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Una sura del corano

SURA L XXIV (DELL’AVVOLTO NEL MANTELLO)Parte di questa sura sembra essere il secondo brano rivelato
del testo sacro, lontano dal primo di parecchio tempo. In quest’intervallo, Muhammad avrebbe
tentato di suicidarsi. QuesI verseJ verrebbero ad essere quindi i primi della rivelazione ininterroLa.
Muhammad sente la voce di Allah, che gli ordina di allontanarsi dal culto degli idoli e venerare il suo
Signore, non rinfacciando la propria generosità per oLenere qualcosa in cambio. Dal v.11ci si riferirebbe ad
un ricco commerciante meccano, al-Walid ibn al-Mujira, acerrimo nemico del Profeta. Egli avrebbe definito
il Corano come il discorso di un uomo. Al v.31 si parla di una tentazione, cioè i diciannove angeli custodi
dell’Inferno. Quelli che non hanno fede, nel cuore hanno presunzione e pretenziosità.

CAPITOLO 30 PROMESSI SPOSI Don Abbondio, Perpetua e Agnese giungono al castello


dell'Innominato
Lungo tutto il percorso nella valle, fino alla Malanotte, si vedono persone dirette al castello dell'Innominato per
trovarvi rifugio. Don Abbondio ne è irritato, perché teme che tanta folla attiri l'attenzione dei lanzichenecchi; gli
stessi uomini dell'Innominato che, armati, controllano la valle, gli sembrano una provocazione. Alle donne, però,
raccomanda la prudenza: bisogna far viso ridente, e approvare tutto quello che si vede. Durante la salita a piedi
dalla Malanotte al castello, aggiunge un altro precetto: tacere, perché a stare zitti non si sbaglia mai. Con
l'innominato, che accoglie gli ospiti, don Abbondio usa un tono quanto mai cerimonioso, mentre assai più
spontanea è Agnese. Le spiegazioni che l'innominato fornisce al curato sulle misure prese per difendere il castello,
come prevedibile, non lo rassicurano.
Il soggiorno al castello
Il soggiorno al castello dei tre fuggiaschi si protrae per ventitré o ventiquattro giorni che trascorrono abbastanza
tranquilli, grazie anche alla sollecitudine con cui l'innominato provvede a mandare in perlustrazione i propri
uomini. Agnese e Perpetua si rendono utili svolgendo qualche piccolo servizio, mentre don Abbondio non fa che
agitarsi, sia per il timore di un possibile assalto al castello sia per il pensiero della sua casa abbandonata. Al castello
si segue con attenzione il passaggio dei vari reggimenti sul ponte di Lecco. Quando giunge la notizia dell'ultimo
passaggio, il castello si svuota dei suoi ospiti. Don Abbondio, però, per timore di imbattersi in qualche
lanzichenecco sbandato, è l'ultimo a lasciare il rifugio.
La partenza e l'arrivo al paese
Nel giorno del commiato, l'innominato fa preparare una carrozza per i suoi tre ospiti e dona ad Agnese biancheria e
denaro. I tre sostano brevemente a casa del sarto, quindi raggiungono il loro paese attraverso uno spettacolo di
desolazione e distruzione, traccia del passaggio dei lanzichenecchi. Le loro abitazioni sono state devastate: non
tanto quella di Agnese, che si reputa fortunata di dover solo spazzare e ripulire, quanto la canonica. Qui i
lanzichenecchi hanno fatto disastri, sia divertendosi a imbrattare i muri con caricature di preti sia rubando il
tesoro sotterrato da Perpetua sotto il fico. La cosa provoca una serie di lamentele di Don Abbondio nei confronti
della serva, ma Perpetua certamente non sta zitta, né tace quando si accorge che il curato ha timore di chiedere la
restituzione di alcuni oggetti che, anziché in mano dei lanzichenecchi, sono nelle case di certi parrocchiani. Alla
fine don Abbondio rinuncia a lamentarsi con Perpetua, per paura di esserne rimproverato.

CAPITOLO 31 PROMESSI SPOSI Il capitolo si apre con un'introduzione al nuovo argomento: la peste.
Successivamente, il narratore giustifica la digressione storica, che occuperà i capitoli XXXI e XXXII attraverso una
duplice esigenza: creare lo sfondo su cui si muoveranno i personaggi d'invenzione e, soprattutto, ricostruire un
evento di grande rilevanza, di cui non esistono trattazioni organiche ed esaurienti.
La peste portata dai lanzichenecchi si diffonde nel territorio di Milano
Il passaggio dell'esercito dei lanzichenecchi lascia nel territorio di Milano uno strascico di morti di cui le cause non
sono immediatamente individuate; soltanto i più anziani infatti sanno riconoscere i sintomi della peste, per aver
vissuto quella precedente, del 1576. I provvedimenti del tribunale della sanità, sollecitati dal medico Lodovico
Settala, sono superficiali: una prima ricognizione si conclude senza andare a fondo del problema. Una seconda
ricognizione, affidata al medico Alessandro Tarlino e a un magistrato del tribunale, denuncia invece la presenza
della peste. Sono disposte le bullette: a Milano potrà entrare soltanto chi dimostri di provenire da una zona
immune da contagio. Tuttavia l'autorità politica, innanzitutto il governatore Ambrogio Spinola, sottovaluta
colpevolmente il pericolo, mentre la stessa popolazione si rifiuta di prendere coscienza della situazione; soltanto il
cardinal Federigo raccomanda ai parroci di avvertire la gente; ad aggravare il rischio sono poi le lentezze
burocratiche: il provvedimento delle bullette diventa finalmente esecutivo il 29 novembre, quando ormai in Milano
è entrata la peste.
La peste fa il suo ingresso a Milano
Il responsabile dell'ingresso della peste a Milano sarebbe stato un soldato italiano al servizio della Spagna. Costui,
entrato in città verso la fine di ottobre o ai primi di novembre, si ammala e, portato all'ospedale mostra sotto
l'ascella un bubbone, terribile segno della peste. Alla sua morte segue quella di alcune persone che gli erano state
accanto; alcuni ammalati sono ricoverati nel lazzeretto, ma ormai il contagio comincia a diffondersi in città. La
popolazione però, per evitare che la propria roba venga bruciata e le case siano sequestrate, non denuncia i casi
sospetti, ricorrendo anche alla corruzione dei funzionari della sanità. Quelli che, fra i medici, sono più decisi
nell'ammonire del pericolo, sono fatti oggetto di odio e insulti. Si arriva al colmo di assalire per strada il primo
medico di Milano, Lodovico Settala, a stento sottratto al linciaggio.
I casi di peste aumentano di numero
Verso la fine del marzo 1630, i casi di peste si infittiscono, ma ci sono ancora persone che non vogliono
ammetterne l'evidenza; per esempio, quei medici che, anziché parlare di peste, usano giri di parole (febbri
pestilenziali) per non dichiarare di essersi sbagliati nel negare il contagio. Il governo del lazzeretto, sempre più
affollato, costituisce uno dei problemi che l'autorità pubblica non sa risolvere: si chiede dunque ai cappuccini di
occuparsene, cosa che essi faranno con grande spirito di carità e dedizione, fino alla morte.
La responsabilità della peste viene attribuita agli untori
Con l'aumentare del numero degli ammalati, l'opinione pubblica deve rassegnarsi ad ammettere la presenza della
peste. Tuttavia non ne individua le cause vere, bensì attribuisce la responsabilità di quel male agli untori, che ad
arte avrebbero diffuso il contagio cospargendo muri e oggetti con sostanze infette. Alcuni episodi accrescono la
psicosi degli untori: prima il sospetto che siano state unte le panche del duomo induce le autorità a una
precauzione eccessiva (farle portare in piazza per essere lavate); poi il fatto reale dell'imbrattamento dei muri,
probabilmente uno scherzo, suscita le illazioni più varie. Con tutto ciò, alcuni si ostinano a negare la peste: per
persuaderli del contrario, il tribunale della sanità, in occasione della festa di Pentecoste, espone in pubblico i
cadaveri di alcuni appestati.

CAPITOLO 32 Nel maggio del 1630 la situazione della città di Milano si é fatta cosi difficile, anche dal punto di
vista finanziario, che il consiglio dei decurioni decide di rivolgersi al governatore perché adotti provvedimenti
adeguati. Ma Ambrogio Spinola, tutto preso dall'assedio di Casale, si limita a vaghe promesse e in seguito
trasferisce il potere nelle mani di Antonio Ferrer. Inoltre, la guerra terminerà riconoscendo come legittimo duca
proprio quel Carlo di Nevers per cui era stata combattuta, con lo scopo di escluderlo dal potere.

La richiesta della processione solenne


I decurioni chiedono al cardinale di indire una processione solenne con le spoglie di san Carlo Borromeo. Federigo
in un primo tempo rifiuta, sia perché non vuole incoraggiare atteggiamenti superstiziosi sia perché teme che
quell'evento favorisca il diffondersi della malattia, tanto più nell'ipotesi che gli untori esistano davvero. Il sospetto
delle unzioni era infatti andato crescendo, perché la popolazione esasperata era alla ricerca di qualcuno su cui
scatenare la propria collera. Due episodi ripresi dal Ripamonti lo dimostrano: il linciaggio a cui fu sottoposto un
vecchio che, in chiesa, aveva spolverato la panca prima di sedersi, e l'arresto di tre giovani francesi, colti a toccare il
marmo del duomo. I tre furono poi rilasciati, ma la loro vicenda è la prova del clima di «caccia all'untore» che
ormai regna in città.
Federigo cede alle insistenze e permette la processione
Di fronte alle rinnovate richieste dei decurioni, Federigo autorizza la processione con il corpo di san Carlo. L'undici
giugno, una folla di ogni età e condizione vi partecipa; il giorno successivo, il numero dei morti ha un'impennata.
Tuttavia, anziché individuare la causa di tale evento nel grande afflusso di folla, si accentua la responsabilità degli
untori che si sarebbero serviti di polveri venefiche (nessuna traccia di sostanze solide).
La situazione nel lazzeretto e nella città
Il numero dei malati concentrati nel lazzeretto sale a sedicimila; già il 4 luglio le morti giornaliere sono più di
cinquecento, tanto che alla fine della peste la popolazione di Milano è ridotta a meno di un quarto. Allo sgombero
dei cadaveri, alla loro sepoltura, al ricovero dei malati al lazzeretto, all'eliminazione della roba infetta o sospetta,
provvedono i monatti; il loro carro è preceduto dagli apparitori che, agitando un campanello per avvertire del loro
passaggio, permettono alla gente di allontanarsi. La situazione diventa sempre più tragica: muoiono d'abbandono
molti bambini ai quali è morta la madre di peste, vengono a mancare i medici e si riesce con difficoltà a reperirne
di nuovi, i viveri scarseggiano sempre più.
Poiché la città è piena di cadaveri insepolti, le autorità si rivolgono nuovamente ai cappuccini che, nel giro di pochi
giorni, fanno scavare ampie fosse comuni intorno al lazzeretto. Arrivano ogni tanto aiuti da parte di privati, ma
soprattutto si distinguono per abnegazione i religiosi, sempre pronti ad accorrere dove è richiesto il loro aiuto,
spronati incessantemente dall'esempio del cardinale.
Il degrado morale, le fantasie deliranti, i processi agli untori
Il disordine portato in città dalla peste facilita l'opera di quanti, cinicamente, vogliono approfittare della situazione
per il loro tornaconto, anzitutto i monatti, che ricattano la popolazione per estorcerle denaro. Nel clima di sospetto
diffuso, anche i rapporti familiari si deteriorano, perché si temono contagi perfino nell'ambito della famiglia.
L'ossessione per le unzioni induce addirittura alcuni malati ad autodenunciarsi nel delirio della febbre e alimenta
le storie più fantastiche. La follia collettiva corrompe anche gli uomini di cultura: alcuni dotti sostengono che le
ragioni della peste sono da ricercarsi in una cometa apparsa nel 1628 o in una congiunzione di Saturno con Giove;
persino i medici più preparati, come il Tadino, cominciano a dar credito alle ipotesi più strane e lo stesso cardinal
Federigo si mostra incerto su tale argomento. I pochi che non credono alle dicerie non osano opporsi apertamente
all'opinione dei più colti. In questo clima di paura i magistrati, nell'intento di tutelare e rassicurare la popolazione,
scatenano una vera e propria caccia agli untori, dando così indirettamente credito alla loro esistenza.
l'amore ai tempi del colera
L’amore ai tempi del colera di Gabrìel Garcìa Màrquez, analisi e riassunto

L’amore ai tempi del colera e l’odore delle mandorle amare


«Era inevitabile: l’odore delle mandorle amare gli ricordava sempre il destino degli amori contrastati» queste le
parole che aprono uno dei romanzi più belli dello scrittore Gabrìel Garcìa Màrquez e uno dei capolavori indiscussi
della letteratura del Novecento.
L’amore ai tempi del colera: la trama in breve: Florentino Ariza si innamora di Fermina Daza in un pomeriggio
qualunque e continuerà ad amarla per tutta la vita, perché «quello sguardo causale fu l’origine di un cataclisma
d’amore che mezzo secolo dopo non era ancora terminato». Adolescenti, acerbi e ancora ignari dei processi
dell’amore, Florentino e Fermina, intraprendono una relazione segreta fatta di lettere continue e appassionate, che
viene bruscamente interrotta dal padre di lei che sogna per sua figlia un matrimonio con un uomo appartenente ad
un ceto sociale più alto. I due innamorati, separati ancora prima che quell’amore potesse sbocciare a pieno,
conducono due vite separate per cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni, quando poi il destino, o la caparbia
di Florentino, o un amore mai sopito del tutto, o probabilmente tutti questi elementi messi insieme decidono di
collaborare per dare loro un’altra possibilità.
Un amore che vince contro il tempo
Quello che prova Florentino per Fermina è un sentimento che, sin dal suo nascere, lo corrode dall’interno con i
suoi effetti devastanti, i sintomi propri di una malattia: gli stessi effetti del colera. È un amore che non riesce a
dimenticare, pur allontanandosi, pur cercando il piacere – e a volte l’amore – in altre donne, in tante diverse
donne. E così, senza rendersene conto, i giorni, i mesi, gli anni trascorrono nell’illusione, nella speranza, nel
ricordo dell’odore delle mandorle amare. E l’età avanza: Florentino diventa uomo, poi adulto, infine vecchio. Una
vita intera spesa ad amare un’unica donna.
Fermina dal canto suo trascorre la sua vita da sposa e poi anche da madre, e quando di rado il ricordo di
quell’amore infantile e lontano veniva a disturbarla impiegava pochissimi istanti per cancellarlo e relegarlo in un
angolo del cuore.
Sesso, romanticismo, nostalgia si intrecciano nelle pagine di L’amore ai tempi del colera e raccontano la storia di
un amore durato mezzo secolo, un amore come tanti o come pochi, come quelli che durano anche oltre, o come
quelli di cui resta soltanto il ricordo lontano dell’odore delle mandorle amare.
ser ciappelletto
La cornice del Decameron: la peste Giovanni Boccaccio lisabetta da messina
La “cornice” del Decameron è l’espediente con cui il Boccaccio inquadra le sue cento novelle all’interno di una
struttura narrativa, in cui si racconta come dieci giovani, per sfuggire alla peste che imperversa nella città di
Firenze nel 1348, si radunano in una villa dove passano il loro tempo “novellando”; in tal modo l’autore,
rispondendo al gusto medievale per la simmetria, inventa un meccanismo che serve da raccordo e da architettura a
tutta l’opera. La pagina che apre la prima giornata del Decameron si concentra attorno a tre nuclei tematici: la
descrizione della peste nel 1348 in Firenze; il radunarsi della lieta brigata di dieci giovani nella chiesa di Santa
Maria Novella; il loro rifugiarsi in una villa del contado, per sfuggire il contagio. La descrizione del sopravvenire
del morbo non è fine a se stessa, ma fa parte di un contesto più ampio in cui maturerà la reazione alla morte e alla
distruzione e la loro sconfitta ad opera dei dieci giovani. Nella parte dell’introduzione qui presentata vi è la tragica
rappresentazione della pestilenza. Per agevolare la lettura del testo ne diamo una libera trascrizione in italiano
moderno.
L’autore passa quindi a descrivere i sintomi della peste: dapprima sangue dal naso, poi i temuti bubboni, infine
chiazze nere o livide in tutte le parti del corpo.
Il testo prosegue dicendo che le persone rimaste in città venivano abbandonate da tutti, tranne che dai servitori,
avidi di guadagno, i quali tuttavia li guardavano morire senza assisterli, e spesso, per impadronirsi delle loro cose,
si contagiavano e morivano a loro volta. Si facevano poi i funerali senza accompagnamento né seguito. Non
bastavano più neanche i becchini per seppellire i morti, ed ecco spuntar fuori un’altra categoria di “beccamorti” che
senza le dovute cerimonie portavano i morti nella fossa più vicina. Infine incominciò ad esserci più gente morta
che viva, e la città fu tutta piena del fetore dei cadaveri abbandonati per via, mentre la gente moriva nelle case o per
le strade senza nessuna assistenza.

Il contagio si diffonde senza che si possa far niente per fermarlo: non vi sono mezzi umani capaci di fronteggiarlo e
perfino le preghiere risultano inutili. Nel riferirsi a questa ineluttabilità del male, che sopravviene come un evento
misterioso e terrificante, il Boccaccio usa un crescendo di immagini e di riflessioni che amplificano l’impotenza
dell’uomo di fronte a un avvenimento molto più potente di lui. La rappresentazione della morte serve a illuminare
la scelta di vita che sarà compiuta dai dieci giovani fiorentini: la nuova vita nascerà per sfuggire all’annullamento
della morte, attraverso la parola (il “novellare” dei giovani riuniti nella villa). Come nell’epica classica, l’inizio di un
mondo migliore è segnato da un cataclisma collettivo, secondo le regole della retoricamedievale. In tal modo anche
il Decameron, come la Commedia dantesca, ha un inizio terribile,ma finisce bene. Lo spettacolo di desolazione
della Firenze appestata e il suo capovolgimento nell’ideale giardino di sospensione delmale che i giovani scelgono,
rappresenta già lo svolgimento dell’opera, che si muove dalla descrizione del male e della corruzione più
abominevole, per concludersi nel giardino di virtù dell’ultima giornata.
UNA NOVELLA LE MILLE E UNA NOTTE Storia delle tre Mele

La storia ha per protagonisti un principe ed il suo visir, il principe chiama il visir e gli fa sapere che il
giorno successivo desidera visitare il paese per "controllare" che tutti fossero contenti del suo modo di governare.
Girando per il paese i due incontrano un vecchio pescatore, scontento sulla sua situazione economica.

Il califfo allora promette di dare al pescatore cento dinàr se ributta le reti.


Dopo aver rigettato le reti, il pescatore, porta su un baule chiuso e, come promesso, riceve i cento dinàr dal califfo.
Aperto il baule si scopre il corpo, tagliato a pezzi, di una donna.
Il califfo, indignato, dà al visir tre giorni per trovare l'assassino, minacciandolo che se non lo avesse trovato
sarebbe stato ucciso lui e tutto il suo parentado.
Il visir si mette subito alla ricerca del colpevole, ma tutte le ricerche sono inutili.
Arrivato il terzo giorno, un usciere del principe impone al visir di seguirlo e lui, piangendo, afferma di non aver
trovato il colpevole.
Ma proprio quando il visir sta per essere impiccato, tra la folla si fa avanti un giovane, dichiarandosi il vero
colpevole e, poco dopo, anche un vecchio, dichiarandosi anche lui colpevole.
Il visir conduce entrambi dal califfo e qui il giovane giura di essere il colpevole e così racconta la sua storia.
Il giovane racconta che ad uccidere la donna è stato lui, che è il marito.
Un giorno essa si ammalò e, avendo voglia di mangiare mele chiese al marito di procurargliene, ma lui, pur
cercandone ovunque, non ne trovò neanche una fino a che non incontrò un vecchio che gli disse che le avrebbe
trovate in un giardino non troppo distante e lì ne prese tre.
Tornato a casa presenta le mele alla moglie, ma le era già passata la voglia; un giorno il marito incontrò uno
schiavo con una mela in mano e, chiedendogli dove l'avesse presa, lo schiavo gli disse che le era stata regalata dalla
sua innamorata, alla quale le era stata donata dal marito che aveva fatto un lungo viaggio per procurargliele.
Il marito allora, fuori di sè, tornò a casa e accoltellò la moglie; le tagliò la testa e, diviso il corpo a pezzi, lo mise
dentro un baule e lo gettò nel fiume Tigri.
Tornando, trova il figlio che piangeva e, domandato il motivo, questi risponde al padre che aveva preso una delle
tre mele da lui portate e che, giocando, le era stata rubata da uno schiavo e non gliel'aveva più resa.
Il marito si pente di quello che ha fatto e poco dopo arriva suo zio, padre della moglie e, saputo il fatto, si dispera
con lui.
Il califfo, sentita la storia, lo perdona e dà al visir tre giorni per trovare lo schiavo. Egli però non prova neanche a
cercarlo e il terzo giorno, mentre usciva di casa, salutando la figlioletta le trova in seno una mela, regalatale dal loro
schiavo.
Il visir, felice, fece chiamare lo schiavo ed egli gli disse che la mela l'aveva presa da un ragazzino, il quale a sua
volta l'aveva presa da sua madre.
Il visir conduce quindi lo schiavo dal califfo e questo si mette a ridere. Dopo però vuole punire severamente lo
schiavo ma il visir chiede di perdonarlo.
Il califfo acconsente a patto che il visir sappia raccontare una storia più originale di quella delle tre mele.

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