Professional Documents
Culture Documents
I Possenti Lapolide e Il Paria Lo Strani
I Possenti Lapolide e Il Paria Lo Strani
Lo straniero
nella filosofia di Hannah Arendt”, Carocci, Roma 2002
Attenzione:
Questo testo non corrisponde alla versione definitiva pubblicata.
In caso di citazioni, si prega di indicare il riferimento bibliografico come segue:
1
I. L’individuo senza polis
«Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-
umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi
dell’uomo.»
«Ora, tra me e Lorenzo non avvenne nulla di tutto questo […]. Grazie a Lorenzo mi è
accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo.»
Primo Levi
«Il passaporto è la parte più nobile di un uomo. E difatti non è mica così semplice da
fare come un uomo. Un essere umano lo si può fare dappertutto, nel modo più
irresponsabile e senza una ragione valida; ma un passaporto, mai. In compenso il
passaporto, quando è buono viene riconosciuto; invece un uomo può esser buono
quanto vuole, non viene riconosciuto lo stesso.»
Bertolt Brecht
2
I.1
“Noi profughi”
Nel gennaio del 1943, poco tempo dopo il suo arrivo negli Stati Uniti1, Hannah
Abbiamo perso la casa, che rappresenta l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso
il lavoro, che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mondo.
Abbiamo perso la nostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle reazioni, la
semplicità dei gesti, l’espressione sincera e naturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i
nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di
concentramento, e questo significa che le nostre vite sono state spezzate.
Tuttavia, non appena siamo stati salvati – e la maggior parte di noi è stata salvata
parecchie volte - abbiamo cominciato le nostre nuove vite, cercando di seguire il più
fedelmente possibile tutti i buoni consigli dei nostri salvatori. Ci è stato detto di
dimenticare, e abbiamo dimenticato più velocemente di quanto sia possibile
immaginare. (JP, pp. 55-6; it., p. 36)
determinazione con cui coloro che avevano trovato rifugio negli Stati Uniti cercavano di
assimilarsi alla nuova patria. Secondo «i fondamentali imperativi della nuova vita» -
propria lingua, lottare come folli per avere esistenze private con destini individuali, e
concentrarsi, infine, sul futuro personale pronosticato dagli oroscopi, piuttosto che
e con esso la coscienza dell’oppressione («per dimenticare meglio evitiamo anzi ogni
3
allusione ai campi di concentramento o di internamento»). Occorreva diventare
“ottimisti”.
stesso commossa e glaciale, che chiama volutamente in causa «fatti impopolari», come
il fenomeno del crescente numero di suicidi tra i “salvati”, la diffusa familiarità con
No, c’è qualcosa che non va nel nostro ottimismo. Tra noi ci sono quei bizzarri ottimisti
che, dopo aver fatto un mucchio di discorsi ottimistici, vanno a casa e aprono il gas o si
servono di un grattacielo in modo del tutto imprevisto… Invece di lottare – o di pensare
a come riacquistare la capacità di lottare – i profughi si sono abituati a desiderare la
morte per gli amici e i parenti; se qualcuno muore, ci rallegriamo all’idea che abbia
potuto evitare tanti guai. Così, molti pensano che anche noi potremmo evitare dei guai –
e agiscono di conseguenza. (JP, pp. 57-8; it., p. 38)
[Al campo di Gurs] era opinione comune che si dovesse essere singolarmente asociali e
disinteressati alle circostanze per essere ancora capaci di interpretare l’accaduto come
una sfortuna personale e individuale e, di conseguenza, per porre termine ai propri
giorni in modo personale e individuale. Tuttavia, non appena le stesse persone, tornate
alle loro vite individuali, si trovarono a dover affrontare problemi apparentemente
individuali, si volsero una volta di più a questo insano ottimismo, prossimo alla
disperazione. (ivi, p. 59; it., p. 40)
Il parziale distacco dell’autrice dal “noi” collettivo della narrazione appare evidente.
Mentre scriveva che «la maggior parte di noi non si è mai sognata di avere un’opinione
politica radicale», infatti, Arendt si sentiva parte di quella minoranza di ebrei che, entro
Tuttavia, la critica del fondamentale «egotismo» dei profughi, in fuga dalla storia e dal
suicida, tra annullamento della propria identità e annullamento della propria vita, non si
4
Certo, Noi profughi fa appello alla lotta e al cambiamento del mondo piuttosto che alla
negazione di sé, alla reazione collettiva e politica piuttosto che individuale. Ma Arendt,
nella sua ambigua posizione rispetto al “noi” narrante («anch’io sono stata piuttosto
ottimista»), sa bene quanto sia umano cercare scorciatoie quando non si ha più “un
L’uomo è un animale sociale e la vita non è facile per lui quando vengono recisi i
legami sociali… Pochissimi individui hanno la forza di conservare la loro integrità se la
loro condizione sociale, politica e giuridica è del tutto inadeguata. (ivi, p. 62; it., p. 44)
Attraverso il complesso gioco del coinvolgimento e del distacco, Noi Profughi lascia
così intravedere la genesi di due temi fondamentali del pensiero arendtiano: quando
parla come profuga tra gli altri profughi, Arendt affronta chiaramente il problema
dell’esclusione, fondata sulla discriminazione come «arma sociale con cui uccidere gli
uomini senza spargere sangue»; quando si ritrae in una posizione critica, ad essere in
Per quanto riguarda il problema dell’esclusione, la descrizione dei profughi ebrei come
del totalitarismo viene riservata alla vicenda degli apolidi, i numerosi «senza patria»
che nel primo dopoguerra perdettero protezione giuridica e riconoscimento sociale, fino
ad essere trattati dalle nazioni europee come corpi estranei, individui superflui, veri e
D’altra parte, la riflessione sull’ansia di inclusione dà vita in Noi profughi alla figura del
“signor Cohn”, l’ebreo berlinese «che era sempre stato un tedesco al 150%» e che, pur
5
attraverso l’adesione incondizionata a una nuova patria. Mentre comprende «il
necessario adattamento» alla realtà in cui si vive, che passa ad esempio attraverso
l’apprendimento della lingua, Arendt sottolinea il carattere a dir poco grottesco di una
tedesco» in patriota, di esilio in esilio, ceco, austriaco e francese (ivi, pp. 62-4; it. pp.
Per sette anni abbiamo recitato la ridicola parte di quelli che cercano di essere francesi –
o, per lo meno, potenziali cittadini; eppure, all’inizio della guerra, siamo stati
ugualmente internati come boches4. Nel frattempo, tuttavia, la maggior parte di noi è
diventata a tal punto fedele alla Francia, che non abbiamo potuto nemmeno criticare un
ordine del governo francese. Così abbiamo dato il benestare al nostro stesso
internamento. Siamo stati i primi “prisonniers volontaires” che la storia ricordi. (ivi, p.
61; it., p. 43)
centro di riferimento nella figura del “paria” - l’ebreo che, come gli “intoccabili” delle
caste indiane, si trova a vivere ai margini della società; e che tuttavia, prendendo
qualsiasi costo perseguita dal parvenu. E’ questa, del resto, la figura sulla quale Noi
profughi significativamente si chiude. Nelle battute finali del saggio, infatti, Arendt
dal margine della società, la possibilità della comprensione e dell’azione («per loro la
storia non è più un libro chiuso e la politica non è più un privilegio dei gentili»): pur
noi stessi se la società non ci approva»), essi scelgono di aggrapparsi alla propria atopia,
6
rifiutando la «tristezza senza speranza» che inevitabilmente cova sotto l’ottimismo
(«quella di Heine, Rahel Varnhagen, Sholom Aleichem, Bernard Lazare, Franz Kafka o
persino Charlie Chaplin»), il paria emerge in definitiva, nell’opera arendtiana, come una
singolare variante della figura del «senza patria». La sua caratteristica marginalità non
umana: benché chieda di essere riconosciuto dagli altri come eguale, infatti, il paria sa
che per agire liberamente nel mondo non è possibile essere rigidamente inclusi in esso;
sa, in altri termini, che non c’è libertà se l’inclusione si configura non come eguaglianza
vicenda politica degli ebrei, Arendt resiste, dunque, alla tentazione di disegnare
un’alternativa semplificante tra inclusione e esclusione. Il punto, sia chiaro, non sarà
mai per lei quello di rovesciare i termini della questione, assegnando un qualche
l’inclusione nella comunità. La domanda è semmai che cosa intendiamo dire quando
infatti il problema della libertà, intesa come possibilità di vivere al tempo stesso da
cittadini e da stranieri – come possibilità di “stare dentro” senza venire per questo
inclusi, chiusi dentro, vincolati a una rigida identità collettiva; e come possibilità di
“stare fuori”, di uscire dal cerchio magico dell’appartenenza, senza ritrovarsi per questo
La condizione degli ebrei nel periodo compreso tra la prima e la seconda guerra
di esclusione destinata ad estendersi, anziché contrarsi, nella lunga storia del Novecento.
7
Basti pensare al mondo in cui oggi viviamo, nel quale una nuova generazione di esclusi
- apolidi, migranti e rifugiati – pone seri interrogativi a società che credevamo ormai
In simili contesti, il pur minimo accenno ad una riflessione critica sull’inclusione rischia
di apparire del tutto fuori luogo: la scelta di porre al centro della riflessione filosofico-
argomenti condivisibili, alle filosofie dello “spaesamento” di inizio Novecento, non può
tuttavia essere rivolta a Hannah Arendt, che nell’accostare all’apolide una figura del
complessità del problema della cittadinanza, che non può essere affrontato attraverso
I.2
8
L’esperienza dei profughi che tra la fine degli anni Trenta e l’inizio degli anni
Quaranta avevano trovato rifugio negli Stati Uniti costituiva solo la punta di un
innumerevoli gruppi di apolidi e rifugiati (cfr. Marrus 1986.). La loro vicenda di apolidi,
origini del totalitarismo, oggi tra i più letti e discussi dell’intera opera.
L’apolide rappresenta per Hannah Arendt una nuova figura dell’alterità nella società e
nella politica contemporanea, il cui ruolo di estraneo alla polis e alla civiltà appare
paragonabile a quello svolto dal “barbaro” nell’antichità classica e dal “selvaggio” in età
una civiltà che afferma di voler costruire la propria identità non per esclusione ma per
del “selvaggio” nel seno di una comune “umanità”5. La riflessione sulla figura
dell’apolide muove pertanto dall’analisi del fenomeno dal punto di vista strettamente
storico-politico, per approdare poi ad una riflessione critica sulla questione dei diritti
umani.
movimenti totalitari europei come elementi che, pur senza obbedire ad alcuna
9
cristallizzazione che consentì l’avvento del regime totalitario in Germania (Arendt
storicamente prodotta dalla tendenza dei capitali, del potere politico e delle popolazioni
nella prospettiva di un mondo sempre più «unico», di una «situazione politica globale»
o di una «civiltà globale, universalmente interrelata» (OT, p. 297 ss.; it., p. 411 ss.)7. E’
in questo quadro che sarebbe emerso il fenomeno del «gruppo più sintomatico della
proclamatosi tutore degli inalienabili diritti umani avrebbe ovunque trattato come
nazioni», gli individui privi di una patria e della protezione giuridica di uno stato
avrebbero infatti perduto, insieme alla “patria”, alla cittadinanza (status civitatis), la loro
Quel che è senza precedenti non è la perdita di una patria, bensì l’impossibilità di
trovarne una nuova. [...] Nessuno si era accorto che l’umanità, per tanto tempo
considerata una famiglia di nazioni, aveva ormai raggiunto lo stadio in cui chiunque
veniva escluso da una di queste comunità chiuse, rigidamente organizzate, si trovava
altresì escluso dall’intera famiglia delle nazioni, dall’umanità. [...] I trattati di reciprocità
e gli accordi internazionali hanno tessuto intorno alla terra una rete che consente al
cittadino di qualsiasi paese di portare con sé il proprio status giuridico dovunque vada.
Ma chi non è più avvolto da essa, è fuori dall’umanità. (OT, p. 293-4; it., p. 406-7)
storica cui Arendt fa riferimento: tra le due guerre moltissimi membri di minoranze,
10
molti casi fino al tragico epilogo dei campi di concentramento -, mentre troppo pochi
trovarono rifugio negli Stati Uniti o furono in qualche misura protetti da altri paesi.
Arendt ricorda in particolare che l’atteggiamento dei governi nei confronti degli apolidi
e dei rifugiati sparsi per l’Europa tra le due guerre oscillò a lungo tra l’idealismo e la
comunque state tutelate dalle costituzioni civili (che si presumevano più o meno
esplicitamente fondate sui “diritti umani”), essi si affidavano in realtà alla speranza che
il fenomeno fosse del tutto marginale e momentaneo. D’altra parte, mentre il rimpatrio e
d’origine nel primo caso e per quella delle popolazioni ospitanti nel secondo, il diritto
d’asilo sembrava improvvisamente inadeguato alle nuove condizioni: ultimo residuo del
principio medievale per cui «quidquid est in territorio est de territorio», esso era infatti
limitato al caso dei “perseguitati” - nel senso restrittivo di quegli individui che si
o religiose in un paese che le persegue. Il diritto di asilo non poteva dunque essere
applicato alle masse di apolidi sparse per l’Europa a meno di una sua interpretazione
dei rifugiati alla polizia, che veniva «a disporre direttamente delle persone». In questo
contesto fecero per la prima volta la loro comparsa in Europa i campi di internamento,
«l’unica patria che il mondo aveva da offrire all’apolide» (OT p. 284; it., p. 394)9.
11
Si delinea così nelle pagine arendtiane la figura storica dello Heimatlose, colui o
colei che è al tempo stesso homeless, stateless e rightless: privo di una patria, una casa,
un posto nel mondo (home nel senso di homeland), di cittadinanza (non citizen in
quanto non national, non cittadino in quanto non appartenente alla nazione) e di diritti
(non solo dei diritti fondamentali proclamati dalle “dichiarazioni universali”, ma, ancor
crimine e senza potersi appellare ad alcun diritto, l’apolide può infatti essere
arbitrariamente espulso, arrestato o recluso dalla polizia. Di fronte a lui, «che non ha
alcun diritto, che vive sotto la minaccia di espulsione o che senza processo è stato
vivere», il sistema di valori proprio dei «paesi civili» appare completamente capovolto
(OT, p. 286; it., p. 397). La specifica «disgrazia» degli Heimatlosen è dunque, secondo
esclusione così radicale che in un certo senso la comunità non manifesta, nei loro
l’oppresso (OT, p. 296; it., p. 409): percepiti come corpi estranei, come un ingombro, le
loro azioni e le loro opinioni, così come la loro esistenza ed il loro destino, non hanno
più «alcuna importanza per nessuno» . Come già era accaduto ai “proscritti” medievali,
gli individui «messi al bando della legge», la loro vita è esposta all’arbitrio degli altri:
«chiunque potrebbe ucciderli senza essere accusato di omicidio» (OT, p. 302; it., p.
418).
12
Il “diritto ad avere diritti”
La dichiarazione dei diritti dell’uomo alla fine del XVIII secolo segnava, secondo
Hannah Arendt, una svolta epocale, ma ambigua. Da una parte, un’umanità illuminata
naturale o divino - per porsi come fonte del diritto (OT, p. 298; it., p. 413); dall’altra,
questa umanità, «concepita come una famiglia di nazioni», mancava il proprio obiettivo,
poiché la celebrazione di principio della libertà di «un uomo astratto, che non esisteva in
nessun luogo» nascondeva, nei fatti, l’identificazione dell’uomo con il membro dello
stato nazionale:
La questione dei diritti umani si intrecciò ben presto inestricabilmente con quella
dell’emancipazione nazionale; solo la sovranità del popolo, del proprio popolo, sembrò
capace di garantirli. (OT, p. 291; it., p. 404)
Arendt ricorda come lo stato sorto in seguito alla rivoluzione francese sia fondato al
tempo stesso sulla volontà popolare e sull’identificazione del popolo con la nazione,
ovvero con una comunità che si ritiene fondata sulla «comunanza dell’origine». Gli
…in nome della volontà popolare lo stato pretendeva di riconoscere solo i membri della
nazione (nationals) come cittadini (citizens), di garantire pieni diritti civili e politici solo
a coloro che per origine e nascita appartenevano alla comunità nazionale, che si
supponeva sostanzialmente omogenea. (OT, p. 230; it., p. 321)11
identificare l’homme con il citoyen o, come potremmo anche dire, lo status personae
con lo status civitatis, muovendo dall’assunto per cui «gli uomini nascono liberi ed
13
eguali nei loro diritti». I diritti politici, tuttavia, restavano prerogativa esclusiva dei
membri della nazione, ed in questo la Dichiarazione era chiaramente figlia della propria
epoca, nella quale andava profilandosi il modello europeo degli stati nazionali12.
Secondo Hannah Arendt, gli stati europei avrebbero sostenuto che solo i diritti dei
cittadini potevano dare forma di norme tangibili ai diritti umani proclamati nelle
politica del mondo avrebbe garantito ad ogni individuo la protezione di uno Stato. Che
le cose non sarebbero affatto andate così divenne evidente, però, quando irruppero sulla
dell’altro Stato (apolidi in senso stretto, come i rom, o in senso lato, come i membri
che questa era soltanto un’illusione, e che una comunità politica incapace di trattare
come cittadini gli stranieri che si trovano sul proprio territorio, al punto da impiegare
14
Sorprendentemente, se si tiene conto della vulgata interpretativa secondo la quale
viene considerato come il principale precursore delle teorie razziali in Inghilterra (OT,
di quella di Burke. Per quel che riguardava il presente politico era infatti contraria alla
rivendicazione sionista di uno stato nazionale ebraico, poiché questo avrebbe solo
“gentili” (Arendt 1945p). Dal punto di vista teorico, d’altra parte, vedeva nella
15
Tuttavia, nel corso della riflessione sugli apolidi Arendt si richiama a Edmund Burke
come al convinto oppositore che aveva intuito, sia pure da posizioni conservatrici,
l’“uomo astratto”, semplicemente non esiste, Burke avrebbe compreso che dei diritti
della persona si può godere, in realtà, solo nella misura in cui si è riconosciuti dalla
comunità in cui si vive. E’ difficile essere persone, in effetti, quando non si è più
Burke aveva sostenuto che «è molto più saggio contare su un’“eredità tradizionale” di
inglese”, anziché come gli inalienabili diritti dell’uomo» (OT p. 299; it., p. 414).
Pur prendendo le distanze dalla celebrazione dei “diritti degli inglesi”, Arendt apprezza
l’intuizione di Burke secondo la quale «l’uomo astratto non esiste, l’uomo nasce sempre
una qualche omogeneità culturale: “comunità” (o, come si leggerà in Vita Activa,
del totalitarismo torna, in tal senso, il richiamo alla celebre definizione aristotelica della
La sua perdita [della condizione umana, n.d.A.]comporta la perdita della pertinenza del
linguaggio (e l’uomo, a partire da Aristotele, è stato definito come un essere dotato del
potere di pensare e parlare) e di ogni relazione umana (e l’uomo, sempre a partire da
Aristotele, è stato concepito come un “animale politico”, cioè come un essere che per
definizione vive in comunità), la perdita, in altri termini, di alcune delle più essenziali
caratteristiche della vita umana. (OT, p. 297; it., p. 411)14
16
Se ogni essere umano è zoon politikon, un animale mondano, relazionale, comunitario,
la perdita del “il diritto ad avere diritti” coincide, per Arendt, con la perdita dello «status
politico», estensivamente inteso come condizione che assegna all’individuo «un posto
nel mondo», alle sue opinioni «un peso» e alle sue azioni «un effetto» (OT, p. 296; it., p.
410)15.
Arendt suggerisce così che, se vogliamo cogliere l’aspetto più radicale della
membro della polis in cui la persona vive, un essere libero e responsabile, titolare di
della persona, così come la sua identificazione con il cittadino, sono eventi storici e
La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’esser privati della
vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e
della libertà di opinione […] ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta,
nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge (OT, pp. 295-6; it., p. 409.
Ci siamo accorti dell’esistenza di un diritto ad avere diritti (e ciò significa vivere in una
struttura [framework] in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni), solo quando
sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso. (ivi, p. 296; it., pp. 410-1)
Arendt contesta qui l’ingenuità dei sostenitori dei diritti umani, i quali non tennero
conto del fatto che l’homme, la persona, non è l’individuo isolato concepito dalla
17
moderna antropologia liberale, ma un animale della polis, il cui status dipende dal
riconoscimento sociale e dalla sua codificazione nell’etica, nella politica e nel diritto16.
La comunità può dare o negare riconoscimento, può fare di ognuno ed ognuna di noi
una persona o una non persona, un membro dell’interazione sociale o un corpo estraneo,
un servo, una cosa. Tuttavia, nel sostenere l’urgenza di una riformulazione dei diritti
umani non come elenco di diritti positivi, ma come «diritto ad avere diritti», come
dilemma insolubile: non è affatto chiaro, infatti, come questo diritto potrebbe essere
garantito.
A ben vedere, nelle Origini del totalitarismo l’universalità del “diritto ad avere
diritti” è proclamata senza alcuna pretesa fondativa: per Hannah Arendt, infatti, noi
disincantati figli del ventesimo secolo non possiamo più implorare una qualche legge di
Dio, della natura o della storia come fonte di legittimazione del diritto; né ci è possibile
soggetto del progresso morale (OT, p. 298; it., p. 413). Se l’umanità è il fondamento del
“diritto ad avere diritti”, può esserlo soltanto nel senso effettivo, storico e concreto, di
Arendt non nutre molta fiducia nei «benintenzionati tentativi umanitari di ottenere
internazionale: quest’ultimo, infatti, non sfugge alla regola per cui il diritto tende ad
18
identificarsi con l’interesse del più forte; non tenerne conto sarebbe, oltre che ingenuo,
maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti», OT, p. 299; it., p.
414)17.
rappresentano una scelta che niente e nessuno può garantire una volta per tutte. Esse
godono tuttavia di quella irrevocabilità che Vita activa avrebbe considerato caratteristica
di ogni azione umana: il fatto che il «diritto ad avere diritti» non possa essere garantito
non esclude che esso possa essere criticamente difeso: nessuna comunità, infatti, dopo
che la rivendicazione di un universale diritto ad avere diritti sia stata posta, potrà mai
agire nei confronti degli esclusi come se niente fosse accaduto. Ogni sua scelta sarà
dei membri degli stati-nazione (o che, per quanto Arendt rimuova questo aspetto della
questione, esse siano divenute fuori d’Europa parte integrante dell’ideologia coloniale)
non cancella dunque il loro valore: dopo di esse non è più possibile per una comunità
eguale. Non è più possibile, almeno, farlo in maniera innocente, come se ciò non
significasse accettare il ritorno all’idea che il mondo si divide in signori e servi, e che
I.3
19
Nuda vita?
I nuovi apolidi
Le pagine arendtiane dedicate alla vicenda degli apolidi tra le due guerre mondiali
appartenenza allo stato. Nell’ambito dei nuovi stati nazionali, questo processo sarebbe
andato di pari passo con il progresso di tutta una serie di tecniche di identificazione
uno spazio di benessere territorialmente definito (il mercato del lavoro interno): in
questo senso, ogni stato avrebbe posto sotto la propria giurisdizione una quota delle
esentato da particolari doveri nei confronti degli stranieri (Noiriel 1991, p. 156 ss.;
1995, pp. 4-23). Qualcosa di simile accade d’altra parte al giorno d’oggi, nell’Europa di
20
identificazione degli stranieri, le quali sembrano preludere ad una sorta di nuovo
“nazionalismo europeo” (Noiriel 1991, pp. 304-24). Per queste ragioni la riflessione
arendtiana sul “diritto ad avere diritti”, con particolare riferimento alle pratiche di
annientamento della personalità giuridica subite dalle vittime (dagli arbìtri polizieschi,
interrogandosi sullo status dei migranti odierni18, denunciano un duplice rischio: da una
distinguere tra cittadini e non cittadini, dallo stesso status personae. Il problema, in
definitiva, è quello di evitare che inedite forme di classificazione, dopo quelle fondate
sul principio di nazionalità, finiscano per offrire una giustificazione teorica a nuove
forme di esclusione.
attuali di fronte agli apolidi dei nostri giorni, i migranti che in epoca di globalizzazione i
dunque come “irregolari” o “clandestini”; ad essi si aggiunge, d’altra parte, la massa dei
ad esempio, al fatto che spesso i migranti sono esclusi dal godimento di alcuni diritti
civili e sociali, oltre che dai diritti politici, mentre coloro che si trovano in situazione di
trattenimento in attesa dell’espulsione coatta: si può trattare dei famosi non-luoghi delle
21
zone portuali e aeroportuali descritti dall’antropologo Marc Augé (1993) o dei meno
conta, come è stato osservato, è che gli “indesiderabili” sono qui privati della libertà di
movimento senza essere indiziati di alcun reato e senza aver subìto alcun processo - in
altri termini, senza vedersi pienamente riconosciuta quella personalità giuridica che,
come Hannah Arendt scriveva rispetto alle masse di apolidi e rifugiati sparse per
l’Europa tra la prima e la seconda guerra mondiale, un normale detenuto non ha ancora
perso.
ragione paragonata, da più parti, con quella dei profughi e degli apolidi in Europa tra le
due guerre. In particolare, dopo Arendt non possiamo più ingenuamente negare il valore
esse fondate sull’omogeneità culturale o, più prosaicamente, sulle esigenze del mercato
del lavoro); non possiamo non riconoscere, cioè, come si stiano oggi riproducendo
arendtiana sulla condizione degli apolidi, è bene valutare con prudenza la tesi secondo
ovvero con la perdita, da parte di interi gruppi di individui, della condizione di zoon
politikon. Questa tesi viene formulata nelle conclusioni del capitolo sugli Heimatlosen,
dove l’apolide è assunto come figura dell’«astratta nudità dell’essere uomo», della
«mera esistenza» o «nuda vita» (mere existence, bloßes Leben). Il punto, a questo
22
riconoscimento; ma, dall’altra, in una discutibile prospettiva di tipo essenzialistico,
giunge fino a sostenere che l’esclusione dalla comunità politica riduce gli esseri umani
alla dimensione della mera vita biologica. Il “dominio totale” sarebbe, in tal senso, una
forma di dominio capace di distruggere, come una sorta di essenza, la “natura umana”;
mostrato in grado di far regredire gli individui dalla cultura alla pura natura, dalla
(zoè).
Natura e cultura
Il percorso che conduce Hannah Arendt dalla riflessione sugli apolidi a quella sui
richiama, nelle Origini del totalitarismo, a partire dagli scritti politici di Edmund Burke
Come abbiamo visto, Arendt deve a Burke la critica dell’astratta nozione di “uomo”
sottesa alla Dichiarazione del 1789. Ciò che spesso si trascura di dire, tuttavia, è che la
sua riflessione non si limita a sviluppare «il solido pragmatismo» di Burke, difensore
dei “diritti degli inglesi”, in una più generale consapevolezza del carattere artificiale,
legato al riconoscimento storico e sociale, dell’ homme o persona; non si limita cioè a
osservare, con l’amara ironia dettata dagli inesistenti diritti umani degli apolidi, come
sia difficile essere persone quando non si è più cittadini. Piuttosto, la lettura delle
Riflessioni sulla rivoluzione francese finisce per mutuare da Burke l’assunto implicito
23
nella critica conservatrice dei diritti umani: l’idea che in realtà l’“uomo astratto” esiste,
perfetta di una visione del mondo fondata sulla dicotomia “natura-cultura”, questo è lo
spettro che si aggira nelle pagine burkiane e che, occorre dirlo, è ancora presente in
quelle arendtiane.
Arendt è convinta, in effetti, che l’apolide sia esposto al rischio di regredire allo stato
selvaggio, ovvero alla situazione di insignificanza che – secondo una certa tradizione di
Quel che Edmund Burke pensa dell’uomo tagliato fuori dalla comunità politica
nazionale, e cioè che questi non sia più in senso stretto un “uomo”, Arendt lo pensa
degli esclusi dalla polis – intesa qui come artificio, come manifestazione di una cultura
umana contrapposta alla mera natura, ovvero come prodotto di un processo che
distinguerebbe l’uomo “civile” da un selvaggio uomo “naturale” (OT, p. 300 ss.; it., p.
415 ss.):
In un capitolo dedicato alla discussione delle teorie razziali, Arendt aveva già
accreditato l’idea dell’esistenza di popoli senza cultura – di «tribù che, a quanto è dato
sapere, non avevano mai trovato un’adeguata espressione della ragione e passione
24
umana in opere culturali, o costumi popolari, ed erano legate a istituzioni estremamente
rudimentali» (cfr. ivi, p. 177; it., p. 247). Evidente è del resto l’influenza delle pagine in
cui Burke, dopo aver solennemente dichiarato di voler prendere in considerazione solo
«the civil social man», contrappone la civiltà alla barbarie, ad «un’umanità selvaggia e
quella del “selvaggio nudo” che non ha «più nulla da esibire all’infuori del minimo
mediante la creazione di istituzioni e di una cultura (OT, pp. 300-2; it., pp. 415-9)23.
E’ certo che, nell’accostare la figura dell’apolide a quella del barbaro e del selvaggio,
Arendt non intende condividere il disprezzo aristocratico di un Burke o dei suoi epigoni
nei confronti di coloro che considera chiaramente come vittime di determinati processi
storici, economici e sociali, per la cui difesa reclama una seria ridefinizione del concetto
stesso di “diritti umani”. Occorre tuttavia riflettere sul forte limite rappresentato, in
questa prospettiva, dal ricorso alla contrapposizione tra natura e cultura, barbarie e
civiltà, su cui si fonda l’idea che l’esclusione dalla comunità politica coincida col rinvio
sono più persone, ma soltanto cose viventi. E’ a questo proposito che conviene tenere
“anticoloniale” di Conrad, dal quale Le origini del totalitarismo trae un ritratto del
“selvaggio nudo”24.
racconta la propria avventura nel “continente tenebroso”, l’Africa, descritta come una
25
scalo commerciale costiero, Marlow risale per un lungo tratto il fiume Congo con il
compito di riportare alla base il capitano Kurtz, da tempo impegnato nei traffici con gli
dio tribale dalla popolazione indigena, Marlow scopre il carattere folle e spietato del
dominio instaurato dal capitano, dedito allo sfruttamento della popolazione e delle
risorse locali. L’intera storia si svolge all’insegna della contrapposizione tra luce e
finito per appuntarsi sul significato di queste dicotomie. Secondo alcuni interpreti,
Marlow vede nella storia di Kurtz un segno del possibile regresso della civiltà,
provocato dal contatto con un mondo selvaggio; secondo altri, invece, Kurtz è un
della civiltà25.
infatti, tra ciò che l’autore denuncia attraverso la figura di Kurtz - lo sfruttamento
sfruttamento sono infatti descritte come schiavi perduti nella «completa e mortale
indifferenza dei selvaggi infelici», come primitivi cannibali «dai denti affilati», lasciati
in sospeso tra “l’umano” e il “non umano” e contrapposti, nella loro ingenuità, alla
senso, l’esistenza di uno iato tra il piano politico e il piano metafisico del racconto di
Conrad:
Mentre la narrazione chiarisce che ciò che induce Kurtz a porsi come dio è la volontà di
potenza implicita nella stessa idea di una “missione civilizzatrice”, il fatto che si ponga
26
come un dio tribale reinserisce l’idea di una superiorità razziale a un livello più
profondo di quello della critica al colonialismo. (Hampson in Conrad 2000, p. XXXVII)
Da una parte, in altri termini, Cuore di tenebra presenta gli indigeni come vittime del
colonialismo; dall’altra, fa del “continente nero” una metafora del primitivo che ancora
spettrale del continente nero, nel quale si discute del razzismo dei boeri in Sudafrica.
dominatori, ma che il loro razzismo era alimentato anche dall’ «orrore» per le
popolazioni indigene :
A rendere questi esseri umani diversi dagli altri non era assolutamente il colore della
pelle, bensì il fatto che si comportavano come una parte della natura, che la trattavano
come la loro indiscussa padrona, che non avevano creato un mondo e una realtà umani,
che la natura era quindi rimasta, in tutta la sua maestà, l’unica realtà incontrastata, di
fronte alla quale essi facevano l’effetto di irreali fantasmi. Erano, per così dire, esseri
“naturali”, privi dello specifico carattere umano, di modo che gli europei non si
rendevano quasi conto di commettere un omicidio quando li uccidevano. (OT, p. 192;
it., p. 268)
Essi trattarono gli indigeni come una materia prima e vissero del loro lavoro come si
potrebbe vivere dei frutti di piante selvatiche. Indolenti e improduttivi, si ridussero a
vegetare sostanzialmente allo stesso livello a cui le tribù negre avevano vegetato per
migliaia di anni. Il profondo orrore che aveva afferrato gli europei nel loro primo
contatto con la vita indigena era stato stimolato appunto da questo tocco d’inumanità fra
esseri umani che palesemente facevano parte della natura non meno degli animali
feroci. I boeri vissero sulle spalle dei loro schiavi allo stesso modo in cui gli indigeni
erano vissuti di una natura incoltivata e immutata. (OT, p. 194; it., p. 270-1)
Arendt non intendeva in questo modo sminuire i crimini del razzismo e della schiavitù.
27
per legittimare quell’opposizione teorica tra natura e cultura che era alla base
dell’ideologia coloniale.
naturali”, contrapposta a quella della “vita civile” dei popoli europei, aveva fornito una
paradigma si richiamano, del resto, altri autori inevitabilmente presenti nella formazione
intellettuale di Hannah Arendt: basti pensare a Herder, a partire dal quale il pensiero
generale a quella letteratura sulla “crisi della civiltà” che, nel periodo compreso tra le
due guerre mondiali, si era scagliata contro “l’avvento delle masse” (cfr. Rossi 1991)27.
Eppure, Lucien Febvre ci insegna quale sia la posta in gioco ogni volta che ci mettiamo
(Rossi 1983). In quest’ultimo caso abbiamo in mente un giudizio di valore che non ha
alcuna attendibilità scientifica: fondate su una concezione della storia come storia di
romantica che risale ad Herder e Guizot, per negare il fatto che storicamente esistono
solo «le culture, irriducibili a una matrice comune, e le civiltà, sorte in diversi ambiti
28
storici» (Febvre 1976, p. 6)28. Quel che è qui in questione, d’altra parte, è qualcosa di
più di una semplice “censura” nei confronti dell’adozione, da parte di Hannah Arendt,
partire dall’adozione del paradigma “natura-cultura”, infatti, Arendt postula che possa
esistere una forma di dominio capace di far regredire gli individui esclusi dalla
comunità politica ad una sorta di stato di natura, ovvero di respingerli nella loro
umano, come leggiamo nelle pagine conclusive del capitolo sugli apolidi, potrebbe
appartenente «alla razza umana allo stesso modo che degli animali a una determinata
specie animale» (cfr. OT, pp. 300-2; it., pp. 416-8). Questo processo, iniziato con la
privazione del «diritto ad avere diritti» imposta agli apolidi e ai rifugiati tra le due
guerre, sarebbe giunto al culmine con la riduzione degli esseri umani a “nuda vita” nei
campi di concentramento29.
Bios e zoè
prima edizione delle Origini del totalitarismo 30. Se nel suo Univers concentrationnaire,
pubblicato nel 1947, David Rousset aveva definito il campo di concentramento come la
società più totalitaria mai realizzata e il luogo in cui «tutto è possibile»31, qualche anno
29
A questo proposito, Arendt si sofferma in particolare su quel processo di
esso aveva inizio «con le mostruose condizioni del trasporto nei Lager, durante le quali
proseguiva, dopo l’arrivo al campo, «con il ben organizzato shock delle prime ore, con
torture calcolate in maniera tale da non uccidere il corpo, almeno non rapidamente»
(OT, p. 453 ss.; it., p.620 sgg). Le pagine arendtiane ricordano anche gli altri tratti
caratteristici della vita dei Lager: la fondamentale “normalità” degli uomini delle SS, la
massacro. L’intera organizzazione della vita interna del campo mirava, in tal senso, a
la normalità di un incubo. Nel Lager, come Bruno Bettelheim aveva una volta osservato,
si finiva per perdere fiducia non solo negli altri, ma anche in sé stessi, ovvero
Pochi anni più tardi, d’altra parte, Primo Levi avrebbe descritto con dolorosa dovizia di
particolari l’esperienza del Lager – dal viaggio allucinante dei deportati, ai riti della
rasatura, del denudamento e del tatuaggio, alla flagrante insensatezza e crudeltà delle
regole del campo, fino allo stravolgimento dei rapporti umani e alla riduzione dei vivi,
attraverso la tortura fisica e mentale del quotidiano, a veri e propri “fantasmi”. Anche
Levi, ricordando i prigionieri “sommersi” dalla vita del campo, i vivi il cui corpo era
già in sfacelo e nel cui volto non si leggeva più traccia di pensiero, avrebbe parlato di
30
una massa anonima di individui ridotti a «non-uomini», oramai incapaci perfino di
Arendt tenta, tuttavia, di proporre una propria, peculiare interpretazione del fenomeno
concentrazionario:
In verità, l’esperienza dei campi di concentramento dimostra che gli uomini possono
essere trasformati in esemplari dell’animale umano, e che la “natura” è “umana”
soltanto nella misura in cui schiude all’uomo la possibilità di diventare qualcosa di
estremamente innaturale, cioè un uomo. (OT, p. 455; it., p. 623)
umana” - una sorta di seconda natura, non biologica, che gli esseri umani
conquisterebbero strappando sé stessi alla natura tout-court, alla mera vita animale.
contrapposizione viene del resto riformulata, in Vita Activa, nei termini della distinzione
greca tra bios e zoè: la vita di zoon politikon, come evento culturale e biografico (bios),
si distinguerebbe dalla vita dell’«esemplare della specie animale uomo», intesa come
mero evento naturale e biologico (zoè), nel cui ambito il lavoro, o metabolismo tra
uomo e natura, rappresenta l’unica attività possibile (THC, p. 97; it., p. 70)34.
senza precedenti di quello che Arendt chiama “dominio totale” (totaler Herrschaft), la
31
In questo senso, in un articolo del 1948 intitolato Social sciences techniques and the
degli a priori delle scienze sociali in seguito all’esperienza dei Lager, mentre in un
progetto di ricerca sui campi di concentramento, redatto in quello stesso anno, si era
domandata se l’essere umano sotto il terrore totalitario fosse ancora, in senso stretto, un
uomo (Arendt 1950e, p. 232; 1948e, p. 177). La sua risposta, ne Le Origini del
concentrazionario lo stesso dubbio che attanagliava Hannah Arendt. Quel titolo, una
pregio dell’ambiguità: esso pone una domanda non completamente retorica, che
mantiene almeno parzialmente aperto il dubbio sulla risposta. Levi non nasconde il
carattere assolutamente inumano della vita e della morte di coloro che, nel gelido
linguaggio del Lager, venivano definiti “musulmani”36. Egli tenta, però, di riflettere
nella riduzione degli uomini a cose agli occhi degli altri uomini (Levi 1976, p. 217); o,
quel particolare spazio dell’interazione sociale, che al tempo stesso «separa e congiunge
32
di Primo Levi, autorizzano uno sguardo critico nei confronti della tesi per cui un essere
umano potrebbe essere ricondotto alla dimensione meramente naturale o biologica della
propria esistenza37.
Arendt difende questa tesi quando tratta l’essere umano secondo i canoni della
prigioniero dei campi come un vero e proprio non-uomo, un essere del quale il dominio
È evidente che solo in questo modo, ovvero attraverso la rappresentazione del “dominio
totale” come forma di manipolazione della “natura umana”, Arendt riteneva di poter
rispondere alle domande poste nelle Origini del totalitarismo: «perché milioni di uomini
si lasciarono portare incolonnati senza resistere nelle camere a gas», perché «anche
uno dei loro carnefici», perché «non vi furono o quasi rivolte serie», e «persino al
momento della liberazione vi furono pochissimi massacri di SS»? (OT, p. 455; it.,
p.623). Queste domande vanno di pari passo con le incerte riflessioni sul
tempo la mentalità dei detenuti è difficilmente distinguibile da quella dei guardiani dei
33
campi»); ma, dall’altra, accettano la definizione roussetiana della vita nei campi come
della tirannide o della servitù volontaria avrebbe potuto gettare luce sul fenomeno
sistema che li renda superflui», e che in tale prospettiva teme il consenso, ancora
espressione della libertà umana, almeno tanto quanto il dissenso40. L’idea di una forma
la “natura umana”, doveva dunque apparire all’autrice – nell’opera che segnava il suo
ritorno alla vita intellettuale dopo gli anni della catastrofe e dell’impegno politico -
quelle di Rousset, non ci si può limitare a respingere – con Hannah Arendt - l’idea che
«gli esseri umani sono in fondo indistintamente delle bestie»; occorre invece
domandarsi se la stessa idea che una forma di dominio sia in grado di ridurre gli esseri
accettiamo l’idea di un “dominio totale” (capace di privarci nella maniera più radicale e
culturali), ammettiamo anche che non vi sia alcuna possibilità di tornare indietro da
34
tenere presente che speculazioni di questo tipo conducono oltre la soglia che separa la
Quel che accade nelle Origini del totalitarismo è, d’altra parte, abbastanza chiaro.
Arendt progressivamente si allontana dal discorso impostato nel corso della riflessione
sulla vicenda dei senza-patria: quando la ricostruzione storica cede il posto ai primi
appare come un non-uomo socialmente e storicamente tale si trasforma, per così dire, in
riferimenti all’animalità, alla meccanicità e alla morte con i quali Arendt rappresenta la
Eppure, riconoscere nella riduzione degli individui alla «superfluità» la più radicale
Queste considerazioni possono evidentemente essere estese alla riflessione sui nuovi
apolidi, i migranti dei nostri giorni, con la quale questo capitolo si era aperto.
Il parallelo tra la condizione degli odierni “indesiderabili” e quella dei senza-patria tra le
due guerre appare giustificato, infatti, finché fa propria la sensibilità teorica di Hannah
35
Arendt per la decostruzione dei meccanismi di produzione sociale dell’esclusione; o
finché aiuta a riflettere, da un punto di vista più strettamente politico, sulla necessità di
Ben più problematico, tuttavia, è il riferimento alle analisi arendtiane al momento in cui
ci si imbatte nella contrapposizione tra natura e cultura, alla quale si ispira il postulato
teorico per cui l’esclusione dalla comunità coinciderebbe con la perdita della condizione
di zoon politikon – con il regresso, cioè, alla dimensione puramente naturale e biologica
della nostra esistenza. A causa di un simile postulato Arendt non coglie che gli esclusi
relazioni sociali, dal quale partono certo gli input favorevoli alla codificazione e al
attivare forme di resistenza. E’ in questo senso che nelle pagine di Se questo è un uomo
Primo Levi ringrazia Lorenzo, operaio civile ad Auschwitz: Lorenzo è infatti colui che
ha continuato a guardare il prigioniero del campo come si guarda una persona, e non
volto.
1 Hannah Arendt, nata a Königsberg nel 1906, era fuggita dalla Germania nel 1933. Dopo aver trascorso un
breve periodo a Praga e Ginevra, ed alcuni anni a Parigi, aveva conosciuto l’esperienza dell’internamento nel
campo di Gurs, nella Francia meridionale. Era infine riuscita a passare i Pirenei e ad imbarcarsi alla volta degli
Stati Uniti, portando con sé i manoscritti dell’amico Walter Benjamin, morto suicida durante un tentativo di
fuga di pochi giorni successivo al suo. Cfr. Young-Bruehl 1990 e, sui campi di internamento francesi,
Grynberg 1993.
2 Cfr. AA, p. 39: «Intendevo emigrare in ogni caso. Avevo capito fin dall’inizio che gli ebrei non potevano
restare. Non era mia intenzione vagare per la Germania come cittadina di seconda classe, se posso esprimermi
così. Per di più, ero certa che le cose sarebbero andate sempre peggio. Comunque, alla fine non me ne sono
andata così pacificamente. E devo riconoscere che ne vado orgogliosa. Venni arrestata e dovetti lasciare il
36
paese illegalmente – glielo racconterò fra un attimo – e fu per me una grande soddisfazione. Pensavo: almeno
ho fatto qualcosa! Almeno non sono “innocente”! Nessuno avrebbe potuto dirlo di me! L’opportunità me la
offrì l’organizzazione sionista… non ero una sionista, né i sionisti cercarono mai di reclutarmi. Comunque, in
un certo senso, ne subivo l’influenza, in particolare per quanto riguarda la critica, l’autocritica che i sionisti
avevano suscitato nel popolo ebraico». In effetti, Arendt non condivise mai il progetto di uno “stato ebraico”,
ed intrattenne un rapporto estremamente complesso sia con il sionismo, sia con la comunità ebraica
3 L’espressione è di B. Ogilvie (1995). Una chiara anticipazione della riflessione sugli apolidi condotta ne Le
origini del totalitarismo si trova, in particolare, nel seguente passo: «Ma prima di gettare la pietra contro di noi,
ricordate che essere ebrei non dà alcuno status giuridico in questo mondo. Se cominciassimo a dire la verità, e
cioè che non siamo altro che ebrei, ciò significherebbe esporci al destino degli esseri umani i quali, non
essendo protetti da alcuna specifica legge o convenzione politica, non sono altro che esseri umani. Mi è
difficile immaginare un atteggiamento più pericoloso, perché realmente viviamo in un mondo in cui gli esseri
umani in quanto tali hanno cessato di vivere per tanto tempo; perché la società ha scoperto che la
discriminazione è la grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue; perché i
passaporti o i certificati di nascita, e qualche volta persino le ricevute dell’imposta sul reddito, non sono più
4 “Boches” è un termine dispregiativo con il quale in francese possono essere indicati i tedeschi.
5Come evidenziato in OT, pp. 293 e 298; it., pp. 405 e 412, Arendt si riferisce sia alla Déclaration des droits de
l’homme et du citoyen del 1789, sia alla Declaration of Indipendence proclamata dai “Tredici Stati Uniti d’America”
nel 1776, nella quale notoriamente si intrecciano motivi tratti dalla tradizione politica inglese, dalle esperienze
6 Nel 1953, replicando alla recensione de Le origini del totalitarismo scritta da Eric Voegelin per la Review of
Politics, Arendt sostiene che il totalitarismo non fu l’esito fatale di un lungo processo di decadenza, ma si
produsse come imprevedibile coagulazione di fenomeni diversi. In questo senso, dichiarandosi insoddisfatta
del titolo imposto dall’editore, scriveva di non essersi voluta occupare delle “origini” del totalitarismo, bensì
degli «elementi che si sono cristallizzati nel totalitarismo» (Arendt 1953, in Mistrorigo 1994). Per Simona
Forti, il tentativo arendtiano di lasciarsi alle spalle una visone continuistica della storia si rivela, tuttavia,
7 In queste parole non bisogna cogliere una sorta di singolare premonizione rispetto all’odierna discussione
sui processi di “globalizzazione”. E’ a partire dalla riflessione sull’imperialismo, ed in particolare dalle celebri
37
analisi di Hobson (1900) e Luxemburg (1913), che Arendt matura la consapevolezza di una crescente
interdipendenza economica globale, oggi definita da Eric J. Hobsbawm (1990) come la fondamentale
8 Nel diritto romano lo status personae (godimento di alcuni diritti fondamentali) si distingue dallo status civitatis
(godimento dei diritti garantiti ai cittadini). Persona, «volto umano irripetibile, singolare, distinto da ogni altro»,
piuttosto che cosa, res, è ogni essere umano titolare di determinati diritti. In questo senso, servus non habet
personam, ovvero lo schiavo «non ha personalità, non possiede il suo corpo, non ha antenati, nome, cognomen,
beni propri» (Mauss 1990, p. 373). L’universalismo moderno segna il passaggio alla considerazione di ogni
essere umano come persona; e più precisamente, con Kant, il riconoscimento di ogni essere razionale, in
quanto libero e responsabile nel proprio agire, come soggetto morale (p. 374). A partire dall’etimologia del
termine, il cui significato originario è quello di “maschera”, si può riconoscere inoltre il carattere artificiale
della persona (p. 380): le “persone” esistono solo se sono socialmente riconosciute come tali, mentre si può
parlare di non-persone in situazioni nelle quali questo riconoscimento sia negato o sottratto; il diritto stesso,
in quanto forma di codificazione dei processi sociali, può letteralmente far sparire le persone (Dal Lago 1999,
pp. 208-24).
9 Sull’atteggiamento dei governi tra le due guerre cfr. in particolare Hilberg 1995, pp. 1195-231; sul diritto di
asilo e sui rifugiati, Noiriel 1991 e Marrus 1986; sui campi di concentramento, Kaminski 1997.
10Hannah Arendt, che ha come punto di riferimento la lingua materna, distingue continuamente in inglese tra
citizen e national, chiaramente alludendo alla differenza posta dalla lingua tedesca tra cittadinanza partecipativa
(Staatsbürgerschaft) e appartenenza culturale alla nazione (Volkszugehörigkeit), che in età moderna diviene la base
della cittadinanza intesa come appartenenza allo stato (Staatsangehörigkeit). La distinzione non è sempre chiara
nella traduzione italiana de Le origini del totalitarismo. Per un inquadramento storico della questione cfr.
Brubaker 1992.
11 Cfr. OT, p. 275; it., p. 382: «solo i membri della nazione potevano essere cittadini [only nationals could be
citizens]».
12 Per quanto possa apparirci ovvia, la connessione tra diritto di voto e nazionalità non è affatto scontata. Nel
mutato contesto internazionale dei nostri giorni, ad esempio, la prospettiva aperta dalle “dichiarazioni
universali” potrebbe teoricamente indurre gli stati, o nuove configurazioni politiche sovranazionali, ad
allargare il diritto di voto agli stranieri residenti. Per Luigi Ferrajoli, in tal senso, prendere sul serio i diritti
proclamati nel 1789 significa oggi «avere il coraggio di disancorarli dalla cittadinanza in quanto
“appartenenza” (a una determinata comunità statale) e quindi dalla statualità» (Ferrajoli 1994, pp. 288-9).
38
13 Arendt sottovaluta tuttavia le «non luminose origini dell’illuminismo giuridico e dei diritti universali»: «Quei
diritti – peregrinandi, migrandi, degendi – furono proclamati come astrattamente uguali e universali allorché erano
servivano a legittimare l’occupazione coloniale e la guerra di conquista dei nuovi mondi da parte dei nostri
nascenti Stati nazionali. Oggi la situazione è rovesciata. La reciprocità e l’universalità di quei diritti è stata
negata. Questi diritti si sono tramutati in diritti di cittadinanza, esclusivi e privilegiati, non appena si è trattato
14 «Its loss entails the loss of the relevance of speech (and man, since Aristotle, has been defined as a being
commanding the power of speech and thought), and the loss of all human relationship (and man, again since
Aristotle, has been thought of as a “political animal”, that is one who by definition lives in a community), the
loss, in other words, of some of the most essential characteristics of human life». L’edizione italiana riporta
una versione leggermente più estesa di questo passo, poiché il traduttore tiene conto anche dell’edizione
tedesca.
15 Cfr. Roviello 1987, p. 206 e Leibovici 1998, p. 247, che interpretano il “diritto ad avere dei diritti” come
«diritto alla parola e all’azione significativa», e solo in questo senso come «diritto alla politica».
16 Sulla problematica del riconoscimento nelle pagine arendtiane si soffermano, in particolare, Besussi 1997 e
17 Non possiamo dunque attribuire a Hannah Arendt un atteggiamento affine a quella prospettiva teorica di
derivazione kantiana che Danilo Zolo (1998) ha recentemente definito come “giusglobalismo” o “globalismo
giuridico”. La tesi per cui la riflessione arendtiana consente di recuperare l’ideale cosmopolitico kantiano è
sostenuta da Jeffrey C. Isaac (1996), secondo la quale l’apparente paradosso di un “diritto ad avere dei diritti”
– come diritto alla politica che dovrebbe essere garantito dalla politica stessa – può essere sciolto solo
18 Cfr. ad esempio, su posizioni diverse, Marrus 1986, pp. 12 e 180; Balibar 1993, p. 55 e 1996, p. 230; Dal
Lago 1998 e 1999, pp. 223-4; Caloz-Tschopp 1998 e 2000, p. 267 ss.; Agamben 1995, p. 139 ss.
19 L’idea di «globalizzazione» costituisce oramai l’autorappresentazione prevalente del mondo in cui viviamo.
Il senso comune vi allude continuamente come ad una crescente interrelazione economica, politica, sociale e
culturale tra le comunità umane che abitano il globo. Crescerebbe, in particolare, «la facilità di superare i
controlli e le barriere che ostacolano il movimento di uomini, prodotti, informazioni e pratiche» (Attinà 1999, p.
147, corsivo mio). Eppure gli uomini e le donne di questo pianeta non circolano affatto liberamente come
39
circolano (o si presume che circolino) i prodotti, le informazioni e le pratiche: per i migranti è oggi sempre più
difficile ottenere un visto di ingresso o rinnovare un permesso di soggiorno nei cosiddetti paesi “ad
economia avanzata”. Nel caso dell’Unione Europea, ad esempio, il Patto di Schengen e il Trattato di
Amsterdam introducono una distinzione tra frontiere interne, dove sono soppressi i controlli d’identità, e
frontiere esterne, rispetto alle quali si irrigidiscono invece le condizioni di accesso (cfr. Sassen 1996; Sciortino
2000).
20 Cfr. Dal Lago 1999, p. 223 («il diritto si arresta di fronte agli stranieri, nel senso che li esclude dal proprio
ambito»).
21 Nella riluttanza con cui vengono concessi i permessi di soggiorno si esprime ad esempio, secondo Dal
Lago, «la preferenza del sistema giuridico-politico (in senso lato) per il mantenimento degli stranieri in una
situazione a-legale». L’utilità per il nostro sistema sociale della trasformazione dei migranti in “clandestini”, o
comunque sia in persone esposte al rischio della clandestinità, è stata evidenziata in primo luogo da chi ha
indagato da un punto di vista socio-economico le nuove politiche migratorie: tanto i lavoratori “clandestini”
impegnati nelle raccolte stagionali, quanto le lavoratrici con permesso di soggiorno che svolgono lavori di
cura rientrano in effetti nella categoria del «lavoratore imbrigliato» (salariat bridé), utilizzata da Yann Moulier
Boutang per indicare quella manodopera a basso costo, estremamente flessibile e sfruttabile perché costretta
ad accettare di tutto, che rischia di dar vita a una vera e propria classe di “meteci” (Moulier Boutang, in
clandestinità riveste anche potenti funzioni simboliche e politiche, legate a logiche sicuritarie (Collinson 1994,
p. 48 ss. e Sassen 1995, p. 59 ss.) e al bisogno di evitare il confronto con “l’altro” (Bauman 1998, pp. 74-5;
Possenti 2000).
22 Il nesso tra la figura dell’apolide e quella dell’internato è esplicito: «La folle produzione in massa di cadaveri
è preceduta dalla preparazione, storicamente e politicamente intelligibile, di cadaveri viventi. L’impeto e, quel
che più conta, il tacito consenso a condizioni così inaudite, sono il prodotto di quegli avvenimenti che, in un
periodo di disintegrazione politica, hanno improvvisamente fatto di centinaia di migliaia, e poi di milioni, di
uomini degli individui senza patria, senza stato, al bando della legge, indesiderati, economicamente superflui,
23 V. anche BPF, p. 212; it., pp. 270-1: «Certo ogni artificio compiuto dall’uomo per assicurarsi un rifugio e
un tetto sulla testa, anche le tende delle tribù nomadi, per quanti sono vivi in quel momento, può servire da
casa. Ma non per questo simili artifici potranno generare un mondo, e meno ancora una cultura». Cfr. E.
40
Burke, op. cit., p. 223 e 245 ss. p. 56 e 67 ss. (Burke dipinge tuttavia come una ricaduta nella barbarie la
24 Arendt riprende l’espressione “selvaggio nudo” dall’Introduzione di E.J. Paine all’edizione delle Reflections
contenuta in E. Burke, 1874-75. Tuttavia, un intero paragrafo de Le Origini del totalitarismo, intitolato Il mondo
spettrale del continente nero, ruota intorno all’immagine del “selvaggio” tratteggiata nelle pagine di Conrad (cfr.
25 La prima lettura ha comportato, evidentemente, la denuncia di Conrad come scrittore colonialista (cfr. ad
esempio Achebe 1988); la seconda ha invece portato a riconoscere nella storia di Marlow, esponente della
società e dell’ideologia coloniale, la graduale maturazione di una prospettiva autocritica (Sertoli 1974).
26 La figura di Herder emerge a più riprese negli scritti giovanili di Hannah Arendt. Cfr. ad esempio RV, pp.
27 Benché non possa essere considerata tra i teorici della “crisi della civiltà”, Arendt condivide almeno
parzialmente il pessimismo relativo alla moderna ascesa della “plebe” (a suo avviso costituita non dal
proletariato industriale o dal popolo nel suo insieme, ma «dagli scarti di tutte le classi e di tutti gli strati»):
l’alleanza tra la plebe e le élites del XIX secolo, ben rappresentata nei romanzi di Balzac, avrebbe prefigurato
quella tra i movimenti totalitari e le “masse” – «gente manifestamente indifferente, che tutti gli altri partiti
avevano lasciato da parte perché troppo apatica o troppo stupida» (cfr. OT, p. 155 ss. e 311 ss.; it. p. 217 ss. e
p. 431 ss). Assai eloquente, inoltre, è il finale del capitolo sugli apolidi, in cui si coglie un’eco dell’immagine
gassetiana dell’invasione delle masse: «Non è più probabile – scrive Arendt - che il pericolo venga dall’esterno.
Il pericolo è che una civiltà universale produca dei barbari dal suo seno costringendo, in un processo di
decomposizione interna, milioni di persone a vivere in condizioni che, malgrado le apparenze, sono quelle
delle tribù selvagge» (OT, p. 302; it., pp. 418-9). La contrapposizione tra natura e cultura sfocia d’altra parte,
in Vita Activa, in quella tra un attività necessaria, come il lavoro, e un’attività libera, come l’agire nella sfera della
polis: l’esistenzialismo - che muove dalla distinzione kierkegaardiana tra essere e esistenza, ambito della
necessità e dimensione della possibilità - rappresenta in tal senso uno dei canali attraverso i quali Arendt
eredita questo paradigma. Il rapporto che l’Autrice intrattiene con questa corrente filosofica è, tuttavia,
piuttosto complesso (cfr. in particolare Arendt 1946r e, in proposito, Forti 1994, p. 53 ss; Benhabib 1996, p.
28 Il discorso filosofico moderno contrappone spesso ai “popoli colti” i “popoli rozzi”, esemplari di
un’umanità “nuda” nel duplice senso, letterale e metaforico, di questo termine (la nudità rappresenta infatti la
mancanza dell’artificio, inteso come abilità propriamente umana). Tuttavia, a partire dal Settecento lo “stato di
41
natura” assume progressivamente il valore di un paradosso filosofico, che allude all’impossibilità di isolare una
pura natura dell’uomo (Landucci 1972, pp. 359-60). In età contemporanea si afferma, infine, la nozione
antropologica di cultura, descrittiva e non valutativa, secondo la quale non si danno un “prima” biologico e
un “dopo” culturale, poiché la cultura è già all’opera nelle nostre percezioni sensoriali. La separazione tra
“natura” e “cultura” deve essere intesa, in tal senso, come costruzione sociale (Rivera 2001).
29 Con l’espressione “nuda vita”, recentemente utilizzata da Giorgio Agamben, mi riferisco alle nozioni
arendtiane di «mere existence» e di «abstract nakedness of being human». Non assumo tuttavia la prospettiva
interpretativa di Agamben (1995), che considera l’ingresso della zoè nella sfera della polis come evento
30 Al paragrafo sui campi di concentramento facevano seguito delle Conclusioni che nell’edizione del 1958
sarebbero state definite «piuttosto inconcludenti» e sostituite con un saggio intitolato Ideologia e terrore (cfr.
Arendt 1953c). Il paragrafo, originariamente pubblicato sotto forma di articolo (Arendt 1948g; v. anche 1948e
e 1950e), abbozza una tipologia dei campi basata su tre immagini occidentali dell’aldilà: all’Ade
corrisponderebbero «le forme relativamente miti, una volta di moda persino nei paesi non totalitari, usate per
togliere di mezzo gli elementi indesiderabili di ogni specie, rifugiati, apolidi, asociali e disoccupati»; il
Purgatorio sarebbe rappresentato dai campi di lavoro staliniani; l’Inferno, infine, coinciderebbe con i Lager
nazisti. Dopo aver sottolineato che la superfluità degli internati costituisce il tratto comune dei tre tipi di
campi («le masse umane segregate in essi sono trattate come se non esistessero più»), il paragrafo si riferisce,
in misura quasi esclusiva, al fenomeno dei Lager (cfr. OT, p. 445 ss; it., pp. 609-10).
31 L’affermazione roussetiana per cui «Gli uomini non sanno che tutto è possibile» è adottata da Arendt come
epigrafe della terza parte de Le origini del totalitarismo. Vi è un’eco jaspersiana in queste parole, se si tiene conto
di ciò che il filosofo tedesco fin dal 1935 aveva scritto della propria epoca: «Nella realtà dell’uomo occidentale
si è prodotto in tutto silenzio un evento di straordinaria importanza: la caduta di ogni autorità, la delusione
radicale di ogni fiducia eccessiva nella ragione, il dissolversi dei condizionamenti, in modo che tutto sembra
ormai semplicemente possibile; tutto, senza alcun limite» (Cfr. Karl Jaspers, Ragione ed esistenza, Torino 1971,
p.13).
32 Nella sua recensione al Bréviaire de la haine di Léon Poliakov, così Arendt sintetizzava uno dei meriti
fondamentali dell’opera: «[Poliakov] spiega chiaramente che... gli ebrei tedeschi sono serviti ai nazisti da cavie,
in uno studio volto a comprendere come sia possibile far collaborare i condannati all’esecuzione della loro
stessa sentenza di morte - ultimo giro di vite dello schema totalitario di completo dominio» (Arendt 1952b).
42
33 Sul piano descrittivo, queste pagine si basano sulle informazioni che fin dai primissimi anni del dopoguerra
erano divenute note grazie alla pubblicazione di documenti e di testimonianze dei superstiti. Arendt si
riferisce, in particolare, a Rousset 1946 e 1947; Kogon 1946; Poliakov 1951; Bettelheim 1943.
34 Con il termine zoè il greco si riferisce essenzialmente al fenomeno dell’essere in vita; bios è, invece, vita nel
senso di esistenza, durata o tempo della vita, condizione o genere di vita (Plutarco, in questo senso, intitola
Bioi paralleloi le sue Vite parallele, biografie di illustri personaggi greci e romani). Tuttavia, il greco non
contrappone rigidamente le due nozioni nel senso del moderno paradigma natura-cultura. Ad esempio, il
vivere (bionai) include il sostentamento: bios può cioè essere inteso anche nel senso del latino victus, in
particolare in espressioni come ton bion poieisthai (procurarsi da vivere) e bion echein (avere i mezzi per vivere).
Ciò è inconciliabile con la prospettiva arendtiana, che considera tali attività o condizioni come esclusivamente
attinenti alla sfera della zoè (al bios farebbero invece riferimento, come vedremo, il fare, inteso come ambito
35 Com’è noto, la nozione aristotelica di “essenza” indica esattamente ciò per cui una cosa, considerata nel suo
isolamento dalle altre, è quel che è, anziché essere un’altra cosa (essa indica pertanto le caratteristiche
essenzialistica nelle Origini del totalitarismo appare sorprendente (benché, di fronte all’enigma dei Lager,
comprensibile) nella misura in cui la filosofia dei maestri di Arendt, Heidegger e Jaspers, si volge proprio
contro la metafisica classica. Come vedremo, tuttavia, la teoria dell’azione esposta in Vita Activa permette di
lasciare in sospeso, in un certo senso, la prospettiva biologistica aperta dalla riflessione su animal laborans.
36«La loro vita è breve ma il loro numero è sterminato, sono loro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del
campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e
faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente. Si esita a
chiamarli vivi: si esita a chiamar morte la loro morte, davanti a cui essi non temono perché sono troppo
37 Questa tesi è sostanzialmente accolta da Legros 1990 e Agamben 1995. In particolare, Agamben sostiene
che «la coppia categoriale fondamentale della politica occidentale non è quella amico-nemico, ma quella nuda
vita-esistenza politica, zoè-bios, esclusione-inclusione» (p. 11): il campo di concentramento sarebbe in tal senso
il paradigma della politica occidentale e il “musulmano” la sua figura-chiave (v. anche Agamben 1998). In
questo contesto, l’Autore connette la riflessione arendtiana con quella foucaultiana sulla biopolitica, ed in
particolare con una delle tesi centrali della Volontà di sapere, secondo la quale «l’uomo moderno è un animale
nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente» (Foucault 1991, p. 127). Tuttavia, neanche gli
43
scritti di Foucault giustificano una riflessione sulla “vita” come “nuda vita”. Foucault si pone infatti in una
prospettiva storica. Per lui, non solo «l’ingresso della vita nella polis», ma la «vita» stessa, è un fenomeno
moderno. La vita, il lavoro e il linguaggio costituiscono, secondo le analisi condotte ne Le parole e le cose, «l’uomo
moderno»: in Aristotele la “vita” è un mero criterio tassonomico, mentre è con Cuvier, ovvero con la nascita
della biologia, che essa diventa una forza remota e primigenia, l’aspetto animale dell’esistenza umana,
perfettamente delimitabile e isolabile da tutti gli altri (cfr. Foucault 1995, p. 285 ss. e 1991, p. 127 ). In tal
senso, vale in generale per la “vita” ciò che Foucault sostiene per la “sessualità”: essa non è estranea alla legge,
ma si costruisce attraverso la legge (cfr. Foucault 1991, pp. 100-1). Ma questo è solo un altro modo per dire
che i fenomeni da noi ricondotti alla natura e alla biologia non sono mai “nudi”: essi non possono essere
38Di “piegatura essenzialistica” ne Le origini del totalitarismo, benché con riferimento alle pagine del capitolo
39 OT, p. 442 n. 132 e p. 453 n. 156; it., p. 605 n. 132 e p. 620 n. 156.
40 Cfr. OT, p. 456 ss.; it., p. 625 ss.. Sulla distinzione tra “dominio totale” e “tirannide” cfr. OT, p. 460 ss.; it.,
p. 630 ss..
41 Probabilmente, Arendt non fu mai pienamente consapevole della possibilità di una simile obiezione. E’
tuttavia significativo che la riflessione sui campi di concentramento come laboratorio per la riduzione degli
esseri umani a “nuda vita” si apra e si chiuda con Le origini del totalitarismo. Arendt sarebbe tornata sulla
questione dei Lager soltanto nell’Introduzione a un’opera di Bernd Naumann (cfr. Arendt 1966) e nella Banalità
del male, per sollevare il problema etico e giuridico del «massacro amministrativo», con il quale avrebbero
dovuto confrontarsi i processi del dopoguerra. In tali occasioni avrebbe riproposto la bruciante questione
della fondamentale rarità degli episodi di resistenza da parte delle vittime, ma non avrebbe più ripreso o
44