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Paper preparatorio della prima parte di I. Possenti, “L’apolide e il paria.

Lo straniero
nella filosofia di Hannah Arendt”, Carocci, Roma 2002

Attenzione:
Questo testo non corrisponde alla versione definitiva pubblicata.
In caso di citazioni, si prega di indicare il riferimento bibliografico come segue:

“Ilaria Possenti, L’apolide e il paria. L’individuo senza polis, Paper, 2002”

I. L’individuo senza polis

I.1 «Noi profughi»

I. 2 Stateless, Heimatlosen, apatrides


La vicenda dei senza-patria
Il diritto ad avere diritti

I.3 Nuda vita?


I nuovi apolidi
Natura e cultura
Bios e zoè

  1  
I. L’individuo senza polis

«Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-
umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi
dell’uomo.»
«Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto questo […]. Grazie a Lorenzo mi è
accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.»
Primo Levi

«Il passaporto è la parte più nobile di un uomo. E difatti non è mica così semplice da
fare come un uomo. Un essere umano lo si può fare dappertutto, nel modo più
irresponsabile e senza una ragione valida; ma un passaporto, mai. In compenso il
passaporto, quando è buono viene riconosciuto; invece un uomo può esser buono
quanto vuole, non viene riconosciuto lo stesso.»
Bertolt Brecht

  2  
I.1

“Noi profughi”

Nel gennaio del 1943, poco tempo dopo il suo arrivo negli Stati Uniti1, Hannah

Arendt si soffermava sulla condizione dei nuovi “americani di lingua tedesca”, i

profughi ebrei in fuga dalla persecuzione nazista:

Abbiamo perso la casa, che rappresenta l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso
il lavoro, che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mondo.
Abbiamo perso la nostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle reazioni, la
semplicità dei gesti, l’espressione sincera e naturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i
nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di
concentramento, e questo significa che le nostre vite sono state spezzate.
Tuttavia, non appena siamo stati salvati – e la maggior parte di noi è stata salvata
parecchie volte - abbiamo cominciato le nostre nuove vite, cercando di seguire il più
fedelmente possibile tutti i buoni consigli dei nostri salvatori. Ci è stato detto di
dimenticare, e abbiamo dimenticato più velocemente di quanto sia possibile
immaginare. (JP, pp. 55-6; it., p. 36)

Oscillando tra il coinvolgimento e il distacco, Noi profughi narra dell’ansiosa

determinazione con cui coloro che avevano trovato rifugio negli Stati Uniti cercavano di

assimilarsi alla nuova patria. Secondo «i fondamentali imperativi della nuova vita» -

scrive Hannah Arendt – per sopravvivere occorreva dimenticare il passato comune e la

propria lingua, lottare come folli per avere esistenze private con destini individuali, e

concentrarsi, infine, sul futuro personale pronosticato dagli oroscopi, piuttosto che

sull’inquietante mondo narrato dai quotidiani. Occorreva insomma cancellare il passato,

e con esso la coscienza dell’oppressione («per dimenticare meglio evitiamo anzi ogni

  3  
allusione ai campi di concentramento o di internamento»). Occorreva diventare

“ottimisti”.

La replica arendtiana a questi imperativi si gioca sul filo di un’ironia al tempo

stesso commossa e glaciale, che chiama volutamente in causa «fatti impopolari», come

il fenomeno del crescente numero di suicidi tra i “salvati”, la diffusa familiarità con

l’idea della morte, l’interpretazione in termini personali di una catastrofe collettiva:

No, c’è qualcosa che non va nel nostro ottimismo. Tra noi ci sono quei bizzarri ottimisti
che, dopo aver fatto un mucchio di discorsi ottimistici, vanno a casa e aprono il gas o si
servono di un grattacielo in modo del tutto imprevisto… Invece di lottare – o di pensare
a come riacquistare la capacità di lottare – i profughi si sono abituati a desiderare la
morte per gli amici e i parenti; se qualcuno muore, ci rallegriamo all’idea che abbia
potuto evitare tanti guai. Così, molti pensano che anche noi potremmo evitare dei guai –
e agiscono di conseguenza. (JP, pp. 57-8; it., p. 38)

[Al campo di Gurs] era opinione comune che si dovesse essere singolarmente asociali e
disinteressati alle circostanze per essere ancora capaci di interpretare l’accaduto come
una sfortuna personale e individuale e, di conseguenza, per porre termine ai propri
giorni in modo personale e individuale. Tuttavia, non appena le stesse persone, tornate
alle loro vite individuali, si trovarono a dover affrontare problemi apparentemente
individuali, si volsero una volta di più a questo insano ottimismo, prossimo alla
disperazione. (ivi, p. 59; it., p. 40)

Il parziale distacco dell’autrice dal “noi” collettivo della narrazione appare evidente.

Mentre scriveva che «la maggior parte di noi non si è mai sognata di avere un’opinione

politica radicale», infatti, Arendt si sentiva parte di quella minoranza di ebrei che, entro

pur limitatissimi spazi di resistenza, avevano tentato di “fare qualcosa”2.

Tuttavia, la critica del fondamentale «egotismo» dei profughi, in fuga dalla storia e dal

mondo al punto da ritrovarsi sospesi tra ottimismo assimilazionista e disperazione

suicida, tra annullamento della propria identità e annullamento della propria vita, non si

risolve in una presa di distanza, né tantomeno in incomprensione o rancore.

  4  
Certo, Noi profughi fa appello alla lotta e al cambiamento del mondo piuttosto che alla

negazione di sé, alla reazione collettiva e politica piuttosto che individuale. Ma Arendt,

nella sua ambigua posizione rispetto al “noi” narrante («anch’io sono stata piuttosto

ottimista»), sa bene quanto sia umano cercare scorciatoie quando non si ha più “un

posto nel mondo”:

L’uomo è un animale sociale e la vita non è facile per lui quando vengono recisi i
legami sociali… Pochissimi individui hanno la forza di conservare la loro integrità se la
loro condizione sociale, politica e giuridica è del tutto inadeguata. (ivi, p. 62; it., p. 44)

Attraverso il complesso gioco del coinvolgimento e del distacco, Noi Profughi lascia

così intravedere la genesi di due temi fondamentali del pensiero arendtiano: quando

parla come profuga tra gli altri profughi, Arendt affronta chiaramente il problema

dell’esclusione, fondata sulla discriminazione come «arma sociale con cui uccidere gli

uomini senza spargere sangue»; quando si ritrae in una posizione critica, ad essere in

questione è invece l’inclusione, intesa come soluzione che rischia continuamente di

trasformarsi in pratica di assimilazione.

Per quanto riguarda il problema dell’esclusione, la descrizione dei profughi ebrei come

individui fondamentalmente amondani, alienati dalla dimensione sociale e relazionale

caratteristica dell’esistenza umana, prefigura in questa pagine l’analisi che ne Le origini

del totalitarismo viene riservata alla vicenda degli apolidi, i numerosi «senza patria»

che nel primo dopoguerra perdettero protezione giuridica e riconoscimento sociale, fino

ad essere trattati dalle nazioni europee come corpi estranei, individui superflui, veri e

propri “hommes jétables”3.

D’altra parte, la riflessione sull’ansia di inclusione dà vita in Noi profughi alla figura del

“signor Cohn”, l’ebreo berlinese «che era sempre stato un tedesco al 150%» e che, pur

ritrovandosi perseguitato in quanto ebreo, cercava una via di scampo individuale

  5  
attraverso l’adesione incondizionata a una nuova patria. Mentre comprende «il

necessario adattamento» alla realtà in cui si vive, che passa ad esempio attraverso

l’apprendimento della lingua, Arendt sottolinea il carattere a dir poco grottesco di una

vita da “signor Cohn”, pericolosamente dedito alla trasformazione da «super-patriota

tedesco» in patriota, di esilio in esilio, ceco, austriaco e francese (ivi, pp. 62-4; it. pp.

44-5). Poiché la negazione della propria storia comporta l’accettazione immediata e

indiscriminata della nuova realtà ed il cieco affidamento ad essa, i rischi di

un’inclusione di tipo assimilazionista appaiono evidenti:

Per sette anni abbiamo recitato la ridicola parte di quelli che cercano di essere francesi –
o, per lo meno, potenziali cittadini; eppure, all’inizio della guerra, siamo stati
ugualmente internati come boches4. Nel frattempo, tuttavia, la maggior parte di noi è
diventata a tal punto fedele alla Francia, che non abbiamo potuto nemmeno criticare un
ordine del governo francese. Così abbiamo dato il benestare al nostro stesso
internamento. Siamo stati i primi “prisonniers volontaires” che la storia ricordi. (ivi, p.
61; it., p. 43)

La critica dell’assimilazione percorre l’intera opera arendtiana e trova il proprio

centro di riferimento nella figura del “paria” - l’ebreo che, come gli “intoccabili” delle

caste indiane, si trova a vivere ai margini della società; e che tuttavia, prendendo

coscienza della propria condizione, preferisce il rischio del margine all’integrazione a

qualsiasi costo perseguita dal parvenu. E’ questa, del resto, la figura sulla quale Noi

profughi significativamente si chiude. Nelle battute finali del saggio, infatti, Arendt

ripone le proprie speranze nei profughi-paria, consapevoli della propria condizione e

disposti a «dire la verità, addirittura fino all’“indecenza”», i quali mantengono aperta,

dal margine della società, la possibilità della comprensione e dell’azione («per loro la

storia non è più un libro chiuso e la politica non è più un privilegio dei gentili»): pur

provando il bisogno di sentirsi al sicuro, «accettati dalla società» («perdiamo fiducia in

noi stessi se la società non ci approva»), essi scelgono di aggrapparsi alla propria atopia,

  6  
rifiutando la «tristezza senza speranza» che inevitabilmente cova sotto l’ottimismo

dell’assimilazione. Protagonista di una “tradizione nascosta” della storia ebraica

(«quella di Heine, Rahel Varnhagen, Sholom Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka o

persino Charlie Chaplin»), il paria emerge in definitiva, nell’opera arendtiana, come una

singolare variante della figura del «senza patria». La sua caratteristica marginalità non

rappresenta il preludio della catastrofe, ma una condizione di possibilità della libertà

umana: benché chieda di essere riconosciuto dagli altri come eguale, infatti, il paria sa

che per agire liberamente nel mondo non è possibile essere rigidamente inclusi in esso;

sa, in altri termini, che non c’è libertà se l’inclusione si configura non come eguaglianza

tra diversi, ma come assimilazione.

Interrogandosi sul rapporto tra l’individuo e il mondo a partire dalla moderna

vicenda politica degli ebrei, Arendt resiste, dunque, alla tentazione di disegnare

un’alternativa semplificante tra inclusione e esclusione. Il punto, sia chiaro, non sarà

mai per lei quello di rovesciare i termini della questione, assegnando un qualche

significato liberatorio alla posizione di esclusi e dipingendo come oppressiva

l’inclusione nella comunità. La domanda è semmai che cosa intendiamo dire quando

parliamo di inclusione e di esclusione. Il problema che Arendt ci aiuta a formulare è

infatti il problema della libertà, intesa come possibilità di vivere al tempo stesso da

cittadini e da stranieri – come possibilità di “stare dentro” senza venire per questo

inclusi, chiusi dentro, vincolati a una rigida identità collettiva; e come possibilità di

“stare fuori”, di uscire dal cerchio magico dell’appartenenza, senza ritrovarsi per questo

exclusi, chiusi fuori dalle mura della polis.

La condizione degli ebrei nel periodo compreso tra la prima e la seconda guerra

mondiale diviene in particolare il paradigma, nelle pagine arendtiane, di una condizione

di esclusione destinata ad estendersi, anziché contrarsi, nella lunga storia del Novecento.

  7  
Basti pensare al mondo in cui oggi viviamo, nel quale una nuova generazione di esclusi

- apolidi, migranti e rifugiati – pone seri interrogativi a società che credevamo ormai

immuni da mali etici e politici come le violazioni dei diritti fondamentali.

In simili contesti, il pur minimo accenno ad una riflessione critica sull’inclusione rischia

di apparire del tutto fuori luogo: la scelta di porre al centro della riflessione filosofico-

politica il valore del margine, quando quotidianamente si assiste alla crescita

dell’emarginazione, potrebbe in effetti tradursi nell’ennesimo oltraggio recato agli

esclusi da una ristretta cerchia di privilegiati, senz’altro in grado di distanziarsi senza

danno dalle garanzie dell’appartenenza. Questa obiezione, talvolta mossa, con

argomenti condivisibili, alle filosofie dello “spaesamento” di inizio Novecento, non può

tuttavia essere rivolta a Hannah Arendt, che nell’accostare all’apolide una figura del

margine come quella del paria considera assolutamente centrale il problema

dell’esclusione. Ricollegandosi ad almeno un esponente delle filosofie dello

spaesamento, il maestro Martin Heidegger, Arendt mette in scena, in realtà, l’estrema

complessità del problema della cittadinanza, che non può essere affrontato attraverso

una semplice apologia dell’inclusione nella comunità politica. La riflessione arendtiana

ci interroga infatti rispetto alla possibilità di eludere, di fronte al dramma

dell’esclusione, il problema della libertà degli inclusi; e, se merita di essere ripercorsa, è

proprio perché Hannah Arendt conosceva bene questo dramma.

I.2

Stateless, Heimatlosen, apatrides

La vicenda dei senza-patria

  8  
L’esperienza dei profughi che tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni

Quaranta avevano trovato rifugio negli Stati Uniti costituiva solo la punta di un

gigantesco iceberg. Tra la prima e la seconda guerra mondiale, in seguito al

dissolvimento degli imperi russo e austro-ungarico, ai trattati di pace post-bellici e alle

rivoluzioni in corso nei paesi dell’Est, in Europa numerosi individui si trovarono

parzialmente o totalmente sprovvisti della protezione di un governo statale, raccolti in

minoranze nazionali allogene rispetto allo stato d’appartenenza o dispersi in

innumerevoli gruppi di apolidi e rifugiati (cfr. Marrus 1986.). La loro vicenda di apolidi,

o senza-patria (stateless, Heimatlosen, apatrides), è narrata nell’ottavo capitolo de Le

origini del totalitarismo, oggi tra i più letti e discussi dell’intera opera.

L’apolide rappresenta per Hannah Arendt una nuova figura dell’alterità nella società e

nella politica contemporanea, il cui ruolo di estraneo alla polis e alla civiltà appare

paragonabile a quello svolto dal “barbaro” nell’antichità classica e dal “selvaggio” in età

moderna. L’alterità dell’apolide si costituisce tuttavia come il più evidente paradosso di

una civiltà che afferma di voler costruire la propria identità non per esclusione ma per

inclusione, prendendo le mosse dall’illuminismo post-rivoluzionario delle

“dichiarazioni universali” dei diritti dell’uomo, ovvero dall’ammissione del “barbaro” e

del “selvaggio” nel seno di una comune “umanità”5. La riflessione sulla figura

dell’apolide muove pertanto dall’analisi del fenomeno dal punto di vista strettamente

storico-politico, per approdare poi ad una riflessione critica sulla questione dei diritti

umani.

Le origini del totalitarismo, originariamente pubblicata in tre volumi, esamina i

fenomeni dell’antisemitismo, dell’imperialismo e dell’organizzazione delle masse nei

movimenti totalitari europei come elementi che, pur senza obbedire ad alcuna

deterministica legge della storia, finirono per convergere in un processo di

  9  
cristallizzazione che consentì l’avvento del regime totalitario in Germania (Arendt

1953, p. 148)6. In particolare, la seconda parte dell’opera prende in considerazione due

fenomeni apparentemente distinti, quali l’imperialismo coloniale ed il cosiddetto

“imperialismo continentale” pan-germanista e pan-slavista, interpretandoli come

manifestazioni di un’incipiente crisi dello stato-nazione: la crisi sarebbe stata

storicamente prodotta dalla tendenza dei capitali, del potere politico e delle popolazioni

allo sconfinamento oltre i limiti imposti dal territorio e dall’appartenenza nazionale,

nella prospettiva di un mondo sempre più «unico», di una «situazione politica globale»

o di una «civiltà globale, universalmente interrelata» (OT, p. 297 ss.; it., p. 411 ss.)7. E’

in questo quadro che sarebbe emerso il fenomeno del «gruppo più sintomatico della

politica contemporanea», ovvero di quelle masse di apolidi e rifugiati che un mondo

proclamatosi tutore degli inalienabili diritti umani avrebbe ovunque trattato come

indesiderabili. Nella nuova «organizzazione globale dell’umanità» in «famiglia di

nazioni», gli individui privi di una patria e della protezione giuridica di uno stato

avrebbero infatti perduto, insieme alla “patria”, alla cittadinanza (status civitatis), la loro

stessa “umanità”, il loro statuto di persone (status personae)8:

Quel che è senza precedenti non è la perdita di una patria, bensì l’impossibilità di
trovarne una nuova. [...] Nessuno si era accorto che l’umanità, per tanto tempo
considerata una famiglia di nazioni, aveva ormai raggiunto lo stadio in cui chiunque
veniva escluso da una di queste comunità chiuse, rigidamente organizzate, si trovava
altresì escluso dall’intera famiglia delle nazioni, dall’umanità. [...] I trattati di reciprocità
e gli accordi internazionali hanno tessuto intorno alla terra una rete che consente al
cittadino di qualsiasi paese di portare con sé il proprio status giuridico dovunque vada.
Ma chi non è più avvolto da essa, è fuori dall’umanità. (OT, p. 293-4; it., p. 406-7)

La perentorietà di queste affermazioni appare comprensibile alla luce dell’esperienza

storica cui Arendt fa riferimento: tra le due guerre moltissimi membri di minoranze,

apolidi e rifugiati furono effettivamente abbandonati a se stessi dai governi europei – in

  10  
molti casi fino al tragico epilogo dei campi di concentramento -, mentre troppo pochi

trovarono rifugio negli Stati Uniti o furono in qualche misura protetti da altri paesi.

Arendt ricorda in particolare che l’atteggiamento dei governi nei confronti degli apolidi

e dei rifugiati sparsi per l’Europa tra le due guerre oscillò a lungo tra l’idealismo e la

rimozione: mentre dichiaravano solennemente che le displaced persons sarebbero

comunque state tutelate dalle costituzioni civili (che si presumevano più o meno

esplicitamente fondate sui “diritti umani”), essi si affidavano in realtà alla speranza che

il fenomeno fosse del tutto marginale e momentaneo. D’altra parte, mentre il rimpatrio e

la naturalizzazione si rivelavano impraticabili su larga scala, per la riluttanza dei paesi

d’origine nel primo caso e per quella delle popolazioni ospitanti nel secondo, il diritto

d’asilo sembrava improvvisamente inadeguato alle nuove condizioni: ultimo residuo del

principio medievale per cui «quidquid est in territorio est de territorio», esso era infatti

limitato al caso dei “perseguitati” - nel senso restrittivo di quegli individui che si

trovano in situazione di pericolo per aver manifestato determinate convinzioni politiche

o religiose in un paese che le persegue. Il diritto di asilo non poteva dunque essere

applicato alle masse di apolidi sparse per l’Europa a meno di una sua interpretazione

notevolmente estensiva, che era tuttavia fuori discussione: le legislazioni cominciavano

a contemplare, semmai, gli strumenti giuridici della “denazionalizzazione” e

dell’“espulsione”. In conclusione, i paesi europei finirono per affrontare la questione dei

profughi esclusivamente in termini di ordine pubblico, affidando il compito di occuparsi

dei rifugiati alla polizia, che veniva «a disporre direttamente delle persone». In questo

contesto fecero per la prima volta la loro comparsa in Europa i campi di internamento,

che Arendt icasticamente rappresenta come un surrogato della patria inesistente -

«l’unica patria che il mondo aveva da offrire all’apolide» (OT p. 284; it., p. 394)9.

  11  
Si delinea così nelle pagine arendtiane la figura storica dello Heimatlose, colui o

colei che è al tempo stesso homeless, stateless e rightless: privo di una patria, una casa,

un posto nel mondo (home nel senso di homeland), di cittadinanza (non citizen in

quanto non national, non cittadino in quanto non appartenente alla nazione) e di diritti

(non solo dei diritti fondamentali proclamati dalle “dichiarazioni universali”, ma, ancor

prima, di uno status giuridico, del “diritto ad avere diritti”).

La condizione dello Heimatlose, che letteralmente “non ha fatto nulla”, è peggiore di

quella dell’autore di un reato, che ha comunque diritto a un processo e resta dotato di

personalità giuridica anche in regime di detenzione: senza essere accusato di alcun

crimine e senza potersi appellare ad alcun diritto, l’apolide può infatti essere

arbitrariamente espulso, arrestato o recluso dalla polizia. Di fronte a lui, «che non ha

alcun diritto, che vive sotto la minaccia di espulsione o che senza processo è stato

confinato in un campo di internamento perché ha cercato di lavorare e di guadagnarsi da

vivere», il sistema di valori proprio dei «paesi civili» appare completamente capovolto

(OT, p. 286; it., p. 397). La specifica «disgrazia» degli Heimatlosen è dunque, secondo

Hannah Arendt, quella di essere stati gettati in una situazione di «superfluità», di

esclusione così radicale che in un certo senso la comunità non manifesta, nei loro

confronti, neanche l’interesse che l’oppressore deve necessariamente manifestare per

l’oppresso (OT, p. 296; it., p. 409): percepiti come corpi estranei, come un ingombro, le

loro azioni e le loro opinioni, così come la loro esistenza ed il loro destino, non hanno

più «alcuna importanza per nessuno» . Come già era accaduto ai “proscritti” medievali,

gli individui «messi al bando della legge», la loro vita è esposta all’arbitrio degli altri:

«chiunque potrebbe ucciderli senza essere accusato di omicidio» (OT, p. 302; it., p.

418).

  12  
Il “diritto ad avere diritti”

La dichiarazione dei diritti dell’uomo alla fine del XVIII secolo segnava, secondo

Hannah Arendt, una svolta epocale, ma ambigua. Da una parte, un’umanità illuminata

si proponeva di emancipare se stessa, rinunciando alla tutela di un ordine superiore -

naturale o divino - per porsi come fonte del diritto (OT, p. 298; it., p. 413); dall’altra,

questa umanità, «concepita come una famiglia di nazioni», mancava il proprio obiettivo,

poiché la celebrazione di principio della libertà di «un uomo astratto, che non esisteva in

nessun luogo» nascondeva, nei fatti, l’identificazione dell’uomo con il membro dello

stato nazionale:

La questione dei diritti umani si intrecciò ben presto inestricabilmente con quella
dell’emancipazione nazionale; solo la sovranità del popolo, del proprio popolo, sembrò
capace di garantirli. (OT, p. 291; it., p. 404)

Arendt ricorda come lo stato sorto in seguito alla rivoluzione francese sia fondato al

tempo stesso sulla volontà popolare e sull’identificazione del popolo con la nazione,

ovvero con una comunità che si ritiene fondata sulla «comunanza dell’origine». Gli

stati-nazione ottocenteschi avrebbero di conseguenza riconosciuto fondamentali diritti

di cittadinanza soltanto ai propri membri effettivi10:

…in nome della volontà popolare lo stato pretendeva di riconoscere solo i membri della
nazione (nationals) come cittadini (citizens), di garantire pieni diritti civili e politici solo
a coloro che per origine e nascita appartenevano alla comunità nazionale, che si
supponeva sostanzialmente omogenea. (OT, p. 230; it., p. 321)11

E’ noto, in effetti, che in linea di principio la Dichiarazione del 1789 tendeva ad

identificare l’homme con il citoyen o, come potremmo anche dire, lo status personae

con lo status civitatis, muovendo dall’assunto per cui «gli uomini nascono liberi ed

  13  
eguali nei loro diritti». I diritti politici, tuttavia, restavano prerogativa esclusiva dei

membri della nazione, ed in questo la Dichiarazione era chiaramente figlia della propria

epoca, nella quale andava profilandosi il modello europeo degli stati nazionali12.

Secondo Hannah Arendt, gli stati europei avrebbero sostenuto che solo i diritti dei

cittadini potevano dare forma di norme tangibili ai diritti umani proclamati nelle

“dichiarazioni universali”, implicitamente confidando nel fatto che la riorganizzazione

politica del mondo avrebbe garantito ad ogni individuo la protezione di uno Stato. Che

le cose non sarebbero affatto andate così divenne evidente, però, quando irruppero sulla

scena masse di individui ovunque stranieri, in quanto privi di cittadinanza nazionale o,

comunque sia, sprovvisti di un’effettiva protezione giuridica da parte dell’uno o

dell’altro Stato (apolidi in senso stretto, come i rom, o in senso lato, come i membri

delle numerose minoranze linguistiche, etniche o religiose). Il sistema degli stati-

nazione si attendeva che gli apolidi giungessero gradualmente all’assimilazione e

all’oblio della propria «origine», ma il seguito degli avvenimenti avrebbe dimostrato

che questa era soltanto un’illusione, e che una comunità politica incapace di trattare

come cittadini gli stranieri che si trovano sul proprio territorio, al punto da impiegare

nei loro confronti provvedimenti di espulsione, misure di polizia e pratiche di

internamento, infrange in maniera molto netta quei principi di libertà ed eguaglianza

proclamati a gran voce nelle “dichiarazioni universali”13. In questo senso, l’uomo

dell’universalismo illuminista non solo non veniva riconosciuto come cittadino; ma

rischiava di perdere, insieme alla cittadinanza garantita dalla nazionalità, anche il

proprio status di persona.

Per alcuni aspetti, la riflessione arendtiana si richiama a Edmund Burke, il

celebre critico dell’«astrattezza» dei diritti umani.

  14  
Sorprendentemente, se si tiene conto della vulgata interpretativa secondo la quale

Hannah Arendt avrebbe complessivamente apprezzato la posizione di Burke, l’autore

viene considerato come il principale precursore delle teorie razziali in Inghilterra (OT,

p. 175; it., p. 245):

Essendo l’ineguaglianza sociale la base della società inglese, i conservatori si sentivano


non poco a disagio quando si trattava dei “diritti dell’uomo”. [...] Il principale
argomento di Burke contro gli “astratti princìpi” della rivoluzione francese è contenuto
nella seguente frase: “La politica uniforme della nostra costituzione è stata quella di
rivendicare e affermare le nostre libertà, come un’eredità inalienabile derivataci dai
nostri avi, e da trasmettere ai posteri; come una condizione specialmente appartenente al
popolo di questo regno, senza alcun riferimento ad altro diritto più generale o anteriore”
[Burke 1790, p. 192, n.d.a.]. Il concetto di eredità applicato alla natura stessa della
libertà è stato la base ideologica da cui il nazionalismo inglese ha tratto il suo curioso
tocco di spirito razziale fin dalla rivoluzione francese. Formulato da uno scrittore della
borghesia, esso implicava la diretta accettazione del concetto feudale di libertà come
somma dei privilegi ereditati insieme col titolo e con la terra. Senza intaccare i diritti
della classe privilegiata all’interno del Regno Unito, Burke estendeva il principio di tali
privilegi fino ad includervi l’intero popolo britannico, elevato così al rango di
aristocrazia fra le nazioni. Di qui il suo disprezzo per i connazionali che reclamavano la
loro libertà non come inglesi, ma come uomini e cittadini. (OT, p. 176; it., pp. 245-6)

Evidentemente, Arendt considerava la propria posizione teorica e politica agli antipodi

di quella di Burke. Per quel che riguardava il presente politico era infatti contraria alla

rivendicazione sionista di uno stato nazionale ebraico, poiché questo avrebbe solo

contrapposto i diritti di un popolo a quelli di un altro e, complessivamente, al mondo dei

“gentili” (Arendt 1945p). Dal punto di vista teorico, d’altra parte, vedeva nella

rivendicazione dei “diritti degli inglesi” un’estensione su scala nazionale della

negazione aristocratica dell’eguaglianza, fondata sull’appello a una determinata nascita,

eredità, tradizione come unica legittimazione possibile dell’ordine sociale e del

riconoscimento dei diritti.

  15  
Tuttavia, nel corso della riflessione sugli apolidi Arendt si richiama a Edmund Burke

come al convinto oppositore che aveva intuito, sia pure da posizioni conservatrici,

l’impraticabilità nel contesto degli stati nazionali moderni delle aspirazioni

universalistiche propugnate dalla Dichiarazione del 1789. Sostenendo che l’homme,

l’“uomo astratto”, semplicemente non esiste, Burke avrebbe compreso che dei diritti

della persona si può godere, in realtà, solo nella misura in cui si è riconosciuti dalla

comunità in cui si vive. E’ difficile essere persone, in effetti, quando non si è più

cittadini. Per questo, in un mondo che cominciava ad organizzarsi in stati-nazione,

Burke aveva sostenuto che «è molto più saggio contare su un’“eredità tradizionale” di

diritti trasmessi di padre in figlio, come la vita, e rivendicarli come i “diritti di un

inglese”, anziché come gli inalienabili diritti dell’uomo» (OT p. 299; it., p. 414).

Pur prendendo le distanze dalla celebrazione dei “diritti degli inglesi”, Arendt apprezza

l’intuizione di Burke secondo la quale «l’uomo astratto non esiste, l’uomo nasce sempre

in una comunità». Ma la “comunità” non è affatto, nelle pagine arendtiane, il prodotto di

una qualche omogeneità culturale: “comunità” (o, come si leggerà in Vita Activa,

“mondo comune”) è piuttosto il tessuto di relazioni sociali entro il quale ci muoviamo,

la cui estensione e le cui caratteristiche possono evidentemente variare. Ne Le origini

del totalitarismo torna, in tal senso, il richiamo alla celebre definizione aristotelica della

condizione umana come condizione di zoon politikon e zoon logon echon:

La sua perdita [della condizione umana, n.d.A.]comporta la perdita della pertinenza del
linguaggio (e l’uomo, a partire da Aristotele, è stato definito come un essere dotato del
potere di pensare e parlare) e di ogni relazione umana (e l’uomo, sempre a partire da
Aristotele, è stato concepito come un “animale politico”, cioè come un essere che per
definizione vive in comunità), la perdita, in altri termini, di alcune delle più essenziali
caratteristiche della vita umana. (OT, p. 297; it., p. 411)14

  16  
Se ogni essere umano è zoon politikon, un animale mondano, relazionale, comunitario,

la perdita del “il diritto ad avere diritti” coincide, per Arendt, con la perdita dello «status

politico», estensivamente inteso come condizione che assegna all’individuo «un posto

nel mondo», alle sue opinioni «un peso» e alle sue azioni «un effetto» (OT, p. 296; it., p.

410)15.

Arendt suggerisce così che, se vogliamo cogliere l’aspetto più radicale della

Dichiarazione del 1789, dobbiamo affermare che in ogni persona vi è un cittadino, un

membro della polis in cui la persona vive, un essere libero e responsabile, titolare di

eguale diritti e protagonista dell’interazione sociale. Ciò che contraddistingue la

posizione arendtiana è, d’altra parte, la consapevolezza del fatto che il riconoscimento

della persona, così come la sua identificazione con il cittadino, sono eventi storici e

sociali, e non dati naturali:

La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’esser privati della
vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e
della libertà di opinione […] ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta,
nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge (OT, pp. 295-6; it., p. 409.

Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò significa vivere in una

struttura [framework] in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni), solo quando

sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso. (ivi, p. 296; it., pp. 410-1)

Quindi, non la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e


capace di garantire qualsiasi diritto, è stata la sventura che si è abbattuta su un numero
crescente di persone. L’individuo può perdere tutti i cosiddetti diritti umani senza
perdere la sua qualità essenziale di uomo, la sua dignità umana. Soltanto la perdita di
una comunità politica lo esclude dall’umanità. (ivi, p. 297; it., p. 412)

Arendt contesta qui l’ingenuità dei sostenitori dei diritti umani, i quali non tennero

conto del fatto che l’homme, la persona, non è l’individuo isolato concepito dalla

  17  
moderna antropologia liberale, ma un animale della polis, il cui status dipende dal

riconoscimento sociale e dalla sua codificazione nell’etica, nella politica e nel diritto16.

La comunità può dare o negare riconoscimento, può fare di ognuno ed ognuna di noi

una persona o una non persona, un membro dell’interazione sociale o un corpo estraneo,

un servo, una cosa. Tuttavia, nel sostenere l’urgenza di una riformulazione dei diritti

umani non come elenco di diritti positivi, ma come «diritto ad avere diritti», come

universale diritto ad essere cittadini, Arendt ha ben presente di essere di fronte a un

dilemma insolubile: non è affatto chiaro, infatti, come questo diritto potrebbe essere

garantito.

A ben vedere, nelle Origini del totalitarismo l’universalità del “diritto ad avere

diritti” è proclamata senza alcuna pretesa fondativa: per Hannah Arendt, infatti, noi

disincantati figli del ventesimo secolo non possiamo più implorare una qualche legge di

Dio, della natura o della storia come fonte di legittimazione del diritto; né ci è possibile

confidare, dopo le catastrofi del Novecento, in un’umanità kantianamente intesa come

soggetto del progresso morale (OT, p. 298; it., p. 413). Se l’umanità è il fondamento del

“diritto ad avere diritti”, può esserlo soltanto nel senso effettivo, storico e concreto, di

questo termine. Ma una simile prospettiva non appare certo rassicurante:

La nuova situazione, in cui “l’umanità” ha in effetti assunto il ruolo precedentemente


attribuito alla natura o alla storia, implica in tale contesto che il diritto ad avere diritti, o
il diritto di ogni individuo ad appartenere all’umanità, dovrebbe esser garantito
dall’umanità stessa. Non è affatto certo che questo sia possibile. (OT, p. 298; it., p. 413)

Arendt non nutre molta fiducia nei «benintenzionati tentativi umanitari di ottenere

nuove dichiarazioni dei diritti umani dalle organizzazioni internazionali». In particolare

sembra rifuggire dall’ipotesi cosmopolitica kantiana, fondata sull’appello al diritto

internazionale: quest’ultimo, infatti, non sfugge alla regola per cui il diritto tende ad

  18  
identificarsi con l’interesse del più forte; non tenerne conto sarebbe, oltre che ingenuo,

disastroso, poiché esporrebbe le minoranze allo strapotere della maggioranza («è

perfettamente concepibile, e in pratica politicamente possibile, che un bel giorno

un’umanità altamente organizzata e meccanizzata decida in modo democratico, cioè per

maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti», OT, p. 299; it., p.

414)17.

Le pagine arendtiane sembrano pertanto alludere ad un’irreparabile infondatezza del

“diritto ad avere diritti” (Michelman 1996, p. 207). Le “dichiarazioni universali”

rappresentano una scelta che niente e nessuno può garantire una volta per tutte. Esse

godono tuttavia di quella irrevocabilità che Vita activa avrebbe considerato caratteristica

di ogni azione umana: il fatto che il «diritto ad avere diritti» non possa essere garantito

non esclude che esso possa essere criticamente difeso: nessuna comunità, infatti, dopo

che la rivendicazione di un universale diritto ad avere diritti sia stata posta, potrà mai

agire nei confronti degli esclusi come se niente fosse accaduto. Ogni sua scelta sarà

anche, a prescindere dalle intenzioni, una risposta a quella rivendicazione.

Il fatto che le “dichiarazioni universali” abbiano storicamente difeso in Europa i diritti

dei membri degli stati-nazione (o che, per quanto Arendt rimuova questo aspetto della

questione, esse siano divenute fuori d’Europa parte integrante dell’ideologia coloniale)

non cancella dunque il loro valore: dopo di esse non è più possibile per una comunità

politica riservare esclusivamente ai propri membri il riconoscimento dell’altro come

eguale. Non è più possibile, almeno, farlo in maniera innocente, come se ciò non

significasse accettare il ritorno all’idea che il mondo si divide in signori e servi, e che

servus non habet personam.

I.3

  19  
Nuda vita?

I nuovi apolidi

Le pagine arendtiane dedicate alla vicenda degli apolidi tra le due guerre mondiali

rappresentano un grande esercizio di pensiero critico, e ben si conciliano con quelle

prospettive che oggi, storicizzando il principio di nazionalità, propongono il

superamento delle tradizionali forme di cittadinanza.

La pertinenza delle analisi relative alla stretta connessione esistente tra la

condizione dell’apolide ed il principio fondante dello stato-nazione - la coincidenza tra

cittadinanza e nazionalità - è ben evidenziata oggigiorno da quelle prospettive di ricerca

che mettono in luce come la cittadinanza nazionale sia «globalmente inclusiva» ma

«localmente esclusiva» (Brubaker 1992, p. 64). Gérard Noiriel ha ad esempio mostrato

come il concetto di “nazionalità”, impiegato dai romantici di inizio Ottocento con il

significato soggettivo (politico-culturale) di appartenenza a un gruppo nazionale, avesse

acquisito nel corso del secolo il significato oggettivo (giuridico-amministrativo) di

appartenenza allo stato. Nell’ambito dei nuovi stati nazionali, questo processo sarebbe

andato di pari passo con il progresso di tutta una serie di tecniche di identificazione

(carte di identità, passaporti, impronte digitali), sviluppate con l’intento di proteggere

uno spazio di benessere territorialmente definito (il mercato del lavoro interno): in

questo senso, ogni stato avrebbe posto sotto la propria giurisdizione una quota delle

masse di poveri e “vagabondi” generate dalla rivoluzione industriale e sarebbe stato

esentato da particolari doveri nei confronti degli stranieri (Noiriel 1991, p. 156 ss.;

1995, pp. 4-23). Qualcosa di simile accade d’altra parte al giorno d’oggi, nell’Europa di

Schengen, con il proliferare di nuove tecniche di controllo dei confini e di

  20  
identificazione degli stranieri, le quali sembrano preludere ad una sorta di nuovo

“nazionalismo europeo” (Noiriel 1991, pp. 304-24). Per queste ragioni la riflessione

arendtiana sul “diritto ad avere diritti”, con particolare riferimento alle pratiche di

annientamento della personalità giuridica subite dalle vittime (dagli arbìtri polizieschi,

alle espulsioni in massa, all’internamento), ha richiamato l’attenzione di coloro che,

interrogandosi sullo status dei migranti odierni18, denunciano un duplice rischio: da una

parte, quello di un regresso a concezioni premoderne della cittadinanza, fondate su

un’attribuzione diseguale dei diritti a diverse categorie di cittadini; dall’altra, quello

della possibile esclusione di alcune categorie, a partire da una rinnovata abitudine a

distinguere tra cittadini e non cittadini, dallo stesso status personae. Il problema, in

definitiva, è quello di evitare che inedite forme di classificazione, dopo quelle fondate

sul principio di nazionalità, finiscano per offrire una giustificazione teorica a nuove

forme di esclusione.

A questo proposito, alcuni passaggi dell’opera arendtiana si rivelano drammaticamente

attuali di fronte agli apolidi dei nostri giorni, i migranti che in epoca di globalizzazione i

paesi di destinazione quotidianamente classificano come indesiderabili (unwanted), e

dunque come “irregolari” o “clandestini”; ad essi si aggiunge, d’altra parte, la massa dei

migranti precariamente “regolari”, titolari di permessi di soggiorno temporaneo

continuamente esposti al rischio di una ricaduta nella “clandestinità”19. Basti pensare,

ad esempio, al fatto che spesso i migranti sono esclusi dal godimento di alcuni diritti

civili e sociali, oltre che dai diritti politici, mentre coloro che si trovano in situazione di

irregolarità amministrativa vivono di fatto in condizioni di a-legalismo, ovvero di

esclusione dal sistema delle garanzie giuridiche20. A chi è privo di permesso di

soggiorno sono destinati, in particolare, i centri di detenzione temporanea finalizzati al

trattenimento in attesa dell’espulsione coatta: si può trattare dei famosi non-luoghi delle

  21  
zone portuali e aeroportuali descritti dall’antropologo Marc Augé (1993) o dei meno

noti, ma maggiormente diffusi, Centri di permanenza temporanea, Centres de rétention

administrative, Centros de internamiento, Detention immigration centre; quel che più

conta, come è stato osservato, è che gli “indesiderabili” sono qui privati della libertà di

movimento senza essere indiziati di alcun reato e senza aver subìto alcun processo - in

altri termini, senza vedersi pienamente riconosciuta quella personalità giuridica che,

come Hannah Arendt scriveva rispetto alle masse di apolidi e rifugiati sparse per

l’Europa tra la prima e la seconda guerra mondiale, un normale detenuto non ha ancora

perso.

La condizione di marginalità degli “indesiderabili” dei nostri giorni viene dunque a

ragione paragonata, da più parti, con quella dei profughi e degli apolidi in Europa tra le

due guerre. In particolare, dopo Arendt non possiamo più ingenuamente negare il valore

escludente di certe nuove, e solo apparentemente ovvie, forme di classificazione (siano

esse fondate sull’omogeneità culturale o, più prosaicamente, sulle esigenze del mercato

del lavoro); non possiamo non riconoscere, cioè, come si stiano oggi riproducendo

fenomeni di esclusione dalla cittadinanza e di negazione della personalità giuridica21.

Tuttavia, mentre è importante accogliere e sviluppare il versante critico della riflessione

arendtiana sulla condizione degli apolidi, è bene valutare con prudenza la tesi secondo

la quale l’esclusione dalla cittadinanza coinciderebbe con l’esclusione dall’“umanità”,

ovvero con la perdita, da parte di interi gruppi di individui, della condizione di zoon

politikon. Questa tesi viene formulata nelle conclusioni del capitolo sugli Heimatlosen,

dove l’apolide è assunto come figura dell’«astratta nudità dell’essere uomo», della

«mera esistenza» o «nuda vita» (mere existence, bloßes Leben). Il punto, a questo

proposito, è che Arendt da una parte concepisce la riduzione a non-persone come

problema caratteristico di un essere mondano e relazionale, ovvero come problema di

  22  
riconoscimento; ma, dall’altra, in una discutibile prospettiva di tipo essenzialistico,

giunge fino a sostenere che l’esclusione dalla comunità politica riduce gli esseri umani

alla dimensione della mera vita biologica. Il “dominio totale” sarebbe, in tal senso, una

forma di dominio capace di distruggere, come una sorta di essenza, la “natura umana”;

avendo trovato piena realizzazione nei campi di concentramento, esso si sarebbe

mostrato in grado di far regredire gli individui dalla cultura alla pura natura, dalla

complessità dell’esistenza biografica (bios) all’uniformità della mera esistenza biologica

(zoè).

Natura e cultura

Il percorso che conduce Hannah Arendt dalla riflessione sugli apolidi a quella sui

campi di concentramento merita di essere ricostruito22. Raramente si nota, infatti, il

ruolo assunto in questo contesto da un paradigma teorico caratteristico della filosofia

moderna – quello della contrapposizione tra “natura” e “cultura” – al quale Arendt si

richiama, nelle Origini del totalitarismo, a partire dagli scritti politici di Edmund Burke

e da un romanzo di Joseph Conrad.

Come abbiamo visto, Arendt deve a Burke la critica dell’astratta nozione di “uomo”

sottesa alla Dichiarazione del 1789. Ciò che spesso si trascura di dire, tuttavia, è che la

sua riflessione non si limita a sviluppare «il solido pragmatismo» di Burke, difensore

dei “diritti degli inglesi”, in una più generale consapevolezza del carattere artificiale,

legato al riconoscimento storico e sociale, dell’ homme o persona; non si limita cioè a

osservare, con l’amara ironia dettata dagli inesistenti diritti umani degli apolidi, come

sia difficile essere persone quando non si è più cittadini. Piuttosto, la lettura delle

Riflessioni sulla rivoluzione francese finisce per mutuare da Burke l’assunto implicito

  23  
nella critica conservatrice dei diritti umani: l’idea che in realtà l’“uomo astratto” esiste,

ma che non è propriamente un “uomo”, bensì solo un “selvaggio nudo”. Incarnazione

perfetta di una visione del mondo fondata sulla dicotomia “natura-cultura”, questo è lo

spettro che si aggira nelle pagine burkiane e che, occorre dirlo, è ancora presente in

quelle arendtiane.

Arendt è convinta, in effetti, che l’apolide sia esposto al rischio di regredire allo stato

selvaggio, ovvero alla situazione di insignificanza che – secondo una certa tradizione di

pensiero - sarebbe caratteristica degli esseri umani incapaci di produzione culturale.

Quel che Edmund Burke pensa dell’uomo tagliato fuori dalla comunità politica

nazionale, e cioè che questi non sia più in senso stretto un “uomo”, Arendt lo pensa

degli esclusi dalla polis – intesa qui come artificio, come manifestazione di una cultura

umana contrapposta alla mera natura, ovvero come prodotto di un processo che

distinguerebbe l’uomo “civile” da un selvaggio uomo “naturale” (OT, p. 300 ss.; it., p.

415 ss.):

Gli argomenti di Burke acquistano quindi un ulteriore significato se si considera


soltanto la condizione umana generale di coloro che sono stati esclusi da ogni comunità
politica (forced out of all political communities). A prescindere dal trattamento, dalla
libertà e dall’oppressione, dalla giustizia e dall’ingiustizia, essi hanno perso il contatto
con quelle parti del mondo e quegli aspetti dell’esistenza che sono frutto dell’artificio
umano. Se la tragedia delle tribù selvagge consiste nell’abitare in una natura immutata
che non riescono a dominare, nel vivere e morire senza lasciar traccia, senza aver
contribuito alla creazione di un mondo comune, gli apolidi moderni si trovano invero in
una specie di stato di natura. Certo, essi non sono dei barbari; alcuni di loro provengono
dai ceti più colti dei rispettivi paesi; cionondimeno, in un mondo che ha pressoché
eliminato la vita selvaggia, essi appaiono come i primi segni di un regresso della civiltà
(civilization). (ivi, p. 300; it., p. 416)

In un capitolo dedicato alla discussione delle teorie razziali, Arendt aveva già

accreditato l’idea dell’esistenza di popoli senza cultura – di «tribù che, a quanto è dato

sapere, non avevano mai trovato un’adeguata espressione della ragione e passione

  24  
umana in opere culturali, o costumi popolari, ed erano legate a istituzioni estremamente

rudimentali» (cfr. ivi, p. 177; it., p. 247). Evidente è del resto l’influenza delle pagine in

cui Burke, dopo aver solennemente dichiarato di voler prendere in considerazione solo

«the civil social man», contrappone la civiltà alla barbarie, ad «un’umanità selvaggia e

brutale»: il capitolo sugli apolidi oppone infatti l’immagine dell’uomo “civilizzato” a

quella del “selvaggio nudo” che non ha «più nulla da esibire all’infuori del minimo

dell’origine umana», e che è pertanto incapace di elevarsi dalla specie all’umanità

mediante la creazione di istituzioni e di una cultura (OT, pp. 300-2; it., pp. 415-9)23.

E’ certo che, nell’accostare la figura dell’apolide a quella del barbaro e del selvaggio,

Arendt non intende condividere il disprezzo aristocratico di un Burke o dei suoi epigoni

nei confronti di coloro che considera chiaramente come vittime di determinati processi

storici, economici e sociali, per la cui difesa reclama una seria ridefinizione del concetto

stesso di “diritti umani”. Occorre tuttavia riflettere sul forte limite rappresentato, in

questa prospettiva, dal ricorso alla contrapposizione tra natura e cultura, barbarie e

civiltà, su cui si fonda l’idea che l’esclusione dalla comunità politica coincida col rinvio

a una dimensione meramente naturale o “biologica” dell’esistenza, nella quale non vi

sono più persone, ma soltanto cose viventi. E’ a questo proposito che conviene tenere

presenti le pagine di Joseph Conrad: l’ambivalenza arendtiana su questo punto ricorda

infatti da vicino quella presente nelle pagine di Cuore di tenebra, il romanzo

“anticoloniale” di Conrad, dal quale Le origini del totalitarismo trae un ritratto del

“selvaggio nudo”24.

Cuore di tenebra è un racconto di viaggio nel quale il protagonista, Marlow,

racconta la propria avventura nel “continente tenebroso”, l’Africa, descritta come una

«zona selvaggia e desolata, dimenticata da Dio», «priva di caratteristiche, come fosse

ancora in formazione», animata solo da una «vitalità selvaggia». Muovendo da uno

  25  
scalo commerciale costiero, Marlow risale per un lungo tratto il fiume Congo con il

compito di riportare alla base il capitano Kurtz, da tempo impegnato nei traffici con gli

indigeni dell’interno. Quando raggiunge Kurtz, gravemente malato, e protetto come un

dio tribale dalla popolazione indigena, Marlow scopre il carattere folle e spietato del

dominio instaurato dal capitano, dedito allo sfruttamento della popolazione e delle

risorse locali. L’intera storia si svolge all’insegna della contrapposizione tra luce e

ombra, civiltà e arretratezza selvaggia (wilderness), cosicché l’attenzione della critica ha

finito per appuntarsi sul significato di queste dicotomie. Secondo alcuni interpreti,

Marlow vede nella storia di Kurtz un segno del possibile regresso della civiltà,

provocato dal contatto con un mondo selvaggio; secondo altri, invece, Kurtz è un

prodotto del regime coloniale: le “tenebre” deriverebbero dalla “luce”, o, in altri

termini, il brutale ed il mostruoso non sarebbero un dato della natura, ma un prodotto

della civiltà25.

Rileggendo il romanzo di Conrad, si ha spesso l’impressione che sia impossibile dare

interamente credito all’una o all’altra delle due interpretazioni. Vi è come un salto,

infatti, tra ciò che l’autore denuncia attraverso la figura di Kurtz - lo sfruttamento

coloniale – e il linguaggio in cui tale denuncia viene pronunciata: le vittime dello

sfruttamento sono infatti descritte come schiavi perduti nella «completa e mortale

indifferenza dei selvaggi infelici», come primitivi cannibali «dai denti affilati», lasciati

in sospeso tra “l’umano” e il “non umano” e contrapposti, nella loro ingenuità, alla

superiorità della civiltà europea. Robert Hampson ha efficacemente sintetizzato, in tal

senso, l’esistenza di uno iato tra il piano politico e il piano metafisico del racconto di

Conrad:

Mentre la narrazione chiarisce che ciò che induce Kurtz a porsi come dio è la volontà di
potenza implicita nella stessa idea di una “missione civilizzatrice”, il fatto che si ponga

  26  
come un dio tribale reinserisce l’idea di una superiorità razziale a un livello più
profondo di quello della critica al colonialismo. (Hampson in Conrad 2000, p. XXXVII)

Da una parte, in altri termini, Cuore di tenebra presenta gli indigeni come vittime del

colonialismo; dall’altra, fa del “continente nero” una metafora del primitivo che ancora

minaccia la nostra civiltà. Una simile ambivalenza si ritrova ne Le origini del

totalitarismo in un paragrafo intitolato, con esplicito riferimento a Conrad, Il mondo

spettrale del continente nero, nel quale si discute del razzismo dei boeri in Sudafrica.

Arendt sostiene infatti che i coloni desideravano sentirsi parte di un popolo di

dominatori, ma che il loro razzismo era alimentato anche dall’ «orrore» per le

popolazioni indigene :

A rendere questi esseri umani diversi dagli altri non era assolutamente il colore della
pelle, bensì il fatto che si comportavano come una parte della natura, che la trattavano
come la loro indiscussa padrona, che non avevano creato un mondo e una realtà umani,
che la natura era quindi rimasta, in tutta la sua maestà, l’unica realtà incontrastata, di
fronte alla quale essi facevano l’effetto di irreali fantasmi. Erano, per così dire, esseri
“naturali”, privi dello specifico carattere umano, di modo che gli europei non si
rendevano quasi conto di commettere un omicidio quando li uccidevano. (OT, p. 192;
it., p. 268)

Il rapporto con le “tribù selvagge” avrebbe imbarbarito gli stessi boeri:

Essi trattarono gli indigeni come una materia prima e vissero del loro lavoro come si
potrebbe vivere dei frutti di piante selvatiche. Indolenti e improduttivi, si ridussero a
vegetare sostanzialmente allo stesso livello a cui le tribù negre avevano vegetato per
migliaia di anni. Il profondo orrore che aveva afferrato gli europei nel loro primo
contatto con la vita indigena era stato stimolato appunto da questo tocco d’inumanità fra
esseri umani che palesemente facevano parte della natura non meno degli animali
feroci. I boeri vissero sulle spalle dei loro schiavi allo stesso modo in cui gli indigeni
erano vissuti di una natura incoltivata e immutata. (OT, p. 194; it., p. 270-1)

Arendt non intendeva in questo modo sminuire i crimini del razzismo e della schiavitù.

Ma è evidente che, ricorrendo ad argomentazioni di questo tipo, finiva oggettivamente

  27  
per legittimare quell’opposizione teorica tra natura e cultura che era alla base

dell’ideologia coloniale.

A partire da alcune suggestioni offerte dalle pagine di Edmund Burke e Joseph

Conrad, in altri termini, l’opera sul totalitarismo inavvertitamente si ricollega ad un

paradigma caratteristico dell’intellettualità europea nei secoli successivi alla “scoperta”

dell’America, durante i quali l’idea dell’esistenza di uno “stato di natura” e di “uomini

naturali”, contrapposta a quella della “vita civile” dei popoli europei, aveva fornito una

giustificazione teorica della colonizzazione (Iacono 1999; Landucci 1972). A questo

paradigma si richiamano, del resto, altri autori inevitabilmente presenti nella formazione

intellettuale di Hannah Arendt: basti pensare a Herder, a partire dal quale il pensiero

romantico aveva concepito il processo storico come progressivo distanziamento

dell’umanità dalla “natura”26; ma anche a Ortega y Gasset e Oswald Spengler, e più in

generale a quella letteratura sulla “crisi della civiltà” che, nel periodo compreso tra le

due guerre mondiali, si era scagliata contro “l’avvento delle masse” (cfr. Rossi 1991)27.

Eppure, Lucien Febvre ci insegna quale sia la posta in gioco ogni volta che ci mettiamo

a parlare di “civiltà” (civilisation, civilization): il termine può essere usato in

un’accezione scientifica, per cui semplicemente alludiamo all’«insieme delle

caratteristiche che la vita collettiva di un gruppo umano presenta agli sguardi di un

osservatore», oppure in coppia antitetica con la nozione di barbarie e di stato selvaggio

(Rossi 1983). In quest’ultimo caso abbiamo in mente un giudizio di valore che non ha

alcuna attendibilità scientifica: fondate su una concezione della storia come storia di

un’unica civiltà, le nozioni di “civiltà” e di “cultura” sono utilizzate in contrapposizione

con la nozione di “natura”, in una prospettiva storico-sociologica di ispirazione

romantica che risale ad Herder e Guizot, per negare il fatto che storicamente esistono

solo «le culture, irriducibili a una matrice comune, e le civiltà, sorte in diversi ambiti

  28  
storici» (Febvre 1976, p. 6)28. Quel che è qui in questione, d’altra parte, è qualcosa di

più di una semplice “censura” nei confronti dell’adozione, da parte di Hannah Arendt,

dell’immagine del barbaro e del selvaggio come non-uomo incapace di produzione

culturale - un mito che la riflessione antropologica ci aiuta chiaramente a sfatare. A

partire dall’adozione del paradigma “natura-cultura”, infatti, Arendt postula che possa

esistere una forma di dominio capace di far regredire gli individui esclusi dalla

comunità politica ad una sorta di stato di natura, ovvero di respingerli nella loro

naturale, privata e socialmente insignificante «datità» (natural givenness). Un essere

umano, come leggiamo nelle pagine conclusive del capitolo sugli apolidi, potrebbe

effettivamente essere ridotto a «semplice rappresentante della propria specie»,

appartenente «alla razza umana allo stesso modo che degli animali a una determinata

specie animale» (cfr. OT, pp. 300-2; it., pp. 416-8). Questo processo, iniziato con la

privazione del «diritto ad avere diritti» imposta agli apolidi e ai rifugiati tra le due

guerre, sarebbe giunto al culmine con la riduzione degli esseri umani a “nuda vita” nei

campi di concentramento29.

Bios e zoè

Con il paragrafo dedicato ai campi di concentramento si chiudeva, nel 1951, la

prima edizione delle Origini del totalitarismo 30. Se nel suo Univers concentrationnaire,

pubblicato nel 1947, David Rousset aveva definito il campo di concentramento come la

società più totalitaria mai realizzata e il luogo in cui «tutto è possibile»31, qualche anno

più tardi Hannah Arendt radicalizzava la tesi roussetiana: i campi rappresenterebbero

l’«ideale sociale» e l’«istituzione centrale» del regime totalitario, il laboratorio in cui si

produce sperimentalmente l’annullamento dell’individualità umana32.

  29  
A questo proposito, Arendt si sofferma in particolare su quel processo di

“spersonalizzazione” che costituiva l’esperienza fondamentale dei prigionieri dei campi:

esso aveva inizio «con le mostruose condizioni del trasporto nei Lager, durante le quali

centinaia di esseri umani erano stipati in un carro bestiame completamente nudi»;

proseguiva, dopo l’arrivo al campo, «con il ben organizzato shock delle prime ore, con

la rapatura, con la grottesca divisa»; e si concludeva, infine, con le «inimmaginabili

torture calcolate in maniera tale da non uccidere il corpo, almeno non rapidamente»

(OT, p. 453 ss.; it., p.620 sgg). Le pagine arendtiane ricordano anche gli altri tratti

caratteristici della vita dei Lager: la fondamentale “normalità” degli uomini delle SS, la

creazione di gerarchie tra i prigionieri, il loro coinvolgimento nell’amministrazione del

campo e nella stessa macchina dello sterminio, la meccanizzazione burocratica del

massacro. L’intera organizzazione della vita interna del campo mirava, in tal senso, a

destabilizzare la personalità individuale e le relazioni tra i prigionieri, reclusi in un

mondo la cui «palese insensatezza» rispetto ad ogni tradizionale criterio di giudizio

acquistava, nell’atmosfera irreale e straniante di un universo isolato dal mondo esterno,

la normalità di un incubo. Nel Lager, come Bruno Bettelheim aveva una volta osservato,

si finiva per perdere fiducia non solo negli altri, ma anche in sé stessi, ovvero

nell’affidabilità delle proprie stesse esperienze (ivi, p. 439; it., p. 601)33.

Pochi anni più tardi, d’altra parte, Primo Levi avrebbe descritto con dolorosa dovizia di

particolari l’esperienza del Lager – dal viaggio allucinante dei deportati, ai riti della

rasatura, del denudamento e del tatuaggio, alla flagrante insensatezza e crudeltà delle

regole del campo, fino allo stravolgimento dei rapporti umani e alla riduzione dei vivi,

attraverso la tortura fisica e mentale del quotidiano, a veri e propri “fantasmi”. Anche

Levi, ricordando i prigionieri “sommersi” dalla vita del campo, i vivi il cui corpo era

già in sfacelo e nel cui volto non si leggeva più traccia di pensiero, avrebbe parlato di

  30  
una massa anonima di individui ridotti a «non-uomini», oramai incapaci perfino di

soffrire (Levi 1976, p. 13).

Arendt tenta, tuttavia, di proporre una propria, peculiare interpretazione del fenomeno

concentrazionario:

In verità, l’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono
essere trasformati in esemplari dell’animale umano, e che la “natura” è “umana”
soltanto nella misura in cui schiude all’uomo la possibilità di diventare qualcosa di
estremamente innaturale, cioè un uomo. (OT, p. 455; it., p. 623)

L’organizzazione e le pratiche caratteristiche del campo di concentramento

punterebbero all’annullamento dell’individualità attraverso l’aggressione della “natura

umana” - una sorta di seconda natura, non biologica, che gli esseri umani

conquisterebbero strappando sé stessi alla natura tout-court, alla mera vita animale.

Questa seconda natura «estremamente innaturale» e caratteristica dell’uomo,

corrisponde evidentemente, nelle pagine arendtiane, alla dimensione culturale. La stessa

contrapposizione viene del resto riformulata, in Vita Activa, nei termini della distinzione

greca tra bios e zoè: la vita di zoon politikon, come evento culturale e biografico (bios),

si distinguerebbe dalla vita dell’«esemplare della specie animale uomo», intesa come

mero evento naturale e biologico (zoè), nel cui ambito il lavoro, o metabolismo tra

uomo e natura, rappresenta l’unica attività possibile (THC, p. 97; it., p. 70)34.

L’elemento propriamente umano viene così rappresentato, nelle Origini del

totalitarismo, in una prospettiva di tipo aristotelico, e cioè come un’essenza. Il carattere

senza precedenti di quello che Arendt chiama “dominio totale” (totaler Herrschaft), la

cui più ampia sperimentazione avrebbe luogo nel campo di concentramento,

consisterebbe in una sorta di capacità metafisica: quella di distruggere letteralmente, di

annichilire, la cultura intesa come ciò che fa di un uomo un uomo35.

  31  
In questo senso, in un articolo del 1948 intitolato Social sciences techniques and the

study of concentration camps, Arendt aveva parlato della necessità di un mutamento

degli a priori delle scienze sociali in seguito all’esperienza dei Lager, mentre in un

progetto di ricerca sui campi di concentramento, redatto in quello stesso anno, si era

domandata se l’essere umano sotto il terrore totalitario fosse ancora, in senso stretto, un

uomo (Arendt 1950e, p. 232; 1948e, p. 177). La sua risposta, ne Le Origini del

totalitarismo, era evidentemente negativa: un “dominio totale” avrebbe potuto

effettivamente ridurre gli esseri umani a “nuda vita”.

Primo Levi, in Se questo è un uomo, solleva chiaramente di fronte al fenomeno

concentrazionario lo stesso dubbio che attanagliava Hannah Arendt. Quel titolo, una

domanda indiretta che suona come un’imprecazione sommessa, ha tuttavia il grande

pregio dell’ambiguità: esso pone una domanda non completamente retorica, che

mantiene almeno parzialmente aperto il dubbio sulla risposta. Levi non nasconde il

carattere assolutamente inumano della vita e della morte di coloro che, nel gelido

linguaggio del Lager, venivano definiti “musulmani”36. Egli tenta, però, di riflettere

sull’annichilimento dell’uomo nei termini di un fatto sociale. Possiamo leggere in

questo senso, ad esempio, la riflessione sul riconoscimento che pervade le pagine di Se

questo è un uomo, dove l’esperienza «non-umana» del Lager si manifesta soprattutto

nella riduzione degli uomini a cose agli occhi degli altri uomini (Levi 1976, p. 217); o,

ancora, il tentativo condotto ne I sommersi e i salvati di indagare quella “zona grigia”,

quel particolare spazio dell’interazione sociale, che al tempo stesso «separa e congiunge

i due campi dei padroni e dei servi» (Levi 1986, p. 29).

Nonostante la recente fortuna della riflessione arendtiana sui campi di concentramento,

dunque, tanto la critica antropologica del paradigma “natura-cultura”, quanto il dubbio

  32  
di Primo Levi, autorizzano uno sguardo critico nei confronti della tesi per cui un essere

umano potrebbe essere ricondotto alla dimensione meramente naturale o biologica della

propria esistenza37.

Arendt difende questa tesi quando tratta l’essere umano secondo i canoni della

metafisica classica, ovvero come sostanza cui inerisce un’essenza38, rappresentando il

prigioniero dei campi come un vero e proprio non-uomo, un essere del quale il dominio

totalitario avrebbe distrutto l’originaria “natura umana”: secondo le ricorrenti

espressioni adottate nel paragrafo sui campi di concentramento, infatti, i prigionieri

sarebbero ridotti allo stato di «cane di Pavlov» o di semplice «fascio di reazioni», ad

«uomini senz’anima», «marionette» e «manichini», e dunque «morti viventi» - ultimo

stadio di quella trasformazione in «cose superflue» cominciata con la perdita della

personalità giuridica da parte degli apolidi.

È evidente che solo in questo modo, ovvero attraverso la rappresentazione del “dominio

totale” come forma di manipolazione della “natura umana”, Arendt riteneva di poter

rispondere alle domande poste nelle Origini del totalitarismo: «perché milioni di uomini

si lasciarono portare incolonnati senza resistere nelle camere a gas», perché «anche

quelli condannati individualmente a morte molto raramente tentarono di portare con sé

uno dei loro carnefici», perché «non vi furono o quasi rivolte serie», e «persino al

momento della liberazione vi furono pochissimi massacri di SS»? (OT, p. 455; it.,

p.623). Queste domande vanno di pari passo con le incerte riflessioni sul

coinvolgimento dei detenuti nell’amministrazione del campo e nella macchina dello

sterminio: le pagine sui campi, infatti, da una parte respingono le «banalità

nichilistiche» di Rousset («basate principalmente sull’osservazione che dopo qualche

tempo la mentalità dei detenuti è difficilmente distinguibile da quella dei guardiani dei

  33  
campi»); ma, dall’altra, accettano la definizione roussetiana della vita nei campi come

«fraternità dell’abiezione» 39.

Di fronte a ciò che le prime ricerche e testimonianze sui Lager cominciavano a

documentare, Arendt riteneva completamente inadeguato l’intero arsenale della

riflessione filosofica e politica occidentale: nessuna teoria relativa al fascino ambiguo

della tirannide o della servitù volontaria avrebbe potuto gettare luce sul fenomeno

concentrazionario, che «non mira a un governo dispotico sugli uomini, bensì a un

sistema che li renda superflui», e che in tale prospettiva teme il consenso, ancora

espressione della libertà umana, almeno tanto quanto il dissenso40. L’idea di una forma

di dominio all’altezza di un compito a ben vedere metafisico, come quello di distruggere

la “natura umana”, doveva dunque apparire all’autrice – nell’opera che segnava il suo

ritorno alla vita intellettuale dopo gli anni della catastrofe e dell’impegno politico -

come la sola spiegazione plausibile dell’enigma aperto dai campi di concentramento.

A questa tesi si può tuttavia opporre, insieme al dubbio di Primo Levi,

un’ulteriore obiezione: se si vogliono combattere generalizzazioni nichilistiche come

quelle di Rousset, non ci si può limitare a respingere – con Hannah Arendt - l’idea che

«gli esseri umani sono in fondo indistintamente delle bestie»; occorre invece

domandarsi se la stessa idea che una forma di dominio sia in grado di ridurre gli esseri

umani a «bestie» non conduca ad esiti irreparabilmente nichilistici. Il problema è che, se

accettiamo l’idea di un “dominio totale” (capace di privarci nella maniera più radicale e

definitiva della nostra condizione di animali mondani e relazionali, o, in definitiva,

culturali), ammettiamo anche che non vi sia alcuna possibilità di tornare indietro da

questa esperienza41. La tentazione di riabilitare una prospettiva di tipo essenzialistico

per sottolineare l’enormità del crimine concentrazionario è naturalmente comprensibile

di fronte ad un’esperienza storica come quella dei campi di concentramento. Ma è bene

  34  
tenere presente che speculazioni di questo tipo conducono oltre la soglia che separa la

riflessione filosofico-politica sulla sfera delle relazioni umane da un’estetica politica

della “fine dell’umanità”. Per indagare il fenomeno concentrazionario senza rassegnarsi

in partenza alla contemplazione della sua mostruosità occorrerebbe, piuttosto, sciogliere

le ipostatizzazioni essenzialistiche (il “dominio totale”, la “nuda vita”) nelle concrete

relazioni di potere che presiedono alla loro produzione.

Quel che accade nelle Origini del totalitarismo è, d’altra parte, abbastanza chiaro.

Arendt progressivamente si allontana dal discorso impostato nel corso della riflessione

sulla vicenda dei senza-patria: quando la ricostruzione storica cede il posto ai primi

tentativi di rielaborazione teorica della figura dell’apolide, quello che inizialmente

appare come un non-uomo socialmente e storicamente tale si trasforma, per così dire, in

non-uomo effettivo, letteralmente regredito alla dimensione meramente naturale e

biologica della “nuda vita”. Da qui ha origine, in particolare, la dolorosa sequenza di

riferimenti all’animalità, alla meccanicità e alla morte con i quali Arendt rappresenta la

condizione di «superfluità» delle vittime dei campi di concentramento.

Eppure, riconoscere nella riduzione degli individui alla «superfluità» la più radicale

delle forme di esclusione, piuttosto che la realizzazione di un dominio dotato della

potenza metafisica di manipolare e distruggere la “natura umana”, non implicherebbe

affatto un ridimensionamento del crimine dei Lager; permetterebbe, semmai, di

ricondurre il fenomeno del «dominio totale» nell’ambito delle relazioni umane,

restituendo un senso alla pratica e alla riflessione politica.

Queste considerazioni possono evidentemente essere estese alla riflessione sui nuovi

apolidi, i migranti dei nostri giorni, con la quale questo capitolo si era aperto.

Il parallelo tra la condizione degli odierni “indesiderabili” e quella dei senza-patria tra le

due guerre appare giustificato, infatti, finché fa propria la sensibilità teorica di Hannah

  35  
Arendt per la decostruzione dei meccanismi di produzione sociale dell’esclusione; o

finché aiuta a riflettere, da un punto di vista più strettamente politico, sulla necessità di

superare la distinzione tra persona e cittadino, attraverso il riconoscimento dei diritti a

prescindere dalla nazionalità e dall’appartenenza culturale.

Ben più problematico, tuttavia, è il riferimento alle analisi arendtiane al momento in cui

ci si imbatte nella contrapposizione tra natura e cultura, alla quale si ispira il postulato

teorico per cui l’esclusione dalla comunità coinciderebbe con la perdita della condizione

di zoon politikon – con il regresso, cioè, alla dimensione puramente naturale e biologica

della nostra esistenza. A causa di un simile postulato Arendt non coglie che gli esclusi

dalla comunità politico-giuridica restano parte, nonostante tutto, di un mondo carico di

relazioni sociali, dal quale partono certo gli input favorevoli alla codificazione e al

rafforzamento dell’esclusione, ma possono anche derivare sollecitazioni in grado di

attivare forme di resistenza. E’ in questo senso che nelle pagine di Se questo è un uomo

Primo Levi ringrazia Lorenzo, operaio civile ad Auschwitz: Lorenzo è infatti colui che

ha continuato a guardare il prigioniero del campo come si guarda una persona, e non

una cosa, permettendo all’altro di riconoscere, riflesso in quello sguardo, il proprio

volto.

1 Hannah Arendt, nata a Königsberg nel 1906, era fuggita dalla Germania nel 1933. Dopo aver trascorso un

breve periodo a Praga e Ginevra, ed alcuni anni a Parigi, aveva conosciuto l’esperienza dell’internamento nel

campo di Gurs, nella Francia meridionale. Era infine riuscita a passare i Pirenei e ad imbarcarsi alla volta degli

Stati Uniti, portando con sé i manoscritti dell’amico Walter Benjamin, morto suicida durante un tentativo di

fuga di pochi giorni successivo al suo. Cfr. Young-Bruehl 1990 e, sui campi di internamento francesi,

Grynberg 1993.

2 Cfr. AA, p. 39: «Intendevo emigrare in ogni caso. Avevo capito fin dall’inizio che gli ebrei non potevano

restare. Non era mia intenzione vagare per la Germania come cittadina di seconda classe, se posso esprimermi

così. Per di più, ero certa che le cose sarebbero andate sempre peggio. Comunque, alla fine non me ne sono

andata così pacificamente. E devo riconoscere che ne vado orgogliosa. Venni arrestata e dovetti lasciare il

  36  
paese illegalmente – glielo racconterò fra un attimo – e fu per me una grande soddisfazione. Pensavo: almeno

ho fatto qualcosa! Almeno non sono “innocente”! Nessuno avrebbe potuto dirlo di me! L’opportunità me la

offrì l’organizzazione sionista… non ero una sionista, né i sionisti cercarono mai di reclutarmi. Comunque, in

un certo senso, ne subivo l’influenza, in particolare per quanto riguarda la critica, l’autocritica che i sionisti

avevano suscitato nel popolo ebraico». In effetti, Arendt non condivise mai il progetto di uno “stato ebraico”,

ed intrattenne un rapporto estremamente complesso sia con il sionismo, sia con la comunità ebraica

internazionale. Cfr., in particolare, Leibovici 1998 e Friedmann 2001.

3 L’espressione è di B. Ogilvie (1995). Una chiara anticipazione della riflessione sugli apolidi condotta ne Le

origini del totalitarismo si trova, in particolare, nel seguente passo: «Ma prima di gettare la pietra contro di noi,

ricordate che essere ebrei non dà alcuno status giuridico in questo mondo. Se cominciassimo a dire la verità, e

cioè che non siamo altro che ebrei, ciò significherebbe esporci al destino degli esseri umani i quali, non

essendo protetti da alcuna specifica legge o convenzione politica, non sono altro che esseri umani. Mi è

difficile immaginare un atteggiamento più pericoloso, perché realmente viviamo in un mondo in cui gli esseri

umani in quanto tali hanno cessato di vivere per tanto tempo; perché la società ha scoperto che la

discriminazione è la grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue; perché i

passaporti o i certificati di nascita, e qualche volta persino le ricevute dell’imposta sul reddito, non sono più

documenti ufficiali ma questioni di differenziazione sociale» (JP, p. 65; it., p. 47).

4 “Boches” è un termine dispregiativo con il quale in francese possono essere indicati i tedeschi.

5Come evidenziato in OT, pp. 293 e 298; it., pp. 405 e 412, Arendt si riferisce sia alla Déclaration des droits de

l’homme et du citoyen del 1789, sia alla Declaration of Indipendence proclamata dai “Tredici Stati Uniti d’America”

nel 1776, nella quale notoriamente si intrecciano motivi tratti dalla tradizione politica inglese, dalle esperienze

di autogoverno delle colonie e dalla cultura illuministica.

6 Nel 1953, replicando alla recensione de Le origini del totalitarismo scritta da Eric Voegelin per la Review of

Politics, Arendt sostiene che il totalitarismo non fu l’esito fatale di un lungo processo di decadenza, ma si

produsse come imprevedibile coagulazione di fenomeni diversi. In questo senso, dichiarandosi insoddisfatta

del titolo imposto dall’editore, scriveva di non essersi voluta occupare delle “origini” del totalitarismo, bensì

degli «elementi che si sono cristallizzati nel totalitarismo» (Arendt 1953, in Mistrorigo 1994). Per Simona

Forti, il tentativo arendtiano di lasciarsi alle spalle una visone continuistica della storia si rivela, tuttavia,

insufficiente (Forti 1994, pp. 207-41).

7 In queste parole non bisogna cogliere una sorta di singolare premonizione rispetto all’odierna discussione

sui processi di “globalizzazione”. E’ a partire dalla riflessione sull’imperialismo, ed in particolare dalle celebri

  37  
analisi di Hobson (1900) e Luxemburg (1913), che Arendt matura la consapevolezza di una crescente

interdipendenza economica globale, oggi definita da Eric J. Hobsbawm (1990) come la fondamentale

caratteristica del secolo diciannovesimo.

8 Nel diritto romano lo status personae (godimento di alcuni diritti fondamentali) si distingue dallo status civitatis

(godimento dei diritti garantiti ai cittadini). Persona, «volto umano irripetibile, singolare, distinto da ogni altro»,

piuttosto che cosa, res, è ogni essere umano titolare di determinati diritti. In questo senso, servus non habet

personam, ovvero lo schiavo «non ha personalità, non possiede il suo corpo, non ha antenati, nome, cognomen,

beni propri» (Mauss 1990, p. 373). L’universalismo moderno segna il passaggio alla considerazione di ogni

essere umano come persona; e più precisamente, con Kant, il riconoscimento di ogni essere razionale, in

quanto libero e responsabile nel proprio agire, come soggetto morale (p. 374). A partire dall’etimologia del

termine, il cui significato originario è quello di “maschera”, si può riconoscere inoltre il carattere artificiale

della persona (p. 380): le “persone” esistono solo se sono socialmente riconosciute come tali, mentre si può

parlare di non-persone in situazioni nelle quali questo riconoscimento sia negato o sottratto; il diritto stesso,

in quanto forma di codificazione dei processi sociali, può letteralmente far sparire le persone (Dal Lago 1999,

pp. 208-24).

9 Sull’atteggiamento dei governi tra le due guerre cfr. in particolare Hilberg 1995, pp. 1195-231; sul diritto di

asilo e sui rifugiati, Noiriel 1991 e Marrus 1986; sui campi di concentramento, Kaminski 1997.

10Hannah Arendt, che ha come punto di riferimento la lingua materna, distingue continuamente in inglese tra

citizen e national, chiaramente alludendo alla differenza posta dalla lingua tedesca tra cittadinanza partecipativa

(Staatsbürgerschaft) e appartenenza culturale alla nazione (Volkszugehörigkeit), che in età moderna diviene la base

della cittadinanza intesa come appartenenza allo stato (Staatsangehörigkeit). La distinzione non è sempre chiara

nella traduzione italiana de Le origini del totalitarismo. Per un inquadramento storico della questione cfr.

Brubaker 1992.

11 Cfr. OT, p. 275; it., p. 382: «solo i membri della nazione potevano essere cittadini [only nationals could be

citizens]».

12 Per quanto possa apparirci ovvia, la connessione tra diritto di voto e nazionalità non è affatto scontata. Nel

mutato contesto internazionale dei nostri giorni, ad esempio, la prospettiva aperta dalle “dichiarazioni

universali” potrebbe teoricamente indurre gli stati, o nuove configurazioni politiche sovranazionali, ad

allargare il diritto di voto agli stranieri residenti. Per Luigi Ferrajoli, in tal senso, prendere sul serio i diritti

proclamati nel 1789 significa oggi «avere il coraggio di disancorarli dalla cittadinanza in quanto

“appartenenza” (a una determinata comunità statale) e quindi dalla statualità» (Ferrajoli 1994, pp. 288-9).

  38  
13 Arendt sottovaluta tuttavia le «non luminose origini dell’illuminismo giuridico e dei diritti universali»: «Quei

diritti – peregrinandi, migrandi, degendi – furono proclamati come astrattamente uguali e universali allorché erano

concretamente disuguali e asimmetrici, essendo impensabile la migrazione degli indios in occidente, e

servivano a legittimare l’occupazione coloniale e la guerra di conquista dei nuovi mondi da parte dei nostri

nascenti Stati nazionali. Oggi la situazione è rovesciata. La reciprocità e l’universalità di quei diritti è stata

negata. Questi diritti si sono tramutati in diritti di cittadinanza, esclusivi e privilegiati, non appena si è trattato

di prenderli sul serio e di pagarne il costo» (Ferrajoli 1994, p. 291).

14 «Its loss entails the loss of the relevance of speech (and man, since Aristotle, has been defined as a being

commanding the power of speech and thought), and the loss of all human relationship (and man, again since

Aristotle, has been thought of as a “political animal”, that is one who by definition lives in a community), the

loss, in other words, of some of the most essential characteristics of human life». L’edizione italiana riporta

una versione leggermente più estesa di questo passo, poiché il traduttore tiene conto anche dell’edizione

tedesca.

15 Cfr. Roviello 1987, p. 206 e Leibovici 1998, p. 247, che interpretano il “diritto ad avere dei diritti” come

«diritto alla parola e all’azione significativa», e solo in questo senso come «diritto alla politica».

16 Sulla problematica del riconoscimento nelle pagine arendtiane si soffermano, in particolare, Besussi 1997 e

Dal Lago 1999, p. 213 ss.

17 Non possiamo dunque attribuire a Hannah Arendt un atteggiamento affine a quella prospettiva teorica di

derivazione kantiana che Danilo Zolo (1998) ha recentemente definito come “giusglobalismo” o “globalismo

giuridico”. La tesi per cui la riflessione arendtiana consente di recuperare l’ideale cosmopolitico kantiano è

sostenuta da Jeffrey C. Isaac (1996), secondo la quale l’apparente paradosso di un “diritto ad avere dei diritti”

– come diritto alla politica che dovrebbe essere garantito dalla politica stessa – può essere sciolto solo

attraverso «l’appello al diritto internazionale e al federalismo». Ad Isaac replica opportunamente, citando le

pagine arendtiane qui richiamate, Collin in Caloz-Tschopp 1998.

18 Cfr. ad esempio, su posizioni diverse, Marrus 1986, pp. 12 e 180; Balibar 1993, p. 55 e 1996, p. 230; Dal

Lago 1998 e 1999, pp. 223-4; Caloz-Tschopp 1998 e 2000, p. 267 ss.; Agamben 1995, p. 139 ss.

19 L’idea di «globalizzazione» costituisce oramai l’autorappresentazione prevalente del mondo in cui viviamo.

Il senso comune vi allude continuamente come ad una crescente interrelazione economica, politica, sociale e

culturale tra le comunità umane che abitano il globo. Crescerebbe, in particolare, «la facilità di superare i

controlli e le barriere che ostacolano il movimento di uomini, prodotti, informazioni e pratiche» (Attinà 1999, p.

147, corsivo mio). Eppure gli uomini e le donne di questo pianeta non circolano affatto liberamente come

  39  
circolano (o si presume che circolino) i prodotti, le informazioni e le pratiche: per i migranti è oggi sempre più

difficile ottenere un visto di ingresso o rinnovare un permesso di soggiorno nei cosiddetti paesi “ad

economia avanzata”. Nel caso dell’Unione Europea, ad esempio, il Patto di Schengen e il Trattato di

Amsterdam introducono una distinzione tra frontiere interne, dove sono soppressi i controlli d’identità, e

frontiere esterne, rispetto alle quali si irrigidiscono invece le condizioni di accesso (cfr. Sassen 1996; Sciortino

2000).

20 Cfr. Dal Lago 1999, p. 223 («il diritto si arresta di fronte agli stranieri, nel senso che li esclude dal proprio

ambito»).

21 Nella riluttanza con cui vengono concessi i permessi di soggiorno si esprime ad esempio, secondo Dal

Lago, «la preferenza del sistema giuridico-politico (in senso lato) per il mantenimento degli stranieri in una

situazione a-legale». L’utilità per il nostro sistema sociale della trasformazione dei migranti in “clandestini”, o

comunque sia in persone esposte al rischio della clandestinità, è stata evidenziata in primo luogo da chi ha

indagato da un punto di vista socio-economico le nuove politiche migratorie: tanto i lavoratori “clandestini”

impegnati nelle raccolte stagionali, quanto le lavoratrici con permesso di soggiorno che svolgono lavori di

cura rientrano in effetti nella categoria del «lavoratore imbrigliato» (salariat bridé), utilizzata da Yann Moulier

Boutang per indicare quella manodopera a basso costo, estremamente flessibile e sfruttabile perché costretta

ad accettare di tutto, che rischia di dar vita a una vera e propria classe di “meteci” (Moulier Boutang, in

Mezzadra-Petrillo 2000). A questo si potrebbe aggiungere che la produzione politico-giuridica della

clandestinità riveste anche potenti funzioni simboliche e politiche, legate a logiche sicuritarie (Collinson 1994,

p. 48 ss. e Sassen 1995, p. 59 ss.) e al bisogno di evitare il confronto con “l’altro” (Bauman 1998, pp. 74-5;

Possenti 2000).

22 Il nesso tra la figura dell’apolide e quella dell’internato è esplicito: «La folle produzione in massa di cadaveri

è preceduta dalla preparazione, storicamente e politicamente intelligibile, di cadaveri viventi. L’impeto e, quel

che più conta, il tacito consenso a condizioni così inaudite, sono il prodotto di quegli avvenimenti che, in un

periodo di disintegrazione politica, hanno improvvisamente fatto di centinaia di migliaia, e poi di milioni, di

uomini degli individui senza patria, senza stato, al bando della legge, indesiderati, economicamente superflui,

socialmente gravosi» (OT, p. 447; it., p. 612).

23 V. anche BPF, p. 212; it., pp. 270-1: «Certo ogni artificio compiuto dall’uomo per assicurarsi un rifugio e

un tetto sulla testa, anche le tende delle tribù nomadi, per quanti sono vivi in quel momento, può servire da

casa. Ma non per questo simili artifici potranno generare un mondo, e meno ancora una cultura». Cfr. E.

  40  
Burke, op. cit., p. 223 e 245 ss. p. 56 e 67 ss. (Burke dipinge tuttavia come una ricaduta nella barbarie la

modernità aperta dalla Rivoluzione francese).

24 Arendt riprende l’espressione “selvaggio nudo” dall’Introduzione di E.J. Paine all’edizione delle Reflections

contenuta in E. Burke, 1874-75. Tuttavia, un intero paragrafo de Le Origini del totalitarismo, intitolato Il mondo

spettrale del continente nero, ruota intorno all’immagine del “selvaggio” tratteggiata nelle pagine di Conrad (cfr.

OT, pp. 186-96 ; it., pp. 260-75).

25 La prima lettura ha comportato, evidentemente, la denuncia di Conrad come scrittore colonialista (cfr. ad

esempio Achebe 1988); la seconda ha invece portato a riconoscere nella storia di Marlow, esponente della

società e dell’ideologia coloniale, la graduale maturazione di una prospettiva autocritica (Sertoli 1974).

26 La figura di Herder emerge a più riprese negli scritti giovanili di Hannah Arendt. Cfr. ad esempio RV, pp.

37-8 (it., pp. 37-8); Arendt 1931; Arendt 1932b.

27 Benché non possa essere considerata tra i teorici della “crisi della civiltà”, Arendt condivide almeno

parzialmente il pessimismo relativo alla moderna ascesa della “plebe” (a suo avviso costituita non dal

proletariato industriale o dal popolo nel suo insieme, ma «dagli scarti di tutte le classi e di tutti gli strati»):

l’alleanza tra la plebe e le élites del XIX secolo, ben rappresentata nei romanzi di Balzac, avrebbe prefigurato

quella tra i movimenti totalitari e le “masse” – «gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti

avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida» (cfr. OT, p. 155 ss. e 311 ss.; it. p. 217 ss. e

p. 431 ss). Assai eloquente, inoltre, è il finale del capitolo sugli apolidi, in cui si coglie un’eco dell’immagine

gassetiana dell’invasione delle masse: «Non è più probabile – scrive Arendt - che il pericolo venga dall’esterno.

Il pericolo è che una civiltà universale produca dei barbari dal suo seno costringendo, in un processo di

decomposizione interna, milioni di persone a vivere in condizioni che, malgrado le apparenze, sono quelle

delle tribù selvagge» (OT, p. 302; it., pp. 418-9). La contrapposizione tra natura e cultura sfocia d’altra parte,

in Vita Activa, in quella tra un attività necessaria, come il lavoro, e un’attività libera, come l’agire nella sfera della

polis: l’esistenzialismo - che muove dalla distinzione kierkegaardiana tra essere e esistenza, ambito della

necessità e dimensione della possibilità - rappresenta in tal senso uno dei canali attraverso i quali Arendt

eredita questo paradigma. Il rapporto che l’Autrice intrattiene con questa corrente filosofica è, tuttavia,

piuttosto complesso (cfr. in particolare Arendt 1946r e, in proposito, Forti 1994, p. 53 ss; Benhabib 1996, p.

47 ss.; Maletta 1998 e 2001, p. 21 ss.).

28 Il discorso filosofico moderno contrappone spesso ai “popoli colti” i “popoli rozzi”, esemplari di

un’umanità “nuda” nel duplice senso, letterale e metaforico, di questo termine (la nudità rappresenta infatti la

mancanza dell’artificio, inteso come abilità propriamente umana). Tuttavia, a partire dal Settecento lo “stato di

  41  
natura” assume progressivamente il valore di un paradosso filosofico, che allude all’impossibilità di isolare una

pura natura dell’uomo (Landucci 1972, pp. 359-60). In età contemporanea si afferma, infine, la nozione

antropologica di cultura, descrittiva e non valutativa, secondo la quale non si danno un “prima” biologico e

un “dopo” culturale, poiché la cultura è già all’opera nelle nostre percezioni sensoriali. La separazione tra

“natura” e “cultura” deve essere intesa, in tal senso, come costruzione sociale (Rivera 2001).

29 Con l’espressione “nuda vita”, recentemente utilizzata da Giorgio Agamben, mi riferisco alle nozioni

arendtiane di «mere existence» e di «abstract nakedness of being human». Non assumo tuttavia la prospettiva

interpretativa di Agamben (1995), che considera l’ingresso della zoè nella sfera della polis come evento

decisivo della modernità.

30 Al paragrafo sui campi di concentramento facevano seguito delle Conclusioni che nell’edizione del 1958

sarebbero state definite «piuttosto inconcludenti» e sostituite con un saggio intitolato Ideologia e terrore (cfr.

Arendt 1953c). Il paragrafo, originariamente pubblicato sotto forma di articolo (Arendt 1948g; v. anche 1948e

e 1950e), abbozza una tipologia dei campi basata su tre immagini occidentali dell’aldilà: all’Ade

corrisponderebbero «le forme relativamente miti, una volta di moda persino nei paesi non totalitari, usate per

togliere di mezzo gli elementi indesiderabili di ogni specie, rifugiati, apolidi, asociali e disoccupati»; il

Purgatorio sarebbe rappresentato dai campi di lavoro staliniani; l’Inferno, infine, coinciderebbe con i Lager

nazisti. Dopo aver sottolineato che la superfluità degli internati costituisce il tratto comune dei tre tipi di

campi («le masse umane segregate in essi sono trattate come se non esistessero più»), il paragrafo si riferisce,

in misura quasi esclusiva, al fenomeno dei Lager (cfr. OT, p. 445 ss; it., pp. 609-10).

31 L’affermazione roussetiana per cui «Gli uomini non sanno che tutto è possibile» è adottata da Arendt come

epigrafe della terza parte de Le origini del totalitarismo. Vi è un’eco jaspersiana in queste parole, se si tiene conto

di ciò che il filosofo tedesco fin dal 1935 aveva scritto della propria epoca: «Nella realtà dell’uomo occidentale

si è prodotto in tutto silenzio un evento di straordinaria importanza: la caduta di ogni autorità, la delusione

radicale di ogni fiducia eccessiva nella ragione, il dissolversi dei condizionamenti, in modo che tutto sembra

ormai semplicemente possibile; tutto, senza alcun limite» (Cfr. Karl Jaspers, Ragione ed esistenza, Torino 1971,

p.13).

32 Nella sua recensione al Bréviaire de la haine di Léon Poliakov, così Arendt sintetizzava uno dei meriti

fondamentali dell’opera: «[Poliakov] spiega chiaramente che... gli ebrei tedeschi sono serviti ai nazisti da cavie,

in uno studio volto a comprendere come sia possibile far collaborare i condannati all’esecuzione della loro

stessa sentenza di morte - ultimo giro di vite dello schema totalitario di completo dominio» (Arendt 1952b).

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33 Sul piano descrittivo, queste pagine si basano sulle informazioni che fin dai primissimi anni del dopoguerra

erano divenute note grazie alla pubblicazione di documenti e di testimonianze dei superstiti. Arendt si

riferisce, in particolare, a Rousset 1946 e 1947; Kogon 1946; Poliakov 1951; Bettelheim 1943.

34 Con il termine zoè il greco si riferisce essenzialmente al fenomeno dell’essere in vita; bios è, invece, vita nel

senso di esistenza, durata o tempo della vita, condizione o genere di vita (Plutarco, in questo senso, intitola

Bioi paralleloi le sue Vite parallele, biografie di illustri personaggi greci e romani). Tuttavia, il greco non

contrappone rigidamente le due nozioni nel senso del moderno paradigma natura-cultura. Ad esempio, il

vivere (bionai) include il sostentamento: bios può cioè essere inteso anche nel senso del latino victus, in

particolare in espressioni come ton bion poieisthai (procurarsi da vivere) e bion echein (avere i mezzi per vivere).

Ciò è inconciliabile con la prospettiva arendtiana, che considera tali attività o condizioni come esclusivamente

attinenti alla sfera della zoè (al bios farebbero invece riferimento, come vedremo, il fare, inteso come ambito

della produzione di cose, e l’agire, inteso come sfera dell’interazione sociale).

35 Com’è noto, la nozione aristotelica di “essenza” indica esattamente ciò per cui una cosa, considerata nel suo

isolamento dalle altre, è quel che è, anziché essere un’altra cosa (essa indica pertanto le caratteristiche

necessarie, e non meramente contingenti, di un determinato ente). L’adozione di una prospettiva

essenzialistica nelle Origini del totalitarismo appare sorprendente (benché, di fronte all’enigma dei Lager,

comprensibile) nella misura in cui la filosofia dei maestri di Arendt, Heidegger e Jaspers, si volge proprio

contro la metafisica classica. Come vedremo, tuttavia, la teoria dell’azione esposta in Vita Activa permette di

lasciare in sospeso, in un certo senso, la prospettiva biologistica aperta dalla riflessione su animal laborans.

36«La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato, sono loro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del

campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e

faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a

chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo

stanchi per comprenderla» (Levi 1976, p. 113).

37 Questa tesi è sostanzialmente accolta da Legros 1990 e Agamben 1995. In particolare, Agamben sostiene

che «la coppia categoriale fondamentale della politica occidentale non è quella amico-nemico, ma quella nuda

vita-esistenza politica, zoè-bios, esclusione-inclusione» (p. 11): il campo di concentramento sarebbe in tal senso

il paradigma della politica occidentale e il “musulmano” la sua figura-chiave (v. anche Agamben 1998). In

questo contesto, l’Autore connette la riflessione arendtiana con quella foucaultiana sulla biopolitica, ed in

particolare con una delle tesi centrali della Volontà di sapere, secondo la quale «l’uomo moderno è un animale

nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente» (Foucault 1991, p. 127). Tuttavia, neanche gli

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scritti di Foucault giustificano una riflessione sulla “vita” come “nuda vita”. Foucault si pone infatti in una

prospettiva storica. Per lui, non solo «l’ingresso della vita nella polis», ma la «vita» stessa, è un fenomeno

moderno. La vita, il lavoro e il linguaggio costituiscono, secondo le analisi condotte ne Le parole e le cose, «l’uomo

moderno»: in Aristotele la “vita” è un mero criterio tassonomico, mentre è con Cuvier, ovvero con la nascita

della biologia, che essa diventa una forza remota e primigenia, l’aspetto animale dell’esistenza umana,

perfettamente delimitabile e isolabile da tutti gli altri (cfr. Foucault 1995, p. 285 ss. e 1991, p. 127 ). In tal

senso, vale in generale per la “vita” ciò che Foucault sostiene per la “sessualità”: essa non è estranea alla legge,

ma si costruisce attraverso la legge (cfr. Foucault 1991, pp. 100-1). Ma questo è solo un altro modo per dire

che i fenomeni da noi ricondotti alla natura e alla biologia non sono mai “nudi”: essi non possono essere

completamente isolati dalla nostra culturale esistenza.

38Di “piegatura essenzialistica” ne Le origini del totalitarismo, benché con riferimento alle pagine del capitolo

conclusivo su Ideologia e terrore, parla anche Forti 1999.

39 OT, p. 442 n. 132 e p. 453 n. 156; it., p. 605 n. 132 e p. 620 n. 156.

40 Cfr. OT, p. 456 ss.; it., p. 625 ss.. Sulla distinzione tra “dominio totale” e “tirannide” cfr. OT, p. 460 ss.; it.,

p. 630 ss..

41 Probabilmente, Arendt non fu mai pienamente consapevole della possibilità di una simile obiezione. E’

tuttavia significativo che la riflessione sui campi di concentramento come laboratorio per la riduzione degli

esseri umani a “nuda vita” si apra e si chiuda con Le origini del totalitarismo. Arendt sarebbe tornata sulla

questione dei Lager soltanto nell’Introduzione a un’opera di Bernd Naumann (cfr. Arendt 1966) e nella Banalità

del male, per sollevare il problema etico e giuridico del «massacro amministrativo», con il quale avrebbero

dovuto confrontarsi i processi del dopoguerra. In tali occasioni avrebbe riproposto la bruciante questione

della fondamentale rarità degli episodi di resistenza da parte delle vittime, ma non avrebbe più ripreso o

discusso la tesi relativa alla distruzione della “natura umana”.

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