoscere, oltre ai sintomi, la storia, l'ambiente di vita e di lavoro.
Il medico consigliava il malato e forse lo guariva, ma sempre lo consolava.
Questo significa che il medico era presente.
La presenza era una componente essenziale dell’arte medica.

Dobbiamo sempre chiederci che cosa avviene nella mente e nel cuore di un
malato quando prova sofferenza e dolore.
L'essere umano non è solo un insieme di molecole, né il medico può essere un
frigido automa che tratta ogni paziente come semplice applicazione di protocolli
con un lavoro burocratico.
Nel tempo attuale, è noto, riscontriamo una sanità frazionata in professioni,
specializzazioni, perfezionamenti.
Una medicina illuminata deve ricomporre i saperi, ricondurre il malato da
numero a individuo con una maggiore percezione dei bisogni dei pazienti, con
rispetto, con ascolto, con solidarietà.
Abbiamo un disperato bisogno di solidarietà.

Qual è l'essenza della medicina dunque?


Possiamo dire, senza timore di errore, che la medicina non è una scienza, ma
una pratica scientifica basata su scienze ed esercitata in un mondo di valori.
Possiamo anche dire che la medicina è una pratica scientifica «debole», cioè
che non possiede algoritmi certi, come quelli necessari per risolvere
un'equazione matematica.
Il medico spesso deve decidere in condizioni probabilistiche in cui nulla è certo.

Il rapporto medico-paziente, da tempo immemorabile, è saldato da un legame


che non presenta solo fondamenta scientifiche, ma è basato sulla cosidetta
religio medici, cioè la religione medica del dovere.
Tale rapporto è basato su funzioni curative, consolatorie, pedagogiche e di
tutela e si sintetizza nella pietas, cioè nell’attenzione alle sofferenze del paziente.
L'uomo è titolare di diritti per il fatto stesso di essere uomo.

Possiamo dire che quest'alleanza medico-paziente plurimillenaria si è rotta per


quattro motivazioni scrivibili:
1. al medico,
2. al malato,
3. all'irrompere crescente e tumultuoso della tecnologia (assenza della
semeiotica),
4. al moloch della produttività di natura neoliberista.
La medicina moderna è diventata arida e distante, rinchiusa in una superba
torre dottrinale, totalmente sorda ai valori umani.
Totalmente sorda alle critiche.
Totalmente sorda ai pareri non allineati.
Oggi non c'è più tempo, né patrimonio mentale per un'arte medica ove
esperienza, colloquio e rapporto diretto siano fondamentali per una
riappropriazione da protagonista della professione medica.

Il malato è trattato come un numero o una cosa a causa dell'eccesso di


specializzazione, di spersonalizzazione, di burocrazia e diviene sempre più ostile
e cova un rancore vendicativo verso quella che considera – non a torto – una
lobby ingorda.
A ciò si aggiunge che il cittadino e i suoi familiari richiedono non solo
l'obbligazione di mezzi, ma l'obbligazione di risultato, vale a dire la guarigione
sempre e comunque.
La pretesa illusoria che la medicina possa guarire sempre.
Anche in questo modo di vedere le cose, possiamo ritrovare la negazione per la
Natura.

Da qui l'emergere di una maggiore responsabilità da parte dei medici, che


devono chiaramente acquisire nuove abilità di comunicatori e scrupolosi
mediatori tra i linguaggi scientifici e i diversi registri della comunicazione sociale,
quello che il filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas definiva «agire
comunicativo».

Da più parti si auspica il ritorno ad una medicina intesa realmente come arte,
fondata su un forte rapporto etico, sociale, antropologico con il malato,
attraverso varie espressioni fondamentali:
- medicina umana,
- medicina narrativa,
- medicina condivisa,
- medicina dell'ascolto.

Tutte espressioni caratterizzate da una sempre migliore comunicazione medico-


paziente.
Il medico deve tornare ad essere presente nella stanza del paziente, deve
tornare a comprendere l’importanza della presenza come cura.
La presenza che cura.
Essere presenti significa proprio riappropriarsi profondamente del perduto
rapporto medico-paziente.

Quando parlo di medicina umana o di medicina dell’ascolto, quindi di Medicina


della Presenza, non posso non pensare a un celebre quadro, molto famoso,
dipinto da Luke Fildes nel 1891 ed esposto alla Tate Gallery di Londra, intitolato
The Doctor, dove si vede questo medico al centro del quadro, seduto al
capezzale di una paziente bambina, con dietro i genitori che lo osservano
disperati.
Il medico nel dipinto pare essere stremato da una lunga notte insonne passata
interamente a vegliare su quella bambina, ma la speranza giunge da un raggio
di sole che penetra attraverso uno spiraglio della finestra, è un sole mattutino
che annuncia l’alba, che annuncia la guarigione.
Questo quadro rappresenta tutto il significato profondo della Medicina e
dell’essere medico: presenza, dedizione, tenacia, sacrificio, rapporto medico-
paziente.

Rimanendo nell’ambito dell’arte pittorica, il lavoro del medico clinico assomiglia


molto a quello di un ritrattista e questo lo condivideva anche Samuel
Hahnemann, il fondatore dell’Omeopatia, che usò l’immagine del pittore per
spiegare l’attenzione al particolare con cui il medico (l’omeopata, nel suo caso)
deve visitare il suo paziente.
Per fare questo, però, bisogna conoscere il paziente a 360° e non certamente
solo nei suoi sintomi patologici più generali.
Bisogna imparare ad osservarlo nel modo di parlare, nel tono che usa, in come
si muove e si veste, nelle sue caratteristiche somatiche e costituzionali.
Chi studia i pazienti in questo modo impara moltissimo da loro: impara a
conoscere le patologie, l’animo umano e la vita stessa.
In questo modo la Medicina scende in profondità per raggiungere la conoscenza
delle cause delle malattie.
Questo modo di fare Medicina io l’ho imparato essenzialmente e primariamente
dall’Omeopatia: 200 anni di storia, di studi, di conoscenze, di sperimentazioni
sull’uomo sano e su quello malato, migliaia di ricerche, libri e pubblicazioni
confermano l’efficacia delle cure omeopatiche per l’uomo, gli animali e le piante,
cioè per ogni essere vivente.

Non possiamo permettere che la nostra Medicina, quella che l’uomo da millenni
è andato scoprendo e imparando piano piano con infiniti sacrifici e che è per noi
“madre”, perché ci fa crescere come medici e come persone, ma è per noi
anche “figlia”, perché abbiamo il dovere di proteggerla, nutrirla e farla crescere
sempre più sana e forte, venga infangata, denaturata e distrutta da giochi
economici, politici e di potere.
Dobbiamo difenderla come fosse “casa nostra”, perché difendere questa
Medicina significa difendere noi stessi, i nostri figli e i figli dei nostri figli, ma
significa anche difendere la nostra libertà di espressione, di scelta terapeutica e
di cura, dalla nascita alla morte.
La Medicina Clinica deve salvaguardare il dialogo, l’osservazione, lo studio,
l’ascolto, l’interrogatorio, il rispetto, l’accoglienza, il crescere insieme per
giungere, sempre insieme, ad un grado maggiore di consapevolezza e di libertà
interiore, “in modo da poter più facilmente conseguire – come diceva
Hahnemann – i più alti fini della nostra esistenza”.

Una Medicina illuminata deve fare l’esatto contrario rispetto a quanto sta
facendo durante la gestione di questa pandemia.
Sappiamo che la persona umana sana ha in sé gli strumenti per proteggersi da
quasi tutti gli squilibri (ci sono poche eccezioni, come quelle causate dai traumi
e dagli avvelenamenti).
Pertanto, se una malattia si instaura, significa che la persona non è stata in
grado di attivare tutte le sue difese.
E noi sappiamo anche molto bene quanto le malattie siano espressione di un
conflitto profondo.
Partendo da un tale presupposto, risulta ovvio che la migliore prevenzione non
sia quella di agire di volta in volta sul distretto dell’organismo che secondo il
nostro giudizio appare debole o alterato, bensì quella di tenere perfettamente
funzionanti tutti i fisiologici meccanismi difensivi dell’individuo.
Questo è raramente possibile con i farmaci chimici, sia perché agiscono solo su
distretti ben delimitati del corpo, sia perché squilibrano invece di potenziare i
nostri meccanismi fisiologici, mentre lo si può fare con delle pratiche che
agiscano sull’intera persona – il sistema mente-corpo – mantenendo o
ripristinando il suo complesso equilibrio.

Pertanto una Medicina illuminata deve lavorare necessariamente con la


prevenzione.
La base per una Medicina illuminata è la prevenzione.
E la migliore prevenzione è quella di mantenere in salute:
- tutte le componenti della persona:
- il corpo, la psiche e lo spirito.

Comunque, più specificatamente, alla luce delle conoscenze attuali solo tre
sembrano essere le principali “armi preventive”:

Un corretto stile di vita adattato alle caratteristiche della persona:


alimentazione bilanciata e ‘sana’, rispetto degli orari e dei ritmi biologici
(specie del mangiare e del dormire), adeguata attività fisica, vivere in un
ambiente sano, ecc.
Una terapia medica individualizzata sulla base delle caratteristiche
specifiche della Persona, come fosse un abito sartoriale.
[Tra le numerose terapie preventive possibili, una considerazione
particolare va data alle terapie energetiche e tra queste all’Omeopatia,
che sembra essere una delle più valide per la sua capacità di influire in
modo individuale, aspecifico, potente e prolungato sull’intera parte psico-
fisica dell’individuo ripristinando o mantenendo un buon grado di
“normalità” in tutta la persona e realizzando il tanto auspicabile
potenziamento dei fisiologici meccanismi difensivi endogeni.]
Una vita sociale in stretta comunione con gli altri e una vita interiore ricca
e profonda.
Quest’ultima attività preventiva è la sola capace di agire sul nostro spirito
e, in assoluto, è la migliore via di prevenzione, perché se lo spirito
dell’uomo fosse veramente sano, molto più difficilmente la psiche e il
corpo si ammalerebbero.

La Medicina deve tornare a conoscere e ad occuparsi dell’uomo.


Deve contaminarsi con bioetica, storia, antropologia, psicologia, biopolitica,
biodiritti, filosofia, senza perdere attenzione ai problemi sociali.
Dalla crescente distanza medico-malato promana la cosidetta «Medicina
Difensiva», con danni al malato e alti costi per la comunità, valutati pari a circa il
10 % dell'intero stanziamento per la sanità italiana: una somma enorme.
Per evitare il naufragio nelle lande desolate della tecnocrazia, le scienze umane
devono essere abbinate necessariamente a una prassi più adeguata alla dignità
e alle esigenze del malato.
Le scienze umane sono il «respiro della mente»: permettono una formazione
slegata dall'impiego delle macchine.
Nel quadro della sostenibilità finanziaria (con rigoroso contrasto alle truffe e tagli
a sprechi e inefficienza) bisogna chiaramente indicare che al centro del sistema
sanitario non c'è il pareggio di bilancio, ma la salute dell'uomo.
Il funzionamento delle aziende potrebbe essere il mezzo, ma la tutela della salute
dev’essere necessariamente il fine.

Un vero e proprio manifesto per la vera e “nuova” medicina si ritrova nelle parole
del cardinale Gianfranco Ravasi: «Sta crescendo la consapevolezza che la
malattia e il dolore sono un tema globale e simbolico, non soltanto fisiologico.
L'accompagnamento umano, psicologico, affettivo e spirituale è tutt'altro che
secondario.
C'è bisogno di tornare a una concezione umanistica della medicina».

Princìpi che valgono anche per i medici di morale laica.


Occorre un reagente morale, un lavoro pedagogico tenace.
Il mestiere del medico – faticoso, difficile, angosciante – deve tornare ad essere
arte della cura, sempre condotta tra scienza e valori spirituali.
È necessario il ritorno a una sanità che sia amica, a una stretta interrelazione
medico-malato.
Una costruzione nella quale si incardina il diritto all'eguaglianza sociale,
all'omogeneità territoriale, al paritario accesso ai servizi.

Infine è richiesta una piena applicazione della Carta costituzionale, la nostra


«Bibbia civile».
Chiudo citando Vladimiro Zagrebelsky, grande costituzionalista, che afferma che
il diritto alla salute – intesa come il più elevato livello dello stato di salute
raggiungibile dalla persona – è l'unico diritto che la Costituzione qualifica come
fondamentale e questo, a mio modesto parere, dovrebbe anche essere il fine
ultimo dell’Arte Medica.

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