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MOSÈ Esercizi Spirituali Per I Sacerdoti PDF
MOSÈ Esercizi Spirituali Per I Sacerdoti PDF
Introduzione
Tutto comincia ( i primi tre capitoli dell’Esodo) con una persecuzione, che
però è una benedizione o con una benedizione, che diventa persecuzione.
Israele sta in Egitto e sperimenta la benedizione di Dio. Dio aveva
chiamato Abramo e aveva fatto la grande promessa della benedizione: “Io
ti benedirò e tu diventerai benedizione!”. E cos’è la benedizione? “Io farò di
te un grande popolo!”. La presenza di Dio dentro la storia di quest’uomo
con una moglie sterile diventa il fiorire della vita: la grande fecondità, la
vita che si manifesta in tutta la sua bellezza, la benedizione. La
benedizione originaria: quella di Genesi 1, quando Dio crea tutto e nel
momento in cui crea la vita, lì Dio benedice. E la benedizione è: “Crescete
e moltiplicatevi!”. All’inizio dell’Esodo siamo in un momento in cui questa
benedizione sulla vita che è il moltiplicarsi, questa benedizione sul popolo
figlio di Abramo che è diventare numeroso, grande popolo, questa
benedizione adesso si sta di fatto avverando e concretizzando. Il popolo
d’Israele cresce a dismisura e questo che è il manifestarsi della presenza di
Dio e del suo favore e della sua grazia in mezzo al suo popolo diventa
motivo di persecuzione per il popolo. Questo segno bello della
benedizione di Dio diventa per il popolo motivo di maledizione. Chi
cammina nei sentieri di Dio è abituato a questo. La benedizione, la
maledizione sembrano andare sempre insieme. Quello che è benedizione
sembra incarnarsi in qualche cosa che insieme la contraddice e viceversa.
Il cammino di fede - lo sappiamo - percorre sentieri invisibili, che vanno
sempre al di là di quello che si vede. Tu vedi la morte e invece la fede ti
dice che lì c’è la vita. Tu vedi un crocifisso che sembra un condannato e
invece la fede ti dice che lì c’è il Salvatore del mondo. Tu vedi la
persecuzione e la fede ti dice che lì c’è il fiorire grande della grazia di Dio.
Tu vedi il martirio e dici: qui si muore! e la fede ti dice: attento, è solo qui
che finalmente si vive! Questo è Israele, perché Israele è figura di ogni
credente. Israele che è in Egitto e che, benedetto, si ritrova perseguitato,
proprio a motivo della benedizione, con il faraone che dice: questi
crescono, finisce che si alleano con i nostri nemici, si mettono contro di
noi e poi se ne vanno. Bisogna bloccare tutto! Comincia la storia di morte a
motivo della troppa vita. Vi ricordate quando le levatrici vanno da faraone
e devono rendere conto del fatto di non aver ucciso i bambini, dicono: le
donne ebree sono diverse, sono molto più vitali, per cui i bambini nascono
e quando noi siamo arrivati è già tutto fatto! C’è qualche cosa in rapporto
alla vita che lì è particolare, che è fecondo, che esplode senza che nessuno
possa contenerlo. Troppa vita! E allora il mondo dice: morte! E questo è
faraone. E questa è la vicenda anche della chiesa e del mondo. Questa è la
vicenda di ogni credente, del giusto che viene perseguitato, perché
proprio il suo essere giusto dà fastidio agli empi. Sarebbe utile rileggere i
primi capitoli del libro della Sapienza, dove gli empi dicono: “Basta!
Distruggiamo il giusto, perché lui è diverso da noi e perché lui con la sua
giustizia ci ricorda che noi siamo ingiusti e allora bisogna ammazzarlo!
Adesso noi qui abbiamo Israele che ricorda con la sua vita che Dio è vita e
allora bisogna uccidere Israele. È l’elemento estraneo che viene percepito
come un pericolo. Notate: Israele viene percepito come un pericolo, ma in
realtà è debole e piccolo. Il faraone dice: ecco il popolo dei figli di Israele è
diventato più numeroso e più forte di noi; allora prendiamo provvedimenti
e rendiamoli schiavi. Questo vuol dire che gli israeliti non erano tanto più
forti di loro se si può renderli schiavi. In realtà Israele è sì numeroso, ma
rappresenta per l’Egitto semplicemente della mano d’opera a buon
mercato. In realtà è numeroso, ma portatore di una dimensione intrinseca
di piccolezza, di povertà. L’Egitto invece è grande e potente, il faraone ha
potere di vita e di morte su tutti, si proclama dio in terra: ecco la vera
potenza! La potenza che si ritrova ad avere paura della piccolezza, della
debolezza, quando nella debolezza e nella piccolezza si manifesta Dio.
Questo che succede a Israele è quello che succede a noi, alla chiesa e che
dovrebbe succedere nella chiesa. Fare paura ai grandi, ai potenti, non
perché siamo grandi e potenti anche noi, ma perché siamo piccoli,
debolissimi e poverissimi, così che in realtà non facciamo paura, ma
semplicemente siamo portatori di un mistero che sgomenta, il mistero di
Dio. E allora la reazione è: bisogna ucciderli! Ma guai a noi se ci vogliono
uccidere perché siamo potenti! E beati noi se invece ci vogliono uccidere
perché siamo piccoli, poveri e giusti e perché il Signore ci rende così.
Questa è la storia di Israele, ciò che precede la nascita di Mosè, che quindi
lo segna. Mosè, figura sacerdotale è il risultato di questo e incarna tutto
questo! E allora comincia la persecuzione in Egitto, contro Israele. Prima i
lavori forzati, la schiavitù, l’uccisione dei figli maschi; le levatrici non lo
fanno e allora si passa all’uccisione, facendoli annegare nel grande fiume. Il
grande fiume che doveva portare la fecondità e la fertilità all’Egitto,
diventa invece il fiume della sterilità totale e il fiume della morte. Davanti a
questa volontà terrificante di morte dei potenti (il faraone), i piccoli
reagiscono e vincono della vittoria di Dio, cioè di quelle vittorie che
passano attraverso i piccoli segni. Le prime piccole con il piccolo segno
sono le levatrici, che si rifiutano di uccidere. Il testo è lì molto ironico!
Sono donne che di per sé non hanno nessuna funzione veramente potente
all’interno del regno di faraone e riescono a prendere in giro faraone, nel
senso che riescono non solo a disobbedire, ma a impedirgli di reagire. E
quando faraone chiede: come mai? Loro si mettono a parlare di vitalità
delle donne e di modo di partorire. Il faraone non ne sa niente; viene
portato su un terreno molto scivoloso, roba di donne e si deve fidare. Un
po’ di donne deboli danno scacco matto al grande potente, perché hanno
voluto salvare la vita. E allora dice il testo: Dio le ricompensa e le rende
feconde. Hanno riconosciuto la vita, hanno accolto la vita e ricevono in
dono vita sovrabbondante. E allora visto che le levatrici non hanno
funzionato c’è l’esposizione dei bambini nel fiume e anche lì chi salva quel
bambino, che poi salverà tutti gli altri, sono ancora delle figure di
debolezza. La figlia del faraone di per sé aveva una posizione privilegiata,
però è comunque una donna, quindi è poco importante e con quella cosa
così particolare; le levatrici, siccome hanno salvato i bambini diventano
feconde, la figlia del faraone, siccome salva Mosè, diventa madre. C’è lì un
gioco simbolico. Lei vede il bambino, s’intenerisce, decide di tenerlo, però
ha bisogno di una balia che allatti il bambino. Lei non è madre, non ha
latte, non può dare vita a quel bambino perché non gliel’ha data, lei in
qualche modo è come se fosse sterile, non può nutrire e però, siccome
salva il condannato a morte, allora diventa madre, con quella scena della
sorellina di Mosè. La mamma di Mosè vede che il bambino è bello, non ha
cuore di uccidere il bambino, lo vuole salvare, lo mette nel canestro; il
canestro galleggia sulle acque del Nilo. Il canestro, nel testo originale,
viene chiamato con lo stesso nome con cui viene indicata l’arca di Noè,
viene usato lo stesso termine. Il canestro e l’arca di Noè sono la stessa
cosa, che galleggiano sull’acqua; quelle acque che dovrebbero uccidere (al
diluvio distruggono tutto, e qui il Nilo uccide i bambini) quelle acque
invece, siccome Dio interviene, tengono a galla, fanno vivere Noè con tutta
la vita che ha dentro l’arca, fanno vivere il piccolo Mosè, facendolo
galleggiare e... arriva lì dove c’è la figlia del faraone, vede il bambino, il
bambino è bello e piccolo, la figlia del faraone è una donna! Fate vedere ad
una donna un piccolo di uomo e lei si intenerisce, anche la figlia del
faraone si intenerisce e qui interviene la sorellina di Mosè, quando la figlia
del faraone ha compassione del bambino. La figlia del faraone non ha
ancora deciso niente, dice solo che è intenerita del bambino. La tenerezza
è la breccia attraverso cui passa la sorellina. La sorellina arriva lì e dice:
devo andare a chiamare una bàlia tra le donne ebree perché allatti per te il
bambino? E così Mosè è salvo. Notate: la sorellina arriva e mette la figlia
del faraone davanti ad una decisione, che la figlia del faraone non ha
ancora preso, ma che la piccola dà per scontato, facendo sembrare che sia
la figlia del faraone a decidere tutto. Devo andare a chiamare “per te”,
perché allatti “per te”? Il testo ripete quel “per te” due volte. È la figlia del
faraone che decide tutto; è lei la padrona e la signora; in realtà è la
piccolina che la porta ad adottare il bambino. Ci sarebbe da chiedersi se è
la figlia del faraone che adotta Mosè o se è la sorellina di Mosè che adotta
la figlia del faraone come madre per Mosè. Vedete il gioco? È un gioco
importante, perché finisce che è una ragazzina, per di più figlia di Ebrei,
figlia di schiavi e di perseguitati. È una ragazzina che cambia le sorti
dell’Egitto e che dà il via alla storia della salvezza, perché così Mosè è vivo,
è salvo e adesso la storia della salvezza entra in una fase importante, che è
veramente quella della liberazione del popolo e della costituzione del
popolo. Però tutto perché la figlia del faraone si era intenerita. La salvezza
di Dio si fa strada tra gli uomini utilizzando gli uomini, le loro inclinazioni,
i loro sentimenti; la tenerezza, l’avere compassione sono sentimenti
umani, sono cose perfino istintive, non sono neppure frutto di virtù e la
storia della salvezza cammina utilizzando il materiale che c’è, utilizzando
noi. E così Mosè si ritrova salvato quasi per caso, e invece è l’amore di Dio
che sta guidando tutto attraverso l’amore di un po’ di donne: la madre di
Mosè, la figlia del faraone, le levatrici, la sorellina. Ecco, questo segna il
destino di Mosè. Ora Mosè per definizione è colui che è stato salvato ed è
per questo che può diventare il salvatore. Lui ha fatto esperienza
strutturale di morte, perché doveva morire lì nel momento in cui nasceva.
Chi ha fatto strutturalmente esperienza di morte può allora diventare
mediatore di vita, perché non ci sarà rischio che si illuda che la vita che lui
dà agli altri sia sua. Mosè adesso diventa mediatore, strumento di vita per
il suo popolo, ma avendo fatto esperienza fin dall’origine che a lui la vita la
stavano togliendo: figuriamoci se può darla! Lui stava morendo:
figuriamoci se può far vivere gli altri! Lui è stato salvato: figuriamoci se lui
può salvare qualcuno! Uno che ha vissuto questo nella carne può diventare
salvatore, colui che dà la vita, perché allora la salvezza e la vita sarà di Dio,
perché sarà quello strumento povero che non farà mai da schermo, che
non si sostituirà mai a Dio, perché sarà quella debolezza in cui la forza di
Dio può trionfare, quella cosa piccola che Dio usa perché sia possibile
manifestare la sua grandezza e fare cose grandi. Solo che questo non
basta! Essere stati salvati dalla morte non basta per diventare mediatori di
salvezza. Ci vuole la purificazione di quell’esperienza e ci vuole l’invio da
parte di Dio. Mosè cresce, vede gli egiziani che maltrattano il suo popolo e
si mette a fare il salvatore. Si guarda attorno, vede che non c’è più
nessuno, uccide l’egiziano e poi lo seppellisce nella sabbia. Sembrerebbe
un gesto di salvezza lo schierarsi da parte del più debole, lo schierarsi dalla
parte della vittima, l’uccidere il carnefice per liberare il perseguitato;
invece no! Il testo biblico chiarisce subito che quello non è il cammino
della salvezza, perché la salvezza non viene dall’iniziativa dell’uomo. Qui
adesso Mosè prende lui l’iniziativa di salvare; più che un liberatore sembra
un cospiratore, un terrorista... C’è qualche cosa in quest’azione di Mosè
che è segnata dall’ambiguità, dalla contraddizione inaccettabile;
soprattutto è chiarissimo che non è vero che la vita possa venire
dall’uccisione di un altro. La vita viene da qualcuno che muore ucciso da
quello che darebbe salvezza. Mosè uccide l’egiziano e questo non salva
nessuno. Salvare non vuol dire uccidere, ma morire. Allora bisognerà che
qualcuno muoia perché ci sia la salvezza; ma sarà non la morte che viene
provocata dal salvatore, ma la morte del salvatore. Quello che può dare la
vita non è uccidere, ma dare la vita, morire appunto. E allora ecco che
quell’episodio che sembrava mettere Mosè nella strada giusta del servizio
della salvezza presso i fratelli, si rivela invece fallimentare e Mosè deve
passare attraverso la purificazione. Deve scoprire che non è così che si
libera il popolo, sperimentare la paura e, quando ha timore di essere stato
scoperto, entrare nella dimensione vile della fuga per mettersi in salvo. Il
grande eroe scappa! È un bel modo in cui il testo ci fa vedere che bisogna
passare attraverso la disillusione di sé, che è il misurarsi con la propria
verità. È il far cadere le illusioni, è il non fare conto su di sé, ma solo su
Dio. E allora Mosè fugge, si stabilisce a Madian, mette su famiglia, passa lì
40 anni; adesso ha una moglie, dei figli, un lavoro, accudisce al gregge del
suocero, ormai è stabilizzato, l’Egitto è un capitolo chiuso. Mosè ormai si è
imborghesito, ha dimenticato di essere uscito dalle acque e a questo punto
Dio interviene per chiamarlo ed è solo adesso che Mosè può davvero
tornare dai fratelli per essere mediatore di salvezza. Mai per la propria
iniziativa, ma perché è Dio che lo manda; non per i propri meriti, ma
perché è Dio che lo ha salvato e che allora adesso lo manda a diventare
strumento di salvezza. Ed è l’episodio del roveto ardente. Fate attenzione
che all’inizio si usa tante volte la parola “vedere”. Dio si fa vedere, cioè
appare. Mosè vede il roveto e dice: che fenomeno strano! Voglio andare a
vedere che cos’è? Dio vede che Mosè è andato a vedere. Tutto è incentrato
sul vedere. E poi invece il vedere sparisce e tutto si gioca sul “parlare”. Dio
chiama Mosè, Mosè risponde e qui comincia il grande dialogo di Dio e
Mosè con l’invio ai fratelli per liberarli e con la rivelazione da parte di Dio
del suo nome indicibile e inconoscibile. Perché fare attenzione al vedere e
al parlare? Perché è quello il mistero dell’esperienza del divino. Il vedere
segnala qualche cosa di Dio: il roveto ardente; ma bisogna che poi
intervenga la Parola perché si chiarisca che cosa davvero è quello che si
vede. Perché quello che si vede non è quello che si vede. Tu credi di vedere
ma stai solo vedendo un roveto ardente. Quando però interviene la Parola
tu capisci che non è il roveto ardente, ma che lì c’è la presenza di Dio. E
allora quando capisci questo ti copri gli occhi e decidi di non vedere più,
perché sei davanti al Signore. Provate a interiorizzare questo perché è
l’esperienza della contemplazione, dell’incontro con Dio e perché è
l’esperienza sacerdotale dell’essere al servizio di una Parola ; perché è la
Parola che dà senso alla visione, è la Parola che la interpreta e la fa vera. Il
sacerdote è un uomo anche di gesti, liturgici, profetici, di carità, ma al
fondo è il servo della Parola. E quei gesti devono essere sempre
interpretati alla luce della Parola di Dio e devono essere manifestazione
della presenza di Dio e della sua Parola in mezzo al popolo. Mosè, come il
sacerdote, più che vedere deve ascoltare, per poi poter parlare. Così
comincia l’invio di Mosè. Un’ultima cosa: Mosè va a vedere! Vuol dire che
Mosè è ancora aperto al nuovo, vuol dire che Mosè non si è veramente
seduto, che non ha ormai incasellato la sua vita dentro i suoi schemi. E
soprattutto non ha incasellato Dio nei suoi schemi; è ancora pronto a
riconoscerlo e a vederlo. Guai a dare per scontato le cose, guai a pensare
di sapere, guai a dare per scontato Dio, guai per un sacerdote a diventare
un professionista del sacro! Allora anche mille roveti non servono a niente!
Invece è lì, quando si è davanti alla novità, quando Dio non è mai
posseduto, ma solo accolto, è solo lì che finalmente ci si può aprire e
quindi accogliere l’invito ad andare dai fratelli; noi salvati, a offrire con i
mediatori la salvezza. Vi invito a ripercorrere un poco queste cose e anche
la vostra storia personale alla luce di questo. Il Nilo, da cui ognuno di noi è
stato salvato; la morte a cui ognuno di noi è stato strappato; quell’insieme
di circostanze che hanno fatto la nostra vita e che l’hanno segnata e che
hanno segnato anche la nostra vocazione. Quando Mosè arriva al roveto
ardente e Dio lo chiama non è che viene chiamato da Dio lì per la prima
volta; Mosè è stato chiamato quando l’hanno buttato nell’acqua del Nilo,
solo che al momento del roveto ardente Mosè capisce la chiamata, prende
coscienza di questa chiamata che è dalle origini, che ha persino preceduto
il suo nascere; lì però ne prende coscienza, lì l’assume e allora alla luce di
quello può rileggere tutto quello che è avvenuto. Dio chiama sin dall’inizio,
poi però quando noi prendiamo coscienza di questa chiamata tutta la
nostra storia passata acquista un’altra luce. Il fatto che ci abbiano tirato
fuori dal Nilo, il fatto che ci abbiano educato in un certo modo, il fatto che
noi abbiamo fatto degli errori che poi ci hanno portato lontano, nel
deserto, a Madian, e adesso lì ci porta a vedere il roveto... ecco tutta la
nostra storia... l’amore per i fratelli che ci ha fatto insorgere contro
l’egiziano per ucciderlo, però scoprire che era un errore e allora
andarsene, la disillusione di noi, il ritrovaci soli... insomma tutta la storia
che Dio ci fa percorrere da quando ci salva al Nilo fino a quando ci fa
andare in giro per tanti anni nel deserto... tutta quella storia allora
riprende senso! Tutta quella storia era per essere mandato dai fratelli a
diventare segno della presenza di Dio. E allora la storia vive anche questo
canto incredibile che ognuno di noi fa nella gratitudine, nella gioia, perché
tutto, ciò che è bello e ciò che è brutto, ciò che uccide e ciò che fa vivere,
ciò che è grazia e ciò che è peccato, tutto adesso si rivela come la trama di
un disegno stupendo, incredibile, meraviglioso, che è il fatto che Dio ci
vuole come segno di salvezza presso i nostri fratelli. Questo siamo noi e
questa è la nostra storia. Riappropriamoci della nostra chiamata, della
nostra vocazione e nel fare questo guardiamo Maria insieme a Mosè. Maria
che è nella sua casa, nel quotidiano della vita di una ragazza che sta
aspettando di andare a vivere con il suo sposo, dentro un progetto
matrimoniale, che è un progetto di fecondità di vita, di famiglia in cui
vivere la propria fedeltà a Dio e che invece si vede messa davanti a un
progetto diverso. Sì la fecondità, sì la generazione, sì la vita di famiglia, ma
tutto per opera dello Spirito. Tutto in tutt’altra direzione! E anche Maria
come Mosè rimane sgomenta e chiede: ma come è possibile? Che non è il
dubbio della fede, ma è l’interrogarsi della fede sulle modalità di questo
evento che deve avvenire. Ella non dice: ma come è possibile? No, non è
possibile! Maria dice: come avverrà? Lei è disponibile; non sa nulla, ma sa
che Dio è più grande e allora: ma come avverrà? Non mette argini alla
possibilità infinita di Dio, non mette difficoltà, fa la domanda dei piccoli:
come? Ed è quel come che è già tutta un’apertura, che è già dire sì.
D’accordo! come? È la disponibilità totale davanti all’ignoto più assoluto,
davanti all’inimmaginabile, davanti a ciò che non è possibile e che invece è
possibile a Dio, perché tutto è possibile a Dio. E allora in quel momento
Maria diventa tempio, casa del Signore, arca dell’alleanza, e anche la sua
casa allora si trasforma. Adesso è la sua umanità, quella di cui Dio si serve,
che è trasfigurata e ormai tutta assunta nel progetto di Dio e tutto per
quel “sì”, che è addirittura un “come succede”? Quel sì che è all’inizio dei
molti sì che alimentano la storia di Dio dentro la nostra storia umana per
farci sempre più simili a Maria e a suo Figlio Gesù.
Tutto si svolge nel deserto dal momento che ormai questo è il luogo in cui
Mosè sta svolgendo la sua funzione di guida nei confronti del popolo
d’Israele. Il deserto è visto dal testo biblico fondamentalmente come una
grande scuola di fede. È nel deserto che il popolo impara a vivere
nell’obbedienza, nella libertà dell’obbedienza, e a camminare dietro a Dio.
Il popolo si muove quando si muove la colonna di nube e di fuoco, si ferma
quando la colonna si ferma, va dove essa va... vive secondo i ritmi che Dio
gli impone e secondo i cammini e i percorsi, che Dio gli impone. Niente è
lasciato alla decisione personale degli israeliti e del popolo, tutto è lasciato
alla decisione libera di obbedire a Dio. E allora si fa solo ciò e come Dio
vuole. Allora il deserto è la nostra vita di fede, in cui uno parte e si ferma in
obbedienza, va dove Dio gli indica di andare, si fida che dove Dio indica di
andare quello è per il nostro bene, si fida del fatto che Dio ci fa vivere, si
impara allora a vivere solo di ciò che Dio dona e non di ciò che la nostra
furbizia può procurarsi. Insomma si impara a vivere andando dietro al Dio
invisibile, che però oramai si è fatto definitivamente visibile nel Signore
Gesù e che adesso continua a camminare con noi nei nostri fratelli. Se
allora il deserto è questo, lì dove si vive di obbedienza, dove si vive di fede
è chiaro però anche che il deserto è inevitabilmente il luogo della crisi. La
fede necessariamente mette in crisi, nel senso che avere fede vuol dire
fidarsi e fidarsi è un essere messi in crisi nella nostra pretesa di gestire
tutto noi per attraversare la crisi che porta a fidarsi di un altro. È nel
deserto che si mette alla prova la verità del nostro rapporto con Dio (qui
sta la crisi!). Il deserto è per definizione il luogo dove manca tutto, e allora
se lì manca tutto, il rapporto con Dio emerge in tutta la sua verità nel
senso che lì dove manca tutto non puoi più illuderti, quando dici che Dio
per te è tutto. Se manca tutto, o Dio ti basta per davvero oppure tu entri in
crisi. Il deserto come luogo di fede, ma fondamentalmente come luogo di
verità. Perché noi viviamo di fede, ma in realtà puntellati da tante
sicurezze, da tutto ciò che in realtà ci tiene in piedi. Quando hai la salute,
gli amici, quando in parrocchia funziona tutto bene, quando sei
apprezzato, quando non hai problemi per il futuro, quando trovi lì le tue
soddisfazioni... quando hai tutto questo, dire: Ah, io vivo solo di Dio! Per
me Dio è tutto e Dio mi basta! Forse è anche vero, però non è così chiaro,
perché Dio mi basta, però intanto mi fanno vivere anche le mie cose. Nel
momento in cui tutto il resto non c’è più, perché siamo nel deserto e lì non
c’è niente, allora lì finalmente si vede se Dio solo basta davvero oppure no.
Lì non c’è più niente che sostenga la nostra illusione. Lì le cose vengono
messe a nudo e si capisce davvero se Dio è tutto o se è solo un pezzetto.
Questo è il deserto: una dimensione assolutamente determinante della
nostra vita, perché è fondamentalmente la nostra vita di fede e lì si può
finalmente capire che fede è. Questa è la dimensione spirituale del deserto
e dunque ci riguarda personalmente, perché non solo è la dimensione
personale di ciascuno di noi, con cui noi ci dobbiamo misurare così che sia
chiaro di cosa veramente noi viviamo, se di Dio oppure di altro, ma è poi
anche il cammino che ogni credente deve fare e in cui voi siete guida, in
cui voi aiutate il discernimento, in cui voi siete lì testimoni del deserto
della fede dei vostri fratelli che vi sono stati affidati, lì a guidare quel
cammino dentro quel deserto, lì ad aiutare a fare verità, lì aiutare a capire.
Riflettiamo un po’ su cosa è questo deserto a partire da un testo che parla
di questo e che è un capitolo del libro del Deuteronomio. Questo libro è
un grande, lungo discorso di Mosè. Il quadro del libro è: Israele alle soglie
della terra promessa e Mosè che fa il discorso al popolo per aiutarlo ad
entrare, ricordando il cammino del deserto, perché questo aiuti poi Israele
a vivere bene nella terra. Il capitilo 8 del libro del Deuteronomio ha
proprio questa funzione. Mosè ricorda ad Israele quello che è avvenuto nel
deserto, gli spiega che cos’è, in modo che per Israele sia possibile vivere di
fede, sia nel deserto che dentro la terra, sia quando ci manca tutto, sia
quando abbiamo tutto. Leggo ora solo alcuni piccoli brani di questo lungo
capitolo e poi lascio alla vostra lettura e preghiera personale tutto il resto.
Mosè comincia dicendo: “Voi dovete mettere in pratica i comandi di Dio
(l’obbedienza)” e poi “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti
ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e
metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore (ecco il deserto!);
ti ha fatto provare la fame, ti ha nutrito di manna per farti capire che
l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla
bocca del Signore”.
A me interessa adesso questa indicazione: il deserto è il luogo della prova,
lì dove l’uomo è umiliato e deve passare attraverso l’umiliazione, perché
finalmente appaia che cosa davvero ha nel cuore e perché capisca ciò di
cui si vive e non si vive solo di pane, ma si vive di ciò che Dio dice e dona. Il
deserto fondamentalmente con una forte connotazione pedagogica,
educativa. Per un sacerdote che deve educare alla fede la sua gente,
questo è un discorso abbastanza importante. Il deserto è una prova. Di per
sé quello che è la prova è la fede, vivere di fede vuol dire costantemente
vivere messi alla prova, perché fidarsi o no questo è il vero essere messi
alla prova; perché la fede è credere in ciò che non si vede e quindi nella
fede l’uomo è costantemente messo alla prova: ci credi o no? Ti fidi o no?
Ti basta quello che Dio ti dice anche se non lo vedi, oppure no? Eccola la
prova! Questo è importante per capire anche tanti altri testi della
Scrittura, lì dove si parla nella Scrittura che Dio mette alla prova qualcuno,
come qui: Dio ti ha messo alla prova nel deserto. Vi ricordate Abramo, a cui
finalmente dopo tante traversie è nato Isacco e poi Genesi, al capitolo 22,
si dice: Dio mise alla prova Abramo e disse: Abramo, Abramo! Eccomi e gli
comanda: va sul monte Moria e gli chiede il figlio in olocausto? Che cosa
vuol dire che Dio mette alla prova? Certamente non che Dio si diverte a
creare delle situazioni artificiali di prova tanto per vedere come l’uomo
reagisce. Il concetto di prova di cui la Bibbia parla non è il test per vedere
se tu funzioni o no e per dare un punteggio alla tua capacità di fedeltà o di
fede. Uno viene messo in una situazione strana, artificiale, creata apposta,
per vedere come lui reagisce. Dio non è né uno sperimentatore in camice
bianco, né un sadico che si diverte a creare situazioni difficili per vedere
come l’uomo si dibatte. Quando la Scrittura dice che Dio mette alla prova
sta dicendo che vivere con Dio è un essere messi costantemente alla
prova. Quindi non che Dio crea una situazione strana per vedere tu che fai,
ma è che se tu vivi con Dio sei sempre messo alla prova, nel senso che sei
sempre lì, devi deciderti, che fai? Ti fidi o no? Gli obbedisci oppure no?
Ascolti e ti fidi, o ascolti qualcun altro e ti fidi solo di te? È la fede la grande
prova, la bella prova, è il vivere appoggiati su un altro, che è un’esperienza
di grande tenerezza, di grande bellezza, di grande riposo, perché ecco vivi
appoggiato ad un altro, ti fidi, ci pensa lui a te, non serve che ci pensi tu,
puoi stare tranquillo... e però insieme è un’esperienza durissima. È
un’esperienza molto tenera, ma è anche molto dura, è molto bella, ma è
anche estremamente difficile, è di riposo, ma è anche faticosissima ed
umiliante, perché è vero che è un altro che pensa a te e che tu puoi
lasciare stare, ma questo vuol dire che tu non sei più padrone di te stesso
e che tu non gestisci più le tue cose e che quindi tu non hai più nessuna
garanzia di quelle che ti mettono tranquillo, perché la tua vera garanzia è
Dio. E Dio non lascia mai tranquilli. Sempre nel libro del Deuteronomio, al
capitolo 11, Mosè ad un certo punto dice a Israele: ecco adesso voi state
per entrare in una terra dove non serve più, come quando eravate in
Egitto che voi irrighiate i campi con la vostra fatica, voi andate in una terra
dove l’acqua è gratis, perché scende dal cielo: è Dio che guarda quella terra
e fa piovere. Allora uno dice: certamente così è meglio! In Egitto toccava
fare fatica, adesso andiamo nella terra promessa, basta! Non devi più fare
fatica, non ti devi più preoccupare! Niente, tranquilli! Tanto fa piovere Dio!
Non devi fare fatica, non ti devi preoccupare, sei lì, è tutto gratis! Bello,
però tutto considerato, sai che ti dico? Sarà pure vero che col piede si
faceva fatica, ma almeno il piede era mio. Quindi io sapevo che quando
andavo là con il piede l’acqua usciva; adesso sarà pure vero che è tutto
gratis, ma proprio perché è gratis, non dipende più da me, io mi devo
fidare che Dio me la manda. E se poi Dio la pioggia non me la manda? Ma
no, Dio è buono e certamente fa piovere tutte le volte che ti serve (non ci
dimentichiamo che in Palestina la pioggia è la benedizione di Dio), quindi è
il massimo della meraviglia e dei doni. Dio è buono, certamente lui fa
piovere! Ma vedete: Dio è buono, però non è mica detto che la sua bontà si
manifesti nei modi che diciamo noi e come noi ci aspettiamo? Per cui
andare in una terra dove tu stai tranquillo, tanto è Dio che fa piovere,
mette in una situazione di insicurezza totale. Non sai se fa piovere o no?
Perché anche se dici: certo fa piovere, perché lui è buono! Ah sì, certo che
è buono, però... e se la sua bontà mi si manifesta proprio nel fatto che
viene la siccità? Che ne so io di qual’è veramente il mio bene? E poi il suo
modo di pensare è così diverso dal nostro, i suoi pensieri sono tanto
lontani dai nostri, le sue vie tanto diverse dalle nostre! Allora, sarà anche
vero che con il sistema dell’Egitto per avere l’acqua si faceva fatica, e poi
l’acqua era poca, però tutto considerato io finisco che sono così stupido da
pensare che sia meglio la mia povera e sporca acqua, per la quale faccio
tanta fatica, ma che almeno vado a letto stasera e dico: domani mi do da
fare e ci sarà l’acqua; meglio quella, piuttosto che stare in una situazione in
cui l’acqua è stupenda, pulita, bellissima, gratis, viene dal cielo e però io
non so mai se viene! Meglio l’acqua mia dell’acqua di Dio! Meglio le cose
mie di quelle di Dio! Meglio organizzarmi per essere io a gestirmi la mia
vita e a darmi le cose che mi servono per vivere, piuttosto che starle ad
aspettare da un altro. Capite dov’è il problema? Questa è la prova, questo è
vivere di fede! Allora dove metti il tuo cuore, nell’acqua che viene su con il
piede o nell’acqua che ti dà Dio? Perché dove metti il tuo cuore, lì è il tuo
tesoro! Che cosa credi che ti faccia vivere: il tuo successo, il conto in
banca, la pensione per la vecchiaia, la parrocchia grande, la considerazione
del Vescovo... è questo che ti fa vivere o Dio? Che poi ti dà tutto questo,
non è in alternativa. Quando questi camminano nel deserto non è che non
mangiano, solo che quello che li fa vivere non è il fatto di mangiare la
manna; quello che li fa davvero vivere è il fatto che Dio si occupa di loro e
perciò gli dà la manna; capite la differenza? Il deserto è questo e in questo
senso è una prova, perché lì si decide che cos’è che mi fa vivere. Perché il
deserto è il luogo dove non c’è niente, è una terra che tu non puoi mai
possedere; per definizione, appena tu possiedi un pezzetto di deserto e ti
instauri lì, quello non è più deserto. Il deserto per definizione è un posto
che l’uomo non possiede e dove non puoi possedere nulla. Non puoi,
perché non c’è nulla, non puoi, perché se te lo porti da fuori, tanto lì
muore tutto e si dissecca tutto, non puoi, perché comunque le cose tue lì
dentro in realtà non ti aiutano a vivere. Allora invece si tratta di vivere solo
aspettando l’aiuto gratuito di Dio, che nessuno può provocare e che
nessuno può meritare, facendo quindi definitivamente esperienza che si
vive solo di ciò che Dio liberamente dà e che nessuno di noi si può dare
nulla, che nessuno di noi può darsi la vita, che nessuno di noi può
aggiungere neppure un secondo alla propria esistenza e neppure a quella
degli altri. In questo senso il deserto è importante come scuola di fede,
perché, siccome finalmente lì l’uomo capisce di non potersi dare la vita da
solo, allora può scoprire chi è colui che davvero dà la vita. In questo senso
è importante il fatto che nel deserto non ci sia cibo da mangiare. Provate a
riflettere un momento su che cosa vuol dire “mangiare”? “Mangiare” vuol
dire che io prendo una cosa che è fuori di me e che la fagocito e la faccio
diventare mia. Adesso quella cosa è parte di me, sono io, ed è quella che mi
fa vivere e quella cosa è il cibo. Questo è quello che succede veramente!
Quando uno mangia prende una cosa e questa diventando parte del suo
organismo, lo fa vivere. Ora pensate com’è importante questo dal punto di
vista simbolico! Dal punto di vista simbolico questa cosa vuol dire che per
poter vivere l’uomo ha bisogno di prendere la vita da fuori e di nutrire
quindi costantemente la propria vita. Questo vuol dire che nessuno di noi
ha la vita, nessuno di noi la possiede, perché tu vivi solo se continui ad
alimentarla da qualche cosa che non sei tu, ma che è il cibo che tu ti
procuri e che qualcun altro ti dona. L’atto del mangiare dice fortemente il
fatto che l’uomo non ha la vita in se stesso. Se noi non mangiamo,
moriamo; questo vuol dire che la vita non ce l’abbiamo noi e non ci
appartiene. Allora tutti i nostri deliri di onnipotenza in cui crediamo di
essere eterni, di essere potenti, di poter fare tutto, di poter gestire la vita e
perfino quella degli altri... mettetevi davanti a un piatto di pasta e vi passa
tutto, perché vi accorgete che non è vero che io posso tutto, che io vivo in
eterno, se ciò che mi fa vivere è questa cosa qua? Dal punto di vista
simbolico questa cosa del mangiare è formidabile, perché ti toglie proprio
qualunque illusione, perché costantemente noi stiamo alle prese con il
fatto che la vita non è nostra. Per questo è così importante mangiare, ma è
anche così importante digiunare, per questo Mosè, quando sta sul Sinai ad
aspettare le tavole della legge, digiuna quaranta giorni e quaranta notti e
anche Gesù nel deserto nel momento delle tentazioni, perché se mangiare
è simbolicamente dire che ciò che mi fa vivere è ciò che viene dall’esterno,
con il digiuno io dico che veramente ciò che mi fa vivere non è il cibo, ma
è ciò che Dio mi dona, perché tu capisca che l’uomo vive non soltanto di
pane, ma di quanto esce dalla bocca di Dio. Cioè, io non mangio, per poter
dire che la mia vita non mi appartiene, non è legata solo al cibo, ma viene
da Dio. E allora io per poter dire che non è il cibo che mi fa vivere, ma è
Dio, non prendo il cibo; così che sia chiaro che ciò che mi fa vivere
davvero non è il pane, ma è il Signore. Allora quando Mosè è lì che sta
aspettando le tavole della legge, che sono ciò che fa davvero vivere il
popolo, è chiaro che non mangia, perché sta dicendo che ciò che fa vivere
sta da un’altra parte ed è il Signore e la sua Parola. Guardate che
l’elemento del mangiare è talmente importante proprio come rapporto alla
vita, che quando poi l’alleanza viene stipulata tra Mosè e il popolo, tutto si
conclude con un grande banchetto. E questo non è perché gli piaceva di
mangiare, ma perché con il banchetto, mangiando insieme, si mangia tutti
lo stesso cibo. Dunque vuol dire che simbolicamente noi diciamo che
attingiamo la vita alla stessa fonte, che è lo stesso cibo che ci fa vivere
tutti e quindi mangiare insieme diventa un atto formidabile da un punto di
vista simbolico di comunione, perché mangiamo la stessa cosa, vuol dire
che nutriamo la nostra vita con la stessa cosa, vuol dire che viviamo della
stessa vita. In questo senso il mangiare insieme è tanto importante, ecco
con tutta probabilità faceva tanto problema che Gesù mangiasse con i
peccatori, con i pubblicani; non perché facesse effetto al perbenismo del
tempo, ma lo scandalo terribile è: se questo mangia con loro sta ponendo
un gesto simbolico che dice che si nutre della stessa vita, dice che è in
comunione con loro. E allora certo lo scandalo e la necessità di capire che
cosa lì sta succedendo. Dunque nel deserto c’è il problema del mangiare,
perché c’è il problema di capire di che cosa noi davvero viviamo. E allora in
questo senso la manna diventa estremamente importante all’interno del
cammino nel deserto, perché la manna è un cibo che l’uomo non si può
procurare né con il piede, né con le mani, perché la manna è un dono che
viene dal cielo e che si può accogliere solo nell’obbedienza, solo
riconoscendo che quella vita viene dal Signore e non è tua. La manna
dunque va raccolta secondo le prescrizioni di Mosè, la devi prendere ogni
giorno e se la provi a mettere da parte ti imputridisce, perché si vive
costantemente del dono di Dio, e appena tu prendi la manna e la metti da
parte dicendo: per carità, Dio è buono, io mi fido! Certamente mi darà la
manna anche domani, però non sia mai, hai visto tu? Mica faccio niente,
me ne metto da parte un pochino per domani, poi certo il Signore domani
me la dà, non c’è nessun problema! Ma così dormo più tranquillo, se ho un
poco di manna qui, mi dà sicurezza! E diventa vermi e imputridisce, perché
non è questo il rapporto con Dio, perché non è questo il fidarsi di Dio,
perché queste piccole nostre sicurezze sono vermi, non fanno vivere, non
servono a niente! E allora uno così capisce, non si mette niente da parte,
perché tanto domani te la dà. E quando viene sabato allora si riposa, e
allora il venerdì si prende la razione doppia che deve servire pure per il
giorno dopo. Vedete sono prescrizioni leggi, che sono importanti, non per
la cosa in sé, ma perché è un modo con cui Mosè sta dicendo al popolo:
guardate che la manna, che è ciò attraverso cui Dio vi fa vivere, non è
vostra e quindi non potete gestirla voi come volete. E allora il fatto di
prenderla in questo modo, a quell’ora, in questa quantità, non è che è
importate in sé. Ma che differenza fa se la raccogliamo alle 10 o alle 11? È
chiaro che non fa nessuna differenza, eppure fa una differenza
fondamentale, e cioè se tu la prendi nell’ora in cui te l’ha detto il Signore,
tu lì stai dicendo: questa manna non è mia! Se invece la prendi nell’ora che
decidi tu, tu stai dicendo: questa manna mi appartiene! È chiaro che non è
importante prenderla alle 10 o alle 11, ma dal punto di vista di tutto quello
che questo significa è importantissimo. Provate a rifletterci su questo e
applicate questa cosa all’obbedienza e ai precetti della chiesa. Se faccio
quello o quell’altro che cambia? Altro che se cambia! Non perché siamo
schiavi dell’obbedienza fatta a determinate ore, ma perché lì noi
significhiamo che dipendiamo da un altro e che riceviamo un dono. E tutto
questo dice Mosè al popolo deve servire anche per quando uno poi entra
nella terra. Continuando a leggere il capitolo, voi vedrete che a un certo
punto Mosè dice: quando voi poi entrerete nella terra, che non vi venga in
mente di dire: questo è frutto delle mie mani. La terra cosa
rappresenterebbe? La terra rappresenta il luogo della sazietà, della
benedizione, dove c’è tutto; se volete, la terra rappresenta il mondo. Noi
viviamo di fede, ma il nostro vivere di fede non è vivere sempre come se
noi fossimo nel deserto. Il nostro vivere di fede poi conosce la gestione del
mondo e quindi utilizza i negozi, le banche, ha rapporti con gli altri... Ci
ritiriamo tutti su di un monte in modo da vivere il deserto? No, Mosè dice:
quando entrate lì, va benissimo! Solo che deve essere ancora come se foste
nel deserto! Non nel senso che allora non andate a raccogliere il grano,
perché dite: no, no, è come nel deserto, è Dio che mi dà la manna; no, Dio
dava la manna nel deserto e adesso dà il grano. Solo che noi dobbiamo
gestire il grano come facevamo con la manna. Come la manna non si
poteva mettere da parte, se no imputridiva, così adesso dove c’è il grano e
ci sono i granai, se noi diciamo dopo aver riempito i granai: anima mia,
adesso mettiti tranquilla, perché tutto è apposto per il domani, quella è
come la manna che imputridisce; insensato, questa notte ti chiederò la
vita e tu dove vai con i tuoi granai? Non si tratta di non avere i granai,
perché è tipico della terra che ci siano, ma si tratta che bisogna avere nei
confronti dei granai lo stesso rapporto che si aveva nei confronti della
manna: questo è il discorso per Mosè e questo è il discorso per noi. E
questo è difficile, perché la tentazione continua è quella
dell’autosufficienza. Non solo quella di trovare le nostre piccole sicurezze,
ma anche quella a un certo punto di sentire la voglia di essere persone
autonome, la voglia di non dipendere più, perché adesso siamo adulti e
anche la fatica di vivere costantemente nella gratitudine, di dover sempre
ringraziare il Signore, di essere sempre debitori. La voglia che viene è di
poter dire una volta: questo me lo sono meritato con tanta fatica! No,
perché è tutto manna, che nessuno merita e che nessuno provoca. È
questa la tentazione terribile della terra e la tentazione nostra della fede:
quella di poterci illudere che è vero che è Dio che ci salva, però in fondo io
me lo sono pure meritato. È chiaro che la salvezza viene da Dio e che è
gratuita, però io ho lasciato la mia famiglia, mi sono fatto sacerdote, ho
fatto tanta fatica in seminario, vivo celibe e questa anche è fatica, vado
pure nella parrocchia, dove ci sono tante difficoltà eppure cerco di
rimanere fedele, e poi cerco di vivere al servizio dei fratelli; voglio dire:
non solo non ho ucciso nessuno, ma anzi sono anche un bravo prete, mi
sto facendo santo... per cui Dio mi salva, sì, però, insomma, ho anch’io
anche le mie cose da presentare. Ve lo posso dire? Vermi! Questo è vermi,
è la manna che diventa vermi, non nel senso che siano vermi tutte queste
cose che io ho detto. È questa fedeltà, è questo cercare di essere figura
dell’amore del Padre che ci fa vivere, è questo ciò in cui si manifesta
l’amore di Dio per noi; quindi figurarsi se questo è da disprezzare, non solo
non è da disprezzare, questi di fatto sono i frutti che dicono dove sta
piantato l’albero. Questo è assolutamente determinante: il nostro sforzo, la
nostra buona volontà, il nostro cercare di essere il più possibile come il
Signore ci chiede, la nostra fatica... questo è più prezioso dell’oro, ma
appena noi lo prendiamo per farcene un vitello, quell’oro là, appena noi lo
prendiamo per dire: lo vedete questo? Bene, questo è quello che mi salva,
questi sono i miei meriti, allora l’oro diventa vitello d’oro, l’oro diventa
idolo, la manna diventa putrida. Ciò che noi siamo e che noi facciamo è
assolutamente determinane, ma solo se noi lo accogliamo come un dono
di Dio o un modo attraverso cui il dono di Dio si manifesta. Non è vero che
noi siamo buoni e quindi il Signore ci benedice e ci salva, ma è vero che il
Signore ci benedice e ci salva e allora noi siamo anche un po’ buoni. Per cui
essere buoni e cattivi, questo è assolutamente determinante, ma perché è
lì che si gioca la benedizione di Dio, è lì che si vede se la benedizione
l’avete accolta o no, è lì che si vede se avete lasciato che il dono di Dio
invada la vostra vita. Questo è il discorso della manna, questo è il discorso
dell’idolatria, questo è il discorso dei granai, questo è il discorso
dell’accoglienza di Dio, vivendo di quel dono, vivendo secondo quel dono,
ma senza mai appropriarsene. E allora anche piangendo, come se non si
piangesse, e possedendo come se non si possedesse.
Per accompagnare la preghiera su queste cose avevo pensato di leggere
con voi il salmo 23. Ci sono due immagini fondamentali: la prima immagine
è quella del pastore, “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla” e
allora c’è la descrizione del pastore, mi porta su pascoli erbosi, acque
tranquille, mi guida per il giusto cammino per amore del suo nome. È
l’esperienza di Dio come pastore alla stregua del pastore biblico, cioè di un
pastore che conosce le sue pecore una per una, che si prende cura di loro,
che si preoccupa di loro, che le porta per i cammini adatti alle sue pecore,
che va in cerca della smarrita, che sta attento a che tutte possano
mangiare, che aiuta quella malata. Insomma Dio che si prende cura di noi e
personalmente e in modo diverso per ciascuno di noi. Questa è
l’esperienza del deserto, dell’Esodo e quindi della vita di fede. Dio che si
prende cura di noi e allora si può perfino camminare in una valle
tenebrosa, senza avere paura. “Tenebra”, la parola ebraica con cui viene
detta ha dentro di sé il suono del termine “morte”; è un modo per evocare
non solo il buio, ma quel buio che è tanto simile alla morte, e allora anche
se io vado dentro alla morte, non ho paura, perché tu sei con me , il tuo
bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza. Immaginate qui la scena del
pastore con le sue pecore che cammina al buio, perché in Palestina fa
molto caldo e gli spostamenti si fanno non con il sole che picchia, ma
presto presto la mattina o tardi la sera, quando quindi però il cammino è
più difficile per le pecore, perché c’è quell’ombra... non si vede bene... gli
animali sono molto più inquieti, perché poi quando fa buio reagiscono e
che però stanno tranquilli perché, pur camminando al buio, sentono il
rumore del bastone del pastore e perché con il bastone lungo danno i colpi
alle pecore... allora l’immagine dolcissima è quella di noi che come pecore
possiamo anche camminare al buio, perché tanto c’è il rumore del pastore,
il bastone di Dio che è con noi e noi sentiamo il rumore e poi ogni tanto il
suo colpo leggero sul fianco quando stiamo per andare in zone difficili.
Questa immagine però subito cambia con l’altra immagine che è “davanti a
me tu prepari una mensa”. E qui adesso stiamo proprio da tutt’altra parte,
qui adesso è sì pur sempre il pastore, ma noi non siamo più le pecore, qui
adesso la scena è quella del beduino con le sue pecore, sotto la sua tenda
nera, che dà ospitalità ad uno che corre fuggiasco, perché è inseguito dai
nemici. Ecco la seconda immagine. La prima immagine del salmo è il
pastore che si porta le sue pecore e noi siamo le pecore, la seconda
immagine del salmo invece è il pastore nomade che vive nel deserto e che
dà ospitalità ad un fuggiasco che ha bisogno e allora noi siamo i fuggiaschi.
E lì c’è il gesto “davanti a me tu prepari una mensa”, letteralmente “tu
srotoli la pelle” di capra o di cammello che il nomade mette per terra per
metterci sopra il cibo da offrire all’ospite e quando il nomade fa così,
l’ospite diventa sacro e nessuno più lo può toccare. Davanti a me tu
prepari una mensa, davanti ai miei nemici; i nemici non si possono
avvicinare. Il fuggiasco ha trovato riparo e nessuno più gli può fare del
male. E allora la sovrabbondanza dell’olio, del calice che trabocca e tutto
questo che si trasforma nella visione della grande casa di Dio, dove abitare
per lunghissimi anni. Queste sono le immagini che attraversano il nostro
salmo e tutte collegate tra di loro: è il pastore, è l’esperienza della
sovrabbondanza, i pascoli erbosi, però anche il calice che trabocca, è
l’esperienza della paura e del nemico, la valle tenebrosa, i nemici, è
l’esperienza dell’assoluta sicurezza. La pecora tranquilla perché c’è il
rumore del bastone del pastore, il fuggiasco tranquillo, perché ormai
nessuno più lo può toccare. Sotto a tutto questo c’è il deserto. Perché
l’immagine del beduino che srotola la pelle sotto la tenda, questa è
l’immagine tipica del deserto, ma in Israele è anche il deserto il luogo dove
i pastori pascolano. Mosè pascolava nel deserto quando ha visto il roveto
ardente, Davide stava nel deserto con le pecore di suo padre. Il deserto è
l’ambiente di questo salmo e allora quando in questo salmo chi prega dice:
“Il Signore è il mio pastore” e io non manco di nulla, guardate che chi lo
dice lo deve dire stando nel deserto, cioè stando lì dove invece manca
tutto. Ed è lì dove manca tutto che bisogna poter dire: il Signore è con me,
allora io non manco di nulla e non manco di nulla davvero. Perché davvero
ho tutto, e se c’è qualcosa che non ho, allora vuol dire che non mi serve.
Questa è l’esperienza spirituale che questo salmo vuole far fare a chi lo
prega, e allora voi provate a pregarlo così, provate a vedere come tutti gli
elementi di questo salmo si ricapitolano nella figura del Signore Gesù.
Perché noi con questo salmo siamo nel deserto, dunque Esodo, dunque i
pascoli erbosi sì, ma sono la manna e vi ricordate nel discorso del pane di
vita che fa Gesù, quando proprio dice che lui è ben altro che la manna, vi
ricordate che immediatamente prima c'è la moltiplicazione dei pani e che
c'è quell'annotazione in S. Giovanni: e si sedettero lì e c’era molta erba, c’è
un’allusione ai pascoli del salmo 23, c’era molta erba perché era Pasqua,
cioè era primavera, cioè aveva piovuto... ma vedete come tutto gira
attorno ad alcuni elementi fondamentali. È il deserto con la manna, con
l’acqua, con Mosè come pastore, con Dio che si prende cura del suo
popolo... ebbene tutto questo si ricapitola nel Signore Gesù, perché è Gesù
il vero pastore, il buon pastore, che dà la vita per le sue pecore. Perché è
Gesù il vero tempio, quella casa in cui poter abitare per lunghissimi anni,
perché è Gesù la via, quel cammino giusto per me che è quello attraverso
cui mi conduce, perché è lui la manna che si è mangiata nel deserto,
perché è lui la luce che illumina la valle tenebrosa, perché è lui quello che
apparecchia veramente la mensa, quella della comunione vera ed è la
mensa eucaristica e il banchetto escatologico, perché è lui che ci mette in
salvo dai nemici e allora più nessuno ci può toccare, perché è lui
l’Emanuele, Dio- con- noi e allora io non temerò alcun male perché tu sei
con me, perché tu sei colui che sei con me. Con questa fiducia lasciamoci
portare da Dio nella prova del deserto e poi in quella delle città.
L’episodio del vitello d’oro è narrato sia nel libro dell’Esodo, al capitolo 32,
e lì viene narrato come si narra una storia realmente avvenuta, ma viene
ricordato in modo più conciso - siamo sempre all’interno dei discorsi di
Mosè - anche nel libro del Deuteronomio, al capitolo 9. Noi prendiamo
come base di lettura questo testo del Deuteronomio ( 9, 7-21). Questo è un
capitolo strano; ci sono delle inserzioni, che spezzano il filo del racconto,
ma dai versetti 7 a 21 c’è il nucleo della vicenda del vitello d’oro. Il testo
dice così: “Ricordati, non dimenticare, come hai provocato all’ira il Signore,
tuo Dio nel deserto”, e allora spiega che così è avvenuto sempre. Poi dal
versetto 9 comincia l’evocazione del fatto che a noi ora interessa.
“Quando io salii sul monte a prendere le tavole di pietra, le tavole
dell’alleanza che il Signore aveva stabilito con voi, rimasi sul monte
quaranta giorni e quaranta notti senza mangiare pane, né bere acqua”. Il
numero quaranta ha un valore simbolico. Serve in qualche modo a dire
un’esperienza completa, cioè tutto il tempo che serve perché l’esperienza
arrivi proprio a compimento e sia fatta tutta fino in fondo. “E il Signore mi
diede le due tavole di pietra scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte
le parole che il Signore vi aveva dette sul monte, in mezzo al fuoco, il
giorno dell’assemblea. Alla fine dei quaranta giorni e delle quaranta notti, il
Signore mi diede le due tavole di pietra, le tavole dell’alleanza. Poi il
Signore mi disse: “Scendi in fretta di qui, perché il tuo popolo che hai fatto
uscire dall’Egitto si è traviato, in fretta si sono allontanati dalla via che io
avevo loro indicata, si sono fatti un idolo di metallo fuso”, e il Signore
aggiunse: “ Io ho visto questo popolo, è un popolo di dura cervice, lasciami
fare, io li distruggerò e cancellerò il loro nome sotto i cieli e farò di te una
nazione più potente e più grande di loro”. Così comincia la rievocazione di
quell’evento. Già da come la cosa si presenta - nel racconto dell’Esodo è
ancora più esplicitata - si comincia a vedere il senso teologico di questo
testo. C’è stata l’alleanza e la teofania, Dio è sceso in mezzo al fuoco, Mosè
ha fatto da mediatore, il popolo ha capito che quello era il Dio della vita, da
cui non si poteva stare lontani e perciò chiede a Mosè di fare da tramite,
riconosce lì il Dio della sua salvezza e quindi si impegna a essere fedele
all’alleanza. Allora Mosè sale su per prendere le tavole della legge e quindi
il segno concreto di quell’alleanza per ricevere quella legge che
rappresenta il cuore dell’alleanza, perché sarebbero le norme che regolano
il patto, quello a cui il popolo si è impegnato per sempre. E mentre Mosè
sta lassù per ricevere nel digiuno (per dire che la vita viene solo da Dio) le
tavole della legge, quella stessa legge il popolo giù di sotto la trasgredisce,
abbandona il Signore, è infedele a quell’alleanza, a cui aveva promesso
fedeltà e che era stata appena fatta, anzi la stavano facendo. Quello che il
testo sta cercando di dire è che non è neanche ancora stata data la legge,
non hanno ancora neanche finito di fare alleanza, che già il popolo l’ha
rotta. Mosè è su a portarla a compimento, il popolo giù se ne va. È un bel
modo in cui il testo cerca di dire: guardate che questo è l’uomo! L’alleanza
è di Dio, la fa Dio, da parte di Dio c’è solo il dono, da parte sua c’è solo:
ecco io faccio alleanza con te, ecco io ti do la legge che è quello che ti fa
vivere, ecco io do il dono; da parte di Dio c’è questo, da parte dell’uomo c’è
che è infedele. E questo è strutturale! Mettono il peccato del popolo nel
momento stesso in cui Mosè riceve la legge, quasi a dire: guardate non c’è
stato neanche cinque minuti di tempo in cui l’alleanza ha funzionato! Non
è che c’è un’alleanza che funziona e poi l’uomo magari ci ripensa, è fragile,
viene meno... non ha durato niente, nel senso proprio che nel momento in
cui doveva incominciare, lì dove doveva funzionare, lì l’uomo è infedele.
Come dire che c’è qualche cosa che è proprio strutturale in questo
rapporto tra Dio e l’uomo: Dio è quello che dona e l’uomo è quello che
rifiuta il dono! Questo è il popolo di Israele, questa è la chiesa, questi
siamo noi.
Il peccato del popolo è molto chiaro: si sono fatti un idolo di metallo fuso e
nel libro dell’Esodo viene raccontato come vanno da Aronne e dicono:
“Facci un Dio che cammini davanti a noi, perché quel Mosè che ci ha tirato
fuori dall’Egitto è sparito”. Mosè tarda a tornare dal monte e il popolo è
incapace di sopportare l’assenza del mediatore. Il rapporto con Dio è un
rapporto con un Dio invisibile e questa relazione sembra più sopportabile,
perché c’è il mediatore che rende Dio visibile in mezzo al popolo; ma se a
un certo punto diventa invisibile, anche perché il mediatore non si vede
più, ecco che allora si fabbricano il vitello d’oro. Questi testi riguardano
Israele, perché riguardano ogni credente e riguardano ogni credente,
perché riguardano Israele. Si sta qui dicendo qual’è la struttura di ogni
credente e che cosa avviene nella vita di ogni credente. È la crisi della
fede, l’incapacità di perseverare nell’affidamento, è la difficoltà di credere
in quello che non si vede, è il desiderio di potersi riposare in una realtà più
tranquilla, più comprensibile, più alla nostra portata. Dio è grande, Dio è
bello, però è così diverso da noi, così incomprensibile, così invisibile, non
sai mai quello che pensa, le sue vie sono diverse dalle nostre, i suoi
pensieri sono diversi dai nostri, ti chiede di fidarti di lui e però non sai mai
su che cosa ti devi fidare... allora Dio non lo si vede, Mosè è sparito,
tiriamo un po’ il fiato, riposiamoci un po’, facciamoci un Dio come quello
degli altri, che sarà pure meno bello e meno potente del nostro, però
guarda: almeno lo vedi, lo tocchi, lo muovi tu, lo fai camminare quando
vuoi camminate te, lo fai fermare quando lo vuoi fermare te, lo capisci
come è fatto, sai come pensa. Facciamoci un Dio simile a noi e poi diciamo:
ecco questo è il Signore che ci ha portato fuori dall’Egitto! E allora vanno
da Aronne a chiedere questo, vanno da Aronne a chiedere “Dio”. Questo
del vitello d’oro era il modo abbastanza diffuso nell’ambito
medio-orientale, in cui si simboleggiava la presenza e la potenza della
divinità. Perché il torello è un animale possente, forte, anche con una
notevole capacità generativa e con una grande forza riproduttiva. È un
simbolo della forza della natura e della vitalità; quindi viene usato come
simbolo della forza vitale della divinità. Dunque, quando Aronne fa il vitello
d’oro, sta semplicemente dando a Israele una figura che possa
simboleggiare Dio, qualunque Dio, quindi anche il Dio di Israele. È un
segno di divinità, poi il nome da dare a quella divinità dipende da chi lo
adora; ora Israele non ha intenzione di farsi una divinità diversa dal
Signore. Non vuole farsi un idolo, adorare il dio di un altro popolo; essi
intendono continuare a servire il Signore, però rendendolo un po’ più
comprensibile, un po’ più ragionevole, un po’ più alla portata dell’uomo:
questa è l’idolatria! C’è la forma più palese di idolatria, che è quella di
prostituirsi a dèi diversi, come Baal, che era il dio dei cananei, oppure il
denaro, oppure il successo, oppure la prestanza fisica... Allora, se tu dici: il
mio dio è il denaro, è chiaro che tu sei in piena idolatria! Però è anche
un’idolatria facile da smascherare; è talmente evidente e grossolana, che è
anche più difficile accettarla. Nessuno di noi arriva a dire apertamente: io
abbandono il mio Dio per farmi un altro dio e questo dio è il denaro o
qualunque altra cosa! È troppo evidente. Ma c’è una forma di idolatria
molto più tragica e meno evidente, che è quella di dire che il mio Dio è il
Signore, e dunque non vado in cerca di altri dei; ho un solo Dio, ed è il
Signore che si è rivelato, che ha fatto uscire Israele dall’Egitto e che poi si
è definitivamente rivelato nel Signore Gesù. Quello è il mio Dio! Però poi
questo Dio io tendo a renderlo più simile a come lo voglio io che a come è
veramente. Questo Dio comincio a immaginarmelo in un certo modo e a
pretendere che poi sia come io lo immagino. Comincio a chiuderlo dentro
certi miei schemi, comincio a dire: se Dio è Dio, se Dio è buono, deve fare
così! Comincio a dire che questo Dio è il Dio che si rivela nella Scrittura,
però non esageriamo! È certamente un Dio che ha detto che bisogna
essere poveri, però siamo ragionevoli! È un modo di dire! In realtà non è
proprio così, va interpretato; e poi basta essere poveri nello spirito e
quindi gestire molti soldi, ma con distacco... e poi è il Dio che ha detto:
non c’è amore più grande che dare la vita per gli amici, io credo in questo
Dio, però bisogna anche intendersi su quello che diceva. Dare la vita è un
fatto simbolico, vuol dire certamente che bisogna amare tutti, da lontano
possibilmente e siccome sono tutti e sono lontani, non hai nessuno vicino,
dunque ti risparmi la fatica. Amare tutti e dare la vita è un genere
letterario! E così via... Faccio in modo che Dio sia sempre meno esigente,
sia sempre meno diverso da come penso io, sia sempre meno portatore di
una verità che mi mette in crisi e diventi sempre più un Dio
addomesticato, simile a me, comprensibile, che si piega
fondamentalmente ai miei bisogni. Cioè un piccolo vitello d’oro, che io so
come è fatto, che so da dove viene, che posso far muovere quando voglio
io, che diventa il Dio alla mia portata. Questo è il peccato del vitello d’oro.
Dunque quell’idolatria strisciante e pericolosissima che è quella di un Dio
addomesticato, annacquato, umanizzato... il Dio nostro, invece di essere
noi suoi. Questo è quello che Israele chiede ad Aronne e questo è quello
che Aronne fa a Israele. Notate una piccola cosa, che può avere delle
conseguenze: Mosè è sparito e loro vanno da Aronne, ora in questi esercizi
noi continuiamo a dire che Mosè è figura sacerdotale, ed è certamente
vero, però dal punto di vista della funzione nei confronti del popolo, la
funzione propriamente sacerdotale di gestione del sacro non ce l’aveva
Mosè, ce l’aveva Aronne. Mosè, se vogliamo fare una tipologia, rappresenta
più il profeta e Aronne più il sacerdote secondo la tipologia dell’Antico
Testamento; poi applicata a noi invece, Mosè, proprio perché è profeta, è
la grande figura sacerdotale del sacerdozio non veterotestamentario, ma
che viene dal Signore Gesù. Però nella tipologia del racconto di Esodo il
sacerdote è Aronne ed è significativo che il popolo vada dal sacerdote a
chiedergli di fargli il Dio, perché chiaramente è il sacerdote l’esperto del
sacro, del culto e del divino e quindi è lui che può fargli l’oggetto di culto
da adorare. Ora questo vuol dire che quando sparisce l’elemento profetico,
in questo caso Mosè, e rimane solo il culto, il grande rischio è che il culto
diventi idolatrico. Il grande rischio è che il prete costruisca l’idolo, perché
se non hai più la Parola di Dio che ti mette in crisi il culto, non nel senso
che non è una buona cosa o perché non bisogna farlo, ma perché è lì a
ricordarti che il culto deve essere l’espressione del tuo cuore, del tuo
amore, della tua conversione. E invece il rischio è che tu cominci a pensare
che il culto sia il sostitutivo della tua conversione; il rischio del culto è di
pensare che quello che mi salva è ciò che io faccio. Io vado a messa tutte le
domeniche, dunque sono a posto, e allora non serve poi fare la giustizia,
non serve convertirsi, non serve ogni volta cercare di rientrare nel cuore
di Dio... io sono un buon cristiano! È certamente buono andare a messa
tutte le domeniche, ma se quello invece di essere il modo in cui io esprimo
la mia fede diventa il modo in cui io sostituisco la fatica di avere fede,
allora anche andare a messa la domenica diventa un vitello d’oro. Sta tutta
qui la polemica dei profeti contro il culto; questo è quello che fa Gesù
quando entra nel tempio e sbatte via tutto, le tavole, quelli che cambiavano
i soldi, quelli che vendevano gli animali per il sacrificio... dove il problema
non è perché lì facevano mercato, ma perché lì credevano di vendere la
salvezza, nel senso che credevano che fare il sacrificio potesse sostituire il
cammino di conversione. È di questo tipo tutta la polemica dei profeti
contro il culto, non perché fare il sacrificio sia male o perché come a volte
diciamo quello è il sacrificio esteriore; è chiaro che è esteriore! Il culto è
per forza esteriore, perché è fatto di gesti, la liturgia è fatta con il corpo...
ma il problema è che deve essere un fatto esteriore che esprime il cuore,
la conversione interiore, ma se tu credi che lo possa sostituire, allora sei
nell’idolatria! Questa faccenda del vitello d’oro sta anche lì a dirci di stare
attenti, di revisionare continuamente quello che facciamo noi e quello che
fanno le nostre comunità, perché è facile entrare nella linea sostitutiva e
così fabbricare l’idolo. E questo idolo serve a rendere Dio comprensibile.
Così ora capite meglio perché nell’Antico Testamento e perché nel
decalogo stesso si insista tanto su un comando, che invece è sparito dai 10
comandamenti, che noi abbiamo imparato quando eravamo bambini e che
c’è nella Bibbia, cioè il secondo comandamento, quello che dice: “Non ti
farai immagine di Dio”. Non ti farai immagine di Dio, non perché le
immagini di Dio siano una cosa cattiva. Dio fa l’uomo a sua immagine e il
Signore Gesù è la grande immagine del Dio invisibile, ma il comando è:
non ti farai immagine di Dio, cioè non ti devi fare un’immagine che ti
sostituisca Dio, perché Dio è grande, è trascendente, immenso... e allora,
se tu credi di poterlo chiudere dentro un’immagine, quello non è Dio; e
appena pensi di poterlo chiudere, l’hai trasformato in un idolo. E allora è
chiaro che quando il comando dice: non ti farai immagine di Dio, non
intende solo: non ti farai un’immagine di gesso o di legno, ma non ti farai
un’immagine di Dio dentro la testa. È molto bella questa idea
dell’immagine, perché dice l’assoluta trascendenza di Dio. Se volete capire
e vedere plasticamente questo discorso, pensate a come era fatto il tempio
di Israele. Il tempio aveva il suo cuore che era il santo dei santi, cioè il
luogo dove Dio era presente e dove abitava, dove era presente la sua
gloria; questa gloria stava sopra la sua arca, dentro cui c’erano le tavole
della legge e anche un po’ di manna. La gloria di Dio era sopra l’arca nello
spazio vuoto che c’era tra i due cherubini, che stavano sopra l’arca. Il
comando di non farsi immagini va capito alla luce di quello spazio vuoto;
perché se tu ti fai un’immagine di Dio e la metti lì, in mezzo ai due
cherubini, se ci metti l’immagine vuol dire che non c’è Dio. Se c’è lui non
serve metterci l’immagine! E allora questo comando è un modo per dire:
guardate Dio è talmente grande che, per poter dire che lui c’è, bisogna
mettere un segno che dice che lì non c’è nessuno. Proprio perché è uno
spazio vuoto, dice che lì c’è uno spazio che non può essere occupato da
nient’altro, perché quello è lo spazio di Dio, perché Dio c’è. Allora, se tu
vuoi dire che Dio c’è, non ci mettere un’immagine di Dio, perché appena ce
la metti dici che Dio non c’è. Ecco di che si tratta con questa storia del
vitello d’oro. E allora ecco che Dio dice a Mosè: scendi in fretta, perché si
sono traviati in fretta. E questo “scendere in fretta”, che deve fare Mosè, è
- dice Dio - perché ecco io ho deciso, io li distruggerò. Cosa significa tutto
questo? Dio davanti al peccato dice: scendi e vai a dire che io li distruggo!
Cos’è il Dio cattivo, vendicatore che se la prende con il popolo, è il Dio
cattivo che ha ucciso gli egiziani al mar Rosso? No! Questo “io li
distruggerò” è il modo con cui Dio dice che quello che loro hanno fatto è
inaccettabile, e io non ho niente a che vedere con questo... È il discorso
dell’ira divina! L’ira di cui parla l’Antico Testamento non è altro che il modo
con cui si dice che tra Dio e il male non ci può essere nessuna relazione e
che quindi davanti al male Dio si adira, cioè Dio è dissociato, non può fare
altro che distruggere il male, non il peccatore. Allora Dio dice: io li
distruggerò e manda Mosè. Siamo nella piena dinamica del perdono.
Come? Dio ha detto di distruggerl ? Che c’entra il perdono? Sì, siamo nella
piena dinamica del perdono! Perché il perdono di cui parla la bibbia è
talmente grande, che Dio perdona talmente tanto, che deve
necessariamente arrivare fino alla coscienza del peccatore per
trasformarla. E come fai se non aiutando il peccatore a capire che ha
peccato? Allora, quando Dio è davanti al peccato dell’uomo, la sua risposta
è quella prima di tutto di aiutare l’uomo a capire quello che sta facendo, e
quindi di mettere l’uomo davanti alle conseguenze del suo male e di
mettere l’uomo davanti all’orrore del suo male, perché solo chi ha capito
che quello che sta facendo è male può lasciarsene liberare. Perché Dio
possa perdonare bisogna che l’uomo penda coscienza del proprio peccato
e si lasci perdonare. Non nel senso che uno prende coscienza del suo
peccato, quindi lo confessa, e allora in risposta di questo Dio perdona. La
sequenza chiaramente non è: io prendo coscienza del mio male, lo
confesso e allora, dopo che io ho confessato il mio peccato, Dio mi
risponde perdonandomi. La sequenza è esattamente inversa: Dio mi
perdona e, siccome Dio mi perdona, aiutato da lui, prendo coscienza del
mio peccato e allora lo confesso. Quindi quel perdono che Dio mi aveva già
dato e che è stato all’origine della mia confessione, adesso con la mia
confessione diventa operante, perché adesso che io confesso la colpa sto
riconoscendo il mio peccato come peccato e perciò sto accogliendo il
perdono di Dio. È il perdono che ha preceduto la mia confessione. Io mi
posso confessare, perché lui mi ha già perdonato; però, finchè io non
confesso la colpa, quel perdono che è dato non può diventare operante in
me, perché per diventare operante in me bisogna che io accetti quel
perdono. Questa è la confessione: capire il male e perciò finalmente
accogliere in piena gioia il fatto che Dio quel male lo ha perdonato
veramente. Così quando io confesso quel peccato, io mi accorgo che Dio
me l’ha già tolto dalle mani, perché me lo ha perdonato prima ancora;
prima ancora che io di per sé cominciassi a farlo. Noi nasciamo già sotto la
parola del perdono di Dio. Prima ancora che incominciamo a fare il male,
quel male Dio ce l’ha già perdonato, però noi lo facciamo, ma allora
bisogna che siamo noi a lasciare che Dio ce lo perdoni. Lui lo ha già fatto,
ma adesso siamo noi che glielo dobbiamo lasciar fare. E allora ecco quel:
vai giù in fretta, perché io li distruggo! Questo sarebbe come dire: vai giù
in fretta perché bisogna che quelli capiscano che cosa stanno facendo, che
si stanno distruggendo. E allora ecco il mediatore che scende, ma per
poter scendere Mosè deve avere i sentimenti di Dio. Mosè come figura
sacerdotale è mediatore di questo perdono di Dio, è quello che aiuta il
popolo a capire il peccato ed è quello che fa da mediazione, da segno del
perdono di Dio. Per poter fare questo il sacerdote, il mediatore deve poter
pregare per il popolo. Mosè fa da mediatore, scende, spezza le tavole e poi
distrugge il vitello. Prima di tutto spezza le tavole: è il modo di dire con cui
Dio cerca di fare in modo che il popolo capisca il suo peccato, è un modo
per far vedere al popolo che cosa ha fatto. Avete rotto l’alleanza! È un
modo per appellarsi alla coscienza del popolo, è un modo per dirgli: ecco,
vi rendete conto? Le tavole non ci sono più! Avete distrutto tutto! È la
denuncia della gravità del peccato, per poterli liberare da quel peccato. È il
dire: guardate che cosa avete fatto, per potergli dire subito dopo: adesso
che avete capito, guardate che Dio vi ha già perdonato. Ma finchè loro non
hanno capito non glielo si può dire o meglio glielo si deve dire che Dio li ha
perdonati, ma finchè non hanno capito che hanno bisogno di essere
perdonati, quel perdono non l’accettano. Se tu non hai capito che sei
malato, è inutile che ti portino dal medico. Non sono i sani che hanno
bisogno del medico... finchè tu non ti convinci di essere malato, non
accetterai mai che Dio ti guarisca. Le tavole vengono spezzate: è il modo
per dire: guarda cosa hai fatto, come sei malato, quanto hai bisogno di
perdono! E dopo di questo, Mosè esplicita il perdono. Prende il vitello
d’oro e lo distrugge; va bene - dice - basta, non c’è più! È la forza del
perdono di Dio che, quando il peccatore finalmente capisce il suo peccato
e lo confessa, ecco che allora Dio può entrare lì dentro e frantumare il
peccato stesso. È il perdono all’opera! Nel racconto dell’Esodo si dice che
questo vitello, che è stato frantumato, Mosè lo butta nell’acqua e poi
prende quell’acqua e la fa bere al popolo. E questa è una cosa strana
difficile da capire, che forse ha un qualche riferimento con delle pratiche,
la famosa “ordalìa” che dovevano servire a stabilire se qualcuno era
colpevole o no. Quel gesto lì strano serve probabilmente a dire che il
popolo adesso può bere dell’acqua, senza che però questa le faccia alcun
male. Il peccato è talmente distrutto che non gli fa più male, perché Dio lo
ha perdonato. Allora a questo punto Mosè può risalire sul monte, mettersi
di nuovo in preghiera e in digiuno e lì ricevere le seconde tavole e questo è
quello che viene detto nel Deuteronomio, al capitolo 10. Ora, questa
faccenda delle seconde tavole è una cosa importante. Perché Dio rifà delle
tavole uguali a prima, però non sono quelle di prima, sono le seconde;
sono uguali e identiche, ma sono altre. Questo vuol dire che le prime non
hanno funzionato, non sono servite, sono state rotte. Cioè vuol dire che il
popolo ha peccato, che l’alleanza è stata infranta, però sono ancora tavole
uguali a prima, quindi vuol dire che l’alleanza c’è ancora e che Dio ha
perdonato. Il fatto che ci siano le seconde due tavole questo è il segno del
perdono di Dio, però sono anche il segno del peccato del popolo, perché
sono le seconde. Sarebbe come dire che l’alleanza di Dio, che è quella di
cui noi viviamo, e che è quella che Gesù ha portato a compimento e che
voi quotidianamente celebrate, è l’alleanza delle seconde tavole, cioè
l’alleanza in cui c’è all’opera il perdono di Dio e in cui è inglobato già il
peccato del popolo. L’alleanza delle prime tavole, se avesse funzionato,
avrebbe potuto essere un’alleanza in cui uno dice: Dio ha fatto alleanza
con il suo popolo e il popolo è stato fedele all’alleanza. È un’alleanza che si
basa sulla fedeltà di Dio e sulla fedeltà del popolo. Ma questo sogno è
svanito quando le prime tavole sono state rotte. E adesso rimane la realtà
delle seconde tavole, che è ancora più bella di quella delle prime, perché
adesso questa è una realtà di un’alleanza che non si basa sulla fedeltà
dell’uomo, sulla capacità dell’uomo di essere fedele, ma che si fonda solo
ed esclusivamente sul perdono di Dio, che ingloba anche l’infedeltà
dell’uomo e che restituisce all’uomo nel perdono la sua capacità di essere
fedele, accettando la sua infedeltà. L’alleanza delle seconde tavole vuol dire
che è un’alleanza in cui Dio ha messo in conto il peccato e che lo ha già
perdonato, e che per fortuna quindi si basa su quello. Non si basa sulla
nostra infedeltà e se no che cosa ci facciamo noi con quell’alleanza, è tanto
breve la nostra fedeltà? Ma invece è un’alleanza che si basa sulla fedeltà di
Dio, allora con quella sì, sappiamo cosa fare. E questa è l’alleanza che Gesù
porta a compimento, quella nuova e definitiva alleanza, che porta
definitivamente a compimento il perdono nella fedeltà di Dio. A questa
fedeltà di Dio, a questa alleanza, a questo perdono noi facciamo
riferimento oggi. A questo brano possiamo collegare l’altro brano, lì dove
Gesù sulle rive del mare di Galilea si mostra risorto a Pietro e per tre volte
gli chiede: Pietro, mi ami tu? Per tre volte, perché tre volte era stato il
rinnegamento di Pietro, perché per tre volte Pietro ha detto di non essere
discepolo suo. Rinnegava il maestro, ma soprattutto rinnegava se stesso,
dicendo di non essere discepolo. Sì, se non riconosco il maestro io non
sono e per tre volte Pietro ha detto: non lo sono e adesso per tre volte
Pietro dice: Maestro, tu lo sai! Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene!
Per tre volte! Questo è Pietro che ha peccato, che ha rinnegato, che ha
capito quello che ha fatto... questo è Pietro che ha pianto, perché ha capito
cosa ha fatto e che si è aperto al perdono di Dio e adesso Pietro vive quel
perdono. Un perdono, che è il ripercorrere la propria storia di peccato, e
riscoprirla come “storia di grazia” e ad ogni no, non lo sono, scoprire che
corrisponde un “Signore, tu lo sai che io ti amo” e che è la risposta
all’amore di Gesù che mi sta interpellando. E allora Pietro dice: “Signore, tu
lo sai!”, prendendo a testimone del suo amore proprio quel maestro che lui
ha rinnegato. Fa impressione quando dice : Signore, tu lo sai che io ti amo!
Quello che Gesù sapeva e che aveva visto era che Pietro l’aveva rinnegato,
a basarsi su quello che Pietro ha fatto, l’unica cosa che Gesù poteva sapere
è che Pietro non lo ama, ma appunto siamo dentro le seconde tavole, dove
il peccato è già perdonato, è già inglobato e allora proprio quel Gesù che
Pietro ha rinnegato, adesso viene preso come testimone invece della sua
fedeltà e del suo amore, perché quel Gesù a cui Pietro dice : Signore, tu lo
sai, è il Gesù che ha già perdonato il peccato di Pietro. Pietro, adesso, in
qualche modo, glielo sta confessando con queste tre volte, ma Gesù glielo
ha già perdonato, e allora uno può dire : Signore, tu lo sai... Capite cosa sa
Dio di noi? Che siamo piccoli, che non lo amiamo... cosa sa Dio? E invece
uno va lì e gli dice: tu lo sai, Signore, che io ti voglio bene. Perché ti fidi
dell’amore suo e non del tuo, ti fidi di quello che sa lui e non di quello che
sai tu e lasci che quello che sa lui, lui lo renda possibile per te. Ti affidi al
suo perdono e mentre allora Pietro ricorda il suo peccato, perché il
Signore glielo fa ricordare con quelle tre domande, Pietro si affida ad un
Gesù che non ricorda più il tradimento di Pietro. Questo è il perdono: Dio
non ricorda più, perché non c’è più il peccato! Però bisogna che ce ne
ricordiamo noi e allora per tre volte: Signore, sei tu che lo sai. Così Pietro
diventa colui su cui la Chiesa si può fondare! Quello che per tre volte ha
rinnegato, adesso diventa quello che deve fondare la fede dei fratelli,
perché quel “Signore, tu lo sai”, perché quel cammino di perdono, che
Pietro permette al Signore Gesù di fare nella sua vita è quel perdono
definitivo, che solo Dio può dare, che distrugge, polverizza il peccato,
come il vitello d’oro, e che quindi ci restituisce alla nostra santità e allora il
rinnegatore della fede può diventare quello che fonda la fede degli altri.
L’amore di Gesù ha tutto recuperato e ora Pietro è diverso e quello che
Gesù fa è quello che Gesù ha creato in Pietro con il suo perdono, una
fedeltà nuova, un amore nuovo, delle tavole nuove, che sono le tavole del
cuore, dell’amore, che si fidano del perdono di Dio. Allora questo rifà santi
ed è in questa dimensione di accoglienza della nostra santità, non la
nostra, ma quella che Dio ci dona con il suo perdono, è in questa
dimensione di gioia che noi possiamo ripercorrere la nostra storia di
peccato e scoprire che ormai è stata trasformata in storia di grazia.
Abbiamo detto: non lo sono e adesso, in tutta verità, possiamo dire: tu lo
sai! Perché non è l’amore nostro, ma è quello di Gesù, che ci farà anche
capaci come lui e perciò anche di dare la vita per i fratelli.
Dopo la morte di Mosè, con cui si chiude il Pentateuco, comincia nel libro
di Giosuè il racconto dell’entrata nella terra. È il momento del compimento
della promessa di Dio, dunque siamo alla fine del cammino, perché siamo
alla fine dell’Esodo. E però come sempre nelle cose di Dio, quando si arriva
alla fine è il momento in cui si ricomincia e l’inizio e la fine vanno sempre
insieme e si finisce e invece si sta ricominciando e si porta a compimento
quello che si era cominciato per ricominciare ancora. Questo è vero
dell’esperienza spirituale, del rapporto con il Signore, questo è vero della
storia di Israele. Così se voi andate a leggere con calma i primi capitoli del
libro di Giosuè, in particolare i capitoli 3, 4, 5, lì viene narrata l’entrata
nella terra, ma come se fosse l’uscita dall’Egitto. Il racconto dice che
essendo lì il popolo al Giordano, morto Mosè, si prepara ad attraversare il
Giordano entrando nella terra. E allora Dio dà delle istruzioni precise e
tutto si svolge come se si fosse al mar Rosso, perché il popolo si prepara
ad attraversare l’acqua, arrivano i sacerdoti portando l’arca dell’alleanza e
allora l’acqua si apre, come si erano aperte le acque del mar Rosso, e i
sacerdoti e il popolo passano il fiume all’asciutto. I sacerdoti si fermano nel
mezzo del fiume, aspettano che tutto il popolo passi e poi escono anche
loro dal fiume e allora il fiume si richiude e ricomincia a scorrere
normalmente. E dal luogo dove si erano fermati i sacerdoti prendono 12
pietre, quanto sono le dodici tribù, per poterle porre in Galgala in ricordo
di ciò che è avvenuto e al posto di quelle dodici pietre mettono altre dodici
pietre a ricordare che lì Israele è passato all’asciutto, mentre i sacerdoti
portavano l’arca. Di fatto il racconto narra un evento che sembra quello
dell’uscita dall’Egitto, del mar Rosso, e anzi il testo volutamente fa il
rapporto e dice: quando poi un giorno tuo figlio ti chiederà: ma che cosa
sono quelle pietre? Tu gli risponderai: stanno lì a ricordare che il Signore
ci ha fatto passare all’asciutto, come aveva fatto passare all’asciutto al mar
Rosso i nostri padri. Il mar Rosso era l’inizio, questo adesso è la fine, ma è
come se fosse all’inizio. C’è continuamente nella Bibbia questo rapporto
tra la promessa e il compimento, che si assomigliano, l’inizio e la fine si
richiamano a vicenda, perché l’inizio è promessa e anticipazione di quello
che sarà il suo compimento. Dunque l’uscita dall’Egitto e il passaggio del
mar Rosso è promessa, figura e attesa di quello che sarà il compimento
quando loro passano il Giordano. A sua volta però il passare il Giordano e
l’entrare nella terra che è il compimento della storia della salvezza che era
iniziata con il passaggio del mar Rosso, adesso questo compimento di
salvezza diventa l’inizio di un’altra tappa della storia della salvezza e quindi
l’entrata nella terra promessa è promessa, figura e anticipazione di quello
che poi avverrà alla fine del percorso salvifico che Israele fa dentro la terra
e cioè quando Israele perde la terra, perché viene portato in esilio a
Babilonia e poi il Signore fa grazia e lo fa ritornare. E allora c’è l’uscita
dall’Egitto, ma questo si compie quando si entra nella terra, questo a sua
volta è l’inizio di un’altra cosa che si compie quando Israele ritorna
dall’esilio e riprende di nuovo la terra e lì ricomincia una nuova tappa della
storia della salvezza e questo ritornare dall’esilio che è la fine di una tappa,
è l’inizio di un’altra ed è allora figura e promessa di quell’altro ritorno alla
terra, di quell’altro ritorno a casa che è la conversione del cuore, che
anticipa a sua volta quel ritorno a casa definitivo, che è il poter rientrare e
questa volta per sempre dentro la Gerusalemme celeste, così da vedere
Dio faccia a faccia. La Bibbia presenta la storia della salvezza in questo
modo: l’inizio è come la fine, la fine è inizio di un’altra cosa, che è come
quell’altro inizio e così via e inizio e fine si richiamano a vicenda, con una
particolarità che più ci si avvicina alla fine vera, al compimento, alla
realizzazione piena della salvezza, più sembra che le cose diventino
piccole. Abbiamo detto che il mar Rosso è figura dell’entrata nella terra che
compie quello e però quest’entrata nella terra è figura di quel ritorno
dall’esilio che compie questo cammino di salvezza. Se noi vediamo cosa
sono questi tre eventi ci accorgiamo che ogni evento che viene dopo l’altro
è sempre meno appariscente. Al mar Rosso Israele è guidato da Mosè, il
grande profeta, quello di cui la Bibbia dice: “E nessun profeta mai sorse in
Israele come lui!”, Mosè, il grandissimo. Quando però quell’uscita
dall’Egitto che era all’inizio si compie nell’entrata nella terra, Mosè invece
non c’è più, è rimasto sul Nebo e al suo posto guida il popolo Giosuè, figlio
di Nun, una brava persona, un uomo di Dio; però Giosuè, figlio di Nun, non
Mosè. La grandezza, la forza, l’autorità di Mosè non è quella di Giosuè.
Giosuè è una mediazione più piccola. Quando poi addirittura questa
entrata nella terra si compie in quel ritorno dall’esilio, che è visto nella
Scrittura come nuovo Esodo e quindi davvero come il vero compimento di
quello che è stato il cammino nell’Esodo, non solo non c’è Mosè, non solo
non c’è Giosuè, ma non c’è proprio più nessuno. Quello è un popolo di
sbandati, senza più capi, senza più re, senza più profeti. Al mar Rosso
quello che si apre è il mar Rosso, che fa come due muraglie immense,
questa enorme muraglia d’acqua ferma lì, e Israele passa all’asciutto,
quando questo evento si compie nell’entrata in terra di Canaan, in Giosuè,
si apre il Giordano. Ed è vero quello che lì dicono che il Giordano era in
piena, perché al tempo della mietitura il Giordano arrivava fino agli argini,
ma sono gli argini di un fiume. Infatti si dice che le acque si aprono, ma
non fanno più le due muraglie: sono come un argine. Quando poi
ritornano dall’esilio in Babilonia hanno dovuto di nuovo attraversare il
Giordano, ma non si è aperto niente; il Giordano rimane chiuso, l’hanno
passato a guado. Quando al mar Rosso il mare si apre, lì c’è come dice la
Bibbia, la mano potente di Dio, c’è la colonna di nube, c’è la colonna di
fuoco. Il Dio potente, immenso, che fa anche paura... quando passano
anche il Giordano per entrare in terra promessa c’è una cassetta di legno,
che è l’arca dell’alleanza portata dai sacerdoti e quando poi ritorneranno
dall’esilio della potenza di Dio non c’è più traccia, non c’è nessuna mano
potente, non c’è nessun braccio alzato; c’è un popolo di scampati alla
spada, di zoppi e di ciechi. E al mar Rosso Dio si è manifestato come il Dio
potente che distrugge il male, simboleggiato lì dagli egiziani; ora l’Egitto
era la grandissima, immensa potenza dell’antichità, con i suoi carri, i suoi
cavalieri, i suoi soldati scelti e con un potere militare, economico, sociale
inverosimile e noi siamo ancora qui a guardare sbalorditi le piramidi... E
questo è l’Egitto che Dio stermina facendo niente, perché lui non fa
niente, ci pensa il mare a inghiottirlo... Quando Israele entra in terra
promessa anche lì Dio sconfigge dei nemici, ma sono i Gebusei, gli Evei, gli
Ittiti... sono niente, sono solo popolazioni nomadi! Quattro cammelli, tre
capre, un po’ di tende... povera gente, piccoli popoli. La grande salvezza di
Dio è adesso quando Israele entra nella terra, perché quando entra nella
terra che Israele è davvero salvo! Però, invece, la potenza di questa
salvezza al mar Rosso si era vista, qui non si vede, sono poveri popoli, che
si spostano in modo che Israele potesse insediarsi. E quando poi Israele
torna dall’esilio e lì è la vera salvezza, perché vuol dire che è finito il
peccato, che Dio ha perdonato, che adesso il popolo può cercare Dio con il
cuore e perciò Dio si lascia trovare, perché adesso c’è la nuova alleanza,
quella nei cuori di carne, lì è la grande salvezza e non c’è nessun nemico
che muore. Non c’è nessuna potenza di Dio che si manifesta come potenza
bellica, di sterminio, siamo nell’assoluta povertà, nell’assoluta mitezza, al
punto che Israele ritorna in patria e ci trova i samaritani e non c’è nessuno
a cacciare via i samaritani e Israele deve ricostruire Gerusalemme
perseguitato dai samaritani. E infine il grande elemento della fede che è la
memoria, il ricordo, il grande ricordo dell’evento pasquale: il passaggio del
mar Rosso, che poi diventa il piccolo ricordo di quelle dodici pietre messe
lì; e allora i bambini chiederanno il significato di quelle pietre... ma poi
neanche più nessuno se ne accorgerà! Con quelle dodici pietre il segno
della memoria si è fatto piccolo e quando poi Israele torna dall’esilio, la
memoria non c’è più, non si ricordano più al punto che devono cominciare
a re-insegnare tutto al popolo ( Esdra e Neemia), devono ricominciare a
leggere la legge di Dio e istruirsi. Non sanno neanche più come si
celebrano le feste, la memoria sembra finita, eppure lì è la salvezza, lì è Dio
che fa definitivamente salvo il suo popolo con la nuova alleanza. Questo è
quello che io dicevo il progressivo rimpicciolirsi dei segni della salvezza,
man mano che diventa sempre più grande la salvezza e sempre più vicino
il compimento della salvezza. Più la salvezza è reale, più si compie e più i
suoi segni sono piccoli, perché i segni indietreggiano per lasciare posto
alla realtà. E allora però finiscono le grandi scene, le grandi masse di
popolo, i grandi segni, tutte le dimensioni appariscenti per lasciare posto
ad una realtà che è immensa, tanto grande che il mondo non la può
contenere e che pure si presenta in una piccolezza sempre più manifesta
nella sua dimensione di piccolezza e quindi sempre più invisibile al punto
che quando tutto il cammino della storia della salvezza si compie per
davvero, ciò che avviene è ancora un passaggio del Giordano, siamo
ancora sulle rive del fiume Giordano e c’è un uomo vestito di pelli che
predica il perdono dei peccati e il battesimo di penitenza. E allora c’è un
uomo che è senza peccato che entra dentro il Giordano e lo attraversa per
ricevere il segno del perdono dei peccati, per adempiere ogni giustizia.
Non si apre il mar Rosso, non muoiono gli egiziani, non si apre il Giordano
e il compimento è un uomo che ci passa attraverso con i segni di una
penitenza, il battesimo predicato dal Battista, lui che è senza peccato,
quell’uomo che passa il Giordano. Gli egiziani non muoiono, e invece
muore lui. Il grande compimento della salvezza adesso è in quel segno così
irriconoscibile, non la mano potente di Dio che fa paura, non il fuoco, non
il terremoto... un uomo appeso ad un legno, che è morto per dare la vita,
per amore, fino all’ultima sparizione dei segni, perché poi il segno
definitivo è una tomba vuota, è tutto sparito e il segno adesso è che il
corpo di Gesù lì non c’è più, non si vede più e per vederlo devi avere occhi
nuovi, per vederlo devi fare come Maria di Magdala nel giardino, che lo
vede e non lo riconosce, però quando finalmente si sente chiamare per
nome esplode, ha ritrovato il suo maestro! Ma è il Signore Risorto, perché
crocifisso. La sintesi è questa: più ci avviciniamo alla salvezza, più c’è
bisogno di occhi nuovi, gli occhi della fede per vedere, perché i segni
diventano piccoli, perché anche quella tomba vuota in cui l’invisibile
prende il sopravvento è poi rivissuta nella nostra storia personale
attraverso altri segni ancora più piccoli: un pezzo di pane, un po’ di vino,
un po’ d’acqua sulla fronte di un bambino. Sono i sacramenti della chiesa,
in cui questa salvezza grande si compie. I piccoli segni che vi sono affidati,
di cui voi sacerdoti siete i ministri e i servitori. Vi propongo di andare a
vedere più da vicino questa grandezza della salvezza che si compie nella
piccolezza. Abbiamo cominciato con un bambino, messo in una cesta e
buttato in un fiume, finiamo questo corso anche con un altro bambino,
nato da una vergine e messo in una mangiatoia. È il racconto della nascita
di Gesù, secondo il Vangelo di Luca, lì dove Luca è molto attento a
segnalare la situazione storica. Siamo ai tempi di Cesare Augusto, ai tempi
dell’imperatore romano, siamo alle prese con un grande mostro come
quello egiziano, una grande potenza e in questo quadro storico di potenza
assoluta che si manifesta attraverso i grandi, si manifesta e si realizza la
salvezza grande e potente di Dio attraverso i piccoli. Una donna sterile che
invece diventa feconda e dà alla luce un bambino, il precursore; una
vergine che dice di sì, un po’ di pastori, Simeone che allora muore e la
profetessa Anna, quest’anziana che, dopo aver visto il bambino, andava a
parlare del bambino a tutti quelli che aspettavano la salvezza di Israele.
Una vecchia impazzita! Quelli aspettano la salvezza di Israele e lei che va
raccontando di un bambino che è nato; è la follia! È nato un bambino...
quelli aspettano la salvezza e che l’impero romano crolli! È nato un
bambino! Questa è la follia, bella, di cui noi siamo servitori e che andiamo
celebrando giorno dopo giorno con il vostro dono grande. Ecco che la
piccolezza diventa realtà di salvezza in quell’incarnazione. Un’incarnazione
in una situazione precaria... non c’è posto per loro... Gesù come straniero...
Tutto questo avviene perché il grande, il potente, l’imperatore romano ha
ordinato un censimento e i piccoli obbediscono... Giuseppe e Maria sono
piccoli e si mettono in cammino. Devono andare a Gerusalemme, perché
devono essere censiti lì, perché appartengono a quella tribù ed è per
questo si ritrovano poi che Maria adesso deve far nascere il Salvatore e
non c’è posto per loro. Sembrano che siano i grandi a decidere tutto, tanto
decidono tutto che a motivo dei grandi adesso il Salvatore nasce dove non
c’è posto per lui, perchè il Signore porta avanti la sua storia a dispetto dei
grandi e utilizza quello che è a motivo dei grandi perché sia a dispetto dei
grandi... lì, lì la salvezza! E allora ecco il bambino avvolto in fasce e deposto
in una mangiatoia. A Luca questa cosa deve aver fatto tanta impressione
perché ripete due volte che il bambino era avvolto in fasce e tre volte il
fatto che l’avevano messo in una mangiatoia. Effettivamente queste fasce e
quella mangiatoia sono il segno visibile del paradosso di questa salvezza
che si compie. Le fasce sono il segno dell’amore di una madre, dicono
l’accoglienza della vita. Quando una madre aspetta un bambino il suo
modo per dire l’amore per questo bambino che ancora non vede e il suo
desiderio di vederlo è che gli prepara il corredino, è il modo per dire
l’accoglienza della vita, l’amore mentre aspetti che venga, gli prepari di che
vestirlo e che sia bello e che dica che siamo contenti che una nuova vita è
tra noi. Gesù avvolto in fasce è il segno di quest’amore, di
quest’accoglienza ed ecco invece il paradosso brutale: avvolto in fasce che
dice l’amore di Maria e messo in una mangiatoia che dice il rifiuto degli
uomini! Non c’era posto per loro! O non c’era posto per loro o non avevano
loro un altro posto dove mettere il bambino. E allora Gesù nasce accolto
dalle fasce e insieme con il segno di questa estraneità: il rifiuto. E questa
mangiatoia dice povertà e queste fasce dicono la debolezza del bambino
che ha bisogno di tutto. E invece quello è il Salvatore, quello è il re del
mondo... altro che l’imperatore romano! Questo è il vero Re dentro una
mangiatoia, avvolto in fasce! Sapete che nella tradizione iconografica
orientale questo diventa poi segno di quelle altre fasce che sono il sudario
in cui Gesù viene avvolto, quando viene deposto dalla croce e poi deposto
nella tomba. Nell’iconografia orientale il bambino è avvolto nel lenzuolo,
Gesù morto è avvolto nelle fasce e Gesù morto è messo in una mangiatoia.
È questa nascita per poter morire d’amore ed è questa morte che è la vera
nascita alla vita. In questo bambino si condensa tutta la realtà della
salvezza e i pastori che sono poveri e piccoli pure loro, loro capiscono. Nel
vangelo di Luca non c’è nessuno che conti alla scena della natività; Matteo
ci mette i re magi... invece in Luca non c’è nessun potente, nessun grande,
ci sono i pastori, perché sono solo i piccoli che possono capire, che
possono vedere un bambino in una mangiatoia e riconoscere il Salvatore, è
questo bambino che doveva essere tanto simile ai loro bambini, un figlio di
pastori, dove lo mettono i pastori il figlio? Lì dove hanno le bestie, dove
anche loro vivono. Quel “bimbino” di Maria, messo lì nella mangiatoia
doveva tanto assomigliare ad un figlio di pastori e i pastori lo riconoscono
come loro e però come re. È la piccolezza che sa riconoscere la piccolezza
e chi è grande non la sa riconoscere, non la sa decifrare. Chi è grande vede
solo che quella cosa è piccola e allora la giudica insignificante, inutile,
senza importanza. Chi è piccolo vede nella piccolezza tutta la grandezza...
è capace di vedere la verità. I pastori sono come i profeti, che sanno
vedere al di là delle apparenze; vedono un bambino e riconoscono il re del
mondo e questi sono quelli che lo accolgono. Ecco allora di questo mistero
di salvezza, che si realizza lì nel bambino, per poi realizzarsi nel Signore
Gesù avvolto nelle fasce e deposto nella tomba, che però poi è vuota, di
questo mistero voi sacerdoti siete i testimoni privilegiati, siete i mediatori
e mediatori efficaci, servi efficaci di questa salvezza, che si compie
attraverso il vostro ministero, che è il ministero di questi segni sempre più
piccoli, che è il ministero della carità che rende presente in mezzo a
coloro che vi sono stati affidati l’amore grande di Dio. E così voi alle prese
con questa salvezza, per il dono che avete ricevuto del sacerdozio, siete
chiamati a donare tutto, proprio tutto, per rendere efficace e presente per
tutti questa salvezza. Concludiamo con un grande canto di gioia e di
ringraziamento. Che cosa c’è di meglio del Magnificat? Dio ha fatto grandi
cose nella piccolezza, in Maria, la piccola per eccellenza! Lì dove in quel
canto si vede tutto il capovolgimento dei valori a cui la Parola e la realtà di
Dio ci abitua. I superbi sono dispersi, i potenti rovesciati, gli umili
innalzati, quelli che hanno fame adesso sono sazi, quelli che sono ricchi
sono poveri, e quelli che sono poveri sono tanto ricchi, perché sono ricchi
della loro povertà. È la fedeltà di Dio che si compie nel ricordo della sua
misericordia, sono le promesse adempiute, la promessa ad Abramo, Isacco,
Giacobbe, la promessa che abbiamo visto snodarsi in questi nostri giorni,
nel cammino dell’Esodo, sotto la guida del grande mediatore Mosè. È la
salvezza definitivamente realizzata nel segno piccolo piccolo di un ventre
fecondo, di una ragazza vergine. È l’ultima piccolezza, è quella del
nascondimento, del paradosso, della contraddizione. C’è anche qualcosa di
scandaloso lì, oltre che di apparentemente impossibile: una vergine che
diventa madre, ma anche qualcosa di problematico perché quello che si
vede, quello che sembra è che ci sia una ragazza peccatrice. Ed è il
dramma di Giuseppe! Una ragazza che improvvisamente sta per diventare
madre, senza essere andati ancora a vivere insieme... Ecco, vedete come i
segni sono talmente piccoli, che si possono perfino capire male! Quella
sembra una ragazza peccatrice ed è una giovane invece senza peccato, è
l’Immacolata in cui si è compiuto il progetto di Dio perché l’Immacolata ha
detto di sì e lì allora Dio si può fare uomo e prendere questa carne da
ridonare nel dono della vita, nell’amore. E così allora si compie la vittoria
sul peccato e sulla morte, sono definitivamente distrutti tutti i vitelli d’oro,
così finiscono le mormorazioni, le crisi della fede nel deserto, così finisce il
peccato, la guerra, la violenza, il male, la morte... perché c’è una sterile che
diventa feconda, Elisabetta, c’è una vergine che diventa madre, c’è la morte
che diventa dono di vita, perché il Figlio ormai la dona per sempre. Questo
è il mistero di cui voi siete ministri e servi, queste sono le grandi cose di
cui non ringraziamo mai abbastanza il Signore e la sua piccola serva e
madre Maria.