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IL PENTATEUCO: QUESTIONI INTRODUTTIVE

1. Pentateuco: nome e delimitazione


Nella tradizione ebraica e cristiana, la tôrāh (= legge, dottrina, insegnamento) comprende i
primi cinque libri della Bibbia e si conclude con la morte di Mosè (Dt 34): in ebraico si parla dei
“cinque quinti della legge”(hamishah humshè hattorah), in greco di “(libro) pentateuco” (penta,teucoj).
Pentateuco (che si impone soprattutto nella tradizione cristiana) da penta = cinque e da teuchos
(teu/coj) = arnese, utensile –> astuccio, contenitore e, anche, il contenuto, cioè i rotoli.
Pentateuco significa, quindi, i cinque rotoli, i cinque libri: i primi cinque del canone biblico, la
prima parte dell’AT. Dalla tradizione greca della LXX, passata poi nella Vulgata, ci sono giunti i nomi
di questi primi cinque libri: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio. Per l’importanza e i
richiami si vedano, ad esempio, la suddivisione pentapartita del Salterio ebraico (meditazione della
tôrāh?), i cinque discorsi di Mt, l’incipit di Gv 1,1. Al tempo di Gesù era assodata la rilevanza dei
cinque libri (la legge!), la loro attribuzione a Mosè e, di conseguenza, la loro autorità superiore ai
profeti e agli altri scritti (la tradizione cristiana smorzerà solo in parte tale primato).
La delimitazione tradizionale dei cinque libri è stata messa in discussione dalla ricerca moderna
e contemporanea. Si parla perciò di:
# Esateuco: si sostiene che Giosuè vada legato al Pentateuco, se no incompleto in mancanza
della conquista.
# Tetrateuco, per tre motivi:
1) non ci sarebbe nessun legame letterario tra Gn-Nm e Dt (nessun testo deuteronomico
nei primi quattro libri);
2) le fonti del Pentateuco non sono presenti in Gs (KO l’Esateuco);
3) Dt è la prefazione della storia deuteronomistica (Gs-2Re) e ne fornisce la chiave di
lettura. Solo in un secondo tempo Dt sarebbe stato staccato da Sdt e legato al Tetrateuco.
# Enneateuco: si preferisce considerare l’insieme Gn—2Re come una grande unità letteraria
dalla creazione all’esilio babilonese (Enneateuco perché Rut è tra le meghillot e 1-2Sam e 1-2Re
considerati ciascuno come un solo rotolo). Le motivazioni della proposta sono giocate:
1) sull’esigenza di un pieno compimento delle promesse;
2) su un impianto cronologico che scandirebbe la storia della salvezza in tappe legate
all’edificazione del tempio (dalla tenda dell’incontro al tempio di Salomone); e alla teologia
dell’alleanza, in base alla quale la dinamica creazione-caduta, già prefigurata in Gn 2-3 come
paradigma universale, si rifletterebbe poi nella storia di Israele (dalla costituzione all’esilio).
Tuttavia gli indizi in questa direzione sono troppo deboli e i raccordi tra testi così differenti non
risultano molto convincenti: non c’è alcuna evidenza di un insieme letterario di così ampia portata.

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# È bene continuare a parlare di Pentateuco per una serie di motivi, che andiamo a vedere. Le
differenti strutturazioni rilevabili in un testo antico non necessariamente si escludono a vicenda, anche
se va rilevata quella principale (accenno a Genesi): nel nostro caso dobbiamo tener presente il dato
trasmessoci concordemente dalla tradizione ebraica e da quella cristiana, ricercandone appunto le
motivazioni in due testi particolari, che stanno alla fine del Pentateuco e all’inizio della letteratura
profetica (secondo la concezione ebraica).
1) Dt 34,10-12:

10 Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè - lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia - 11 per tutti i segni e
prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nel paese di Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro
tutto il suo paese, 12 e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele.

Questo testo fa da lo spartiacque con quanto viene dopo e afferma:


- la superiorità di Mosè come profeta e quindi la superiorità della rivelazione a lui rivolta (Torah)
rispetto ai profeti anteriori e posteriori e agli scritti;
- la sua superiorità è legata all’unicità della sua relazione con YHWH (cfr Es 33,11 e Nm 12,6-8);
- pertanto l’esodo è l’evento fondamentale della storia di Israele, più di qualsiasi altro avvenimento
successivo.
2) Gs 1,1-8:

1 Dopo la morte di Mosè, servo del Signore, il Signore disse a Giosuè, figlio di Nun, servo di Mosè: 2 «Mosè mio servo
è morto; orsù, attraversa questo Giordano tu e tutto questo popolo, verso il paese che io dò loro, agli Israeliti. 3 Ogni
luogo che calcherà la pianta dei vostri piedi, ve l'ho assegnato, come ho promesso a Mosè. 4 Dal deserto e dal Libano
fino al fiume grande, il fiume Eufrate, tutto il paese degli Hittiti, fino al Mar Mediterraneo, dove tramonta il sole: tali
saranno i vostri confini. 5 Nessuno potrà resistere a te per tutti i giorni della tua vita; come sono stato con Mosè, così
sarò con te; non ti lascerò né ti abbandonerò. 6 Sii coraggioso e forte, poiché tu dovrai mettere questo popolo in
possesso della terra che ho giurato ai loro padri di dare loro. 7 Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire
secondo tutta la legge che ti ha prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu abbia
successo in qualunque tua impresa. 8 Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e
notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai
successo.
Il testo afferma il differente livello presente tra la figura di Giosuè e quella di Mosè: mentre Mosè è
definito dalla sua relazione con YHWH (servo di YHWH), Giosuè è definito dalla relazione con
Mosè (ministro di Mosè). Nonostante la continuità della storia salvifica, è chiaro che il fondamento
della storia di Israele è Mosè. La fedeltà alla legge di Mosè scritta in un libro (vv. 7-8) costituisce il
criterio di successo per Giosuè e per la successiva storia di Israele.

Pertanto:
- la tôrāh riveste una posizione unica nell’AT perché unica è la figura di Mosè nella storia della
rivelazione;
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- i cinque libri del Pentateuco rivestono dunque un carattere normativo che gli altri libri biblici non
hanno;
- per l’identità d’Israele il Pentateuco contiene le figure essenziali (i patriarchi e Mosè) e i due
elementi teologici basilari (le promesse e il binomio esodo/legge).

2. Prospettiva sincronica
a) La struttura dei singoli libri
1) GENESI
La maggioranza degli esegeti vede nelle formule di tōledôt (‘ēlleh tōledôt NN) l’elemento che
struttura il primo libro biblico, una formula che ritorna, sempre in funzione introduttiva, 10 volte. Tali
formule forniscono la struttura unitaria di tutta la Genesi, collegando storie delle origini e storie
patriarcali. La formula significa, letteralmente, “generazioni, quello che è stato generato da …” (dalla
radice yld = generare), sia quand’è seguita da genealogie (che riconducono il significato a
“discendenza”), sia quand’è seguita da avvenimenti (che implicano il significato di “storia”), che
trattano pur sempre di discendenti della persona menzionata. In questi ultimi casi, la formula introduce
gli avvenimenti più importanti di Genesi (può essere un primo criterio di strutturazione): creazione,
diluvio, le storie di Abramo, di Giacobbe e di Giuseppe e dei suoi fratelli.
All’interno di questo quadro unitario risulta poi facilmente rilevabile la suddivisione
fondamentale del libro che si gioca intorno alla cesura rappresentata dal diluvio:
* 1,1-9,19 contiene la storia delle origini dell’universo,
* 9,20-11,26 la transizione tra i due blocchi
* 11,27-50,26 la storia patriarcale,
(in genere si semplifica 1-11 origini e 12-50 patriarchi: si passa così dall’universale al
particolare nella storia della salvezza)
All’interno delle storie patriarcali rivestono carattere strutturante alcuni discorsi divini che
aprono alla storia di Israele o di uno dei patriarchi e sono posti in punti strategici: essi costituiscono una
sorta di “filo rosso” che unisce le diverse storie patriarcali e rappresentano una sorta di programma
(narrativo) di quanto avviene di seguito.
1) Gn 12,1-3 (chiamata di Abramo): per la prima volta Dio mette a fuoco non la sorte
dell’umanità, ma quella di un solo popolo rivolgendo delle promesse al suo capostipite.
2) Gn 26,2-5 dice la continuità fra Abramo e Isacco e delle promesse divine loro rivolte (è il
programma che riguarda Isacco).
3) Gn 28,13-15 (nella visione di Betel) esprime la continuità di Giacobbe con i patriarchi
precedenti anche riguardo alle promesse (terra e discendenza, cui si aggiunge il ritorno nella
terra).

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4) Gn 46,1-5a, che si pone nel momento in cui Giacobbe e il suo clan devono scendere in Egitto,
segnala che la permanenza in quella terra dev’essere letta come temporanea e non in
contraddizione con l’adempimento delle promesse precedentemente fatte. Infine,
5) Gn 50,24 (fra le ultime parole di Giuseppe) ribadisce la promessa della terra e la continuità fra i
diversi patriarchi.
Gn 12-50 si gioca pertanto sull’itinerario dei patriarchi e sul loro rapporto con la terra
promessa, cioè la terra di Canaan: Abramo parte e la esplora; Giacobbe (con itinerario circolare) lascia
la terra per ritornarvi con una famiglia numerosa; la storia di Giuseppe spiega il trasferimento
provvisorio in Egitto (e costituisce il legame con le successive storie dell’Es).
Alla preoccupazione per la terra, le storie patriarcali associano la preoccupazione per la
discendenza (da qui si spiega l’abbondanza di genealogie). C’è forte interesse a delimitare i criteri di
appartenenza al popolo di Israele e la sua collocazione nell’universo (è l’esigenza sottesa alle formule
di tōledôt sopra rilevate): si potrebbe parlare di una “storia della definizione di Israele”. Sia la storia di
Abramo (12-25) che la storia di Giacobbe (25-36) sono preoccupate di delimitare Israele rispetto a tutti
i popoli circostanti (nominativi e territori).
Che l’interesse di Gn sia più legato alle storie patriarcali che a quelle delle origini lo prova la
proporzione tra il “tempo della storia” e il “tempo del racconto” (spiegare con una frase sulle conquiste
di Alessandro Magno in tredici anni (336-323) e la mia giornata di ieri, facendo rilevare quanto cambia
in termini di interesse, informazioni e particolari). Approssimando, 2021 anni per 11 capitoli contro
circa 300 per 39 capitoli.
2) ESODO
È la questione della sovranità di YHWH su Israele a percorrere tutto Es.
1) Es 1,1-15,21: l’uscita dall’Egitto. La questione da risolvere è chi sia il sovrano di Israele, chi
Israele debba servire, se YHWH o il faraone. Con le piaghe (Es 7-11) e nel passaggio del mare
(Es 14), YHWH rivela la sua superiorità e la sua sovranità.
2) Es 15,22-18,27: la marcia dall’Egitto al Sinai. Sezione di transizione in cui YHWH, sovrano del
suo popolo, ne deve risolvere problemi pratici: sete, fame, attacchi nemici. Si inizia ad
accennare alla legge e all’organizzazione giuridica del popolo.
3) Es 19,1-24,11: l’alleanza al Sinai. Es 20,23 contiene l’affermazione centrale su YHWH: l’esodo
è l’evento fondamentale della storia di Israele, su cui il Signore può fondare le sue prerogative e
la richiesta che Israele non abbia altri dei. Es 19,3-8 presenta il programma narrativo di tutta la
sezione, che affronta la questione dello “statuto di Israele”. A suggellare i nuovi rapporti tra
YHWH e il suo popolo si hanno il decalogo, il codice dell’alleanza, vari rituali e l’alleanza (in
24,3-8) con tutti i suoi gesti di consacrazione. La visione e il pasto di 24,9-11 sanciscono
anziani e sacerdoti come legittimi rappresentanti di YHWH in mezzo al suo popolo.
4) Es 24,12-31,18: istruzioni sulla costruzione del santuario. Il santuario è presentato come
abitazione del sovrano in mezzo al suo popolo e condizione del pieno esercizio della sua
sovranità: qui se ne delinea il progetto. I versetti estremi della sezione (24,12 e 31,18)
accennano alle tavole di pietra che contengono la legge con le condizioni fondamentali per le

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relazioni tra Dio e il suo popolo, dalla cui osservanza dipenderà la presenza divina in mezzo ad
esso.
5) Es 32—34: la rottura e il rinnovamento dell’alleanza. Punto nodale: dopo la rottura
dell’alleanza con l’episodio del vitello d’oro, YHWH abiterà ancora in mezzo al suo popolo? Il
fatto che YHWH ceda dinanzi all’intercessione di Mosè, lo rivela come Dio di perdono e di
misericordia (Es 34,6-7). Il rinnovamento dell’alleanza è simboleggiato dal dono di due nuove
tavole della legge.
6) Es 35—40: edificazione del santuario. Con tale costruzione e la presa di possesso finale,
YHWH ha dimostrato di essere il “sovrano di Israele” dopo aver sbaragliato la potenza umana
del faraone e le altre divinità simboleggiate dal “vitello d’oro”. L’inizio di Es descrive la servitù
di Israele in Egitto, alla fine del libro il popolo serve YHWH: ma tale liturgia (ma il vocabolo
ebraico è sempre il medesimo, ‘ăbōdāh) ha caratteristiche ben diverse dalla iniziale schiavitù (si
veda 35,4-29). Il riposo del sabato (35,1-3) è ciò che distingue il lavoro libero dalla schiavitù.
3) LEVITICO
Il libro ha come scopo la riorganizzazione di tutta la vita del popolo in funzione di un’esigenza
di “purezza” e “santità”, a motivo della presenza di YHWH in mezzo ad esso. Quattro le sezioni più
un’appendice.
1) Lv 1—7: i sacrifici.
2) Lv 8—10: consacrazione dei sacerdoti e inaugurazione del culto. Mosè, Aronne e i suoi figli
sono i personaggi principali di questi capitoli.
3) Lv 11—16: leggi di purità e impurità. Vocabolario caratteristico della tematica, la sezione vede
diverse conclusioni di sottosezioni centrate su leggi particolari (ad esempio, 14,54-57: legge per
la lebbra). Il cap. 16 non è legato alle leggi sull’impurità ma presenta il rituale per il “giorno
dell’espiazione” o yom kippur (se ne hanno due conclusioni, al v. 29a e al v. 34).
4) Lv 17—26: la “legge di santità”. Il nome deriva dalla celebre espressione di Lv 19,2.
5) Lv 27: rappresenta un’appendice, contenente indicazioni relative alle offerte per il santuario.
Essendo in cammino nel deserto, Israele non può basare i suoi fondamenti giuridici sul possesso
della terra, la sua legge sul diritto di proprietà. L’esodo è il solo fondamento giuridico di Israele che è
un popolo libero pur non possedendo ancora una terra. Lv rilegge l’esperienza dell’esodo come una
“separazione” (qiddushah=santificazione) di Israele dalle altre nazioni, operata da YHWH. Di qui
alcune conseguenze:
a) poiché l’esodo è opera di YHWH, Israele gli appartiene, è sua proprietà (nahalah), poiché deve a lui
la sua esistenza;
b) la libertà di ogni Israelita è sacra perché ciascuno appartiene solo a YHWH;
c) poiché Israele è santo, tutti gli aspetti della sua esistenza devono essere caratterizzati dalla santità
(cfr le leggi su puro e impuro);
d) la terra in cui Israele entrerà sarà proprietà esclusiva di Dio, nessun Israelita potrà accampare diritti
di proprietà assoluti sulla terra;
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e) in quanto “santificato”, Israele non può vivere come le altre nazioni dalle quali è stato separato
(l’uscita dall’Egitto e l’estraniamento rispetto alle nazioni costituiscono la santificazione d’Israele).
Pur tenendo presenti altre teologie veterotestamentarie (cf. Rut e Giona) e le critiche che
specialmente Gesù vi muove nel NT, questa teologia ha consentito agli Ebrei di sopravvivere nella
storia, conservando la propria identità di “popolo di Dio”.
Excursus

A margine di quanto detto a proposito di Lv – ma un discorso analogo può valere per Nm e,


almeno in parte, per Dt – presentiamo alcuni criteri utili in vista della corretta comprensione di una
tematica particolare, quella concernente le cosiddette regole di purità. Infatti se la quantità di queste
regole nel Pentateuco è un indice evidente della loro importanza per gli scrittori biblici, i lettori
moderni faticano a cogliere i concetti di “puro”, “santo”, “impuro.

*Introduciamo una serie di termini tecnici della questione. Si dice santificazione quel processo
di consacrazione, offerta a Dio che rende santo ciò che è ordinario: si pensi all’elezione divina di
Israele, che era un popolo tra i tanti e Dio ne ha fatto il popolo eletto. Si dice profanazione il processo
inverso, che rende comune (profano, cioè “procul a fano”) ciò che è santo: cose intrinsecamente sante
(si pensi al nome divino) sono profanate se se ne fa un abuso. Si dice purificazione il processo che
rende puro ciò che è impuro: ciò può avvenire, a seconda dei casi, con lavaggi, unzioni o sacrifici di
vario tipo. Si dice contaminazione il processo che rende impuro ciò che è puro: realtà pure, come il
corpo umano, sono profanate dal contatto con ciò che è impuro (sangue, cadaveri, malattie).
*Chiarite le premesse terminologiche, va tenuto conto del fatto che gli autori biblici procedono
fondamentalmente per mezzo di polarità: nello specifico, gli elementi polari sono santo/ordinario,
puro/impuro. Ne consegue che persone o oggetti possono essere santi o ordinari; puri o impuri. Visto
che, per definizione, nulla che sia santo può essere impuro, la distinzione tra puro/impuro riguarda
unicamente ciò che è ordinario. Nel loro status naturale, persone o cose sono ordinarie e pure: ciò che
viene consacrato, cioè dedicato a Dio, diventa santo; ciò che in qualche modo viene contaminato
diventa impuro.
*Ciò che è santo e ciò che è impuro non devono assolutamente entrare in contatto tra di loro.
L’ambito di ciò che è santo è l’ambito di Dio: poiché YHWH è il Santo di Israele. Per questo nessuno
può entrare in contatto con Lui (pena la morte immediata), se non il sommo sacerdote, debitamente
purificato, una volta all’anno, nel giorno di kippur. Questo spiega tutte le precauzioni che Es e Nm
impongono nei confronti del santuario, dei suoi oggetti, del culto e la necessità della mediazione
sacerdotale. La santità è dunque definita dal carattere proprio di ciò che appartiene a Dio. Il luogo in
cui Dio dimora è santo e, per estensione, è santo tutto ciò che vi gravita intorno (il suo arredamento, i
suoi sacerdoti ecc.).
*Ma cosa definisce il polo opposto della santità, ovvero l’impurità? C’è chi ha proposto di
individuare l’elemento costitutivo dell’impurità nell’idea di “anormalità”: si spiegherebbero gli animali
elencati in Lv 11 e le malattie cutanee menzionate come forme anormali rispetto a un tipo assunto
come norma. Più convincente – sebbene ancora non esauriente – appare la proposta di individuare la
quintessenza dell’impurità nella morte: essa è l’esatto contrario di Dio, sorgente della vita piena. Per
questo i cadaveri erano considerati estremamente contaminanti e chi ne veniva a contatto doveva essere
sottoposto ad un preciso rituale di purificazione. Altrettanto contaminante è il sangue, a prescindere

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dalla modalità con la quale venga versato (omicidio, ferite di guerra, mestruazioni…). Le malattie
cutanee, specie la lebbra, sono espressioni di decomposizione e di morte e come tali vengono
considerate impurità. La dispersione di seme, volontaria o involontaria, implica una diminuzione di vita
e, pertanto, è contaminante. Il peccato stesso provoca uno stato tra i più rilevanti di impurità fino a
richiedere, nei casi più gravi, l’eliminazione del peccatore per impedire la profanazione permanente
della terra. Pertanto, i concetti di “santità” ed “impurità”, con tutti gli atteggiamenti che ne conseguono,
operano come un sistema simbolico che ricorda ad Israele l’imperativo di rimanere fedele alla vita e di
rigettare la morte.
*le considerazioni sin qui svolte dovrebbero aiutarci a comprendere che il concetto di santità
che emerge dal Pentateuco concerne l’appartenenza a Dio, da cui ogni santità proviene: in ultima
analisi, l’uomo non fa che accogliere questo dono gratuito che è unicamente frutto della liberalità del
Creatore. Anche il concetto di purità/impurità non è riducibile ad un’interpretazione moralistica,
giacché ha la funzione di delimitare i diversi ambiti della vita dell’uomo distinguendo le cose ordinarie
da quelle dedicate alla relazione con Dio.
4) NUMERI

Il libro è di difficile strutturazione tanto è vario e disparato il materiale che lo compone


(qualcuno ha proposto di considerarlo come un cestino in cui sono andati a finire tutti i materiali che
non hanno trovato collocazione altrove). Guardando con attenzione agli indicatori linguistici, si può
riconoscere una struttura bipartita, che evidenzia come l’intero libro appartenga al genere letterario
della campagna militare: questo genere presenta la marcia di Israele sotto la guida di YHWH presente
nella nube.
1) Nm 1,1-10,10: preparazione (cultuale e militare) della campagna militare. Le tribù, specie i
leviti, vengono organizzati intorno alla tenda (è emblematico che l’ordine di marcia intorno
all’arca rispecchi quello delle truppe egiziane intorno al faraone: Israele si organizza intorno a
YHWH suo sovrano).
2) Nm 10,11-36,13: esecuzione della campagna militare. Il problema di Israele diventa qui quello
di imparare a camminare con il suo Dio. YHWH è il Dio che aiuta nella marcia ma che castiga
ogni ribellione (sia di singoli individui che dell’intero popolo). L’episodio più eclatante è in Nm
13—14: l’intera generazione dell’esodo viene condannata a morte a motivo del rifiuto di
conquistare la terra promessa. Al di là degli elementi formali, sui quali si può a lungo discutere,
l’episodio ha un valore fondamentale nell’introdurre un’idea che farà capolino varie volte nei
racconti del cammino del deserto: i fallimenti nel corso della campagna militare non sono
dovuti a una cattiva preparazione, giacché Dio aveva previsto tutto e bene, ma ai peccati di
Israele. Quando invece il popolo obbedisce alle indicazioni di YHWH affidate a Mosè, il
popolo riesce nelle sue imprese. Questo è uno dei criteri in base a cui sono riconoscibili, in
questa seconda parte, due sottosezioni:
a. 10,11-21,20: la marcia nel deserto, segnata dal peccato dei figli di Israele;
b. 21,21-36,13: l’inizio della conquista (tutta la sezione è ormai orientata alla conquista
della terra promessa e alla sua ripartizione fra le tribù, alcune delle quali iniziano a
sedentarizzarsi in Transgiordania).
5) DEUTERONOMIO

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Si possono individuare nel libro quattro parti, grazie alla presenza di “titoli” iniziali molto
simili, che introducono quattro grandi discorsi di Mosè al popolo di Israele:
1) Dt 1,1—4,43: primo discorso di Mosè. In particolare Dt 1-3 rappresenterebbe una prefazione non
solo del Dt ma di tutta l’opera storica deuteronomistica (Gs—2Re);
2) Dt 4,44—28,68: secondo discorso di Mosè. Rappresenta la “legge di Mosè” menzionata
successivamente nella SD: la torah è indivisibilmente legge e narrazione (all’interno di questa sezione
si hanno una forma del decalogo al cap. 5 e la legge deuteronomica ai capp. 12—26).
3) Dt 28,69—32,52: terzo discorso di Mosè (insieme agli ultimi adempimenti narrati al cap. 31 e al
cantico di Mosè al cap. 32).
4) Dt 33—34: benedizioni finali di Israele da parte di Mosè (Dt 33 // Gn 49) e racconto della sua morte
(Dt 34).
Quanto al genere letterario del libro, Dt si presenta come una sorta di testamento dal momento
che pretende di riportare le parole pronunciate da Mosè nell’ultimo giorno della sua vita: si tratta di un
dettagliato resoconto della sua ultima giornata. Si tratta, dunque, di una narrazione che ha come scopo
principale di registrare i discorsi pronunciati in quella giornata.

b. Prospettiva sincronica sintetica


Anche solo la panoramica sincronica che abbiamo avuto modo di compiere sui primi cinque
libri biblici ci ha consentito di rilevare una pluralità di voci, di interessi e di teologie all’interno del
Pentateuco. Basterebbe questo per escludere l’attribuzione di questi cinque libri a un unico autore. Una
serie di ulteriori considerazioni ci può aiutare a cogliere la necessità di tenere presente anche la
prospettiva diacronica per un’adeguata comprensione del Pentateuco.

Di per sé la panoramica sincronica fin qui compiuta può trarre in inganno proprio a motivo della
sua linearità: ciò che abbiamo fin qui compiuto è stato di individuare le linee di fondo, gli interessi e la
strutturazione del Pentateuco nel suo insieme e nei suoi singoli libri. Ciò facendo, abbiamo compiuto
indubbiamente delle semplificazioni o, perlomeno, delle generalizzazioni. Nel momento in cui si passa
ad affrontare singoli testi o si legga l’insieme dei cinque libri con la debita attenzione ai particolari, ci
si imbatte in una serie di incongruenze (dai doppioni alle contraddizioni) e di difficoltà che, per un
verso, ci segnalano l’antichità della letteratura biblica (e quindi la notevole distanza con il nostro modo
di concepire la letteratura) e, per altro verso, rivelano un complesso processo di formazione di tali testi:
si potrebbe dire che i testi biblici più che essere stati scritti sono “cresciuti”. A titolo esemplificativo, si
possono menzionare la presenza di contraddizioni tra i tre codici legislativi, la ripetizione di episodi o
la presenza di più filoni narrativi all’interno dello stesso episodio (cf. diluvio e Es 14) nei testi narrativi.
Tutto ciò spiega alcune delle difficoltà specifiche dell’esegesi del Pentateuco e la sua necessità per una
adeguata comprensione del testo biblico. Tenere presente l’eventuale stratificazione diacronica di un
testo non significa perdersi in una sterile operazione archeologica e neppure ridurre l’esegesi a una
tecnica di “taglia e incolla”, ma comprendere un testo sia nelle sue apparenti incongruenze sia nella sua
eventuale pluralità di significati. Al tentativo di ricostruire il processo che ha portato alla formazione
dei libri biblici a noi pervenuti ha dedicato molti dei suoi sforzi l’esegesi moderna e contemporanea.

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3. Cenni di storia della ricerca moderna e contemporanea sul Pentateuco
0. A mo’ di premessa
Ogni epoca legge e interpreta la Scrittura a partire dalle sue precomprensioni culturali e in base
alle sue domande (cioè in base ai problemi che è in grado di percepire). Ciò non significa annullare
l’oggettività della Parola disperdendola in una ridda di significati soggettivi, ma significa ricordarsi che
ogni interpretazione di un testo biblico è di per sé parziale e datata: l’unico vero assoluto è dato dalla
Parola stessa. Di conseguenza l’interpretazione della Scrittura non sarà mai esaurita nella vita della
Chiesa: guardare alla storia dell’interpretazione dell’AT nella Chiesa è motivo di arricchimento a patto
che non sia falsato da atteggiamenti anacronistici (è ambiguo dire: bisogna tornare all’esegesi dei Padri:
cfr l’ultimo documento della Pontificia Commissione Biblica).
La carrellata storica che ci accingiamo a fare non è un incitamento al relativismo
qualunquistico, ma vuol fornire per un verso il quadro di una serie di teorie che sono presenti nella
divulgazione di carattere biblico (cf. l’introduzione della BJ), segnalandone i limiti e, soprattutto,
evidenziandone, almeno in parte, la matrice culturale; per altro verso intende fornire qualche cenno sul
dibattito recente. La presentazione è indubbiamente sommaria: occorre anche non dimenticare che in
venti secoli di cristianesimo, a prescindere dallo sviluppo della scienza esegetica, l’accostamento
credente alla Scrittura è sempre continuato in modo vivo (cf. gli scritti di molti santi).

a) L’ipotesi documentaria classica (J. Wellhausen 1884-1918)


Al sorgere dell’esegesi moderna contribuiscono alcuni presupposti culturali che conducono a
interrogare il testo biblico in modo nuovo. L’Illuminismo rivendica l’autonomia della ragione dinanzi
ad ogni forma di autorità: in base a tale esigenza il mondo cristiano (specie quello protestante) cerca di
conciliare lettura critica della Bibbia e interpretazione religiosa del suo messaggio. Per fare ciò risulta
necessario separare il contenuto religioso della Scrittura da alcune ipotesi sulle sue origini, che devono
essere discusse a prescindere da qualsiasi atteggiamento dogmatico. Si fa gradualmente strada l’idea
che l’ispirazione divina dei testi non escluda l’origine umana e storica dei libri.
Altro presupposto culturale viene fornito in seguito (specie in Germania) dal Romanticismo, che
porta a evidenziare le manifestazioni originarie, spontanee e naturali della cultura biblica: in base a
questa sensibilità, si può comprendere il desiderio di risalire alle epoche ed alle forme più “genuine”
della tradizione ebraica, non ancora contraffatte dalle adulterazioni postesiliche di impronta
istituzionale, legalistica e farisaica. L’evoluzione del pensiero biblico viene vista, romanticamente,
come una progressiva decadenza dalle genuine forme religiose primitive fino alle corrotte forme del
culto e del legalismo. Questo spiega la forte attenzione alla storia, in particolare alla storia della
formazione dei diversi libri biblici (in particolare, dei libri del Pentateuco), alla ricerca dei nuclei
originali dei testi biblici. La dialettica hegeliana (tesi – antitesi – sintesi) diviene una griglia per
cogliere lo sviluppo del pensiero biblico: genuinità dell’originaria religione israelita (tesi), sua
decadenza nel moralismo, nel legalismo e nel ritualismo specie postesilici (antitesi), culmine nella
novità neotestamentaria (sintesi).
Partendo da alcune ipotesi gradualmente elaborate tra il XVII e XIX secolo, verso la fine del
XIX secolo J. Wellhausen formula l’ipotesi documentaria classica, che si è imposta nell’esegesi fino
agli Anni Settanta del XX secolo. Già in precedenza erano stati individuati quattro documenti
soggiacenti all’attuale Pentateuco [per documento si intende un insieme di testi narrativi e legislativi in

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sé compiuto e riconoscibile in base a criteri letterari (formule, vocabolario, …), teologici o ideologici]:
il documento jahwista (J), quello elohista (E), quello deuteronomista (D) e quello sacerdotale (P, dal
tedesco Priestercodex).
Wellhausen inserisce questi dati in un quadro storico omogeneo: nel corso dell’epoca
monarchica furono scritti J ed E (lo J viene scritto nel Sud nel secolo IX, mentre E nel Nord un secolo
dopo); D è legato (nel suo nucleo più antico) alla riforma deuteronomistica di Giosia nel 622 (cfr 2Re
23), mentre P risale all’epoca esilica o postesilica (la legge, intesa evidentemente in modo negativo in
ambito protestante, non risale dunque alle origini di Israele ma del giudaismo postesilico). Il Pentateuco
attuale sarebbe stato compilato verosimilmente all’epoca del secondo tempio, più precisamente,
secondo molti autori di tale scuola, all’epoca della riforma di Esdra (cfr Ne 8). Questa ipotesi è ancora
presente in molti testi di divulgazione biblica (ad esempio nelle introduzioni e nelle note della nostra
Bibbia di Gerusalemme).
Secondo Wellhausen, la religione testimoniata dallo J è naturale, spontanea, libera e genuina (si
pensi ai santuari locali e ai sacrifici e alle feste scanditi sui tempi naturali dei lavori stagionali). Con D
inizia un processo di snaturamento di tale religione: le feste vengono legate non più ai ritmi della natura
ma alla memoria di eventi passati della storia di Israele, si ha una progressiva centralizzazione e
ritualizzazione del culto, le regole prendono il posto della spontaneità. Questo processo culmina nella
religione instaurata dal sacerdozio postesilico (e testimoniata in P): legalismo e ritualismo hanno il
sopravvento, la liturgia perde ogni legame con la vita e la natura, il culto viene incentrato sulla
categoria di “peccato”, suo scopo primario diventa l’espiazione delle colpe. Occorrerà aspettare il NT
per sostituire la “schiavitù della legge” con il “vangelo della grazia e della libertà” (la matrice
protestante è evidente).

b) La “Storia delle forme” (Gunkel, Noth e von Rad)


Un primo elemento di crisi dell’ipotesi documentaria (che pure si impone tra gli studiosi per
circa un secolo) si registra con l’incredibile moltiplicarsi di suddivisioni all’interno delle quattro fonti
del Pentateuco. Al suo graduale superamento contribuiscono anche, a partire dalla seconda metà del
XIX secolo, due importanti fattori:
1) le scoperte archeologiche di siti appartenenti alle civiltà del Vicino Oriente antico che
iniziano a susseguirsi a partire dai primi dell’800 (prima in Egitto, poi in Mesopotamia) forniscono agli
esegeti un ampio materiale comparativo e contribuiscono all’interesse per la comparazione tra
fenomeni simili nelle varie religioni e culture dell’antichità;
2) inoltre, nel contesto ottocentesco di forte industrializzazione, cresce un interesse nuovo per il
folklore popolare (cfr le favole dei fratelli Grimm), che ha ripercussioni anche sulla ricerca esegetica.
H. Gunkel (1862-1932), con i suoi lavori sulla Gn, sui Sl e sui profeti, viene considerato il
padre della Formgeschichte, la “storia delle forme”, un metodo di lettura che fino agli Anni Settanta è
stato ritenuto parallelo e compatibile con l’ipotesi documentaria. Gunkel va alla ricerca dell’origine dei
testi biblici nella preistoria della scrittura, nella tradizione orale. Pertanto, se per Wellhausen l’epoca
aurea della religione israelita era il periodo della monarchia unita, per Gunkel occorre risalire all’epoca
dei giudici e, ancor prima, alla fase nomadica della vita di Israele.

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L’attenzione per l’ambiente concreto in cui sono nati i racconti si traduce nella ricerca del Sitz
im Leben (= il contesto esistenziale di un genere letterario, letteralmente le sue “radici nella vita”):
contesto di origine, non necessariamente d’uso (cf. la favola alla sera al focolare e in uso didattico).
Gunkel fornisce degli esempi applicati alla Bibbia: le storie degli antenati intorno al focolare familiare
per le storie patriarcali o momenti cultuali per i salmi.
La scuola esegetica di cui Gunkel è capofila introduce in modo consistente nell’esegesi una
sensibilità estetica e uno spiccato interesse per la forma letteraria e lo stile dei testi biblici: forma e
contenuto, stile e messaggio non possono essere separati (si impone l’attenzione per il genere letterario
dei testi).
Mentre per Wellhausen l’Esateuco era il risultato di un lavoro di compilazione a partire da tre o
quattro fonti scritte, Gunkel studia lo stadio preletterario dei singoli racconti, che hanno poi formato
dei cicli di storie (ad esempio, il ciclo di Giacobbe) e, infine, sono stati raccolti nelle “fonti” (come J o
E). Lo stadio orale dei testi sarebbe molto più interessante del loro stadio documentario e sarebbe in
grado di spiegare anche talune loro incongruenze: le quattro fonti avrebbero raccolto dei materiali
eterogenei, senza cercare di armonizzarli.
G. von Rad (1901-1971) e M. Noth (1902-1968) testimoniano, ciascuno a modo suo, una
tendenza prevalente nella prima metà del XX sec., quella di ricercare nel Pentateuco il nucleo originale
della fede d’Israele. Esso viene ritrovato nelle fasi premonarchiche remote: al tempo dei giudici o ancor
prima, quando Israele era nomade nelle zone semidesertiche circostanti la terra promessa.
G. von Rad presenta due ipotesi importanti.
a) Interessandosi alla forma finale dell’Esateuco in base alle categorie di Gunkel, egli afferma che
tale opera sarebbe un ampliamento di un nucleo primitivo, il cosiddetto “piccolo credo storico”
(tra altri testi, si veda in particolare Dt 26,5b-9).

“Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi
diventò una nazione grande, forte e numerosa. 6Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci
imposero una dura schiavitù. 7Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore
ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; 8il
Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e
operando segni e prodigi. 9Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra, dove scorrono latte
e miele.

In queste brevi affermazioni di fede, sotto forma di riassunti della storia di Israele, due momenti
sono più importanti (l’esodo e il dono della terra), la storia patriarcale viene solo accennata
all’inizio, mentre sono del tutto assenti la storia delle origini e il dono della legge al Sinai. Pertanto
“legge” e “storia di Israele” sarebbero due “forme letterarie” diverse, ciascuna con un proprio Sitz
im Leben (occhio al pregiudizio protestante tra grazia e legge).

b) Mentre per Gunkel lo J era solo un compilatore di storie e stava alla fine di un lungo processo
redazionale, per von Rad, invece, lo J è una grande personalità, un genio letterario e teologico
dell’epoca da lui definita dell’“illuminismo salomonico”. La sua impronta sarebbe stata
essenziale per la composizione dell’Esateuco: E e P sarebbero state figure molto più secondarie.
Lo J avrebbe completato il “credo” ancora scarno e creato legami fra le varie componenti della
sua composizione: prima avrebbe unito le due tradizioni della storia della salvezza e del dono
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della legge; poi avrebbe arricchito l’insieme con tradizioni già esistenti, riformulate per farle
corrispondere al suo disegno teologico. Scopo teologico di von Rad è di dimostrare che la
monarchia davidica rappresenta, per J, il culmine della storia di Israele: egli vede nella storia di
Giuseppe la miglior espressione dell’“illuminismo salomonico” (saggezza e
“secolarizzazione”). La monarchia davidica rappresenta, per J, il compimento delle promesse
formulate in Gn 12,1-3, che rappresenterebbe il “kerygma dello J” (grande nazione, grande
nome, famiglie della terra = popoli assoggettati). Cfr il suo classico Teologia delle tradizioni
storiche di Israele. Teologia dell’Antico Testamento I (superato per impianto metodologico, di
matrice protestante, ma certo molto interessante).

Se von Rad era fondamentalmente un teologo, la sensibilità di Noth è piuttosto quella di uno
storico. Segnaliamo tre intuizioni di questo esegeta che hanno segnato la storia dell’esegesi.
a) Unità e continuità tra il Dt e l’opera deuteronomistica: il Dt attuale solo in un’epoca recente è
diventato il quinto libro del Pentateuco.
b) I grandi temi presenti nel Tetrateuco attuale sono stati trasmessi separatamente prima di essere
riuniti in una sola opera dopo un lungo processo redazionale. Allo stadio orale i temi originali erano
cinque: le promesse patriarcali, l’uscita dall’Egitto, la permanenza nel deserto, la rivelazione al
Sinai e l’entrata nella terra. Il Sitz im Leben di queste tradizioni è cultuale, dal momento che
vennero trasmesse anzitutto nei santuari. Quando poi sono intervenuti gli autori dei documenti J, E
e P si sono limitati a mettere per iscritto le tradizioni ormai giunte a una forma pressoché definitiva,
aggiungendo loro alcuni elementi connettivi. (Occhio: brilla la svalutazione della figura di Mosè:
sicuro il pregiudizio di tipo politico)
c) L’elaborazione del concetto storiografico di “anfizionia israelitica”: dal momento che tutte queste
tradizioni presuppongono l’esistenza di un solo Israele, a livello istituzionale se ne deve ipotizzare
l’esistenza in una forma unitaria anteriore al regno davidico (cui risalirebbe poi J). Sul modello
delle anfizionie greche [Con il termine anfizionia (dal greco Ἀμφικτυονία) o lega anfizionica si
indicava, nella Grecia antica, una lega sacrale di ἔθνη o πόλεις (polis) che gravitavano attorno ad
un particolare santuario], Noth ipotizza, nel periodo dei giudici, l’esistenza di una simile
confederazione di dodici tribù di Israele. Tali tribù avevano in comune un santuario, in cui
celebravano le loro feste e recitavano le loro “gesta” comuni, formando così progressivamente una
tradizione pan-israelitica, e formavano un esercito unitario in caso di aggressioni dall’esterno.

c) Le critiche all’ipotesi documentaria


Fino agli Anni Settanta vi fu un generale consenso fra gli esegeti circa la validità di fondo
dell’ipotesi documentaria: anche in ambito cattolico, la pubblicazione nel 1956 della prima edizione
della Bibbia di Gerusalemme testimoniò l’accettazione dell’ipotesi documentaria e, soprattutto, del
fatto che l’interpretazione critica della Bibbia non minaccia le verità della fede. Nel 1968 il movimento
studentesco inizia a mettere radicalmente in discussione il mondo ereditato dai padri. Nell’esegesi del
Pentateuco, l’ipotesi documentaria inizia ad essere radicalmente contestata. Nel mondo anglosassone
influisce il metodo della “nuova critica” letteraria: per spiegare un testo non bisogna necessariamente
risalire alla sua origine, lo studio esegetico non necessariamente dev’essere di impianto storico. Lo
studio letterario di un testo prescinde dalla sua storia e dal suo autore per spiegarlo come lo si trova ora,
nella sua stesura finale.
Alla romantica ricerca delle origini si contrappone ora l’attenzione per la fase finale della
composizione dei testi: il periodo esilico e postesilico non è più visto come la decadente età del
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giudaismo, ma come il contesto in cui sono sorti gli elementi più significativi del Pentateuco. Si
riflettono nell’esegesi alcuni tratti culturali che segnano la fine della modernità: l’esperienza della crisi,
della complessità e la diffidenza verso le ideologie. Le affermazioni assolute dell’ipotesi documentaria
vengono poste in questione. In modo sintetico, passiamo in rassegna le contestazioni cui sono state
sottoposte le fonti dell’ipotesi documentaria.
Si tenga presente che D (di cui parleremo meglio quando affronteremo il Dt) e P vengono
riconosciuti anche nelle nuove ipotesi (anche se non come documenti), mentre è sull’esistenza di J e
sulla sua collocazione all’epoca della monarchia unita che si è sviluppata la contestazione all’ipotesi
documentaria. L’E è stato da sempre il “parente povero” dell’ipotesi documentaria, cui si attribuivano i
testi non ascrivibili a J o a P: già nelle prime metà del secolo scorso si erano levate voci che negavano
l’esistenza di un documento E, considerando i testi ad esso attribuiti come racconti paralleli a J (e poi in
esso integrati) o aggiunte di origine deuteronomistica. Alcuni testi tradizionalmente attribuiti ad E sono
oggi considerati tardivi o spiegati come testi particolari di una redazione che non voleva perdere nulla
delle tradizioni antiche. Oggi quasi nessuno parla più di una “fonte E”.
Vista la sua importanza nell’ipotesi documentaria classica, la discussione sullo Jahwista è stata
particolarmente rilevante, sia circa la sua esistenza come fonte sia riguardo alla sua datazione.
L’attacco frontale allo J è venuto da R. RENDTORFF. Egli evidenzia che, a differenza di quanto
ritenuto fino a quel momento, “ipotesi documentaria” e “storia delle forme” rappresentano metodi tra
loro incompatibili. Infatti la seconda sviluppa la sua analisi a partire dalle piccole unità (ovvero i
singoli racconti), che entrano poi a far parte delle unità maggiori (quelli che Noth definisce “i grandi
temi”), che altro non sarebbero che blocchi narrativi con una propria coerenza interna, sostanzialmente
indipendenti l’una dall’altra. L’ipotesi documentaria, invece, supponeva che all’inizio del processo di
formazione del Pentateuco vi fossero delle grandi unità scritte, indipendenti e complete. A detta di
Rendtorff non si può parlare simultaneamente di documenti unificati e di piccole unità riconoscibili: in
concreto, J non può essere al contempo un “raccoglitore di storie” (Gunkel) e un fine teologo che ha
elaborato una grande opera letteraria (von Rad). Inoltre, Rendtorff evidenzia la differenza essenziale tra
le storie patriarcali e l’esodo: le prime sono unificate dalle promesse, specie dalla promessa della terra,
che non ritorna più nelle narrazioni dell’esodo (se non in alcuni testi isolati). È dunque più verosimile
pensare che questi due blocchi narrativi si siano sviluppati indipendentemente, prima di essere
congiunti nello stesso Pentateuco. Di fatto Rendtorff opta per il metodo di Noth delle “unità maggiori”
e abbandona l’idea di fonti continue attraverso tutto il Pentateuco: e ai blocchi narrativi già evidenziati
da Noth aggiunge anche la storia delle origini. Per quanto riguarda la formazione del Pentateuco
attuale, Rendtorff distingue un’opera redazionale di stampo deuteronomistico e un’altra di stampo
sacerdotale (più qualche intervento posteriore).
Le proposte di Rendtorff sono state riprese in seguito dal suo allievo E. BLUM. Per Blum il
Pentateuco attuale è il frutto di un compromesso che ebbe luogo durante l’epoca persiana fra due
correnti, quella laica (deuteronomistica: gli anziani. Da qui la sigla KD o D-Komposition) e quella
sacerdotale (KP o P-Komposition), ciascuna delle quali aveva elaborato una sua storia delle origini di
Israele. La sintesi, o il compromesso, avvenne con il beneplacito dell’autorità persiana: è su questa base
che si fonda la cosiddetta teoria della Reichsautorisation o “Autorizzazione imperiale”. Il Pentateuco
rappresenterebbe il documento legale che l’autorità persiana impose ai giudei, partendo dalle loro
tradizioni. È una teoria che oggi viene considerata con un certo sospetto… Comunque, tornando allo J,
c’è da ritenere il fatto che per la “scuola di Heidelberg” (che prende il nome dall’università di
Rendtorff e Blum) non esiste più come documento né come fonte.

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Alcuni esegeti, pochi ma influenti, continuano a difendere l’ipotesi documentaria nella sua
forma classica, sostenendo l’esistenza dello J all’inizio della monarchia unita o durante il regno di
Salomone. In questa linea si pone E. Cortese.
Da questa rassegna, breve e sintetica, risulta evidente che lo J è stato il documento più messo in
discussione fra i quattro. Nonostante il moltiplicarsi di ipotesi, tre punti sembrano emergere con
maggiore chiarezza (ipotesi di J.L. SKA).
1) Sembra ormai insostenibile l’esistenza di una fonte J antica: all’origine della tradizione non esisteva
un documento completo, ma piuttosto dei “cicli di racconti”;
2) il lavoro redazionale si è esteso su un ampio arco temporale e si è svolto probabilmente in varie
fasi. Probabilmente le sintesi teologiche D e P hanno dato un nuovo impulso alla tradizione e creato
il quadro indispensabile per poter raccogliere e organizzare i materiali narrativi più antichi.
L’ipotesi di uno J di epoca salomonica non pare, pertanto, sostenibile: infatti non si ha traccia di J
nei profeti preesilici, e alcuni testi fondamentali dello J classico sono stati riconosciuti come
postesilici;
3) a livello metodologico, è finita l’epoca in cui la preoccupazione degli esegeti del Pentateuco era di
suddividerne il materiale in quattro “contenitori” (i documenti, o fonti), con evidenti e incredibili
forzature. Oggi è scontato che si parta dallo studio del testo attuale per poi passare – se e laddove
ciò risulti necessario – alla “critica delle fonti”. Oggi si preferisce distinguere, riguardo ai testi non
sacerdotali del Pentateuco, tra le unità narrative e i codici legislativi antichi e gli strati redazionali
più recenti. Sul fatto che per i testi più antichi si possa parlare di una fonte J, le perplessità si fanno
sempre più forti.

Il racconto sacerdotale (la fonte P) non è mai stato posto radicalmente in discussione come le
due fonti fin qui verificate perché, a motivo di uno stile e di una teologia particolarmente riconoscibili,
è sempre stato piuttosto facile identificare i testi appartenenti a tale fonte. P sembra offrire gli elementi
per ricostruire una storia del mondo nella quale si inserisce la storia di Israele: si tratta, dunque, di
individuare le tappe di questa storia. Dio riscrive e programma la storia che si divide in due grandi
momenti: la storia dell’universo (creazione e nuova creazione con il diluvio) e la storia di Israele (la
storia degli antenati e la storia del popolo). Lo scopo di P è di ritrovare nel passato le salde fondamenta
sulle quali si possa ricostruire la comunità d’Israele: per P tali fondamenta sono di natura religiosa. Il
fondamento dell’esistenza sia dell’universo che di Israele è Dio stesso. Su questo punto, P modifica la
teologia deuteronomica dell’alleanza: mentre per il Dt la benedizione divina dipendeva dall’osservanza
della legge da parte del popolo (e, per la sua disobbedienza, è giunta la maledizione dell’esilio), P cerca
un fondamento più solido, non condizionabile dalla fragilità umana: da qui l’alleanza unilaterale di Dio
con Abramo, narrata da P in Gn 17. Su questa base P costruisce la sua teologia della gloria (presenza
concreta ed efficace di YHWH in mezzo al suo popolo nella storia e nel culto, dall’esodo alla tenda).
La “gloria” unisce la tensione verso il futuro (il possesso della terra) e la presenza nel santuario di un
Dio vicino: in tal modo P va ad attingere nel passato la forza per vivere il presente e la speranza per
costruire un futuro migliore.

d) Lo studio “sincronico” del Pentateuco

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Negli ultimi decenni della ricerca esegetica, parallelamente alla messa in discussione
dell’ipotesi documentaria, nuovi metodi di indagine hanno dato il loro contributo. Tra i nuovi metodi
più significativi segnaliamo: la “lettura canonica” (B.S. CHILDS), l’“analisi retorica” (di matrice
strutturalista), la “narratologia”. Per una presentazione di questi e di altri metodi esegetici rimando al
documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Scrittura nella Chiesa del
1993.
Nonostante le interessanti analisi di cui siamo loro debitori, per quanto riguarda i testi del
Pentateuco un limite di tali letture sincroniche è la loro applicabilità solo a testi individuali (sono rari
gli studi su libri interi o su tutto il Pentateuco). Inoltre, in alcune di queste analisi è in agguato il
“feticismo della parola”, per cui si rischia di evincere particolari significati di un testo più in base ad
elementi formali che sostanziali, ad elementi statici piuttosto che dinamici). Altro rischio può essere
quello di applicare a testi della letteratura antica dei criteri ermeneutici validi solo per la letteratura
moderna, a noi culturalmente omogenea. Lo stesso approccio “sincronico” ai testi del Pentateuco (ma
pure dell’AT e, in genere, dei testi antichi) induce a interrogarsi sul contesto storico dei testi e sulla loro
composizione: in questo senso, un approccio storico-critico è ineludibile per entrare in una cultura
storicamente diversa dalla nostra. Negare la presenza di problemi letterari nella comprensione dei testi
del Pentateuco significa negare l’evidenza (e correre il rischio di letture fondamentaliste: è il rischio di
alcune sette, di alcuni gruppi cristiani, di tutti coloro che si spaventano dinanzi alla complessità e si
rifugiano in soluzioni semplicistiche).
Concludendo, ricordiamo che in un qualsiasi tipo di ricerca, il metodo è “il percorso che si
intraprende per rispondere a una domanda, lo strumento che si sceglie per una determinata operazione”:
occorre chiarezza sia circa il traguardo che ci si pone sia sulle caratteristiche del terreno su cui si deve
camminare sia sui passaggi intermedi da affrontare. In contesto esegetico, occorre aver chiara la
domanda con cui si affronta un testo (deve essere legittima) come pure il tipo le caratteristiche del testo
che si affronta: dopodiché devo scegliere il percorso giusto. Sbagliare il percorso (il metodo) può
compromettere i risultati di una ricerca. Non ha senso ridurre la questione dei metodi esegetici a una
questione di sensibilità personale, a un’opzione da compiere a priori prima di scegliere un testo.
Piuttosto, in base al testo che mi sta dinanzi decido da quale domanda posso far partire la mia ricerca e
in base al tipo di testo e alla domanda in questione decido quale metodo adottare (non scelgo gli
strumenti di cucina a prescindere dal piatto che devo cucinare) (la questione Claudia e le difficoltà di
indicazioni oneste e utili). Dinanzi al Pentateuco o anche soltanto dinanzi a uno dei suoi libri, non
posso esimermi dall’affrontare questioni che riguardano la storia della sua composizione. Dinanzi a
episodi circoscritti posso limitarmi a un approccio sincronico (a patto che il testo non presenti
incongruenze non risolvibili in modo sincronico). In generale, per il Pentateuco il dialogo tra metodi
sincronici e metodi diacronici è in grado di dare buoni risultati.
Concludiamo la nostra carrellata nella storia recente dell’esegesi, tentando di fornire un quadro
diacronico di riferimento circa la composizione del Pentateuco. Riguardo alle diverse ipotesi di
composizione del Pentateuco, vale la pena ricordare che si tratta di assumere l’ipotesi che, nel modo
più semplice e argomentato, ci aiuta a capire questi libri: non si tratta di assumere atteggiamenti rigidi o
passionali, ma di fare delle scelte lasciando aperta la possibilità di spiegazioni migliori (avvertenza:
quanto considerato prima non è da buttare, sia quanto a questioni di fondo, sia quanto ad analisi
circoscritte; a cambiare è il paradigma diacronico circa il Pentateuco).

4. Prospettiva diacronica sintetica


a. Premessa: alcuni principi cardine della composizione del testo biblico

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1) LA LEGGE DELL’ANTICHITÀ O DELLA PRECEDENZA: un dato è tanto più significativo, quanto più è
antico. Cf. il culto nel deserto; la collocazione delle alleanze.
2) LA LEGGE DELLA CONSERVAZIONE: non si elimina niente, dal momento che tutto ciò che è antico ha
valore. Anche se una tradizione antica è superata (cf. le leggi e non solo), è comunque conservata
(specie nelle ultime fasi del processo di trasmissione).
3) LA LEGGE DELLA CONTINUITÀ E DELL’ATTUALITÀ: la conservazione delle tradizioni antiche
consegue dal loro valore per il presente e dalle preoccupazioni per il presente. Se per noi
l’attualizzazione rappresenta un passaggio esterno alla lettura di un testo, nel mondo antico essa
comportava interventi diretti sul testo ricevuto: il che spiega le numerose aggiunte tardive rinvenibili
(anche se molto ben camuffate). Per certi versi la tradizione P rappresenta il più consistente esempio di
reinterpretazione delle tradizioni precedenti.
4) LA LEGGE DELL’ECONOMIA: si scrive solo quando e quanto è necessario. Occorre tenere presenti le
condizioni materiali della produzione dei manoscritti nell’antichità: pochi gli scribi, costoso il materiale
(nei manoscritti antichi lo spazio risulta utilizzato all’inverosimile) e la produzione degli interi rotoli.
Inverosimile ipotizzare continui interventi redazionali, i rotoli erano pochi e solo nelle grandi comunità
urbane (secondo il Talmud solo tre nel tempio nel momento della conquista di Tito). Non è verosimile
moltiplicare all’eccesso le stratificazioni testuali.

Venendo a delineare il percorso che ha condotto alla formazione del Pentateuco attuale, in
modo molto sintetico possiamo iniziare a porre tre affermazioni:
- il Pentateuco attuale è un’opera postesilica, la composizione attuale e la disposizione delle varie
parti risalgono all’epoca persiana: per cogliere l’intenzione dell’opera come tale occorre dunque
guardare a questo periodo;
- l’opera attuale è composita e contiene pertanto delle parti più antiche: non pare sostenibile
l’esistenza di un documento preesilico completo;
- ciò non significa che non esistessero materiali preesilici, sotto forma di racconti brevi o di cicli
narrativi più ampi, e di raccolte di leggi (è come un edificio di cui si possono rilevare i materiali più
antichi, anche se non sempre e se non sempre con una datazione sicura).

b) Il Pentateuco e la ricostruzione d’Israele dopo l’esilio


Utilizzando un’immagine semplice, Ska afferma che il Pentateuco assomiglia a una città
ricostruita dopo due terremoti successivi. Il primo terremoto ebbe luogo nel 721 a.C., quando l’esercito
assiro s’impadronì di Samaria e la distrusse, travolgendo le istituzioni politiche e religiose del regno del
Nord. Delle tradizioni del regno del Nord, ciò che conosciamo proviene dal regno del Sud e risente
delle polemiche tra i due regni nemici. Parte di tali tradizioni fu trasferita a Gerusalemme, dove un
secondo terremoto sconvolse la città nel 587 a.C. dopo una forte scossa premonitoria nel 596. La
distruzione della città da parte di Nabucodonosor significò la fine della monarchia (cioè
dell’indipendenza) e la fine del tempio (il simbolo religioso del Sud).
L’esilio rappresentò un momento di forte ripensamento dell’identità e della fede del popolo,
proprio a motivo della lontananza dal proprio contesto di origine e della collocazione in un contesto
sociale e religioso molto differente (cfr comunità meridionali nel Nord Italia). Dopo l’esilio, quando

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Ciro accordò agli esiliati la possibilità di rientrare in patria, fu molto arduo il raggiungimento di
un’intesa tra quanti tornavano e quanti erano rimasti nel paese.
Col tempo gli esuli ebbero il sopravvento e si fecero carico della ricostruzione di Gerusalemme:
non solo della città e del tempio, ma anche della comunità, dell’identità del popolo in quanto tale. La
ricostruzione doveva rispondere a due esigenze:
1) per un verso la ricostruzione si configura come restaurazione, in quanto la comunità doveva
ritrovare le sue radici nel passato: lo stesso popolo rinasce nello stesso paese sotto la guida dello
stesso Dio, occorre dunque tornare alle antiche tradizioni e stabilire delle connessioni con il
passato preesilico;
2) era indispensabile mostrare l’attualità delle antiche tradizioni e convincere tutti i membri del
popolo che era possibile ricostruire sulle antiche fondamenta.
Tornando all’immagine della città riedificata, si possono riconoscere in essa tre tipi di edifici:
alcuni sono sopravvissuti, del tutto o parzialmente, ai due terremoti; altri sono sorti completamente
nuovi, forse in sostituzione degli antichi; altre sono costruzioni miste, in cui elementi antichi sono stati
riutilizzati e completati da parti nuove, aggiunte in varie epoche. Il riconoscimento e la classificazione
di tali edifici non sono affatto immediati. La città non è stata ricostruita per essere un museo (volto a
preservare il passato), ma per essere abitata da un popolo (fornendo le condizioni della sua
sopravvivenza). Nel Pentateuco, indipendentemente dall’origine dei materiali, vive l’Israele postesilico,
con gli interessi e le preoccupazioni della sua epoca, alla cui luce riutilizza i materiali precedenti.
Presentiamo una sommaria classificazione dei materiali.
c) I punti saldi per l’interpretazione
1) TRE CODICI
I tre codici rimangono il punto di partenza più sicuro per l’esegesi del Pentateuco: il codice
dell’alleanza precede il codice deuteronomico, che a sua volta precede la legge di santità.
# Il codice dell’alleanza presuppone una società dove i capi dei clan familiari potevano regolare i
conflitti più importanti a livello locale (villaggio o piccola città).
# Nel codice deuteronomico la centralizzazione del culto procede parallela con quella della giustizia. Il
clan familiare perde gran parte delle sue prerogative a vantaggio del potere centrale di Gerusalemme. Il
Dt unifica: un solo popolo, un solo Dio, un solo tempio. Tale centralizzazione è il frutto della
devastazione assira del regno del nord nel 721 e del regno del sud nel 701 (solo Gerusalemme si salvò,
per cause esterne, dall’assedio di Sennacherib): le distruzioni coinvolsero verosimilmente anche le
strutture locali e familiari. Sotto Giosia (640-609) la riforma divenne anche religiosa e politica,
approfittando della contemporanea debolezza dell’impero assiro. Dietro il codice deuteronomico ci
sono le forze vive all’opera nella riforma: gli ufficiali della corte (l’aristocrazia di Gerusalemme), i
grandi proprietari terrieri di Giuda, il sacerdozio e la monarchia.
# Dopo l’esilio H (da Heiligkeitgesetz) insisterà sull’idea di un popolo santo e “separato” dalle altre
nazioni. Dal momento che Israele non esiste più come nazione indipendente, l’identità del popolo viene
legata principalmente alle sue istituzioni religiose, la legge e il tempio. Ecco perché il culto prende un
posto importante in questo codice. L’insistenza sulle leggi di purezza, sulla separazione dalle “nazioni”,

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le regole particolari nel campo della sessualità hanno lo scopo di preservare l’identità di un popolo che
si sente minacciato nella sua esistenza.
Il paragone tra questi codici fornisce una prima serie di criteri per la lettura dei testi narrativi e
un quadro storico in cui situarli. In linea di massima e con la dovuta cautela, possiamo ipotizzare che le
narrazioni che non presuppongono la centralizzazione del culto siano anteriori alla riforma
deuteronomistica; i testi che la richiedono siano contemporanei; i testi che la presuppongono siano
posteriori.
3) TRE TEOLOGIE
Tre sono le principali teologie del Pentateuco: la teologia deuteronomica e quella sacerdotale,
che consta di due “anime”. Si tratta di tre visioni della storia e due progetti di società. Vediamone nel
dettaglio lo sviluppo e i capisaldi:
a) il Dt sviluppa una teologia dell’alleanza con YHWH che interpreta il legame Dio-popolo secondo
lo schema dei trattati di vassallaggio del VOA: si tratta di un’alleanza bilaterale e condizionata.
L’esistenza d’Israele e la benedizione divina sono condizionate dall’obbedienza di Israele alla legge
(ecco perché, come vedremo, la storia deuteronomistica interpreterà la caduta di Gerusalemme e
l’esilio come conseguenza dell’infedeltà di Israele). Una simile teologia entra in crisi con l’esilio:
esiste ancora una speranza per Israele? Su quale base teologica, in base a quale convinzione di fede
si potrà ricostruire l’avvenire del popolo?
b) La teologia di P risponde a tali domande: per P, prima dell’alleanza del Sinai/Oreb (fallita), YHWH
aveva stipulato con Abramo un’alleanza unilaterale e incondizionata, secondo la quale le promesse
divine non dipendono dalla fedeltà del popolo. Da P il popolo, che ormai deve fare a meno della
monarchia e dell’indipendenza politica, viene connotato come assemblea cultuale attorno alla
presenza divina, la “gloria”. La santità, qualità che definisce i luoghi o le persone che sono in
relazione privilegiata con tale presenza divina, viene conferita al sacerdozio, alla tenda e all’altare.
c) Infine, il “la Legge di Santità” (Heiligkeitgesetz, da cui H) corregge P su alcuni punti per offrire
una sintesi parziale delle due suddette teologie.

# L’alleanza è di nuovo bilaterale e condizionata, come in Dt, ma rimane valida l’alleanza


unilaterale stipulata con i patriarchi secondo P (cfr Lv 26, elementi sparsi).
# La santità è richiesta a tutto il popolo: come in Dt tutto il popolo è santo (a motivo della
sua elezione), ma la santità è particolare prerogativa del sacerdozio, come in P. In H il
popolo è santo a motivo dell’esodo, momento in cui Dio lo ha separato dalle altre nazioni,
ma ora la sua santità dipende dal corretto compimento degli atti di culto e dall’osservanza
delle leggi di purità.
# La liturgia dell’espiazione (Lv 16) permette al popolo di riconciliarsi regolarmente con
Dio e di superare in tal modo le crisi della sua storia causate dalla sua infedeltà. Anche in
questo caso, H viene a colmare una lacuna delle th precedenti. Dt non aveva previsto
nessun “gesto penitenziale efficace” in caso di infedeltà da parte del popolo, anche P era
rimasto piuttosto laconico. H contiene una riflessione molto approfondita sul “peccato” e
sull’“espiazione”, frutto delle dure esperienze dell’esilio e del ritorno (basta con i
pregiudizi romantici di wellhauseniana memoria che troppo hanno pregiudicato l’interesse
per il Lv).

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Le tre teologie accanto ai tre codici legislativi rappresentano i cardini della struttura del
Pentateuco. Volendoli situare in ordine cronologico, abbiamo: codice dell’alleanza (preesilico), codice
deuteronomico (verso la fine della monarchia), teologia deuteronomica (fine della monarchia ed esilio),
racconto P (prima generazione del ritorno), H e teologia post-sacerdotale e post-deuteronomistica
(secondo tempio).
d) Il Pentateuco e l’Israele postesilico
Rimangono da affrontare alcune questioni: quando si è formato il Pentateuco attuale? Quali
furono i fattori che indussero a raccogliere e organizzare tutte le componenti narrative e legislative in
una sola opera? Perché l’opera non è stata maggiormente unificata e ha conservato così tanti segni della
sua genesi letteraria?
Furono soprattutto le esigenze interne alla comunità postesilica all’origine della composizione
del Pentateuco: quando la Giudea ebbe ottenuto una relativa autonomia, soprattutto in materia religiosa,
divenne possibile e addirittura necessario cementare l’unità della comunità attorno alle sue nuove
istituzioni. Pertanto, l’intervento delle autorità persiane creò una situazione favorevole alla
composizione di un documento di base che delineasse la “carta d’identità” della comunità postesilica.
Lo scopo primario del Pentateuco, per chi lo legge per intero, non è solo di regolare la vita di
una provincia dell’impero persiano. Vuol delineare quali siano le condizioni di appartenenza al popolo
di Israele. Tali condizioni sono essenzialmente di due tipi: i legami di sangue (= l’essere discendenti di
Abramo, Isacco e Giacobbe; cfr le genealogie di Gn) e il “contratto sociale” (= l’alleanza, con annessi
diritti e doveri, religiosi e civili). Prevalgono dunque le motivazioni ad intra. Invece di lasciarsi
assimilare e di diventare una provincia qualunque di un immenso impero, l’Israele postesilico ha voluto
salvaguardare la sua identità e la politica persiana gliene ha offerto la possibilità. Israele è
sopravvissuto come comunità di fede, unita anzitutto dalle sue tradizioni e istituzioni religiose, non
come nazione indipendente: in questo contesto è nato il Pentateuco.
Negli anni ’70 il lettone Weinberg ha ipotizzato che la comunità postesilica di Gerusalemme
fosse organizzata attorno al tempio (la cosiddetta Bürger-tempel-gemeinde). I templi dell’epoca, da un
punto di vista di rilevanza sociale e di organizzazione giuridica, possono essere paragonati alle banche
e ai centri commerciali di oggi: godevano di uno statuto ufficiale, riconosciuto dall’impero, che
riconosceva loro una relativa autonomia, specie riguardo alle finanze. Il fatto sarebbe comprovato dalla
rilevanza del tempio nella riforma di Esdra: il decreto di Artaserse registrato in Esd 7 contiene alcuni
provvedimenti finanziari che corrispondono alla teoria proposta. La situazione privilegiata di
Gerusalemme nei confronti della provincia di Giuda potrebbe anche spiegare i conflitti che sono sorti
fra il “gruppo dell’esilio” e il “popolo del paese”. Tali conflitti potrebbero essere sorti a motivo
dell’opposizione del “popolo del paese” alla ricostruzione del tempio di Gerusalemme, che implicava
dominio economico e politico e sarebbe stato nelle mani dei sacerdoti tornati da Babilonia. Il contenuto
di un’eventuale autorizzazione persiana sarebbe da vedersi collegato ai diritti e ai privilegi del tempio e
alla comunità che vive in collegamento con esso. Vista la rilevanza del tempio per l’esistenza
dell’Israele postesilico, l’origine del Pentateuco va inserita all’interno della comunità che si struttura
intorno ad esso: tempio e legge sono le due fondamenta di Israele nel postesilio, il che spiega la
rilevanza di tali tematiche nei primi cinque libri del canone biblico.
Il Pentateuco aveva due funzioni all’interno della comunità postesilica:
a) fornire dei criteri per decidere chi appartenesse o meno alla comunità (cfr Gn e genealogie);

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b) stabilire il funzionamento degli organi di potere e la posizione rispettiva dei vari gruppi che
coesistevano in questo periodo (Es-Dt forniscono la base giuridica della comunità).
In base al Pentateuco, sarà dunque Israelita ogni discendente di Abramo, Isacco e Giacobbe che
ascolta e osserva la legge di Mosè affidata ai sacerdoti e agli anziani. Riguardo alle genealogie e alla
preoccupazione sull’osservanza delle leggi di purità, è interessante cogliere le convergenze tra
Pentateuco attuale e i libri di Esdra e Neemia.
Rimandiamo alcune considerazioni conclusive sul Pentateuco in sede di commento a Dt 34.

LA STORIA DEUTERONOMISTICA

Iniziamo il nostro percorso di studio della cosiddetta “storia deuteronomistica” (SD).


Ritorneremo in un secondo momento sul contenuto dei singoli libri che compongono la SD e partiremo
dallo studio della storia della ricerca, per giungere all’attualità del dibattito sulla questione.

1. Che cosa significa SD? Una panoramica sulla ricerca pregressa

La definizione in sé non appartiene né alla tradizione giudaica né a quella cristiana: si tratta di


un’acquisizione relativamente moderna ed è perciò che ne ricostruiremo la paternità in modo da
comprenderne meglio i presupposti e le caratteristiche. Visto che è M. Noth il padre riconosciuto
dell’ipotesi, scandiremo il percorso avendo come punto di riferimento l’elaborazione della sua teoria, in
tre momenti che sinteticamente potremmo definire così: prima di Noth; Noth; il dopo Noth.

A. LA PREISTORIA DELL’IPOTESI DELLA SD

i. I primi passi verso l’idea di una SD

La centralità del Pentateuco ha comportato come conseguenza il sussiego con cui i


commentatori antichi hanno guardato alla prima secundae, ovvero i “profeti anteriori”. Ciononostante,
si intravvedono cenni di attenzione al tema, specialmente in relazione all’attribuzione della paternità
letteraria di quei libri: così, la tradizione attribuisce a Giosuè la redazione di Gs, a Samuele la redazione
di Gdc e Sam (1-2) e a Geremia la redazione di Re (1-2). Si ventila, comunque, la possibilità di
ampliamenti redazionali posteriori a questi che venivano conosciuti come gli autori dei libri in
questione (cf. racconto della morte di Giosuè al termine dell’omonimo libro).
Ma è solo con l’Umanesimo e il Rinascimento che la SD viene presa criticamente in
considerazione come corpus: il protestante Calvino e il cattolico Masius questionano seriamene
l’attribuzione di paternità dei libri della SD, proponendo una data ben più recente per la loro redazione
finale (tarda epoca persiana). Nella seconda metà del secolo XVII, Baruch Spinoza, che di fatto aveva
fatto propria la teoria dell’Enneateuco, sottolinea come Dt funga da introduzione ai libri che seguono.
L’Illuminismo segna un profondo cambiamento nell’approccio a questi libri: si mette da parte
l’idea che, in quanto ispirati, siano indiscutibili, e si inizia ad opera una puntuale critica ideologia al
contenuto. Uno dei maggiori risultati di tale mutato atteggiamento è la consapevolezza del fatto che gli
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autori di questa grande compilazione non potevano essere contemporanei degli avvenimenti che
narrano, perché emerge con una certa chiarezza l’impostazione ideologica dei libri. E il Dt viene visto
come il canovaccio da cui tutta la vicenda prende le mosse. Questa è la base delle moderne teorie del
sec. XIX e soprattutto XX sulla SD.

ii. La scoperta del “deuteronomismo”

Per bizzarro che possa sembrare, l’idea che il Dt fosse una compilazione volta alla
legittimazione della politica giosianica di riforma cultuale e religiosa rimonta a Voltaire: in realtà,
l’esegeta che riprese tale ipotesi attribuendovi una forma “scientifica” fu Wilhelm Martin Leberecht de
Wette: partendo da un confronto tra i racconti di 2Re 22–23 e Dt 12, de Wette faceva propria un’ipotesi
già delineata da molti Padri della Chiesa in base alla quale il seper attorah misteriosamente rinvenuto
nel tempio di Gerusalemme corrisponderebbe al libro del Dt. L’esegeta tedesco si spinse a ipotizzare
che la composizione di Dt rispondesse all’esigenza di incrementare l’autorità del tempio di
Gerusalemme (e in particolare dei leviti che vi operavano) mediante l’accentramento di tutti i sacrifici
nel solo santuario di Sion, luogo che YHWH aveva scelto tra tutte le tribù per stabilirvi il suo nome (cf.
Dt 12,5). Secondo de Wette, il momento storico più adeguato a giustificare una simile esigenza sarebbe
rappresentato dall’epoca di Giosia, che regnò su Giuda nella seconda metà del VII sec. a.C.: un’epoca
caratterizzata — almeno secondo quanto riporta la storiografia biblica — da una poderosa riforma
religiosa improntata alla centralizzazione del culto in Gerusalemme e alla conseguente abolizione
(leggasi distruzione) dei santuari locali, fino ad allora regolarmente funzionanti e prosperanti.
Riguardo al Dt, de Wette ritiene che sia qualcosa di estraneo rispetto agli altri quattro libri della
Torah (modello del Tetrateuco): circa Gs, invece, afferma che si tratti di un libro tardivo, dalla natura
“deuteronomica” per i numerosi riferimenti alla legge di Mosè che vi sono contenuti. In tal senso,
l’esegeta tedesco viene indicato come il primo ad aver parlato di redazione deuteronomistica in
riferimento ai libri storici.

iii. L’elaborazione dell’idea di editori deuteronomici

Nella titolatura dei tomi della sua opera Storia di Israele, lo storico Heinrich Ewald suggerì
un’ipotesi che poi diventerà il punto di partenza dell’elaborazione di Noth. Egli, infatti, titolò il
“Grande libro delle origini” il complesso Gn—Gs (Esateuco), mentre il blocco seguente (Gdc, Rut,
Sam e Re) lo chiamò “Grande libro dei Re”. Ewald (seguito da uno studioso olandese, A. Kuenen)
introduce l’idea che vi siano due redazioni del secondo grande blocco, entrambe di natura
deuteronomistica: ecco l’importanza del suo apporto! L’individuazione della matrice specifica
dell’opera redazionale. Questa intuizione sarà la base su cui Noth costruirà la propria ipotesi. È vero
che Ewald non riconosce continuità tra Gs e Gdc (quindi, in pratica, postula l’Esateuco), laddove
l’ipotesi della SD si basa sull’unità tra Dt e il resto dei profeti anteriori: ma indubbiamente l’opera di
Ewald e la sua individuazione di redazione di matrice dtr apre le porte agli sviluppi successivi, che
passeranno per la sistematizzazione dell’ipotesi documentaria elaborata da J. Wellhausen di cui
abbiamo ampiamente parlato. L’epoca di formazione consolidamento dell’ipotesi documentaria portò a
trascurare notevolmente gli studi e la ricerca sulla SD: si dovranno attendere i primi scricchiolii
dell’ipotesi di Wellhausen per riprendere seriamente in mano la ricerca sui “profeti anteriori”.

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B. L’ELABORAZIONE DELL’IPOTESI DELLA SD DA PARTE DI M. NOTH

i. Le origini della tesi di Noth

Era già stato definito uno “stile deuteronomistico” da parte dei predecessori, come pure la
presenza di “redazioni dtr” nei profeti anteriori. Noth supera i predecessori perché abbandona la teoria
dell’Esateuco per abbracciare quella del Tetrateuco, partendo dallo studio approfondito di Gs (la sua
teoria è anche frutto della tendenza del suo tempo a dedicarsi non tanto all’individuazione di “fonti”
quanto piuttosto alla formazione di blocchi più ampi come torah, cronache ecc.). La teoria aperta dallo
studio su Gs sfocia in un ripensamento dell’intera formazione del Pentateuco-Esauteuco, che non
sussiste se non nel modello Tetrateuco.

ii. Gli Überlieferungsgeschichtliches Studien

Noth dà per assunto il fatto che i profeti anteriori rivelino le tracce di una redazione dtr: ciò di
cui si occupa negli Studien è l’esistenza o meno di un lavoro coerente e unitario, riferibile ad un
redattore che egli chiama “Dtr”, il Deuteronomista. Uno degli elementi più caratteristici dell’intervento
di tale Dtr sarebbe l’esistenza di grandi discorsi volti all’interpretazione degli avvenimenti, talvolta
posti sulla bocca di personaggi importanti (Mosè, Giosuè ecc.) altre volte sviluppati dallo stesso
narratore: così in Gs 1,1-9; 12,1-6; 23,1-16; Gdc 2,11—3,6; 1Sam 12,1-15; 1Re 8,14-53; 2Re 17,17-23.
Tali interventi interpretativi segnano le tappe della presentazione dtr della storia di Israele:

 conquista (Gs 1; 12; 23)


 epoca dei Giudici (Gdc 2,11—1Sam 12)
 instaurazione della monarchia (1Sam 12—1Re 8)
 storia del regno di Israele e Giuda fino al 721 a.C. (1Re 8—2Re 17)
 fine del regno di Giuda (2Re 17—25)

Se la conclusione è piuttosto chiara (liberazione di Ioiachin, 2Re 25,27-30), l’inizio di tale storia
per Noth è da ricercarsi in Dt 31,1-13 in cui Mosè allude chiaramente ad avvenimento che verranno
ripresi verbatim in Gs. Il Dt nella sua forma attuale sarebbe dunque frutto del lavoro redazionale
compiuta dal Dtr, che alla parte originaria del libro (Dt 5—30, o UrDeuteronomium) avrebbe aggiunto
una cornice introduttoria e conclusiva, facendone in pratica l’introduzione alla SD.
*** Lettura teologica della storia ***
Il Dtr è considerato uno storico alla maniera dei greci e la sua è una Geschichtswerk, che agisce
non su commissione ma autonomamente. Forse operò in Mizpa, durante l’epoca neobabilonese.

iii. Prime reazioni al modello di Noth

Vedere il libro (pp. 29-30).


C. PRINCIPALI MODIFICHE E CRITICHE ALL’IPOTESI DELLA SD

i. Frank Moore Cross e la duplice redazione della SD

Area americana. Reagisce al “pessimismo cosmico” del Dtr di Noth e alla sua proposta di 2Re
25 come conclusione della SD (mancherebbe la caratteristica del discorso riepilogativo). Elabora due
redazioni della SD:

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 una giosianica, del VII sec., che si conclude con 2 Re 23,25: “ 25Prima di lui [Giosia] non era
esistito un re che come lui si fosse convertito al Signore con tutto il suo cuore e con tutta la
sua anima e con tutta la sua forza, secondo tutta la legge di Mosè; dopo di lui non sorse
uno come lui”. Giosia è un degno discendente di Davide e distrugge i templi stabiliti da
Geroboamo, quindi quadratura del cerchio con i due temi principali secondo Cross;
 una esilica, compilata dopo la caduta di Gerusalemme per completare le informazioni della
prima.

È assai evidente come la teoria di Noth, così riveduta, è fondamentalmente cambiata: la


redazione giosianica è tutt’altro che pessimistica.

ii. Rudolf Smend e le diverse edizioni esiliche della SD

Area tedesca. Fondatore della cosiddetta “Scuola di Gö ttingen”. Individua aggiunte secondarie
in testi che Noth aveva definito dtr senza preoccuparsi della loro natura composita. Parte da Gs 1 come
esempio di testo composito, individuandovi due tendenze:

 una militare (DtrH, dove H sta per historia)


 una scribale (DtrN, dove N sta per nomos)

Per usare una metafora, si passa dalla conquista della terra alla conquista della torah.
Omettiamo di prendere in considerazione la variante “profetica” di Dietrich.

iii. I “neo-nothiani”: John Van Seters

Tendenza recente a rigettare gli sviluppi della tesi di Noth per tornare alla proposta originale di
un Dtr di epoca esilica. Ecco la proposta aggiornata da Van Seters:

 Dtr non è un “onesto mediatore” tra tradizioni antiche e istanze contemporanee, ma un autore
che ha liberamente usato i materiali che aveva a disposizione: ricostruirne il lavoro è dunque
pressoché inutile, perché ha agito creativamente;
 le tensioni narrative e persino teologiche presenti in SD non sono riconducibili al nothiano
“rispetto delle fonti e delle tradizioni”, ma ad aggiunte posteriori (post-Dtr) all’opera di Dtr: cf.
la sezione che presenta Davide come assassino senza scrupoli (2Sam 12), contraria alla
presentazione del re modello dtr.

In sintesi, Van Seters abbrevia la SD, ma ne riafferma l’unitarietà e coerenza. Limite: non
colloca precisamente quelle che definisce “aggiunte”…

iv. La SD e altre redazioni deuteronomistiche

È il discorso relativo all’individuazione di influssi dtr anche nei libri del Tetrateuco. Non lo
affrontiamo in questa sede perché abbiamo escluso il modello epistemologico: comunque interessante
notare come, a livello metodologico, l’individuazione di uno “stile” non possa consistere nel
reperimento di materiale attribuibile senza troppi sforzi ad una matrice.

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v. Recenti critiche all’ipotesi della SD

Già gli sviluppi della tesi di Noth hanno mostrato che si tratta di una proposta complessa e
pertanto in sé problematica. Le obiezioni si configurano a due livelli:

1. Storia deuteronomistica e storiografia


Per rispondere alla nostra domanda è necessario chiarire tre concetti fondamentali per la
comprensione di ogni testo che parla del passato, la distinzione cioè tra storia, storiografia e letteratura.
La storia ha per obiettivo una ricostruzione critica e documentata di una determinata sequenza di
avvenimenti: in ultima analisi, l’obiettivo dello storico consiste nell’ordinata presentazione di ciò che è
successo, le res gestae per mutuare un’espressione classica. Non si può fare storia senza ricercare
documenti e fonti che sostengano la nostra ricostruzione. Questo modo di procedere non è estraneo al
mondo degli scrittori sacri: ne rappresenta un chiaro esempio il prologo del Vangelo di Luca, ma anche
i riferimenti a fonti scritte – o presunte tali – presenti nei libri storici (Cfr. Gs 10,13; 2 Sam 1,18; 1 Re
14,19.29; 1 Cr 9,1 ecc.).
Non c’è però storia senza storiografia, che rappresenta la particolare maniera di interpretare la
storia a partire da un determinato ambiente, cultura o progetto comunicativo. In tal senso, potremmo
definire la storiografia avvalendoci di un’altra espressione classica: historia rerum gestarum, che
sottolinea la valenza ermeneutica che informa profondamente il lavoro dello storiografo. Appare chiaro
che l’obiettivo comunicativo che ogni storiografo si propone condiziona inevitabilmente il suo modo di
scrivere la storia e specialmente il peso con cui valuta le fonti, al punto che in alcuni casi le cita
esattamente, mentre in altri le rielabora in profondità. A questo proposito, giusto per restare in ambito
biblico, può essere significativo rilevare come gli evangelisti Matteo e Luca, pur usando spesso il
medesimo testo di Marco come una delle loro fonti primarie, lo seguono o se ne discostano in base al
loro personale progetto comunicativo, al proprio intento catechetico: così, ad esempio, Mt vi cerca
sistematiche corrispondenze con quanto hanno “profetizzato le Scritture”, mentre Lc pone un
particolare accento sulla misericordia di Dio che si rivela nei gesti e nelle parole di Gesù.
È proprio questo uso per così dire “personale” delle fonti storiche che fa della storiografia
un’opera di letteratura: lo storiografo, infatti, non è semplicemente il redattore di documenti
d’archivio, ma un vero e proprio scrittore capace di plasmare la materia letteraria in maniera tale che il
contenuto risulti appetibile, a tutto giovamento dell’efficacia del processo comunicativo. Questo
aspetto artistico-letterario non può essere trascurato nel momento in cui ci si accosta ai testi biblici:
ogni testo veicola una specifica teologia ed un particolare intento dell’autore (o degli autori), che vanno
ben determinati per comprendere correttamente il messaggio dell’opera letteraria.

2.I libri da Dt a Re rivelano la presenza di una coerente redazione deuteronomistica?

Critica di C. Westermann all’assenza di un’unità di stile tra i libri della SD. L’esempio
eclatante viene individuato nella cosmovisione che si desume dal libro dei Gdc da una parte e dei Re
dall’altra: laddove Gdc presenta una concezione ciclica della storia, Re ne delinea uno sviluppo lineare.
Ancora, in Sam mancano markers linguistici che rimandino allo stile dtr. Ciò induce Westermann a
ritenere che il processo redazionale dei libri componenti la SD sia stato molto attento alla fedele
trasmissione delle tradizioni ricevute, a scapito di un tentativo di armonizzazione. Ciò ne
testimonierebbe, per altro verso, l’autentica genuinità.
Critica di E.A. Knauf: solo Sam-Re rappresenta il nucleo redazionale della SD. Ritiene che il
Dt non sia un’adeguata introduzione alla SD perché secondo la teologia dtr la storia della salvezza ha il
suo avvio nell’esodo: dunque è Es che dovrebbe rappresentare una vera e propria introduzione. Rö mer
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obietta che Dt 1—3 rappresenta una sintesi degli episodi narrati in Es-Nm… L’altro argomento di
Knauf riguarda l’assenza di riferimenti a SD come blocco narrativo nei salmi cosiddetti storici, come
accade per la torah, o per l’esateuco o per quel blocco amplissimo che alcuni studiosi hanno definito
“storia primaria” (Gn-Re). Rö mer ha obiezioni anche su questo punto…
Infine, la posizione di T. Römer a proposito del quesito iniziale: egli ritiene che non si possa
negare l’esistenza di temi trasversali a tutta la SD e assenti nel Tetrateuco. Tali temi sarebbero:

 l’espressione ‘elohim aherim (presente solo in Es 20,3; 22,13; 34,14). Il rifiuto dell’idolatria è
un vero e proprio Leitmotiv della SD e spiega il perché della distruzione di Gerusalemme ed
esilio babilonese;
 esilio e deportazione in una terra lontana da Israele. Non ve n’è traccia esplicita nel Tetrateuco
(eccetto in Lv 26,27-33 considerato molto tardivo);
 alcune minacce presenti in Dt si realizzano nei libri dei Re: dunque questi libri sono
strettamente legati e spiegano il perché quelle minacce si compirono;
 argomento formale: Dt fa da modello a tutti i “testamenti” presenti in Sd (es. Gs 23; 1Sam 12;
1Re 8).

D. LO STATO ATTUALE DEL DIBATTITO: TEMPO DI COMPROMESSO?

Che farne di tutte queste ipotesti, spesso in contrasto tra loro? È finito il tempo delle
contrapposizioni. In estrema sintesi (rimando alla lettura delle pagg. 44-46 del manuale per i dettagli),
un’ipotesi di lavoro che sia frutto della convergenza delle migliori intuizioni ricavabili dalle teorie
recenti sulla SD sembra essere questa: una primitiva versione di Dt-Gs, forgiata sul modello dei
racconti di conquista assiri, sarebbe da attribuirsi al VII sec. a.C. in vista di un rafforzamento della
figura di Giosia (opera di propaganda e legittimazione); anche il resto della SD (Samuele-Re) sarebbe
in linea con il progetto di legittimazione e spalleggiamento del monarca davidico. Tali temi sarebbe
stati poi ripresi ed “aggiornati” in epoca esilica (neo-babilonese) e post-esilica (persiana). Per i dettagli,
rimando allo studio personale delle pagg. 47-152.

B. I libri della SD

A. IL LIBRO DI GIOSUÈ

Il sesto libro della Bibbia si apre con un’affermazione che, pur essendo racchiusa in una
proposizione incidentale e quindi – almeno da un punto di vista formale – secondaria rispetto al nucleo
di quanto si va a narrare, costituisce un ineludibile punto di partenza per la corretta comprensione del
libro che abbiamo davanti: “Dopo la morte di Mosè…”. Il riferimento alla scomparsa del personaggio
che, incontrastato, domina l’intera scena della storia biblica dagli inizi dell’Esodo sino alla fine del
libro del Deuteronomio indica che ciò che segue al racconto della sua morte ha, inevitabilmente, un
sapore di novità. Del resto, se è indubbio il fatto che l’eponimo del libro che andiamo ad introdurre,
Giosuè, è chiamato ad assumere le redini della guida del popolo ed in tal senso a proseguire l’opera che
fino a quel momento aveva portato avanti Mosè, il testo biblico è chiarissimo nell’affermare che non è
sorto né mai potrà sorgere un profeta – nell’accezione più ampia che la Bibbia attribuisce a questa

25
parola – simile a Mosè, perché costui ha goduto di una specialissima ed irreplicabile relazione con
YHWH (cf. Dt 34,10-12).
Tra le caratteristiche letterarie specifiche dei racconti di Gs (ma lo stesso si potrebbe dire di molte
altre narrazioni sia del Pentateuco che dalla SD) è innegabile la presenza di eziologie. Con questo
termine, la cui etimologia rimanda alla parola greca aition, “causa”, s’intende qualificare una
narrazione che getta uno sguardo sul passato per cercare di spiegare l’origine e l’esistenza di luoghi,
persone o oggetti o la causa di determinati fenomeni che fanno parte dell’ambiente vitale del
destinatario dell’opera letteraria.
L’identificazione di un’eziologia biblica risulta abbastanza semplice, per il fatto che vi si osserva
l’uso ricorrente della formula «fino ad oggi» (in ebraico 'ad hayyom hazzeh) che ritorna con una certa
frequenza specialmente nel libro di Giosuè (4,9; 5,9; 6,25; 7,26; 8,28.29; 9,27; 10,27; 13,13; 14,14;
15,63; 16,10). Altrettanto spesso la frase appare anche nel libro dei Giudici (1,21.26; 6,24; 10,4; 15,19;
18,12). In genere questa proposizione fa riferimento a monumenti, località, o popolazioni che esistono
all’epoca in cui l’autore sacro scrive o al tempo in cui le tradizioni che vengono riferite si sono formate.
Ad una lettura non superficiale del testo biblico appare assai chiaro che la preoccupazione di
spiegare e giustificare il presente risulta preponderante rispetto a quella di offrire una dettagliata e
documentata descrizione degli avvenimenti del passato: è per tale ragione che l’eziologia può avere un
fondamento storico scarso, se non addirittura nullo. Cionondimeno, ritenere che il ricorso all’eziologia
costituisca la prova patente della scarsa o persino nulla storicità della narrazione che la contiene, non
rappresenta di certo un corretto e scientifico approccio al problema della fondatezza storica di un
evento narrato: gli studi più recenti, infatti, hanno meglio definito la natura e l’importanza
dell’eziologia stabilendo che la sua intrinseca finalità di utilizzo consiste nel giustificare o attribuire
una causa a ciò che si vedeva o esisteva in un dato periodo, senza che ciò comporti come corollario un
giudizio negativo sulla storicità del fenomeno. Pertanto la spiegazione di un dato fatto può essere, a
secondo dei casi, storicamente certa o meno: ciò impone come conseguenza che ogni singolo caso vada
esaminato attentamente e senza pregiudizi.
La visione teologica globale del libro di Giosuè
L’ipotesi di collocazione del libro in epoca postesilica rende adeguata ragione della natura
dell’impostazione teologica che i redattori deuteronomisti hanno voluto conferire a Gs: infatti, il lettore
ideale a cui il libro si rivolge nella sua redazione finale è parte di un popolo che avverte il bisogno di
riprendersi dal duro colpo infertogli dall’esilio babilonese. Dolore e speranza si uniscono nel guardare
al passato, così da recuperarlo in una nuova prospettiva positiva. Quello di Israele rappresenta un
popolo in piena crisi d'identità: è per questo che il tornare alle radici e ritrovare le proprie origini risulta
fondamentale.
Questo popolo peccatore è il vero responsabile della sua storia: la sua fine era annunciata, e non
è stata decretata da un capriccio del fato, bensì dall’atteggiamento ribelle del popolo nei confronti di
YHWH e alla sua alleanza. Possiamo ben affermare che, secondo la teologia deuteronomista, il popolo è
artefice del proprio destino, avendo perduto il filo conduttore della sua storia che è Dio: da questa sorta
di “punto di non ritorno” che ha raggiunto, Israele si volge per guardarsi indietro, in un primo tentativo
di recupero della propria identità.
Ma la tragedia abbattutasi su Giuda e Gerusalemme è anche l'occasione che permette al popolo
di guardare avanti e leggere la propria storia passata in chiave di conversione, come preparazione di un
futuro migliore: niente è perduto per sempre, e recuperare la propria storia significa ritrovare le proprie
origini, riannodare il proprio oggi ad un tempo in cui era tangibile la fedeltà divina, espressa in forma
di alleanza d’amore. Servendoci di un’immagine, possiamo dire che, ricostruendo sulle proprie

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macerie, Israele riscopre il proprio rapporto con un Dio che perdona ed è ricco di misericordia (cf. Es
34,6).
Il libro di Giosuè rappresenta un tassello davvero importante nel ristabilimento della relazione
vitale tra YHWH e il suo popolo: il messaggio centrale del libro, infatti, si può condensare nell’idea di
compimento, giacché – come abbiamo avuto modo di ribadire più volte – è proprio in queste pagine che
si realizza la promessa antica del possesso della terra di Canaan, che ha accompagnato tutte le tappe
della storia della salvezza da Abramo sino a Mosè.
A margine di una presentazione globale della visione teologia del libro di Giosuè converrà
offrire alcune indicazioni utili – se non indispensabili – in vista di una corretta interpretazione di un
fenomeno piuttosto ricorrente in Gs: mi riferisco in particolare al ricorso allo cherem. Con il termine
ebraico cherem si identifica lo stermino dei nemici – totale o parziale che sia – attuato per motivi
religiosi (cf. ad esempio 6,17-21). Che nei tempi antichi si utilizzassero metodi di lotta assai cruenti
contro i nemici risulta anche da fonti extra-bibliche, quali ad esempio l’importante documento
epigrafico noto come la “Stele di Mesha re di Moab”, risalente alla seconda metà del IX sec. a.C.: il
fatto, però, che Gs – come del resto Gdc – vi insista in maniera così decisa e sistematica, rivela in modo
piuttosto palese la natura ideologica del ricorso a questo espediente. Se, infatti, sul versante meramente
storico le informazioni di questi due libri sono evidentemente esagerate a questo riguardo, perché
altrimenti dovremmo pensare ad una terra di Canaan privata quasi totalmente dei suoi abitanti, risulta
assai chiaro l’intento ideologico dei redattori, che vogliono indurre i destinatari della loro opera a
tenersi separati dalle popolazioni straniere onde evitare il rischio delle contaminazioni idolatriche: per
questo il testo biblico parla di cherem applicato in modo sistematico sia nei confronti delle popolazioni
cananee che contro le stesse tribù d’Israele mostratesi infedeli (ad esempio, la tribù di Beniamino: cf.
Gdc 20,48; 21,11.16). Va da sé che su questo punto si rivela estremamente necessario operare quella
distinzione tra la storia e la rilettura teologica della storia stessa di cui abbiamo si è parlato in
precedenza.

La struttura e il contenuto del libro di Giosuè

Dopo aver richiamato, seppur sommariamente, le diverse questioni che si impongono


all’attenzione di chi decida di inoltrarsi nella lettura del libro di Giosuè, è ora giunto il momento di
presentare una struttura che aiuti a comprendere meglio il contenuto del materiale presente all’interno
del libro.
Gli esegeti sono pressoché concordi nell’individuare all’interno del libro una struttura bipartita:
il primo blocco, comprendente i cc. 1 – 12, presenta il resoconto di quella che viene presentata come la
“conquista militare” della terra di Canaan; il secondo blocco, di cui fanno parte i cc. 13 – 22, contiene
una serie di elenchi che indicano con dovizia di particolari i confini del territorio che YHWH ha
assegnato a ciascuna delle tribù di Israele. I restanti cc. 23 – 24 fungono da doppia conclusione del
libro e al contempo da inclusione con il discorso aperto in quella sorta di prologo costituito dal c. 1.
L’elemento di passaggio tra i due grandi blocchi tematici è indicato piuttosto chiaramente in
13,1: “Ora, Giosuè s’era fatto vecchio e avanti negli anni…”. Questa informazione ha la funzione di
segnare il passaggio ad una tappa ulteriore della storia: con lo sfiorire del vigore di Giosuè e delle sue
capacità fisiche si conclude anche la tappa più propriamente “militare” della conquista e si inaugura il
percorso di sedentarizzazione delle tribù, che iniziano ad occupare stabilmente il territorio ad esse
assegnato.
Per quanto concerne il contenuto, tentando di schematizzare ulteriormente possiamo affermare
che il primo blocco è suddivisibile in due momenti: il primo (cc. 2 – 5) è costituito da una serie di
racconti, ovvero la vicenda di Raab la prostituta; l’attraversamento del Giordano; la circoncisione della
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generazione del deserto e la prima pasqua in terra di Canaan. La funzione comune di tali racconti
consiste nel preparare il secondo momento, che contiene il racconto della conquista, una narrazione
tematicamente centrale nell’economia dell’intero libro (cc. 6 – 12). Anche questo secondo momento si
snoda attraverso una serie di racconti: Gs 6 – 9 registra la conquista delle città di Gerico, Ai e Betel,
oltreché l’annessione dei Gabaoniti che volontariamente si sottomettono al popolo di Israele; in 10 – 12
compare l’elenco della serie di conquiste che Giosuè fece nel resto del paese, che alla fine risulta
interamente e stabilmente nelle mani degli Israeliti.
Il secondo blocco è caratterizzato da una lunga sezione di liste contenenti i confini di ciascuna
delle tribù di Israele a seguito della ripartizione del territorio (cc. 13 – 20). La chiusa di Gs 21 suona
quasi come una conclusione dell’intero libro: “43Il Signore assegnò dunque a Israele tutta la terra che
aveva giurato ai padri di dar loro, e gli Israeliti ne presero possesso e vi si stabilirono. 44Il Signore
diede loro tranquillità all’intorno, come aveva giurato ai loro padri; nessuno tra tutti i loro nemici
poté resistere loro: il Signore consegnò nelle loro mani tutti quei nemici. 45Non una parola cadde di
tutte le promesse che il Signore aveva fatto alla casa d’Israele: tutto si è compiuto”. Ma il libro va
avanti: dopo un capitolo dedicato a questioni cultuali (22), il c. 23 presenta una prima conclusione per
così dire ufficiale, per bocca di Giosuè, che pronuncia un discorso solenne in cui non manca
l’avvertimento che se il popolo non rimarrà fedele a YHWH potrà perdere la terra di cui è appena
entrato in possesso (cf. 23,12-13). Curiosamente, il c. 24 inizia con un’ulteriore convocazione e
contiene un altro, grande discorso di Giosuè, che suona come una seconda – o terza, in base a quanto
abbiamo detto – conclusione del libro: la caratteristica di questo discorso è data dal fatto che la parenesi
si innesta in una sorta di riepilogo degli avvenimenti capitali della storia della salvezza e sfocia nel
rinnovamento dell’impegno a fare alleanza con YHWH, il Dio dei patriarchi. Le ultime battute del
capitolo registrano la morte e la sepoltura dell’eponimo del libro.

B. IL LIBRO DEI GIUDICI

La ripetizione della notizia della morte di Giosuè in Gdc 2,6-10 sembra collegare i due libri in
un’unica storia, ma il tema di Gdc è diverso da quello di Gs, perché deve rispondere alla domanda: chi
sarà la guida del popolo dopo la morte dell' erede di Mosè? Il libro, infatti, inizia con una domanda e
una risposta che verranno ripetute anche all'inizio dell'ultimo atto del libro: “Chi di noi andrà per primo
a combattere? il Signore rispose: Giuda andrà” (1,1-2 = 20,18). L’introduzione è un sommario delle
conquiste operate dalle tribù del Sud e degli insuccessi delle tribù settentrionali; essa contiene il
paradigma con cui sarà costruita la storia successiva: Israele compie ciò che è male agli occhi del
Signore perché segue altri dei, il Signore lo dà in mano agli oppressori (in altri passi si aggiunge che
Israele grida aiuto al Signore) e poi suscita dei “giudici”. Ma neppure a costoro Israele obbedisce, anzi
dopo la loro morte si comporta sempre peggio e finisce per unirsi alle nazioni straniere, che il Signore
aveva lasciato in Canaan per mettere alla prova il suo popolo.
Il corpo centrale del libro (3-16) presenta circa dodici giudici: un gruppo (i cosiddetti “giudici
minori”) è noto solo per il nome del giudice e per quello dei nemici; l’altro gruppo è quello dei capi
carismatici, dei salvatori o liberatori. Tra costoro ci sono la profetessa Debora e Barak, che ottengono il
controllo della pianura di Izreel, che divideva le tribù settentrionali dalle centrali; Gedeone che
sconfigge i madianiti, mentre suo figlio Abimelek tenta di diventare re a Sichem; Iefte che sconfigge
gli ammoniti, ma poi sacrifica la figlia per un voto. Lo spazio maggiore è occupato dalla storia di
Sansone, che si lascia dominare dalle donne.
Le appendici (17-21) presentano una scena diversa: non c'è più oppressione, ma le vicende
riguardano la vita quotidiana di Israele già stanziato nel paese, ovvero un furto familiare, la costruzione
di un santuario domestico, la tribù di Dan in cerca di una sede, un regolamento di conti con la tribù di
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Beniamino. Gdc è il libro che contiene più figure femminili che hanno un ruolo fondamentale nella
storia: Debora, Giaele che uccide Sisara, la donna che rompe la testa di Abimelek, la figlia di Iefte
sacrificata, la madre di Sansone, sua moglie e la sua amante Dalila, la concubina del levita uccisa e
vendicata. Quest’ultimo episodio mette in luce un tema fondamentale del libro: l’ospitalità (19). Questa
è la situazione di Israele nella terra promessa, la quale resta proprietà del Signore, ed è la condizione
anche delle altre popolazioni rimaste. Tutti i personaggi dell’episodio sono figure dallo status sociale
marginale: la donna è una concubina, il levita è membro dell’unica tribù che non ha ereditato la terra,
colui che ospita è un forestiero. La valutazione morale della violenza di questi giudici ha sempre
suscitato alcune perplessità, che sono state risolte, da un punto di vista storico, attribuendo questa
morale a una fase ancora “primitiva” e, da un punto di vista letterario, attribuendo al narratore la
tecnica dell’ironia, evidente nel caso di Sansone.

C. I LIBRI DI SAMUELE

I libri di Samuele sono visti come una raccolta di singole storie o narrazioni più o meno lunghe,
che si sono aggregate in blocchi fino a formare l’attuale testo. Tre figure dominano questa storia:
Samuele, Saul e Davide. All’inizio del primo libro si percepisce ancora l’atmosfera dell’epoca dei
giudici. La famiglia del sacerdote del santuario di Silo è indegna, per questo il Signore chiama
Samuele; alla sua nascita la madre Anna eleva un canto che ispirerà il Magnificat e il cui tema annuncia
il seguito della storia: il Signore innalza gli umili per farli sedere con i capi. Dopo un’ennesima
sconfitta da parte dei filistei, inizia una fase delicata della storia di Israele: la nascita della monarchia. Il
popolo chiede di avere un re e Samuele fa presente gli inconvenienti della monarchia. La scelta di Saul
come re è raccontata tre volte:

1) Saul va a cercare le asine del padre che si erano perdute, incontra Samuele e viene “unto” come
capo (9,1 – 10,16);
2) Saul è “sorteggiato” come re da Samuele nel santuario di Mizpa (10,17-27);
3) Saul è "riconosciuto" come re, dopo che come giudice ha condotto in guerra Israele contro gli
ammoniti (11).

Alla fine Samuele pronuncia un discorso d’addio in cui ricorda i benefici operati da YHWH, il
vero re. Una volta che Saul è diventato re fa quello che fanno tutti i re, come aveva chiesto il popolo:
“Saremo anche noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e
combatterà le nostre battaglie” (8,20). Saul combatte contro i filistei, ma per non aver rispettato il voto
di sterminio contro gli amaleciti, il Signore lo rigetta come re (15).
Un nuovo personaggio compare sulla scena, Davide, che occuperà tutto il seguito della
narrazione. La prima parte della vicenda (1Sam 16,6 – 2Sam 5) racconta la storia dell’ascesa di Davide
e il corrispettivo declino di Saul. Anche qui sono state identificate più tradizioni sull’ingresso a corte di
Davide, già unto re di nascosto: come musicista per placare Saul quando è agitato o come pastore che
va a trovare i fratelli sul campo di battaglia e sconfigge Golia. L’ascesa al potere di Davide è segnata da
molte morti e circola l'opinione che sia un sanguinario (2Sam 16,7-8; cfr. 1Cr 10,13-14), perciò la
narrazione è costruita in modo da mostrare l’innocenza del re. All’inizio del secondo libro, dopo il
lamento sulla morte di Saul e di Gionata uccisi dai filistei, Davide viene unto come re di Giuda e
conquista la città gebusea di Gerusalemme per farla sua capitale; infatti l’unione tra Nord e Sud è solo
un'unione personale con una capitale in terreno neutrale.
La cosiddetta “storia della successione” di Davide comprenderebbe grosso modo 2Sam 9-20 e
1Re 1-2. Davide si prende Betsabea, moglie di Uria, che diventerà la madre di Salomone, poi il figlio
Assalonne si fa proclamare re al posto del padre provocando così una guerra civile che si conclude con
29
la sua morte. Gli studiosi un tempo ritenevano che questa storia fosse stata scritta da un membro della
corte all’inizio del regno di Salomone per glorificare il re vivente, ma altri hanno poi notato il tono
negativo della narrazione. Oggi si pensa che non si tratti di un racconto storico, bensì di una bella storia
in cui si intrecciano motivi tradizionali e sapienziali. Così, quella che era ritenuta l’opera storiografica
più antica, di ben cinque secoli prima di Tucidide, è diventata un prodotto letterario e viene ora definita
una “storia di corte”, indicando sia l'ambiente dell'autore sia il pubblico cui era destinata a
intrattenimento.
Gli ultimi capitoli del secondo libro (21-24) sono stati spesso ritenuti un’appendice, perché
senza legami tra di loro né con la storia precedente, ma svolgono un ruolo importante nell'attribuire un
significato complessivo alla storia, poiché la distinguono in due fasi: Davide benedetto (2-7) e Davide
condannato (9-24). Essi formano un’inclusione con l’inizio del primo libro: il Salmo di 2Sam 22
corrisponde al cantico di Anna, che aveva introdotto il tema dell’inversione (1Sam 2). Ora Davide ha
realizzato il programma annunciato: egli è l'ultimo diventato primo. Manca ancora una cosa per essere
il vero re obbediente al Signore, come aveva chiesto Samuele, ma ora, in conseguenza della piaga che
ha colpito il popolo a causa del censimento da lui ordinato, il re diventa, come Anna, uno che prega e si
abbandona obbediente al Signore (2Sam 24).

D. I LIBRI DEI RE

Il primo libro dei Re comincia con una presentazione di Salomone prima in modo favorevole e
poi in modo ostile (1-8 e 9-11). Ampio spazio è dedicato all’organizzazione del regno e alla
costruzione del Tempio e del palazzo (4-8), ma Salomone diventa colpevole di aver seguito gli dei
venerati dalle sue innumerevoli mogli, e per questo alla sua morte il regno viene diviso in due. In Giuda
la successione avviene per via dinastica e con l'unzione, ma il figlio di Salomone, Roboamo, non riesce
a farsi accettare come re dalle tribù del Nord, le quali si scelgono come re Geroboamo, un ex ministro
di Salomone (12). La storia dei due regni continua parallela con brevi notizie sui singoli regni e sulle
loro guerre, finché la capitale di Israele è conquistata dagli assiri, i quali deportano la popolazione e la
sostituiscono con stranieri (2Re 17). Dopo la fine di Samaria prosegue solo la storia del regno di Giuda,
fino alla distruzione di Gerusalemme ad opera dei babilonesi e alla deportazione della popolazione.
La narrazione copre, dunque, quattro secoli di storia: dal regno di Davide (collocato nel X
secolo a.c. secondo la cronologia di questi libri) alla caduta di Gerusalemme nel 587 a.c. Alla fine di
questa storia, Israele si ritrova esattamente nello stesso punto in cui era iniziata in Gs: fuori dalla terra
promessa.
Abitualmente si fa coincidere la struttura del libro con i tre periodi della storia della monarchia:
Salomone, i due regni divisi, il regno di Giuda. Però la lunga sezione dedicata ai profeti del Nord, in
particolare a Elia ed Eliseo, spezza il ritmo della successione dei re e suggerisce una struttura
concentrica. L'inizio si concentra sul fondatore della dinastia e la fine descrive il destino degli ultimi re
(2Re 18-25); in ambedue le parti il Tempio ha un ruolo fondamentale: all’inizio si descrive la sua
costruzione e la dedicazione ad opera di Salomone, alla fine si narra la sua profanazione (Manasse), il
restauro (Giosia), la distruzione e la spoliazione ad opera dei babilonesi. Con Geroboamo nasce il
regno del Nord (1Re 12-14), ma alla fine è conquistato e la popolazione è esiliata, a causa dell'idolatria
iniziata da Geroboamo (2Re 17). Una serie di concise notizie sui re e sulle relazioni tra i due regni
occupa due sezioni (1Re 15-16 e 2Re 13-16) che fanno da cornice alla lunga narrazione centrale sui
profeti Elia ed Eliseo (1Re 17-2Re 12), che racconta un periodo di circa quarant’anni e presenta un
modello di vittoria delle forze profetiche contro la monarchia.

30
LA STORIA DELLE ORIGINI (GN 1,1–11,26)

1. Cenni introduttivi
Proprio perché rappresentano l’incipit dell’intera Bibbia, la rilevanza di questi capitoli di Gn è
stata riconosciuta da sempre. Essi forniscono, sia a livello di narrazione che di vocabolario (cf. il corso
di antropologia teologica), la premessa per la comprensione della successiva storia salvifica (cf. la
prima scena di un film o l’ouverture di un’opera). Per secoli tali capitoli sono stati letti come
narrazione di fatti storicamente avvenuti, con interesse fondamentalmente teologico (cf. il caso del
peccato originale): in età moderna, invece, la loro interpretazione si è dovuta confrontare con le teorie
scientifiche emergenti circa l’origine dell’universo e dell’uomo. Buona parte dell’esegesi del XIX sec.
e della prima metà del XX è stata dedicata allo studio della compatibilità del messaggio biblico con le
teorie scientifiche e alla loro reciproca articolazione (ad esempio: i giorni come metafora di ere
geologiche), un atteggiamento definito concordismo, ovvero: in senso stretto, il perfetto accordo fra
asserzioni scientifiche, Sacra Scrittura e fede cristiana; in senso ampio è il tentativo di convalidare le
verità della fede cristiana o religiose mediante affermazioni scientifiche, o trovare pieno accordo fra le
une e le altre.
Nella seconda metà del secolo scorso (fino all’inizio degli Anni ’80) si è dedicata molta
attenzione alla comparazione di queste narrazioni bibliche con i poemi mitici delle civiltà
mesopotamiche che si erano scoperti o che si stavano scoprendo in quegli anni: si pensi
all’Enuma elish, al mito di Atrahasis, all’epopea di Gilgamesh. In questo confronto l’attenzione
degli esegeti si è soffermata a rilevare gli aspetti che accomunano le narrazioni bibliche delle
origini a questo retroterra mesopotamico (si può parlare di veri e propri prestiti letterari) e,
soprattutto, i loro tratti di originalità (evitando tanto i massimalismi che i minimalismi). In anni
più recenti nuove letture, per lo più di taglio sincronico, sono state avanzate, con esiti più o meno
interessanti o provocatori e in base all’esigenza di un ritorno al testo sic et simpliciter.
Ritengo necessario, in sede di premessa, un chiarimento di tipo terminologico e non solo.
Occorre poter rispondere in modo chiaro a una questione, affrontata spesso anche se non sempre
in modo esplicito: i racconti biblici delle origini rientrano nella categoria letteraria dei “miti”? Si
tratta di una questione che ha ricevuto risposte non solo diverse, ma talvolta anche contrapposte.
In generale, anche al di fuori del campo dell’esegesi, quando si utilizza la categoria di “mito”,
occorre chiarire in quale accezione essa venga utilizzata: altrimenti, il rischio dell’equivoco e
della confusione è molto concreto. Limitatamente ai nostri capitoli, possiamo porre alcune
affermazioni:

 se per mito si intende una narrazione che racconta avvenimenti che si pongono su un piano
differente da quello storico e costitutivo rispetto ad esso (cf. mitologia greca e
mesopotamica), i racconti di Gn 1—11 non possono essere definiti mitici: tutto ciò che vi è
raccontato, infatti, rappresenta l’inizio della storia o avviene nella storia, nulla precede la
storia o avviene al di fuori di essa (rappresenta un dato emblematico, in questo senso, il
fatto che Adamo e Abramo siano collegati tra loro mediante una articolata genealogia);
 se per mito si intende una “forma di rappresentazione della verità concernente le origini
alternativa alla razionalità” (G.B. Vico), i nostri racconti delle origini possono essere
considerati dei miti a motivo del loro linguaggio (cf. il serpente che parla con Eva), fermo
restando il loro ancoramento nella storia;
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 se per mito si intende un racconto di fondazione che, proprio a motivo del riferimento a un
passato remoto e/o originario, sfugge ad ogni possibile inquadramento in categorie
storiografiche, i racconti di Gn 1—11 possono essere considerati dei miti. Ciò che ci lascia
perplessi di quest’ultima definizione di mito è l’ampiezza del suo campo di applicazione e,
dunque, la sua genericità : in base ad essa tutto il Pentateuco (e non solo) potrebbe essere
fatto rientrare nella categoria di “mito”…

Recuperando una definizione utilizzata per la prima volta da K. Rahner e precisata


successivamente da N. Lohfink, potremmo considerare Gn 1—11 (sia nell’insieme che nei singoli
episodi) una “eziologia metastorica”: una interpretazione teologica della storia, un tentativo di
ricostruire la presente situazione dell’uomo a partire dall’esperienza concreta della vita. Gn 1-11
non mira a ricostruire il “cronologicamente originario” (operazione impossibile), ma a
recuperare l’“umanamente primordiale”, il fondamento stesso della storia (pur espresso con un
linguaggio mitico e portando avanti un intendimento demitologizzante). Pertanto, risulta fuori
luogo sia interrogarsi sulla storicità di questi avvenimenti, sia ridurli ad un simbolo estraneo alla
storia.
Accenniamo molto rapidamente alla questione dello sviluppo diacronico di questi primi
capitoli di Genesi: a che epoca possono essere fatti risalire? A quale delle tradizioni teologiche
presenti nel Pentateuco possono essere attribuiti? Va da sé che, nei decenni passati, anche
riguardo a questi capitoli l’ipotesi documentaria ha concentrato molti dei suoi sforzi
nell’attribuzione dei singoli testi ai diversi documenti: in particolare a J e a P. Ora, come già
abbiamo avuto modo di segnalare in sede di introduzione, rimane riconosciuta la funzione
strutturante che la tradizione P ha avuto per il libro della Gn e rimane sostanzialmente credibile
l’attribuzione a tale tradizione di alcune parti della storia delle origini (il primo racconto della
creazione, parte della storia del diluvio, l’abbondante materiale genealogico). Il materiale
tradizionalmente attribuito a J, invece, deve essere genericamente datato all’epoca intorno
all’esilio. Sia un testo come Ez 28,11-19 (esilico) sia l’abbondanza di studi comparativi con i miti
mesopotamici dei decenni passati ci inducono a privilegiare il periodo dell’esilio come terminus
post quem nell’individuazione del probabile periodo di elaborazione di questi primi capitoli della
Gn. Questo non significa escludere che prima dell’esilio Israele non conoscesse una fede in Dio
creatore: ma che altri aspetti del suo credo (ad esempio quelli salvifici) erano messi
maggiormente in evidenza.
Durante l’esilio, a stretto contatto con altri popoli e civiltà e, in particolare, con le loro
rappresentazioni mitiche delle origini, Israele fu provocato a riflettere non solo sulle proprie
origini, ma pure su quelle degli altri popoli e dell’universo intero. Riguardo a queste ultime
tematiche le convinzioni di Israele si approfondirono, si ampliarono e vennero espresse, perlopiù ,
facendo ricorso ai modelli letterari che erano a portata di mano in quel contesto, ferme restando
le peculiarità della fede ebraica (monoteismo in testa). Nota importante, che va contro il sentire
comune: in base a quanto detto, i nostri testi (Gn 1—11) non rappresentano il presupposto degli
altri libri biblici, quanto piuttosto il coronamento e lo sviluppo di molte tradizioni precedenti.

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2. Il primo racconto della creazione (Gn 1,1—2,4a)

a) La struttura

Il primo racconto della creazione si presenta come una narrazione ben strutturata, diversi
tratti aiutano il lettore a coglierne il messaggio. Mi riferisco innanzitutto a tre serie di “ritornelli”

 la scansione temporale nel brano: la struttura è data dalla settimana, dal momento che Dio
crea l’universo in sei giorni e riposa il settimo. In questo senso scandisce la narrazione il
ritornello “e fu sera e fu mattina, … giorno” (vv. 5.8.13.19.23. 31.2);
 per sette volte compare il ritornello “e Dio vide che … era cosa buona” (vv.
4.10.12.18.21.25.31);
 un terzo elemento ritorna sette volte come ritornello “e così avvenne” (vv. 2 [debole
variante: “e la luce fu”].7.8. 11.15.24.30). Nel brano Dio parla per dieci volte, mentre i
verbi utilizzati per l’agire creativo di Dio sono “creare” (br’), “fare” (‘sh) e “separare” (bdl).

Come abbiamo visto, una serie di elementi ripetuti entrano in gioco per scandire il ritmo
alla vicenda. Nel corso del racconto si ripete quasi ad ogni tappa un triplice passaggio:

Dio disse

e così avvenne

Dio fece

Questa scansione ternaria (che ad onor del vero ricorre in tutti i suoi elementi solo quattro
volte) vede prima l’espressione dell’intenzionalità divina (una sorta di dichiarazione di intenti),
poi la solenne affermazione del suo avverarsi, infine la concreta azione creatrice di Dio. In diversi
commenti (specie di matrice protestante) si è molto insistito sul valore performativo della parola
di Dio che creerebbe senza operare: in tal modo sarebbe affermata l’incolmabile distanza tra
Creatore e creature. In realtà non risulta che le cose siano narrate in questi termini. Piuttosto si
può affermare che questo primo racconto è attento a sviscerare tutti gli aspetti della creazione
divina, dalla intenzionalità del Creatore alla sua azione concreta (diverso sarà poi il contenuto di
Sal 33,6.9).
Un altro ritornello che scandisce questo primo racconto di creazione è costituito dallo
sguardo positivo (tōb) di commento da parte di Dio. Esso ritorna ai vv. 4 (dove la bontà è riferita
espressamente alla luce), 10, 12, 18, 21 e 25. Al v. 31 esso appare rafforzato (“era molto buono”,
tōb me‘ōd), al termine della creazione dell’uomo, culmine e conclusione della creazione intera:
quest’ultima, solenne ricorrenza pare indicare l’idea del “perfettamente compiuto”. Infatti, non si
tratta tanto di un giudizio estetico, quanto di un riconoscimento da parte di Dio che quanto è
stato prodotto corrisponde alla sua intenzione. Nel creato che sta venendo fuori la vita donata da
Dio può essere vissuta: al termine del primo racconto nessun male è presente, perché tutto ciò
che è venuto da Dio è del tutto buono. Il male, come avremo modo di vedere, conoscerà altre
origini.
Solo ai vv. 5, 8 e 10 (cioè per la luce/tenebre, il firmamento e l’asciutto/acque) Dio precisa
con un nome l’identità delle cose che crea: tale uso riprende una concezione antico-orientale che
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sta a significare l’esercizio di un diritto di sovranità (che non a caso sarà trasferito all’uomo per
quanto riguarda gli animali terrestri).
In base a questi ed altri segnali linguistici, si possono riconoscere nella narrazione due
parti principali:

* nella prima (vv. 2-19) Dio crea le condizioni della vita, separando e denominando: egli crea un
universo in cui la vita è possibile (perché c’è luce, terra asciutta e cibo). In questo universo ci
sono tre ambiti principali: il cielo, la terra e il mare;

* nella seconda (vv. 20-31) egli crea gli esseri viventi (la vita stessa) e li benedice. Ogni sezione
conclude con la menzione di un certo potere. Al v. 18 emerge come l’universo venga regolato dai
corpi celesti: il compito di regolare il giorno e la notte dice sovranità sul tempo. Al v. 28 Dio
conferisce agli esseri umani potere su tutti i viventi.

Tali parti sono perfettamente incluse dall’introduzione (v. 1) e dalla conclusione (2,1-4a).

b) La prima affermazione (Gn 1,1)

Il v. 1 non può essere interpretato come l’inizio dell’azione: il dato sarebbe in contraddizione
con quanto affermato al v. 2 (“la terra era informe e deserta”) e con il successivo racconto della
creazione della terra (vv. 9-10). Il v. 1 rappresenta, pertanto, il titolo di tutta la narrazione successiva
(come 2,1 ne segnala la conclusione): cielo e terra rappresentano qui un’endiadi sintetica per esprimere
la totalità del cosmo.
Inoltre, anche la traduzione del v. 1 non rappresenta un dato del tutto pacifico. Quella presente
nella nostra traduzione riflette la comprensione abituale del versetto (rispecchiata dalla vocalizzazione
del TM e già presente nelle versioni antiche). In base ad una differente vocalizzazione del testo
consonantico ebraico, si potrebbe leggere l’intero v. 1 come una subordinata temporale del v. 2:
“quando Dio iniziò a creare il cielo e la terra, …” (letteralmente: all’inizio del creare di Dio …).
Occorre evitare di rivestire questa alternativa di una rilevanza teologica che solo all’apparenza essa ha:
a prima vista, infatti, solo la comprensione tradizionale sarebbe in grado di salvaguardare la nozione
metafisica di creatio ex nihilo, mentre la seconda affermerebbe la preesistenza della materia. In realtà,
non si può rinvenire nel testo una precisione filosofico-teologica ad esso estranea e per esso
impossibile. L’idea di una creazione dal nulla emergerà solamente in Gb (cf. 38—39) e in 2Mac 7,28.
La cultura biblica (e semitica in generale) non conosceva, a differenza della cultura greca, il concetto di
“nulla”: per esprimerlo doveva comunque dire qualcosa (cf. il v. 2 e Gn 2,5).
Il v. 2 presenta precisamente un ambiente in cui la vita è impossibile: in un mondo in cui ci
siano solo acque e tenebre la vita non può esistere. L’autore biblico non aveva altri strumenti
linguistico-concettuali per dire che all’inizio non c’era nulla e che Dio ha creato il mondo dal nulla. In
ogni caso noi preferiamo interpretare questo primo versetto nella linea delle versioni antiche,
intendendolo come il titolo del primo racconto di creazione, che inizia subito dopo, con il v. 2: infatti
al v. 1 non si ha ancora l’azione vera e propria (manca ancora la parola creatrice di Dio) e al v. 2 non si
ha alcuna menzione dei cieli, a differenza della terra (il che risulterebbe strano se i due vv. dovessero
essere letti in stretta connessione tra loro). Ciò che è rilevante constatare è il fatto che il v. 1 afferma un
inizio: la creazione dell’universo non avviene al di fuori o prima della storia. Nessun tempo ha
preceduto il tempo della storia. Pur circondato da miti cosmogonici politeisti e pur adottandone, in
parte, schemi e linguaggio, Israele ha saputo salvaguardare la sua prospettiva monoteistica

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(emblematico, in questo senso, il modo in cui viene narrata la creazione del sole e della luna ai vv. 14-
19).
Per quanto riguarda l’espressione “spirito di Dio” (rûah ‘ĕlōhîm) del v. 2, occorre evitarne
affrettate letture teologiche. Il testo non intende parlare qui di Spirito Santo: nell’AT con “spirito
di Dio” si esprimono delle caratteristiche divine, quali la forza e la sapienza, non si esprime
ancora una realtà divina personale (il che non significa escludere retroletture di tipo teologico).
In questo contesto, però , non pare che il nostro sintagma debba essere inteso come indice di una
particolare presenza divina che segnerebbe l’inizio dell’azione creatrice, quanto debba, invece,
essere inteso in modo più generico e più confacente all’idea di caos presentata nel versetto. Il
termine rûah può significare anche “vento”, mentre il termine ‘ĕlōhîm in alcuni casi può servire ad
indicare il carattere superlativo di un determinato elemento: in questo caso pare ragionevole
tradurre “un vento impetuoso” piuttosto che “spirito di Dio”. È interessante rilevare come il vuoto
originario che viene presentato non ha forza propria, non è in grado di contrapporsi a Dio: la
creazione non è vista come il frutto di una lotta originaria tra forze più o meno paritetiche. Al di
fuori di Dio non esiste nessuna potenza creatrice.

c) PRIMA PARTE (vv. 1-19): Dio crea le differenti parti dell’universo (condizioni per la vita)

Prima condizione perché la vita sia possibile è la luce, che dunque viene creata per prima.
Con il primo alternarsi di giorno e notte affiora un dato significativo: in questo racconto la
dimensione del tempo è precedente, e dunque preminente, rispetto a quella dello spazio (di cui ci
si occuperà dopo). Il che significa, tra l’altro, che Dio è presente nel tempo e nella storia più che in
qualche spazio particolare (una teologia ben diversa, come vedremo, da quella dtr, e invece tipica
del cosiddetto post-P).
La luce non è una creatura come le altre, per questo sorge non in virtù di un’azione
creatrice di Dio, ma in base alla sola sua parola. Il v. 2 presenta le acque e le tenebre come
negazione di ogni possibilità di vita: nel linguaggio biblico esse (meglio tenebre e mare) sono
sinonimo di male e di morte. Non è un caso che l’ultimo libro biblico parli di una nuova e
definitiva creazione in cui il mare e la notte non esistono più (Ap 21,1.4 e 22,5). Non è un caso che
la resurrezione di Gesù avvenga al primo chiarore dell’alba il primo giorno della settimana e che
lui rappresenti la luce della nuova creazione (Ap 21,23 e 22,5).
Il secondo giorno Dio crea lo spazio con la sua prima dimensione, quella verticale: il
firmamento rappresenta una sorta di volta collocata tra le acque (il modo di antico di spiegare
piogge e diluvi).
Il terzo giorno Dio si dedica alla dimensione orizzontale dello spazio, creando la terra
asciutta su cui la vita potrà svilupparsi: il potere di arginare le acque appartiene solo a Dio (cf. Gb
38,8-11). Sulla terra asciutta Dio fa apparire le piante, al fine di nutrire gli esseri viventi (vv. 29-
30): create lo stesso giorno del suolo, esse sembrano esserne concepite come propaggini.
Il quarto giorno Dio crea i corpi celesti (vv. 14-19): la loro collocazione centrale nello
sviluppo della creazione ne dice la rilevanza. Il v. 14 indica come da essi dipenda la
determinazione del calendario (e dunque i tempi delle celebrazioni liturgiche). Il fatto che gli
esseri viventi siano creati dopo la configurazione temporale dell’universo, dice che essi ne sono
sottomessi e limitati, che sono comunque creature temporali. Le creature appartengono al mondo
della storia, solo Dio si colloca sul piano dell’eternità . L’enfasi sulla dimensione temporale
dell’universo rappresenta certo uno dei tratti caratteristici di questo capitolo. Il fatto che sole e
luna non vengano chiamati per nome è in polemica con le religioni circostanti, che li veneravano

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come divinità : l’assenza di nome intende evidenziare il loro carattere creato (non divinità , ma
semplici “lampadari”).
In tal modo Dio crea le condizioni necessarie per la vita: luce, tempo, spazio e cibo. Il fatto che
solo a questo punto siano creati gli esseri viventi dice a chiare lettere che nessuno di essi può cambiare
l’ordine della creazione voluto da Dio. Solo Dio ha potere sulla terra, sul mare e sui cieli.

d) SECONDA PARTE (vv. 20-31): Dio crea gli esseri viventi

Il quinto giorno Dio riempie di esseri viventi l’universo, più precisamente di uccelli i cieli e
di pesci i mari (vv. 20-23): si tratta delle prime creature vere e proprie, le prime di cui si dica che
siano state create effettivamente (v. 21). Sono espressamente menzionati i mostri marini, la cui
menzione negativa non manca in altri testi biblici (si vedano, ad esempio, Is 27,1; Gb 9,13; 40,15):
anche in questo caso, sottolineandone la loro origine creaturale, si contribuisce alla loro
demitizzazione, non possono essere considerate divinità . La benedizione divina (v. 22) conferisce
ad uccelli e pesci la possibilità di riprodursi: nel linguaggio biblico benedire significa dare la vita
in abbondanza ed è un’azione tipica di Dio (per quanto anche gli uomini possano farlo,
l’abbondanza di vita viene solo da Dio).
Dopo uccelli e pesci, Dio crea gli esseri destinati a popolare la terra: il sesto giorno egli crea
gli animali e la prima coppia umana. Degli animali si distinguono tre categorie: animali selvatici; il
bestiame e gli animali domestici; i rettili. Anche a proposito degli animali terrestri, la creazione
implica separazione, distinzione e ordine. Sempre nel sesto giorno, esito ultimo dell’azione
creatrice di Dio è la creazione del genere umano. Solenne è l’introduzione del v. 26 (con tanto di
plurale deliberativo, “facciamo”), che segnala il sopraggiungere del momento culminante
dell’opera di Dio, come pure significativa ed enfatica è la triplice ricorrenza della radice br’ al v.
27. Della creazione umana due aspetti (correlati) meritano particolare attenzione: l’immagine
(tselem) e somiglianza (demut) con Dio ed il dominio dell’umanità sugli esseri viventi.
Circa il significato del fatto che l’uomo sia creato ad immagine e somiglianza di Dio, sono
state parecchie le spiegazioni addotte dagli esegeti. Si è parlato di somiglianza fisica o spirituale,
di una relazione privilegiata tra i due, di una “democratizzazione” dell’ideologia regale presente
in Mesopotamia e in Egitto (mentre in queste culture il re è immagine autentica della divinità , per
il racconto biblico ogni essere umano, maschio o femmina, è immagine di Dio). Forse il testo
contiene una polemica anti-idolatrica: le immagini fatte dalle mani dell’uomo non possono
rappresentare Dio, la sola autentica immagine di Dio è l’essere umano, da Lui creato.
Ci soffermiamo un istante per mettere a fuoco la comprensione dell’endiadi nominale
tselem ûdemût (=immagine e somiglianza), rilevante per la comprensione della dignità dell’uomo
e delle responsabilità che gli vengono assegnate nei confronti delle altre creature. Il primo
termine, tselem (=immagine), indica perlopiù una riproduzione, una copia concreta (fino a
significare l’idolo), l’apparenza rispetto all’originale. Il secondo, demût (= somiglianza) indica
qualcosa di astratto: l’apparenza, la somiglianza, la corrispondenza. I due termini esprimono,
precisandosi a vicenda, l’idea che l’immagine deve corrispondere all’originale: il che non si
riferisce a qualche aspetto particolare dell’uomo (ad esempio, alla sua razionalità ) ma a tutte le
sue dimensioni. Il v. 26 non si sofferma a specificare il contenuto di tale affermazione ma passa
subito ad illustrarne il fine: il dominio sul mondo, in particolare sul regno animale. Sommando
dono e compito, l’uomo viene configurato come luogotenente di Dio in mezzo alla creazione,
segno concreto della sovranità divina su di essa.
Sempre al v. 27 si accenna brevemente alla distinzione sessuale come dato originario, che
connota costitutivamente l’uomo nella sua distinzione sessuale (il secondo racconto affronta il
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tema in modo più approfondito). Ma la capacità procreativa dell’uomo è presentata come
benedizione da parte di Dio, non come aspetto dell’“essere a sua immagine e somiglianza”: il che
impedisce derive idolatriche tipiche dei culti cananei (e non solo cananei) della fertilità .
Dunque, in negativo, l’affermazione dell’immagine e somiglianza con Dio esprime la
convinzione che il genere umano sia differente rispetto a tutti gli esseri viventi che popolano
l’universo. Mentre piante e animali sono creati “secondo la loro specie” (vv. 12.20-21.24-25),
questo non avviene per l’uomo: dell’uomo c’è solo una specie, in quanto ogni uomo è a immagine e
somiglianza di Dio. In quanto tale, l’uomo non trova il suo riferimento in sé, nella sua specie, ma
in Dio ed è fatto per rinviare a Dio. In positivo, l’affermazione sottolinea il fatto che l’umanità
riceva un particolare potere da Dio: l’esatto significato di questo potere è dato dal secondo
aspetto.
Nel contesto dei recenti dibattiti ecologici, il contenuto del v. 28 è valutato spesso molto
negativamente: Dio dà agli uomini un potere illimitato sulla terra (da soggiogare) e sugli animali
(da dominare). La Bibbia, secondo alcuni, sarebbe all’origine (culturale) dei disastri ecologici
prodotti dalla civiltà occidentale. Tuttavia, un’attenta disamina del significato dei due verbi
ridimensiona la loro pericolosità : infatti, il verbo “dominare” (rdh) descrive il potere del re (cf. 1
Re 5,4; Is 14,6; Ez 34,4 …), un potere che spesso risulta limitato (cfr. Ez 34,4; Lv 25,43.46.53; Dt).
Inoltre nel quadro di Gn 1, come avremo modo di rilevare, la violenza non è ancora apparsa nel
mondo. Pertanto, è vero che l’uomo riceve potere sugli animali e sulla terra: ma tale dominio non
può trasformarsi in egemonia indiscriminata, non può prescindere dal quadro d’insieme,
dall’ordine che Dio ha iscritto nella creazione, dal momento che esso stesso proviene da Dio ed
implica delle responsabilità nei confronti di Dio stesso. In questo potere esercitato dall’uomo è
rivelato il suo essere ad immagine di Dio.
La creazione dell’uomo è seguita da alcune istruzioni concernenti il cibo (vv. 29-30). Ciò
che colpisce è che tutti gli esseri viventi sono rappresentati come vegetariani: solo dopo il diluvio
(Gn 9,1-3) sarà possibile mangiare carne. Invece, l’universo di Gn 1 è assolutamente in pace: non
si versa sangue, non c’è violenza, ogni essere vivente può vivere sicuro e senza timore. Gn 1
descrive, dunque, un mondo ideale.
A differenza degli uccelli e dei pesci (v. 22) e degli uomini (v. 28), non c’è benedizione
divina per gli animali. Forse la benedizione tocca ogni sezione della creazione (cieli, mari e terra),
ma per la terra è riservata agli uomini e non agli animali per evitare ambiguità o rivalità circa il
predominio.

e) Conclusione (Gn 2,1-3): il sabato al settimo giorno

Al settimo giorno Dio cessa dalla sua opera creatrice e riposa. La radice verbale šbt (=
smettere di lavorare, riposare, da cui deriva il sostantivo šābbat) compare due volte; il vocabolo
melā’kāh (= lavoro, attività ) compare tre volte in due versetti (con formulazione non molto
diversa da quella rinvenibile in Es 20,10 e Dt 5,15 per il comandamento concernente il sabato); lo
stesso vale per la formula “il settimo giorno”. Evidente è il riferimento al sabato (il sostantivo non
è espressamente menzionato), che sarà scoperto in Es 16 e proclamato al Sinai: Es 20,10
giustificherà il riposo sabbatico in nome del riposo divino al termine della creazione.
Qual è il significato di questo riposo, di questa astensione dal lavoro? Per un verso, per
quanto riguarda Dio, la consacrazione di questo giorno esprime non solo la sua delimitazione
rispetto al resto del tempo, ma pure la presa di distanza del creatore rispetto alla creazione:
questa non può essere intesa come fenomeno intradivino, ma va colta in termini di alterità e di
autonomia (Dio si asterrebbe, ormai, dall’intervenire in essa in modo ordinario). Anche in questo
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modo si esprimerebbe la trascendenza di Dio rispetto alla creazione, trascendenza che segna fin
dall’inizio tutta questa narrazione. Per Israele si tratta della sottolineatura della dimensione
originaria e permanente del sabato, non legato solamente alla successiva alleanza (come
emergerà nel decalogo), ma iscritto in Dio. Si potrebbe addirittura affermare che il culmine della
creazione è un qualcosa di recondito, nascosto in Dio, che solo al momento dell’alleanza con
Israele il Signore darà modo di conoscere e celebrare all’umanità : quand’anche non fosse
celebrata, la santità del sabato esisterebbe di per sé.
Per altro verso (come già abbiamo avuto modo di segnalare), a differenza di analoghi
racconti di creazione mesopotamici, al termine della sua attività Dio non si riserva uno spazio
sacro (il santuario), ma un tempo sacro, il giorno santo. Tale momento rappresenta il culmine
della creazione. Se all’inizio del racconto era rappresentato un mondo in cui la vita era
impossibile e Dio era assente, alla fine Dio riempie il settimo giorno della sua presenza. Dopo il
crescendo dell’opera creatrice, al settimo giorno Dio si riposa ed il lettore è invitato a
contemplare non tanto le singole realtà create, quanto Dio stesso. Il “luogo” in cui Dio può essere
contemplato è il tempio del settimo giorno: ancora una volta emerge come il tempo e la storia
siano il primo luogo della rivelazione divina nell’universo. Secondo la th P (di cui è espressione
Gn 1), il santuario non può essere costruito in questo momento, poiché Israele ancora non esiste.
Solo dopo l’uscita dall’Egitto, al Sinai, Dio ne rivelerà a Mosè il progetto.
Il primo racconto della creazione rappresenta, dunque, una contemplazione del mondo
come opera di Dio ed una riflessione di fede circa le differenti forme della sua presenza nel
mondo, dalla luce del primo giorno fino al “vuoto” rappresentato dal settimo giorno.

3. Il secondo racconto della creazione (Gn 2,4b-25)

Che si tratti di un secondo racconto di creazione e non del proseguimento del precedente risulta
in modo chiaro anche solo a una prima lettura dei due brani. Non solo ripetizioni nella creazione dei
viventi, ma anche differenze di termini narrativi e di prospettive teologiche segnano i due racconti. In
Gn 1 l’universo sorge dalle acque e dalle tenebre primordiali, mentre in Gn 2 l’universo prima
dell’intervento divino è un deserto senz’acqua. Gn 1 vede la creazione della coppia umana al termine
della creazione, per Gn 2 la creazione dell’uomo è la prima azione divina (Jacob: in Gn 1 l’uomo
rappresenta il vertice di una piramide, in Gn 2 il centro di un cerchio). Gn 1, a differenza del racconto
successivo, contiene un racconto completo della creazione dell’universo: cielo, mare e terra. Gn 2
tratta principalmente della creazione dell’umanità e delle condizioni di vita sulla terra. Tra i due
racconti differisce il nome con cui si indica la divinità : ‘ĕlōhîm (=Dio) in Gn 1, YHWH ‘ĕlōhîm
(=Signore Dio) in Gn 2. Nel primo racconto Dio è trascendente: pianifica e crea, rimane invisibile
e non si confonde con il creato. In Gn 2—3 la divinità assume caratteristiche più
“antropomorfiche”: plasma, soffia, passeggia nel giardino, la sua onniscienza e la sua onnipotenza
non risultano così evidenti. Gn 2 rappresenta, inoltre, il necessario preambolo a Gn 3: i
personaggi (Dio, uomo, donna) tornano anche nell’episodio successivo, il giardino e gli alberi
implicati sono i medesimi, mentre il comando trasgredito in Gn 3,6 è quello formulato in Gn 2,16-
17.
Una lettura sincronica unitaria di Gn 1–2 non pare, pertanto, possibile. Chi la propone
interpreta, in modo piuttosto forzato, la seconda narrazione come una sorta di flashback e di
puntualizzazione circa il popolamento della terra, in particolare circa la creazione dell’uomo e
della donna, già affermate nel racconto precedente.
In questo secondo racconto, anche da un punto di vista etimologico, al v. 7 è significativo il
legame tra l’uomo, potremmo definirlo “essere terrestre” (‘ādām), e il suolo (‘ădāmāh, nel senso
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specifico di terra coltivata/coltivabile, a differenza del termine ‘erets, che indica la terra nel suo
insieme) da cui egli viene plasmato: anche il ricorso al termine ‘āpār (= polvere) contribuisce ad
esprimere l’idea della creaturalità umana. La creazione dell’uomo (che porta immediatamente
questo racconto al suo punto più alto, al suo climax) si configura come plasmazione,
modellamento: Dio è rappresentato come un artigiano che dà forma e vita al suo prodotto
(analogamente ad alcuni altri testi profetici: Is 45,9; 64,8; Ger 18,6 e Rom 9,19-21). Decisivo in
questo atto creativo è il soffio vitale che Dio infonde nell’uomo che ha creato e che lo rendono
essere vivente (si parte da un dato fondamentale: senza il respiro, l’uomo non vive). La vita
sgorga direttamente da Dio (cf. la medesima concezione in Sal 104,29). Il legame tra ‘ādām e
‘ădāmāh può essere considerato la chiave di lettura dei capp. 2—3.
In questo secondo racconto lo stato primitivo del cosmo è presentato come un deserto
senz’acqua (vv. 5-6): il mondo come ambiente vivibile viene creato da Dio in un secondo
momento, attorno all’uomo (vv. 8-14). Infatti, è dopo la creazione dell’uomo che Dio procede a
impiantare un giardino caratterizzato da una grande abbondanza d’acqua (l’uomo ha bisogno di
nutrimento): esso è configurato sia come oasi nel deserto che come zona sacra in cui è presente la
divinità ed assume caratteristiche privilegiate rispetto al resto della ‘ădāmāh (si vedano testi
profetici come Is 35,6-7; 41,18-20; 43,20; 48,21; 51,3 e 55,13).
Il contenuto del v. 15 afferma espressamente che l’uomo è collocato nel giardino per
coltivarlo e custodirlo: un dato che, a ben guardare, non corrisponde alla nostra idea di “paradiso
perduto”. All’interno di questo giardino due alberi assumono un’importanza particolare: l’albero
della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. La sobrietà di questa presentazione ha
scatenato le ipotesi degli studiosi nel tentativo di chiarire il significato di queste due piante.
L’albero della vita rappresenta un motivo sapienziale e ritorna anche in altri testi biblici (Pr 3,18;
11,30; 13,12; 15,4; Ap 2,7; 22,2.14.19). L’albero della conoscenza del bene e del male non vede
altre menzioni nella Bibbia e ne sono state date svariate interpretazioni:

 significato esistenziale: significherebbe la capacità di discernere tra ciò che è utile e ciò
che è dannoso, al fine di scegliere il primo ed evitare il secondo;
 significato etico: capacità di discernere tra bene e male morale;
 significato sessuale: la radice yd‘ può , in effetti, avere anche una sfumatura sessuale e
anche altri elementi dell’episodio convoglierebbero a questa interpretazione: il serpente
era comune simbolo di fertilità , la nudità è tema connesso alla sessualità . Per questo alcuni
esegeti propongono di interpretare il tipo di conoscenza connesso a tale albero con la
scoperta della sessualità o con la maturità sessuale;
 senso di totalità : avremmo a che fare con un merismo, una figura retorica indicante una
totalità mediante la menzione dei suoi elementi opposti. La conoscenza del bene e del
male significherebbe, dunque, onniscienza, una conoscenza che, dunque, può essere solo
appannaggio di Dio.

Guardando ad altri testi biblici (2 Sam 14,17.20; 19,36; Dt 1,39; 30,15-20; Is 5,20; 7,15-
16), emerge come, per un verso tale conoscenza sia, in forma piena, prerogativa divina, ma nello
stesso tempo sia requisito indispensabile per la vita umana e caratteristica dell’età adulta. Questa
dimensione così importante e ricca di significati non è facilmente acquisibile da parte umana.
Resta da capire, pertanto, il senso del divieto riportato ai vv. 16-17, dal momento che tale
conoscenza non pare pericolosa e risulta, anzi, indispensabile.

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Quanto narrato al v. 15 dà l’impressione che l’uomo sia stato creato appositamente da Dio per
assumere un compito di coltivazione e di custodia del giardino. Ai vv. 16-17 le prime parole
divine di questa narrazione pongono l’uomo all’interno di un dono e di un’obbedienza: il dono
consiste nella possibilità pressoché smisurata a lui concessa di beneficiare delle ricchezze del
giardino; l’obbedienza è data da una sola proibizione che pone ipso facto l’uomo dinanzi a una
scelta. Il fatto in sé è significativo: il necessario riferimento dell’uomo a Dio trova la prima
conseguenza morale, la libertà umana non è assoluta. Quanto al contenuto, non è del tutto chiaro
a che cosa si riferisca esattamente la minaccia divina, se si tratti di una forma iperbolica o
semplicemente indicativa. In una situazione caratterizzata da creazione e vita, proprio Dio
introduce la possibilità della morte, di cui fino a quel momento l’uomo non era al corrente.
Per quale motivo Dio interdice l’accesso all’albero della conoscenza del bene e del male, il
cui frutto è così importante per la vita umana? Occorre leggere con attenzione l’intimazione
divina: Dio non proibisce la conoscenza del bene e del male, ma di mangiare dell’albero di tale
conoscenza. Dio non proibisce l’acquisizione della conoscenza del bene e del male, ma l’acquisizione
mediante il mangiare tale frutto. Il che significa che la coppia umana non può considerare questo
albero alla stregua degli altri alberi del giardino, poiché la conoscenza del bene e del male non è
semplicemente un frutto che può essere mangiato come gli altri, c’è una differenza che è
essenziale per la vita umana. Detto in linguaggio moderno, se tutti gli altri frutti del giardino sono
appetibili, la conoscenza del bene e del male non può essere ridotta al livello degli appetiti, in
quanto implica pure la coscienza, la libertà e la responsabilità degli uomini.
A partire dal v. 18, si presenta la creazione prima degli animali e poi della donna.
Innanzitutto viene affermato che l’uomo è chiamato costitutivamente ad essere in relazione, la
solitudine non gli si addice (per la prima volta Dio, con stile molto differente rispetto al primo
racconto, ammette che qualcosa non è buono nella sua creazione: un mezzo retorico per aprire il
racconto a nuovi sviluppi): nella concezione biblica, la solitudine è connessa con la realtà della
morte (cfr, ad esempio, Sal 88,9.19). Con l’espressione “un aiuto, che gli sia simile, come
corrispondente” viene indicata tanto l’idea di identità di natura quanto quella di
complementarietà . Il vocabolo ‘ēzer indica un aiuto decisivo, in sé non contiene nessuna idea né
di superiorità né di inferiorità rispetto a chi necessita di aiuto. La precisazione successiva sta ad
indicare l’idea di corrispondenza. Si tratta pertanto di individuare “un aiuto alla sua altezza,
simile, adeguato”. Inizialmente, con la creazione degli animali, siamo nell’ordine di idee di
un’assistenza per la promozione dell’uomo.
Secondo uno schema frequente nelle narrazioni bibliche, l’attuazione del piano procede
mediante due tentativi, sia per creare un minimo di tensione drammatica (suspence) sia
rimarcare la rilevanza della scena positiva. La prima scena serve, dunque, come termine di
contrasto. L’imposizione del nome agli animali da parte dell’uomo dice l’attività ordinatrice con
cui egli interpreta, si “impadronisce spiritualmente” delle creature (possiamo scorgere qui un
accenno all’origine e all’essenza del linguaggio). Tale attività segna la superiorità dell’uomo sugli
animali, altrimenti identici quanto alla materia da cui sono stati creati (anche se di essi non si
dice che hanno ricevuto da Dio il soffio vitale): un’attività che esprime anche il dominio, la
signoria dell’uomo sul regno animale (cambiare il nome di determinati individui è tipico di Dio, e
di Gesù ). Ma la creazione degli animali non rappresenta ancora una soluzione del programma
narrativo formulato da Dio al v. 18: essi risulteranno utili solo più tardi, in 3,21, per ricoprire gli
esseri umani prima della loro espulsione dal giardino, ma non costituiscono certo l’alterità di cui
l’uomo ha bisogno.
Per quanto riguarda la creazione della donna, occorre riconoscere che letture superficiali
del testo hanno contribuito a radicare pregiudizi secolari. Che si tratti di un momento
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significativo è segnalato dal torpore che scende sull’uomo durante l’intervento divino: l’uomo
non può vedere Dio in azione, può solo contemplare la sua creazione come avvenimento
compiuto. Più che di un fatto anestetico, dunque, si tratta di un dato teologico, tipico dell’AT
sebbene non assoluto: l’uomo non è in grado di reggere la presenza e l’azione di Dio (cfr, ad
esempio, Gn 15,12 e, nel NT, Lc 9,32). Per quanto riguarda il ricorso alla costola per la creazione
della donna, esso segnala che l’aiuto cercato si pone allo stesso livello ed è della stessa natura: a
differenza delle piante, degli animali e dell’uomo ella non è tratta dal suolo. Come dicevano i
rabbini: “La donna non è stata tratta dalla testa dell’uomo perché non fosse al di sopra di lui;
neppure è stata tratta dal piede dell’uomo perché non fosse al di sotto di lui; è stata tratta dal
fianco dell’uomo perché fosse allo stesso livello”.
Dopo averla creata, Dio, come un paraninfo, conduce la donna all’uomo, che
immediatamente la riconosce come sua. Tale riconoscimento è rispecchiato dalla terminologia
utilizzata per indicare l’uomo e la donna: ‘îš e ‘îššāh. Anche qui l’imposizione del nome non è altro
che l’espressione di precedente, pieno riconoscimento. Il fatto che il termine ‘îš (= uomo, marito)
entri in gioco solo qui, insieme al termine ‘îššāh (= donna, sposa), indica probabilmente che solo a
questo punto ha avuto luogo la distinzione sessuale: in precedenza, pertanto, in questo secondo
racconto, il vocabolo ‘ādām va tradotto con un generico “essere umano”, ancora asessuato. In
seguito tale vocabolo indicherà invece l’essere umano maschio (cf. vv. 24-25 e le ricorrenze al
cap. 3, ma non ai vv. 17b-19.22-24 di questo cap. dove indica ancora l’essere umano in generale),
che, a partire de Gn 4, con la nascita di altri esseri umani, è bene indicare con il nome proprio
Adamo. In tal modo la creazione della donna viene a configurarsi piuttosto come una divisione
dell’essere umano in due partners: l’uomo comincia ad esistere solo nel momento in cui comincia
ad esistere la donna e viceversa.
L’essere umano risulta, pertanto, un essere relazionale: deriva la sua identità sia dal suo
rapporto con la terra, sia dal suo rapporto con l’altro sesso. In Gn 2—3 l’uomo e la donna, l’essere
umano e la terra si distinguono l’uno dall’altro per compiti e funzioni e necessariamente si
collegano in modo reciproco. Questa origine della distinzione sessuale spiega la forte attrazione
tra i due sessi, segnalata al v. 24, un amore che supera quello per i genitori. Si descrive qui una
forza naturale più che un costume giuridico: non pare che si debba scorgere qui un testo a
sostegno della monogamia. Semplicemente la relazione tra i sessi è presentata come dato
costitutivo, voluto dal Creatore, e non come momento di decadenza: il riferimento finale alla
procreazione afferma che, grazie alla distinzione sessuale, l’essere umano può avere un futuro.
Paradossalmente, Dio separa l’originaria medesima carne per consentire che uomo e donna
tornino ad essere una carne sola, ma per libera scelta reciproca.
La notazione finale circa la nudità dell’uomo e della donna riguarda la loro identità e
rappresenta un evidente legame con il successivo sviluppo del racconto. La nudità e l’assenza di
vergogna segnala lo stato di “innocenza infantile” della prima coppia umana. Con un’avvertenza:
se nel nostro contesto culturale la nudità ha una forte connotazione sessuale, nel mondo biblico a
tale parole è piuttosto connessa l’idea di debolezza, inferiorità , vulnerabilità (non a caso schiavi e
prigionieri di guerra erano nudi). Analogamente, la vergogna non esprimeva tanto un sentimento,
quanto la condizione di chi era escluso dalla comunità perché riconosciuto colpevole di qualche
grave misfatto e condannato (cf. ad esempio Sal 6,11). Contro tale background, Gn 2,25 suggerisce
che c’era piena comunione tra il primo uomo e la prima donna, senza alcun sentimento di timore
o di vergogna connesso con la nudità .

41
4. La prima disobbedienza (Gn 3)
Il racconto di Gn 3 contiene uno dei testi dell’AT la cui comprensione è stata più pesantemente
condizionata, nei secoli, da considerazioni di ordine teologico (e di teologia cristiana) ad esso estranee.
Questo capitolo non parla del peccato originale. Non solo per il fatto che, da un punto di vista
meramente formale, in esso non compare mai il termine “peccato”, ma soprattutto perché non si
descrive in esso ciò che, secoli più tardi, verrà prima intuito da Paolo e poi sviluppato con forza da
Agostino: prova ne sia il fatto che nella fede ebraica non si trova l’idea di un peccato originale.
A maggior ragione bisogna ricordare che la lettura cristologica (o mariologica) del v. 15 è una
lettura teologica che, di per sé, non avrebbe motivo di emergere dal testo (a proposito di questo v. si è
parlato tradizionalmente di “protovangelo”): infatti nel TM soggetto del verbo “ti schiaccerà” (qal
impf. 3 m s da šûp = schiacciare) è la discendenza della donna (in ebraico zera’ è un sost. m s), non la
donna stessa (avremmo a che fare, evidentemente, con un f s); sempre alla discendenza si riferisce il
suffisso di 3 m s legato all’ultimo verbo (“le insidierai”). Nella versione greca dei LXX, come soggetto
di tale verbo (che in greco risulta essere thrh,sei da thre,w) compare stranamente un auvto,j (= egli,
pron. m s, che indica presumibilmente l’uomo genericamente inteso) che non trova giustificazione nel
TM, perché il sostantivo spe,rma cui è riferito è neutro, e che è stato inteso nella tradizione cristiana
come un riferimento a Gesù. Nella Vulgata, poi, come soggetto di tale verbo viene posto un ipsa
riferito al precedente mulier: anche questo non trova giustificazione nel TM ed è stato interpretato nella
tradizione cristiana come un riferimento a Maria. Occorre distinguere, pertanto, tra l’effettivo contenuto
del testo e successive riletture che sono state fatte, legittimamente, in base a precise convinzioni di fede
(cristiana).
In particolare, la dottrina del peccato originale non rappresenta la chiarificazione di un dato
“storicamente originario”, ma un paragrafo della dottrina della salvezza universale: nella misura in cui
si è colta la rilevanza salvifica del mistero di Cristo, si sono andate chiarendo le implicazioni connesse:
solo l’esperienza dell’universalità della grazia ha gettato luce sul mistero dell’universalità del peccato
(cf. Rom). Ecco perché l’esegesi non può riconoscere in Gn 3 la narrazione del peccato originale,
mentre la teologia biblica sì.
La precedente precisazione di ordine teologico non avvalora letture positive di questo capitolo.
A partire da alcune ambiguità presenti nel brano a proposito della figura divina, alcuni autori hanno
presentato Gn 3 come la narrazione dell’umanità che si libera dalla gabbia in cui l’aveva costretta il suo
Creatore (qualche esegeta ha parlato di racconto di maturazione sessuale). Senza negare che dietro
l’episodio ci possa essere un mito concernente l’emancipazione dell’uomo, la sua presentazione attuale
nella “storia delle origini” lo caratterizza come momento negativo. Plausibile, ma forse riduttiva,
l’ipotesi di leggere questo episodio come metafora di successive disobbedienze storiche di Israele,
retroproiettate al tempo delle origini: è il caso, ad esempio, di chi vede nel brano una metafora della
disobbedienza di Israele, sedotto dalle pratiche idolatriche, che lo ha portato all’esilio, cioè fuori dalla
terra promessa (rappresentata come giardino divino).
Ad una attenta lettura, l’episodio narrato in Gn risulta meno chiaro di quanto sembri. In
particolare segnaliamo due principali questioni che attendono risposta: qual è la natura del peccato,
della caduta? Qual è la natura della punizione?
La narrazione può essere divisa in tre scene che descrivono un procedimento giuridico:

 il misfatto (vv. 1-7);


 l’inchiesta (vv. 8-13);
42
 la sentenza (vv. 14-19).
I vv. 20-24 rappresentano l’epilogo del racconto.

Un primo elemento significativo per la comprensione dell’episodio è rappresentato dal serpente,


che compare inaspettatamente all’inizio dell’episodio. Nella successiva tradizione ebraica e cristiana
esso è stato identificato con il diavolo (cf. Sap 2,24). Di per sé il serpente rappresenta un simbolo
comune non solo nel mondo biblico, ma nel contesto del VOA e di altre religioni: potremmo
sinteticamente affermare che il serpente evoca la “vita naturale e istintuale” in contrapposizione alla
“vita consapevole e libera”. Ad esempio, il serpente è spesso simbolo di fertilità e fecondità a motivo
del suo apparire nella stagione delle piogge, all’inizio del ciclo vegetale,come pure della ciclicità della
natura (tra vita e morte). Inoltre, il serpente striscia per terra (cf. v. 14): pertanto, esso è particolarmente
legato al “mistero del suolo”, da cui sorge e a cui ritorna ogni forma vivente. Il serpente conosce,
dunque, il mistero della vita e della morte; inoltre predilige le tenebre e, soprattutto, ha il potere di dare
la morte e togliere la vita. In qualche modo esso può rappresentare il “lato oscuro” ed istintivo della
personalità umana, in contrapposizione al mondo della luce, della razionalità, della consapevolezza e
del linguaggio. Detto diversamente: il serpente rappresenta la nostra natura materiale (terrestre), con i
suoi appetiti ed i suoi istinti, con la sua ambivalenza (ecco perché esso ha potuto essere facilmente
identificato con il diavolo).
Se il divieto di 2,16-17 proibiva di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male,
non sorprende di trovare ben 17 ricorrenze del verbo mangiare (‘kl) nei vv. 1-19. Per capire il senso
della caduta narrata, proviamo a tradurre in linguaggio moderno il senso della proibizione. Il divieto di
“mangiare” significa che la conoscenza del bene e del male non appartiene al mondo dei nostri appetiti
(cioè al mondo rappresentato dal serpente): in questo senso la voce del serpente rappresenta, per così
dire, la voce del suolo. La voce di Dio, invece, invita il primo essere umano ad un altro tipo di
esperienza, che intende porre un limite a tale natura “materiale” dell’uomo. Paradossalmente, se un
essere umano è capace di porre un limite ai suoi istinti ed ai suoi appetiti, diventa capace di percepire
un livello più alto di conoscenza rispetto a ciò che potrebbe soddisfare immediatamente quelli. Ci sono
cose più importanti di quanto può essere mangiato: la conoscenza del bene e del male.
In modo estremamente plastico e sintetico, potremmo dire che la caduta della coppia umana
consiste nel rifiuto di discernere e decidere in modo consapevole e libero, visto che in fin dei conti è il
serpente a decidere al loro posto.
Il misfatto (vv. 1-7)
Molto interessante risulta la strategia che il serpente (di cui, non a caso, è segnalata l’astuzia con
un termine pressoché omofono rispetto all’aggettivo ‘nudo’) mette in atto nei confronti della donna:
parte da una domanda generica, in cui distorce completamente le indicazioni date da Dio, e lascia che
sia la donna a fornire i termini del comando divino, con cui ella sembra quasi prendere posizione in
difesa di Dio. Ma mentre rettifica la distorsione del serpente, la donna esagera un dato (Dio non aveva
detto che l’albero non potesse essere toccato): la provocazione del serpente sta ottenendo i primi effetti,
allontanando la donna dalla verità. Nei vv. successivi il serpente esce allo scoperto e contesta
l’indicazione divina, affermando di conoscere Dio meglio degli uomini, in particolare di conoscerne la
gelosia per le proprie prerogative: in tal modo insinua il sospetto su quanto Dio aveva formulato per il
bene dell’uomo. In definitiva, il serpente propone agli esseri umani un “salto di qualità” che li sottragga
alla tutela divina. Al v. 5, la sua proposta non va necessariamente intesa come una “deificazione”
dell’uomo, dal momento che la seconda ricorrenza del termine ‘ĕlōhîm potrebbe essere tradotta con
“esseri divini” piuttosto che con “Dio”. Proprio perché indefinita e inafferrabile la proposta del
serpente diventa affascinante. Con il v. 5 il serpente esce di scena. Rimane la donna dinanzi all’albero:

43
con due serie in crescendo (quella verbale “vide, prese, mangiò”; e quella degli attributi riguardanti
l’albero “buono, gradito, desiderabile”), la disobbedienza viene descritta con estrema sobrietà. In tale
percezione la donna ha ridotto l’albero della conoscenza del bene e del male al livello di tutti gli altri
alberi del giardino (cfr Gn 2,9), ponendosi nello stesso angolo prospettico e valutativo del serpente.
Detto per inciso, non si specifica nel testo di quale frutto si trattasse, la tradizione della mela è solo
latino-cristiana e deriva probabilmente da una confusione, nel latino, tra malum (= male, malvagità) e
malum (= mela). Il v. 7 segnala che effettivamente il frutto mangiato produce una novità: una novità
che, però, non va nella direzione della “deificazione” ma in quella della “deglorificazione”. La nudità
scoperta come motivo di vergogna pare segnalare una frattura che si è venuta a creare nell’essere
dell’uomo (a differenza di quanto era stato segnalato in 2,25): tanto la loro nudità che la loro fuga in
mezzo agli alberi (= là dove i loro appetiti possono saziarsi) dice ormai la loro appartenenza al mondo
del serpente e la loro lontananza dal mondo ideato da Dio.
L’inchiesta (vv. 8-13)
Una frattura creatasi con la caduta è segnalata, subito dopo, anche riguardo al rapporto con Dio
che si avvicina: la paura di Dio (ammessa al v. 10) segnala una frattura nella relazione tra la creatura e
il creatore. Una caratteristica di questo passaggio del brano è che ciascuno nega la propria
responsabilità: l’uomo accusa la donna (dunque, una frattura si è venuta a creare nella loro relazione) e
la donna accusa il serpente. Il che dice una cosa vera, dal momento che il serpente ha deciso per loro;
ma testimonia anche che essi non sono giunti al livello della conoscenza del bene e del male. Le
domande da parte di Dio portano ad esplicitazione e consapevolezza quanto in precedenza avvenuto.
Potremmo dunque concludere che la natura del peccato sta nel rifiuto di una reale libertà e
responsabilità dinanzi a Dio, un rifiuto di pervenire in modo autentico alla pienezza rappresentata dalla
conoscenza del bene e del male.
La sentenza (vv- 14-19)
Per quanto riguarda la scena della punizione, essa si compone di tre condanne. A partire dal v.
14, l’ordine delle condanne è inverso a quello del precedente interrogatorio. Il contenuto di queste
condanne va inteso in senso eziologico: tutte le fratture e le tensioni che si vengono a creare all’interno
del creato non sono da attribuire alla volontà originaria del creatore (da cui non può venire alcun male),
ma a una punizione, a una decadenza successiva.
Innanzitutto viene maledetto il serpente (l’unico a non esser stato interrogato): si parla della sua
natura “infelice” (v. 14). La maledizione, nella concezione biblica, rappresenta l’esclusione dalla
comunità: il serpente viene messo a parte rispetto agli altri animali e, in modo eziologico, la sua sorte
viene legata strettamente a quella della polvere (dovrà strisciare). Inoltre (v. 15), viene configurato il
rapporto “conflittuale” tra il serpente e la razza umana (ogni incontro uomo-serpente si viene a
configurare come questione di vita o di morte, si tratta di un conflitto tra specie senza speranza di
soluzione).
La seconda condanna, riservata alla donna, contiene l’eziologia delle doglie del parto, della sua
attrazione verso il marito e della sua posizione subordinata nei confronti del medesimo. Tuttavia la
donna non è maledetta e anche tutte queste dimensioni della vita femminile non sono configurate come
maledizione: in particolare, vale la pena ricordare che nella cultura biblica la maternità è considerata
una benedizione, mentre è la sterilità ad essere vista come maledizione. Il testo di Gn sottolinea che
certi aspetti dolorosi della condizione femminile non sono normali, ma rappresentano un ‘disordine’
introdotto nella creazione dall’aver dato ascolto alla voce del serpente. Se il matrimonio e la maternità

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non vengono ricondotti nella logica di Dio e permangono in quella del serpente, la sofferenza ad essi
connessa rimane senza significato e può crescere in modo inverosimile.
Analogamente, Dio si rivolge all’uomo (vv. 17-19): se la donna era toccata nella sua
femminilità, l’uomo è implicato in una delle dimensioni più caratteristiche della sua vita, quella del
lavoro. Ad essere maledetto non è l’uomo, ma il suolo (analogamente al serpente, con cui è messo in
parallelo). Di per sé il lavoro non è conseguenza della maledizione (cf. 2,5.15), mentre lo sono i suoi
connotati di dolore e di fatica. Quando il lavoro non è espressione di scelta e di responsabilità, ma solo
di necessità, non è più segno della dignità umana chiamata a collaborare con il creatore, ma diventa
motivo di sofferenza e di dolore. Tale maledizione compromette il legame tra l’uomo e il suolo da cui
era stato tratto, mentre affiora una tipica concezione biblica, secondo cui la fertilità del suolo dipende
dall’atteggiamento spirituale dei suoi abitanti (tra altri testi, si veda Os 4,1-3). Il v. 19 riguarda la morte
(attenzione: non si dice nulla della situazione precedente, si vuole semplicemente spiegare l’origine
della morte). La sua introduzione nel mondo a questo punto testimonia quanto da sempre essa venga
percepita come dolorosa e assurda: Dio è esonerato da ogni responsabilità al riguardo, tale realtà
negativa non era parte del suo progetto originario. In generale, il male nel mondo è conseguenza delle
scelte dell’uomo e non del disegno originario di Dio. Il ritorno alla terra connota la morte come
annichilimento della creazione dell’uomo e lo colloca definitivamente nella dimensione materiale del
serpente.
Al v. 20 il fatto che l’uomo imponga un nome alla donna (cosa che non era ancora avvenuta
fino a questo momento, al cap. 2 si trattava di un riconoscimento impersonale come parte di sé)
sancisce il suo dominio su di essa. L’espulsione finale della coppia dal giardino intende presentare la
nuova condizione della razza umana. La vita, nella sua pienezza, soprattutto nella sua eternità, resta
inaccessibile all’uomo: i cherubini (esseri leggendari alati della mitologia babilonese, mezzo uomini e
mezzo animali, che proteggevano le divinità e i luoghi sacri) e la loro spada sfolgorante (probabile
allusione ai fulmini) esprimono precisamente questa idea. Tuttavia, l’epilogo non manca di una nota di
speranza: nella mentalità biblica l’abito esprime la dignità di una persona, e perciò il fatto che sia Dio a
fornire le tuniche alla coppia umana dice che comunque la loro dignità e la loro personalità sono un suo
dono. La protezione di Dio non viene meno sul cammino dell’umanità.
La narrazione vede l’uscita dell’umanità dall’infanzia nel giardino all’età adulta: non questa ma
alcuni suoi aspetti significativi sono conseguenza del peccato con cui si è pervenuti a tale età. Rimane
altrettanto certo che Dio non abbandona le sue creature. Guardando all’insieme della rivelazione
biblica, il paradiso non sta – irrimediabilmente perduto – alle spalle del cammino dell’umanità, ma
dinanzi ad esso (cf. la Gerusalemme nuova in Ap 21-22: spec. Ap 21,4 e 22,2).

5. La città e la torre di Babele (Gn 11,1-9)


In Gn 10,10-12 è Nimrod, discendente di Cam, a fondare, tra le altre, Babele e Ninive. In Gn
11,1-9 abbiamo una versione alternativa della costruzione di Babele. Si tratta di un episodio la cui
comprensione risulta meno ovvia di quanto si possa presumere, ragion per cui volgeremo su questo
punto la nostra attenzione.
L’esegesi tradizionale vede nell’episodio la spiegazione di un cambiamento significativo per la
storia umana: all’inizio l’umanità intera parlava la stessa lingua, alla fine le diverse nazioni parlano
ciascuna una lingua diversa. Tre elementi principali contraddistinguono l’esegesi tradizionale di Gn
11,1-9:
1. La torre che raggiunge il cielo: il progetto degli uomini radunati nella pianura di Sennaar
(Mesopotamia centrale) viene spesso interpretato, in uno sforzo dal sapore concordistico, in
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funzione di scoperte archeologiche. La città è identificata con Babele e la torre con una qualche
ziqqurat (= tempio a gradini, molto alto, che dava l’impressione di voler raggiungere il cielo,
dimora degli dei);
2. la hybris dell’umanità: Dio interviene per vanificare l’impresa degli uomini perché voler
raggiungere il cielo è impresa presuntuosa e finanche empia, dal momento voler raggiungere la
dimora divina con le proprie forze. La superbia dell’umanità è castigata da Dio, che difende le
proprie prerogative ed impedisce agli uomini di oltrepassare il confine tra mondo umano e mondo
divino;
3. la confusione delle lingue mira ad impedire la comunicazione tra gli uomini e la realizzazione dei
loro progetti peccaminosi. La gran varietà di lingue (e, dunque, di culture) sarebbe vista come
conseguenza negativa della presunzione umana.

Nonostante l’antichità di questa lettura e la sua parziale validità, non mancano difficoltà nella
comprensione tradizionale, due in particolare:

 al v. 1 si parla di “una sola lingua”? La traduzione abituale non è corretta: il TM, infatti, non parla
di “una sola lingua”, ma di “un solo labbro”: la scelta lessicale compiuta dall’autore del racconto
non può non suscitare qualche interrogativo.
 la costruzione della torre è veramente al centro del racconto? L’interpretazione abituale della
finalità del brano risulta fuorviante, dal momento che l’impresa progettata nell’episodio comporta
anche la costruzione di una città. Peraltro, il TM parla espressamente di una torre ( lD'g>mi; cf.
Maria Maddalena = Maria Della Torre), non di un tempio: l’accezione religiosa dell’edificio (e
dell’impresa) non trova fondamenti nel testo.

Una nuova interpretazione del brano prende origine dagli studi di E. Testa e C. Uehlinger (e J.L.
Ska), giocati su alcune indicazioni provenienti da testi della Mesopotamia. Vediamoli in sintesi:

1. le espressioni “un solo labbro” e “uniche parole” (= imprese, cf. la polivalenza semantica di rb'D')
ricorrono spesso in documenti assiri di propaganda regale e hanno come scopo di descrivere l’unità
dell’impero intorno al re che è riuscito a pacificare il suo immenso regno. Il problema non è,
dunque, quello della lingua parlata, quanto piuttosto quello della pace e della concordia esistenti in
un impero sottomesso alla volontà di un unico sovrano. Tale ideale di concordia non è, per i sovrani
assiri, espressione di una volontà popolare, ma frutto della forza e della violenza: non avremmo,
dunque, a che fare con un patto concorde tra popolazioni, ma con l’armonia connessa alla
sottomissione ad un potere totalitario;
2. la costruzione di una città (in genere la capitale) e di una torre rappresentava una politica comune di
molti re assiri giunti al potere, finalizzata alla pacificazione dell’impero dopo qualche rivolta
connessa con la successione al trono. La città doveva essere dotata di una doppia cinta muraria, una
interna e una intorno ad una sorta di “rocca” con gli edifici religiosi e del potere. Lo scopo di queste
costruzioni imponenti e magnifiche era politico, e consisteva nell’affermare la potenza del sovrano
di turno contro ogni movimento di secessione;
3. la torre: tempio o cittadella? La parola “torre”, in ebraico, designa chiaramente un baluardo di
difesa (cfr Gdc 8,9.17; 9,46-52; Sal 48,13; 61,4; Pr 18,10; Is 2,15; Ez 26,9). Come abbiamo già
avuto modo di evidenziare, l’idea è che le città più significative avessero una cittadella interna, una
rocca. In questo senso dovrebbero essere letti ed interpretati i dati di Gn 11;

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4. una torre “la cui cima sia in cielo” (Gn 11,4): più della pretesa umana di raggiungere il cielo,
l’immagine esprime una considerazione iperbolica, superlativa (analoga al sostantivo moderno
“grattacieli”), che ritorna anche in testi biblici: cf. Nm 13,28 che dice lo stupore israelita per città
fortificate, dovuto alla loro ignoranza tecnica; l’espressione in questione ritorna invece in Dt 1,28;
9,1 e Ger 51,53, dove si allude all’eccessiva fiducia riposta in opere umane;
5. il “nome”. Nell’antichità (specie nel mondo biblico) vi erano due modi di sopravvivere. Il più
comune era la discendenza: erano i figli a perpetuare il nome dei genitori; il secondo, meno comune
e riservato ai grandi personaggi, consisteva nella costruzione di un monumento o di una città (cfr 1
Sam 18,18 e Sir 40,19). In questo secondo contesto il nome significa innanzitutto fama,
reputazione, gloria: l’espressione “farsi un nome” può anche significare “fondare un impero”,
“organizzare uno stato” che possa durare nel tempo e assicurare al fondatore una certa immortalità.
Il nome può, dunque, avere connotazioni politiche, in quanto legato all’organizzazione di un impero
e, in particolare, alla costruzione di una capitale come centro amministrativo.
Dunque, il vocabolario di Gn 11,4-5 presenta valenze politiche più che religiose: Gn 11,1-9
descrive in modo paradigmatico le imprese totalitarie dei grandi re dell’area mesopotamica e la loro
eccessiva fiducia in grandi costruzioni, che prima o poi riveleranno il loro carattere effimero.
Tale interpretazione dell’episodio trova riscontri nella costruzione del racconto, nell’ironia in
essa presente e nel contesto prossimo. Il racconto si sviluppa in quattro tappe: le prime due descrivono
la costruzione, le ultime due l’arresto del progetto. Si ha, inoltre, nell’episodio, una combinazione di
movimenti orizzontali e verticali:

1) il racconto inizia con un primo movimento orizzontale, quello dell’umanità intera che,
andando verso oriente, si reca nella pianura di Sennaar (v. 2);
2) lì inizia il movimento verticale e ascensionale con la costruzione della città e della
torre “fino al cielo” (v. 4);
3) a questo movimento verticale risponde un altro movimento verticale, di discesa,
quando Dio scende a vedere la città e la torre, per poi impedire l’impresa (vv. 5.7);
4) la decisione divina provoca la dispersione dell’umanità, cioè un ulteriore movimento
orizzontale che vede le diverse nazioni andare in tutte le direzioni a popolare
l’universo.

La dispersione voluta da Dio demolisce quanto gli uomini avevano ideato all’inizio del
racconto, nella loro volontà di restare uniti per sempre: l’impresa umana dei vv. 1-4 è vanificata da Dio
nei vv. 5-9 e i movimenti della seconda parte invertono quelli della prima. Dimensione politica e
dimensione teologica risultano strettamente intrecciate tra di loro.

Nonostante la concisione, nel racconto è possibile riconoscere l’ironia con cui l’autore guarda le
imponenti realizzazioni della civiltà mesopotamica, in particolare le città. Motivi di ironia:
 innanzitutto, il v. 3 (oltre a sottolineare la sproporzione tra la grandiosità del progetto e la fragilità
dei mezzi umani a disposizione) tradisce l’origine dell’autore: proviene da una regione dove si
costruisce con pietra e malta (argilla) e mostra la sua stupita commiserazione nei confronti di chi, in
mancanza di quelli, deve cuocere mattoni ed usare bitume. La povera terra di Israele pare offrire, al
riguardo, migliore materiale edilizio della fiorente pianura mesopotamica.
 Anche il passaggio tra il v. 4 ed il v. 5 presenta una certa ironia: l’impresa degli uomini pretende di
raggiungere il cielo, Dio, per poterla vedere, deve scendere. La sproporzione tra le opere umane e la
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grandezza divina è tale che Dio è obbligato a scendere per poter vedere le maggiori realizzazioni
della civiltà babilonese.
 Infine, il toponimo lb,B' (Babele, espressione di somma potenza in termini politico-militari) al v.
9 viene ricondotto alla radice llb, che significa “confusione”. L’ironia (da sempre utilizzata dai
deboli contro i potenti) esprime la critica alla potenza babilonese da parte di Israele.

Ma, più in profondità, Gn 11,1-9 si presenta come un racconto paradigmatico, che descrive la
tragica fine di un sogno di onnipotenza: non è solo una satira nei confronti di Babele in quanto tale, ma
in quanto incarnazione di un’impresa destinata a fallire irrimediabilmente.

Guardando al contesto letterario prossimo dell’episodio, un breve confronto con Gn 10 (la


“tavola delle nazioni”) mostra che esistono almeno due versioni parallele del popolamento della terra
nei primi capitoli di Gn. Secondo Gn 10 la dispersione delle nazioni sulla terra è il risultato di un
processo naturale e non la conseguenza di un particolare intervento divino o di un peccato umano:
l’esistenza di diverse nazioni, di diverse culture e anzitutto di diverse lingue è pertanto vista come un
fenomeno del tutto naturale e non desta alcuna reazione negativa. Evidentemente tale quadro contrasta
con quanto emerge in Gn 11,1-9: come spiegare tale aporia? Possiamo ritenere che, in questo come in
tanti altri casi, la Bibbia presenta prospettive diverse sulla questione senza prendere una posizione
netta.
Possiamo, infine, sintetizzare in tre punti la teologia del racconto:
1. Il racconto descrive in modo paradigmatico il sogno totalitario ed imperialista di Babilonia.
Questo è il peccato implicato nel racconto. In particolare, esso rispecchia la reazione degli ebrei
dinanzi alle imponenti città di questa civiltà: tecniche edilizie, dimensioni, confusione e presenza di
nazionalità diverse contrastavano con le piccole e poco popolose città di Giuda.
2. L’intervento divino che vanifica il piano dell’umanità e impedisce di finire la costruzione della città
e della torre per poi obbligare le nazioni a disperdersi su tutta la terra afferma chiaramente la
contrarietà divina a questo tipo di “globalizzazione” che implica la cancellazione delle diverse
culture. Dio non vuole che l’umanità si concentri e si rifugi in una sola città per difendersi e tenti di
immortalare il proprio “nome”. Un’impresa ispirata dal timore di essere dispersi e dalla paura di
morire non è un sogno che viene da Dio, come non viene da lui il sogno di ogni impero con pretese
totalitarie.
3. Piuttosto, la diversità delle culture e la dispersione delle nazioni su tutta la superficie della terra è
voluta da Dio e si deve considerare uno sviluppo plausibile della storia umana. La varietà infinita
delle lingue e delle culture affiora come dato positivo (cf. Gn 10): Dio non si oppone all’unione di
popoli, ma all’uniformità forzata di ogni impero totalitario (emblematicamente sono sempre i
regimi dittatoriali a fare la guerra ai dialetti in nome di una qualche omogeneità culturale).

Occorrerebbe, pertanto, pensare all’episodio di Babele in termini di benedizione e non di


maledizione. La Pentecoste rappresenta la risposta del NT a Gn 11,1-9: la comunicazione tra culture
diverse è possibile non attorno a progetti umani ma grazie al dono dall’Alto, l’unità non è frutto della
chiusura ma continua ad implicare la dispersione su tutta la terra.

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LA STORIA PATRIARCALE (GN 11,27-50,26)

La storia che si dipana in questi capitoli è narrata come una storia familiare che si estende lungo
quattro generazioni. Eccezion fatta per le formule di tōledôt, essa contiene pochi “sommari” o
commenti che interrompano il filo narrativo: sono le azioni, riportate in episodi di varia lunghezza, ad
essere eloquenti. Il significato più profondo degli eventi e la loro interrelazione sono posti in risalto
principalmente per mezzo di dichiarazioni divine, poste in luoghi strategici o, più raramente, mediante
sogni rivelatori.
I personaggi che ricevono più attenzione sono Abramo, Giacobbe e Giuseppe: ma le loro storie
conoscono significative differenze:
 il ciclo di Abramo (Gn 12-25) è costituito da circa venti episodi piuttosto brevi (l’unica eccezione,
Gn 24, tratta piuttosto di Isacco e della sua promessa sposa Rebecca);
 il nucleo della storia di Giacobbe (Gn 25-36) è un racconto continuato di vent’anni d’esilio in
Mesopotamia, brevemente preceduto dai fatti che lo provocarono e seguito da alcuni episodi
connessi con il ritorno;
 la storia di Giuseppe (Gn 37-50), pur essendo logicamente una parte della narrazione di Giacobbe,
ha (almeno fino al cap. 45) un carattere novellistico che la contraddistingue fortemente.

Questi tre cicli narrativi, dunque, si differenziano notevolmente quanto a unità e complessità
dell’intreccio (= articolazione narrativa) (cf. paratassi e ipotassi; televisivamente serie, sceneggiato,
giallo). Altra differenza tra queste tre parti consiste, per così dire, nella crescente “secolarizzazione” cui
la narrazione va incontro. Nel ciclo di Abramo, come avremo modo di vedere, sono molteplici gli
interventi divini, al punto che il patriarca risulta quasi incapace di iniziativa autonoma. Il numero degli
interventi divini si riduce notevolmente nel ciclo di Giacobbe dove Dio interviene solamente in alcuni
passaggi strategici: al momento della nascita (25,21-23), prima dell’uscita dalla terra di Canaan (28,13-
15), al momento di decidere il ritorno (31,3) e, in due circostanze, al momento del rientro (32,23-33 e
35,1-15). Infine, nella storia di Giuseppe Dio scompare completamente: è solo il protagonista a
riconoscere, a posteriori, la provvidenza divina all’opera nella sua vicenda (in 45,5 e in 50,20), mentre
la voce di Dio si fa sentire solo in 46,2-4, cioè in un passaggio delicato della storia salvifica, per
confermare a Giacobbe la correttezza della discesa in Egitto del suo clan, discesa che, per sé,
rappresenta un allontanamento dalla terra promessa. Tale “assenza di Dio” costituisce la principale
spiegazione della “modernità” della storia di Giuseppe (anche in termini di resa cinematografica). Ma
esprime anche una sempre minore rilevanza delle figure nella storia salvifica: vale il principio secondo
cui le cose importanti si dicono nei passaggi iniziali.
Un aspetto significativo: alla rilevanza accordata dalla storia patriarcale alle figure di Abramo,
Giacobbe e Giuseppe in termini quantitativi non corrisponde il dato biblico tradizionale (sia vetero che
neotestamentario) che non parla di Abramo, Giacobbe e Giuseppe, bensì di Abramo, Isacco e
Giacobbe: eppure alla figura di Isacco non è riservato in Gn alcun ciclo narrativo, ma solo il cap.26
(scene precedenti rientrano nel ciclo di Abramo). Perché tale apparente incongruenza nella tradizione?
Da Abramo a Giacobbe la benedizione e le promesse divine vengono trasmesse a livello individuale:
come avremo modo di vedere, molta attenzione viene dedicata in queste narrazioni all’individuazione
del destinatario della benedizione. Dopo Giacobbe si ha il passaggio dall’individuo al popolo, o,
meglio, al primo nucleo del popolo (i figli di Giacobbe emergono come i capostipiti delle 12 tribù di
Israele). Giuseppe, pertanto, non può più essere menzionato come patriarca, dal momento che nella
storia della salvezza viene ad assumere lo stesso ruolo di ciascuno dei suoi fratelli. Il passaggio della

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promessa al popolo spiega anche (qui e nei successivi libri del Pentateuco) l’attenzione ai dati
genealogici che evidenziano il formarsi di esso e i suoi incrementi.
Viste anche solo le differenze sopra evidenziate tra i diversi blocchi narrativi della storia
patriarcale (insieme ad altro materiale che avremo modo di rilevare), risulta verosimile ipotizzare una
loro origine autonoma. Le storie dei singoli patriarchi, come pure le tradizioni dell’esodo e della
permanenza nel deserto, costituivano originariamente tradizioni separate in cui il popolo o, più
probabilmente, parti di esso radicava la sua identità. Successivamente la volontà di mantenere tutte
queste tradizioni, a vario titolo costitutive dell’identità e della fede del popolo, portò ad organizzarle in
una coerente storia della salvezza, attraverso un lungo processo redazionale, che già abbiamo
sommariamente tentato di ipotizzare. L’insieme di queste narrazioni consente di delineare i requisiti
teologici e genealogici richiesti per appartenere al popolo ebraico. In seguito al processo di formazione
del Pentateuco, il materiale della storia patriarcale (e non solo) risulta organizzato intorno alla struttura
delle tōledôt e intorno al tema delle promesse e del loro adempimento.
Per quanto riguarda le storie patriarcali, ci limiteremo soltanto ad una introduzione generale al
ciclo di Abramo, nel tentativo di fornire alcune chiavi di lettura per la comprensione di queste
narrazioni.

1. Il ciclo di Abramo (11,27-25,11): sguardo d’insieme

Il ciclo di Abramo è costituito, sostanzialmente, da una serie di brevi racconti aventi in se stessi
una chiara unità, che però differiscono tra loro quanto a stile, contenuto e teologia. Il percorso che il
ciclo prospetta risulta essere piuttosto accidentato, e la trama non è per nulla evidente. Pur tenendo
presente la complessità delle questioni diacroniche connesse al nostro ciclo, ci soffermiamo ora sulla
forma finale del testo, quella giunta fino a noi.
Per quanto concerne il quadro geografico delle vicende, di tutti i paesi in cui Abramo ha
soggiornato (Mesopotamia, Egitto, paese dei Filistei, terra di Canaan) il racconto privilegia senza
dubbio la terra di Canaan: ben sei capitoli su quattordici sono infatti ambientati in Ebron.
La cronologia del ciclo di Abramo indica su quale parte della vita del patriarca si concentra
l’attenzione del narratore: al riguardo è utile rammentare la distinzione tra “tempo della storia” e
“tempo del racconto”. È la tradizione P a fornirci i dati più importanti riguardo alla cronologia dei
racconti patriarcali: in base a questa cronologia, Abramo acquista la sua rilevanza non al momento
della sua nascita (brevemente menzionata in Gn 11,26) ma quando lascia Carran per andare a stabilirsi
nella terra di Canaan; secondo Gn 12,5 egli ha 75 anni quando intraprende questo lungo viaggio; il
ciclo delle sue vicende termina con la sua morte, che avviene quando il patriarca ha 175 anni (Gn 25,7).
Il “tempo del racconto” si estende dunque per cento anni (fra i suoi 75 e i suoi 175 anni). In questi
cento anni, il racconto attribuisce un’importanza maggiore ai 25 anni che separano l’arrivo nella terra
di Canaan dalla nascita di Isacco (Gn 21,1-7), quando Abramo ha cento anni: dei quattordici capitoli da
cui è composto il ciclo di Abramo, ben dieci sono consacrati a questo periodo (cioè più dei 2/3 della
narrazione). La narrazione, dunque, si concentra su quanto accade ad Abramo tra i suoi 75 e i suoi 100
anni, mentre vive nella terra di Canaan. Tra questi episodi, particolare attenzione viene riservata per
quegli episodi avvenuti in terra di Canaan che hanno a che fare con l’attesa discendenza del patriarca.
Per quanto concerne la trama del ciclo di Abramo, abbiamo già avuto modo di rilevare che si
tratta di una trama episodica, non unificata: il legame tra i diversi episodi non è particolarmente
evidente, la sequenza non sempre del tutto logica. Non pare necessaria l’attenzione a tutti i particolari
della narrazione. Il tratto unificante è fornito dal personaggio Abramo, presente in tutta la narrazione: al

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cap. 19 lo è solo in qualità di testimone della fine di Sodoma (vv. 27-28), ma l’episodio era stato
preparato anche dalla sua intercessione nel capitolo precedente.
Soprattutto, gran parte del racconto è unificata intorno a due “programmi narrativi” che si
trovano all’inizio (Gn 11,27-31 e 12,1-3) e che presentano i due temi principali della narrazione: la
discendenza e la terra.
[Cos’è un programma narrativo? È la missione che l’eroe riceve da compiere all’inizio della
narrazione e che il resto della storia vede realizzarsi o meno, costituendo il centro di
interesse del narratore e del lettore. Cf. il “Ripara la mia casa, che va in rovina” in una
qualsiasi biografia di Francesco o il sogno infantile di don Bosco]
Un primo problema da affrontare, al riguardo, è dato dalla sterilità di Sara (11,30), che viene
risolto in Gn 21; in secondo luogo viene il programma narrativo di 12,1-3, in base al quale Abramo
riceve l’ordine di partire per una terra che YHWH gli indicherà, ordine al quale è legata una promessa.
Una serie di indizi ci consentono di rilevare che tra la questione della terra e quella della discendenza è
questa seconda ad avere maggiore rilevanza: infatti, Abramo arriva molto rapidamente nella terra di
Canaan (Gn 12,5), che si rivela subito quella indicata dal Signore dal momento che Dio prima gliela
promette (in Gn 12,7) e poi gliela fa vedere nel suo insieme (Gn 13,14, dopo la separazione da Lot), ma
sorge un altro, rilevante problema: la terra è già abitata dalle popolazioni cananee (Gn 12,6b), il suo
possesso non può essere immediato per Abramo.
Ecco perché Gn 12,7 introduce enfaticamente il tema della discendenza che riceverà la terra
(non sarà dunque Abramo a riceverla), un tema che verrà poi ribadito in diversi passaggi della storia di
Abramo. Il problema diventa allora quello di identificare questa discendenza di Abramo (dal momento
che Sara è sterile): questo motivo percorre l’intero ciclo. Diversi possibili candidati compaiono, ma
tutti sono scartati tranne Isacco, figlio di Sara. Il primo candidato è Lot, nipote del patriarca (Gn
11,27.31; 12,4-5), da cui però si separa in Gn 13. Altro candidato è il misterioso domestico menzionato
in Gn 15,2-3, Eliezer di Damasco: ma è YHWH stesso a scartarlo (Gn 15,1-6). In seguito a un
suggerimento di Sara, Abramo ottiene un figlio dalla serva Agar, cui porrà nome Ismaele (Gn 16,1-6),
ma anch’egli viene messo fuori gioco (Gn 16,12; 17,18-20; 21,8-12). Erede della terra (o, perlomeno,
della sua promessa) è Isacco, la cui nascita è riportata in Gn 21,1-7. Ma il ciclo di Abramo non si
conclude con la nascita dell’erede.
La prova cui viene sottoposto Abramo in Gn 22 mette radicalmente in questione le promesse
fatte fino a quel punto: non a caso al termine dell’episodio esse vengono confermate (Gn 22,15-18). Gli
ultimi versetti di Gn 22 preparano il matrimonio di Isacco.
Gn 23 racconta la morte e la sepoltura di Sara: il che per un verso segnala il venir meno di una
generazione e la necessità di pensare a quella successiva; per altro verso mostra come Abramo cominci
a prendere possesso della terra, dal momento che possedere una tomba su una terra significava
affermare dei diritti a risiedere in essa.
In Gn 24 il matrimonio di Isacco risolve il problema della seconda generazione: prima di morire
Abramo si assicura che la sposa del figlio faccia parte del suo medesimo clan, escludendo che possa
essere una cananea (nessun cananeo deve poter partecipare dell’eredità promessa da Dio). Questo dato
è ben ribadito dalle disposizioni testamentarie del patriarca (Gn 25,1-6): Isacco è l’erede unico, per gli
altri figli ci sono solo doni. Così Abramo può morire in pace (Gn 25,7-11). I capitoli successivi alla
nascita di Isacco esplicitano in tutta chiarezza a quale discendenza apparterrà la terra in cui Abramo si è
venuto a stabilire: emerge dalla narrazione una forte attenzione al futuro della discendenza.
La trama del ciclo di Abramo è “aperta”, nel senso che una serie di elementi non la rendono
conclusa in se stessa, ma aperta ad ulteriori sviluppi. Infatti, se è vero che il problema posto dalla
sterilità di Sara trova la sua soluzione in Gn 21, il contenuto di Gn 12,1-3 esprime una promessa che
difficilmente si sarebbe potuta realizzare durante la vita di Abramo (diventare una grande nazione, il
dono della terra alla discendenza): quelle promesse implicano un futuro e, quindi, un proseguimento
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della narrazione. Lo stesso vale per altre affermazioni (cfr Gn 17,6 e 22,17). Addirittura alcuni passi
(Gn 13,15b; 17,7.19) si pongono in una prospettiva definitiva, di eternità. Tranne la promessa del
figlio, tutte le altre promesse fanno parte di un programma narrativo che rimanda il lettore a ulteriori
sviluppi del racconto.
Con l’andare della narrazione la figura di Abramo viene ad assumere rilevanza paradigmatica.
Attraverso le sue azioni, che per lo più non sono imprese che scaturiscono dalla sua iniziativa, emerge
la figura del patriarca (raramente i testi biblici si soffermano sulla psicologia dei personaggi, certo non
nel Pentateuco). A differenza di Giacobbe, Abramo risulta piuttosto passivo: è docile agli avvenimenti
(obbediente), non li governa secondo la sua volontà. Questo è spiegato anche dalla sua età, egli appare
piuttosto come un anziano. Si tratta, in questo caso, di un dato culturale: nel mondo antico un anziano è
venerato e onorato, difficilmente può essere messo in discussione. Per questo Abramo è stato scelto
come capostipite del popolo ebraico, giacché l’attivismo e la giovane età di Giacobbe avrebbero potuto
incontrare resistenze nell’essere accolte.
La positività del paradigma Abramo si traduce soprattutto nel suo atteggiamento dinanzi alla
legge, che egli osserva ante litteram, prima della sua proclamazione da parte di Mosè: in generale
emerge l’obbedienza del patriarca alle indicazioni divine.

Alcuni testi affermano la fedeltà di Abramo:

1) Il primo di essi si trova in Gn 18,17-19: consiste in parole divine e sta tra l’incontro di Mamre e la
distruzione di Sodoma. Con il suo intervento YHWH fa del patriarca un esempio da seguire e un
pedagogo per le generazioni future. Nello stesso tempo l’obbedienza di Abramo risulta condizione
previa per l’adempimento delle promesse. In questo senso Abramo è presentato come precursore di
Mosè: ben prima della teofania del Sinai, Abramo è chiamato a insegnare la legge ai suoi discendenti.

2) Altro testo è quello di Gn 22,15-18 (a conclusione del sacrificio di Isacco). Come nel testo
precedente, l’oracolo divino crea un legame tra l’obbedienza alla legge e la promessa: ma in questo
caso, l’obbedienza di Abramo è un dato già acquisito. L’obbedienza di Abramo diventa garanzia per il
futuro: la docilità del patriarca alla voce di Dio è il solido fondamento su cui è costruito l’avvenire di
Israele.

3) Un altro testo si trova al di fuori del ciclo di Abramo, in Gn 26,2-5, un oracolo divino riservato ad
Isacco. Se il testo ribadisce la connessione tra obbedienza di Abramo e la realizzazione delle promesse,
la novità è data dal fatto che tale realizzazione si compie a vantaggio della discendenza: Isacco è il
primo a beneficiare dei meriti di Abramo e ciò diventa una garanzia per i successivi discendenti del
patriarca. I futuri discendenti di Abramo possono contare, come Isacco, sulla fedeltà di Dio alle sue
promesse a motivo dell’obbedienza dell’antecessore. L’eventuale futura infedeltà delle successive
generazioni non potrà mettere in pericolo ciò che è già stato assicurato dall’atteggiamento positivo del
capostipite di Israele. Si noti che Gn 22,18b e 26,5a utilizzano la medesima espressione per riferirsi
all’obbedienza di Abramo nel momento della prova. Tutti e tre i testi sono tardivi, postesilici, non
necessari (almeno in alcune loro parti significative) al contesto in cui sono inseriti.

Altri testi descrivono la fedeltà di Abramo:

Si tratta di alcune riletture o creazioni postesiliche che pongono in scena l’obbedienza del patriarca.

+ Gn 18,6 contiene un leggero ritocco redazionale. Quando Abramo chiede a Sara di preparare focacce
utilizzando tre staia di “fior di farina”. Il testo ebraico contiene due parole, non coordinate ma
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giustapposte, per indicare la farina: qemah e sōlet. La seconda designa la farina rituale che, secondo le
indicazioni di Lv e Num, faceva parte delle offerte vegetali nel culto. Un redattore ha dunque voluto
specificare che Abramo rispettò le prescrizioni rituali della legge nella preparazione del pasto sacro (si
trattava, infatti, secondo il redattore, di un incontro con YHWH).

+ Il lungo racconto del matrimonio di Isacco (cap. 24) mostra la volontà di Abramo di rispettare le
prescrizioni che interdicevano i matrimoni con gli stranieri, specie con i Cananei che occupavano la
terra (cfr Esd 10,1-44; Ne 13,23-27).

+ In 14,18-20 si narra del pagamento della decima da parte di Abramo a Melchisedek, re di Salem e
sacerdote del Dio Altissimo: in Salem si tende oggi a vedere un riferimento a Gerusalemme e nel
misterioso personaggio un rappresentante antesignano del sacerdozio del tempio. Si tratta di
un’aggiunta redazionale che interrompe la narrazione della campagna militare e della spartizione del
bottino (i vv. 17 e 21 sono successivi) e pone qualche elemento di incoerenza (tra il v. 20 e i vv. 22-23).
Attraverso il comportamento paradigmatico del patriarca, il redattore ne invita la discendenza a
sottomettersi al sacerdozio di Gerusalemme e a pagargli la decima, per aver in cambio la stessa
benedizione che Abramo aveva ottenuta. Si può cogliere in questo intervento redazionale l’eco delle
polemiche postesiliche tra il “popolo del paese” (che si rifaceva ad Abramo) e il sacerdozio che era
tornato da Babilonia.

Due testi segnalano un contrasto tra l’atteggiamento di Abramo e quello del popolo nel deserto:

+ In Gn 15,6 si segnala la fede di Abramo: si ha qui l’unica ricorrenza dell’hiphil della radice ‘mn (=
credere) nel libro della Genesi. Il Pentateuco, riguardo all’atteggiamento di fede, divide la storia di
Israele tra il periodo precedente e quello successivo all’arrivo del popolo nel deserto. Nel primo
periodo si ha l’epoca aurea della fede (cfr Es 4,31 e 14,31): in tale periodo si viene a collocare la fede
di Abramo. Nel secondo l’incredulità conduce alla condanna della generazione che è uscita dall’Egitto.
Elementi di vocabolario e di contenuto inducono a ritenere tardivo il cap. 15 e, con esso, l’immagine
dell’Abramo credente.

+ In Gn 22,1-14.19 Abramo supera la prova cui Dio lo sottopone, cosa che non accadrà ad Israele nel
deserto. Sono tre i motivi, soprattutto di ordine teologico, che inducono a collocare il cap. 22 nel
periodo postesilico. 1° Il motivo della prova (Gn 22,1) non compare prima del Dt; la prova di un
singolo individuo, poi, si trova unicamente in testi recenti (cfr 2 Cr 32,31 a proposito di Ezechia). 2° Il
tema del timor di Dio come obbedienza in un momento in cui sorge una prova incomprensibile e
umanamente ingiustificabile trova un parallelo solo nel prologo del libro di Gb (dove però il tentatore
non è Dio, ma Satana per quanto ancora ben inserito nella corte celeste): i due testi dovrebbero risalire
più o meno alla medesima epoca. 3° I legami letterari tra il cap. 22 e Gn 12,1ss inducono a collocare i
due testi nel medesimo periodo, tardivo. Come Abramo in questa circostanza, anche Israele sarà messo
alla prova da Dio nel corso della sua storia (cfr Es 15,25; Dt 8, 2; Gdc 3,1.4) proprio a proposito
dell’osservanza della legge e spesso fallirà (cfr 2Re 17,7-23). Il cap. 22, invece, intende mostrare che
all’inizio della storia di Israele Abramo ha anticipato le prove della sua discendenza e il suo successo,
riconosciuto e sanzionato nell’episodio dall’angelo di YHWH, costituisce una garanzia per il futuro di
tutto il popolo. Il ciclo di Abramo contiene dunque il tema della fede e quello della prova, assenti nel
resto della Gn (dunque si può presumere che vi siano stati aggiunti), ma presenti nei racconti sulla
permanenza del popolo nel deserto (quello della prova è presente pure in Gdc).

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+ Infine, il testo iniziale di Gn 12,1-4 presenta un Abramo docile e obbediente, all’ordine divino segue
subito una formula di esecuzione. Il testo è tardivo e mira a mostrare che l’esordio dell’esperienza di
Abramo (e, quindi, dell’Israele di cui è capostipite) è un atto di obbedienza. A questa obbedienza è
legata la promessa che si attuerà nella terra che YHWH indicherà. Nella forma finale del testo (in cui
sono confluiti materiali di diversa provenienza) non solo Abramo appare come paradigma di
obbedienza alla Legge, ma anche come garanzia per il futuro del suo popolo.

Proviamo, in conclusione, a spendere qualche parola su quale fu il contesto storico che portò a
questa lettura della figura di Abramo. In definitiva abbiamo a che fare con un Abramo originario della
Mesopotamia, che, in base all’ingiunzione divina, lascia tutto per andarsi a stabilire nella terra di
Canaan (Gn 12,1-3). Là vive secondo i precetti della Torah: rispetta le prescrizioni rituali e quelle
concernenti i matrimoni misti e paga la decima al re-sacerdote di Salem (=Gerusalemme?). Obbedisce
alla voce divina anche quando gli ingiunge un ordine poco comprensibile, per non dire assurdo. Questa
immagine del patriarca rappresenta uno sviluppo di quanto già abbozzato in testi P, nei quali pure
Abramo viene dalla Mesopotamia (Gn 11,31) e adempie fedelmente le istruzioni sulla circoncisione
(Gn 17,23-27).
Ora, questo ritratto di Abramo sembra esprimere le caratteristiche idealizzate di quanti fanno
parte della gôlāh (termine collettivo, = esuli) cioè del gruppo che è tornato dall’esilio a Babilonia e che,
col tempo, si è imposto a Gerusalemme: ad esempio, le leggi che Abramo osserva sono alcune di quelle
care a questo gruppo. È probabile che in un primo momento questo gruppo si rifacesse alle tradizioni
dell’esodo come proprio “mito fondatore” per giustificare le sue pretese. In seguito all’opposizione del
“popolo del paese”, la gôlāh ha fatto di Abramo il primo “pellegrino” venuto dalla Mesopotamia
seguendo il medesimo itinerario percorso poi dagli esiliati. In tal modo la gôlāh toglieva ai suoi
oppositori uno dei suoi argomenti: in precedenza, infatti, il nostro patriarca era considerato
l’antecessore del “popolo del paese”.

Si vedano al riguardo alcuni testi profetici:

+ Ez 33,24 (23-29) testimonia una polemica fra gli esiliati e quelli rimasti nel paese, che a quanto pare
fondavano le loro prerogative facendo ricorso alla figura di Abramo. Il profeta condanna tali pretese,
affermando che il diritto alla terra si fonda solo sull’osservanza della legge e non su un determinato
radicamento genealogico. Mentre gli uni si rifanno a una promessa condizionata (dall’osservanza della
legge), gli altri a una incondizionata (basata sulla discendenza di sangue).

+ Is 51,1-2 pare testimoniare le medesime convinzioni, al di fuori, però, di un contesto polemico: il


profeta si rivolge agli abitanti di Gerusalemme per rianimare le loro speranze in un futuro migliore e
utilizza le figure di Abramo e Sara che dovevano essere popolari in quel contesto.

+ Is 63,16 chiarisce meglio i termini della successiva contrapposizione a Gerusalemme tra il gruppo
della gôlāh e il “popolo del paese”. L’oracolo nega che Abramo possa essere padre d’Israele, dal
momento che solo a YHWH si addice tale titolo: l’inizio della storia di Israele andrebbe cercata negli
avvenimenti dell’esodo, non nelle storie patriarcali (cfr i vv. 11-14 con la loro esaltazione del tempo di
Mosè). In base alle altre testimonianze è legittimo pensare che la battuta polemica sia rivolta contro gli
indigeni. Studi recenti vedono nel “popolo del paese” l’ambiente in cui si sarebbero sviluppate le
tradizioni patriarcali, in particolare quelle di Abramo (così legato al contesto meridionale della terra di
Canaan): in base alla sua figura i grandi proprietari terrieri avrebbero giustificato le prerogative di
questa parte della popolazione che, secondo Esd-Ne, si oppose al ritorno degli esiliati e alla loro
installazione nel paese.
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Il testo di Gn 12-25 è testimone di un momento successivo alla polemica, in cui la figura di
Abramo non è più posta in discussione. Anzi, egli è ormai divenuto l’antenato di quanti sono venuti
dalla Mesopotamia nel paese, ha compiuto un esodo prima dell’esodo (cfr Gn 15,7). In qualità di fedele
osservante della legge (cosa che Ezechiele rimproverava agli “abitanti delle rovine” di non essere), egli
diviene un modello da imitare. La figura di Abramo è stata dunque reinterpretata in funzione degli
interessi della gôlāh: il patriarca è stato così sottratto agli abitanti del paese e rivoltato contro di loro
(infatti gli furono fatte assumere caratteristiche che mancavano loro). Il che può indicare o che fu la
gôlāh ad avere il sopravvento nel postesilio o che si giunse a un compromesso fra le due fazioni. La
figura di Abramo presente in Gn (frutto delle redazioni sacerdotali e dell’ambiente del secondo tempio
sui materiali più antichi in base a precisi imperativi teologici e ideologici) corrisponde sostanzialmente
a quella presente nel brano postesilico di Ne 9,7-8 che insiste particolarmente sulla chiamata del
patriarca e sulla sua fedeltà. Tale fedeltà/lealtà è la medesima messa in rilievo dai testi tardivi del ciclo
di Abramo che abbiamo avuto modo di evidenziare in precedenza. Dunque in età persiana (cioè
all’epoca cui risale Ne 9) la figura di Abramo risulta integrata nella storia di Israele, nel modo in cui è
nota dal testo di Gn.
Un rapidissimo cenno, infine, su un paio di risvolti che stanno tra il teologico e il culturale. Gn
12 presenta l’esperienza di Abramo secondo la modalità del viaggio, uno dei topoi più comuni nella
letteratura universale. Due tratti di questo viaggio rivelano caratteristiche tipiche della spiritualità
biblica rispetto ad altri viaggi della letteratura classica. a) Mentre il viaggio di Ulisse consta di un
ritorno a casa, quello di Abramo consiste nel lasciare casa per una nuova terra. Non è un caso che nella
Bibbia la concezione del tempo non sia ciclica (la vita del mondo e dell’uomo non è concepita come un
grande ritorno) ma lineare (da un punto di partenza a un approdo: sia a livello individuale che
collettivo/cosmico). b) Il viaggio di Abramo parte carico di incertezze riguardo alla meta, incertezze
che si chiariscono molto lentamente, strada facendo e non del tutto: Ulisse ed Enea, invece, hanno
chiaro fin dall’inizio il traguardo del loro itinerario (il ritorno a casa e la fondazione di una nuova
Troia).

2. Il sacrificio di Abramo (Gn 22,1-19)

Ci soffermiamo sul testo forse più celebre del ciclo di Abramo (certo tra i più citati e
rappresentati), evidentemente senza la pretesa di esaurire tutto ciò che si potrebbe dire (la bibliografia
su questo episodio è davvero sterminata). Il nostro obiettivo è di soffermarci a considerare da vicino la
dimensione narrativa di un racconto biblico: non conta solo il messaggio, non conta solo la sintesi,
laddove un testo è unitario offre al lettore un percorso significativo da ripetere ogni volta.

2.1. Contenuto

L’intento è di ripercorrere anche noi l’itinerario che la narrazione fa compiere al patriarca (è


quanto dobbiamo cercare di fare dinanzi a ogni narrazione biblica: nell’AT è l’azione il criterio
decisivo per cogliere il messaggio). Si tratta di un’analisi di tipo sincronico-narrativo che si focalizza
sui dettagli per cogliere il modo in cui la storia viene narrata al lettore: i particolari sono indispensabili
per cogliere la ricchezza di un brano, occorre dunque evitare la logica del riassunto. La narrazione di
questo episodio comporta un’introduzione (v.1a), un epilogo (la scena del ritorno al v.19) e sei
scene/tappe:

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1) l’ordine di Dio (vv. 1b-2);
2) i preparativi della partenza (v.3);
3) la separazione dai servi alla vista della montagna (vv. 4-6);
4) la conversazione durante la salita (vv. 7-8);
5) il sacrificio fino all’interruzione da parte dell’angelo (vv. 9-10);
6) la soluzione della trama (vv. 11-14.15-18).

I criteri della divisione in scene sono le indicazioni di tempo (caratterizzate da diverse ellissi
narrative = assenza o omissione di narrazione, per irrilevanza di contenuto o per strategia narrativa
volta a creare la tensione drammatica), di luogo (il luogo del sacrificio assume rilevanza e scandisce il
ritmo della narrazione) e il cambio dei personaggi in azione.
In particolare, il tema del luogo (che ritorna come un ritornello nel racconto) è oggetto, nella
narrazione, di tre interpretazioni divergenti: per Dio (e per il lettore) sarà il luogo della prova, per
Abramo sarà il luogo del sacrificio, per Isacco e per i servi un semplice luogo di pellegrinaggio: nelle
diverse scene la differenza di prospettive appare con intensità.
L’introduzione rappresenta il titolo del racconto: il fatto che Dio ne sia il soggetto indica, fin
dall’inizio, il regista occulto della vicenda, mentre Abramo ne è presentato da subito come il
protagonista umano. Grazie a tale introduzione, il lettore beneficia fin dall’inizio di una posizione
privilegiata, perché (a differenza di tutti i personaggi umani della vicenda) conosce fin dall’inizio
l’intenzione di Dio: in tal modo è invitato a cogliere non cosa stia avvenendo ma come la prova stia
avvenendo, in cosa consista e se il patriarca riuscirà a superarla (un fenomeno analogo si registra
nell’introduzione narrativa al libro di Gb, capp. 1-2). La suspence del racconto è creata
dall’impossibilità del lettore di comunicare ai personaggi umani quanto conosce, come pure da analoga
impossibilità da parte di Dio nei confronti di Abramo circa la sua intenzione e di Abramo nei confronti
di Isacco e dei servi circa lo scopo del viaggio. Tale posizione privilegiata consente al lettore di seguire
lo sviluppo di tutta la prova, cogliendo passo dopo passo il dramma del patriarca.
Nello stile del brano, i silenzi, come pure gli oggetti e i gesti silenziosi, tendono a giocare un
ruolo più importante di molte parole, che, per necessità, devono restare vaghe: ciò che i personaggi
vivono nel corso del racconto può essere solo arguito dall’esterno, nulla si dice di cosa provino dentro
di loro. La prova di Abramo si gioca anche, in modo consistente, nei silenzi divini in cui egli è
coinvolto e nel terribile segreto che egli deve custodire fino alla fine. Percorriamo le diverse scene per
cogliere la progressione narrativa, tenendo particolarmente presente la sequenza verbale prendere-
andare-sacrificare e i diversi elenchi di cose. (immaginarsi di fare un lavoro di inquadrature e di
montaggio)

Prima scena: l’ordine di Dio (1b-2)


Il primo dialogo sembra porre su un piano di familiarità i rapporti tra Dio e Abramo.
L’ordine di Dio sembra una lama che entra nel cuore di Abramo, lasciando aperti in lui e nel lettore non
pochi interrogativi. La prima enumerazione del brano mette a nudo in modo impietoso il dramma del
padre: tuo figlio, il tuo unico, che ami, Isacco (cf. la tradizione ebraica). In modo graduale ed
estremamente rapido si sale fino al nome che rende impossibile qualsiasi esitazione: se il nome di
Isacco era stato, in precedenza, associato al riso (cfr, ad esempio, 17,17), qui diventa motivo di un
dramma. Fin dall’inizio Isacco risulta costituire l’oggetto dell’azione. La narrazione non dice nulla
della reazione di Abramo, emblematico diventa il suo silenzio, al lettore è lasciato di intuire il dramma
di un padre chiamato a sacrificare “il tuo unico figlio che ami” [inserire racconto rabbinico]. Il che
mette in discussione la validità di tutte le promesse che Dio gli aveva riservato. Anche la sequenza
verbale degli imperativi divini è in crescendo drammatico: solo l’ultimo (offrilo in sacrificio) chiarisce
il senso dei due precedenti. Rispetto a quanto ordinato in 12,1 (cf. coincidenza verbale lek-lekah)
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sembra profilarsi qui un nuovo orizzonte, anche geografico: l’obbedienza vissuta allora viene
nuovamente messa in gioco.

Seconda scena: i preparativi della partenza (v. 3)


La scena successiva colloca la risposta di Abramo sul piano della medesima obbedienza
da lui già vissuta al cap. 12, in modo altrettanto sobrio e immediato. Nel corso dei preparativi per la
partenza, Abramo rimanda all’ultimo il gesto che più gli ricorda la sua terribile missione, cioè la
preparazione della legna per il sacrificio. Infatti asino, servi e lo stesso Isacco (introdotto quasi dopo
un’esitazione) potrebbero essere coinvolti in un qualsiasi tipo di viaggio: non così per la legna del
sacrificio, che indica che Abramo sta obbedendo all’ordine divino. Da questo punto in poi, legna e
Isacco sono strettamente correlati per tutto il resto della narrazione (vv. 6 e 9). Anche questa scena,
come la precedente, si chiude con un riferimento al luogo e al suo tragico significato. Dei tre verbi
dell’imperativo divino solo i primi due sono per ora eseguiti, ma il terzo incombe minaccioso in tanti
particolari della scena.

Terza scena: la separazione dai servi alla vista della montagna (vv. 4-6)
La durata del cammino (tre giorni, come sapremo all’inizio del v. successivo) esprime
sobriamente (con un’ellissi) il prolungarsi della sofferenza di Abramo. La tensione sale di un ulteriore
scalino. Il luogo è in vista [Abramo lo vede di lontano! Cf. Gn 18], la prova si avvicina, si presume che
Abramo debba iniziare a parlare. Innanzitutto il narratore ci fa vedere il luogo insieme ad Abramo,
mediante un tipico cambio di prospettiva (di “inquadratura”) introdotto dalla particella “ecco”. Tale
visione è rilevante per il patriarca ma nulla traspare dal racconto, l’integrazione di una nuova ellissi è
lasciata al lettore. Le parole di Abramo, poi, sono sufficientemente vaghe perché ciascuno (il lettore,
Abramo, i servi e Isacco) possa loro dare un significato accettabile e differente. Il proseguimento della
storia consentirà di rilevare il loro inconsapevole valore prolettico. Mentre il momento del sacrificio si
avvicina, due elementi precedenti (asino e servi) vengono lasciati indietro, mentre due nuovi oggetti
(fuoco e coltello, direttamente legati al sacrificio) vengono introdotti, indizi dell’imminenza del
momento cruciale. Manca ancora (sia per Isacco che per i servi) la consapevolezza della vittima che ora
è caricata con la legna del sacrificio. Con tutti questi particolari il narratore insinua l’imminenza del
sacrificio: il fatto che il coltello sia l’ultimo oggetto menzionato enfatizza la sua forza evocatrice.
Anche in questa scena dei tre verbi dell’imperativo divino solo i primi due vengono eseguiti, mentre il
terzo incombe minaccioso in diversi particolari.

Quarta scena: la conversazione durante la salita (vv. 7-8)


La conversazione tra padre e figlio mette a confronto la prospettiva ignara di Isacco
(perplesso per l’assenza della vittima) e quella di Abramo (che sa ma non può parlare). In precedenza
Abramo aveva visto il luogo, ora la particella “ecco” introduce la prospettiva del ragazzo che vede
legna e fuoco ma non la vittima. La sua maggior vicinanza all’individuazione della verità fa salire
ulteriormente la tensione della vicenda. Più in particolare, in questo quadro i differenti livelli di
consapevolezza risaltano in tutta la loro drammaticità. Gli attori prendono coscienza della loro
ignoranza: anche la risposta di Abramo non è solo reticenza, ma dice quanto ignori del piano cui egli,
comunque, ha aderito. Lo stesso lettore non può ignorare come gli sfuggano i termini precisi della
prova cui Abramo è sottoposto e che egli sta seguendo. L’ignoranza di Isacco obbliga Abramo e il
lettore a prendere consapevolezza della loro: nello stesso tempo nessuno è nella condizione di
comunicare ciò che sa a chi lo ignora. La risposta non è solo evasiva, ma risulta prolettica (come già la
precedente al v. 5): contiene una verità che egli non è in grado di immaginare. La stessa formulazione
della risposta non esclude del tutto la possibilità che “il figlio mio” debba essere visto come

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apposizione dell’agnello dell’olocausto ed esprima così la vera prospettiva cui il patriarca pensa di
andare incontro. Dopo queste parole padre e figlio non parleranno più nel corso dell’episodio.

Quinta scena: il sacrificio fino all’interruzione da parte dell’angelo (vv. 9-10)


La scena del sacrificio porta al culmine la tensione narrativa. La narrazione rallenta il
suo ritmo e aumenta l’attenzione ai particolari (“tempo della storia” e “tempo della narrazione” si
allineano sempre più): si veda la sequenza costruzione dell’altare – sistemazione della legna – legare
Isacco [inserire riferimento al midrash dell’aqedah] – sistemarlo sull’altare. Il rallentamento è ancor
più visibile al v. 10: Abramo stende la mano, prende il coltello (riappare l’oggetto fatidico). Sembra
che il narratore voglia rimandare all’inverosimile il gesto definitivo, il che è aiutato dal passaggio
improvviso dalla sequenza narrativa di verbi coniugati (passato remoto) a un infinito, che sospende
l’azione nel suo momento culminante. In questo passaggio decisivo solo i gesti contano e fanno
intravedere la determinazione di un Abramo ormai muto. Nessuna reazione, né di Abramo né di Isacco,
viene menzionata. Ma un fatto lascia forse presagire qualcosa di diverso: per la prima volta non si parla
di sacrificio, di olocausto, ma si usa il verbo “immolare”.

Sesta scena: la soluzione della trama (vv. 11-14.15-18)

In quest’ultimo quadro parecchi elementi meritano attenzione. In questi versetti, pur restando il silenzio
di Abramo, dopo un lungo silenzio diventa loquace il cielo, attraverso l’angelo del Signore. Il suo
doppio intervento contiene tutto ciò che il lettore vuol sapere riguardo ad Abramo. Il primo segmento
delle sue parole (vv. 11-12) rappresenta il capovolgimento inatteso della narrazione, il “colpo di scena”
che fa prendere alla vicenda un corso diverso e chiarisce i termini della prova. Al v. 12 un termine
(timorato) sintetizza i sentimenti del patriarca: questo versetto riprende, in sintesi, contenuti del v. 2.
Sono i due soli versetti in cui si alluda ai sentimenti (amore e timore) del padre. Queste parole
dell’angelo servono anche, nell’economia della narrazione, ad esplicitare a posteriori quanto Abramo
ha vissuto in modo silenzioso: in lui la riverenza verso Dio ha messo a tacere l’attaccamento per il
figlio. In tal modo la sua fede è stata messa alla prova. I vv. 13-14 rappresentano un sensibile
allentamento della tensione precedentemente accumulata. Il v. 13 contiene un cambiamento di
prospettiva: con gli occhi di Abramo (e la presenza della consueta particella “ecco”) scopriamo la
presenza dell’ariete impigliato, la vittima per il sacrificio. Ancora una volta non ci è detta la reazione di
Abramo e di Isacco. Nello stesso versetto ritorna, realizzata, la stessa lista di verbi (prendere, andare,
offrire in sacrificio) presente nell’ordine divino al v. 2. Il sintagma “al posto di” al termine del versetto
è la parola che condensa il capovolgimento di situazione che ha posto fine all’angoscia di padre e
figlio. Al v. 14 il luogo, che ha rappresentato uno dei fili rossi del racconto, riceve un nome imperituro,
segnato dalla provvidenza divina. Nel secondo segmento del discorso divino (vv. 15-18) la voce celeste
loda Abramo e gli apre un nuovo futuro, quello che lui aveva accettato di sacrificare: tale lode viene
dopo un racconto privo di commenti e ridotto all’essenziale e per questo risalta in tutta la sua ampiezza.
Tali parole corrispondono anche a quanto Abramo sperimenta: gli viene restituito il figlio della
promessa con tutto ciò che significa per il suo futuro. Il discorso dell’angelo del Signore trasforma i
sentimenti nascosti di Abramo in una serie di parole che sigillano l’avvenire in modo definitivo. La
storia del popolo d’Israele resta così legata all’obbedienza del patriarca capostipite.
Nulla rompe, nell’epilogo, il silenzio del ritorno. Il tipico stile narrativo ebraico riconduce i personaggi
al loro luogo di partenza. Il verbo “tornare” riprende la prolessi di Abramo al v. 5b, come l’espressione
“mettersi in viaggio insieme” richiama i vv. 6b e 8b: di per sé nulla viene più detto di Isacco, si può
fondatamente presumere che non si sia separato dal padre. Il finale regala al lettore una nuova ellissi,
una nuova lacuna narrativa da colmare: dopo quanto accaduto, difficilmente si può ritenere che il

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viaggio di ritorno si sia svolto in silenzio. Nel corso di tutta la narrazione una sobrietà impressionante
coinvolge profondamente il lettore.

2.2. Rilevanza teologica

Gn 22 rappresenta un ottimo esempio di teologia narrativa o, meglio, narrata. Abbiamo già


avuto modo di dilungarci adeguatamente sui contenuti teologici di questo episodio e sul loro probabile
retroterra storico nel corso della presentazione del ciclo di Abramo. Segnaliamo ancora qualche
ulteriore elemento degno di nota.

* A differenza di diverse altre storie patriarcali, in cui i sacrifici o altri gesti di culto sanzionano la
sacralità del luogo ma non lo richiedono come condizione previa, in questo episodio il luogo del
sacrificio è indicato da Dio e richiede un viaggio dei personaggi per raggiungerlo. La necessità di
essere fedeli al luogo prescelto da Dio è una preoccupazione tipica della teologia deuteronomistica
concernente la centralizzazione del culto (cf Dt 12; avremo modo di parlare dell’argomento). È
presumibile, pertanto, che sia Gerusalemme il luogo che si celerebbe dietro uno dei monti del paese di
Moria (emblematicamente nella tradizione testuale samaritana è il Garizim il luogo del sacrificio). A
conferma di tale ipotesi, oltre alle osservazioni precedenti, ci sono la distanza geografica indicata
(effettivamente Gerusalemme è a 70 km in linea d’aria, poco più di tre giorni di cammino, da Bersabea,
da cui l’azione ha inizio) e (seppur con le debite cautele per una possibile dipendenza dal nostro testo)
la ricorrenza tardiva di Moria come nome del monte del tempio di Gerusalemme (in un testo
postesilico: 2Cr 3,1). Il nostro testo, dunque, rifletterebbe l’interesse della tradizione tardiva di far
risalire all’epoca di Abramo la rilevanza del luogo destinato poi ad ospitare il tempio, presentandone
una prima eziologia. + Lascia perplessi, oggi, una lettura del brano nei termini di un’eziologia del
rifiuto divino di sacrifici umani (specie di bambini, addirittura dei primogeniti), lettura che pure ha
avuto un certo seguito in passato e che trova altri paralleli in testi veterotestamentari (cfr, ad esempio,
Lv 20,2-5 o Dt 18,10). Sebbene si trattasse di una pratica presente presso popolazioni limitrofe, non sta
nella sua condanna il centro di interesse della pericope. Pare verosimile che l’autore della narrazione
abbia scelto come test della fede di Abramo il sacrificio dell’unico figlio perché esso rappresentava la
prova più radicale possibile sia in termini affettivi (un padre uccide il figlio) sia, soprattutto, in termini
storico - salvifici (l’annullamento delle promesse divine su cui Abramo si era giocata la vita). + Come
già rilevato in precedenza, i pilastri portanti della narrazione vanno visti nelle tematiche della prova
(con le conseguenze salvifiche per l’intero popolo d’Israele) e dell’obbedienza incondizionata,
connotata dalla fiducia nel Dio che, comunque, provvede. Il centro di questo brano sta nell’evento
irripetibile e irripetuto della prova del patriarca.
* A livello di Wirkungsgeschichte, risulta estremamente interessante rilevare l’interesse suscitato da
questo racconto nella storia della cultura occidentale (in questa sede solo qualche accenno). La
ricchezza del testo si è trasformata in una gran varietà di letture. Nella tradizione ebraica, i targumim
trovano nella ‘Aqedah (letteralmente la “legatura”, di Isacco, dalla radice dq[ (= legare) presente al v.
9: con questo nome la tradizione giudaica designa l’intero episodio) un’inesauribile fonte di ispirazione
e un formidabile elemento di identificazione. Ogni parola del brano è stata visitata con cura nel corso
dei secoli. Si è posta in evidenza, innanzitutto, la fede del patriarca (cfr 1Mac 2,52; Sir 44,19-21).
L’ebreo alessandrino Filone ha portato avanti anche su questo episodio la sua interpretazione
allegorico-tipologica di taglio morale. In filoni successivi si è sostenuto che la prova avvenne poiché
Dio era convinto della solidità della fede del patriarca (in base al Sal 11,5: “Il Signore prova i giusti”).
Il ruolo di Isacco è stato talvolta amplificato e trasformato in metafora del dramma e delle certezze del
popolo di Israele nel corso della sua storia. In una parola, queste tradizioni tendono ad esplicitare i

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risvolti teologici e le dimensioni interiori della prova di Abramo che le ellissi narrative, da noi
segnalate nel brano, lasciano nel silenzio. Nel secondo dopoguerra Elie Wiesel ha riletto il dramma
dell’olocausto ebraico sulla falsariga di questo episodio biblico (tra silenzio di Dio e sacrificio del
figlio amato, con i drammatici interrogativi di una fede messa radicalmente alla prova). *Nel NT
possiamo ricordare, a titolo preliminare, che riguardo alle esigenze radicali della sequela Christi viene
ribadita la priorità dell’amore per Gesù (cfr Mt 10,37 e paralleli: “Chi ama il padre o la madre più di
me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me”) rispetto agli affetti più
cari, analogamente a quanto narrato nel nostro racconto. Paolo allude indirettamente alla prova di
Abramo nel linguaggio utilizzato in Rom 8,32 per affermare il dono totale ed estremo del Figlio da
parte del Padre nell’ambito di un inno all’amore divino (“Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio,
ma lo ha dato per tutti noi …”). Il linguaggio segue da vicino quello utilizzato dalla LXX per Gen
22,16. Ma Paolo non compie una lettura tipologica della vicenda: piuttosto, vede nel dono totale del
Figlio la piena attuazione da parte del Padre delle promesse da lui rinnovate ad Abramo dopo il
superamento della prova. In At 3,25 e in Eb 6,13 il passo è alluso a partire dall’interesse per le
promesse. In Eb 11,17-19 si rilegge il nostro episodio all’interno di una rassegna delle grandi figure
antiche, evidenziando la categoria della fede connotata nel senso della resurrezione cristiana. Giacomo
rilegge la vicenda alla luce della sua concezione del rapporto fede-opere (cfr Gc 2,21-23): grazie
all’offerta del suo figlio Abramo fu giustificato e divenne l’amico di Dio. Nella tradizione cristiana,
poi, Origene evidenzia, in questo episodio, il conflitto tra amore paterno e amore per Dio che Abramo è
chiamato ad attraversare e risolvere: in ultima analisi un conflitto tra carne e spirito. A partire (per
quanto ci è dato sapere) da alcune omelie di Melitone di Sardi del II sec. inizia la lettura allegorica
dell’episodio (anche grazie alla connessione con il canto del servo sofferente di Is 53): in Isacco si
intravede Gesù, il figlio innocente destinato al sacrificio per cui porta il legno. Tuttavia la allegoria non
ebbe un particolare successo sia perchè Gesù, a differenza di Isacco, non era ignaro della sua sorte e del
suo significato, sia perché a Gesù il sacrificio (e le sofferenze previe) non vennero risparmiate.
Parecchi secoli dopo la Riforma contesta le analisi di tipo allegorico-tipologico, a tutto vantaggio di
nuovi interessi teologici. Lutero evidenzia il carattere paradigmatico della prova di fede di Abramo per
ogni cristiano. *In ambito filosofico, l’episodio venne sfruttato adeguatamente dagli Illuministi (in
particolare da I. Kant) nella loro critica alla religione rivelata. Gen 22 rappresentava bene l’assurdità
della rivelazione giudaico-cristiana: un Dio che avanza una pretesa assurda e insensata, richiede
all’uomo una fede irrazionale e contraria alla morale, ammette la sua ignoranza riguardo alla fede del
patriarca prima di codesto test (cfr “ora so…” al v. 12). A proposito di quest’ultima osservazione
giocata sul v. 12, va detto che già Calvino aveva ridimensionato la questione parlando di un’evidente
convenzione letteraria: il brano va affrontato a partire dalla sua natura letteraria e non da preconcette
posizioni dogmatiche. A detta degli illuministi, sarebbe la superstizione, non il vero Dio a parlare
all’uomo dalle pagine della Bibbia (in particolare dalle pagine “amorali” dell’AT): presupposto
filosofico di tali considerazioni è la concezione della “religione nei limiti della pura ragione”.

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NARRAZIONI DELL’ESODO

1. Le piaghe d’Egitto

I capitoli dell’Es che precedono il racconto della Pasqua ci consentono di intravedere


qualcosa di quanto affermato in generale sul Pentateuco. I capitoli dedicati alle piaghe d’Egitto ci
forniscono un blocco letterario ricco e stratificato, in cui elementi diversi sono entrati in gioco per
precisare contenuti e prospettive: l’insieme esprime a sufficienza la distanza che intercorre tra il nostro
modo di intendere la letteratura e quello dell’antichità biblica e non solo.
Es 7,1-7 e 11,9-10 inquadrano il racconto delle piaghe: si tratta di un programma e della
segnalazione dell’avvenuto adempimento. Es 7,1-7 rappresenta il programma di quanto segue, mentre
Es 7,8-13 presenta il segno preliminare del bastone cambiato in serpente. Di per sé, Es 11,9-10
rappresenta la conclusione di una fase, non di tutto il racconto: i vv. 1-8 vedono l’annuncio dell’ultima
terribile piaga, ma la sua realizzazione avverrà solo di seguito, in concomitanza con la Pasqua (Es 12—
13). Tuttavia, il v. 8 dice la definitiva rottura delle trattative tra Mosè ed il faraone: ormai solo più il
dramma irreparabile deve accadere perché Israele possa uscire dalla terra d’Egitto.
Qual è la chiave di lettura fondamentale di questo testo? I primi 15 capitoli di Esodo sono
dedicati a chiarire chi possa avanzare pretese di sovranità su Israele, chi possa esigerne il servizio, se il
faraone o YHWH (tipi evidentemente diversi di servizio). La narrazione vede il faraone passare dalla
sprezzante ignoranza circa l’identità di YHWH (Es 5,2) al riconoscimento della sua superiorità (Es 7,5:
gli Egiziani sapranno …). Le cosiddette “piaghe” rappresentano i prodigi di cui YHWH si serve da un
lato per convincere il faraone a non opporsi al suo disegno di salvezza e d’altro lato per provare la sua
superiorità e la legittimità delle sue prerogative su Israele.
Di per sé, parlare di “piaghe” è improprio, in quanto solo la decima (la morte dei primogeniti) è
qualificata come tale dalla narrazione. Le prime nove sono qualificate come segni, prodigi, flagelli:
sono segni che richiedono di essere interpretati e che sono, invece, rifiutati da parte egiziana. Sono
rinvenibili affinità con il genere dei gesti simbolici compiuti dai profeti, come pure è affine con la
tradizione profetica il tema dell’indurimento del cuore. Stante l’ambivalenza di queste categorie (non
univocamente riconoscibili), la tradizione P preferirà, a proposito delle piaghe, parlare di un
riconoscimento dell’agire di Dio legato al suo giudizio sul faraone e sugli Egiziani.
La narrazione delle piaghe presenta tratti caratteristici dei racconti popolari. L’azione prevale
sulla descrizione dei personaggi, ridotta al minimo indispensabile (tutti rimangono anonimi, tranne
Mosè e Aronne; nulla si dice di come Israele viva questi frangenti, tanto meno nulla affiora circa la
famiglia di Mosè). La costruzione è giocata sull’accumulo di episodi per certi versi simili, per altri in
graduale intensificazione drammatica. L’atmosfera è priva di formalità, i rapporti tra i personaggi sono
estremamente semplici: cfr l’assenza di protocollo nei confronti del faraone (vs. Giuseppe, Ester). Il
quadro è ridotto al minimo, come pure le descrizioni. I buoni si contrappongono ai cattivi, i personaggi
non cambiano posizione, vale la regola del “tutto o niente” (cf. le stragi e le catastrofi sono radicali,
anche a costo di creare delle incongruenze: se tutto il bestiame muore nella quinta piaga non può essere
colpito da ulcere nella sesta e non può essere ucciso dalla grandine nell’ottava). Le ellissi sono
moltissime: tempi, intervalli, durate, reazioni della popolazione e degli Israeliti … . Contro tutte le
“razionalizzazioni” apologetiche (della seria: “La Bibbia aveva ragione”), non va sminuito il carattere
di eccesso di questi segni (non erano comuni, in questi termini, se no …). Per le ragioni che siamo
andati esponendo nel corso della trattazione, appare piuttosto fuori luogo chiedersi se tali segni siano
effettivamente avvenuti.

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Nella linea dei racconti popolari, il “cattivo” è il personaggio che riceve maggiori attenzioni,
seppur spesso indirette (le opinioni di YHWH, di Mosè, dei maghi e dei suoi servitori). Si tratta di un
tratto assai tipico della narrativa biblica (Saul, Caino, Aman). L’insistenza tradisce una difficoltà: si
tratta di smascherare un pericolo per Israele. Si tratta di indicare ad Israele che la vera via è quella del
servizio di Dio e vuole scongiurare il pericolo rappresentato dal potere del faraone, che probabilmente
continuava ad affascinare più di un Israelita.

Una riflessione particolare merita di essere dedicata al problema teologico dell’indurimento di


cuore. In alcuni passaggi del racconto si afferma che il rifiuto di assecondare le richieste di Mosè e di
Aronne dipende esclusivamente dal faraone e che è il suo cuore ad ostinarsi, indurirsi (riflessivo):
YHWH si limita a preannunciare tale indurimento. In altri passaggi, a partire dalla sesta piaga, si dice
che “il Signore indurì, rese ostinato il cuore del faraone”. Come conciliare l’intervento divino con la
libertà e la responsabilità umana? Il problema è stato percepito da sempre, tanto nella tradizione
rabbinica che in quella cristiana, a partire dai Padri della Chiesa. In ambito ebraico, le soluzioni addotte
non paiono particolarmente convincenti. Vista la differenza di linguaggio, non basta ribadire che Dio è
la causa ultima di tutte le azioni umane o che il faraone rimane libero e responsabile delle sue scelte.
Neppure ci sono elementi per sostenere che Dio renderebbe forte il cuore del faraone cosicché egli non
si lasci impressionare dalle piaghe e i motivi della sua conversione (prima mancata e poi finalmente
concessa) siano puri e non dettati dalla paura. Ancor più artificiosa è l’ipotesi secondo cui prima il
peccatore per volontà propria, in seguito rifiuta la possibilità di convertirsi e, ad un certo punto, la
conversione diviene impossibile. Tra i Padri della Chiesa, Origene difende la dottrina del libero arbitrio
dicendo che, se Dio ha indurito il cuore del faraone, esso non poteva essere in tale stato fin dall’inizio,
dunque era libero. Inoltre, Origene difende la causa del faraone, considerandone la conversione finale.
Al di là di queste soluzioni piuttosto artificiose, proviamo a dare alcune chiavi di comprensione
della formula:

- il cuore nell’antropologia biblica è il centro vitale e sintetico della persona, sede della libertà e
dell’intelligenza e, soprattutto, delle decisioni; Dio solo può avere accesso al cuore umano;

- la parola di Dio è efficace anche in coloro che la rifiutano (cfr Is 55,10-11);

- si pone in risalto l’aspetto teologico della questione: Dio ha l’iniziativa, non il faraone, il faraone
decide davanti a Dio e non può sottrarsi alla sua scelta, l’effetto delle sue scelte dipende totalmente
da Dio, non da lui. In altre parole, Dio provoca direttamente le scelte del faraone e gli si rivela
gradualmente con il suo giudizio (che culminerà in Es 14);

- per i narratori biblici, il problema principale era di ordine teologico: occorreva dimostrare ad ogni
costo l’onnipotenza del Dio d’Israele. Era necessario dimostrare che perfino il rifiuto del faraone
faceva parte del “piano divino”, perché in definitiva tutto è sotto il controllo di Dio e voluto da Lui.
Per noi, specie moderni, la preoccupazione è eminentemente antropologica più che teologica: per
noi l’onnipotenza divina rappresenta un dato scontato, si tratta di chiarire la questione della libertà
umana. L’esempio segnala adeguatamente l’esigenza di non attribuire ai testi le nostre medesime
preoccupazioni e di non cercare soluzioni che essi non sono in grado di offrire.

In questi capitoli dedicati alla narrazione delle piaghe sono riconosciuti, fondamentalmente, due
principali strati di materiale, uno più antico e un altro (aggiunto come integrazione e correzione di
prospettiva) di origine sacerdotale. Segni della presenza di materiale eterogeneo sono sia alcune
tensioni (alcune piaghe sono così simili da sembrare doppioni; ci sono doppioni o dati paralleli
62
all’interno di singole piaghe) sia alcune incoerenze (ad esempio: se tutto il bestiame muore nella V
piaga, non può essere colpito dall’epidemia alla piaga VI, la grandine non può ucciderlo all’VIII e non
possono più morire i primogeniti degli animali alla X).
Sono riconoscibili, inoltre, due strutture diverse. Una prima struttura appare chiaramente nella IV e
V piaga (mosconi e mortalità del bestiame):
1) ordine di YHWH a Mosè per il faraone;
2) YHWH manda la piaga;
3) il faraone fa chiamare Mosè e Aronne (trattative);
4) Mosè intercede per il faraone e la piaga finisce;
5) indurimento del cuore e rifiuto di lasciar partire il popolo.

Una seconda struttura appare più chiaramente nella III e VI piaga (zanzare e ulcere) ed è
caratterizzata da una maggiore brevità:
1) ordine di YHWH a Mosè e Aronne (senza messaggio per il faraone);
2) Aronne esegue l’ordine con il bastone;
3) i maghi egiziani possono o meno compiere un prodigio simile;
4) indurimento del cuore.

Si evidenzia una notevole insistenza sulla corrispondenza tra gli avvenimenti e la parola di YHWH.
Non si tratta, evidentemente, di strutture rigide, ma di un impianto di massima, con variazioni ed
omissioni di parti.

Non ci soffermiamo in questa sede a tracciare una delimitazione tra i due materiali (un dato tecnico,
che sarebbe pesante), ma segnaliamo le principali caratteristiche dei due strati: l’obiettivo di questo
lavoro non è commentare due testi differenti, ma percepire i fili diversi il cui intreccio compone ed
arricchisce la trama narrativa che abbiamo sotto gli occhi.
Il materiale più antico è costituito da 6+1 piaghe (tranne zanzare, ulcere e tenebre, con il culmine
nei primogeniti), una struttura in crescendo fornita da sei elementi simili più un settimo differente che
rappresenta la conclusione. Questo primo racconto è incentrato sul rifiuto del faraone di lasciar partire
Israele in vista della festa nel deserto: scopo delle piaghe è colpire il faraone perché non lascia partire
Israele e dimostrare così chi è YHWH (rispondendo all’obiezione di Es 5,2). Legami con la tradizione
profetica (segni, castigo, indurimento del cuore). Ma emblematico è quanto accennato in 10,2, ovvero il
fatto che il racconto ha valenza innanzitutto per Israele.
In questo racconto più antico alcuni elementi indicano una progressione:

+ Atteggiamento del faraone verso YHWH. Dalla richiesta a Mosè di intercedere presso YHWH (a
partire dalla seconda piaga) fino al riconoscimento della propria colpevolezza (nelle ultime due piaghe,
nell’ultima espressamente nei confronti di YHWH).
+ Le concessioni del faraone. Dal permesso di sacrificare in Egitto, a quello di allontanarsi ma non
troppo, a quello solo per gli uomini, a quello per tutti tranne che per il bestiame … . A queste
concessioni parziali si oppone il fermo rifiuto di Mosè.
+ I servitori del faraone. Con la piaga della grandine viene offerta ai servi del faraone la possibilità di
evitare la piaga, senza esito (anche il loro cuore si indurisce). Con la piaga successiva delle cavallette, i
servi del faraone si schierano con Mosè per chiedere di lasciar partire Israele.
+ Ampiezza delle piaghe: da una prima piaga circoscritta (sangue, solo il Nilo) a delle piaghe che
colpiscono tutte le zone dell’Egitto fino a due piaghe del tutto eccezionali (grandine e cavallette).

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La tradizione P è intervenuta ad integrare il materiale più antico con l’aggiunta di due piaghe
(zanzare e ulcere) e di alcuni segmenti delle prime due piaghe. A questa tradizioni sono riconducibili
anche tanto il brano di Es 7,1-7 (che fornisce la chiave di lettura dei testi successivi) sia il segno
preliminare del bastone (Es 7,8-13). Segnaliamo alcune caratteristiche di questo materiale.
*La progressione nel racconto. Nel materiale P sono caratteristici il bastone di Aronne e i maghi
d’Egitto. Nel segno preliminare i maghi riescono a imitare il segno, ma il bastone di Aronne ingoia i
loro bastoni. In seguito i maghi riescono a imitare i primi due segni, ma non più quello delle zanzare.
La loro sconfitta definitiva avviene con la piaga delle ulcere: essi stessi sono colpiti e devono sparire
dalla scena.
*Questo materiale è fortemente incentrato sul confronto tra Mosè e Aronne da un lato ed il faraone ed i
suoi maghi dall’altro. Si insiste sulla conformità tra gli ordini di Dio e l’esecuzione di Mosè ed Aronne
o sulla corrispondenza tra i fatti e la parola divina, evidenziando come i maghi non siano in grado di
riprodurre tale conformità (il loro successo, quando c’è, è solo parziale).

La tradizione P delle piaghe manifesta una teologia chiaramente connotata. Tre punti:

A) ARMONIA TRA DIO E IL SUO POPOLO . Sono contrapposti due mondi: il primo è in armonia con
YHWH (Mosè e Aronne), a differenza dell’altro. I segni dimostrano che solo Mosè e Aronne
agiscono in conformità con il disegno divino (il mondo in armonia con il disegno divino è
quello stabilito nel racconto P della creazione, in Gn 1). Per Israele, Mosè e Aronne sono gli
autentici rappresentanti di YHWH, non i maghi d’Egitto: la loro superiorità dipende dalla loro
conformità con la volontà divina. Per Israele l’unica via adeguata è, dunque, quella tracciata da
queste due figure: di conseguenza, la salvezza viene dalle istituzioni che risalgono a loro e che
mantengono Israele vicino al suo Dio (in particolare, dal culto). Per P sono Mosè e Aronne
(ergo le istituzioni da loro fondate) gli autentici rappresentanti di YHWH, non i maghi d’Egitto.
B) YHWH È PRESENTATO COME IL SIGNORE DELLA STORIA . Fin dall’inizio, il rifiuto del faraone è
previsto da Dio (anche nel DeuteroIs Dio prevede tutto il corso della storia): dunque il disegno
di Dio sulla storia non si limita alla sorte di Israele, ma si estende anche ai sovrani stranieri
come il faraone.
C) LA SAPIENZA DI ISRAELE È SUPERIORE A QUELLA STRANIERA (cf. le affinità con Giuseppe e
Daniele): emblematica, in questo senso, la sorte dei maghi.
Sintesi: il racconto P descrive il confronto tra due universi, due sapienze, quella dell’Egitto e
quella di YHWH. La sapienza di YHWH è superiore a quella del faraone e conduce Israele alla
salvezza e alla libertà. La sapienza del faraone è illusoria e mira solamente a difendere il potere
dell’oppressore. Inoltre il fascino della sapienza dell’Egitto (considerata il sommo della sapienza del
mondo antico) è posta in cattiva luce: un monito agli Israeliti a non lasciarsi sedurre dalla sapienza
delle nazioni, anche se tali culture potevano apparire superiori ed egemoni. Israele possiede tesori di
sapienza più preziosi di quanto possano offrire le nazioni.

Verificare le considerazioni fatte su P in Es 7,1-7, che rappresenta la chiave di lettura anteposta a


tutta la sezione, e Es 7,8-13, il primo modello paradigmatico; occhio pure a Es 11,9-10.

Tenendo presenti i filoni tematici che abbiamo avuto modo di segnalare, possiamo ora offrire
uno schema sintetico della narrazione che abbiamo tra mano. Alcuni indizi strutturali inducono a
riconoscere nel testo una scansione ternaria delle prime nove piaghe: I (sangue, rane, zanzare); II
(mosconi, peste, ulcere); III (grandine, cavallette, tenebre) (l’ultima di ogni serie dovrebbe essere di
origine P).

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°La prima terna serve a chiarire “chi è YHWH”: le prime due piaghe hanno come ambito il dio-Nilo,
del quale l’azione di YHWH evidenzia i connotati di creatura. Con il terzo prodigio, i maghi sono
obbligati a riconoscere nel bastone dei due “il dito di Dio”, ossia un potere divino superiore.

°La seconda terna rivela la presenza di YHWH in mezzo alla terra d’Egitto ed il suo incontrastato
dominio sulla vita umana, animale e vegetale. Nella quarta e quinta piaga, YHWH opera una
distinzione tra terra e bestiame degli Egiziani e terra e bestiame degli Israeliti. Le piaghe sugli animali
suonano critica verso alcune divinità egizie raffigurate con essi: anche tali animali rientrano sotto la
sovranità di YHWH, i loro dei non si fanno vivi.

°La terza terna è più sviluppata ed è permeata da un forte sentore di morte: è ribadita l’incomparabile
superiorità di YHWH. Affiora il carattere pedagogico di tali segni: YHWH avrebbe potuto annientare
fin dall’inizio l’Egitto, ma ha dilazionato i tempi per offrire a faraone la possibilità di riconoscerlo
come Signore.

Alcune considerazioni finali le riserviamo per la decima piaga, la morte dei primogeniti, il cui
annuncio segue le nove piaghe (Es 11,1-8) e la cui realizzazione è incastonata nel racconto e nella
legislatura concernente la pasqua (Es 12,29-34).
L’annuncio ha tutto il sentore della sentenza irreversibile: la dilazione è esaurita, è giunto il
giudizio di Dio sull’Egitto. Tale piaga segnala in modo definitivo anche la radicale distinzione operata
da YHWH tra Israele e le nazioni. Alla realizzazione della piaga annunciata sono dedicati, di per sé,
due soli versetti (29-30): è YHWH stesso a colpire i primogeniti; in tale morte, quanto ad impotenza la
sorte del faraone è equiparata al capo di ogni armento d’Egitto. L’eliminazione dei primogeniti
rappresenta il segno supremo della totale sovranità divina. Coloro che avevano attentato alla sorte di
Israele, suo primogenito, sono stroncati nei loro primogeniti, primizia del loro vigore e simbolo del loro
futuro. Contro la nostra sensibilità, non ci sono sfumature nell’agire divino: chi sfida Dio è destinato a
soccombere, l’eliminazione del male implica l’eliminazione del malvagio, non ci sono responsabilità
personali (a differenza del faraone, gli Egiziani avevano dato segno di ravvedimento) e il monarca
rappresenta il popolo intero.
Ma, nonostante le tragiche apparenze, l’annientamento definitivo, il giudizio senza appello era
ancora da venire: da lì a poche ore, presso il mar Rosso …

C. Il passaggio del mare


Nella tradizione ebraico-cristiana, il passaggio del mare narrato in Es rappresenta uno degli
eventi fondamentali della storia della salvezza. In quell’accumulo testuale rappresentato dai capp. 12—
15 di Es, il passaggio del mare è strettamente connesso con la Pasqua da celebrare e appena celebrata.
La narrazione presenta elementi epici, con cui si trasfigurano gli eventi e si esalta YHWH come
incontrastato protagonista e si propone l’evento alla memoria e alla celebrazione delle successive
generazioni. Il passaggio del mare rappresenta il “giorno” memorabile della nascita di Israele come
popolo.
Ci si è domandati se la narrazione dell’uscita dall’Egitto si limitasse originariamente a quanto
riportato in 12,29-42, se la morte dei primogeniti rappresentasse la conclusione adeguata e sufficiente
del conflitto tra YHWH ed il faraone e se il passaggio del mare (Es 13,17-15,27) rappresentasse,
piuttosto, l’inizio del successivo complesso narrativo, quello della marcia di Israele nel deserto. Ma una
serie di elementi collega strettamente il passaggio del mare a quanto precede: il conflitto tra Egitto e

65
Israele, l’indurimento del cuore, il riconoscimento di YHWH da parte del faraone, la funzione
conclusiva del solenne testo poetico di Es 15,1-21.
Il passaggio del mare rappresenta una doppia conclusione per Es 1—15 giocata sul confronto
tra YHWH ed il faraone. La Bibbia conosce altri esempi di doppie conclusioni a motivo di
complicazioni intervenute nella vicenda: la doppia riconciliazione nella storia di Giuseppe (con e senza
Giacobbe); la doppia conclusione di Giona (conversione e chiarimento). Dopo l’uscita dall’Egitto (Es
12,29-42.50-51), la decisione del faraone (14,3.5) rimette tutto in questione e rappresenta una
complicazione inattesa: se il suo piano fosse riuscito, Israele sarebbe ritornato alla sua condizione di
schiavitù e la narrazione sarebbe tornata al suo punto di partenza (cap. 1).
Questo dato fondamentale non toglie che Es 14—15 contenga anche elementi di transizione con
la sezione successiva della permanenza nel deserto: le mormorazioni, la gloria di Dio ecc…
Il racconto del passaggio del mare è circoscritto tra Es 13,17 e 15,21. Elemento essenziale della
vicenda è il mare (in ebraico è il Mare dei Giunchi o delle Canne, la denominazione Mar Rosso deriva
dalla versione greca dei LXX): il racconto inizia con la decisione divina di far tornare Israele verso il
mare (13,17-18) e finisce quando Israele lascia la sua sponda per inoltrarsi nel deserto (15,22). Prima ci
sono istruzioni supplementari sugli azzimi e sull’offerta dei primogeniti da parte di Mosè (cap. 13),
dopo inizia l’episodio di Mara (15,22-26).
Es 13,17-22 riprende il filo dell’azione della partenza degli Israeliti (12,31-39) e presenta in
modo generico l’itinerario verso il deserto, motivandone la ragione teologica: vengono fornite alcune
chiavi significative della narrazione successiva (in particolare la regia degli avvenimenti nelle mani di
Dio, con qualche anticipazione). In questi versetti sono presentati gli elementi più direttamente legati
all’azione del cap. 14 e necessari alla comprensione dell’episodio.
Analogamente a quanto segnalato per il racconto delle piaghe, anche la narrazione
dell’attraversamento del mare presenta una serie di incoerenze che obbligano a riconoscere la presenza
nel brano di materiali eterogenei:

a) Il v. 21 testimonia in modo evidente la presenza di due versioni differenti (e non compatibili) del
medesimo miracolo del mare: differiscono sia la natura del miracolo che per l’agente diretto. Da
una parte l’agente è Mosè ed il miracolo è assai più spettacolare (le acque del mare si dividono,
modello Hollywood) (era quanto intimato al v. 16); dall’altra il mare è prosciugato direttamente da
YHWH senza intermediario umano, servendosi di un forte vento dall’est. Inoltre risulta difficile
comprendere come il mare si sia potuto dividere dopo essere stato prosciugato.
b) La successione dei vv. 13-14 e 15 manifesta qualche difficoltà: Mosè esorta alla tranquillità mentre
poi risulta aver gridato; poi Mosè esorta alla tranquillità mentre YHWH sollecita a mettersi in
marcia. Nella stessa prospettiva, anche i vv. 19-20 non paiono compatibili con i vv. 22-23: abbiamo
a che fare con due accampamenti immobili o con un inseguimento in corso?
c) Analoghe incongruenze presenta la descrizione della sconfitta degli egiziani. Come si compone la
funzione oscurante della nube con l’inseguimento ed il panico degli egiziani? I vv. 26-27a.28
presentano il richiudersi delle acque sugli Egiziani per colpa di Mosè, mentre i vv. 25.27b vede
impiantarsi i carri degli Egiziani ed il loro successivo annegamento per il ritorno delle acque.

Pertanto, è possibile riconoscere nella narrazione la presenza di due versioni degli avvenimenti:
*La versione della “divisione delle acque” (P) vede il popolo gridare, l’ordine divino a Mosè di
stendere la mano sul mare per dividerlo, l’esecuzione, il passaggio degli Israeliti sull’asciutto e gli
Egiziani travolti dal richiudersi delle acque. Qui non è menzionata alcuna notte. Centrale è la funzione
di Mosè come mediatore di YHWH: il nodo del conflitto è tra YHWH e l’Egitto, mentre Israele è
perlopiù passivo.

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*La versione del “prosciugamento del mare” (più antica e più rimaneggiata) è meno chiara: gli
Egiziani raggiungono Israele presso il mare, senza che, a motivo dell’oscurità, si riescano a vedere e
possano muoversi, mentre YHWH fa soffiare un forte vento che prosciuga il mare (o, meglio, la parte
in cui gli Egiziani si attestano). Alla fine del vento, le acque ritornano sul far del mattino nella zona
dove sono accampati gli Egiziani, provocando il panico e la morte. Israele scopre gli Egiziani morti
sulla riva del mare. Sia il prosciugamento del mare che la colonna di nube rappresentano i tratti
caratteristici di questo racconto antico.

Le due versioni non cercano di integrarsi, sono semplicemente giustapposte. In linea di


massima, al racconto della “divisione delle acque” appartengono i vv. 1-4.8-10*.15-18.21*.22-23.26-
27*.28a.29. Tale racconto è scandito da tre discorsi (vv. 1-4.15-18.26): il terzo si distingue dagli altri
per brevità, per l’assenza di un qualche messaggio per Israele, come pure delle tematiche
dell’indurimento, della glorificazione e del riconoscimento. Ne consegue una narrazione scandita in tre
parti, ognuna con un discorso divino seguito da una descrizione del compimento del piano divino. Al
racconto del “prosciugamento del mare” appartengono, invece, i vv. 5-6.9-10*.13-14.19b-21*.24-
25*.27.28b.30-31. A questi due racconti, furono ulteriormente aggiunte integrazioni redazionali, sia in
sede di cucitura che in seguito.
Le due versioni esprimono, evidentemente, due diverse prospettive teologiche a proposito
dell’avvenimento:
1) Il racconto P (versione “divisione delle acque”) gioca la sua teologia intorno a tre assi
principali.
 L’indurimento del cuore e il riconoscimento di YHWH (“sapranno che io sono il Signore” o affini).
Solo P introduce il tema dell’indurimento del cuore (che nelle piaghe era presente anche nel
materiale più antico), mentre P differisce qui il tema del riconoscimento di YHWH (che solo il
materiale antico riportava nella narrazione delle piaghe). Anche qui il tema dell’indurimento
esprime il fatto che la parola efficace di Dio obbliga il faraone a reagire e provoca il suo rifiuto, con
il conseguente giudizio di condanna da parte divina rappresentato dall’annientamento in mare.
L’indurimento consiste nell’inseguimento, ma il cambiamento di opinione del faraone non ha
spiazzato i piani divini, era previsto (14,1-4). P lega il riconoscimento di YHWH da parte egiziana
non alle piaghe ma al passaggio del mare, non ai segni anticipatori (inadeguati per ottenere
un’autentica conversione) ma al giudizio finale: il rifiuto di ascoltare (e, dunque, di convertirsi)
conduce al giudizio. Il riconoscimento di YHWH, anche secondo Ez (2,4 e 3,7) e Ger, avviene nel
momento del giudizio, rappresentato dalla morte: lì si riconosce YHWH come signore della vita e
della morte. Così capita agli Egiziani (cfr 14,4.18: in generale, tutto Es 14 rappresenta il giudizio
divino sugli Egiziani).
 La glorificazione di YHWH. Il miracolo del mare è interpretato come glorificazione di YHWH
dinanzi agli Egiziani. Il tema della “gloria” di Dio (connesso con la nube e, da un certo punto in
poi, con la tenda dell’incontro) è tipico della tradizione P e segnala le principali tappe di Israele nel
deserto, come pure il sorgere del culto: perlopiù è abbinata a manifestazioni della volontà divina.
Tale elemento non compare mai in Gn, in quanto strettamente associato a Israele come popolo
libero: ecco perché la radice kbd compare per la prima volta proprio in Gn 14. Per P (esilio e primo
post-esilio), la gloria di Dio è sempre attiva nella storia di Israele: è capace di liberare il suo popolo
dalla schiavitù e di condurlo alla terra promessa. Tale gloria non è legata esclusivamente ad un
luogo, ma è presente ovunque: è in cammino con il suo popolo (motivo di speranza per il futuro).
 La cosmologia della terra asciutta e del mare. Tre testi della tradizione P sviluppano il tema
dell’opposizione acqua/terra asciutta: Gn 1 (vv. 9-10); Gn 6-9 (ritorno al caos originario e recupero
in 8,13-14: nuova creazione); Gn 14 (vv. 16.22.29: come Noè, Israele è sull’asciutto, mentre gli

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Egiziani sono travolti dalle acque del caos, come l’umanità del diluvio). In tutti e tre i casi il Dio
che agisce è il creatore dell’universo, Signore del mare e della terra asciutta: i testi sono allineati
sullo stesso asse teologico. Anche l’elemento del vento ritorna negli stessi episodi. Mentre la causa
del diluvio era stata la violenza (Gn 6,11.13), cioè la perversione dei rapporti fra gli uomini e con il
creato, la morte degli Egiziani è dovuta alla brutalità di cui parla Es 1,13-14, cioè a una perversione
nei rapporti di potere. In Es 14 il Signore dell’universo interviene a salvaguardare il suo popolo,
utilizzando la stessa potenza adoperata per creare il mondo.

2) Anche il racconto più antico (versione “prosciugamento del mare”) presenta una sua teologia:
* Intanto, esso può essere ricondotto al genere letterario del plebiscito (o riconoscimento
popolare di un capo). Il genere richiede tre elementi: una crisi, la soluzione della crisi, il
riconoscimento da parte del popolo dell’autorità del salvatore (come altri esempi segnaliamo Gedeone
e Iefte, tra i giudici). Nel nostro caso il salvatore acclamato è YHWH (vv. 10.13.30-31).
* Oltre a questo aspetto, abbiamo nel racconto più antico la sanzione divina dell’autorità di un
uomo di Dio dinanzi al popolo (e ai lettori). Tre elementi costitutivi (con flessibilità): l’uomo di Dio
annunzia un intervento divino; Dio interviene come preannunziato; sanzione: l’autorità del profeta
viene confermata e riconosciuta dal popolo (Esempi: Gs 3-4 e il passaggio del Giordano; 1Re 18 e il
sacrificio sul Carmelo). Dunque: il racconto più antico presente in Es 14 è finalizzato a legittimare la
posizione di YHWH come Dio di Israele e di Mosè come suo servitore privilegiato (per i lettori
successivi, la legittimazione del culto di YHWH e di tutte le tradizioni o istituzioni che risalivano a
Mosè).
Analogamente al percorso fatto a proposito delle piaghe, anche per Es 14, dopo aver rilevato la
somma di interessi di cui è costituito, andiamo a gettare uno sguardo d’insieme sulla stesura finale. Nel
capitolo si possono distinguere tre parti, scandite da tre discorsi divini (vv. 1-4a.15-18.26: Dio è come
il regista che spiega a ciascuno il suo ruolo), dal discorso di Mosè e dalle sue realizzazioni (il v. 14 si
compie al v. 25 ed il v. 13 si compie ai vv. 30-31), da altri interventi di Israeliti, Mosè o Egiziani. Ogni
sezione si apre con un discorso di YHWH e si conclude con le parole di uno dei personaggi (Mosè, gli
Egiziani e Mosè e gli Israeliti). Le tre sezioni possono essere così sintetizzate:
1) la via che conduce al mare, ove si arriva di notte (vv. 1-14);
2) nel mare, di notte (vv. 15-25);
3) dall’altra parte del mare, al mattino (vv. 26-31+15).

Volendo scandirle in base alla logica narrativa, occorre articolarle così:


I Primo atto (vv. 1-14): la crisi
II Secondo atto (vv. 15-31): la soluzione
1. Prima scena (vv. 16-25): il passaggio
2. Seconda scena (vv. 26-31): morte e vita

A prima vista, il racconto presenta una trama di risoluzione, con il passaggio di Israele da una
situazione di felicità alla felicità. Abbinata a tale tipo di trama vi è anche trama di rivelazione /
riconoscimento, con il passaggio dall’ignoranza al riconoscimento (conoscenza che concerne tanto gli
Egiziani che gli Israeliti: vv. 4.18.31).
Segnaliamo una tecnica narrativa significativa. Il primo discorso di YHWH (vv. 1-4a) contiene
il riassunto di quanto sta per avvenire: dunque, fin dall’inizio il lettore è al corrente di dove andrà a
finire la vicenda (a differenza degli Egiziani e di Israele), il che significa che gli viene chiesto di porre
attenzione non all’esito dell’azione divina ma alle modalità del suo svolgimento (cf. la prova di
Abramo). Comprensibile nel postesilio: si sa che YHWH agisce in difesa del suo popolo, il problema è

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capire il come. Livello pastorale: non guardare solo alla sintesi, ma al percorso che le narrazioni
vogliono indurci a compiere (immaginare di avere una telecamera o di essere in sala di montaggio).
Rapida rassegna delle tre sezioni.
A) Es 14,1-14: padroni e schiavi faccia a faccia . Dopo le parole divine, i vv. 5-10a sono dedicati alla
complicazione: gli Egiziani decidono, organizzano e attuano l’inseguimento. Il piano degli Egiziani
è il contrario di quello formulato da YHWH e innesta la contrapposizione su chi potrà esercitare la
sua signoria su Israele. Quanto affermato dagli Egiziani al v. 5b segnala come il rapporto tra
padroni e schiavi, non sia, neppure per i primi, all’insegna della libertà, ma della necessità. La
scena dell’inseguimento è costruita per accumulo e serve a preparare lo sgomento degli Israeliti al
v. 10. Prima e in parallelo, si sottolinea l’ignaro cammino di Israele: cammina con il braccio alzato
(v. 8b) segno di libertà e si accampa tranquillo presso il mare, senza sapere che alle spalle si sta
avvicinando il più potente esercito del tempo. Ai vv. 10b-14 abbiamo la reazione degli Israeliti:
sgomento, mormorazione e discorso di Mosè. Il cambiamento del punto di vista al v. 10 esprime
tutta la drammaticità del momento (cambia la telecamera, provate a trasformare questi dati in film).
Il dramma spiega la reazione degli Israeliti ai vv. 11-12, anche per la loro ignoranza del piano
divino: si cerca un capro espiatorio, subito individuato in Mosè. Paradossalmente e ironicamente, il
desiderio di tornare indietro viene a coincidere con quanto espresso dal faraone al v. 5b (le forme si
richiamano): non solo i padroni non possono fare a meno dei loro schiavi, anche gli schiavi non
possono fare a meno dei padroni. In questo momento, non solo il faraone, ma anche Israele si
oppone al piano divino: preferisce il passato al futuro, la schiavitù alla libertà, il faraone a Mosè e
YHWH. L’arrivo degli Egiziani rimette tutto in questione. Gli schiavi preferiscono rimanere
schiavi, la paura ha il sopravvento: paradossalmente, i progetti degli Israeliti vengono a coincidere,
in questo punto, con quelli degli Egiziani e, dunque, ad opporsi al piano divino. Il discorso di Mosè
ribadisce la prospettiva del futuro e della libertà e ribadisce l’oggi dell’azione salvifica divina. Ma
tali parole attendono conferma. In particolare, il discorso di Mosè inizia prestando attenzione alla
questione decisiva della paura: “Non temete”, fondato sulla dimenticata e permanente presenza del
Signore. Mosè salva gli Israeliti perché vede più di loro: non solo gli Egiziani, ma anche i segreti di
Dio e della storia.
B) Es 14,15-25: creazione e liberazione. Le istruzioni di YHWH a Mosè vengono eseguite a partire dal
v. 21 (i vv. 19-20 rappresentano un intermezzo dedicato al posizionarsi dell’angelo e della colonna
di nube). Dal v. 21 assistiamo alla svolta del racconto, che ha il suo culmine ai vv. 24-25a. Si insiste
sulla concorde opera di Mosè e di YHWH. L’azione culmina nel riconoscimento al v. 25b, da parte
degli Egiziani, del fatto che YHWH combatte per Israele contro gli Egiziani. Siamo arrivati alla
fase decisiva della narrazione. Il quadro somma nell’azione due grandi simboli di morte: il mare e
la notte (uniti a terra asciutta, vento e fuoco, che pure compaiono, richiamano importanti elementi
cosmici). Israele, pur passando il mare di notte, entra nella vita e nella salvezza. Segnaliamo,
inoltre, un’ulteriore possibile lettura. Il testo finale esprime in modo preponderante l’idea di un
passaggio tra due muraglie d’acqua, a destra e sinistra. Dal momento che con le stesse parole si
possono anche esprimere rispettivamente sud e nord, si può riconoscere in questa indicazione una
allusione a una marcia da ovest a est: il che non corrisponde solo all’effettiva direzione della marcia
di Israele, ma anche all’itinerario notturno del sole in molte mitologie, un itinerario di risurrezione
ciclica: il sole muore al tramonto, attraversa l’oceano sotterraneo per risorgere all’alba (l’itinerario
diurno del sole è, invece, spesso utilizzato come metafora della vita umana, dalla nascita alla
morte). In questo evento Israele è creato come popolo. Inoltre, YHWH, per mezzo di Mosè,
trasforma il significato del mare: da luogo di morte (come tale resta per gli Egiziani) a luogo della
nascita per Israele. Muore Israele come schiavo per nascere libero (cfr b/ e Rm 6). Gli Egiziani,
che, simbolicamente, hanno identificato la vita con il loro potere, non c’è un’altra riva, un'altra
possibilità di vita. Analogamente viene trasformato il simbolismo di luce e tenebre: se il faraone
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sembra dover prevalere sul far della notte, dal cuore della notte affiora la vittoria della luce, che si
manifesta sul far del mattino (l’ora in cui veniva fatta giustizia): gli Egiziani rimangono nelle
tenebre.
C) Es 14,26-31: la marcia della fede e della libertà . I vv. 26-28 vedono le disposizioni divine per
l’annientamento degli Egiziani e la loro realizzazione. Del potente esercito egiziano (tanto temuto
al v. 10) non rimane neppure un superstite, Mosè aveva ragione. Gli Israeliti non vedono
l’annientamento dei nemici, anche in questo caso il lettore può prepararsi alla loro reazione di
timore e di esultanza. I vv. 30-31 rappresentano la conclusione del racconto, con un riassunto
dell’azione e del suo effetto sul popolo. Gli Israeliti addivengono al timore e alla fede in YHWH,
come pure nel suo servo Mosè. Davvero interessante è il loro itinerario, che il testo ci presenta: essi
passano dal timore/paura del v. 10 al timore vero/umiltà del v. 31, frutto di una conoscenza
acquisita per esperienza (passando per l’invito di Mosè a non temere al v. 14). Dall’altra parte del
mare, cambia il timore: non più la paura di morire ma il riconoscimento della potenza creatrice e
salvifica di Dio. Questa esperienza di fede rappresenta la vera liberazione. Si può anche parlare di
un itinerario della percezione per Israele: si vedano il verbo vedere al v. 13 e ai vv. 30-31.

Nel suo insieme, Es 14 descrive come si passa dal timore davanti agli Egiziani al timore di Dio;
dallo sgomento alla fede; dalla schiavitù alla libertà; dall’Egitto al deserto; dal potere del faraone al
regno di YHWH.
Il cap. 15 contiene il canto di vittoria, allo stesso tempo rendimento di grazie e professione di
fede: ad essere celebrato è il protagonista, YHWH. Rappresenta il confina tra la schiavitù e il cammino,
tra la “libertà da” e la “libertà per”. Cantico di Mosè, ma poi è cantico di Miriam; Cantico del mare, ma
lo è pure del monte. L’immagine di fondo è quella di Dio che combatte a fianco del suo popolo. Il
trionfo di YHWH si articola in un duplice movimento spaziale, di innalzamento/abbassamento. Ma il
Dio trionfatore è, allo stesso tempo, il Dio della creazione.
Comprendiamo perché Israele da secoli faccia Pasqua ogni anno, rivivendo l’evento della sua
nascita: non è solo ricordo dei tempi andati, ma “memoriale” (ziqqaron) = ripartecipazione viva di
quell’evento. In questo testo ci sono tutte le suggestioni della nostra Veglia Pasquale e, in generale,
della nostra liturgia: dove ad essere celebrata non è solo la nascita di un popolo ma la resurrezione di
Cristo, e in lui di tutti noi e di ciascuno di noi.

IL DECALOGO (Es 20,2-17; Dt 5,6-21)

Come capitolo di passaggio tra le narrazioni di Esodo considerate e i testi di Deuteronomio


che prenderemo in considerazione, ci soffermiamo su uno dei testi più celebri del Pentateuco, il
decalogo: un testo che ci offre l’opportunità di visitare, seppur in misura alquanto limitata, la
sezione legislativa della Torah.

Bibliografia: J. SCHREINER, I dieci comandamenti nella vita del popolo di Dio (Biblioteca biblica 5;
Brescia 1991)

W.H. SCHMIDT, I dieci comandamenti e l’etica veterotestamentaria (Studi biblici 114;


Brescia 1996)

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1. Caratteristiche generali della legislazione del Pentateuco
Circa la metà del Pentateuco è costituita da materiale di carattere legislativo: si tratta,
però , della metà sicuramente meno studiata e conosciuta. Il genere meno avvincente rispetto a
quello narrativo, l’enorme distanza culturale rispetto alla nostra concezione di diritto e di società ,
le contraddizioni rilevabili tra le varie normative presenti nei primi cinque libri della Bibbia, il
carattere spesso disorganico di queste raccolte non favoriscono sicuramente l’attenzione a
questo genere di testi: eppure anche a questi testi legislativi sono sottese concezioni teologiche e
antropologiche che contengono la rivelazione biblica.

Iniziamo col segnalare un contributo importante dato dal diritto biblico alla civiltà
occidentale. Infatti, sebbene un radicato pregiudizio della cultura umanistica italiana limiti ad
Atene e Roma le sorgenti della cultura e della civiltà occidentali, va ricordato che anche
Gerusalemme ha portato il suo rilevante contributo. Per quanto concerne il diritto, a differenza
sia del mondo mesopotamico che del mondo greco-romano, fin dall’inizio la legislazione dell’AT
si è rivolta con le medesime normative e con le medesime sanzioni a tutti gli strati della
popolazione, senza distinguere in linea di principio, tra classe dirigente e sudditi, tra “uomini
liberi” e “servi”. Dal momento che l’unico legislatore era YHWH nessuno poteva porsi al di sopra o
al di fuori della legge divina: prova ne sia il fatto che in molti testi dell’AT il comportamento del re
è valutato in base alla sua conformità ai comandamenti divini. Non sono previste (salvo poche
eccezioni) sanzioni differenti per lo stesso crimine a seconda della classe sociale del reo, come
avveniva, invece, nel mondo antico. Si tratta di una prospettiva “democratica” (non sempre
rispettata, in verità ) analoga a quella che E. Auerbach (Mimesis. Il realismo nella letteratura
occidentale (Torino 1964) ha evidenziato nella narrazione biblica. Mentre nella letteratura
classica greco-romana si distingue tra uno “stile alto” (riservato all’epopea e alla tragedia), che ha
come protagonisti solo personaggi delle classi altolocate, e uno “stile basso” (riservato alla
commedia e alla satira), ambientato tra le classi popolari, le narrazioni dell’AT tendono ad
annullare una tale distinzione in quanto sono storie di popolo con tutte le sue componenti: si
narrano sia gesta eroiche (cfr Davide e Golia) sia azioni banali (cfr la preparazione di un pasto
per gli ospiti in Gn18). Un altro aspetto che contraddistingue nell’AT il genere di testi che stiamo
prendendo in considerazione è la difficoltà nel distinguere tra morale e diritto: alcune leggi (che
non prevedono sanzioni) assomigliano a consigli morali, altre (specie quelle concernenti la
famiglia e il clan) sono simili a proverbi sapienziali. Altra caratteristica propria che differenzia il
diritto biblico dal diritto romano è la tendenza a far scomparire la distinzione tra il diritto
profano (ius) e il diritto sacro (fas) concernente il funzionamento del culto e i diritti dei sacerdoti
e dei santuari: se è vero che nell’AT sono chiaramente riconoscibili regolamenti riguardanti il
culto, è ancor più vero che ogni attività umana assume connotati sacri, dal momento che la
sovranità dell’unico Dio si estende a tutti i settori dell’esistenza.

Dinanzi a queste diverse normative e, in particolare, dinanzi ad alcune leggi specifiche (ad
esempio quella concernente il giubileo in Lv 25), è legittimo chiedersi se effettivamente tutte
queste disposizioni abbiano trovato applicazione nella storia di Israele. In base a studi accurati
effettuati sulla natura dei testi legislativi del VOA, siamo in grado di affermare che in quel
contesto i codici legislativi rinvenuti non erano necessariamente sempre destinati a normare la
vita di una nazione: in alcuni casi essi costituivano forse materiale di propaganda regale, una
sorta di “monumento celebrativo” della sapienza del sovrano cui erano attribuiti; in altri casi essi
rappresentavano semplicemente il frutto di esercitazioni accademiche in scuole di scribi o di
giuristi (in genere compiute su questioni complesse e/o paradigmatiche). Pare legittimo
71
ipotizzare che, almeno in parte, anche alcuni testi legislativi presenti nel Pentateuco abbiano
avuto la stessa origine e, forse, la stessa mancanza di applicazione: anche se non siamo in grado
di distinguere quali ebbero solo valenza teorica e quali ebbero effettiva rilevanza pratica. Questo
non inficia, evidentemente, la rilevanza che questi testi hanno per la teologia e per la fede,
analogamente a quanto abbiamo avuto modo di dire riguardo alla storicità delle narrazioni:
pertanto è importante per noi individuare le convinzioni sociali, antropologiche e teologiche
sottese a queste indicazioni normative.

2. Il decalogo: forme e suddivisioni


Il cosiddetto “decalogo” è presente nel Pentateuco, in due forme leggermente differenti, in
Es 20,2-17 e in Dt 5,6-21 (segnaleremo con attenzione le differenze in sede di analisi dei singoli
comandamenti). A motivo del suo particolare genere letterario e del suo contenuto sintetico, il
decalogo può essere considerato e citato (cf. l’episodio del “giovane ricco” in Mt 19,16-22 e //) a
prescindere dal contesto in cui è inserito: esso affronta aspetti di estrema importanza per la vita
della comunità israelitica, pur senza prevedere sanzioni specifiche. Non si ha alcuna distinzione
tra “leggi cultuali” e “leggi morali”. Tutto sommato l’aspetto oggettivo risulta preponderante
rispetto all’attenzione per le motivazioni, che sono taciute: l’ultimo comandamento pare
segnalare, tuttavia, una prima presa di coscienza della rilevanza dell’intenzionalità . La difficoltà
nel datare il decalogo sta, soprattutto, nel carattere atemporale dei suoi precetti, che non lasciano
intravedere riferimenti a un qualche contesto storico. Ciò ha consentito a Israele di vedere nel
decalogo l’espressione permanente della volontà di Dio: infatti, essendo decalogo inserito in una
autorivelazione di Dio, il suo contenuto non può essere considerato mutevole.

All’interno del decalogo si hanno comandamenti formulati in modo estremamente


sintetico (in ebraico il quinto, il sesto e il settimo sono costituiti solo da un verbo negato), accanto
ad altri che conoscono un certo sviluppo argomentativo. Tutti i precetti sono formulati in forma
negativa, tranne il terzo (che contiene, però , una parte negativa) e il quarto: la giustapposizione
di leggi positive e leggi negative in stretta successione è tratto caratteristico di tutta la
legislazione veterotestamentaria. A differenza di altre raccolte di leggi, entrambe le forme del
decalogo sono coerenti nell’uso della II pers. sing. per rivolgersi ai destinatari, mentre non è
coerente nell’uso della I pers. per riferirsi a colui che parla.

Riguardo all’enumerazione dei dieci comandi, occorre ricordare che nel testo biblico essa
non è presente come scansione numerica. Le enumerazioni sono successive e divergenti, già nel
TM: nel testo ebraico la lettera s (abbreviazione di setumah = pausa, chiusura) è stata utilizzata
per scandire in punti la serie delle richieste divine. È interessante osservare la divergenza tra la
scansione del testo di Es e quella di Dt. In Es si raggiunge soltanto il numero di nove
comandamenti, rispetto alla “nostra” enumerazione vengono accorpati gli ultimi due, quelli
relativi al “non desiderare”. In Dt, invece, grazie allo stesso segno si individuano i dieci
comandamenti cui siamo abituati. Una tradizione ebraica precedente ai masoreti e rintracciabile
per la prima volta in Filone raggiunge il numero di dieci tenendo insieme i nostri due ultimi
comandamenti ed evidenziando, tra i nostri primo e secondo, la proibizione della fabbricazione e
del culto delle immagini. Questa suddivisione è stata assunta, in seguito, da calvinisti e anglicani.
La nostra suddivisione (quella che conosciamo dal catechismo!!) risale, dunque, al testo di Dt e
deve la sua assunzione nella tradizione cristiana ad Agostino, da cui poi è passata anche nella
tradizione luterana. L’esigenza di una suddivisione in dieci comandi non è dovuta solo ad
esigenze di tipo mnemonico, ma si spiega con l’indicazione presente in Es 34,28, dove si afferma
72
che “Dio scrisse sulle tavole di pietra le parole dell’alleanza, le dieci parole”: a dispetto della
traduzione CEI questa medesima espressione torna anche in Dt 4,13 e 10,4. A detta di qualche
esegeta l’esigenza di dieci comandamenti sarebbe stata dovuta al desiderio di creare un parallelo
con le dieci parole creatrici di Dio presenti nel racconto di Gn 1 (vista l’ambiguità del testo questa
indicazione non pare molto verosimile).

La richiesta divina a Mosè di due tavole di pietra su cui scrivere i comandi (Es 34,1; cfr
pure 31,18 e 32,15; Dt 4,13 e 5,22) è stata interpretata come distinzione tra due differenti serie di
comandi all’interno del decalogo, distinzione che, di per sé, non trova fondamento nel testo
biblico. Così, a partire da Agostino, si parla tradizionalmente di comandamenti della prima tavola
in riferimento ai primi tre (che hanno come oggetto l’amore per Dio) e di comandamenti della
seconda tavola per gli ultimi sette (incentrati sull’amore per il prossimo). A tale lettura
tradizionale P. Bovati obietta che la ragione delle due tavole è da ricercare piuttosto nel modo in
cui si stipulavano gli antichi trattati di alleanza. Il decalogo si presenta come il documento
attestante l’alleanza conclusa tra YHWH e Israele. Nella stipulazione di un trattato era normale
che si scrivessero due copie del medesimo documento, una per ciascuno dei contraenti. Nel
nostro caso, le due tavole fanno riferimento a un unico testo redatto in duplice copia: una copia è
per Dio (e rimane custodita nell’arca), l’altra è tenuta da chi è incaricato di leggerla e di
insegnarla al popolo. Le due tavole sono segno permanente del fatto che sia Dio che il popolo
sono tenuti ad osservare questo patto.

Non è difficile immaginare la gran mole di lavori esegetici che sono stati dedicati a
scandagliare l’origine e la formazione delle serie attuali e ad interrogarsi (con esiti contrapposti)
sulla maggior antichità dell’elenco di Es rispetto a quello di Dt. L’ipotesi che il decalogo, a motivo
della sua concisione, risalga alle epoche più antiche della storia di Israele è ritenuta da tempo
eccessivamente semplicistica e non sostenibile con le comparazioni a testi contemporanei. I testi
attuali che contengono il decalogo portano evidenti i segni della loro elaborazione, al cui riguardo
il dibattito rimane aperto: si oscilla, fondamentalmente, tra chi pensa a una forma originaria
molto sintetica, oggetto, in seguito, di ampliamenti, e chi ipotizza origini differenti per i singoli
blocchi del decalogo, collegate insieme in un secondo momento.

3. Il contesto immediato
Pressoché identiche nel contenuto, le due forme del decalogo sono anche inserite in
contesti letterari affini sebbene non identici (accenniamo solo qualche aspetto, altri dati sono
stati forniti in sede di introduzione generale al Pentateuco). In Es il decalogo risulta pronunciato
da Dio sulla montagna del Sinai e, dunque, collegato con un’esperienza religiosa del popolo,
risalente al momento in cui Israele è diventato il “popolo dell’alleanza” (si veda il contesto
teofanico di alleanza presentato in Es 19). YHWH propone un’alleanza al popolo, che accetta (Es
19,4-8). In seguito, dopo la proclamazione di tutte le richieste divine, Israele reitera il suo
impegno (Es 24,3) e lo solennizza mediante la lettura del libro dell’alleanza accompagnata da riti
con aspersione del sangue (Es 24,6-8). Nella narrazione, l’alleanza viene presentata come un
avvicinamento reciproco tra i due contraenti (si legga, in questa prospettiva, il racconto dei
preparativi in Es 19,9-23): la vicinanza che si viene a creare non abolisce la distanza che
impongono i limiti fissati da Dio stesso. La narrazione di questi preparativi punta a chiarire quali
siano i limiti insuperabili di questa inaudita reciprocità .

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In Dt il decalogo si trova all’inizio del secondo grande discorso di Mosè, all’interno della
ripresentazione dell’alleanza all’Oreb. Si sottolinea qui che il valore dell’alleanza non è
circoscritto solo alla generazione che lo ha stipulato, ma per tutte le generazioni future di Israele.
Dt 5 (vv. 4-5.22.24-26) afferma che due elementi manifestarono all’Oreb la presenza di Dio: il
fuoco e la nube. La nube è un segno che, allo stesso tempo, manifesta e nasconde: la presenza di
Dio non si impone, ma chiede di essere interpretata (in tal modo la libertà del partner viene
sollecitata). Il fuoco, con le sue implicazioni di luce e calore, richiede l’individuazione della giusta
distanza grazie alla quale possa produrre i suoi effetti in modo benefico.

Mentre abitualmente le parole divine dei comandamenti passano attraverso la mediazione


di Mosè e non sono rivolte al popolo direttamente da Dio (cfr Es 20,22; 34,32; Dt 6,1 …), nel caso
del decalogo si registra una certa ambivalenza riguardo alla mediazione mosaica: essa è
affermata in Es 19,25 e negata al versetto immediatamente successivo; la medesima incertezza è
rilevabile in Dt 5,2-5.
È tipica, all’inizio di diverse raccolte giuridiche veterotestamentarie (cfr, ad esempio, Es 34,6;
Lv 19,2), l’autopresentazione divina in forma di prologo in I pers. Anche nelle due forme del decalogo
in nostro possesso è presente (Es 20,2 e Dt 5,6) la medesima formula di autopresentazione di Dio, che
lega la sua identità all’esperienza dell’esodo (nel TM le parole sono esattamente identiche, a differenza
che nella traduzione CEI che, in generale, non ha fatto alcun sforzo per tradurre in modo omogeneo le
due forme del decalogo): come in Es 6,2ss la rivelazione del nome divino era connessa alla promessa
della liberazione, anche qui l’identità di Dio risulta connessa a quell’evento decisivo (tale formula
ritorna anche in altri passi dell’AT: tra i più antichi si possono citare Os 12,10 e 13,4). In tal modo
storia e legge risultano parti inscindibili della rivelazione divina nell’AT.
Tale formula non è legata solo al primo comandamento, ma è prologo dell’intero decalogo:
indica che i comandamenti sono connessi all’autorivelazione di Dio. Dopo aver manifestato
nell’esodo la sua gloria e la sua sovranità su Israele, ora YHWH presenta i suoi comandi: sono le
sue richieste al popolo che, a suo tempo, aveva liberato senza porre condizioni previe. Il decalogo
incomincia, dunque, prospettando una relazione tra un io e un tu: una relazione di tipo personale
che costituisce ciò che siamo soliti chiamare “alleanza”. Questa parola che introduce la relazione
non è un comando, ma memoria del dono originario, la liberazione. Non si tratta di un episodio
ormai confinato nel passato, ma dell’essenza stessa della relazione: l’esodo si configura, dunque,
come evento originario, fondatore (immagine di una nascita?). I comandamenti non configurano
una nuova schiavitù , sono un appello che presuppone la libertà (non a caso è la terra d’Egitto ad
essere definita ~dIb'[] tyBe = casa, condizione di servi). Fondamento del diritto esposto in
seguito è dunque un atto gratuito di benevolenza: il Signore non era obbligato a salvare Israele. Il
decalogo non è il contraccambio per questa benevolenza, che rimane in ogni caso impagabile. La
logica è piuttosto quella di un amore che chiede riconoscimento esplicito del suo dono.

Salendo, poi, a un piano teologico-sintetico, possiamo porre alcune affermazioni.

+ Le dieci parole indicano a Israele come evitare il ritorno in Egitto e come impegnarsi
nell’alleanza con il Dio che gli dona libertà e vita. Osservare i comandamenti non è esigito solo dal
timore nei confronti di Dio, ma anche dall’annessa promessa di vita e di felicità (cfr Dt 5,29; 6,20-
24). Colui che ha dato a Israele la libertà e la vita gli offre pure delle parole per indicare il
cammino verso il conseguimento pieno di tali doni. Il fatto stesso che la maggior parte dei
comandamenti sia presentata in forma negativa lascia maggior spazio alla libertà umana rispetto
alla formulazione positiva: una volta chiarito ciò che non dev’essere fatto rimane spazio aperto
74
per la libertà umana. I divieti del decalogo aprono a uno spazio non delimitato in cui Dio non
chiede nulla all’uomo se non di esercitare la propria libertà .

+ Abbiamo avuto modo di rilevare l’uso incoerente della I pers. all’interno del decalogo, come
abbiamo rilevato l’ambivalenza dei locutori nei vv. che lo introducono (cfr Es 19,25-20,1 e Dt 5,4-
5): un equivoco che può nascondere un dato teologico. Il decalogo risulta essere,
inseparabilmente, parola divina e umana, incontro di volontà divina e mediazione di Mosè.

+ L’alleanza si gioca su una esatta delimitazione tra prossimità e distanza nelle relazioni tra
YHWH e il suo popolo. Il decalogo delimita in termini giuridico-morali le relazioni reciproche, il
“posto” dei due partners dell’alleanza, analogamente a quanto abbiamo visto prospettato in
termini narrativi dal contesto prossimo, preoccupato di collocare Dio e il popolo nella giusta
posizione in occasione della stipulazione dell’alleanza.

+ Analogamente a quanto affermato in termini narrativi circa le caratteristiche della teofania


dell’Oreb (sintetizzato nei simboli della nube e del fuoco), anche nel decalogo Dio si nasconde
nello stesso momento in cui si rivela e richiede al popolo di collocarsi in modo adeguato. Così i
comandi negativi pongono chiaramente dei limiti, ma non articolano comportamenti dettagliati,
lasciati alla libertà del popolo e al suo amore per Dio.

4. La proibizione delle divinità straniere (Es 20,3; Dt 5,7): ovvero l’esclusività della fede
I primi tre comandamenti sono omogenei. Proibendo determinate pratiche cultuali, essi
trattano del rapporto di Israele con Dio. È possibile che essi fossero, inizialmente, semplici
proibizioni, che però , a motivo della loro importanza per la concezione israelitica di Dio,
acquistarono un significato determinante e distintivo.

Nel TM la formulazione del primo comandamento è identica nei nostri due testi. In questo
primo comandamento risulta di difficile traduzione il sintagma y:n"P'-l[;. Le traduzioni
prospettano una varia gamma di opzioni: accanto, vicino, di fronte, alla presenza di, contro, al di
sopra, a svantaggio, eccetto … La preposizione ha una tale gamma di significati che quasi tutte le
traduzioni proposte possono trovare attestazione in altri passi dell’AT. Per quanto suoni un po’
neutra, la traduzione “davanti a me” resta ancora la migliore. La possibile oscillazione semantica
tra un senso locale e un senso di ostile contrapposizione pare voluto: è possibile che
originariamente il primo comandamento mirasse ad escludere la presenza di altre divinità nel
luogo di culto.

È stata molto dibattuta l’ipotesi che qui si affermi il monoteismo. Ma “avere altri dei”
secondo l’AT significa render loro culto: si tratta dell’adorazione di Dio nella pratica, non nella
speculazione sul numero degli dei. Pare oggi assodato che solo nel periodo esilico e postesilico
(grazie alla predicazione del deuteroIs e all’approfondimento della th dtr e di quella P) avvenne,
nella coscienza di Israele, il passaggio dalla monolatria (l’adorazione di un solo Dio, che non
esclude l’esistenza di altri dei) al monoteismo (la fede in un unico Dio che esclude, per principio,
la fede nell’esistenza di altri dei: YHWH è l’unico Dio) [alcuni studiosi segnalano come stadio
intermedio l’enoteismo, in base al quale ogni popolo sarebbe legato a un suo Dio]. Già Wellhausen
aveva affermato che il monoteismo era sconosciuto all’Israele antico: YHWH era il Dio di Israele,
solo più tardi è diventato il Dio universale. Si trattò , in base a quanto ci è dato arguire anche da
75
alcuni significativi rilevamenti archeologici, di un passaggio graduale sia nel contenuto che
nell’accettazione da parte dei diversi strati della popolazione.

Non pare proprio che il decalogo parli di monoteismo: non si afferma che c’è un solo Dio
(cfr Is 45,6.12.21), ma che occorre legarsi solo al Signore e non ad altri dei. Si tratta, comunque, di
un dato originale nel panorama del VOA: non risulta che gli altri popoli circostanti abbiano mai
avanzato la pretesa che le loro divinità fossero così esclusive. Il comandamento esclude, dunque,
la presenza di altri dei accanto a YHWH in Israele. Tale appartenenza esclusiva non tollera altri
dei: il problema cui questo precetto vuol rispondere è quello del sincretismo (cfr, come
illustrazioni pratiche di questo comandamento, Gs 24,18-23 e 1Re 18,21), attraverso l’invito a
una scelta radicale in favore di YHWH. L’immagine sponsale (tipica della tradizione profetica)
esprime bene questa esigenza dell’alleanza: il Signore è come il marito di una donna che, se legata
ad altri amanti, può diventare adultera o prostituta.

È bene cogliere anche alcune implicazioni secondarie del primo comandamento per la fede
di Israele.

+ Il primo comandamento implica una critica ai miti: per Israele non è possibile presentare la
cosmogonia come teogonia, allo stesso modo non è possibile alcun culto degli astri. Abbiamo già
avuto modo di rilevare che quando la Bibbia prende a prestito dalla cultura mesopotamica alcuni
paradigmi narrativi, lo fa con le modifiche rese necessarie dall’esclusività della sua fede.

+ Questa affermazione perentoria della fede in YHWH ha comportato, rispetto ad altre culture
antiche, un notevole ridimensionamento di sviluppi demonologici, di possibili autonomie
riconosciute al male, alla morte, allo sheol. A seconda delle sensibilità teologiche, queste realtà o
sono state poste sotto il controllo divino o sono state legate alla responsabilità dell’uomo.

+ Nella spiegazione di questa esclusività della fede in YHWH e nella sua applicazione ai diversi
ambiti della vita pare abbia giocato un ruolo decisivo la predicazione profetica, a partire dai
profeti più antichi (cfr Elia).

Se si legge il primo comandamento in stretta connessione con il prologo immediatamente


precedente, si può rilevare un passaggio dall’affermazione della sovranità di Dio su Israele alla
pretesa dell’esclusività . Ma rispetto al prologo, il primo comando può essere letto come
espressione della volontà di Dio di salvaguardare la libertà del popolo, minacciata dagli altri dei.
Ogni divinità si presenta sempre come essere assoluto dinanzi al quale l’essere umano è relativo:
la libertà e la vita di quest’ultimo possono essere messe in gioco dinanzi all’assoluto divino (fino
all’estremo caso dei sacrifici umani). La rivelazione biblica presenta un Dio che non si pone in
modo assoluto, ma che riconosce il tu dell’uomo, la sua dignità di interlocutore. Per questo Israele
trova la sua fortuna quando aderisce senza riserve all’alleanza con un simile Dio, così differente
dagli altri: l’assoluto di YHWH non scalfisce la libertà di Israele ma le dona la possibilità di
scegliere in modo autentico l’alleanza.

5. La proibizione delle immagini (Es 20,4-6; Dt 5,8-10)


A livello di TM, la formulazione del secondo comandamento è identica nelle due forme,
tranne differenze insignificanti (presenza o assenza di qualche w). Questo secondo
comandamento è articolato in tre richieste, formulate in modo negativo: non fare, non prostrarti,
non servire. Si tratta di tre verbi tipici dell’ambito semantico cultuale. Al v. 5b di Es a al v. 9b di
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Dt, la terza richiesta è seguita da una motivazione. Tale motivazione, però , pare riferirsi non solo
al secondo comandamento, ma all’insieme de primi tre. A livello di traduzione, nel primo versetto
troviamo l’espressione hn"WmT.-lk'w> ls,p,: il primo termine significa “immagine scolpita,
statua”, qualcosa che è stato fuso, prodotto di una lavorazione che gli ha conferito una certa
forma; il secondo termine significa “immagine”. Nell’AT il primo termine non si riferisce mai a
un’immagine profana (non è qui in gioco una valutazione delle arti figurative), ma a un’immagine
cultuale (il comandamento mira dunque ad impedire un’errata concezione di Dio). In Es si tratta
di una sorta di endiadi (= statua o qualsiasi altra rappresentazione), mentre in Dt (dove manca il
w congiuntivo) si ha a che fare con uno stato costrutto: letteralmente si tratterebbe di una
“immagine di qualsiasi rappresentazione”, in modo ridondante si afferma il divieto di produrre
qualsiasi oggetto che rappresenti qualcos’altro.

Nel medesimo versetto le espressioni introdotte dalle particelle relative si riferiscono


probabilmente a realtà che si suppongono essere in cielo o sulla terra: Dio non è comparabile né
rappresentabile con nessuna creatura. Si proibisce, dunque, la riproduzione di qualunque
immagine che possa avere valore sacro e diventare oggetto di adorazione: qui non è in gioco solo
la produzione di idoli, ma pure la trasformazione di creature di qualsiasi tipo in “forme da
adorare”. Il ricorso alla radice db[ (= servire) esprime chiaramente che il culto agli idoli va in
senso contrario rispetto alla liberazione.

Si tratta di comandi che dicono la stessa cosa in modo diverso, ridondante, al fine di
sottolineare l’importanza del loro contenuto per la fede e l’identità di Israele. Il sincretismo
avversato dal primo comandamento poteva tradursi in statue, culti o santuari. Di fatto, l’idolatria
fu un problema ricorrente nella storia di Israele, frequentemente attestato nella tradizione dtr, in
quella profetica e in quella sapienziale. In modo più subdolo poteva anche consistere nel prestare
culto a YHWH ma trattandolo, di fatto, come una delle divinità pagane, secondo l’immagine che ci
si è fatti. Non si proibisce soltanto l’idolatria, ma anche l’atto con cui si rende Dio un idolo.

Possiamo menzionare, come simbolo di tale problematica, l’episodio del vitello d’oro: il
vitello, infatti, non è immagine di un’altra divinità ma di YHWH stesso ed è segno della fatica del
popolo ad accettare la sola “parola” di YHWH. Con il peccato di Geroboamo e i suoi due vitelli
d’oro siamo dinanzi a un tentativo di “baalizzazione” di Dio (cf 1Re 12,28): non si parla di
apostasia ma del rischio di una rappresentazione di YHWH (rischio e non necessariamente
intenzione, dal momento che è probabile che i due vitelli fossero ideati come piedistallo di
YHWH, analogamente all’arca di Gerusalemme).

Ecco perché, traendo le conseguenze pratiche del primo comandamento, viene formulato
il secondo che sottolinea particolarmente la dimensione cultuale. Anche il culto, dunque, può
essere ambiguo in se stesso: non basta avere un culto per essere religiosi, occorre che il culto sia
rivolto al Dio vero. Occorre evitare, a proposito di questo comandamento, di eccedere nella
contrapposizione tra la “spiritualità ” della religione israelitica e la “materialità ” delle religioni
politeistiche: intanto anche perché presso tali religioni la divinità non si identificava con il
simulacro ma si esprimeva mediante esso; in secondo luogo (cfr von Rad) perché tale
provvedimento in Israele per un verso esprimeva la radicale inadeguatezza di qualsiasi
rappresentazione di YHWH, per altro verso mirava a salvaguardare la trascendenza e la libertà di
rivelazione di YHWH stesso (nell’AT non è rintracciabile una contrapposizione tra spirituale e
materiale).
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Nello stesso tempo è vero che anche questo comandamento rappresenta una caratteristica
propria di Israele nel panorama del VOA: per i popoli limitrofi gli dei hanno sembianze
percepibili, una divinità senza immagini avrebbe rappresentato un fatto innaturale. Solo
nell’immagine era possibile incontrare e adorare Dio: distruggere tali immagini era considerato
sacrilegio. In questo contesto (non in altri contesti del mondo antico, dove è attestato il culto
aniconico), il secondo comandamento rappresenta qualcosa di inaudito. Pare anche di poter
affermare che la rilevanza di questo divieto cultuale fu percepita gradualmente nella storia di
Israele (in modo analogo alla presa di coscienza monoteistica legata al primo comandamento):
simboli, immagini e oggetti del culto inizialmente ritenuti neutri soprattutto nelle forme cultuali
periferiche (steli, terafim, …), vennero in seguito banditi perché ritenuti ambigui e, dunque,
pericolosi.

Se il primo comandamento esclude altri dei per Israele, il secondo mira a preservare la
forma dell’adorazione dell’unico Dio. Schematizzando possiamo cogliere da questo
comandamento tre indicazioni.

+ Il vero Dio non può essere ridotto a una cosa. Egli è “incomprensibile”, non può essere ridotto a
qualcosa di oggettivo e manipolabile (si eviterebbe in tal modo la deriva magica), non può essere
circoscritto in una sua rappresentazione.

+ Si evidenzia l’alternativa tra il fare e l’adorare, tra la produzione di un manufatto (che


rappresenta un esercizio di potere) e l’atto di adorazione (che esprime una dipendenza e,
dunque, un’obbedienza). L’adorazione dice, infatti, il bisogno di Colui che è l’origine del proprio
essere: laddove c’è orgoglio e autonomia si corre il pericolo dell’idolatria.

+ Questo comando viene collegato con la storia delle origini. Il popolo di Israele entra davvero
nell’alleanza quando riesce a rinunciare alla visibilità di Dio, ad un Dio di cui disporre e di cui
avere certezza: in questo consiste la sua maturità di fede.

A differenza che nel primo comandamento, per questo secondo vengono portate delle
motivazioni o, meglio, indicazioni della prospettiva positiva che si apre con l’osservanza del
precetto (a partire dal v. 5b in Es e dal v. 9b in Dt). Se l’espressione “io il Signore tuo Dio” ricorre
identica a quanto abbiamo rilevato nel prologo, diverso ne è lo sviluppo: mentre nel prologo essa
era riferita al passato, a quanto YHWH aveva compiuto alle origini di Israele, qui essa è inserita in
una sorta di definizione di Dio: troviamo, infatti, l’aggettivo “geloso” seguito da participi che
sintetizzano le manifestazioni sia presenti che future di Dio nella storia. E nella storia YHWH si
manifesta come un Dio a due volti: “che punisce la colpa” e “ma che usa misericordia”.

Con la gelosia di Dio l’AT afferma il fatto che YHWH non tolleri che l’adorazione dovutagli
sia prestata ad altri e la veda come un affronto alle proprie prerogative. Il Dio geloso si manifesta
secondo una dimensione retributiva: punisce chi fa il male e premia chi fa il bene, agisce come un
Dio di giustizia. Tuttavia, anche questo sistema retributivo risulta squilibrato, asimmetrico. La
punizione si estende “ai figli fino alla terza e alla quarta generazione” (dunque per un tempo
limitato, forse quello osservabile nel corso dell’esistenza di una persona), mentre la misericordia
si estende “fino a mille generazioni” (espressione iperbolica per indicare un tempo indefinito,
forse tutta la storia degli uomini o, addirittura, tutta l’eternità ).

Alcune espressioni presenti in queste motivazioni possono lasciarci perplessi.

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/ Perché il Dio della misericordia punisce? Dio, infatti, si rivela nella storia come il Dio della
collera nei confronti del peccato. Tale sua collera non va intesa come espressione di aggressività ,
ma di amore verso Israele e di fedeltà all’alleanza. Se YHWH non manifestasse la sua collera, non
rivelerebbe all’uomo la gravità del peccato e la sua paternità , che desidera salvarlo.

/ Perché la sua punizione non è individuale, ma si estende alle generazioni seguenti? Si tratta di
un aspetto tipico della sensibilità di Israele, che si percepisce come personalità corporativa. Nella
mentalità di Israele, inoltre, il peccato non si esaurisce nell’episodio e con l’individuo, ma ha
conseguenze durature nel tempo (tanto più se il peccatore ha responsabilità sociali: dal re al
padre). Ora, venendo a questo secondo comandamento, se l’idolatria è il rifiuto di essere figli, di
ricevere la vita da Dio, tale peccato produce una punizione nella paternità : il peccatore vede la
sua vita non espandersi da sé. L’esigenza è quella di invitare l’Israelita ad evitare il peccato,
richiamandolo alla responsabilità per amore dei figli.

/ Di per sé questa punizione riguarda solo l’idolatria, il peccato contro Dio: ciò significa che Dio
badi solo a se stesso e non ai “peccati sociali” (quelli concernenti il rapporto con gli altri)? La
sanzione mira solo ad evidenziare la rilevanza del comandamento (e degli altri due connessi),
l’intenzione vuol essere pedagogica: la gravità di questi peccati era meno facilmente percepita da
Israele rispetto alla gravità dei “peccati della seconda tavola” (come, pure, oggi).

Questo secondo comandamento va considerato nella sua matrice culturale, il suo valore
etico non pare universale: di fatto la tradizione cristiana non ne ha rispettato la lettera. Non
cogliendo, forse, la preoccupazione per la giusta adorazione di Dio in esso contenuta, già Agostino
lo ha considerato una superflua esplicitazione del comandamento precedente, mentre Lutero,
secoli dopo, ne ha considerata superata la problematica, dal momento che il NT presenta Cristo
come unica vera immagine e rivelazione di Dio. L’insieme dell’AT ci indica che molteplici sono le
immagini con cui si parla di Dio: il divieto di farsi immagini materiali di lui dice che Dio è
riconoscibile da una somma di immagini. Fissarlo in una soltanto, costringerlo in una sola
prospettiva significherebbe non riconoscerne la trascendenza e la libertà : il che negherebbe la
possibilità di ogni autentica alleanza.

6. La proibizione relativa al nome divino (Es 20,7; Dt 5,11)


Il testo ebraico delle due forme di questo comandamento corrisponde letteralmente. La
forma avverbiale aw>V'l; (= vanamente, senza motivo) riprende il valore semantico dello
stesso sostantivo, che di per sé significa “vanità , inconsistenza, falsità ”. Soprattutto in ambito
ebraico (ma non solo) è stata sostenuta la possibilità di tradurre questo comando con “non
giurare il falso nel nome del Signore tuo Dio”: ma non pare che si possano trovare argomenti
convincenti nell’AT. Pare, invece, che il significato originario avesse un’ampia estensione
semantica, mentre in seguito (già in epoca veterotestamentaria) fu interpretato nel senso di non
giurare il falso. La motivazione del comandamento è contenuta in una proposizione causale
subordinata, contenente una minaccia generica e una ripetizione del fatto. Rispetto alla
formulazione dei primi due comandamenti, in questo si assiste al passaggio dalla I alla III persona
per quanto riguarda Dio: su questo aspetto sono state fatte molte illazioni di tipo diacronico,
nessuna delle quali decisiva.

Nell’antico Oriente il nome ha una portata maggiore che nella nostra cultura: non è
un’etichetta arbitraria, esprime la natura e la peculiarità di una persona (gli esempi, dai profeti a

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Gesù , sono molteplici). Conoscere il nome di una persona significa anche avere un certo potere su
di essa: la si può identificare, se ne conosce il clan di appartenenza, la si può chiamare. Così pure
l’uomo che si sottomette al suo dio vorrebbe conoscerne il nome (in un contesto politeistico ciò è
assolutamente necessario).

Anche Israele sa che il suo unico Dio ha nome YHWH: con esso egli è presente al suo
popolo, con esso egli può essere invocato. Tale conoscenza non è originaria, ma frutto di una
rivelazione da parte di Dio stesso a Mosè (cfr Es 3). Dall’insieme dell’AT emerge la rilevanza
attribuita al nome di Dio. Se per un verso esso era motivo di lode e di benedizione (si pensi alla
tipica espressione “invocare il nome del Signore”), per altro verso l’uso scorretto del nome di
YHWH era un pericolo sempre incombente, a motivo della sua sacralità che non ammette
profanazioni. Il nome è, per così dire, il lato di Dio rivelato, rivolto verso Israele: esso contiene la
possibilità di accesso a Dio, non se ne può disporre arbitrariamente. Se tale radicata concezione è
comunemente ritenuta come parte antica della fede di Israele, fu soprattutto la th dtr a metterla
particolarmente in evidenza. Obiettivo del precetto è di salvaguardare la sacralità del nome
divino da ogni possibile abuso estraneo al culto (specie nel caso di pratiche magiche, di
giuramenti falsi o di false profezie), come pure da un culto vanamente formale e ritualistico. Più
in profondità , si fa riferimento a ogni professione di fede usata per coprire un atteggiamento che
la smentisce.

Di per sé, la motivazione portata nella seconda parte, contiene una vera e propria
sanzione: manca, però , una determinazione precisa di essa, anche perché essa non può procedere
da un giudizio umano, ma da quello di Dio stesso. Questa è l’intimazione della motivazione del
comandamento: chi abusa del nome di YHWH si appella a Dio come giudice contro di sé.

Con l’andar del tempo il comandamento è stato inteso sempre più rigidamente, fino ad
evitare la pronuncia del tetragramma sacro e l’uso del nome di Dio in generale: in Est, Qo, Ct e nei
discorsi di Giobbe il nome di Dio non ricorre quasi mai, mentre altrove viene alluso in vario
modo. Questa concezione va oltre l’intenzione del comandamento: essa è motivata, piuttosto,
dall’attesa della santificazione del nome di Dio nel tempo della salvezza e dalla concezione
secondo cui la santificazione del nome divino rappresenta il compimento del significato positivo
del comandamento (concezione che arriva fino all’invocazione contenuta nel Padre nostro
riguardo al nome divino).

7. Il comandamento del sabato (Es 20,8-11; Dt 5,12-15)


Si tratta del comandamento dalla formulazione più estesa. Il primo versetto introduce la parte
positiva con un infinito assoluto, che suona come un energico imperativo. I vv. successivi descrivono la
maniera in cui dev’essere santificato il sabato, prima accennando al lavoro che si deve compiere
nell’arco dei sei giorni, poi con la proibizione del lavoro nel settimo: i soggetti al divieto vengono
minuziosamente elencati. In tale elenco sorprende l’assenza di ogni riferimento alla donna: non è
ipotizzabile, infatti, che tutte le famiglie israelitiche fossero così grandi e ricche da poter esentare la
donna e la madre dal lavoro (qualcuno ha ipotizzato che la donna sia, al pari dell’uomo, destinataria del
comandamento, visti gli iniziali infiniti assoluti, di per sé indeterminati e nonostante i successivi
suffissi maschili).
In entrambe le forme l’ultimo v. viene riservato alla motivazione del comandamento.
L’impressione è che alle formulazioni attuali del comandamento abbiano concorso segmenti
differenti, sorti in periodi diversi. La ricerca di un’istituzione settimanale parallela presso altri

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popoli del VOA, da cui Israele avrebbe attinto la matrice del sabato, non ha dato esiti univoci e
convincenti.

Proprio riguardo a questo comandamento si registra la differenza più rilevante tra il testo
di Es e quello di Dt. Oltre ad alcune differenze minori concernenti la formulazione, la divergenza
maggiore riguarda la motivazione cui viene legato il sabato: Es 20,11 riallaccia il comandamento
al riposo di Dio il settimo giorno della creazione (si argomenta a partire dalla th della creazione);
Dt 5,15 lo riallaccia all’esperienza dell’esodo (preferendo la th della storia della salvezza).

Da un punto di vista storico, è opinione comune tra gli studiosi, a partire da Wellhausen,
che il sabato rappresenti uno dei segni più antichi dell’identità religiosa di Israele, anche se nulla
sappiamo del culto o delle funzioni religiose che venivano svolti in questo giorno. Tuttavia, fu
l’esilio a rappresentare una svolta decisiva nella concezione del sabato. Poiché per i deportati il
culto sacrificale è ormai impossibile, acquistano maggior peso usi e costumi della fede in YHWH
che possono essere osservati anche lontano dal tempio. Così la santificazione del sabato assurge
al livello di segno distintivo della professione di fede. Come la circoncisione, anche il sabato viene
ad essere parte essenziale dell’alleanza eterna tra Dio e il suo popolo. A questo crescente
significato del comandamento del sabato corrisponde, nel successivo corso della storia, un
inasprimento del precetto, fino a forme di rigidità e di scrupolo: contro tale fenomeno prenderà
posizione la comunità cristiana nascente, che in seguito trasferirà alla domenica il
comandamento del sabato.

Per quanto riguarda il contenuto del comandamento, il sabato ha una dimensione religiosa
(= è per il Signore tuo Dio, appartiene a Lui). Il comando riguarda il tempo (sei giorni lavorerai …
ma il settimo …): nel ritmo del tempo bisogna dunque attuare una separazione, il tempo
dell’uomo viene diviso in due blocchi asimmetrici. Il settimo giorno viene separato dagli altri e
riceve un nome specifico: questa separazione è ciò che lo santifica (si noti, nella formulazione, la
posizione di rilievo della radice vdq, che può significare tanto separazione che santificazione),
più che le pratiche religiose pur fatte per il Signore. È il rapporto tra i due tempi dell’uomo
(quello del lavoro e quello del riposo) che dà senso al sabato: senza lavoro non c’è sabato, senza
sabato il lavoro diventerebbe alienante e perderebbe la sua finalità , perché verrebbe a mancare il
godimento, la fruizione del frutto del lavoro stesso.

Il comando centrale è “non fare opera alcuna”: per “fare” il giorno di sabato occorre
dunque “non fare”. In Dt, a differenza che in Es, il lavoro non risulta qui partecipazione positiva
all’opera creatrice di Dio, ma è paragonato alla schiavitù : il sabato, degno di Dio, è la libertà . Il
“non fare” del sabato è “riposare”: non è semplice inattività , ma ingresso nella dimensione del
riposo. Nella lista di chi è chiamato a questo riposo è da rilevare il riferimento al forestiero: in tal
modo, secondo Dt, l’israelita è chiamato a comportarsi nei suoi confronti nello stesso modo in cui
YHWH si è comportato con lui quando era forestiero in Egitto.

Sia in Es che in Dt il sabato è collegato con il ricordo di un atto fondatore. In Es si tratta


della creazione (il riferimento è al primo racconto genesiaco), in Dt della liberazione, dell’uscita
dall’Egitto. Mentre in Dt l’imitazione di Dio consiste nel fare, in Es consiste nel ricordo di un non-
fare di Dio.

In Es la spiegazione eziologica del comandamento inserisce la santificazione del sabato


nella struttura dell’universo. In questa tradizione il comandamento del sabato non viene dato per

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la prima volta ad Israele al Sinai, ma al Sinai per la prima volta Israele viene invitato a ricordarsi
di ciò che avrebbe dovuto essere un dovere fin dall’inizio. Come nel racconto genesiaco Dio
sospende la sua attività creatrice per porre un limite tra sé e il creato e per dare spazio al lavoro
umano, così l’uomo è chiamato a porre un tempo di riposo per restituire tale lavoro a Dio e per
evitare di trasformare la sua attività in una forma di idolatria onnipervasiva.

In Dt questo comandamento è motivato con il ricordo storico della schiavitù di Israele in


Egitto. Il sabato è paragonato all’uscita dall’Egitto, mentre i sei giorni sono paragonati al tempo
della schiavitù . Il sabato è dunque la memoria di quanto il Signore ha fatto “con mano potente e
braccio teso”. L’uomo partecipa al sabato non facendo, lasciando cioè che sia il Signore ad agire
nella sua vita. L’uomo non si dà salvezza, ma lascia che il Signore sia presente nella sua storia con
l’atto originario, fondatore della sua libertà . Il comandamento riguarda non solo il rapporto con
Dio, ma anche con i figli, i servi, gli animali domestici e i forestieri. Il pater familias, colui che ha
autorità sul clan, non comanda per aggiogare gli altri, ma per togliere il giogo: nel giorno di
sabato egli è chiamato ad attuare la liberazione nei confronti dei suoi sottoposti (in questo senso
è pienamente comprensibile che il sabato sia stato fatto per l’uomo: cfr Mc 2,27). In quel giorno
tutti sono uguali, le diversità di ruolo che si riscontrano negli altri giorni vengono risolte. Nel
testo del Dt, inoltre, per ben due volte ricorre il verbo “comandare”, assente invece nel testo
dell’Es: l’osservanza del sabato, ricollegata alle tradizioni dell’esodo, è normativa perché stabilita
da Dio.

Il valore di questo comando non è di natura etica, legato alla struttura antropologica
dell’uomo: è piuttosto un segno parziale di un valore assoluto. Essendo simbolico, ciò che importa
non sta nella materialità degli atti ma in ciò che esprime.

+ La scelta di un giorno piuttosto che un altro è del tutto arbitraria: dipende, a detta di qualche
studioso, dal calendario lunare di 28 giorni. Il sabato indica la totalità della vita: quello che viene
significato un giorno alla settimana (la libertà ) è ciò che deve caratterizzare anche tutti gli altri
giorni.

+ Il riposo è concesso a tutti, è il segno che il padrone vede nel servo non solo un servo ma anche
colui che è uguale a sé: anche il forestiero viene a partecipare di questa libertà . In tal modo la
propria casa non viene ridotta a una “casa di servi” assimilabile, in base a quanto detto nel
prologo, all’Egitto.

+ La menzione (in Dt) di un riposo del bue e dell’asino indica ulteriormente che siamo su un
piano simbolico: non ci dev’essere nessun vivente la cui vita non debba essere coinvolta in questo
riposo.

+ Il sabato, secondo Es 31,17 e Ez 20,12, è “segno”. L’uomo può essere chiamato a viverlo solo in
maniera simbolica: è morte a se stessi per ricevere tutto da Dio.

+ L’osservanza del riposo settimanale dal lavoro diventa così una professione di fede.

8. Il comandamento sui genitori (Es 20,12; Dt 5,16)


La formulazione del comandamento ricorre in buona parte identica nelle due forme: il Dt
aggiunge un inciso per sottolineare che è richiesta la conformità a un comando divino e formula
in modo più esteso la promessa conclusiva. La radice verbale utilizzata, dbk (= onorare), ha una

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valenza semantica più ampia del semplice obbedire: essa significa riconoscere a una persona
l’importanza che ha, apprezzare, mostrare rispetto, con una sfumatura di carattere affettivo. È un
verbo utilizzato frequentemente per descrivere la risposta dell’uomo a Dio (in questo caso si
avvicina al senso di “adorare”). Come espressione antonima segnaliamo il contenuto di Es 21,
(15.)17, dove ricorre la radice llq (= maledire, dichiarare spregevole) esatto contrario del nostro
dbk. Oggetto del nostro comandamento sono entrambi i genitori, senza distinzioni di sorta.
Nella formulazione attuale il comandamento funge da ponte tra i comandamenti della “prima” e
quelli della “seconda” tavola: se ai successivi lo lega il contenuto (da qui in avanti incentrato sui
rapporti con il prossimo), l’esplicito riferimento a Dio (da qui in avanti assente) lo accomuna ancora ai
precedenti. Anche questo comandamento, come il precedente, è espresso in forma positiva ed è
accompagnato da una promessa invece che da una motivazione teologica.
Questo quinto comandamento non è indirizzato a dei bambini, dal momento che il decalogo
(come ovvio nella mentalità antica) non si rivolge a loro. In parte esso può ricordare ai giovani la
necessaria sottomissione alla patria potestas: secondo la tradizione (cfr, ad esempio, Dt 21,18-21)
obbedire ai genitori significa obbedire a Dio. Ma soprattutto questo comando è indirizzato all’israelita
adulto, perché si ricordi che attraverso i genitori è stato immesso nella vita ed è diventato partecipe
delle promesse. Inoltre il comando è un invito a venire in aiuto al genitore infermo, divenuto incapace
di provvedere a se stesso: la potenza di vita e i beni che sono stati ricevuti da loro vengono così loro
restituiti. Essi, quando inattivi, non possono essere allontanati o maltrattati dai figli, devono essere
rispettati nella loro dignità e devono essere aiutati anche nelle loro esigenze materiali (fino a garantire
loro adeguata sepoltura). Più che affermare un’autorità, il comandamento in forma positiva mira,
dunque, soprattutto a salvaguardare i genitori (nel momento in cui diventano deboli e dipendenti) da
comportamenti negativi o anche solo dall’indifferenza dei figli.

Questo è l’unico comandamento legato a una promessa: se si rispetta il dono ricevuto


attraverso i genitori e lo si ricambia, i giorni si prolungheranno in una vita felice. L’espressione
“perché si prolunghino i tuoi giorni” non indica solo un’estensione nel tempo, ma anche
l’abbondanza di benedizioni per una società che vive secondo i precetti divini. La menzione della
terra concorre a rendere un’idea di prosperità .

Prima di entrare nello specifico del comandamento successivo, segnaliamo che tutti i
comandamenti restanti non sono accompagnati da alcuna motivazione né da parte di Dio né da
parte del legislatore: è come se fossero evidenti di per sé. Mentre i primi comandamenti sono
tipici della tradizione religiosa di Israele (e quindi necessitano di una spiegazione specifica),
questi ultimi sono comuni anche agli altri popoli. Questi comandamenti si presentano come due
triadi in parallelo. La prima triade (Dt 5,17-19) tratta in forma estremamente sintetica dei delitti
come tali e riguarda, appunto, l’ambito dei rapporti con il prossimo: vita, moglie, beni. La seconda
triade (Dt 5,20-21) sviluppa un parallelismo esplicito con la prima, affrontandone le cause
principali. Riguardo a questi comandamenti, Dt rispecchia una riflessione più approfondita di Es
e una maggiore sensibilità pedagogica.

9. La proibizione dell’omicidio (Es 20,13; Dt 5,17)


La concisa formulazione di questo sesto comandamento è identica in Es e in Dt. La radice
verbale utilizzata, xcr, non è molto frequente (46 ricorrenze) nell’AT rispetto ad altre radici dal
significato analogo: è importante coglierne il significato specifico, per rilevare come possa
conciliarsi tale imperativo con la prassi di uccisioni in guerra e in esecuzione di sentenze capitali
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testimoniata nell’AT. In seguito a un’attenta verifica dell’uso di tale verbo e a un suo confronto
con le altre radici della medesima area semantica, si ritiene che inizialmente questa radice
esprimesse l’uccisione illegale che andava contro la comunità , in particolare ogni omicidio (anche
preterintenzionale) che chiamasse in causa la vendetta di sangue. Con tale comandamento si
mirava, dunque, a proteggere la vita di ogni Israelita dalla violenza illegale e arbitraria, in modo
da preservare la pace all’interno della comunità .

In seguito, la radice passò a designare gli atti di violenza contro la persona, che nascevano
da sentimenti personali di malevolenza e di odio. Il comandamento nella sua attuale
formulazione proibisce tali atti di violenza e nega il diritto di farsi giustizia da sé per vendicare
un’offesa personale. L’assenza di oggetto implica il riferimento ad ogni vittima umana, a
prescindere dal pari livello giuridico delle persone implicate.

Dietro il divieto di uccidere si cela l’antica concezione della santità della vita, che si
riteneva avesse la sua sede nel sangue (cfr Gn 9,6). Tuttavia, proprio in base al dettato del
comandamento sopra analizzato, restano fuori dal suo campo di pertinenza la guerra, la morte
comminata da Dio come castigo, la pena di morte, l’uccisione di animali (per trovare qualche
indicazione in tal senso, occorre guardare ad alcune immagini della predicazione profetica rivolte
al futuro).

10. La proibizione dell’adulterio (Es 20,14; Dt 5,18)

La radice verbale pan significa solamente “commettere adulterio” e ricorre identica in


entrambe le forme del decalogo. Di per sé tale radice può avere come soggetto sia l’uomo che la
donna: il fatto che qui non sia specificato l’oggetto lascia intendere che questo comandamento sia
rivolto ad entrambi. Tale radice non consente l’estensione del significato anche al tentato
adulterio, all’apostasia o a pratiche religiose a sfondo sessuale e, tanto meno, all’omosessualità e
alla sodomia.

Secondo la concezione ebraica, l’uomo commette adulterio soltanto nei confronti del
matrimonio altrui, mentre la donna lo commette soltanto nei confronti del proprio. Più
precisamente: visto dalla parte dell’uomo, l’adulterio è il rapporto sessuale con la moglie o
fidanzata di un altro uomo; visto dalla parte della donna sposata, fidanzata o nuora che si trova
vincolata giuridicamente, l’adulterio è ogni rapporto sessuale extraconiugale.

Vi sono due importanti ragioni che spiegano la libertà maggiore dell’uomo rispetto alla
donna:

+ solo l’uomo aveva la possibilità di prendersi più donne (anche se molto presto divenne
consuetudine la monogamia);

+ in una cultura patriarcale l’uomo vuole e deve avere la garanzia che quelli che si ritengono suoi
discendenti siano tali anche nella realtà : questa garanzia circa i discendenti legittimi egli ce l’ha
solo con la fedeltà sessuale della moglie (in questo senso l’adulterio della donna è più pericoloso
di quello dell’uomo).

Mentre la punizione per l’adulterio è la morte (cfr Dt 22,22), la seduzione di una vergine
richiede che l’uomo sposi la ragazza o la risarcisca con una congrua somma di denaro (Es 22,15;
Dt 22,28s). La pena capitale prevista per l’adultero è la lapidazione che deve avvenire alle porte

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della città : il motivo di tale “forma pubblica” risiede nel fatto che la protezione del matrimonio
riveste particolare importanza per la sopravvivenza di una società ordinata, l’adulterio è un
crimine che mette la comunità in pericolo. Nell’AT l’adulterio (cui si riferisce questo
comandamento) era, dunque, qualcosa di più circoscritto della fornicazione. Il che non significa
che le relazioni extraconiugali dell’uomo con una nubile o con una ragazza non ancora fidanzata
non fossero considerate immorali in Israele o, nel secondo caso, si riducessero a un semplice
reato contro la proprietà . Le migliori testimonianze della serietà con cui Israele considerava
l’adulterio sono rappresentate da alcuni racconti dell’AT: cfr, ad esempio, Gn 20 (Abimelech e la
“sorella” di Abramo); Gn 39 (Giuseppe e la moglie di Potifar); 2 Sam 11 (Davide e Betsabea). Sulla
stessa lunghezza d’onda si pongono testi profetici e sapienziali.

Per quanto riguarda l’intenzione del comandamento, la proibizione mira a salvaguardare


la santità del matrimonio. Secondo qualche autore (E. Otto), sullo sfondo del comandamento c’è il
diritto di proprietà : la pretesa esclusiva del marito alla sessualità della moglie poggia sulla
subordinazione giuridica della donna al proprio uomo (anche se la donna rappresenta un bene
non alienabile). La proibizione mirerebbe a far sì che la vita nel comune clan familiare non
degeneri in un caos di promiscuità sessuale e sia assicurata, su un punto molto delicato, la pace
interna alla comunità di vita. Pur rivestendo grande importanza, nell’AT il matrimonio non è
indissolubile (e questo comandamento non presuppone tale indissolubilità ): ma l’iniziativa della
separazione può essere presa solo dall’uomo.

11. La proibizione del furto (Es 20,15; Dt 5,19)

La radice verbale bng (= rubare) (identica in entrambe le versioni del decalogo) può
avere come oggetto sia una persona che una cosa: si è ipotizzato (A. Alt) che inizialmente questo
ottavo comandamento fosse limitato al rapimento di persone (che, analogamente ai delitti vietati
dai due comandamenti precedenti, comportava la pena di morte: cfr Es 21,16 e Dt 24,7) e che in
seguito, con la caduta dell’oggetto espresso e a motivo di mutate condizioni sociali, sia stato
generalizzato ad ogni tipo di oggetto (con il rischio di una parziale sovrapposizione con l’ultimo
comandamento). La particolare sfumatura che differenzia tale radice da altre forme di
appropriazione indebita è l’elemento della segretezza, il prendere di nascosto.

^^^Nella legislazione veterotestamentaria, le pene previste in caso di furto consistono


nella morte per il rapimento di una persona, mentre sono relativamente miti per la sottrazione di
beni (non è prevista alcuna mutilazione fisica per il colpevole, a differenza di quanto avveniva
presso popoli limitrofi): il che induce a concludere che nell’AT le persone hanno la precedenza sui
beni.

12. La proibizione della falsa testimonianza (Es 20,16; Dt 5,20)


La formulazione di questo comandamento si differenzia nei due testi soltanto per l’ultimo
vocabolo, quello che rappresenta il genitivum qualitatis che delinea il testimone (d[e): in Dt si ha
aw>v' (= malvagità , falsità , nullità ; cfr la formulazione del comandamento sul nome divino), in
Es rq,v, (= menzogna). La presenza di alcuni termini tecnici giuridici denunciano il significato
originale del precetto. L’espressione rq,v, d[e / aw>v' d[e deriva dalla prassi giuridica che
Israele aveva in comune con tutto il VOA: una persona testimonia contro un’altra davanti a una
corte di anziani. Il testimone è colui che ha visto o conosce un fatto, per cui se non lo dichiara se

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ne addossa la colpa (è dunque tenuto alla denuncia): cfr Lv 5,1. Anche il verbo utilizzato,
“rispondere”, riflette un contesto giuridico e sta ad indicare lo scambio di interventi tra le due
parti in causa. Il termine [;re (= prossimo) indica il cittadino a pieno diritto all’interno della
comunità o più genericamente, secondo alcuni studiosi, qualsiasi persona con cui si entri in
contatto (il prossimo).
Il comandamento mira a salvaguardare i diritti fondamentali degli Israeliti dalla minaccia di
false accuse: contro nessuno può essere portata un’accusa falsa, simulata. Il comandamento originale
non esprime un divieto generico a mentire, ma vieta di mentire quando ciò va a colpire direttamente il
prossimo: se fondamentalmente ciò riguarda l’ambito giuridico, non si esclude anche la tutela della
buona fama di una persona dalle chiacchiere infondate. L’importanza di produrre una testimonianza
veritiera è ribadita in tutto l’AT: per stroncare l’abuso delle false testimonianze (emblematico
l’episodio della vigna di Nabot in 1 Re 21), venne ribadito che nessuno poteva essere condannato a
morte in base alla deposizione di un unico testimone (cfr Nm 35,30 e Dt 19,15). Dt 17,7 afferma che il
testimone non ha una parte solo verbale in un procedimento capitale, ma deve prendere parte attiva
all’esecuzione, scagliando la prima pietra: se la sua testimonianza fosse falsa si addosserebbe la colpa
del sangue. Dt 19,18-19 prevede che in caso di smascheramento di una falsa testimonianza sia
comminata al colpevole la medesima sanzione che egli avrebbe causato con la sua accusa.
Nella logica di questo comandamento, la verità non viene affermata come valore assoluto,
ma posta in relazione con la tutela del prossimo. E questo non soltanto perché una certa astuzia e
scaltrezza sono ritenute legittime (specie nel commercio) e addirittura apprezzate, ma perché
alcune forme di sincerità e di schiettezza possono ferire una persona o, addirittura, distruggerla.
La considerazione della situazione è, dunque, parte integrante dell’esigenza di verità . Allo stesso
modo, la menzogna non è condannata in sé ma in quanto anticomunitaria, cioè distruttrice delle
relazioni con Dio e all’interno del popolo.

13. La proibizione di concupire il bene altrui (Es 20,17; Dt 5,21)


La formulazione del decimo comandamento presenta delle peculiarità che lo distinguono
dai precedenti. Il divieto viene formulato in due proposizioni indipendenti che hanno, però ,
differenti complementi oggetti: tale sdoppiamento ha indotto la tradizione cattolica e quella
luterana (come pure la tradizione masoretica) a considerare i due segmenti come comandamenti
autonomi. Inoltre i verbi in questione sembrano tradurre uno stato d’animo soggettivo, mentre
tutti gli altri divieti erano diretti contro azioni oggettive: paradossalmente il comandamento
tenta di proibire non un atto ma un sentimento.

Alcune differenze segnano la formulazione dell’ultimo comandamento nei due testi.


Mentre in Es si ha a che fare con la doppia ricorrenza di una sola forma verbale (la radice verbale
dmx), in Dt la seconda forma verbale è costituita dalla radice hwa. Le due radici verbali
appartengono al medesimo campo semantico (quello del desiderio), con una differente sfumatura
di significato: dmx esprime uno stato d’animo che spesso conduce ad un agire conseguente (in
italiano si potrebbe rendere con locuzioni del tipo “mettere gli occhi su qualcosa”, “mirare a
qualcosa”), mentre hwa si limita alla descrizione dello stato d’animo stesso. A livello di oggetti si
ha una significativa inversione tra l’oggetto della prima forma verbale e il primo della serie
successiva di oggetti legati alla seconda forma verbale: in Es si ha prima la casa e poi la moglie,

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mentre in Dt si ha prima la moglie e poi la casa. Infine nella serie di oggetti del secondo segmento,
Dt inserisce anche il campo, non menzionato invece in Es.

Il precetto originale si rivolgeva a quel tipo di desiderio che includeva tutti i maneggi
necessari al raggiungimento dell’oggetto desiderato. La versione del Dt accentua il lato soggettivo
del divieto. L’elenco presente nel secondo segmento rappresenta un dato tradizionale, comune in
tutto il VOA. La funzione della lista è quella di essere esaustiva e di escludere qualsiasi incertezza
a proposito dell’estensione dei diritti di proprietà dell’uomo. In base alla diversa posizione della
donna nei due testi, a detta di alcuni non è possibile arguire il riflesso di differenti valutazioni del
suo ruolo, mentre secondo altri il testo di Dt sarebbe più tardivo e rifletterebbe una prima
evoluzione nella considerazione dei diritti della donna. Per quanto riguarda la rilevanza che Es
attribuisce alla casa, essa riflette l’importanza che la casa (intesa nel senso ristretto di edificio, il
senso ampio è reso con la serie successiva) aveva in Israele: casa e terra costituivano la proprietà
fondamentale, la base dell’esistenza della tribù e della famiglia e garantivano la posizione sociale
dell’uomo libero. La serie successiva, in Es, inizia con le persone che non godono di piena capacità
giuridica, ma sono considerate proprietà dell’uomo (moglie, schiavo, schiava), cui seguono poi
animali e cose. La serie di Dt (oltre a quanto segnalato riguardo alla donna) vede, invece, un
ridimensionamento della casa a uno tra i beni dell’uomo (non a caso è inserito il campo).

Questo ultimo comandamento intende proteggere la società matrimoniale e la proprietà


del singolo da intromissioni esterne: pertanto, occorre riconoscere una parziale sovrapposizione
di interesse con il settimo e l’ottavo comandamento (il che non depone a favore dell’ipotesi di una
composizione unitaria del decalogo). Tuttavia non si tratta di una semplice sovrapposizione, ma
di un ampliamento: questo comandamento protegge non solo la proprietà “mobile”, ma tutti i
possedimenti di una persona; esso proibisce non solo l’appropriazione segreta, ma ogni
macchinazione atta a danneggiare il prossimo nei suoi possedimenti, ogni attentato alle
condizioni di vita del prossimo; come già segnalato, le radici verbali utilizzate esprimono
attenzione alle motivazioni interiori dell’individuo (con una tendenza che sarà poi ulteriormente
sviluppata dalla tradizione sapienziale).

14. La validità perenne del decalogo


*Come ha fatto sapientemente osservare B. S. Childs, uno degli aspetti più ironici che emerge
quando si riflette sulla storia dell’interpretazione del decalogo è che l’esegesi dei dieci
comandamenti effettivamente realizzata nel corso della storia sembra smentire la loro pretesa
universalità di significato. Benché il decalogo sia stato considerato come se avesse un valore
immutabile e senza tempo, i condizionamenti culturali sono stati evidenti: si pensi
all’interpretazione luterana del IV, a quella pauperista del VII, alle nostre attese rispetto al V. Il
fatto che qualsiasi interpretazione comporti una certa misura di condizionamenti culturali non
deve trarre in inganno, inducendo al relativismo. L’esegesi, pur segnata dal tempo, mira a portare
una determinata cultura all’incontro con il testo sacro. Il fatto che la Chiesa continui ad attingere
dal decalogo la linfa necessaria a plasmare la vita di ogni nuova generazione dimostra qual è la
funzione del canone scritturistico. E il fatto che una generazione interpreti la legge in modo
diverso dalla precedente non mette in discussione la funzione del decalogo nella vita della Chiesa,
ma è una testimonianza dello “scandalo della particolarità ” nella quale il cristiano è chiamato a
vivere la sua vita di obbedienza. Quanto abbiamo fatto è stato di cogliere dall’esegesi
contemporanea una lettura essenziale del testo da cui partire perché le dieci parole continuino a
parlare al credente di oggi: dopo l’esegesi la parola passa, dunque, alla teologia morale.

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I comandamenti enunciano principi tendenzialmente generali che richiedono di essere
continuamente concretizzati. Nella loro versione originaria i comandamenti indicano il limite
oltre il quale il rapporto con Dio e con la società umana si spezza. Grazie alla generalizzazione da
una parte si conserva e si preserva il nocciolo, dall’altra si fa spazio alla libertà e alla necessità di
una scelta da parte dell’uomo: in certo qual modo la generalizzazione dei comandamenti ne
favorisce anche l’interiorizzazione.

In chiave sintetica possiamo porre alcuni punti fissi.

+ I comandamenti vengono dati da Dio quale segno della sua volontà nei confronti del popolo
dell’alleanza: non vanno considerati come semplici direttive morali staccate dall’autorità vivente
di Dio stesso che si è rivelato.

+ I comandamenti vengono dati da Dio al suo popolo nel contesto di un patto di alleanza: quali
che siano le implicazioni che i comandamenti possono avere, la loro funzione primaria è quella di
plasmare la vita del popolo eletto.

+ I comandamenti sono indirizzati al popolo di Dio come dono per indicare la strada della vita e
come deterrente contro il peccato che conduce alla morte.

+ Fine dei comandamenti è di ingenerare l’amore di Dio e l’amore del prossimo: questi due
aspetti non possono essere né confusi né separati (o, tantomeno, posti in alternativa).

+ Nella fede della Chiesa, la trasformazione della legge attraverso Gesù Cristo premunisce sia
dall’appiattimento legalistico, che dall’eccesso di entusiasmo che una legge mal intesa può
portare: in questo senso, la Chiesa è chiamata costantemente a declinare le dieci parole nella
storia, affinché il vangelo di Cristo possa raggiungere le coscienze.

DEUTERONOMIO
L’ultimo libro del Pentateuco racconta la conclusione della lunga marcia di Israele nel deserto e
prepara l’entrata nella terra promessa: ecco perché si può parlare di una sorta di testo-ponte tra il
Pentateuco e la successiva storia deuteronomistica, un libro di sintesi e un libro di transizione. Il testo,
che non presenta alcuna progressione spaziale nella marcia del popolo, costituisce una sorta di
momento introflessivo per Israele al termine della sua esperienza nel deserto prima del balzo al di là del
Giordano. Se dal punto di vista delle vicende narrate il libro è sicuramente meno avvincente di Es e
Num, esso è invece fondamentale nella costruzione teologica del Pentateuco: esso contiene la sintesi
teologica di una corrente che ha segnato profondamente la letteratura veterotestamentaria.
Il titolo del libro viene dalla versione greca di Dt 17,18, dove si chiede di scrivere una
copia della legge per il re: l’espressione ebraica “copia della legge” viene resa in greco con
deuteronovmion (= seconda legge, ripreso poi dalla versione latina). A proposito del nostro libro
non si tratta solo di un fraintendimento del suddetto passaggio, davvero il Dt rappresenta una
“seconda legge”, un secondo momento istituzionale dell’alleanza, quasi una seconda redazione
della Legge.
Il libro contiene, fondamentalmente, tre discorsi di Mosè più le benedizioni finali, che il
condottiero rivolge a Israele in Transgiordania, nel paese di Moab: i discorsi contengono soprattutto

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leggi e esortazioni. Israele si prepara ad entrare nella terra, Mosè lo esorta alla fedeltà e gli spiega le
condizioni del futuro possesso della terra. L’impianto globale del libro è quello di un discorso di Mosè
che ridice, con una nuova intelligenza sintetica e per un tempo specifico, quanto era stato detto in
precedenza.
Secondo il Dt, tutto avviene in un solo giorno (cfr Dt 3,1: nel quarantesimo anno,
nell’undicesimo mese, nel primo giorno del mese): con questa giornata e con il successivo mese di lutto
per la morte di Mosè si compiono esattamente i quarant’anni di Israele nel deserto. Proprio il fatto che
il Dt costituisca il “testamento spirituale di Mosè” spiega il tono insistente e omiletico del libro e il
continuo passaggio dal ricordo del passato all’esortazione per il futuro: Israele è chiamato a fissare le
ultime parole del più grande personaggio dell’AT. Se nessuno conosce l’esatta ubicazione della tomba
di Mosè, il Dt rappresenta il monumento letterario eretto a sua memoria.

Lo stile ripetitivo del Dt è inconfondibile e facilmente riconoscibile anche in altri libri


biblici (Gs-2Re), grazie al vocabolario e al gran numero di formule stereotipe. Per un verso la
teologia del Dt è una delle più ricche e attraenti dell’AT (Dt 6,5 era considerato, anche da Gesù ,
una sorta di riassunto di tutta la legge), per altro verso alcune sue considerazioni sono tra le
affermazioni più forti del nazionalismo e del fanatismo religioso dell’AT.

1. Il retroterra storico del Deuteronomio


Punto di riferimento di ogni considerazione diacronica sull’origine del Pentateuco è la
considerazione, già segnalata in sede di introduzione del Pentateuco, in base alla quale il testo
ritrovato che starebbe alla base della riforma di Giosia nel VII secolo (secondo il racconto di 2 Re
22-23) sarebbe il Dt o, meglio, una prima forma di esso.

A ragione, tuttavia, si è ipotizzata l’esistenza di fonti e tradizioni antiche di origine


settentrionale alla base di alcuni grandi temi del Dt. Si pensi, per un verso, alla vicinanza del Dt al
messaggio di Os a proposito di alcune tematiche particolarmente significative: il tema
dell’alleanza o quello dell’amore come principio della relazione tra YHWH e il suo popolo. Nella
stessa direzione vanno le differenze tra i temi del Dt e quelli di un esponente classico della th
meridionale, il ProtoIs: mentre Is assegna un ruolo centrale alla dinastia davidica nel piano
divino, Dt non ne parla e insiste sull’esodo e sull’alleanza dell’Oreb. Tutto ciò induce
legittimamente a ritenere che molte idee del Dt non siano sorte a Gerusalemme.
Tuttavia, se il Dt si è imposto a Gerusalemme come fondamento della riforma
deuteronomica, ciò significa che ha trovato anche lì un gruppo che partecipò attivamente
all’elaborazione e alla diffusione del suo messaggio. In questo senso è sensato collocare in
Gerusalemme la composizione del Dt che fu alla base della riforma giosiana. In base a
considerazioni di questo genere si è cercato di individuare chi fossero i componenti di quel
“partito riformista” che ispirò le posizioni di Giosia. Per dare loro un nome è bene soffermarci un
attimo a indagare il retroterra e gli scopi della riforma di Giosia.

 L’impero neoassiro, che aveva determinato la vita politica del VOA a partire dall’880 circa,
conosce una rapida fine. Assurbanipal muore nel 626, subito dopo l’intero impero inizia a
cadere sotto i colpi dei Medi e dei Babilonesi (la sconfitta definitiva si avrà nel 606). A poco a
poco i vassalli dell’Assiria recuperano la loro autonomia: Giuda (la cui rilevanza era molto
limitata) recupera la sua indipendenza a partire dal 630. Una riforma come quella di Giosia è
ipotizzabile solo in un contesto del genere.

89
 Infatti furono proprio le circostanze storiche a rendere necessaria la riforma. La distruzione
delle città e dei santuari del regno del Nord nel 721 e le conseguenze catastrofiche
dell’invasione del regno del Sud da parte di Sennacherib (nel 701, durante il regno di Ezechia)
hanno reso possibile una centralizzazione del culto e dell’amministrazione. Di fatto
Gerusalemme fu l’unica città di Giuda a salvarsi durante l’invasione di Sennacherib. Il tempio
di Gerusalemme fu il solo santuario importante che rimase in piedi: pertanto, la
centralizzazione del culto è stata un fatto compiuto prima di essere elaborata in termini
legislativi. In questo periodo anche la popolazione ha conosciuto profondi cambiamenti. Una
parte della popolazione del Nord è stata deportata in esilio, un’altra parte si è probabilmente
spostata verso Sud (soprattutto verso Gerusalemme). In Giuda, dinanzi alla minaccia assira,
Ezechia ha fortificato le città onde evitare di dover affrontare in campo aperto l’esercito
assiro, numericamente superiore e meglio equipaggiato. Ciò significa verosimilmente che
questo re ha spostato parte della popolazione dalla campagna alle città per esigenze difensive
(ecco perché si registra un processo di urbanizzazione sotto Ezechia).
 Queste circostanze ebbero conseguenze sulle istituzioni tradizionali: l’urbanizzazione ha
inciso sulla solidarietà familiare e sulla vita religiosa. Il mondo urbano ha acquistato una netta
superiorità sul mondo rurale, i capifamiglia (o capiclan) hanno perso parte del loro influsso.
Occorreva ricostruire la solidarietà tra il popolo su basi nuove. Ecco perché nel codice
deuteronomico troviamo un diritto di famiglia, praticamente inesistente nel codice
dell’alleanza.
 Perno della riforma è la centralizzazione del culto e dell’amministrazione in Gerusalemme
(religione e politica erano strettamente connesse nel mondo antico). Già sotto Ezechia tutto è
dovuto ripartire da Gerusalemme, il solo luogo rimasto intatto dopo l’invasione. Ecco perché il
capoluogo ha ottenuto una tale importanza.
 Dal momento che si distanziava così tanto dalla monarchia, Mosè costituiva l’unica autorità su
cui la riforma poteva poggiarsi, un’autorità anteriore alla monarchia risalente agli inizi della
storia di Israele; un’autorità incontestata che era all’origine di tutte le istituzioni importanti (il
sacerdozio, la giustizia, l’amministrazione). Ecco perché la legge del Dt viene presentata come
il “libro dimenticato e ritrovato nel tempio”. Quanto raccontato in 2 Re 22 rappresenta
dunque una pia fraus: secondo un motivo presente anche in altre letterature antiche, il
“racconto ritrovato” fornisce una base giuridica alle riforme cultuali o politiche. La riforma
deuteronomica viene presentata, dunque, come un ritorno alle origini (secondo un tema caro
alla predicazione di Osea).
 La riforma lotta contro il sincretismo ufficiale. Contro ogni influsso straniero (specie assiro), i
riformatori propongono uno jahwismo esclusivo, che spesso rasenta il fanatismo religioso.
 La riforma lotta contro il sincretismo privato nella religione delle famiglie. Essa prende di
mira i diversi livelli di religiosità presenti in Israele, nel tentativo di far coincidere il Dio della
religione ufficiale e il Dio della religione familiare. Quest’ultima era stata molto influenzata da
pratiche sincretistiche, soprattutto durante il regno di Manasse. Per un verso la riforma
spinge la religione israelita a un’interiorizzazione dei suoi contenuti: il vocabolario dell’amore
si estende dall’ambito familiare a quello ufficiale, quello dell’esclusivismo passa dalla
religione ufficiale a quella familiare. Per altro verso la riforma rappresenta un momento di
moralizzazione, essa impone condizioni da rispettare; la religione familiare, più antropologica
e legata alla creazione, si apre alla dimensione della storia, la storia di Israele (specialmente
l’esodo) entra nel rituale delle feste e nell’educazione familiare (si pensi ai “piccoli credo
storici”).
90
 Interessante è l’attenzione sociale rilevabile nel Dt. La legislazione deuteronomica cerca di
alleggerire il peso fiscale che gravava sui più deboli: riduzione delle decime, limitazione delle
conseguenze dell’indebitamento, organizzazione dell’assistenza ai più poveri (vedove, orfani,
stranieri, …). Lo scopo di queste leggi è di creare un nuovo clima di solidarietà nazionale fra
tutti gli strati della popolazione. Per questo il Dt usa spesso il vocabolario della fratellanza:
tutti i cittadini, anche i più deboli, sono fratelli. Sebbene la riforma sia sostanzialmente fallita
dopo la morte prematura di Giosia, il Dt ebbe comunque un influsso decisivo sulla religione
d’Israele, specialmente nel campo della solidarietà sociale.

2. I contenuti teologici
Il Dt propone una sintesi originale delle formulazioni teologiche anteriori della fede
d’Israele. In esso troviamo elementi della teologia della monarchia e del tempio di Gerusalemme,
tradizioni dei santuari locali del Nord, diverse tradizioni storiche, legali, cultuali. In particolare, la
grande tradizione storica dell’esodo, particolarmente significativa nell’ambito settentrionale,
diventa centrale nella teologia del Sud. L’assunzione di elementi del patrimonio religioso e
culturale settentrionale mirano anche a conquistare l’appoggio di tali popolazioni nel momento
in cui Giosia cerca di riconquistare le regioni dell’antico regno di Davide. La teologia del Dt è una
teologia pratica più che speculativa, direttamente finalizzata ad un modo concreto di agire in base
alla verità .

1) La monarchia.

Il re è “scelto”, ma il suo potere viene molto limitato: costui non è un essere divino o
comunque superiore a tutti gli altri membri del popolo, ma un “fratello”, un primus inter pares. La
legge sulle autorità (Dt 17,8-18,22) colloca il re accanto ad altre figure autoritative (giudici, sacerdoti,
profeti): l’autorità, pur rilevante, del re è legata a Dio stesso.
A più riprese emerge nel Dt il fatto che la legge esiste quando esiste una sua interpretazione
autoritativa: questa interpretazione può essere compiuta solo da chi ha questo dono e potere.
Ovviamente il primo riferimento è a Mosè, ma dopo di lui la funzione interpretativa è stata distribuita
tra varie figure autoritative. Tali figure si sono moltiplicate: il Dt consacra una sezione a fornire una
sintesi di questo complesso istituzionale di Israele. Innanzitutto c’è una premessa sui giudici (17,8-13):
si fa così riferimento a un tipo di amministrazione della giustizia affidata non solo ai re. Riguardo
all’obbedienza che i sudditi devono prestare al re, essa è un fatto naturale nella misura in cui il re per
primo si sottopone alla legge e le obbedisce. Il re è chiamato a farsi garante della pace e del benessere
nazionale, come pure della giustizia contro ogni forma di sopruso. Il desiderio di avere un re appare in
Dt del tutto legittimo: nel momento in cui si sta per installare stabilmente nella terra, Israele avverte
l’esigenza di una stabilità anche politica.
L’affermazione che il re, scelto da Dio, debba essere un fratello rappresenta una presa di
distanza rispetto alla tradizionale attrattiva esercitata dalle grandi potenze straniere su Israele: un re
fratello significa indipendenza politica, culturale e religiosa per Israele. Tra sovrani e sudditi non c’è
differenza essenziale (come invece per gli Egiziani). L’idea della fraternità ispira quella
dell’uguaglianza, della solidarietà e della benevolenza del re verso il popolo. L’ideale proposto alla
monarchia è la modestia.
2) Il tempio.

91
La centralizzazione del culto (cfr, in particolare, Dt 12-13) è il culmine di tutta la th del tempio
o th di Sion. La rilevanza di Sion viene ridimensionata, poiché l’evento fondante della storia della
salvezza non è l’elezione di Davide e di Sion, ma il precedente esodo.
Nel tempio non abita YHWH “in persona”, ma solo il suo nome. La teologia del nome corregge
concezioni troppo materiali della presenza divina e impedisce di identificare questa presenza con il
potere del re o l’edificio del tempio. La religione diventa più “spirituale”, storica e morale.
Questa trasformazione si traduce anche nella reinterpretazione dell’arca dell’alleanza: questa
non è più simbolo sacro della presenza divina, ma il contenitore in cui sono depositate le tavole della
legge.
La centralizzazione del culto è la prima legge del codice deuteronomico: essa riflette il primo
comandamento del decalogo, che vieta di farsi altre divinità, di prestare culto alle loro immagini e di
usare il nome di Dio. Da un punto di vista storico, per un verso riflette la strategia politica della riforma
giosiana, per altro la sua importanza si accrebbe al momento del ritorno dall’esilio. Da un punto di vista
teologico, più che di centralizzazione del culto (che dice, per sé, un preciso provvedimento storico) è
bene parlare di unicità del luogo di culto, di unicità del santuario). Tale concezione religiosa intende
esprimere che:
a) il culto dev’essere una risposta all’iniziativa divina, quindi va svolto in un luogo sacro scelto dal
Signore (la scelta del luogo e degli strumenti del culto è prerogativa del Signore);
b) l’unicità del luogo di culto corrisponde all’unicità del Signore e all’unicità del popolo.
In connessione con il primo comandamento, nel Dt la distruzione degli altri santuari è uno
strumento per lo sradicamento dell’idolatria (l’uso del fuoco allude a una volontà di distruzione
definitiva) e per l’affermazione del nome del Signore. Con tale atto Israele è chiamato a ritrovare la sua
libertà più autentica, ribellandosi a ogni forma di dipendenza (specie religiosa) da altri popoli. Tuttavia
la radicalità di questo intervento può lasciare perplessi, pare espressione di fanatismo. Il problema che
emerge da tali passaggi è quello relativo al modo di esprimere, di significare la radicalità della scelta
per l’unico Dio: se non la si esercita nei confronti di se stessi (è la direzione che indicherà Gesù) si
finisce per imporla agli altri.
Pare che l’immagine sottostante al tema del nome sia quella del conquistatore che nel VOA
metteva il suo nome sul territorio conquistato (allo stesso modo, sulle città veniva ripetutamente
proclamato il nome del conquistatore). L’espressione “il Signore ha scelto il luogo e vi ha posto il suo
nome” indica che il culto è obbedienza a ciò che Dio ha disposto. Il culto è obbedienza: è vero che lì
l’uomo fa delle cose, ma non per condizionare Dio. L’uomo presta il culto nel luogo che Dio stesso ha
scelto per esservi ricordato: il pellegrinaggio acquista il senso di privare il culto dell’uomo delle sue
pretese. Così il culto diventa offerta autentica al Signore.
3) L’elezione.
Questo concetto è di origine regale (era legato a Davide e alla sua dinastia). Con il Dt l’elezione
viene democratizzata, perché YHWH sceglie tutto il popolo come suo popolo: questa elezione coincide
con l’esodo. Il Dio dell’universo e di tutte le nazioni (Dio del culto di Gerusalemme) si sceglie un
popolo quando lo fa uscire dall’Egitto. Il Dio di Israele è Colui che si rivela nella storia salvando. Il
popolo di Israele è dunque un popolo speciale: esso riceve un trattamento privilegiato, diverso da
quello riservato a tutti gli altri popoli. È l’elezione divina a renderlo santo, cioè separato e riservato a
Dio quale sua personale proprietà (cfr Dt 4,20; 7,6; 14,2; 26,18-19).

92
4) L’alleanza.
Si tratta di un concetto politico e giuridico, nel Dt è utilizzato per qualificare i nuovi rapporti tra
YHWH e Israele. YHWH viene configurato come sovrano che prende il sopravvento sugli altri re. Con
la teologia dell’alleanza, la torah diventa il centro della vita religiosa del popolo: il culto e il re vedono
ridimensionata la loro importanza a favore di questa dimensione etica della religione. Grazie a questa
teologia, Israele ha potuto sopravvivere alla catastrofe dell’esilio. Secondo il Dt, in Israele tutta
l’alleanza è sospesa al realizzarsi della Parola: da parte di Dio, essa è promessa che impegna la sua
fedeltà; da parte di Israele, è Legge cui aderire e obbedire per amore. La definizione di Israele secondo
l’alleanza potrebbe essere questa: Israele è un popolo che ascolta, cioè obbedisce. Nello stesso tempo,
l’alleanza è il luogo della compromissione di Dio: si tratta di un patto sproporzionato, tra due contraenti
che non sono sullo stesso piano. In questo rapporto Dio stesso si è impegnato: il suo nome è definito da
questo rapporto. Ecco perché l’alleanza non può venir meno per il peccato del popolo: se Dio
distruggesse il popolo verrebbe a distruggere il proprio nome, quello con cui si è fatto conoscere (una
logica analoga è alla base della questione sollevata da Paolo in Rm 9-11, quella dell’affidabilità di
Dio).
5) La legge.
Non c’è libro dell’AT che più del Dt dia importanza all’osservanza integrale e perfetta della
Legge. Tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze sono implicate nell’assenso di tutto Israele a praticare
tutti i precetti ogni giorno della vita. La Legge è parola di Dio: in quanto tale essa è un dono. Il che
significa che l’alleanza non pone il rapporto Dio - popolo nella prospettiva politica di uno scambio di
convenienze (come nel caso di un vassallo che ottiene protezione e di un sovrano che ottiene in cambio
benefici). L’impegno richiesto da YHWH al suo popolo è semplicemente quello di vivere e gioire della
vita che Dio gli ha concesso. È la teologia del dono: per se stesso il Signore non chiede nulla. Se
domanda di celebrare feste e prestare culto al suo nome, ciò significa che Egli chiede ad Israele di
riconoscere che tutto è stato gratuitamente donato e ricevuto, e perciò è possibile celebrarlo nella letizia
e nella condivisione con i fratelli. Il fatto che a più riprese si affermi che la legge entrerà in vigore al
momento dell’ingresso nella terra, significa che la legge è conseguenza del dono.
Nello stesso tempo l’osservanza della legge è posta come condizione necessaria per la
permanenza nella terra: il deserto appare, fin dall’inizio, come il luogo della non - obbedienza e, quindi,
della punizione (è una lettura negativa del deserto che attraversa diversi libri dell’AT – cfr Ger 2,6 - e si
contrappone a un filone positivo). Sempre all’interno del Dt (in particolare in Dt 8) è testimoniata
anche una concezione positiva del deserto, come esperienza pedagogica voluta da Dio stesso, come
cammino di salvezza di cui fare memoria, come luogo della maggior vicinanza di Dio al suo popolo.
È interessante segnalare come, nei capp. 5-11 che precedono il codice deuteronomico, si
esprima un’intelligenza sintetica della legge: l’attenzione non è posta più di tanto su norme particolari
bensì sulla rilevanza del comandamento per la vita d’Israele e sugli elementi che danno una sostanziale
unità alla legge.
*Il ripetuto riferimento alla storia originaria d’Israele (la liberazione dall’Egitto) indica che
nell’esecuzione della propria normativa pratica Israele non deve far altro che agire secondo quanto Dio
ha fatto per lui, quindi liberando.
*Israele è un popolo speciale, proprietà del Signore, santo ed eletto: Israele si trova definito dalla
propria legge.

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*Il Dt presenta ogni legge particolare come sintesi della totalità. C’è sempre il riconoscimento del
Signore quale origine d’Israele e la relazione con il prossimo inteso come fratello. Per certi versi, ogni
legge risulta sintesi di tutte le altre leggi e mette in gioco, ogni volta, tutta l’esistenza credente.
*Il Dt, infine, si pone ripetutamente contro ogni manifestazione idolatrica. L’idolatria non è un peccato
fra gli altri, ma il peccato: in tutta la propria esistenza Israele deve obbedire a YHWH.
Conclusione. Nel Dt troviamo il più grande sforzo di ridefinire l’identità di Israele in un
momento critico della sua storia. Questo progetto teologico si presenta come visione globale di un
“nuovo Israele”, visione che comprende tutti i settori importanti della vita del popolo: religione,
istituzioni, giustizia, culto, vita sociale, produzione, commercio, vita professionale e familiare. Questo
progetto ci permette di capire perché in seguito la religione di Israele non è sparita nel momento
dell’esilio; e perché ha potuto essere reinterpretata ancora una volta in modo eccezionale da Gesù e
dagli autori del NT.

3. Dt 7
Il capitolo affronta il tema del rapporto di Israele con le nazioni durante la conquista della
terra (ponendolo sotto il segno dello sterminio) a partire dall’identità del popolo di Dio (letta in
termini di elezione).

^^^Contenuto

L’insieme del cap. 7 rappresenta l’interpretazione del primo comandamento del decalogo
nel contesto della conquista e dei rapporti di Israele con le nazioni. A livello di strutturazione, si
possono rilevare nel capitolo quattro parti. Ognuna delle quattro parti del capitolo spiega quali
sono, per Israele, le conseguenze della sua fedeltà assoluta ed esclusiva a YHWH.

*7,1-5 esclude qualsiasi contatto religioso di Israele con le nazioni della terra promessa e
conquistata. Anche i matrimoni misti sono proibiti per ragioni religiose.

*7,6-11 spiega la ragione di questo atteggiamento radicale: l’elezione divina e il carattere “sacro”
di Israele. Israele è un popolo “a parte” e quindi non può mescolarsi con altre nazioni Questa
elezione divina si è manifestata concretamente nell’esperienza dell’esodo (v. 8). Questo amore
gratuito e assoluto di YHWH richiede, da parte di Israele, una fedeltà e un’ubbidienza altrettanto
assolute (vv. 9-11).

*7,12-16 prosegue la stessa linea di pensiero e mostra quali saranno i frutti della fedeltà di
Israele. Se Israele è fedele, anche YHWH sarà fedele alle sue promesse. Queste affermazioni
ruotano intorno a concetti basilari dei trattati di vassallaggio: l’iniziativa del sovrano, i suoi
benefici a favore del vassallo, la fedeltà assoluta del vassallo e le promesse del sovrano per il
vassallo fedele.

*7,17-26 promette la vittoria sulle nazioni e intende eliminare ogni traccia di timore da parte di
Israele dinanzi ad esse. YHWH stesso combatterà per Israele, come fece contro il faraone: ancora
una volta è l’esperienza dell’esodo ad essere fondamentale. Gli ultimi versetti (vv. 25-26)
traggono le conseguenze logiche di questa vittoria: se la vittoria è attribuibile soltanto a YHWH,
Israele non può tollerare la presenza di segni religiosi di altre divinità sul territorio conquistato.

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La seconda e la terza parte costituiscono come due pannelli di un dittico che presenta i
mutui rapporti tra YHWH e Israele. Anche le tematiche della prima e della quarta parte si
richiamano a vicenda.

Rilevanza teologica

Dt 7 è uno dei capitoli thmente più problematici dell’intero libro, a motivo del suo
contenuto: esso riguarda il rapporto di Israele con gli altri popoli, un rapporto regolato dalla
legge dello ħerēm (= sterminio, la radice torna ai vv. 2 e 26, quasi a far da inclusione all’intero
passo). Ciò che Dio esige non è solo una generica separazione dalle nazioni, ma una condotta
ostile, di natura bellica, volta al loro sterminio e alla loro completa eliminazione (cfr il v. 16).
Proprio per il suo contenuto questo comando non solo urta la nostra sensibilità , ma appare anche
non facilmente collocabile nel quadro dell’alleanza e dell’amore che caratterizzano il rapporto di
Dio con il suo popolo. Questo capitolo andrebbe letto tenendo presente il contenuto di Es 23,20-
33 che costituisce l’ultima parte del codice dell’alleanza (per rilevare elementi comuni e
differenze). In Dt 7 si presenta la legge che Israele deve mettere in pratica nel momento stesso in
cui entra in possesso del paese: presa di possesso del paese e sterminio si presentano come due
modalità dello stesso atto (a livello di realizzazioni pratiche di tali indicazioni si vedano la
conquista di Gerico in Gs 6 e la conquista di Ai in Gs 8). Tutto si compie nell’orizzonte
dell’obbedienza a Dio che introduce il popolo nella terra: solo adempiendo a questo
comandamento divino si può veder realizzata la promessa di Dio riguardo alla terra, se ne può
avere il possesso e la pace. Il comando dello sterminio delle nazioni a noi risulta teologicamente
problematico ed eticamente inaccettabile: pare esprimere, infatti, l’idea di un Dio feroce e
spietato. Questo testo può costituire l’occasione per capire questo tema dello sterminio nella
prospettiva più ampia dell’AT.

Prima di affrontare la questione della legge dello sterminio, è bene evidenziare la tematica
teologica positiva ad essa connessa: l’elezione d’Israele da parte di Dio (un tema particolarmente
significativo per la th, specie per l’antropologia e l’ecclesiologia, e per la spiritualità cristiana). Il
comando divino è motivato con il rapporto speciale che lega il Signore con il suo popolo. Si
afferma che il Signore ha scelto Israele perché piccolo (v. 7): questo dato sancisce non solo il
rapporto originario, ma anche il rapporto (costitutivo) che Dio continua ad avere con Israele. Il v.
6 parla del popolo come ‘am qādôš (= popolo santo, consacrato): si esprime così l’atto della
separazione di Israele da ciò che è profano, con lo scopo di significare l’appartenenza al Signore.
Una realtà è santa non tanto perché separata, ma è resa tale dalla comunione con il Signore: la
separazione serve ad esprimere l’avvicinamento al Signore, è un entrare a far parte della sua
sfera.

Questa stessa idea della separazione è espressa anche con altri termini: nello stesso v. 6
troviamo la terminologia della scelta (bħr = scegliere) e un’altra espressione desunta dal
linguaggio di corte (‘am segullāh = popolo di particolare proprietà ). Questa terminologia è
evidentemente quella dell’elezione. L’appartenenza al Signore rende Israele diverso da tutte le
altre nazioni. Anche in Es 19,5-6, dove si parla dell’alleanza, è attestato lo stesso vocabolo: il
popolo dell’alleanza è il popolo della segullāh. Questo vocabolo esprime la proprietà personale
del sovrano: si trattava dei beni che gli appartenevano non in virtù della sua carica istituzionale,
ma che facevano parte del suo patrimonio personale, di cui poteva disporre a suo piacimento. Il
Dio di tutta la terra manifesta il suo dominio potendo disporre di ciò che gli appartiene: Dio
esprime la sua supremazia e il suo potere scegliendosi proprio questo popolo (e non un altro,
95
magari migliore) perché sia sua speciale proprietà . Il v. 8 individua il motivo dell’elezione:
l’amore di Dio per il suo popolo. Dio ama e questo fatto diventa il principio di una risposta
d’amore. C’è un amore dell’inizio, fondatore, che si chiama elezione e un amore che si conserva,
che si può chiamare fedeltà . In tal modo, l’alleanza viene presentata come una relazione d’amore,
come un patto matrimoniale che unisce un uomo alla sua donna. L’amore di Dio si presenta con i
tratti dell’amore gratuito, creativo, disinteressato: in fondo non si capisce perché Dio abbia fatto
questo. Si tratta di una volontà divina che si fonda sulla stessa natura di Dio. Mentre la logica
umana porterebbe a pensare che l’amore di Dio sia riservato a coloro che se lo meritano, Dio
presenta come motivazione del suo amore il fatto che Israele sia il più piccolo tra tutti i popoli: si
esclude così che Dio scelga qualcuno in base alla sua potenza, alla sua forza o ai suoi meriti.

Nei vv. 7-15 si spiega l’alleanza richiamando gli inizi, quando Israele rischiava di
soccombere in Egitto. Dio ha scelto proprio il popolo che rischiava di morire: il suo amore è stato
un atto di liberazione e di salvezza. La promessa fatta ai padri diventa la regola dell’elezione: Dio
sceglie chi è debole (cfr Davide e Maria). Inoltre il suo amore è creativo: non lascia il povero nella
condizione in cui si trova, ma mette in moto la vita. In origine c’è proprio il desiderio divino di
dare la vita. Il v. 9 presenta la risposta di Israele al suo Dio negli stessi termini d’amore. Questo
atteggiamento colloca Israele nell’alleanza: amare Dio significa osservare i suoi comandamenti.
L’alleanza è destinata a perpetuarsi nel tempo (v. 12) perché Dio la “conserverà ”. L’amore di
benedizione che Dio intende riservare al suo popolo (vv. 8-9.13-14) si manifesta nel crescere,
nell’essere fecondo e nel diventare numeroso di Israele. Siamo di fronte al paradosso di Dio che
ama il piccolo per renderlo grande, non lo lascia piccolo ma gli accorda una prosperità che
nessuno può fermare e una vitalità che nessuna forza o potenza può dominare. Alcuni secoli più
tardi l’estensione del Dt, il Magnificat continuerà a narrare questa splendida storia di alleanza.

*E passiamo ora a interrogarci sulla legge dello sterminio. Il paese in cui Israele sta per
entrare è già abitato, si prospetta un difficile combattimento. Le nazioni che circondano Israele,
infatti, sono numerose e potenti (è questo il senso del numero sette al v. 1) e, soprattutto, idolatre
(cfr vv. 5.25-26). Si tratta di caratteristiche esattamente contrarie a quelle che definiscono
Israele, necessarie per intavolare l’alleanza con il Signore. Si presenta allora l’opposizione tra
l’abominio (3 volte nei vv. 25-26) e il popolo santo (v. 6): il pericolo è di diventare come le
nazioni limitrofe. Ecco perché Israele deve vivere il rapporto con le nazioni limitrofe nei termini
dello ħerēm.

La radice ħrm indica la dedicazione radicale di una cosa o di una persona alla divinità
perché ne disponga come vuole: è una sorta di sacrificio di consacrazione a Dio per cui l’uomo
non ne è più proprietario. Si tratta di un avvenimento sacrale che rappresenta l’atto conclusivo
del rituale che regola la guerra santa e la conquista della terra. Tale consacrazione radicale
avviene, per quanto riguarda le persone, mediante lo sterminio (devono esser passate a fil di
spada) e, per quanto riguarda le cose e gli animali, mediante il fuoco e la distruzione (ma talvolta
possono essere risparmiati come legittimo bottino). La legge dello ħerēm è presente in due ambiti
legislativi: l’ambito della guerra santa, dove ha per oggetto le popolazioni cananee (in questo cap.
e al cap. 20); l’ambito delle città in cui si constati la presenza di forme idolatriche (si veda 13,13-
19). Il che sta ad indicare che tale violenza ha come oggetto specifico le pericolose manifestazioni
idolatriche, non le nazioni straniere in quanto tali (anche se si presume che tra queste l’idolatria
regni incontrastata).

Fondamentalmente sono tre le modalità per attuare lo ħerēm.


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a) Rifiuto di qualsiasi alleanza con i cananei. Ai vv. 3-4 affiora la regola dell’endogamia, ovvero
del matrimonio solo all’interno dello stesso gruppo etnico. Troviamo indicazioni in tal senso
anche nelle storie patriarcali (cfr Gn 24,4 e 28,2), nelle misure prese nel postesilio da Esdra e
Neemia e nella storia di Tobia (Tb 6). Sempre nell’AT troviamo però abbondanti eccezioni a
tale regola, il che ci lascia intuire che il suo valore non doveva essere assoluto (cfr la sposa
madianita di Mosè, il matrimonio di Booz con Rut la moabita, le mogli straniere di Davide e,
ancor più , di Salomone): in nessuno di questi casi la Scrittura intravede una trasgressione di
questo comandamento. Siamo dunque dinanzi non a una legge etica, ma a una legge simbolica
che vuole significare la fedeltà all’alleanza in un determinato tempo storico.
b) Distruzione dei luoghi di idolatria. Bisogna spazzare via tutto ciò che dice un riferimento
idolatrico (vv. 5.25-26). Se uno aderisce a Dio non può allearsi con chi è figura dell’idolatria
(cfr Dt 12,2-3): questo spazzare via è un atto simbolico. Quando è Dio riconosciuto come
sovrano, occorre spazzare via ogni immagine che non dica la sua unicità .
c) L’uccisione degli uomini (vv. 16.24): la norma concerne solo le popolazioni cananee limitrofe
e non tutti gli altri popoli. Con questi altri popoli, in caso di guerra contro una città lontana, la
legge prescrive di proporre subito la pace, consente di fare bottino e di creare rapporti, anche
matrimoniali. Non così per i cananei (v. 16): essi, infatti, inducono al peccato.
Ci soffermiamo ancora su due categorie specifiche, quelle del giudizio e della guerra santa.

A) Giudizio: la guerra con i cananei è presentata come atto finale del giudizio del Signore contro
le popolazioni che praticano l’idolatria. In questo senso, Israele è strumento di esecuzione di
un provvedimento di giustizia: non ci si deve commuovere nel tradurre in pratica il giudizio di
Dio (v. 16), tirarsi indietro significherebbe volersi sostituire al giudice che ha già espresso la
sua sentenza. La categoria del giudizio è legata all’idea del più piccolo che vince sul più forte:
Israele è un semplice esecutore, uno strumento di Dio e, infatti, non agisce con le proprie
forze ma con la forza di Dio.
B) Guerra santa: non si tratta di una guerra di religione, ma della guerra combattuta da un
popolo che è santo, secondo i modi voluti dal Dio santo. Anche qui è caratteristica la
sproporzione di forze: non si afferma l’esercizio della violenza, ma la vittoria dell’inerme e del
più piccolo che si trova a combattere contro giganti molto più forti di lui. Come è possibile (v.
17)? Solo avendo fiducia nell’opera di Dio: cfr la conquista di Gerico o la lotta tra Davide e
Golia. Non bisogna temere (v. 18): la paura sarebbe segno di mancanza di fede.
Si afferma così il principio unitario che lega in continuità l’elezione e la vocazione storica
di Israele. Dio scaccerà a poco a poco le nazioni (v. 22): il che richiede non solo fiducia in Lui ma,
pure, pazienza. Si tratta, infatti, di una conquista simbolica. Le nazioni di cui si fa menzione in Dt
7 non sono più presenti al tempo della redazione del libro (cioè al tempo di Giosia): i cananei non
ci sono più , mentre c’è invece una grande insistenza sul tema dell’amore verso lo straniero e
dell’attenzione per i poveri. Si tratta, dunque, del simbolismo con cui si invita a non aver paura
del più forte, ma ad aver fiducia e speranza in Dio. L’ideologia in quanto tale trovò applicazione,
per quel che ne sappiamo, solamente durante l’epopea maccabaica.

4. Dt 29, 1-17
^^^Contesto immediato

Dt 26 conclude il codice dell’alleanza, che presenta i precetti che Israele è tenuto ad


osservare e i motivi per cui è tenuto ad osservarli. Il cap. 27 si presenta in termini più narrativi
rispetto al cap. 28, ma entrambi sono da considerare come la conseguenza di quanto li precede,

97
cioè del fatto di essere entrati in una logica di alleanza: le benedizioni o le maledizioni sono la
conseguenza dell’osservanza o della disobbedienza alla legge. Dopo la lunga sezione riservata dal
testo alle maledizioni, i capp. 29-30 imprimono una svolta allo sviluppo del Dt, che acquista una
nuova dimensione: si torna a parlare, infatti, di alleanza. A motivo dei contenuti gli studiosi
tendono a vedere in questi due capitoli un testo risalente a un periodo storico che suppone
l’esilio. L’idea di una nuova alleanza viene espressa già in Dt 28,69 che rappresenta l’inizio della
nostra pericope più che la conclusione della precedente. L’alleanza viene collocata nella zona di
frontiera, in Moab, prima di entrare in possesso della terra promessa: dunque anche
geograficamente si pone una differenza rispetto all’Oreb, anzi si parla qui di un’alleanza che va
oltre quella dell’Oreb. Dopo quarant’anni nel deserto, c’è qualcosa di nuovo che avviene. Quanto
al genere letterario, questi due capitoli sono perlopiù considerati come un testo di “stipulazione
di alleanza”: si riprendono caratteristiche tipiche dei trattati di alleanza rinvenuti in ambito ittita
e mesopotamico (paragrafo storico, ingiunzione di base, benedizioni e maledizioni). Ognuna delle
sette parti di questo terzo discorso di Mosè si differenzia dall’altra principalmente per motivi di
contenuto, in quanto dice qualcosa di specifico nei termini di un formulario di alleanza.

*29,1-8: prologo storico.

Contiene un resoconto della storia di Israele dall’esodo fino all’arrivo del popolo nel paese
di Moab: ciò che precede serve a motivare la storia odierna dell’alleanza. Il che significa che tale
resoconto storico ha un’intenzione retorica: vuol convincere Israele a essere fedele all’alleanza
(cfr. v. 8).

*29,9-14: resoconto della stipulazione dell’alleanza.

Il protocollo dell’alleanza presenta i contraenti: come in un atto notarile, si fa menzione


dei due partner nella stipulazione dell’alleanza.

*29,15-17: richiesta di fedeltà assoluta, individuale e collettiva.

Si tratta di una parenesi rivolta al futuro, che contiene la legge fondamentale circa
l’idolatria.

*29,18-28: maledizione.

Il genere è ancora quello parenetico. Questi versetti hanno la particolarità di presentare la


collera, la gelosia, la furia e lo sdegno di Dio che investono Israele.

*30,1-10: benedizione.

Anche questa sezione parla del futuro d’Israele, ma in termini di conversione, di ritorno
alla terra e di una benedizione successiva alla maledizione. Se a livello formale il brano richiama
la struttura della parte precedente, quanto al contenuto ne rappresenta l’antitesi.

*30,11-14: parenesi sulla parola.

Viene riproposta la legge.

*30,15-20: benedizioni e maledizioni.

^^^Contenuto e rilevanza teologica


98
*Il paragrafo storico (Dt 29,1-8) contiene anzitutto una frase introduttiva (v. 1) che
descrive gli eventi storici in cui si gioca il rapporto tra Israele e il Signore. La narrazione di questa
storia segue un tipico schema letterario in tre punti: a) gli eventi legati alla permanenza in Egitto
e all’esodo; b) il tempo del cammino nel deserto; c) inizio della conquista. Il testo del Dt non si
limita a raccontare gli eventi della storia d’Israele, ma si sofferma anche a fornire una sorta di
commento o riflessione per ciascuno dei tre momenti suddetti. Questo fatto è legato all’indole
pedagogica del Dt: bisogna non solo raccontare i fatti, ma presentarne anche l’intelligenza. Se non
si capisce il senso della storia, non si capisce nemmeno il senso dell’alleanza e non si capisce
perché non si dovrebbero osservare i comandamenti. Comprendere la storia, capire l’alleanza
significa comprendere l’agente invisibile: come, cioè, il Signore agisce.

La storia fondatrice dell’alleanza mostra come da un lato il Signore gradualmente si ritira,


mentre dall’altro il popolo ha sempre più la possibilità di aderire all’alleanza, obbedendo a colui
che non vede. Nei vv. 1-2 si insiste sull’agire portentoso di Dio, assimilato a un sovrano potente,
mentre Israele rimane solo spettatore. Nel secondo momento narrativo (il deserto: vv. 4-5) la
presenza di Dio si fa più modesta e la sua azione meno appariscente: quarant’anni di ripetitiva
convivenza quotidiana. Non si parla di manna e acqua, ma si dice che Israele ha potuto
sopravvivere senza le condizioni normalmente necessarie per vivere: la vita di Israele è stata
protetta, il suo cammino custodito. Nel terzo momento (vv. 6-7) il Signore non è più menzionato:
il noi di Israele (in conflitto con altri re) diventa artefice di storia e possiede il potere sovrano di
decidere il combattimento, di prendere e distribuire la terra. Ora che Israele è davvero autonomo,
si può parlare di alleanza con Dio. Quando Dio si ritira diventa possibile sceglierlo liberamente,
per amore e in modo gratuito.

Per quanto riguarda il commento a tali narrazioni, si può rilevare la tipica svalutazione
deuteronomistica della visione. Al v. 3 si contrappone la vista, come esperienza dell’occhio, ad
una visione che si pone ad un altro livello. Quest’ultima viene intesa come esperienza interiore,
come un’operazione del cuore che conosce (attenzione all’imprecisa traduzione italiana!). Al v. 3
l’espressione occhi per vedere si trova tra cuore per sapere e orecchi per ascoltare. Si mettono
insieme tre facoltà (cuore, occhi, orecchi: impropriamente si potrebbe parlare di “organi di
percezione”) e tre operazioni (sapere, vedere, ascoltare). Questi elementi risultano legati tra di
loro in modo tale che, se non fossero contemporaneamente presenti e attivi, verrebbe meno ciò
che Dio desidera come atto di obbedienza autentica da lui. Fatto essenziale non è solo l’evento
nella sua esteriorità , ma l’evento capito (affiancato, cioè, dalla parola), che poi, a sua volta,
proprio perché capito diventa principio interiore di vita.

Il termine “oggi” (riferito al momento in cui Mosè sta parlando) è ripetuto parecchie volte
in un senso particolare. Altrove nel Dt sta ad indicare l’attualità del comando o è usato in
riferimento alla terra da ricevere. Qui, al v. 3, viene legato al cuore e al dono del capire. Ciò è
possibile perché sono trascorsi i quarant’anni nel deserto, dove Israele ha potuto fare esperienza
di Dio, della sua presenza e della sua assenza. Proprio quando Dio si è ritirato dalla scena, è
venuto il tempo in cui Israele è stato chiamato ad agire di sua iniziativa e ad assumersi le sue
responsabilità . La pedagogia di Dio ha permesso, solo in questo momento, di vedere ciò che
prima era invisibile, di ricevere il dono. Grazie a quest’idea della presenza / assenza di Dio si può
capire meglio l’“oggi” del Dt. Nei momenti difficili della sua storia, in cui Israele non percepisce
più il Signore, esso, proprio per questo, può ricevere il dono interiore di vedere l’invisibile e di
accedere a una nuova visibilità di Dio e a una salvezza inimmaginabile. Anche il v. 5b presenta
una prospettiva sapienziale: l’obbedienza ai comandi del Signore non è una semplice esecuzione
99
materiale ma è un atto sapienziale. Osservare tutte le parole dell’alleanza nel momento in cui si è
diventati autonomi è segno di sapienza, perché equivale ad aver capito donde viene la vita.

*Il protocollo dell’alleanza (Dt 29,9-14) pone al centro la formula di alleanza: Israele è il
popolo di YHWH, mentre il Signore è il Dio d’Israele. I due contraenti non sono definiti in se
stessi, ma l’uno in rapporto all’altro. Nell’alleanza nessuno dei due contraenti può essere capito
senza l’altro (analogamente a quanto avviene anche nella relazione sponsale). Da una parte c’è il
Dio invisibile che si caratterizza in quanto irrappresentabile; dall’altra c’è il popolo visibile che si
caratterizza per la sua strutturazione liturgica.

Questa struttura liturgica dice, in modo simbolico, la totalità di Israele come popolo
impegnato nell’alleanza: si tratta di una disposizione visibile dinanzi a colui che non si vede.
Questi dati hanno indotto alcuni autori a ipotizzare per questi testi un contesto di origine
liturgico, forse la celebrazione di una festa annuale. La disposizione del popolo non è infatti
casuale, ma gerarchica, in uno schema di tipo processionale che vede davanti i capi, poi i
funzionari, poi gli uomini, le donne e i bambini e, per ultimi, gli stranieri. In tutto il Dt e in tutta la
storia dtr, da queste figure gerarchiche maggiori (capi, giudici o funzionari) è condizionata tanto
la sorte dell’alleanza che quella del popolo.

Al v. 10 il forestiero è l’immigrato che non appartiene all’etnia di Israele, ma che ha preso


dimora nella sua terra: è interessante come egli venga qualificato come il “tuo” straniero. Mentre
il mercenario è colui che presta un servizio a pagamento poi esige la sua ricompensa, il forestiero
può essere configurato come un lavoratore dipendente (si noti che spaccare la legna e attingere
l’acqua possono essere gesti collegati con la liturgia). È significativo che il popolo chiamato a
entrare nell’alleanza non sia solo Israele, ma anche chi non ne fa parte per “consanguineità ”
(forse si può ravvisare qui un principio di concezione universalistica, di apertura di Israele nei
confronti delle nazioni).

Anche il v. 14 ci aiuta a cogliere l’idea di popolo che emerge da questo capitolo. Si parla di
un’alleanza “con chi non è qui con noi oggi”: quest’affermazione può sembrare strana, la si può
concepire in due modi.

a) Come riferita ai figli futuri, alla discendenza: in questo senso l’alleanza avviene tra il Dio
invisibile e il popolo invisibile (in quanto quest’ultimo non è ancora). Il popolo visibile porta
in sé nella speranza un popolo che non si vede ancora: il contenuto stesso dell’alleanza è
orientato verso il futuro. In tal modo si ha a che fare con un’alleanza che dura nel tempo: non
solo lo spazio (la liturgia di un popolo ben strutturato) è importante, ma anche l’apertura nel
tempo. Essa è una promessa di vita che si trasmette di padre in figlio in ogni oggi del tempo,
per un tempo indefinito. Questa apertura al futuro è molto importante perché fa entrare
nell’alleanza l’elemento della speranza.
b) Il riferimento può non limitarsi ai figli, ma essere indirizzato, pensando al passato, anche ai
padri che sono già morti (cfr v. 12): la vera alleanza richiede ad Israele di custodire la
memoria, di vedere ciò che non si vede. Questa dimensione diviene essenziale per il patto con
Dio: il suo fondamento sta nel suo giuramento che è, appunto, oggetto di memoria.
*La legge (Dt 29,15-17) richiama nuovamente il sapere e il vedere, ovvero l’intelligenza
acquisita che porta ad un agire retto. Questi verbi, in particolare, si riferiscono all’intelligenza derivata
dall’esperienza storica che Israele ha conseguito attraversando le nazioni (v. 15). Dall’Egitto allo
scontro con i Cananei (gli idolatri per eccellenza), l’esperienza di Israele è quella di passare attraverso

100
l’idolatria, nota tipica delle nazioni. Nel nostro testo si richiama la pratica della stipulazione
dell’alleanza: i contraenti il patto passavano attraverso un animale squartato in due e proclamavano una
maledizione su di sé, legata al caso in cui fossero venuti meno all’accordo (cfr Gn 15 e Ger 34). Entrare
nell’alleanza significa anche passare attraverso le nazioni senza farsi rovinare.
L’idolatria delle nazioni è definita con due termini: nefandezze e scelleratezze. È una terminologia
negativa che sta in parallelo con quella neutra presente pure al v. 16 (legno e pietra, argento e oro):
l’intelligenza spirituale sta nello scoprire la nefandezza in ciò che è neutro oppure, al limite, anche in
ciò che è bello. Questo richiede intelligenza: saper vedere ciò che è invisibile, il vero Dio non ha alcuna
rappresentazione visibile. L’idolatria non si configura come “peccato passionale”, ma come peccato
sapienziale, che riguarda il modo globale con cui si interpreta il mondo.
Alla fine del v. 17 l’espressione “una radice che produce veleno e assenzio” può essere considerata
come un detto proverbiale, che serve da commento a quanto detto: significa che l’idolatria (questa è la
radice) produce la morte e la sofferenza (veleno e assenzio), per questo non deve trovare posto in
Israele. In questo passaggio risulta che l’idolatria produce la morte da se stessa: mentre in altri passi è
Dio che interviene per condannare e punire l’idolatria, qui la conseguenza negativa, mortifera è
intrinseca al male stesso.

e) Dt 34
Ci soffermiamo sul brano conclusivo del Pentateuco, che proprio a motivo della sua posizione
viene ad assumere una rilevanza particolare nella comprensione del canone biblico.
Contenuto
Siamo alla scena finale non solo del Dt ma dell’intero Pentateuco. Il capitolo non solo conclude
la storia di Mosè iniziata in Es, ma funge da transizione tra il Pentateuco e il libro di Gs. Stando a studi
recenti non si tratta di un testo antico, ma di un testo successivo sia alla tradizione deuteronomica sia a
quella sacerdotale, che si pone come momento sintetico assumendo caratteristiche stilistiche di
entrambe le tradizioni. Il testo può essere suddiviso in tre parti: a) vv. 1-7: morte e sepoltura di Mosè
(l’ultimo versetto segna uno stacco nella narrazione); b) vv. 8-9: la reazione degli Israeliti (lutto e
successione); c) vv. 10-12: (un unico periodo) considerazioni finali su Mosè.
a) Le modalità della morte di Mosè rappresentano il compimento di precedenti parole divine. In modo
simbolico Dio mostra a Mosè l’intera terra promessa in tutta la sua estensione: lo sguardo di Mosè
rappresenta la prima presa di possesso della terra, l’unica concessa al grande leader. In particolare il
contenuto delle parole divine del v. 4 rappresenta una ripresa di quanto detto in Dt 32,48-52.
Dall’insieme del libro del Dt la morte di Mosè prima del suo ingresso nella terra promessa viene
letta come atto di supplenza per il peccato del popolo (cfr Dt 1,37; 4,21-22), mentre altrove era letta
come conseguenza del peccato di Mosè stesso (cfr Num 27,12-14). Di Mosè rimane la memoria
della sua forza fino all’ultimo momento: il v. 7 dice, con un pizzico di ironia, la superiorità anche
fisica del vecchio leader rispetto agli ultimi anni del cecuziente Isacco (Gn 27) e dell’impotente
Davide (1 Re 1,1-4). Di Mosè rimane pure il mistero della sua tomba (non si capisce se si tratti di
una memoria perduta o di una memoria mai posseduta): in questo passaggio Mosè esce dalla storia
di Israele e se ne pone tra i fondamenti.
b) La successione di Giosuè viene accennata sobriamente: giunge ad attuazione una misura
predisposta da Mosè stesso su indicazione divina (cfr Num 27,15-23). Il suo carisma di saggezza e
l’obbedienza che, in lui, gli Israeliti mostrano di riservare ai comandi divini costituiscono le
migliori premesse perché il cammino del popolo ebraico possa giungere a compimento.

101
c) Tre sono le caratteristiche menzionate per evidenziare l’unicità di Mosè: il suo rapporto faccia a
faccia con Dio (Dio gli ha riconosciuto il rango di interlocutore privilegiato: cfr Es 33,11 e Num
12,6-8), i prodigi operati in Egitto su mandato divino (il riferimento è all’esodo) e la forza della sua
azione a favore di Israele e in mezzo a Israele (il riferimento è alla guida del popolo nel deserto).
Accanto alla sottolineatura dell’unicità di Mosè nella storia di Israele (se si tratti di un’unicità
assoluta o relativa dipende dall’interpretazione della particella ‘ōd al v. 10, “non più” o “non
ancora”), ciò che risulta più originale in questo passaggio conclusivo è la caratterizzazione del
grande personaggio con la qualifica di “profeta”: il che non solo rispecchia altri testi (cfr, ad
esempio, Os 12,14), ma soprattutto apre la successiva parte del canone biblico (i profeti) ponendola
in continuità con il Pentateuco.
Rilevanza teologica
Il v. 10, segnalando la “qualità superiore” della relazione di Mosè con YHWH, sancisce il fatto
che le parole rivelate da Dio a Mosè hanno un valore superiore a tutte le altre: in tal modo viene sancita
l’unicità e la superiorità di contenuto del Pentateuco rispetto a quello di tutti gli altri libri biblici. Gli
ultimi due versetti riecheggiano probabilmente le discussioni fra vari gruppi durante il secondo tempio:
vi erano movimenti messianici, profetici, apocalittici, sapienziali e un giudaismo che voleva come
primo e unico fondamento la tradizione mosaica (= il Pentateuco). Quest’ultimo movimento ha
trionfato nella Bibbia masoretica. I Samaritani sono andati ancor oltre perché hanno ammesso solo il
Pentateuco nel loro canone, i Sadducei adottarono una posizione analoga.
Il fatto che il Pentateuco, cioè il testo che rappresenta la costituzione di Israele, si concluda a
questo punto esprime qualcosa di rilevante per l’identità del popolo di Dio. L’esodo risulta essere
l’evento fondamentale della storia di Israele: nessun altro evento può essere paragonato con esso. La
fondazione d’Israele risale dunque a Mosè e non a Davide o Salomone. L’identità di Israele è legata a
questo avvenimento e, di conseguenza, all’alleanza con Dio, all’osservanza della legge, al culto e ad
alcune istituzioni di riferimento (sacerdoti e anziani): Israele è tale anche senza la monarchia e anche
senza il possesso della terra. La terra promessa rimane la prospettiva del futuro: un messia dovrà venire
un giorno per radunare il popolo e fondare un “regno” eterno di pace.
La morte di Mosè rappresenta un avvenimento chiave per la comprensione del canone biblico,
veterotestamentario in particolare. Non a caso il Pentateuco dedica l’ultimo dei suoi libri all’ultimo
giorno della vita del grande personaggio. Ora, la morte di Mosè rappresenta un vero e proprio crinale
teologico: essa avviene prima dell’ingresso nella terra promessa, l’ingresso nella quale rappresentava
una parte essenziale dell’esodo (cfr Es 3,8 e Dt 26,8-10). Mosè ha condiviso pienamente la sorte del
suo popolo nell’esodo, nei quarant’anni nel deserto e, specie ora, nelle conseguenze del peccato. Ora
egli deve morire senza realizzare ciò per cui Dio l’aveva chiamato: condurre il suo popolo alla terra
promessa. Gli ultimi vv. del Dt sono una sorta di epitaffio, dedicato all’esaltazione di Mosè: eppure c’è
dell’amarezza in questo panegirico. Si allude ai prodigi dell’esodo e della permanenza nel deserto, ma
non si può parlare dell’ingresso nella terra. Egli muore prima, guardando la terra di lontano: non può
attraversare il Giordano. Quest’episodio chiave della storia d’Israele diventa decisivo anche per la
struttura del canone biblico, dal momento che l’esodo (l’atto divino fondante Israele) rimane
incompiuto. A dispetto della nostra concezione storicizzante (per cui dopo Mosè la storia sarebbe
proseguita linearmente con la successione di Giosuè e gli avvenimenti successivi), nel canone dopo la
morte di Mosè vi è una profonda frattura.
La cosa è rilevabile già da un punto di vista letterario. Non solo Gs si ricollega ai contenuti del
Dt, ma pure alcuni fra i temi e i motivi dell’esordio del primo dei profeti maggiori (Is 1) e l’esordio del
Salterio (Sal 1,2, il salterio come meditazione sulla tôrāh). Anche all’inizio del libro di Gs, il nuovo
102
leader viene invitato da Dio a comportarsi secondo la tôrāh data da Mosè (cfr Gs 1,7-9): in tal modo la
Bibbia diventa autoreferenziale, guarda indietro a se stessa come a qualcosa di diverso, oggettivo,
concluso. Ciò che avviene in seguito è ancora Scrittura, ma solo ciò che è stato prima (e che si è
concluso con la morte di Mosè) è la tôrāh. In questo senso non dobbiamo farci influenzare dal modello
del “codice” (= libro): la Bibbia non scorre in modo lineare. Dopo il Pentateuco essa esplode in modo
pirotecnico: dopo la morte di Mosè, tutti gli altri libri si pongono immediatamente in rapporto con i
testi costitutivi della tôrāh e ne rappresentano un possibile completamento. Può essere utile ricordare
che inizialmente i singoli scritti del canone veterotestamentario non erano raccolti in un codice, ma
stavano nella libreria della sinagoga come rotoli in una cesta, l’uno accanto all’altro. Tutti gli altri
scritti del canone sono complemento e commento a ciò che la tôrāh contiene.
Abbiamo già constatato come la tôrāh non contenga tutta la storia delle origini di Israele, come
l’esodo non venga raccontato che a metà. La seconda parte, l’entrata nella terra, è contenuta nella tôrāh
solo come progetto e promessa. In questo senso si può parlare del Pentateuco come di una “sinfonia
incompiuta”. L’ingresso ha poi avuto luogo? Si è fatto attendere? Deve ancora venire? Dobbiamo
ancora sperare? Che ne è di noi ora? Queste sono le domande che derivano dalla struttura del canone e
che vengono riproposte continuamente negli altri scritti, commento dopo commento, alternativa dopo
alternativa.
La prima risposta è contenuta nell’opera storica dtr (Gs-2Re) che sembra il proseguimento
naturale del Pentateuco. Essa è il resoconto di un tentativo fallito: alla fine Israele si trova nuovamente
al di fuori di essa (esilio). In Ez 20 la storia di Israele nella sua terra viene raccontata guardando
indietro dall’esilio: il tutto suona come se Israele nella sua terra non ci fosse ancora stato. Esso si trova
ancora nel deserto, nel “deserto dei popoli”: il vero ingresso è ancora di là da venire. In fondo esso è
ancora di là da venire in tutti gli scritti profetici.
Tale concezione viene rispecchiata dalla maniera con cui si legge il canone nelle sinagoghe
d’Israele: al sabato, solo la tôrāh è oggetto di una lettura continua. Quando, alla fine di un anno di
letture, si arriva alla morte di Mosè, non si passa al libro di Gs, ma si ricomincia con la Gen. Israele
condivide costitutivamente lo stesso destino di Mosè: si trova al di là del Giordano, nel deserto, non ha
ancora attraversato il fiume. Questa è la permanente situazione d’ascolto che il canone dell’AT
presuppone e che esso stesso contribuisce a creare. Si tratta anche di una delle chiavi di cui tenere
conto in modo imprescindibile per una corretta teologia biblica.
Il NT si pone come compimento e risposta al Pentateuco. In Gesù Dio porta a compimento
l’esodo e pone rinnovate fondamenta alla storia della salvezza. Non a caso il vangelo inizia con Gesù
che, dopo il battesimo di Giovanni al Giordano, entra nella terra: nella fede cristiana, Gesù è colui che
fa attraversare il Giordano per entrare nel “regno”. E la parola ultima del vangelo non è più una morte
ma la resurrezione.

Gn 22,1-19
1 Dopo questi fatti Dio mise alla prova Abramo
e gli disse: “Abramo”. Disse (Rispose): “Eccomi”.
2 Disse: “Prendi tuo figlio, il tuo unico (figlio) che ami, Isacco, e vattene nel paese di Moria e là
offrilo in olocausto, su un monte che io ti dirò”.

103
3 Abramo si alzò di buon mattino, sellò il suo asino, prese due dei suoi servi con sé e suo figlio Isacco,
spaccò la legna dell’olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che gli aveva detto Dio.
4 Il terzo giorno Abramo alzò gli occhi e vide il luogo da lontano.
5 Abramo disse ai suoi servi: “Fermatevi qui con l’asino; quanto a me e al ragazzo, andremo
fin lassù, adoreremo (ci prostreremo) e torneremo da voi”.

6 Abramo prese la legna dell’olocausto e la caricò su suo figlio Isacco, prese nella sua mano il
fuoco e il coltello, poi i due proseguirono insieme.

7 Isacco si rivolse (disse) ad Abramo suo padre e disse: “Padre mio”. Rispose: “Eccomi, figlio mio”.
Riprese: “Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”.

8 Abramo disse: “Dio stesso provvederà per sé l’agnello per l’olocausto, figlio mio”. Poi i due
proseguirono insieme.
9 Giunsero (così) al luogo che Dio gli aveva indicato e là Abramo costruì l’altare, dispose la
legna, legò suo figlio Isacco e lo pose sull’altare, sopra la legna.
10 Abramo stese la sua mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
11 L’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e disse: “Abramo, Abramo”. Disse: “Eccomi”.
12 Disse: “Non stendere la tua mano contro il ragazzo e non fargli nulla perché ora so che tu sei
timorato di Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico (figlio)”.
13 Abramo alzò i suoi occhi e vide: ecco un ariete impigliato in un cespuglio con le corna. Abramo
andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto al posto di suo figlio.
14 Abramo chiamò “Il Signore provvede” (il nome di) quel luogo, che (perciò) oggi è detto “Sul monte
il Signore provvede”.
15 L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta
16 e disse: “Giuro su me stesso – oracolo del Signore -: poiché hai fatto questo e non (mi) hai
rifiutato tuo figlio, il tuo unico (figlio),
17 ti benedirò oltre misura e moltiplicherò incredibilmente la tua discendenza come le stelle
del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà della
porta (delle città) dei suoi nemici.

18 Si riterranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché hai
obbedito alla mia voce”.

19 Abramo tornò poi dai suoi servi e si misero insieme in viaggio verso Bersabea. Abramo si stabilì
in Bersabea.

Il decalogo

104
Es 20,2-17 17 Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non
2 “Io sono il Signore tuo Dio, che ti ho fatto desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo
uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino,
schiavitù. né qualsiasi cosa appartenga al tuo prossimo”.

3 Non avere altro dio (meglio che altri dei)


dinanzi a me.

4 Non farti idolo e qualsiasi rappresentazione


che sia lassù in cielo e che sia quaggiù sulla
terra e che sia nelle acque sotto la terra.

5 Non prostrarti dinanzi a loro e non lasciarti


indurre a servirli (lasciarti asservire da essi),
perché io sono il Signore tuo Dio, un Dio geloso
che punisce la colpa dei padri nei figli nella
terza e nella quarta generazione per (tra)
coloro che mi odiano,

6 ma che usa bontà (= è benevolo) per mille


generazioni per (tra) coloro che mi amano e
per (tra) coloro che osservano i miei precetti.

7 Non pronunciare il nome del Signore tuo Dio


invano, perché il Signore non lascia impunito
chi pronuncia il suo nome invano.

8 Ricorda il giorno di sabato per santificarlo


(santificandolo)

9 Sei giorni servirai e farai ogni tuo lavoro,

10 ma il settimo giorno è il sabato per il Signore


tuo Dio. Non fare nessuno lavoro, né tu, né tuo
figlio, né tua figlia, né il tuo servo né la tua
serva, né il tuo bestiame né il tuo forestiero che è
presso le tue porte,
11 perché in sei giorni il Signore ha fatto il
cielo, la terra e il mare e tutto ciò che è in essi,
ma il settimo giorno si è riposato. Perciò il
Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha
santificato.

12 Onora tuo padre e tua madre affinché si


prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il
Signore tuo Dio ti dà.
13 Non uccidere.

14 Non commettere adulterio.

15 Non rubare.

16 Non testimoniare contro il tuo prossimo


come testimone falso.

105
Dt 5,6-21 17 (= 13)
6 (= 2) 18 (= 14)

19 (= 15)
7 (= 3) 20 (= 16)

21 Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non


bramare la casa del tuo prossimo, né il suo campo,
8 (= 4)
né il suo servo né la sua serva, né il suo bue né il
suo asino, né qualsiasi cosa appartenga al tuo
prossimo.

9 (= 5)

10 (= 6)

11 (= 7)

12 Osserva il giorno di sabato per santificarlo


(santificandolo), come il Signore tuo Dio ti ha
ordinato.

13 (= 9)
14 ma il settimo giorno è il sabato per il
Signore tuo Dio. Non fare nessuno lavoro, né tu,
né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo né la
tua serva, né il tuo bue né il tuo asino, né tutto
il tuo bestiame né il tuo forestiero che è presso
le tue porte, affinché il tuo servo e la tua serva
si riposino come te.

15 Ricordati che sei stato schiavo nel paese


d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto
uscire di là con mano forte e braccio teso:
perciò il Signore tuo Dio ti ordina di fare il
giorno di sabato.

16 Onora tuo padre e tua madre come ti ordina


il Signore tuo Dio, affinché si prolunghino i tuoi
giorni e affinché ti faccia del bene sulla terra
che il Signore tuo Dio ti ha dà.

106

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